QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Perché sbattiamo i “mostri” di piazza Navona in prima pagina
e di h c a n o cr
Ancora i girotondi? Siamo proprio in declino
di Ferdinando Adornato
di Renzo Foa
La sfida di Draghi
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80710
L’ALLARME ECONOMIA «La Robin Tax la pagheranno i cittadini, il governo sta sottovalutando l’inflazione, le banche devono stare dalla parte dei clienti». Il Governatore di Bankitalia scende in campo
alle pagine 2 e 3
ulla di nuovo. Forse se Antonio Di Pietro avesse cercato di presentarsi a Piazza Navona come il capo vero dell’antipolitica e non come il “collettore” di una nuova, ennesima sinistra, qualche problema si sarebbe aperto, si sarebbe formato davvero un soggetto un po’ diverso, con una sua reale autonomia e, probabilmente anche con una sua capacità concorrenziale nei confronti delle scelte compiute da Walter Veltroni. Invece no. I voti e le voci, ma soprattutto gli argomenti riflettevano una consueta e polverosa immagine, risalente a dieci, a venti anni fa. Del resto, del girotondo si è parlato ieri con lo stesso linguaggio usato tante volte in passato. Senza troppa fantasia è stata rievocata la “sinistra massimalista”, che dal 1989 in poi ha rappresentato un fiume carsico, pronto a riemergere ogni volta che qualcuno, a cominciare da Silvio Berlusconi, ne richiedesse la presenza. Come se il massimalismo nelle sue tante varianti ideologiche, umorali, linguistiche - non fosse stato il vento irrazionale che ha impedito, fino alla nascita del Partito Democratico, di ascoltare i vagiti di una sinistra normale. Per non parlare poi del giustizialismo di cui Di Pietro è l’incarnazione più compiuta.
N
se gu e a p ag in a 5
Sono sei le vittime di al Qaeda
Stop agli aumenti di retribuzioni
Colloquio con Luca Marini
Adesso arriva il Lodo Marchionne
Cosa pensare (e fare) del dramma di Eluana
di Gianfranco Polillo
di Francesco Rositano
di Daniel Pipes
di Pierre Chiartano
Dell’intervista di Sergio Marchionne, alla Stampa, la cosa che più colpisce è l’accenno ai salari. «Non possiamo continuare ad aumentarli», ha detto testualmente.
Per Luca Marini, vicepresidente del Comitato nazionale di Bioetica, certo «non è giusto tenere una ragazza in stato vegetativo per 16 anni. Ma è forse più giusto farla morire di fame e di sete?».
Ilich Ramirez Sánchez nel suo L’islam révolutionnaire, sostiene che «solo una coalizione di marxisti e islamisti può distruggere gli Usa». Non solo la sinistra dell’America Latina vede un potenziale nell’Islam.
La Turchia torna nella morsa del terrorismo. Il quartiere di Istynie si è tinto di rosso ieri mattina, quando tre attentatori e tre poliziotti del consolato Usa sono rimasti uccisi durante uno scontro a fuoco.
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Oggi il pericolo viene da un’alleanza tra totalitarismi
Marxismo-islamismo: la minaccia all’Occidente
GIOVEDÌ 10 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
129 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Istanbul, attacco mortale al consolato Usa
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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prima pagina
Ieri all’assemblea dell’Abi ha pronunciato un discorso da leader politico
Il manifesto del Governatore di Alessandro D’Amato
ROMA. Toni pacati, diplomatici e in perfetto stile Bankitalia. Ma, mai come in questa occasione, sono volutamente chiari gli obiettivi: un governo ancora troppo timido nel prendere le decisioni in campo di politica economica, e le banche – le sue controllate – che ancora sembrano riluttanti nel seguire le indicazioni del Governatore e aprirsi al mercato. E’ stata
una disamina a 360 gradi dei mali dell’economia italiana, con annesse soluzioni, quella mostrata ieri da Draghi all’assemblea di Bankitalia. Quasi un manifesto per una nuova Italia che, in una fase di grande confusione politica, finisce per essere letta sotto un’altra luce.
Il ragionamento è cominciato con un generale avallo della politica monetaria della Bce, e una implicita tirata d’orecchi alla Fed
«occorre evitare di ripetere gli errori di politica economica commessi in risposta ai due choc petroliferi del decennio ‘70». quando la politica monetaria espansiva destabilizzò le aspettative di inflazione, e dovette essere seguita da una forte restrizione. Ma soprattutto, «ne conseguirono un’inflazione persistentemente alta, enormi oscillazioni nei tassi di interesse reali, gravi ripercussioni sull’attività economica». Oggi invece, subito dopo l’annuncio del rialzo dei tassi, «la tendenza all’aumento delle aspettative di inflazione desunte dai mercati finanziari si è arrestata, e sembra avviarsi una loro riduzione».
Poi arriva la sferzata sulle banche. Che si concentra su portabilità dei mutui, commissione di massimo scoperto, trasparenza delle condizioni contrattuali e disciplina dei mediatori e degli agenti, che «rappresentano i problemi aperti del settore creditizio». Non a caso riecheggiano le parole di un anno fa, nella stessa occasione: 365 giorni sono passati inutilmente, sembra voler dire Draghi, visto che sono costretto a ripetere le stesse cose. E colpisce duro:
per aver lasciato il costo del denaro troppo basso e troppo a lungo: l’ancoraggio al dollaro debole è la prima causa della crescita dell’inflazione, alla quale, per il governatore, non bisogna rassegnarsi. Una presa di posizione significativa, soprattutto visto che gli esecutivi di Francia, Spagna, Germania e Italia sono andati in pressing su Francoforte nei giorni precedenti alla decisione di Trichet, per scongiurare l’aumento dei tassi. Draghi ha invece detto che
scorsi del governatore, il quale poi annuncia che Unicredit e Intesa sono pronte ad agire sul massimo scoperto, e invita le altre a fare altrettanto, ricordando che l’intervento legislativo potrebbe essere più
3% del reddito disponibile e frenerà del 2% i consumi entro l’anno, dice ancora Draghi. I salari sono infatti tornati ai livelli di 15 anni fa, ma i costi del lavoro per le imprese italiane sono invece cresciuti del 30%, contro il 20% circa in Francia e dello 0% in GermaGIULIO TREMONTI nia. Draghi pronuncia È una ”vecchia persino la parola “stadottrina” per gnazione”, per rendere la quale l’unica ancora più chiaro il alternativa concetto, e torna a al prelievo chiedere il taglio delle su extra-profitti tasse, pur sapendo besarebbe quella di nissimo che, Dpef di tassare gli operai, via XX Settembre alla gli unici che non mano, questo non è possono traslare previsto prima del i costi su altri 2013. Ancora un contrasto di visione con la linea Tremonti.
oneroso. Anche sui mutui, dice, «le banche devono attuare prontamente le iniziative di governo e Abi sulla portabilità», ed evitare di difendere le loro «nicchie locali».
Quindi il discorso si fa più politico. E il duello con Giulio Tremonti entra nel vivo. Draghi attacca la Robin Tax, che «comporterà un aumento di 10 punti - spiega - sui costi della raccolta». Certo, è difficile prevedere come quest’onere si ripartirà: potrà ricadere sulle condizioni offerte a depositanti e prenditori di credito, sui profitti JEAN CLAUDE distribuiti o sulle risorTRICHET se accantonate al patriDraghi monio. Cioè peserà o ha avallato sui clienti o sugli aziola politica nisti. A stretto giro di monetaria posta arriva la replica della Bce. di Tremonti: «è una Una presa vecchia dottrina, una di posizione ”ideologia”, quella che significativa dopo ritiene che una tassa il pressing su applicata sui profitti Francoforte di delle imprese venga Francia, Spagna, trasferita sui clienti. In Germania e Italia questo senso l’imposta ottima è quella applicata sugli operai che non «Ritengo che le banche siano possono traslarla su altri. E, ormai pienamente consapevo- siccome negli anni passati di li della necessità di agire con traslazione non si è parlato, prontezza ed efficacia su que- significa che l’incidenza delle sti due fronti, anche per la sal- tasse è stata da quella parte». vaguardia della reputazione Ma non finisce qui l’analisi del sistema». L’accento sull’ac- del Governatore: l’aumento countability non viene utiliz- dei prezzi ha portato in un zato per la prima volta nei di- anno ad una riduzione del
Non certo una novità per il ministro, visto che è abituato agli scontri con via Nazionale dall’epoca Fazio, con il quale i contrasti – non a torto – sono stati moltissimi, fino a portarlo alle dimissioni. Ma le parole di Draghi, abile nel tenere comunque il basso profilo e nel non entrare in polemica diretta con il ministro, sembrano fatte apposta per restare impresse all’establishment.Tanto che a qualcuno il discorso è sembrato quasi un nuovo “manifesto per l’Italia”, in aperto contrasto con la politica economica dell’attuale esecutivo. E non si può dire certo che gli manchino i riconoscimenti internazionali: sempre ieri, nella dichiarazione finale del summit di Toyako, il G8 ha rimarcato ”l’importanza di implementare rapidamente tutte le raccomandazioni del Financial Stability Forum”, presieduto dal Governatore. Ovvero quelle che Tremonti aveva definito «un’aspirina per la crisi mondiale». E a questo proposito, c’è da registrare anche la gaffe di Berlusconi, che, interpellato nel corso della conferenza stampa conclusiva, ha prima dichiarato tra lo stupore dei presenti di non aver letto il passaggio, e poi ha detto di aver “condiviso” il punto: «Le posso assicurare che anche i miei colleghi non leggono tutto... – ha detto il premier – ci affidiamo agli sherpa di cui ci fidiamo ciecamente e di solito
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L’economista Giacomo Vaciago sul discorso di Draghi
«L’unità nazionale non è una pazza idea» colloquio con Giacomo Vaciago di Riccardo Paradisi
ROMA. Giacomo Vaciago è ordinario di Politica Economica e direttore dell’Istituto di Economia e Finanza nell’Università Cattolica di Milano. La sua lettura del discorso che il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha fatto all’assemblea dell’Abi è quella di un monito: «Il governatore vorrebbe per questo Paese un sistema economico più competitivo e un sistema politico meno rissoso». Draghi ha anche criticato la Robin-Tax Ha ragione: nei paesi civili non c’è Robin Hood che toglie ai ricchi per dare ai poveri perché non ci sono i ricchi in virtù del monopolio. Non ci sono proprio i monopoli. C’è la concorrenza bancaria. Draghi chiede innanzi tutto questo, più concorrenza Lo dice da due anni. Però di concorrenza bancaria non si vede l’ombra. Già ma non basta che il governatore della Banca d’Italia chieda più concorrenza, occorre che poi il ministero del Tesoro lavori in questo senso. Il fatto è che nessun Tesoro, in questi ultimi anni, sia che rispondesse a un governo di centrosinistra che a uno di centrodestra, ha ancora prestato ascolto a questo appello, traducendolo sul terreno politico-economico. Tanto che viene il sospetto che fa comodo avere dei regimi di monopolio da tassare. Che si dovrebbe fare? Liberalizzare le banche. L’ex ministro Bersani aveva cominciato a fare qualcosa in questo senso. Il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà avrebbe un lungo elenco di cose da fare. Noi non ci rendiamo conto che negli Stati Uniti, dove l’antitrust risale all’800, chi agisce contro la concorrenza va in carcere da noi viene premiato. Draghi si è detto anche preoccupato dal rialzo del prezzo del petrolio Preoccupazione più che giustificata in un Paese come il nostro dove semplicemente non esiste una politica energetica. Nei programmi di aprile dei due maggiori partiti italiani all’energia veniva destinata al più qualche distratta nota, a dimostrazione che quello dell’energia è un problema che nessuno affronta in modo organico, malgrado che i prossimi anni saranno dominati dalla questione energetica. Non basta dire allora che il prezzo del petrolio sale perché c’è la speculazione. La speculazione c’è, ma le bolle speculative si gonfiano sempre su cose reali: come l’aumento di fabbisogno energetico nell’est del mondo. Dunque? Dunque occorre una seria politica energetica e una seria politica economica. Fiat, Indesit,
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sondaggio, che a via Nazionale fu ascoltato con attenzione, anche se all’epoca si pose l’atDraghi, insomma, potrebbe tenzione sul placet dell’oppoessere il premier perfetto di sizione prima di qualunque ok quel governo di “unità nazio- di massima. Un’offerta da civil nale” evocato da Famiglia Cri- servant sempre difficile da ristiana. E in effetti, c’è da ricor- fiutare, anche per un uomo codare che qualche mese fa, me Draghi, che – dice chi lo quando la sorte del governo conosce bene – ha sempre preferito l’altra amministrazione riGIANNI LETTA spetto alla politiFu incaricato ca, e che invece di un primo la sua ambizione sondaggio, che principale ria via Nazionale mangono le fu ascoltato con grandi istituzioni attenzione, anche finanziarie interse all’epoca si nazionali. L’abpose l’attenzione bocco, comunsul placet que, non ebbe sedell’opposizione guito. E anche prima oggi, vista la tendi qualunque ok denza generale di massima al conflitto e i numeri parlamenProdi sembrava segnata e l’e- tari – che non suggeriscono sito delle urne ancora incerto, una svolta di pacificazione – la da esponenti di entrambi i po- proposta rischia di cadere nel li venne fuori il nome di Dra- vuoto. Anche se lo stallo del ghi come possibile guida di un dialogo sulle riforme istituziogoverno appoggiato da Forza nali è la spia di un clima ancoItalia, Alleanza nazionale e ra surriscaldato. Del quale Partito democratico. Gianni però, ad oggi, non c’è nemmeLetta fu incaricato di un primo no l’ombra.
la discussione avviene solo sui punti in cui non c’è accordo».
aziende con costi industriali altissimi per l’energia si preparano a cassintegrare. Non è un bell’autunno quello che ci aspetta. Anche perché, come ci ricorda ancora Draghi, esiste un problema di inflazione che viene curato con l’innalzamento dei tassi di interesse. Insomma: mentre la nostra classe dirigente litiga sulla giustizia e sembra essersi dimenticata delle riforme che ci aveva promesso, noi rischiamo la recessione economica. Le riforme le avevano promesse sia la maggioranza che l’opposizione. Appunto. E quelle riforme si possono fare solo con una maggiore unità di intenti. Nel discorso di Draghi, così politico per certi versi, c’è anche questa allusione che lei sta facendo ora? La necessità di un governo di responsabilità nazionale intendo, magari con un ruolo per il governatore stesso della Banca d’Italia. Draghi non si candida a un governo Draghi: è una prospettiva prematura, mi sembra che il governatore abbia altro per ora in tesa. Però che l’invito a una comune presa di coscienza dei problemi mi sembra chiaro. Quando la situazione è difficile le risse sono una follia: in una situazione economica come questa o i migliori elementi fanno squadra o la barca affonda. Un sistema politico meno rissoso dunque o addirittura un governo di unità nazionale? Intanto la prima opzione. E potrebbe cominciare la maggioranza a tendere la mano. Berlusconi ha vinto, ha stravinto, deve mostrare magnanimità, tranquillità, maggiore buon senso. Lo stesso Tremonti non avrebbe dovuto replicare a stretto giro a Draghi sulla Robin-Tax. Questo governo sta aprendo troppi fonti economici con tutti. Troppe polemiche. L’opposizione da parte sua – mi riferisco a Veltroni e Casini, non a Di Pietro naturalmente – dovrebbe essere disponibile a quell’idea di grande intesa che ancora dopo le elezioni aleggiava sul Paese. Dunque un minor tasso di rissosità potrebbe essere propedeutico alla seconda opzione: un governo di responsabilità nazionale. La via d’uscita dalla crisi da parte del Paese è un aumento di produttività: lavorare di più o in modo più efficiente. In Germania il sindacato accettò le sessanta ore di lavoro alla settimana a parità di stipendio: ristrutturare senza licenziare. Deve essere possibile un nuovo accordo tra sindacato e Confindustria. Certo: queste cose si fanno meglio con una classe politica unita invece che divisa. Ci sono ancora molti punti di forza in Italia che possono tornare a trainare anche tutto il resto.
Mentre il Paese rischia la recessione ci si accapiglia sulla giustizia. Ma quando i tempi sono critici la classe dirigente deve fare squadra
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politica
Di Pietro aveva in mano il monopolio dell’opposizione dura e pura. Si è fatto travolgere dagli insulti delle special guest. «Ci abbiamo rimesso solo noi», ammettono dall’Idv
Storia di un autogol di Errico Novi
ROMA. Seguiranno altre riunioni. Lunghe come quella di ieri, probabilmente. Antonio Di Pietro ha convocato i suoi parlamentari per elaborare il ”day after”. Non sarà facile. Martedì a piazza Navona poteva esserci la consacrazione dell’Italia dei valori come soggetto monopolista della vera opposizione. E invece c’è stato lo tsunami della Guzzanti e di Grillo, che ha travolto e fatto quasi scomparire tra i flutti anche il partito dell’ex pm. Si resta a galleggiare a metà, scacciati dal consesso dei partiti rispettabili eppure non più padroni delle sterminate terre barbariche. In quelle non c’è gara: vincono gli urlatori che possono permettersi di berciare anche contro il presidente della Repubblica. Così non è solo Berlusconi a trovare un’autostrada aperta per far arrivare dal Giappone il suo greve controcanto: «Della spazzatura mi occupo a Napoli». Nel Pd c’è chi come Marco Follini chiede a Veltroni di «dare un taglio netto a Di Pietro e alla sua piazza: una disapprovazione a metà è incomprensibile». Walter invita di fatto l’ex alleato a redimersi: «Scelga se stare con noi o con chi insulta». E l’udc Luca Volonté aggrava il peso accusatorio per l’ex pm: «Invitando Travaglio, Guzzanti e Grillo, Di Pietro non poteva non sapere che sarebbe andata così: si assuma in pieno le proprie responsabilità».
Ma perché l’Italia dei valori non ha fatto tutto da sola? Perché non ha preso coraggio e affrontato la piazza senza apporti esterni? Forse c’è la paura di un partito in fondo molto piccolo cresciuto troppo in fretta. Nella ricerca del consenso i dipietristi oscillano tra un meticoloso porta a porta (sono gli unici a mettere on line i numeri di cellulare) e l’affidarsi senza remore al provvi-
Suicidio preterintenzionale: un inedito per la politica di Angelo Crespi na delle peggiori cose mai viste. Il girotondo di piazza Navona è iniziato come una farsa ed è finito in tragedia. Una tragedia greca soprattutto per Antonio Di Pietro, secredente leader delle piazze italiane. Il momento “drammatico”, nel senso più arcaico del termine, è stato quando Di Pietro, intuendo la deriva della manifestazione, ha fatto segno al conduttore di fermare una scatenata Sabina Guzzanti, novella erinne che sul palco sembrava dovesse smembrare l’Oreste-Berlusconi e invece come una qualsiasi Elettra ha macchinato (proprio a favore di Oreste) per uccidere la madre Clitennestra, e cioè il Pd. Stupisce che un politico come Di Pietro, la cui scaltrezza paesana è ormai una sorta di topos letterario alla “Bertoldo Bertoldino e Cacasenno”, abbia potuto farsi scappare di mano il corteo della propria incoronazione che alla fine è parso più una litania funebre. E poco importa se nella miglior tradizione longanesiana, il politico molisano è così abituato alla ribalta che al funerale piuttosto che niente vorrebbe fare il morto. Di Pietro si è scavato la fossa da solo. È bastata la spocchia di voler raccogliere intorno a sé il mondo degli intellettuali migliori di quella parte (Sabina Guzzanti, Marco Travaglio, Fiorella Mannoia, Beppe Grillo…) per ottenere un così pessimo risultato. D’altronde la nomenclatura appalesatasi a Roma esprime i propri pensieri con un linguaggio tanto ardito e iconoclasta da legittimare i propri avversari e da screditare i propri compagni, fossero anche mascherati della mitezza dialogante di Walter Veltroni. Dopo un periodo di apparente appeacement, è ricominciata la guerra tra destra e sinistra che, guarda caso, come nella miglior tradizione egemonica, ha come primo teatro di scontro la cultura e come avanguardie gli uomini di lettere e pensiero. Poco importa se l’area dipietrista girotondina ha dovuto ripiegare su comici e cantatrici di media fama. Gli intellettuali di rango hanno disdegnato la piazza capitanata da Di Pietro, ma non la lotta. Nelle stesse ore Umberto Eco, nel foyer della Milanesiana, in modo assai “villanesco” ha voluto pubblicamente mostrare “freddezza” nei confronti del ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, mentre Salvatore Settis in modo assai “irrituale”, essendo lui Presidente del Consiglio Superiore del suddetto dicastero, ha criticato le politiche del Mibac dalle colonne del Sole 24 ore. Non è bastato dunque l’approccio morbido di Sandro Bondi. Liberare la cultura italiana dall’idea di essere strumento nelle mani della politica e non piuttosto luogo di incontro civile sarà un percorso tortuoso. Utile soprattutto alla sinistra riformista che sta tentando di fare opposizione con una pistola puntata alla tempia: Di Pietro. Una pistola che, se non conoscessimo l’ex pm, penseremmo impugnata da Silvio Berlusconi. Invece trattasi di “suicidio preterintenzionale”. Fattispecie ancora inesistente, a cui i giurisperiti presto dovranno lavorare.
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denziale impatto mediatico di Tonino. Non se l’è sentita, l’ex ministro, di mettere in gioco la sua creatura senza una minima rete di protezione. Sembra così, ma i suoi danno una lettura diversa. Pino Pisicchio, per esempio, spiega che «abbiamo preferito non mettere il cappello, non assorbire lo spazio della società civile. E certo ci siamo messi così in una situazione di rischio». Eppure, dice il deputato dipietrista, «moltissime delle persone arrivate in piazza Navona sono state portate da nostri dirigenti: dunque non è vero che non avremmo avuto la forza di cavarcela da soli».
Errore di sottovalutazione, dunque. Probabile. Errore fatale. Probabile anche questo. «Ci eravamo configurati come soggetto rappresentato in Parlamento e capace di dare voce a un popolo di borghesi, intellettuali, di persone interessate a un partito in grado di fare opposizione senza equivoci. Era quello il tipo di elettorato che affollava la manifestazione. Per come è andata, siamo proprio noi a perderci, perché vediamo messo in discussione quel ruolo di rappresentanza». Ecco l’autogol. Tanto più che il movimento fondato dall’ex pm è attraversato da una chiara ispirazione cattolica. Poco più di un anno fa Di Pietro studiò il modo di mutare la ragione sociale in ”Italia dei valori cristiani”. Non ci fosse stata di mezzo l’idiosincrasia con Clemente Mastella, avrebbe scelto un’altra strada: un rassemblement al centro con l’Udc e le altre forze disponibili. «Nella nostra dirigenza una parte consistente proviene dalla tradizione democristiana», conferma Pisicchio, «quelle cose dette dalla Guzzanti e da Grillo non c’entrano niente con noi. D’altronde era prevedibile che un misto di politica, informazione e cabaret avrebbe prodotto un’esplosione». Prevedibile, appunto. È per questo che l’autogol brucia tanto.
IL PAPA CONTRO LA GUZZANTI Il giorno dopo le offese alla Chiesa e a Papa Benedetto XVI lanciate dall’attrice Sabina Guzzanti durante il No Cav Day di martedì, non si è fatta attendere la durissima reazione della Diocesi di Roma, che tramite una nota diffusa dall’agenzia cattolica Sir, ha espresso il suo «profondo dispiacere per le parole offensive riferite al Santo Padre» durante la manifestazione romana di piazza Navona. «Quanto è avvenuto non merita ulteriori commenti». La «coscienza laica» del Paese si ribella a simili insulti, che «nascono e crescono» su un terreno di «menzogna e ignoranza».
politica
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Perché sbattiamo i “mostri” di piazza Navona in prima pagina
Ancora i girotondi? Siamo proprio in declino di Renzo Foa segue dalla prima
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ANCHE DI PIETRO è sulla scena dal lontanissimo 1992: ha condizionato la storia italiana più come magistrato che come politico e da allora ripete le stesse frasi con ossessiva monotonia, senza però riuscire a trovare una collocazione stabile e sicura nel quadro italiano (se non ci fosse stato Veltroni avrebbe avuto difficoltà a trovarla anche in questo 2008).
Dunque, nel girotondo organizzato dall’Italia dei Valori non solo non c’è nulla di nuovo, ma c’è molto di vecchio. Soprattutto un appuntamento inutile, se lo scopo era quello di cercare di creare ulteriori difficoltà a Veltroni e di cominciare a stringere in un angolo Berlusconi e il suo governo ultra-maggioritario. La storia si ripete. Non c’era riuscito Nanni Moretti, non c’era riuscito Sergio Cofferati. Non può riuscire Antonio Di Pietro a trasformarsi nel leader di una nuova opposizione di sinistra, fondata sul massimalismo e sul giustizialismo e capace di coniugarsi con vari pezzi della diaspora della gauche dopo l’interminabile big-bang iniziato nel 1989. Nulla di nuovo anche nel senso che a Piazza Navona non è nata una nuova opposizione di massa, né si è prospettato un progetto per cercare di creare difficoltà alla maggioranza. Non è nata neppure un’alternativa a Veltroni e al suo Partito democratico. Si deve parlare di fallimento. Se non altro per l’effetto boomerang che c’è stato per gli attacchi mossi a Papa Ratzinger e al presidente Napolitano eletti da alcuni oratori a bersagli privilegiati. E per le divisioni ulteriori che si sono manifestate nello schieramento che ad aprile si era presentato all’elettorato come Pd. E la delusione è stata visibile. Quel che però ha maggiormente colpito è il fatto che il girotondo di Piazza Navona abbia focalizzato per giorni, forse per settimane l’attenzione del sistema mediatico. In realtà si è parlato a lungo essenzialmente di qualcosa che non c’è stato se non nell’ennesimo spreco dell’evocazione delle minacce alla democrazia, del crollo dei valori, dell’impresentabilità del capo del governo. Se ne è parlato come se la sinistra e il suo principale alleato fossero la forza politica centrale e determinante di questa fase della vita italiana. Cioè l’ennesimo abbaglio, un riflesso condizionato che si trascina dal 1994 e che si alimenta in continuazione con gli stessi argomenti. Al contrario abbiamo visto e vediamo che il problema decisivo da cui dipende il futuro del paese non è la capacità della sinistra di fare opposizione, quanto, al contrario, la capacità della destra di cominciare a governare davvero la crisi. A maneggiarla. A trovare soluzioni. A dare stabilità ad un’azione di risanamento efficace.
Qui sta la prova del presente e del futuro. I difetti e le debolezze di Berlusconi sono già tutti scritti nero su bianco dal 1994 ad oggi. Qualche difetto si è accentuato e qualche debolezza è diventata più trasparente. Ma certo gli argomenti che il girotondo di Piazza Navona ha portato in primo piano non sono quelli destinati ad aiutare l’Italia ad uscire dalla stretta in cui si trova. Continuiamo ad essere un paese bloccato e in declino (non certo da ora, non certo da questo governo, non certo dal governo precedente che pure ci ha messo di tutto per accentuare i motivi della crisi). E, nonostante tutti gli sforzi per apparire qualcosa di diverso, l’esecutivo ha cominciato ad agire puntando essenzialmente sull’immagine, sulla promessa dell’arte della buona amministrazione. Ha colmato – e questo è molto positivo – il ritardo umiliante dell’alta velocità tra Lione e Torino, si sta impegnando nella soluzione della crisi della spazzatura in Campania, anche se l’esito è dubbio e lontano. Ma il resto non esiste. Si tratta nel migliore dei casi di briciole, nel peggiore del ritorno ai vecchi e insopportabili problemi del rapporto traballante tra i poteri dello Stato. È questo che non funziona in un paese in cui l’opinione pubblica si è rassegnata ad accontentarsi di poco, ad accontentarsi anche solo di vedere realizzate operazioni di buona amministrazione, un’opinione pubblica che ha imparato in questi anni a non sognare il ritorno della “Politica”. La debolezza del governo Berlusconi, nonostante i sondaggi e nonostante la mancanza di un’alternativa, sta proprio qui: la sua inconsistenza politica a fronte di una forza numerica che non ha precedenti. Dopo il voto di aprile il vero problema italiano è ormai diventato l’evoluzione - diciamo il compimento - della sua area moderata, la sua trasformazione da strumento di amministrazione del paese in forza guida. In leadership. Fenomeno che potrebbe verificarsi sul fronte berlusconiano solo con l’effettiva nascita del Pdl e con tutti i vantaggi che un partito può offrire a chi governa in termini di mediazione con la società e di formazione di classi dirigenti credibili e non improvvisate.
La manifestazione romana è stata soprattutto inutile: non ha indebolito Veltroni e non ha stretto nell’angolo Berlusconi siamo sempre fermi al passato
IL PAPA’ CONTRO LA CARFAGNA La difesa netta della Guzzanti arriva da papà Paolo, che «furibondo e indignato» per il comunicato emesso dal ministero delle Pari Opportunità, con cui si annuncia l’intenzione di querelare l’attrice per le frasi pronunciate a Piazza Navona, si è scagliato contro il ministro Carfagna e l’annuncio della querela affermando che «ciò costituisce un gravissimo atto di mistificazione e intimidazione che respingo con disgusto. Esprimo a mia figlia Sabina, di cui non condivido tutte le opinioni, la mia solidarietà di fronte al miserabile tentativo di deprezzare e disprezzare la sua identità personale e politica».
Ma siamo molto lontani da tutto questo. Nel frattempo, la scena mediatica resta dominata da una parossistica attenzione verso la sinistra che stenta a desistere e da un’inedita difficoltà della cultura politica italiana a misurarsi con i termini reali della crisi, dopo 15 anni di assenza della “grande politica” che non può essere certo rappresentata da Di Pietro. L’uscita dal tunnel, la sconfitta della crisi, dovrebbe meritare attenzione, non gli schiamazzi di Piazza Navona né le inconcludenze del Governo.
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politica
L’amministratore delegato di Fiat: «Non possiamo continuare ad aumentare le retribuzioni»
Arriva il Lodo Marchionne d i a r i o
di Gianfranco Polillo ell’intervista di Sergio Marchionne, alla Stampa, la cosa che più colpisce non è tanto il suo ottimismo per l’evolversi della situazione sui mercati finanziari internazionali. Che dire? Speriamo che abbia ragione e che tutto si risolva rapidamente nel raggiungimento di un nuovo equilibrio. Non colpisce nemmeno il profilo british su quello che potrebbe essere l’accordo - si fa per dire - del secolo: il matrimonio tra Fiat e Bmw. No: è l’accenno ai salari che più incuriosisce. «Non possiamo continuare ad aumentare i salari»: ha detto testualmente. Salvo premettere: «bisogna intervenire in qualche modo per frenare gli aumenti». A quali si riferisse non è chiaro, ma l’occhiello del giornale precisa: «fermare la corsa dei prezzi». Quindi: da un lato impediamo ai prezzi di crescere, dall’altro conteniamo i salari. Se non è una missione impossibile, poco ci manca. I primi sono dominati prevalentemente da una componente di carattere internazionale. I grandi della Terra, proprio in questi giorni, hanno discusso di come intervenire, ma i risultati, se mai si vedranno, non saranno immediati. I secondi, invece, non solo non aumentano, ma diminuiscono in termini reali, proprio a causa dello sviluppo del processo inflazionistico. Il trend è quello di un progressivo impoverimento, al quale non si può rispondere invitando alla calma ed alla pazienza. Ma è questo il vero pensiero dell’Ad di Torino?
D
Sergio Marchionne fu colui che, stanco dei bizantinismi sindacali, aumentò il salario operaio di 30 euro al mese. Non era una cifra straordinaria, ma un segnale importante. Lanciava un messaggio contro chi si baloccava nei labirinti dei rapporti interconfederali, perdendo di vista l’essenza del problema: vale a dire che mentre i medici discutevano il paziente ossia il lavoratore - rischiava di morire. Il suo nuovo intervento sul tema non può prescindere da questo più ampio retroterra, che costituisce la chiave di lettura effettiva delle intenzioni del management Fiat. Che all’inflazione non si possa rispondere - nonostante le reiterate richieste della sinistra - con un aumento generalizzato dei salari, è un fatto acquisito. Lo dice la teoria economica, lo spiega l’esperienza storica - si pensi solo agli anni ’70 - lo proclama la Bce: la banca centrale europea. Che per non limitar-
si alle semplici prediche ha giocato d’anticipo, aumentando il tasso di interesse di riferimento. E lo ha fatto nonostante il parere contrario di Capi di Stato e di governo, anche a costo di rompere l’asse che, nei mesi passati, l’aveva legata alla consorella americana: la Fed di Bernanke.
Collocata in questo contesto, l’affermazione di Marchionne sembrerebbe talmente ovvia da risultare banale. Ma in aperta contraddizione con il resto del suo intervento, teso a smorzare l’allarme dei mercati internazionali, che trova «totalmente ingiustificato». Ed allora? La spiegazione è più semplice di quanto a prima vista possa apparire. Se il tenore di vita delle persone deve essere garantito, non c’è altro modo per farlo che produrre di più e meglio. Solo agendo in questo modo la loro crescita individuale risulterebbe sostenibile nel medio periodo, con il vantaggio di poter beneficiare di un extra, nel momento in cui la bolla
Per garantire il tenore di vita di tutti dobbiamo imparare a produrre di più e meglio speculativa che è, in larga parte, responsabile degli attuali aumenti, inevitabilmente, esploderà. Perché allora ad un reddito nominale invariato, ne corrisponderà uno reale maggiore. Tradotto nel linguaggio delle relazioni industriali questo discorso significa: aumenti legati alla maggiore produttività o al maggior tempo di lavoro.Vale a dire poco contratto collettivo nazionale, tanta contrattazione di secondo livello. È il tema del giorno, su cui si arrovellano le teste d’uovo del sindacato, nel disperato tentativo di trovare la “quadra”. Qualcosa che salvi la tradizione storica della sinistra più estrema, senza penalizzare eccessivamente le aspirazioni autonomiste e localiste delle altre componenti della galassia. Mediazioni complesse con il loro barocchismo ed i loro rituali.
Nel frattempo tuttavia scatta la cassa integrazione, la Fiat guarda a Bmw per uscire da un recinto troppo stretto. E per questo obiettivo cerca di creare le pre-condizioni. Produrre insieme ad un nuovo partner, che questi
stessi processi ha avviato da tempo uscendo dalla lunga crisi degli anni precedenti, richiede una cultura diversa. Non il richiamo retorico all’importanza del merito, su cui a parole sono tutti d’accordo; ma quella voglia effettiva di fare, che è il vero deficit della società italiana.
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g i o r n o
Lodo Alfano, l’Udc si astiene Il Lodo Alfano arriva in Aula in un clima reso ancor più teso dalla manifestazione di martedì di piazza Navona. Con il Pd che promette la linea dura e con la maggioranza orientata a chiudere la partita entro oggi. Il provvedimento garantirà l’immunità per le quattro più alte cariche dello Stato. Il testo è approdato in Aula dopo che in commissione l’Udc si è astenuta. Il perché lo spiega Pier Ferdinando Casini secondo cui «il Lodo è solo un piccolo rattoppo che copre un baratto con la norma blocca processi. Comunque se queste sono le loro priorità per il Paese, le approvino, poi però se ne assumano la responsabilità di fronte agli italiani». L’iter parlamentare prevede la discussione nel pomeriggio, mentre già oggi dovrebbe arrivare il primo sì in Parlamento.
Ue, Italia migliora per procedure di infrazioni L’Italia è in forte miglioramento, ma resta maglia nera in Europa per numero di procedure aperte, 127. È quanto emerge dall’ultimo report sul Mercato interno messo a punto dai servizi del commissario Ue, Charlie McCreevy. La “pagella” sui risultati dei paesi membri in termini di trasposizione e applicazione delle direttive europee rileva come quest’anno l’Ue abbia raggiunto i risultati migliori. L’Italia è nel gruppo dei 10 paesi che hanno ottenuto «il miglior risultato in assoluto», insieme a Belgio, Germania, Slovacchia, Estonia, Grecia, Francia, Irlanda, Lussemburgo e Romania. Il Belpaese ha registrato anche la maggiore riduzione di procedure d’infrazione, 7 in meno, seguito da Gran Bretagna e Irlanda, 6.
Città metropolitane, Moratti pronta a candidarsi Il sindaco Letizia Moratti, qualora si costituisse la ”città metropolitana milanese” seguendo una delle ipotesi prospettate all’incontro di martedì al ministero dell’Interno, cioè quella della scomparsa delle attuali province, sarebbe pronta a candidarsi come sindaco del nuovo ente. «Nell’ottica di uno scioglimento delle province nelle città metropolitane - ha detto la Moratti - sarei disponibile a rimettere il mio mandato di sindaco per andare a nuove elezioni come sindaco della città metropolitana».
Cassazione: niente discriminazioni per i rom I gruppi «di cultura nomade» non possono essere discriminati solo per la loro «condizione esistenziale». Lo ha sottolineato la Cassazione, ricordando che l’eguaglianza è sancita, e vale per tutti gli uomini, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dalla Carta europea. La Suprema Corte ha accolto il ricorso di Rinaldo B., capofamiglia di un gruppo di nomadi, contro l’ordinanza della Corte d’appello di Salerno, che gli aveva negato il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione relativa alla carcerazione subita con l’accusa di minaccia e tentato omicidio, dalla quale venne assolto. I giudici gli avevano detto no al risarcimento in quanto aveva «la colpa grave» di essere un «capofamiglia di un gruppo rom».
La Russa: Il 4 novembre come il 1°maggio Fare del 4 novembre, festa delle Forze armate, una sorta di 1 maggio dei soldati, «perchè anche loro sono dei lavoratori». È l’idea del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che pensa di organizzare in questa data, ogni anno, eventi «all’interno di un’area militare, o fuori», con musica e altre iniziative. Davanti le commissioni Difesa di Camera e Senato, il ministro ha spiegato di voler organizzare, «eventualmente anche con la collaborazione della Rai, una giornata di musica, da dedicare anche ai nostri Caduti»
politica on usa mezzi termini monsignor Rino Fisichella: «La sospensione della alimentazione ad Eluana, in stato vegetativo da 16 anni, giustifica di fatto una azione di eutanasia». Si definisce ”amareggiato”il neopresidente della Pontificia Accademia della Vita e rettore dell’Università Lateranense, il quale spera nel fatto che «non sia ancora detta l’ultima parola e ci sia la possibilita di ragionare con maggior serenità e meno emotività». Secondo
N
Il mondo cattolico reagisce duramente alla sentenza
Eluana: i giudici staccano la spina di Francesco Rositano
Eluana Englaro
be espresso la volontà di non essere mantenuta in vita dalle macchine, il presule risponde: «Si tratta di un argomento strumentale, perché nessuno può presentare testimonianze in proposito e qualora ciò fosse stato detto, questo non giustifica la decisione di togliere il nutrimento: tante volte in un momento di crisi ci si lascia andare a frasi di
Monsignor Rino Fisichella: «La sentenza compromette la ricerca di soluzioni condivise e rischia di alimentare tensioni sociali» l’arcivescovo gli effetti negativi di questa sentenza sasranno molteplici: «Incide sul dibattito sul testamento biologico, compromette la ricerca di soluzioni condivise e rischia di alimentare tensioni sociali». A chi sostiene che Eluana avreb-
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sconforto, ma non per questo un giudice può autorizzare una azione di morte: sulla intenzionalità delle persone dobbiamo essere sempre cauti, perché le intenzioni si modificano nel corso del tempo e della vita, a seconda delle
esperienze che vengono vissute, c’è sempre la possibilità di un ripensamento, di una ritrattazione». E poi, da teologo e religioso, mons. Fisichella non poteva che aggiungere: « Il coma è una forma di vita e nessuno può permettersi di porre fine a una vita personale».
Certamente, la sua è stata una delle tante reazioni a questa sentenza della Corte Corte d’appello civile di Milano, che ieri ha autorizzato il padre di Eluana Englaro, in stato vegetativo permanente da sedici anni a casua di un gravissimo incidente stradale avvenuto nel ’92, ad interrompere il trattamento di idratazione forzato che tiene in vita la figlia. Da un lato c’è chi scalpita per una legge immediata sul testamento biologico, vista in qualche modo come il primo passo per arrivare all’eutanasia. Tra costoro, Mina Welby, che ha affermato: «Credo che a Eulana possa essere dato finalmente il diritto a morire anche nel corpo, perché in realtà è da molto tempo che non è più tra noi». Per Anna Finocchiaro,
Roccella, che ha affermato: «Per Eluana Englaro non è possibile parlare di libera scelta e si affaccia sul panorama italiano un caso come quello statunitense di Terri Schiavo di cui non si puo’ sicuramente essere fieri». Contro la sentenza anche Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc. «Comprendiamo il dolore del padre di Eluana Englaro - afferma il vice-presidente della Camera e lo condividiamo più profondamente di molti che oggi esultano per la decisione dei
presidente dei senatori del Pd, «la sentenza ci grida forte, tuttavia, la necessità di una legge che regoli la materia nel nostro Paese. Non possono essere i tribunali, come spesso è avvenuto, a prendere decisioni così importanti per la vita dei cittadini. Andare avanti così non ha piu’ senso». E si accoda alla Welby sulla necessità di una legge ad Luca Marini hoc: «Serve al più presto una legge sul testamento biologico che giudici della Corte di Appello permetta ad ognuno, se lo vuo- di Milano di concedergli il dile, di indicare le proprie vo- ritto di por fine alla vita di sua lontà riguardo alle terapie che figlia, ma non possiamo accetritiene accettabili se un giorno tare la decisione disperata cui si troverà nelle condizioni di questo dolore lo porta. Più che non potersi più esprimere. Mi una legge sul testamento biosembra una scelta di civiltà a logico serve in Italia una legge cui la politica italiana, tutta, che tuteli il diritto alla vita, ormai non solo di chi non e’ nato non può più sottrarsi». ma anche di tutti coloro che Molto dura, invece, il sotto- non sono in grado di far sentisegretario al Welfare Eugenia re la propria voce».
Parla Luca Marini, vicepresidente del Comitato Nazionale di Bioetica: «No alle strumentalizzazioni»
Cosa pensare (e fare) del dramma di una ragazza er Luca Marini, vicepresidente del Comitato Nazionale di Bioetica e docente di Diritto internazionale alla Sapienza di Roma, la prima cosa da evitare in questa vicenda sono le strumentalizzazioni. Presidente, che conseguenza avrà questa sentenza? Sicuramente è un precedente importante, che avrà degli effetti. Il vero problema comunque resta quello delle strumentalizzazioni ideologiche su temi così importanti. Ad esempio, alla luce di una sentenza come quella di ieri, c’è chi esulta per una vittoria della libertà e dell’autoderminazione della persona. Ma un medico sarebbe disposto a staccare la spina prima di attendere se ci sarà o meno il ricorso in Cassazione? Già c’è stato chi si è appellato all’obiezione di coscienza. Come vede quando si tratta di assumersi le proprie responsabilità è facile ritrattare i propri principi. Ma sono sicuro che, qualora non ci fosse il ricorso in Cassazione, in molti tornerebbero a dire di staccare la spina. Per lei si corre il rischio di strumentalizzazione anche per la legge sul testamento biologico?
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Certamente. Chi l’ha proposta l’ha presentata come una battaglia di libertà, ma non ha detto che essa consentirebbe di risparmiare moltissimi soldi per le spese sanitarie. Sa quanto costa mantenere un malato terminale? Perché non dirlo e nascondersi dietro le belle parole della difesa della libertà e dell’autodeterminazione? Fa comodo, ecco spiegato il motivo. Inoltre c’è un’altra ragione per la quale quella sul testamento biologico potrebbe non essere una legge ingiusta. La volontà puù cambiare. Chi mi assicura chje una persona che aveva espresso, anni prima, un suo parere sulle scelte da prendere in caso di malattia irreversibile per diversi motivi noin cambi idea? Quello di cui c’è bisogno è invece una sensibilizzazione dell’opinione pubblica alle conseguenze reali di queste scelte: vale a dire se è giusto o meno staccare i trattamenti. Mi spiego: potrebbe essere giusto se lo stato vegetativo durasse all’infinito. Ma se invece durasse sei mesi. Una volta fatta la legge questa vale per tutti. Poi come vice-presidente di un Comitato di Bioetica non posso che schierarmi per la difesa della vita. Bioetica, d’altra parte, significa proprio questo.
A livello internazionale come sono affrontati questi temi? Esiste la convenzione di Oviedo, che disciplina questa materia. E all’articolo 9 afferma che le dichiarazioni anticipate di trattamento saranno prese in conto. È una formulazione pilatesca, cioè se ne lava le mani. Che vuol dire saranno prese in conto. Ma da chi? Con quale efficacia? Dal medico o da un curatore? Dal familiare? Non si sa. Poi con quale efficacia.? Saranno vincolanti, non saranno vincolanti? Come vede sono tanti gli interrogativi a cui, forse volutamente, questa legge non risponde? Il punto rimane quello che avevo già sottolineato: l’importanza di una corretta informazione scientifica. Deve maturare nella coscienza sociale l’esigenza della necessità o meno di una legge su questo tema. Se non matura nella coscienza questa consapevolezza si possono fare tutte le leggi di questo mondo, ma non saranno mai avvertite come necessarie. Saranno sempre battaglie individuali, portate avanti da chi costruisce dietro queste battaglie dei percorsi politici o professionali. (fra.ros.)
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scenari
Nel XX secolo l’Occidente era minacciato dal patto tra Hitler e Stalin. Oggi il pericolo è rappresentato da un’altra inedita alleanza
Il marxismo-islamismo di Daniel Pipes cco due paesi fratelli uniti come fossero le dita di una mano», ha detto il socialista Hugo Chavez, nel corso di una visita a Teheran tenutasi nel novembre 2007, in celebrazione della sua alleanza con l’islamista Mahmoud Ahmadinejad. Camillo, il figlio di Che Guevara, anch’egli recatosi in visita a Teheran lo scorso anno, ha dichiarato che suo padre avrebbe «appoggiato il paese nella sua attuale lotta contro gli Stati Uniti». Costoro hanno ripercosso le orme di Fidel Castro, che in una visita del 2001 disse ai suoi ospiti che «Iran e Cuba, insieme, possono mettere l’America in ginocchio». Da parte sua, Ilich Ramirez Sánchez (alias “Carlos lo Sciacallo”), nel suo libro L’islam révolutionnaire, ha scritto che «solamente una coalizione di marxisti e islamisti può distruggere gli Stati Uniti».
«E
E non è solamente la sinistra dell’America Latina a ravvisare un potenziale nell’Islam. Ken Livingstone, l’ex sindaco trotskista di Londra, abbracciò nel vero senso della parola il famoso pensatore islamista Yusuf al-Qaradawi. Ramsey Clark, l’ex ministro americano della Giustizia, si è recato in visita dall’ayatollah Khomeini e gli ha offerto il suo Noam appoggio. Chomsky, docente del Mit, si è incontrato con il leader Hezbollah, Hassan Nasrallah, e ha approvato la decisione di Hezbollah di mantenere le armi. Ella Vogelaar, il ministro olandese per l’edilizia e l’integrazione, è così ben disposta verso l’islamismo che un critico, il docente di origine iraniana Afshin El-
lian, l’ha chiamata «il ministro dell’islamizzazione». Dennis Kucinich, nel corso della sua prima campagna presidenziale americana del 2004, ha parafrasato il Corano e ha incitato un pubblico di musulmani a salmodiare «Allahu akbar» («Allah è grande») ed è arrivato perfino a
stra vanno oltre. Diversi di loro Carlos lo Sciacallo, Roger Garaudy, Jacques Vergès, Yvonne Ridley e H. Rap Brown - si sono di fatto convertiti all’Islam. Altri reagiscono con euforia alla violenza e alla brutalità dell’islamismo. Il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen ha definito l’11 settembre come «la più grande opera d’arte di tutto l’universo», KARLHEINZ mentre lo scomparso STOCKHAUSEN scrittore americano NorNel settembre man Mailer ha detto che i del 2001, suoi perpetratori sono il compositore stati [degli individui] tedesco (morto nel 2007) «brillanti».
definì gli attentati del 9/11 come «la più grande opera d’arte di tutto l’universo»
dire: «Ho una copia del Corano nel mio ufficio». Spark, la rivista dei giovani membri del Socialist Labour Party britannico, ha elogiato Asif Mohammed Hanif l’attentatore suicida britannico che perpetrò un attacco contro un bar di Tel Aviv - come fosse «un eroe della gioventù rivoluzionaria» che aveva compiuto la sua missione «nello spirito dell’internazionalismo». Workers World, un quotidiano comunista americano, ha pubblicato un necrologio che tesseva le lodi del capoterrorista di Hezbollah, Imad Mughniyeh. Alcuni membri della sini-
E niente di tutto questo rappresenta una novità. Durante la Guerra fredda, gli islamisti preferirono l’Unione Sovietica agli Stati Uniti. Come disse nel 1964 l’ayatollah Khomeini: «l’America è peggiore della Gran Bretagna, la Gran Bretagna è peggiore dell’America, e l’Unione Sovietica è peggiore di entrambe. Ogni paese è peggiore dell’altro, ognuno è più abominevole dell’altro. Ma oggi ci preoccupiamo di questa malevola entità che è l’America». Nel 1986 io scrissi che «l’Urss riceve solo una piccola dose di odio e veleno diretti agli Stati Uniti». E la sinistra ha ricambiato questi sentimenti. Nel 1978-79 il filosofo francese Michel Foucault manifestò un enorme entusiasmo per la Rivoluzione iraniana. Janet Afary e Kevin B. Anderson spiegano: «Per tutta la vita, il concetto di autenticità di Michel Foucault ha inteso ravvisare in quelle situazioni in cui la gente ha vissuto in modo imprudente e ha flirtato con la morte la causa della creatività. Nel solco della tradizione di Friedrich Nietzsche e George Bataille, Foucault ha abbracciato l’artista che ha spinto i limiti della razionalità e ha scritto con grande passione in difesa delle irrazionalità che hanno oltrepassato nuovi confini. Nel 1978, Foucault rinvenne tali forze trasgressive nella figura rivoluzionaria dell’ayatollah Khomeini e nei milioni di persone che mettendo a repentaglio la propria vita lo seguirono nella Rivoluzione islamica.
Nella foto grande, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad e quello venezuelano Hugo Chavez. In basso: a sinistra Karl Marx, a destra Osama bin Laden. L’alleanza in nuce tra la sinistra e gli islamisti va considerata come uno dei più inquietanti sviluppi politici, che ostacola i tentativi dell’Occidente di tutelare se stesso
Egli sapeva che tali esperienze “limite” potevano condurre a nuove forme di creatività e così dette il suo sostegno con passione».
Un altro filosofo francese, Jean Baudrillard, ha ritratto gli islamisti come schiavi che si ribellano a un ordine repressivo. Nel 1978 Foucault definì l’ayatollah Khomeini un «santo» e un anno dopo, AndrewYoung, l’ambasciatore presso le Nazioni Unite sotto l’amministrazione Carter, disse che era «una specie di santo». Questa buona volontà può apparire sorprendente, viste le profonde differenze tra i due movimenti. I comunisti sono dei laici atei e di sinistra; gli islamisti giustiziano gli atei e impongono la legge religiosa. La sinistra esalta i lavoratori, l’islamismo privilegia i musulmani. La prima sogna un paradiso dei lavoratori, l’altro il califfato. I socialisti vogliono il socialismo; gli islamisti accettano il libero scambio. Il marxismo implica l’eguaglianza tra i sessi; l’islamismo opprime le donne. La sini-
stra disprezza la schiavitù; alcuni islamisti l’approvano. Come osserva il giornalista Bret Stephens, la sinistra ha trascorso «gli ultimi quattro decenni a battersi in difesa delle libertà alle quali l’Islam si oppone maggiormente: la libertà sessuale e di procreare, i diritti degli omosessuali, la libertà dalla religione, la pornografia e varie forme di trasgressione artistica, il pacifismo e così via». Tali divergenze sembrano sminuire le poche similitudini che Oskar Lafontaine, ex leader del Partito socialdemocratico tedesco, è riuscito a trovare: «l’Islam fa affidamento sulla comunità, il che la pone in opposizione a un individualismo estremo, che rischia di fallire in Occidente. [Inoltre,] il pio musulmano è tenuto a condividere i suo beni con gli altri. Anche la sinistra vuole che il forte aiuti il debole».
Perché, allora, la creazione di ciò che David Horowitz chiama «la scellerata alleanza» tra la sinistra e l’islamismo? Essenzialmente per quattro ragioni.Innanzitutto,
scenari
come spiega il politico britannico George Galloway, «il movimento progressista nel mondo e i musulmani condividono gli stessi nemici», vale a dire la civiltà occidentale, in generale, e gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e Israele, in particolare, più gli ebrei, i credenti cristiani e i capitalisti internazionali. In Iran, secondo l’analista politico di Teheran Saeed Leylaz, «da cinque anni a questa parte, il governo ha permesso alla sinistra di agire allo scopo di far fronte ai religiosi progressisti». I loro discorsi sono intercambiabili. Harold Pinter descrive l’America come «un paese retto da un branco di pazzi criminali» e Osama bin Laden definisce il paese «ingiusto, criminale e tirannico». Noam Chomsky dice che l’America è uno «dei principali stati terroristi» e Hafiz Hussain Ahmed, un leader politico pachistano, ne parla come «il più grande stato terrorista». Queste affinità sono sufficienti a convincere le due parti ad accantonare le loro
innumerevoli differenze in favore della cooperazione.
In secondo luogo, le due parti condividono alcuni obiettivi politici. Una grande manifestazione organizzata a Londra nel 2003 contro la guerra in Iraq ha simbolicamente suggellato la loro alleanza. Entrambe le parti vorrebbero che le forze di coalizione fossero battute in Iraq, che la guerra al terrore finisse, che l’anti-americanismo dilagasse e che Israele venisse eliminato. Esse sono a favore dell’immigrazione di massa e del
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multiculturalismo in Occidente; cooperano a questi obiettivi nell’ambito di incontri come la Conferenza contro la guerra, che si tiene annualmente al Cairo, in occasione della quale la sinistra e gli islamisti si riuniscono per formare «un’alleanza internazionale contro l’imperialismo e il sionismo». In terzo luogo, l’islamismo ha dei legami storici e filosofici con il marxismo-leninismo. Sayyid Qutb, il pensatore islamista egiziano, ha accettato la nozione marxista delle fasi storiche, limitandosi ad aggiungere una postilla islamica: egli ha previsto l’inizio di un’era islamica eterna, successivamente al crollo del capitalismo e del comunismo. Ali Shariati, il principale ideologo della Rivoluzione iraniana del 1978-79, ha tradotto in persiano gli scritti di Franz Fanon, Che Guevara e Jean-Paul Sartre. Più in generale, l’analista iraniano Azar Nafisi osserva che l’islamismo «trae il suo linguaggio, gli obiettivi e le aspirazioni tanto dalle forme più grossolane del marxismo quanto dalla religione. I suoi leader sono influenzati tanto da Lenin, Sartre, Stalin e Fanon, quanto dal Profeta». Passando dalla teoria alla pratica, i marxisti vedono negli islamisti uno strano compimento delle loro profezie. Marx aveva previsto che i profitti commerciali sarebbero crollati nei paesi industriali, inducendo i padroni a spremere i lavoratori; il proletariato si sarebbe impoverito, fino a ribellarsi e a instaurare un ordine socialista. Ma, in realtà, il proletariato dei paesi industriali è diventato ancor più ricco e il suo potenziale rivoluzionario si è inaridito.
Come ha notato lo scrittore Lee Harris, per un secolo e mezzo, i marxisti hanno atteso invano la crisi del capitalismo. Poi, sono arrivati gli islamisti, a partire con la rivoluzione iraniana e in seguito con l’11 settembre e con altri attacchi contro l’Occidente. E
jilhab, un indumento islamico, in una scuola britannica. Lynne Stewart, un avvocato di sinistra, ha infranto la legge statunitense ed è finita in galera per aver aiutato Omar Abdel Rahman, lo sceicco cieco, a fomentare la rivoluzione in Egitto. Volkert van der Graaf, un fanatico animalista, ha ucciso il politico olandese Pim Fortuyn per bloccare il GEORGE tentativo di quest’ultiGALLOWAY mo di trasformare i «Il movimento musulmani in «capri progressista espiatori». Vanessa nel mondo Redgrave ha pagato e i musulmani 50mila sterline, la condividono metà della cauzione gli stessi nemici: fissata per concedere Usa, Israele la libertà provvisoria a e Gran Bretagna» Jamil el-Banna, un sospettato di Guantanamo accusato di reclutare jihadisti per combattere in Afghanistan islamisti come dei «nuovi schia- e in Indonesia. La Redgrave ha vi» del capitalismo e si chiede se asserito che aiutare el-Banna sia non sia naturale che «essi do- stato “un profondo onore”, malvrebbero unirsi alla classe lavo- grado l’uomo fosse ricercato in ratrice per distruggere il sistema Spagna per reati legati al terrocapitalista». Nel momento in cui rismo e sospettato di avere legail movimento comunista è «in mi con al-Qaeda. Su scala più rovina», come osservano l’anali- vasta, il partito comunista indiasta Lorenzo Vidino e il giornali- no ha fatto il lavoro sporco per sta Andrea Morigi, le Nuove Bri- conto di Teheran, procrastinangate Rosse in Italia ammettono do per quattro mesi il lancio in di fatto «il ruolo dominante dei India del satellite spia israeliano TecSar. E infine, esponenti della religiosi reazionari». sinistra hanno fondato il MoviIl quarto motivo è il potere. Gli mento di Solidarietà Internazioislamisti e la sinistra possono nale per impedire alle forze di conseguire più risultati se mar- sicurezza israeliane di proteggeceranno insieme, e non separa- re il paese da Hamas e da altri tamente. In Gran Bretagna, essi gruppi terroristici palestinesi. hanno dato vita a “Stop the War Coalition” , il cui comitato diret- Sulle pagine dello Spectator tivo annovera dei rappresentan- di Londra, Douglas Davis defiti appartenenti a organizzazioni nisce la coalizione «una manna come il partito comunista bri- per entrambe le parti». La sinitannico e la Muslim Association stra - un tempo una esigua banof Britain. Il Respect Party in- da di comunisti, di trotskisti, glese coniuga il socialismo inter- maoisti e castristi - si era legata nazionale radicale con l’ideolo- alla feccia di una causa persa; gia islamista. Le due parti hanno gli islamisti potevano fornire unito le forze nel marzo 2008, al- numeri e passioni, ma avevano lo scopo di creare liste comuni bisogno di un veicolo che desse di candidati per le elezioni par- loro un appiglio sul terreno polamentati europee in Francia e litico. Un’alleanza tattica è divein Gran Bretagna, camuffate nuta un imperativo strategico. sotto nomi di partiti poco rivela- Semplificando, un esponente tori dei loro intenti. della sinistra britannica concorGli islamisti, in particolare, da: “I vantaggi pratici del lavotraggono beneficio dal- rare insieme permettono di l’accesso, dalla legit- compensare le differenze”. timità, dalle com- L’alleanza in nuce tra la sinistra petenze e dall’im- occidentale e gli islamisti va patto che la sini- considerata come uno dei più stra fornisce lo- inquietanti sviluppi politici, che ro. Cherie ostacola i tentativi dell’OcciBooth, moglie dente di tutelare se stesso. delle ex pre- Quando Stalin e Hitler siglaromier britanni- no il loro infame patto nel 1939, co Tony Blair, l’alleanza rosso-bruna costituì ha dibattuto un pericolo mortale per l’Occiuna causa in dente e anche per la stessa ciappello per viltà. In modo meno spettacolaaiutare una ra- re, ma con la stessa certezza, gazza, Shabina l’odierna coalizione pone la Begum, a in- stessa minaccia. Come setdossare lo tant’anni or sono questo nuovo sodalizio deve essere denunciato, ricusato, respinto e sconfitto. per finire, il Terzo mondo aveva iniziato la sua rivolta contro l’Occidente, realizzando le previsioni marxiste, anche se sotto la bandiera sbagliata e con degli obiettivi erronei. Olivier Besançonneau, un esponente della sinistra francese, considera gli
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Le vittime sono 6. La polizia: operazione diretta da Al Qaeda. I terroristi addestrati in Afghanistan
Istanbul, attacco a consolato Usa di Pierre Chiartano Il luogo dell’attentato. In basso il consolato Usa
L’attentato non spaventi la Ue
L’Europa sostenga Ankara di Andrea Margelletti ncora una volta Istanbul è nell’occhio del terrorismo ma qui probabilmente non si tratta di un reflusso della guerra in Iraq né forse del complesso e oramai endemico rapporto tra il mondo curdo e il governo centrale di Ankara. Al di là dell’obiettivo, il consolato statunitense a Istanbul, simbolo dell’appoggio degli Stati Uniti al governo di Erdogan, è la vera chiave e molto probabilmente il futuro della Turchia. Si sta discutendo in questi giorni su quale possa essere il reale assetto costituzionale del Paese e a seguito di queste decisioni si dovrà valutare quale sia la posizione della Turchia divisa tra Asia e Europa. Indiscutibilmente a molti, soprattutto in Turchia, farebbe comodo un Paese fortemente islamicizzato e isolato rispetto all’Unione europea. Contestualmente anche in Europa vi sono molte perplessità ad “assorbire” milioni di musulmani quando dall’11 settembre, in maniera ignorante e criminale, la parola islam è abbinata a quella di terrore. Credo che la Turchia rappresenti l’ultima grande possibilità per l’Europa di rappresentare un mercato di sbocco per un’economia oramai stagnante, ma anche una grande opportunità per disarmare dell’arma ideologica coloro che vogliono vedere contrapposto il mondo occidentale a quello musulmano. È per questo che gli spari, ieri, di Istanbul hanno un fragore che raggiunge anche le più lontane cancellerie europee. Nelle prossime settimane l’Europa avrà il dovere di prendere una chiara posizione in merito al problema turco. Veniamo da una recente storia di insuccessi, speriamo in questo caso di essere meno miopi.
A
a Turchia sembra essere tornata nella morsa del terrorismo. L’elegante quartiere di Istynie si è tinto di rosso ieri mattina, con il sangue di sei vittime davanti al consolato americano. Un “castello bianco”, sulla collina che guarda il Bosforo, costruito dopo che militanti di al Qaeda turchi avevano messo a segno, nel 2003, attacchi kamikaze contro due sinagoghe, il consolato britannico e una banca inglese a Istanbul.Tre attentatori e tre poliziotti turchi a guardia della sede diplomatica sono rimasti uccisi durante uno scontro a fuoco durato diversi minuti. Una portavoce dell’ambasciata Usa ha chiarito che non ci sono vittime tra i dipendenti del consolato americano. «Intorno alle 11 del mattino, almeno un aggressore ha aperto il fuoco contro l’area del posto di guardia della polizia turca vicino all’ingresso principale del consolato», ha dichiarato. Nonostante alcuna rivendicazione sia ancora ufficialmente giunta, la polizia turca non ha dubbi: dietro l’attacco c’è la mano di al Qaeda e gli attentatori con molta probabilità sarebbero stati addestrati in Afghanistan. Crolla dunque quella che fin dal principio sembrava la pista meno probabile e che indicava un coinvogimento del Pkk, il partito comunista curdo. Quest’ultimo, invece, è certamente coinvolto nel rapimento di tre alpinisti tedeschi sul monte Ararat.
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Youkhana, rilasciata ieri pomeriggio a Liberal. L’estrema attenzione del rappresentante del governo autonomo del Kurdistan alla non ingerenza negli affari di Ankara, è la cifra di quanto quella regione irachena sia al centro dei nuovi equilibri mediorientali. Se da un lato l’esercito turco ha attaccato - a marzo - villaggi di confine all’interno del territorio iracheno durante la caccia ai membri del Pkk, dall’altra pare che il secolarismo dei comunisti curdi possa fare gioco contro le dinamiche islamiste di varia matrice. «Sul confine sono state colpite dall’esercito turco piccole comunità civili, non solo cristiane. Siamo convinti che i problemi con il Pkk vadano risolti con la diplomazia. Infatti questa politica non ha fermato gli attacchi in Turchia», ha chiarito il ministro del Turismo
L’ambasciatore americano in Turchia ha confermato che l’assalto armato al consolato Usa di Istanbul è «ovviamente un attacco terroristico». Ross Wilson ha sottolineato che «un’azione armata contro una rappresentanza diplomatica è per definizione un atto di terrorismo». Sullo sfondo della nuova violenza potrebbe esserci una lotta di potere tutta interna alla Turchia. La Corte suprema sta decidendo sulla sorte del partito del premier Erdogan, l’Akp. Quest’ultimo, con la scusa di combattere forze golpiste ha messo in galera un po’troppi generali a cinque stelle perché non sembri un’intimidazione a MehmetYasar Büyükanıt, il comandante delle forze armate kemaliste, custodi della Turchia secolare e laica. Ma le analisi non sono univoche e la situazione è assai complessa. «Come parte dell’Iraq, il governo del Kurdistan è abituato a giocare un ruolo d’equilibrio fra le diverse etnie e i differenti interessi» sottolinea il ministro curdo-cristiano. Il ruolo curdo-iracheno del grande gioco nel triangolo Turchia-IranIraq parte dalla sicurezza lo tocchi con mano quando arrivi da quelle parti. Nessuna auto con targa straniera può entrare. Nessuno straniero se non accompagnato da un cittadino con residenza nell’area d’arrivo e permanenza. «Dal 1991 tutta la regione è sotto il controllo dei due maggiori partiti curdi. Le forze di sicurezza hanno così molta esperienza e un efficace controllo del territorio. Lo stesso vale per i confini con Turchia, Siria, iran e Iraq. L’ideologia religiosa è stata tenuta fuori dalla politica. Sia le componenti etniche, come i siriani e i turcomanni, sia quelle religiose sono state messe su di un piano paritario. È questa la nostra garanzia contro il terrorismo di qualsiasi matrice».
Sullo sfondo della violenza forse anche una lotta di potere turca. La Corte Suprema sta decidendo proprio in queste ore della sorte dell’Akp, il partito di Erdogan
«Crediamo siano questioni interne turche. Abbiamo sofferto molto, sia per il terrorismo che per i rapimenti. Neghiamo l’uso della violenza sotto qualsiasi forma in qualsiasi parte del mondo», comincia così l’intervista del ministro curdo Nimrud
curdo. E non solo. «La nostra garanzia contro la penetrazione del radicalismo islamico è legata ai due maggiori partiti curdi che sono di stampo laico e secolare. La cultura che rappresenta meglio la nostra regione è quella legata alla globalizzazione. Non controlliamo né tv satellitari e neanche internet. Da noi c’è la libertà assoluta d’accesso all’informazione», continuaYoukhana. Ma la politica è una faccenda complicata e Macchiavelli potrebbe trovarsi a suo agio anche nell’area del Kurdistan vicino al confine iraniano, dove esiste un campo curdo inaccessibile e inattaccabile, perché difeso da chi da quelle parti conta veramente.
mondo
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L’annuncio da parte del canale tv iraniano in lingua araba Al Alam. Dure le reazioni internazionali
L’Iran testa i missili anti Israele di Osvaldo Baldacci
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Zimbabwe, Mugabe verso compromesso La crescente pressione internazionale sembra aver piegato il presidente dello Zimbawbe. Secondo quanto dichiarato martedì dal ministro degli Esteri di Harare, Simbarashe Mumbengegwi, in visita in Burkina Faso dove ha incontrato il presidente Blaise Compaore, il capo dello Stato dello Zimbabwe sarebbe pronto a formare un governo di unità nazionale con la partecipazione di tutti i partiti del Paese. Non è però ancora chiaro se tra le personalità che siederebbero tra le fila dell’esecutivo ci sarebbe anche il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai.
Darfur, morti sei peacekeepers Onu
missili possono colpire anche se non esplodono. Possono essere potenti armi diplomatiche e di propaganda. Contro obiettivi multipli. E così li sta usando il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Che però deve stare attento: questi costosi giocattoli qualche volta possono anche esplodere in mano. Non è un caso che ieri l’Iran abbia compiuto nove test missilistici. E tra questi c’era anche il temuto e moderno Shaab 3, capace di portare testate nucleari in un raggio superiore ai 2mila chilometri. Fin nel cuore di Israele, per intenderci. E con tutte le basi militari statunitensi in Medio Oriente a portata di tiro. I nove missili a medio e lungo raggio sono stati lanciati nel Golfo Persico e nello Stretto di Hormuz durante esercitazioni militari dei Pasdaran, compiute in parallelo a esercitazioni statunitensi e pochi giorni dopo la grande mobilitazione israeliana che ha portato i caccia-bombardieri con la stella di Davide fin sopra Creta, distanza simile a quella a cui si trovano le centrali nucleari iraniane. I test iraniani, ha detto il generale Hossein Salami, sono serviti «a dimostrare la nostra risolutezza e forza di fronte ai nemici che nelle ultime settimane hanno minacciato l’Iran con un linguaggio aspro». Proprio martedì Ahmadinejad aveva“garantito”che non ci sarebbe stato alcun confronto militare. Questo è il suo modo di giocare le carte: l’esperimento militare ha chiarito che lui intende evitare il confronto armato non cedendo di un passo, ma ribadendo e confermando a gran voce la propria pericolosità. E non ha scelto a caso il momento.
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tempo ha scelto di puntare tutto sui muscoli. Può anche trattare sottobanco, ma non vuol dare mai l’idea di retrocedere. Oggi che si fa sempre più insistente l’ipotesi di un attacco aereo ai siti nucleari iraniani, lui vuole alzarne il prezzo. Convinto di portarlo fuori mercato.
Allo stesso tempo Ahmadinejad deve guardare al fronte interno. Da una parte deve dare soddisfazione (e magari finanziamenti) a quell’apparato militare-industriale ultraconservatore che lo sostiene. Da qui le continue manovre militari e le sperimentazioni di nuove armi (una produzione creativa e tecnologicamente interessante che negli ultimi anni è andata dalla barca volante al supercannone al vettore per il lancio di satelliti). E le strette repressive sul piano sociale e religioso. Dall’altro lato deve guardarsi dai concorrenti, spesso conservatori anch’essi, come Larijani o Rasfanjani, ma rivali della sua politica populista, soprattutto quella economica e quella estera. Ahmadinejad rischia di essere isolato in patria e fuori (persino la Siria prende sempre di più le distanze). E alza i toni. Convinto forse che un attacco non sia in realtà possibile. O che comunque un limitato bombardamento finisca per avvantaggiarlo, alimentando il sentimento nazionalista del suo popolo che lui ritiene si stringerebbe intorno a lui. Il presidente conta sui suoi missili, sul controllo sullo Stretto di Hormuz (la cui chiusura, tecnicamente facile, bloccherebbe il 40% del traffico mondiale di idrocarburi), sulla capacità di creare minacce attraverso i suoi alleati sullo scacchiere mediorientale, sui sentimenti delle masse arabe che sono ostili a Usa e Israele quanto i governi locali lo sono all’Iran. Con tutto questo vuole guadagnare tempo. Secondo gli israeliani per fabbricare entro breve la bomba atomica che cambierebbe per sempre gli equilibri della regione. Ma Ahmadinejad rischia. I suoi nemici interni potrebbero non voler più sopportare i sacrifici e l’isolamento cui la sua politica li costringe. E i suoi nemici esterni potrebbero pensare che ogni minuto che passa rafforza un minaccioso avversario, e che questo non può essere permesso. Quale sia la risposta più efficace a questo pericolo lo stanno valutando le cancellerie mondiali. E se la corda a forza di tirarla viene strappata, non si può escludere che qualcuna di esse chieda consiglio ai generali.
Si tratta del lancio di uno Shahab 3: pesa una tonnellata e ha una gittata di 2mila chilometri
Ricapitolando. Qualche tempo fa le esercitazioni israeliane, d’accordo. Ma soprattutto il G8 in pieno svolgimento. E una trattativa aperta sul contenzioso nucleare, con il 5+1 che ha avanzato proposte“generose”e Teheran che ha risposto con una controproposta in cui si sa che non è prevista la sospensione dell’arricchimento dell’uranio (parole del ministro francese Kouchner). E proprio in questo momento l’Iran alza i toni dimostrando che la sua possibilità di colpire a vasto raggio non è una leggenda ma una concreta possibilità. Confermando così le accuse dei suoi nemici, e mettendo in difficoltà i sostenitori del dialogo. Anche perché, sostengono gli Stati Uniti, «la produzione di missili balistici da parte dell’Iran costituisce una violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Sembra un comportamento incomprensibile. In realtà ha una sua logica. Ahmadinejad da
Senior analyst Ce.S.I.
Sarebbero almeno 6 i peacekeepers della forza congiunta OnuUnione Africana (Ua) morti martedì nel nord del Darfur in seguito a un attacco di bande armate non ancora identificate. È quanto sostiene la Bbc on line citando una fonte anonima ma attendibile delle Nazioni Unite. La stessa fonte indica alla Bbc che tra le vittime ci sarebbero un ruandese, un ghanese (sarebbe un agente di polizia, l’unico che stando alle indicazioni ufficiali avrebbe perso la vita) e un ugandese. Si parla poi di almeno sette feriti e numerosi dispersi. Per Khartoum, invece, il bilancio è di un morto, 19 feriti, alcuni in condizioni gravi, e sei dispersi. Fonti Unamid, i peacekeepers OnuUa, avevano diramato un primo bilancio che segnalava cinque morti e 17 dispersi.
Georgia: scontri in Abkhazia, 5 feriti Tre poliziotti georgiani e due soldati della repubblica “de facto” indipendente dell’Abkhazia sono rimasti feriti ieri in scontri a fuoco. L’hanno annunciato responsabili di Tbilisi e Sukhumi. L’incidente è stato denunciato a poche ore dalla visita del segretario di Stato americano Condoleezza Rice in Georgia. Lo scontro di ieri è solo l’ultimo di una lunga serie. Martedì, l’alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Javier Solana, aveva giudicato la situazione «molto preoccupante». Gli Stati uniti hanno proposto la stanziamento lungo la linea di confine di una polizia internazionale per monitorare le due fazioni in lotta. Ipotesi respinta “categoricamente” dall’Abkhazia, che vede nella presenza dei militari russi - sotto l’egida del Comitato Stati indipendenti - «un’intrusione».
Cacciatori di nazisti trovano Dottor morte? I cacciatori di nazisti credono che la cattura del più famoso e pericoloso membro del Terzo Reich creduto ancora in vita, Aribert Heim, noto anche come Dottor Morte, sia ormai vicina. L’uomo si troverebbe infatti nel Cile meridionale, in Patagonia. Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal, ha affermato: «di avere ottime possibilità di catturarlo». Se vivo, Aribert Heim avrebbe compiuto 94 anni il 28 giugno scorso. Medico nel campo di concentramento di Mathausen, è accusato di aver ucciso e torturato personalmente circa 300 persone.
Olimpiadi, Sarkozy a cerimonia apertura Il presidente francese Nicolas Sarkozy sarà a Pechino alla cerimonia inaugurale dei Giochi «nella sua duplice qualità di presidente della Francia e del Consiglio Ue». Lo ha indicato Jean Pierre Jouyet, segretario di stato per gli affari europei. Ancora incerta, invece, la presenza del presidente russo Medvedev, mentre è certo che non ci saranno il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon (ufficialmente “per ragioni di agenda”), il cancelliere tedesco Angela Merkel e il primo ministro britannico Gordon Brown: quest’ultimo parteciperà però alla cerimonia di chiusura, quando raccoglierà simbolicamente la fiaccola olimpica per i Giochi del 2012 che si svolgeranno a Londra.
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speciale educazione
Socrate
Il decreto 112 presente nella manovra di Tremonti prevede tagli colossali agli atenei. I rettori sono già sul piede di guerra con un documento unitario e minacciano di rifarsi sugli studenti
SE TUTTO VA BENE SIAMO ROVINATI colloquio con Enrico Decleva di Irene Trentin ubito dopo la sua elezione a nuovo presidente della Crui, Enrico Decleva, rettore della Statale di Milano, aveva già fiutato che per le università italiane tirasse aria di tempesta.«Il mio mandato inizia in salita», aveva preannunciato il mese scorso. E i tagli colossali previsti nella manovra finanziaria con il decreto 112 ne hanno confermato i timori. La Crui ha votato un documento in cui denuncia la pesante crisi finanziaria del sistema universitario. E, in particolare, i tagli massicci previsti dalla manovra finanziaria 2009. Il sottofinanziamento dell’università rispetto agli standard europei non è un’opinione. Tra le finalità della manovra si parla di «maggiori investimenti in materia di innovazione e ricerca». La più importante quota di ricerca pubblica nel nostro Paese viene dalle università, che hanno un ruolo cre-
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che hanno appena affrontato gli esami di maturità, poco più di 300mila proseguiranno gli studi, con un trend calante dal 2002, del 5 per cento solo nell’ultimo anno. È il segnale di una crisi? Aspettiamo a vedere se sarà veramente così. In ogni caso il rapporto tra studenti e docenti, per quanto migliorato negli ultimi anni, continua a essere notevolmente superiore a quello della media dei paesi Ocse (21,6 rispetto a 15,5). Il ministro ha anche proposto di sfoltire il numero di corsi di laurea. Può essere una soluzione? In parte ciò sta già avvenendo con la revisione degli ordinamenti didattici, proposta dal precedente governo Berlusconi nel 2004, e in seguito all’introduzione di requisiti minimi di docenza, senza i quali i corsi non possono essere attivati. In ogni caso, il titolo di studio non è riferito al corso, ben-
«In nessun Paese avanzato le università vivono senza cospicue risorse pubbliche» scente anche nel trasferimento tecnologico. Ma la manovra, anziché prevedere investimenti, taglia, prevedendo che questo avvenga su un arco pluriennale. Considerato che cresceranno parallelamente anche i costi (per gli automatismi stipendiali), il dissesto delle università pubbliche sarà inevitabile, se non intervengono correttivi. Secondo l’Istat, si profilerebbe un crollo delle iscrizioni fra gli studenti: su 470mila
sì alla classe alla quale questo appartiene. E il numero delle classi di laurea e di laurea magistrale non è esagerato. Il ministro Gelmini ha espresso l’intenzione d’istituire commissioni di esperti super partes, di fama internazionale, per la valutazione dei docenti. È possibile introdurre criteri di solo merito? Il ministro ha espresso perplessità su alcune caratteristiche dell’Anvur, la commissione di valu-
tazione introdotta dal ministro Fioroni, anche di onerosità finanziaria e organizzativa. Un organismo “terzo” di valutazione del sistema universitario e della ricerca è in ogni caso indispensabile. L’altro richiamo del ministro riguarda le modalità di reclutamento dei docenti, da modificare e da rendere più efficaci e trasparenti. Anche la Crui ritiene che sia assolutamente prioritario modificare la normativa riesumata per bandire i concorsi di quest’anno. Saranno misure sufficienti a contrastare la baronia? E la fuga di cervelli? Non è possibile ipotizzare gli effetti di norme alle quali si sta pensando ma che ancora non ci sono. Quanto ai giovani capaci e meritevoli che non hanno altra strada se non andare all’estero, dove sono spesso apprezzati, non li si trattiene o non li si richiama tagliando le risorse e riducendo la possibilità di assumerli, come avverrà grazie alla manovra in corso di approvazione, se non sarà modificata. E non si può continuare a ignorare quanto basse siano da noi le retribuzioni universitarie, specie agli inizi di carriera, rispetto a quelle europee. Il ministro ha proposto di aumentare di 240 euro le borse di studio. Altre proposte riguarderanno la possibilità di legare lo stipendio ai risultati ottenuti e lo svecchiamento degli organici per favorire gli under 40. L’aumento riguarda solo le borse per i dottorati di ricerca e la copertura è prevista solo per le borse ministeriali. Le università hanno attivato numerose borse sui propri bilanci o grazie a finanziamenti esterni. Questo significa che un provvedimento in sé certamente buono, rischia di produrre oneri ingenti per il sistema, che dovrà trovare per conto suo le ri-
sorse per gli aumenti. Potrebbe accadere che il numero delle borse diminuisca. Alla faccia della conclamata inferiorità del numero dei ricercatori italiani rispetto a quelli degli altri Paesi avanzati. Il taglio delle assunzioni previsto dalla manovra ridurrà d’altra parte le possibilità di accesso ai giovani. E come sarà possibile legare gli stipendi ai risultati in assenza di risorse ad hoc? Che ne pensa della proposta del ministro di trasformare le università in fondazioni? E di concedere parità di condizioni finanziarie tra atenei pubblici e privati? Quello delle fondazioni potrebbe effettivamente essere lo sbocco di un processo di autonomia degli atenei iniziato negli anni ’90 e ampiamente interrotto. Ma si tratta di vedere a quali condizioni av-
viene. La formula non può servire da copertura o da alibi per il disimpegno dello Stato dalle sue tradizionali responsabilità nei confronti del sistema universitario pubblico e di ciò che questo rappresenta. In nessun Paese avanzato le università vivono senza un cospicuo finanziamento pubblico. Pubblico non è sinonimo di statale. E il federalismo fiscale è all’ordine del giorno. Dunque, stiamo a vedere senza pregiudizi. Ma mettendo bene in chiaro che, per come sono state per il momento previste in questa manovra, in assenza di molte garanzie indispensabili, le fondazioni non sembrano costituire una prospettiva credibile, perlomeno a breve termine e senza gli approfondimenti necessari. Quanto alla eventuale parità di condizioni finanziarie tra atenei pubblici e
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Limite alle assunzioni e riduzione dei fondi a spese delle famiglie
Centodieci, lode e pugno in fronte di Luisa Santolini l decreto legge del 25 giugno 2008 n.112 è in discussione nelle commissioni competenti alla Camera e tra breve approderà in Aula. Come è noto porta il titolo “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Un titolo importante con obiettivi importanti che riguarda il funzionamento della Pubblica amministrazione sia per il 2008 che per gli anni futuri e che si inquadra in un più ampio progetto riformistico di tutta la p.a. In questa sede occupiamoci in modo particolare delle università, che sono altamente interessate dal provvedimento: l’Art. 15 si occupa del costo dei libri scolastici, l’Art.16 prevede la facoltà di trasformare in fondazioni gli atenei, l’Art.17 riguarda i progetti di ricerca di eccellenza, gli Art. 21 – 22 – 23 prevedono modifiche alla disciplina del contratto di lavoro rispettivamente a tempo determinato, occasionale di tipo accessorio, di apprendistato, l’Art. 41 modifica gli orari di lavoro, l’Art. 46 riduce collaborazioni e consulenze, l’Art. 66 riguarda il turn over nelle assunzioni, l’Art. 67 si occupa delle norme in materia di contrattazione integrativa e di controllo dei contratti nazionali e integrativi, l’Art. 69 prevede la progressione triennale dei contratti dei docenti, più una nutrita serie di articoli che riguardano le università in quanto rientrano nei criteri adottati per la Pubblica amministrazione in generale.
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privati andrei cauto. L’università pubblica esiste anche per poter sostenere attività costose che il privato non è in grado di sostenere. O pensiamo davvero di far pagare tutto agli studenti e alle loro famiglie? Cosa chiede la Crui al ministro per uscire dalla crisi? Anzitutto di fare in modo che la situazione non sia aggravata dalle misure al momento previste nella manovra. In secondo luogo di approfittare dell’arco della legislatura per intervenire sulle urgenze inevase con provvedimenti mirati e coordinati che affrontino le varie criticità. Da questo punto di vista è positivo che il ministro abbia deciso di istituire un tavolo di consultazione con Crui, Cun (il Consiglio universitario nazionale) e Cnsu (il Consiglio nazionale degli studenti universitari).
Come si vede un provvedimento complesso e molto vasto che tocca in profondità l’organizzazione e il futuro delle nostre Università. Un provvedimento che sta suscitando polemiche e prese di posizione da parte delle parti sociali, della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, dei docenti e così via. Gli aspetti più controversi sono soprattutto quelli che riguardano i tagli previsti per i prossimi anni, le regole per il turn over e la trasformazione delle università in fondazioni. Per quanto riguarda il primo aspetto in effetti al centro di questa che è una vera e propria riforma della Pubblica amministrazione, Università comprese, c’è una elencazione di tagli massicci e diffusi dei finanziamenti che riguardano il funzionamento della p.a. e in particolare si prevede una riduzione progressiva su un arco quinquennale del Fondo di Finanziamento ordinario delle università, quello con cui si pagano gli stipen-
di dei professori e che serve a fare fronte alle spese della gestione quotidiana: amministrazione, pulizie, personale non docente, ecc. Il Fondo è di circa 7 miliardi l’anno rispetto agli 11 complessivi del bilancio universitario e per contenere la spesa il Governo ha previsto un riassorbimento di circa 65 milioni nel 2009 fino ai 455 milioni nel 2013 per un totale di un miliardo e mezzo in cinque anni.Viene da più parti denunciata la pesante crisi finanziaria delle università e, pur riconoscendo la necessità di razionalizzare il sistema e di rendere migliore il rapporto costi-benefici, i rettori ipotizzano di aumentare le tasse universitarie degli studenti.
Dunque ci risiamo. Oggi le tasse universitarie variano molto in base alle sedi e le facoltà, ma la media è di 817 euro l’anno con punte che arrivano al doppio. Ebbene
l’incremento potrebbe essere del 10 – 20 per cento, cioè più o meno cento euro a studente, o meglio cento euro per ogni figlio. E ancora una volta a pagare saranno le famiglie: la luce, il petrolio, i mutui, il gas, il pane. Tutto aumenta e ora si preannuncia una sorta di stangata anche sul fronte universitario, una spesa a cui le famiglie non potranno sottrarsi perché far frequentare l’università e far prendere una laurea ai propri figli non rappresenta una spesa voluttuaria a cui rinunciare a cuor leggero. Cosa risponderà il Governo a questa prospettiva che in realtà in modo indiretto mette le mani nelle tasche delle famiglie? E veniamo al secondo aspetto: la limitazione del turn over. Anche con questa misura il Governo intende recuperare fondi per circa un miliardo e mezzo perché si prevede che ogni cinque docenti che andranno in pensione ne verrà assunto uno. «La limitazione delle assun-
zioni del personale a tempo indeterminato al 20 per cento del turn-over – dichiara la Crui – danneggerà gravemente la funzionalità scientifica didattica degli atenei. E le prime vittime saranno i giovani ricercatori, la cui possibilità di ingresso nel sistema universitario saranno drasticamente ridotte». E ancora una volta si parla dei giovani, dei nostri figli che pagheranno colpe non loro. Vedremo se le fosche tinte dei rettori diventeranno realtà, ma non c’è dubbio che se coloro che vanno in pensione non verranno sostituiti, i giovani si vedranno precluse le strade dell’università e della ricerca a meno di fare gli eterni precari senza prospettive e senza futuro. Quale via di uscita potrà prevedere il Governo per evitare gli effetti perversi di un decreto per alcuni aspetti necessario come quello di una razionalizzazione delle risorse, o la revisione del sistema di reclutamento, o il rigore e la serietà nel sistema di valutazione, o la snellezza delle procedure?
Infine poche parole sulla proposta di trasformare le università in fondazioni e svincolarle così sempre più dalla dipendenza dello Stato per rivolgersi sempre meglio ai contributi privati, come succede all’estero. Alcuni osservatori hanno salutato questa idea con entusiasmo. I sindacati l’hanno bocciata senza appello. Non è questa la sede per un’analisi approfondita, mi permetto solo di fare osservare che riforme di questa portata, che intaccano la natura degli atenei e ne alterano la struttura consolidata da decenni, non possono essere affrontate con un Decreto che deve essere approvato in 60 giorni dal Parlamento, già ingolfato da molti provvedimenti in discussione. Non si può riformare l’Università in questo modo solo avendo l’occhio sulle spese e sui risparmi, per quanto necessari e dolorosi. Sarebbe stato meglio procedere diversamente dando luogo a un dibattito serio tra le parti interessate come del resto è stato fatto in passato. Ma forse è proprio quello che il Governo vuole evitare, pensando che governare a suon di decreti sia meglio e meno logorante. Non sono dello stesso parere e spero che la maggioranza in Parlamento trovi la serietà e la responsabilità per rispondere alle domande che salgono dal Paese e che non possono essere ignorate proprio per evitare che i nodi vengano al pettine quando ormai è troppo tardi.
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speciale educazione
Socrate
Il decreto è un forte stimolo a puntare sulla qualità e accrescere lo spirito d’iniziativa
Ma Giulio dà la sveglia agli atenei di Giuseppe Lisciani unque, Tremonti ha dato uno schiaffo allo stagno. L’uni-versità italiana, a dire il vero in fibrillazione già da tempo, ha risposto con un sonoro sciabordio. Interpretato, fuor di metafora, dalla Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui), che ha approvato all’unanimità un documento molto critico e fermo, benché garbato, verso il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 sulle «disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria». L’idea dello “schiaffo” – che si potrebbe utilmente interpretare anche come“provocazione operante” – si è insinuata proprio leggendo il decreto, la parte che riguarda l’università, in cui l’invito ad un cambiamento straordinario viene pronunciato, in contrappeso, con una sorta di ordinario incedere feriale. Ho poi riscontrato, coincidenza
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tattica di “Blitzkrieg”[...] per evitare che il dibattito diventi infinito e paralizzante» Quali sono le vittime designate della guerra lampo di Tremonti, ammesso che di vittime si tratti? Il documento della Crui afferma che il perno della manovra governativa sta nella riduzione progressiva del Fondo di finanziamento ordinario e nella «parallela limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato».
Non credo, però, che sia questa l’anima del decreto legge. Né mi sembra di decisiva importanza l’apprezzamento positivo rivolto dalla Crui al ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Mariastella Gelmini per essersi dichiarata «convinta che, nel corso dell’iter parlamentare di conversione del decreto legge, possano aprirsi spazi per una possibile correzione migliorativa degli interventi». Sì, certo, è anche e sempre
Le fondazioni puntino sulla ricerca, vera vocazione delle realtà accademiche corroborante, una chiosa di Bruno Dente su lavoce.info: «Ma forse il ministro Tremonti pensa che non siamo in un paese normale e che l’unico modo di introdurre riforme radicali è quello di adottare una
una questione di euro. Ma il “focus” questa volta è un altro ed è espresso nel capo V, Art. 16, comma 1 del decreto legge di cui si sta parlando: [...] «Le Università pubbliche possono deliberare la pro-
pria trasformazione in fondazione di diritto privato» [...] Questo è quanto. Considerato nel contesto della crisi finanziaria mondiale e nazionale; di una manovra che taglia le spese universitarie (un miliardo e mezzo di euro in cinque anni) e che la Crui giudica «dirompente e non sopportabile»; di una politica di tagli alle spese a tutto tondo, per tutte le scuole di ogni ordine e grado e per tutto il resto che ci gira attorno; beh, «questo è quanto» è anche un pugno allo stomaco della malconcia nostra università. È come se Tremonti (se il Governo) avesse chiesto all’università di rompere finalmente gli indugi e di atteggiarsi, di norma e preferibilmente, come chi si guadagna da vivere facendo il proprio mestiere:
fare ricerca e preparare ricercatori, capire il mondo e raccontarlo agli altri.
È come se Tremonti chiedesse ad una squadra di calcio di fare gol. Andare in gol è comunque un fatto economico, certamente, come sa chi gestisce il calcio. Ma chi il calcio conosce sa che è anche un fatto estetico, professionale, esistenziale. E creativo. Come la ricerca. Chi, più dell’università, ha il diritto e il dovere di mettere a frutto la sua vocazione alla ricerca, il suo status di punta di diamante del sapere, la sua capacità di consulente per l’innovazione? Verso la conclusione del suo documento di protesta, la Crui prende atto e coscienza del vero perno attorno al quale il decreto legge n. 112 co-
LETTERA DA UN PROFESSORE
A SCUOLA DI BUONE MANIERE di Giancristiano Desiderio li adolescenti sono polemici, aggressivi, violenti. Ma l’aggressività non può spaventare o disorientare la scuola. Perché la scuola viene al mondo proprio per tentare di educare la naturale aggressività giovanile e governare nelle possibilità umane il polemos. La violenza giovanile, dunque, non è contraria alla scuola ma, per così dire, ne è il presupposto in quanto la scuola è l’addolcimento degli istinti di base naturali e l’ingresso - che inizia ben prima della stessa scuola - nel mondo dello spirito o della cultura. Ciò che invece deve preoccupare la scuola e interessarla è la violenza che nasce non contro la scuola, ma con la scuola: il bullismo.
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La scuola che genera bulli e violenti è una non-scuola. Questo può accadere - e accade - da una parte perché la scuola educativa è stata rimpiazzata dalla scuola accademica e dall’altra perché la disciplina è stata scambiata con l’autoritarismo e, abolita, ha lasciato il campo libero a una cattiva tolleranza che altro non è che lassismo e permissivismo. Senza scopo educativo e senza disciplina la scuola è snaturata e snaturante. Genera violenza perché ha rinunciato nella teoria e nella pratica ad affermarsi come scuola di educazione e rispetto. La scuola ospita tanti ragazzi e lì dove si è in tanti nasce e si sviluppa la “logica di gruppo”. Un tipico fenomeno scolastico è la presa in giro
del “diverso”: il più debole, il più strano, il più magro, il più grasso, lo straniero, il più studioso. È un fenomeno tipico della scuola, ma non solo: tutti contro uno. Il fenomeno del “tutti contro uno”resta perché è parte dei rapporti umani di gruppo, ma è naturalmente ricondotto nei confini della fisiologia e della tolleranza. In una recente indagine sul campo (duemila scuole e seimila studenti) di CittadinanzAttiva è non solo emersa con evidenza la diffusione e tolleranza della violenza nel mondo scolastico, ma anche la richiesta degli stessi studenti di avere regole certe e professori severi. Gli adolescenti hanno bisogno di modelli: la scuola ha rinunciato a dargliene.
struisce il suo breve, semplice e sconvolgente discorso sull’università: «La prospettiva che emerge chiaramente dalla manovra è infatti quella di un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale». Non accadrà domani. Ma, certo, il futuro è già cominciato, e in modo singolare, con una sorta di invito alle origini. Come è noto, nel fermento generale che accompagnò gli anni attorno al Mille, si formarono gruppi di maestri e gruppi di studenti, cioè “domini” e “socii”, che stipularono tra loro contratti di reciproco interesse: i maestri assumevano il compito di insegnare questa o quella disciplina, gli studenti si impegnavano a riconoscere l’autorità dei maestri e a retribuirli. Da queste radici nacque l’albero delle università, con casi di eccellenza come Parigi, Oxford, Bologna. Insomma, l’università – per usare la colorita espressione adottata da Francesco lo Dico nel suo intervento su liberal di sabato scorso – è cominciata «mettendo le mani nelle tasche degli studenti».
Tremonti auspica un ritorno al Medioevo? Mutatis mutandis, ai “socii”di ieri si aggiungerebbero le società (le imprese) di oggi, magari con l’incentivo di un premio fiscale; a loro volta i nuovi “socii”, cioè gli studenti, affinché non siano cattivi pagatori, potrebbero ricevere buoni-studio dallo Stato per versarli all’università che preferiscono, ai maestri che stimano di più. Ma è solo divertimento mettersi, qui e adesso, a ipotizzare nuove strutture per nuove mentalità. Certo è che «le mille università dalle facili cattedre» (come titolava Mario Pirani su Repubblica il 26 ottobre 2006) giocheranno una partita difficile almeno quanto quella che sta giocando lo Stato per sostenerle. Né il decreto legge n. 112 basterà per governare una vicenda così complessa e articolata. Però, il modo si troverà. E pensare al modo, oggi, è persino secondario. Importante è cominciare, cominciare è strategico e decisivo. Così la pensa Tremonti. O, almeno, così sembra.
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Aumentare i costi a carico degli studenti non basterà: occorre ridisegnare il sistema di studi superiori
Le lacrime amare dei figli di Kant di Giuseppe Bertagna a ragione il nuovo presidente della Crui: continuando la sottrazione di fondi iniziata in maniera rilevante già con il ministro Mussi e che ora pare addirittura aumentare di consistenza, «l’università italiana» sarà in poco tempo al collasso.Vero. E, aggiungo io, non basterà a salvarla, sul piano strutturale, nemmeno l’aumento delle tasse universitarie per gli studenti, proposto da molti intellettuali liberali neoconvertiti al darwinismo sociale. Non basterà perché, oltre una certa soglia, l’aumento delle tasse creerebbe tensioni sociali insostenibili, oltre che violare diritti naturali delle persone. Del resto, nemmeno Harvard può vivere con i «soli» 40mila dollari l’anno versati dai suoi 25 mila iscritti. E a maggior ragione lo potrebbero fare le università statali Usa che chiedono ai loro studenti «appena» 20mila dollari all’anno. Non basterà, inoltre, perché, quando una famiglia sborsa cifre di questo genere per prendere una laurea, pretende, a ragione, un ritorno economico sicuro, non, come capita oggi, la consolazione di sottolavori da 500 a 1200 euro al mese, salvo che il «dottore» non entri nell’azienda di famiglia o non abbia la fortuna di essere «figlio di» uno dei tanti appartenenti alle infrangibili corporazioni italiche.
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fuori corso. Che sarebbe come dire: l’«università italiana» non andrà al collasso solo se continuerà ad avere studenti viziosi che le permettono di nascondere le sue deficienze strutturali, al posto di studenti virtuosi che dovrebbero approfittare al meglio e integralmente del suo servizio. Che succederebbe, infatti, se una buona fetta degli ormai numerosissimi 110 e lode scrivesse ai giornali ciò che ha candidamente confessato il giovane «dottore magistrale» Giovanni Marini a La Repubblica (10 giugno 2008)? «Sono uno studente al termine della laurea specialistica. In questi 5 anni ho avuto altissimi voti, ho passato un semestre di studio all’estero, anche questo con voti alti, mi sono laureato con il massimo dei voti, in una facoltà tra le migliori d’Italia. (Eppure) confesso che non ho im-
Di tutto per tutti: basta lauree generaliste, si rilanci la formazione professionale
Non basterà, infine, perché, pur combinando un oggi impensabile aumento delle tasse e un, purtroppo, viste le abitudini, altrettanto impensabile taglio chirurgico dei molti sprechi cresciuti in questi ultimi anni (lauree inutili; corsi superflui; sedi decentrate aperte per calcoli più politici che culturali; facoltà e dipartimenti moltiplicati talvolta senza necessità; concorsi che premiano più le logiche di potere accademico che le necessità ecc.), l’«università italiana» sarà comunque al collasso strutturale se tutti gli iscritti (oltre 300mila) decidessero all’improvviso, come sarebbe non solo loro diritto, ma loro preciso dovere: di frequentare le lezioni e i laboratori; di avere un rapporto docenti studenti non di 1 a 3 come al Mit di Boston, o di 1 a 6 come a Princeton o di 1 a 7 come ad Harvard, ma almeno di 1 a 16 come in Francia (in Germania è di 1 a 12); di godere di un servizio di orientamento in ingresso e poi di un tutorato in itinere che sia reale, non cartaceo, e degno di questo nome; di sostenere ogni anno gli esami, senza rimandarli, e di non essere al 65 per cento
parato niente e non so fare niente di profondo. In questi cinque anni ho subito il furto degli anni migliori della mia vita, dei sogni, dei soldi e delle speranze dei miei genitori».
Bisogna quindi prendere l’occasione della crisi delle università italiane non per ripetere le ormai stanche litanie burosindacali di questi ultimi anni e per chiedere semplicemente più soldi allo Stato e/o alle famiglie per alimentare l’università che c’è, ma semmai per identificare insieme le cause profonde di questa situazione e cominciare a risolverle con interventi conseguenti. L’università, per definizione, dovrebbe essere la sede istituzionale a cui una società affida il compito di trasmettere conoscenze che non siano già consolidate, ma che, appunto, nascano da un’attività originale e creativa di ricerca. Dovrebbe, inoltre, essere coerente con il nome: non privilegiare un particolare tipo di ricerca in alcuni settori disciplinari (per esempio, come oggi piace a qualcuno, quelli ingegneristici o economici o da scienze dure) ma estendere la qualità della ricerca di nuove conoscenze
a tutta l’articolazione del sapere umano (letterario, filosofico, artistico, scientifico e tecnologico). Infine, per l’art. 33 e 34 della Costituzione, dovrebbe essere aperta a tutti i «capaci» e i «meritevoli» indipendentemente, e questo è di sicuro decisivo, dalle condizioni economiche, sociali, religiose, di colore della pelle ecc. di partenza. Negli anni Novanta, cominciò ad arrivare all’università l’onda lunga della scuola secondaria di massa. Si trattava, allora, di decidere tre orientamenti: a) costruire un’università alla quale fossero costretti ad andare tutti gli studenti che finivano le superiori (università di tutti), oppure difendere l’idea di un’università aperta a tutti, ma a tutti quelli che ne avrebbero incrementato, per merito, la specifica natura? b) ridurre i titoli di studio superiori di cui le società sviluppate hanno moltissimo bisogno a quelli erogati soltanto dall’università oppure ricondurre ad essi, con un forte investimento culturale ed economico, anche quelli erogati da istituzioni post secondarie professionalizzanti molto legate ai territori come era ed è costume nei paesi dell’Ocse (in Francia e Belgio siamo al 35 per cento del totale, poco oltre in Germania, nel Regno Unito al 28)? c) confermare anche a livello superiore (universitario e non universitario) il principio che vuole lo Stato in una sostanziale posizione di monopo-
lio, oppure creare le condizioni per coinvolgere nel settore anche aziende, enti locali e parti sociali (come era peraltro abitudine nell’Italia prefascista e prestatalista) per ampliare l’offerta di alta formazione professionale per i giovani?
Si può leggere la storia dalla riforma Ruberti alla riforma Moratti, passando per quella decisiva della Berlinguer Zecchino che ci ha spacciato per obbligatorio ciò che obbligatorio non era affatto (il famoso 3+2), come il modo scelto dal nostro Paese per escludere la valorizzazione delle iniziative suggerite nella seconda parte di ciascuna delle tre alternative prima poste. Tutti in università, dunque; tutti i titoli superiori sono soltanto quelli universitari; tutto deve passare dallo e nello Stato (anche con la scusa del valore legale dei titoli di studio). In questo modo, da noi non esiste un’azienda come la multinazionale indiana Tata che, per statuto, deve investire il 65 per cento degli utili in progetti sociali sul territorio, tra cui molti relativi alla formazione professionale superiore. Nemmeno esistono fondazioni bancarie che sentano dovere prioritario investire in iniziative di qualità del settore post secondario. Le stesse Corporate University da noi svolgono una funzione solo interna alle aziende che le esprimono, ma non si aprono alla frequenza pubblica. Senza parlare degli industriali che sono bravissimi a criticare spesso a ragione le università, ma non a costruire sui territori quella rete qualificata di alta formazione professionale non universitaria che farebbe bene a tutti, anche alla qualità dell’università.
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economia Sul versante geopolitico se l’oro nero arrivasse davvero a 200 dollari potrebbero scricchiolare alcuni equilibri già malfermi. I Paesi Opec potrebbero rilanciare il vecchio progetto di sostituire, o quantomeno affiancare, il dollaro come moneta di scambio, visto che insieme con i ricavi da petrolio incamerano un’inflazione galoppante
Con il prezzo del petrolio a 200 dollari, alcuni analisti intravedono il declino della globalizzazione
Aspettando la ”local economy” Maurizio Sgroi ra la fine del 2007, ma sembra un’altra epoca. Il petrolio assediava quota 100 dollari e il presidente venezuelano Chavez vaticinava che se gli americani fossero stati tanto pazzi da attaccare l’Iran o il Venezuela, il petrolio sarebbe schizzato a 150 dollari, ma anche a 200. Come dire: un armageddon. Poi è arrivata Goldman Sachs, il 5 maggio di quest’anno. Lo stesso analista che nel 2005 aveva ipotizzato un barile a 100 dollari si spingeva a ipotizzare il raddoppio nell’arco di poco tempo, forse addirittura un paio d’anni. E da quel momento in poi, è stato un diluvio di previsioni catastrofiche. Ultima, quella dei leader del G8, che del caro petrolio hanno fatto uno degli argomenti centrali del vertice. Insomma: lo spauracchio ha rapito tutti.
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Anche perché senza bisogno di bombardare l’Iran, il greggio ha sfiorato nei giorni scorsi i 146 dollari al barile, a un soffio dalla resistenza tecnica dei 150, infranta la quale tutto diventa possibile. Pochi giorni fa, per dirne una, l’ad di Gazprom, il colosso energetico russo, ha detto che il petrolio arriverà a 250 dollari al barile «molto presto». E c’è persino chi vede il barile a 300 dollari, prologo di una crisi finanziaria che durerà una dozzina d’anni, come una piaga biblica. Ne è convinto Charles T. Maxwell, che molti considerano il numero uno tra gli analisti dei mercati petroliferi. «I giorni che stiamo vivendo oggi, (con i prezzi della benzina sui 4 dollari al gallone negli Usa, circa un dollaro al litro), saranno ricordati in futuro come i bei tempi», ha detto Hirsch. L’uzzolo catastrofista non ha risparmiato neanche la nostra Confesercenti che all’indomani
del vaticinio di Goldman Sachs (il petrolio era ancora a 120 dollari, due mesi fa) ha emesso una nota dal titolo: «E se si avverasse la previsione 200 dollari?» La Confesercenti ipotizza un prezzo alla pompa di due euro al litro, con effetti sul nostro Pil «che diminuirebbe dello 0,4 per cento nel primo anno». Quindi inflazione, «in aumento dell’1 per cento il primo anno», perdita di posti di lavoro «di un punto percentuale in quattro anni», calo dei consumi stimato nell’ordine dell’8-10 per cento, peggioramento della bilancia commerciale. Un disastro.
Entrerebbe in crisi il modello di sviluppo basato sull’energia low cost, quindi il concetto stesso di globalizzazione, mentre potrebbe emergere un modello che premia la localizzazione. Prendiamo il caso dell’agricoltura, che insieme alla pesca sta pagando un caro dazio al rincaro petrolifero. Stefano Masini, responsabile ambiente e territorio di Coldiretti ricorda un’analisi Ismea sulla struttura dei prezzi che sottolinea come
analisti sanno benissimo che nessuno mai metterà in discussione il modello della globalizzazione, che permette di mangiare le fragole a gennaio, finché gli stati e i consumatori si potranno permettere di pagare un petrolio sempre più caro. E a quanto pare le economie occidentali - diverso il discorso per quelle emergenti o per i paesi in via di sviluppo - hanno ancora un’ampia riserva di ricchezza capace di reggere i rincari e destinata a riempire i forzieri dei produttori. D’altronde i dati dell’Unione petrolifera certificano che la fattura energetica sul Pil nel 2007 non arriva al 2 per cento, a fronte del 5 per cento circa dei terribili anni ’70, quando petrolio e cibo andarono alle stelle come oggi. Niente a cui la cronaca non ci abbia già abituato.
Sul versante geopolitico, al contrario, se il greggio arrivasse davvero a 200 dollari potrebbero scricchiolare alcuni equilibri già malfermi. I Paesi Opec potrebbero rilanciare il vecchio progetto di sostituire, o quantomeno affiancare, il dollaro come moneta di scambio, visto che insieme con i ricavi da petrolio incamerano un’inflazione galoppante. Un’idea che l’Opec studia sin da fine anni ’70 e che ha prodotto uno studio recente (Euro Pricing of Crude Oil: An Opec’s Perspective) firmato da alcuni economisti indiani secondo cui l’Opec avrebbe tutto da guadagnarci, a sostituire il dollaro, se non fosse difficile mettere d’accordo i soci del cartello. Una tale decisione dovrebbe essere unanime, e non è semplice convincere Paesi che importano in dollari, a cominciare proprio dal Venezuela, e paesi che importano in euro, come i paesi Arabi, ad avere una visione comune sulla moneta. Senza con-
Il greggio sopra una certa soglia significherebbe, meno trasporti, meno sprechi, meno imballaggi, a fronte di più lavoro di prossimità, più fonti rinnovabili e più merci “localizzate”. Un cambio di rotta e la crisi di un modello di sviluppo su un euro di costo finale per un prodotto, il 20 per cento remunera l’agricoltura, il 30 l’industria e ben il 50 per cento i servizi. Quindi le inefficienze dei costi finali non derivano dalla produzione che, ricorda Masini «non è un problema», ma dalla distribuzione», che dipende in gran parte, vuoi per gli imballaggi vuoi per il trasporto, dal petrolio. «Per questo noi come associazione - sottolinea - cerchiamo di far leva sulle produzioni locali e sui mercati gestiti direttamente dai produttori». Senonché gli
tare la variabile politica rappresentata dalla presenza della Quinta flotta Usa nel Golfo.
Il petrolio a 200 dollari, inoltre, potrebbe convincere una volta per tutte la Cina, e con lei gli altri Paesi che sussidiano il prezzo finale del petrolio, a smetterla di sterilizzare i costi petroliferi in patria. Una pratica che ha il vantaggio di accelerare lo sviluppo e lo svantaggio di mantenere alte le quotazioni petrolifere in tutto il globo. Almeno secondo una simulazione prodotta dalla Investment bank China International Capital Corporation, pubblicata da Thomson Financial. Lo studio dice che la fine dei sussidi statali in Cina potrebbe raffreddare le quotazioni fino ai 90 dollari nel 2009, mentre mantenere lo status quo condurrebbe con facilità ai temuti 200 dollari. Aldilà del grande gioco ci siamo noi, i normali cittadini, che col greggio alle stelle saremo costretti a ripensare sul serio il nostro stile di vita. «Cambieranno le abitudini delle famiglie - scrive la Confesercenti - che dovranno sopportare costi crescenti per riscaldamento, trasporti, beni e servizi». Mentre l’Aie qualche giorno fa, dopo aver preconizzato prezzi in crescita almeno fino al 2013, ha invitato tutti a un uso più sapiente delle risorse. Può essere un’inversione di stile salutare, a guardare il lato positivo. Petrolio più caro significa, semplificando, meno trasporti, meno sprechi, meno imballaggi, a fronte di più lavoro di prossimità, più fonti rinnovabili e più merci “localizzate”. Alla fine dei giochi, il calo del Pil preconizzato da Confesercenti sarebbe compensato dalla nascita di nuova attività economica, visto che in economia come in fisica nulla si distrugge ma, nel tempo, tutto si trasforma. Se così fosse alla domanda «petrolio a 200 dollari?» sarebbe facile rispondere: magari!
edizioni
NOVITÀ IN LIBRERIA
VITTORIO STRADA ETICA DEL TERRORE Da Fëdor Dostoevskij a Thomas Mann
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el decalogo del terrorismo
il comandamento supremo è «Uccidi». A differenza che in guerra, dove lo scontro col nemico avviene ad armi pari, l’attetato terroristico contro un singolo o un gruppo è asimmetrico, anche quando l’omicidio coincide col suicidio dell’attentatore. L’imperativo categorico «Devi uccidere!» investe però non soltanto il corpo, bensì anche l’anima del terrorista, la sua responsabilità morale. L’assassinio terroristico, se non è prezzolato, viene compiuto in nome di un Valore assoluto, religioso o laico, che legittima chi lo perpetra contro i principi dell’ordine che vuole annientare. Questa problematica ha trovato la sua espressione più intensa e profonda nel terrorismo russo dell’Otto e Novecento, prefigurando situazioni attuali. Attraverso l’analisi di figure, vicende, riflessioni della storia del populismo e del bolscevismo Etica del Terrore illumina in modo nuovo un passato tuttora presente, grazie anche alla lettura di grandi opere letterarie aperte a questo drammatico tema.
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letture
dispetto di mucche impazzite che negli ultimi anni hanno generato bistecche con fedina alimentare macchiata. Malgrado il pollo all’aviaria, la mozzarella alla diossina, il vino al metanolo, il bluff del Brunello al Merlot e - ultima solo per il momento, temiamo - la truffa del formaggio avariato scaduto da decenni e rielaborato da imprenditori killer con tanto di plastica da imballaggio ed escrementi di topo aggiunti (per tacere della moda para estiva delle barrette proteiche e delle pillole di integratori sostitutive dei pasti): la nostra dieta mediterranea sembra resistere all’urto sconsiderato degli eventi da cronaca nera più che da cultura alimentare, tanto da venire promossa al rango di bene patrimoniale dell’Unesco. Incredibile ma vero, tra agro pirateria e truffe alimentari, nutrizionismi dissociati e diete a zone, regimi ipocalorici ciclicamente destituiti e poi prontamente riabilitati, falsi allarmismi e banali buonsensi, mcdonaldizzazioni e slow food, il cibo, vittima illustre dell’inflazione e del caro vita che lo trasformano ogni giorno di più da necessità primaria in bene di lusso proibitivo per molti, è sul banco degli imputati doc, pronto ad essere massacrato dalla cronaca e poi sezionato dagli etologi del gusto e della scienza alimentare che continuano a ricercarne strenuamente radici sociali e degenerazioni imprenditoriali. E allora, se in principio fu l’antropologo Marvin Harris, che ormai quasi due decenni fa nel suo Buono da mangiare indagava tra storia e attualità sulle interdizioni gastronomiche, i gusti e i disgusti, le preferenze e le intolleranze come prodotto dell’adattamento da parte dei consumatori intenzionati a raggiungere un soddisfacente equilibrio economico, ecologico, salutare, oggi è il giornalista americano Michael Pollan, autore per i tipi dell’Adelphi de Il dilemma dell’onnivoro (pag.468, euro 28,00), a tentare di disegnare un quadro il più analitico e completo possibile del sistema alimentare attualmente imperante, con il tacito consenso dell’omologazione del gusto, dell’appiattimento del piacere, delle piccole patrie culinarie e del dominio delle biotecnologie.
mangiare, è diventata in qualche modo un’impresa che richiede un notevole aiuto da parte degli esperti. Come siamo arrivati a questo punto? Perché abbiamo bisogno di un’inchiesta giornalistica per sapere da dove arriva ciò che mangiamo, e del dietologo per decidere cosa ordinare al ristorante?». Questo, dunque, l’interrogativo di partenza da cui lo scrittore d’oltreoceano dipana una serie più o meno ironica, e sempre decisamente preoccupante, di considerazioni etico-gastronomiche, che Pollan riassume in uno schema semplificante in quattro pasti-tipo, che a loro volta giustificano la tripartizione del volume nei capitoli intitolati “La catena industriale: l’impero del mais”; “La catena pastorale: l’erba”; “la catena personale: il bosco”. Ecco allora esaminare, pagina dopo pagina, ingrediente dopo ingrediente, il sistema agro-alimentare: quello biologico da supermercato, quello biologico a base di prodotti freschi e locali, e l’ultimo, il più integralista, esclusivamente raccolto o cacciato da lui in persona.
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Quatto strade che portano a un unico vicolo cieco nutrizionista: come risolvere il dilemma dell’onnivoro? E che conducono ad un’unica, dissacrante certezza: nessun metodo applicato, che provenga dalle filiere industriali o vanti una matrice naturalista, sia che sia riconducibile a un ciclo chiuso, o che basi la sua provenienza sull’imprescindibile biodiversità, può mai garantire davvero, e fino in fondo, la maggiore qualità e purezza del prodotto. E allora, il merito di questo prezioso diario di bordo dell’homo nutriens sta proprio nel partire dal vecchio concetto del manduco ergo sum, svelandoci che siamo diventati quello che ci siamo adattati a masticare, aderendo a dei prototipi del gusto, condividendo scelte alimentari e schierandosi in scuole di appartenenza gastronomica pur non conoscendone in realtà, malgrado idee, supposizioni, ragionamenti e dibattiti, la reale portata dell’argomento. Come a dire che oggi, andare a fare la spesa è la moderna scienza di fronte al quale l’uomo si ritrova impreparato quanto per la moltitudine non addetta ai misteri dell’astrofisica guidare una navetta spaziale. Insomma, forse uno degli scenari futuri per l’antropologia (e non solo), vista la scomparsa delle civiltà cosiddette primitive, e l’erosione delle differenze limata dall’onda d’urto della globalizzazione, sarà proprio l’alimentazione del terzo millennio.
Cibi industriali e cibi biologici: un saggio di Michael Pollan
La grande utopia della mela sana di Priscilla Del Ninno ne dei sensi, il pianeta cibo e i satelliti dello scandalo che gli ruotano intorno, ridisegnano la mappa delle abitudini, lanciando continuamente nuove mode, argomentando il lavoro sempre più corposo di addetti ai lavori e semplici appassionati di un mondo sempre meno legato all’immagine bucolica delle incisioni di Bruegel e all’iconografia cinefi-
zione da un albergo di montagna ai reparti di un supermercato. Tanto che il giornalista e scrittore americano Pollan, nelle note introduttive del suo lavoro, sospeso tra il diario, l’inchiesta e il trattato filosofico, scrive: «La nostra cultura è arrivata a un punto in cui ogni antica forma di
Il purismo verde ha cambiato le nostre abitudini alimentari quanto la grande industria: per gli onnivori, ormai il piacere di mangiare è diventato un dilemma quotidiano
E così: relegato in soffitta il ricettario della nonna che archiviava tra segreti della dispensa e passato tradizionale, fascino e mistero legati alla celebrazione del rito culinario; chiusa a doppia mandata la porta sulla dimensione favolistica della cucina, per storia e abitudini ormai in disuso, ex invitante sacrario intestato alla custodia dei desideri dell’animo e dell’esaltazio-
la alla Pranzo di Babette di Gabriel Axel, e sempre più vicino all’inquietante corridoio della paura di Shining di Stanley Kubrick, di cui oggi, magari, il geniale regista sposterebbe l’ambienta-
saggezza riguardo al modo di nutrirsi sembra svanita, rimpiazzata da incertezze e ansie di vario genere. La più naturale delle attività umane, scegliere cosa
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Pascal Bruckner rilancia la polemica sull’Occidente tra antirazzismo e antiamericanismo
I professionisti del terzomondismo
on si sa, se la Conferenza che l’Onu organizzò nella prima settimana di settembre del 2001 a Durban contro il razzismo sia in relazione di causalità con l’attentato terroristico dell’11 settembre, ma certo è che sul piano teorico molte delle tesi di quel consesso sono collegate con l’ideologia antiamericana e anti-israeliana, spesso sfociata nel terrorismo, soprattutto di parte islamista. Ed è certo che molti dei delegati, per idee espresse prima e per posizioni tenute successivamente, sono equiparabili a quelli che in Italia durante gli anni di piombo abbiamo chiamato “fiancheggiatori”dei terroristi. Concepito dall’Onu come laboratorio di pace, il congresso di Durban diventò una fabbrica d’odio, in cui ancora una volta furono stigmatizzati i presunti orrori della colonizzazione, in cui Israele venne bollato come “paese razzista” e l’ebraismo negato in quanto dimensione culturale e religiosa e fatto coincidere con l’esistenza di Israele in quanto stato-nazione, fino a definire il sionismo come una forma di razzismo e di islamofobia. A distanza di alcuni anni, l’Onu ha ora convocato il secondo round, previsto dal 20 al 24 aprile 2009 a Ginevra. Al di là della patina umanitarista e solidarista che verrà applicata per obbligo istituzionale e retorico, possiamo fin d’ora immaginare quali saranno i veri concetti guida dell’assemblea, rivolti sempre più contro gli Usa e Israele, e contro i governi che
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di Renato Cristin di volta in volta li sostengono. Per nostra fortuna, dal 2001 è cresciuta in Occidente una coscienza politica e culturale che rifiuta il conformismo buonista e smaschera le finalità oblique dei professionisti dell’antirazzismo, tanto che un governo – quello del Canada – ha già deciso di disertare l’incontro chiamato “Durban 2”.
Un documento, dal titolo “L’Onu contro i diritti dell’uomo”, elaborato dalla “Ligue Internationale contre le Racisme et l’Antisémitisme” e sottoscritto da personalità come Alain Finkielkraut, Eli Wiesel, Pierre André Taguieff e Pascal Bruckner, pubblicato nel febbraio scorso su Le Monde, denuncia la passività dei paesi occidentali dinanzi alla crescita esponenziale della violenza antiisraeliana e antiamericana e della protervia islamista, accusando l’Onu di aver trasformato il forum di Durban del 2001 in un brodo di coltura del fondamentalismo e del nuovo razzismo del XXI secolo, che ha generato una pericolosa “confusione degli spiriti” e una “minaccia radicale contro la libertà di pensiero”. Nello stesso periodo, Pascal Bruckner pubblica un articolo sul giornale belga Le Soir, in cui invita i paesi occidentali a «boicottare Durban 2», ricordando il disastroso esito dell’incontro del 2001 e prefigurandone sviluppi ancora peggiori. A suo avviso, nell’Onu ha vinto la tesi del-
l’Occidente come genocida per essenza, che dovrebbe «riconoscere i suoi crimini e chiedere perdono» per i suoi «olocausti multipli». Siamo arrivati, dice Bruckner, a una situazione tragica e grottesca insieme, in cui, per fare un esempio, «il ministro sudanese della giustizia chiede risarcimenti per la schiavitù, mentre il suo paese la pratica ancor oggi senza vergogna. E’ un «rovesciamento di valori» in cui l’antirazzismo «viene propagato da despoti al servizio dell’oscurantismo» e
Torna in libreria «Il singhiozzo dell’uomo bianco», il polemico saggio che denuncia i fiancheggiatori del terrorismo islamico sostenuto da «lobbies potenti e organizzate» che hanno fatto dell’Onu «uno strumento di regressione» a dispetto dei suoi scopi di «giustizia, pace e dignità umana». La risposta dell’Occidente, dunque, dovrebbe seguire l’esempio canadese, arrivando anche a pensare «di abolire la Commissione per i diritti umani» così com’è oggi.
Questi elementi di attualità geopolitica mostrano la validità della posizione di Bruckner, che riflette la scelta di campo che egli ha fatto da quasi
trent’anni e che è testimoniata dal libro Il singhiozzo dell’uomo bianco, ora meritoriamente ristampato dall’editore Guanda, in cui si spiega perché «il terzomondismo sia un mito duro a morire». Nel 1983 il libro ebbe un’accoglienza burrascosa, fra entusiasmo (di pochissimi) e collera (dei molti). Ora molti scenari sono cambiati e gli assetti planetari sono profondamente modificati, ma la «logica bellicosa» del terzomondismo, secondo la quale la civiltà occidentale è «destinata a scomparire, malata e infame allo stesso tempo», resta l’asse portante delle riflessioni teoriche di molte discipline scientifiche e della prassi politica della sinistra, radicale o riformista che sia. Il bluff culturale culminato con la teoria fanoniana e sartriana dei “dannati della terra”rimane difficile da smascherare, anche perché resta sempre vivo il “masochismo” europeo che si esprime nel perenne “pentimento” per le proprie azioni. Il pentimento infatti «è la migliore delle cose, ma a patto di ammettere la reciprocità e di estenderla alla totalità della specie umana». Si vedrà così che violenza e razzismo accompagnano la storia dell’umanità e riguardano, in forme diverse ma in eguale sostanza, tutte le epoche e tutti i popoli. Questa è una verità che si tratterebbe semplicemente di riconoscere. L’unica strada che l’Occidente può percorrere per salvarsi dall’onda, multiforme
e multidirezionale, che quello che un tempo si chiamava Terzo Mondo e i suoi mentori occidentali gli stanno scagliando addosso, consiste nell’autoaffermazione senza indugi, senza reticenze e, soprattutto, senza codardi strumentalismi che favoriscono interessi economici immediati a danno degli interessi identitari storici.
Fatte salve le differenze storico-filosofiche, il libro di Bruckner è una sorta di sviluppo e di controcanto del Tramonto dell’Occidente di Spengler: le cause che possono portare alla fine della nostra civiltà sono ancor’oggi tutte presenti e, anzi, sono aumentate per numero e qualità, ma sono cresciute anche le possibilità di salvezza, che risiedono nella rinnovata autocoscienza che l’Occidente mostra oggi, dopo la catastrofe di molte avventure dialetticoideologiche dell’internazionalismo comunista e dopo l’aggressione sferrata da quello che Alexandre Del Valle ha chiamato “il totalitarismo islamista”. Il principale merito di Bruckner consiste nell’essere stato uno dei primi, nel contesto dell’intellighenzia francese tutta dominata dalla retorica della sinistra terzomondista, ad affrontare la questione dell’ipocrisia culturale dell’Occidente e della necessità di stabilire un nuovo piano di confronto tra le civiltà. In questo senso, ha anticipato le analisi di Huntington e continua a offrirci strumenti per comprendere gli sviluppi attuali della storia umana.
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cultura
Provocazioni. Simpatizza per gli austriaci e capovolge la morale dei patrioti italiani. Il romanzo ”In nome dell’Imperatore” è destinato a destare scalpore tra gli storici dell’800
L’altra metà del Risorgimento di Mauro Canali
nche se la contaminazione tra letteratura e storia è sempre più frequente, ogni volta che capita di parlarne si torna a discutere sulla legittimità per un letterato di appropriarsi di personaggi storici realmente esistiti - magari di grandi personalità - attribuendo loro pensieri, emozioni e passioni frutto di pura fantasia.
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Questo genere di romanzo storico è stato sempre molto frequentato dagli scrittori anglosassoni, che sono riusciti non poche volte a scuotere l’ambiente degli storici accademici costringendoli a uscire dal loro specifico territorio. Ricordiamo al riguardo alcuni romanzi di Gore Vidal su Abramo Lincoln, il DeLillo di Lybra, con la sua inedita rivisitazione del delitto Kennedy, o l’Ellroy di American Tabloid, grande affresco della famiglia Kennedy, con i vizi privati e le frequentazioni mafiose dei fratelli Jack e Bob Kennedy; opere che più di ogni altro lavoro storico, scientificamente strutturato, hanno contribuito alla formazione di un comune sentire, decretando la fine irrevocabile della Camelot kennediana. E’, inoltre, di questi giorni la polemica sollevata su Winston Churchill dal romanzo Human smoke dell’americano Nicholson Baker, in cui si pone addirittura sotto accusa il ruolo che il grande statista inglese svolse nella seconda guerra mondiale, facendolo passare - lui il salvatore della patria - per un guerrafondaio assetato di sangue e causa principale della guerra stessa. Anche in questo caso la provocazione è stata raccolta
da storici qualificati che sono scesi in campo, dibattendo e polemizzando, non curandosi affatto dell’origine letteraria della querelle. Tutto ciò non può che far bene alla formazione della coscienza civile di un paese. Diversamente da ciò, in Italia il ‘romanzo storico’ contemporaneo ha cessato del tutto di praticare la grande storia; quando essa è entrata nella narrativa, lo è stato in genere per essere usata da fondale al dipanarsi delle vicende private dei personaggi. A pesare forse è la crisi della politica, la disaffezione per tutto ciò che è pubblico, da cui la vocazione alla vena egotistica e privata dei nostri scrittori, e l’assenza in loro d’una robusta ispirazione ed impegno civili.
Ora, in controtendenza, vede la luce questo lavoro di Fausta Garavini (In nome dell’Imperatore-Romanzo ottocentesco, Cierre, 2008 pp. 323, euro 12,50) che, rispetto ai nostrani schemi narrativi, fa fare al genere del ‘romanzo storico’ un deciso passo in avanti, poiché le vicende che popolano il suo romanzo si riferiscono non solo a figure storiche di grande spicco real-
negli archivi storici di Milano, Mantova e Forlì. I risultati sono sorprendenti, e destinati, a mio avviso, a fuoruscire dal ristretto ambito letterario. Non vogliamo ricorrere all’abusato termine di ‘revisionismo’, ma sarà difficile che le questioni sollevate dalla Garavini possano venire ignorate dagli storici del Risorgimento, poiché investono alcuni stereotipi storiografici da essi stessi tramandatici. Innanzi tutto l’opera è percorsa da una evidente simpatia per la grande cultura politica austriaca della Restaurazione, e per il grande equilibrio e la tolleranza che l’Impero asburgico era riuscito ad esprimere nei confronti delle sue aree periferiche, a principiare dal Lombardo-Veneto e dal Trentino, una regione che aveva dato appunto i natali ad Antonio Salvotti, l’”eroe” del romanzo.
Il trentino Antonio Salvotti fu il pubblico ministero di tutti i processi istruiti contro i patrioti italiani dal 1818 al 1848, e seguendo le sue vicende pubbliche e private, l’autrice rivisita buona parte della nostra storia risorgimentale e dei ‘miti’ che l’hanno accompagnata.Vediamo allora sfilare il fior fiore del nostro patriottismo ottocentesco: gli Oroboni, i Confalonieri, i Foresti, i Pellico, i Maroncelli della nostra storia patria, che, arrestati per la loro attività segreta antiaustriaca, si trovano ad affrontare questo intelligente e leale servitore dell’Impero asburgico, con un passato di fugaci
A sorpresa, nel libro di Fausta Garavini si scopre che il magistrato Antonio Salvotti, incaricato di mettere sotto torchio e far confessare i nostri carbonari, non era un uomo sleale, ma permissivo e nient’affatto crudele mente esistite, ma si presentano con i caratteri della fedeltà storica, ispirandosi a documentazione che la scrittrice ha compulsato con passione
simpatie indipendentiste, ma che poi aveva acquetato i propri umori sposando una concezione della politica in cui a prevalere era la visione mode-
E’ destinato a destare scalpore il romanzo di Fausta Garavini ”In nome dell’Imperatore”, insolita ma documentata rilettura delle vicende risorgimentali antiaustriache dell’Italia dell’800. Attraverso le inchieste di Antonio Salvotti, magistrato piuttosto ostile alle idee di Giuseppe Mazzini (in alto a destra) e incaricato di mettere sotto torchio patrioti come Silvio Pellico e Piero Maroncelli (nella foto grande) o Federico Confalonieri (in basso a destra), si scopre a sorpresa certa tolleranza e lealtà dell’Impero asburgico nei confronti dei carbonari
ratamente riformista dei processi storici, l’avversione per gli strappi rivoluzionari. E’ percepibile nel Salvotti della Garavini l’avversione per le idee mazziniane in quanto considerate fonte di dissipazione di giovanili energie ed esuberanze, irrealizzabili teorie, insane e distruttive. E’ la ben nota frattura tra il riformista più o meno illuminato e il rivoluzionario, che ha percorso tutta la storia dell’Ottocento e buona parte di quella del Novecento. A contrapporlo al mondo patriottico che combatte non è tanto la consapevolezza dei tempi che stanno
arrivando ma l’istintiva ripulsa per la sterile scorciatoia imboccata dalla prassi settaria carbonara prima e mazziniana dopo.
In Salvotti aveva finito per prevalere un sentimento fideistico per la giustizia imperiale, considerata capace di coniugare rigore e tolleranza. Era in lui viva la convinzione della capacità del sistema asburgico di autoriformarsi, e quindi in grado di dare la giusta risposta, ancorché moderata, alla molteplicità delle istanze - dalle autonomistiche alle indipendentistiche - che
cultura
10 luglio 2008 • pagina 21
tutta la rete carbonara di cui era stato tra i capi, ma si offre – scrive la Garavini riproducendo una lettera a Salvotti dello stesso Foresti - «per spiare le tracce e le fila di questa società (cioè la carboneria) che turba il comune riposo. Allontanato da me ogni sospetto io sono certo di fare delle scoperte». Oppure di Silvio Pellico, che, dopo una certa reticenza, quando inizia a confessare, chiama subito in causa Maroncelli, Porro e gli altri. Lo stesso Maroncelli, che aveva sempre negato la sua partecipazione ai complotti antiaustriaci, di fronte alle accuse circostanziate, favorite dalle ammissioni di Pellico, che la polizia austriaca gli può muovere, cede a sua volta, chiamando in causa i settari suoi complici, tra cui Romagnosi e Confalonieri.
Fausta Garavini con-
percorrevano allora i territori italiani dell’Austria-Ungheria. A favorire tali sviluppi in Salvotti vi è la constatazione dell’alto grado di civiltà nel trattamento che la giustizia dell’imperatore riserva ai propri avversari, la capacità di dispensare anni di galera non disdegnando tuttavia di offrire loro molto spesso l’occasione di emendarsi. E Salvotti è il magistrato integerrimo che veglia sull’equilibrio di questo sapiente sistema politico-istituzionale.
L’imperatore sa essere generoso anche verso quei patrioti italiani che lo combatto-
no aspramente, fino a commutare costantemente e quasi ritualmente le condanne a morte previste per i reati di tradimento dal codice penale asburgico in anni da scontare nel carcere dello Spielberg. Le istruttorie sono condotte con modalità rispettose dei diritti del detenuto. Ad uscire abbastanza ridimensionato dal romanzo di Fausta Garavini è il mondo morale dei patrioti. Una certa mitologia storiografica ce li aveva consegnati puri, coriacei nelle loro convinzioni, fieri di fronte al nemico, e, infine, languenti in carceri buie e sottoposti dalla
polizia austriaca a torture di ogni genere.
Ora sembra uscire dalle pagine di Fausta Garavini ben altra verità. Intanto a tutti i patrioti, in genere figli prediletti dell’aristocrazia o alta borghesia lombardo-veneta, non viene mai torto un capello dal Salvotti, il quale si affida, per estorcere le confessioni, ad una sua particolarmente abile capacità di far leva sulle contraddizioni delle deposizioni e a un atteggiamento sempre oscillante tra il bonario e il rude, ma di una rudezza paterna, di fronte alla quale gli arrestati non riescono ad opporre resi-
stenza. L’inquisitore Salvotti conosce profondamente la mentalità dei settari italiani e fiuta la preda anche lontanissima, ma soprattutto percepisce il clima politico dei tempi. E i patrioti allora si confessano, ammettono, parlano ininterrottamente, e quando hanno finito di confessare negli interrogatori continuano a farlo per lettera, attraverso una fitta corrispondenza che continuano a mantenere con Salvotti anche quando sono ormai allo Spielberg.
E quindi assistiamo a confessioni-fiume dei vari Pellico, Maroncelli ed altri che finiscono per inguaiare, in una sorta di effetto domino, i compagni di tutte le vendite carbonare collegate, anche le più remote. Che dire poi del ravennate Felice Foresti, in seguito esule e docente di letteratura italiana alla Columbia University, il quale appena arrestato non solo contribuisce con le sue confessioni allo smantellamento di
segna al suo racconto i passi di alcune lettere con cui i vari Pellico, Maroncelli e Confalonieri ringraziano Salvotti elogiandone l’umanità e l’equilibrio; lettere che ci lasciano sbalorditi, a noi lettori educati a una storia patria in cui le sofferenze e i dolori inflitti ai patrioti ci fecero fremere d’indignazione negli anni della nostra formazione. Lo stesso regime carcerario dello Spielberg, propostoci dalle pagine della Garavini, che lo ha esaminato alla luce dei documenti di archivio e attraverso la corrispondenza privata dei patrioti detenuti, finisce per perdere quell’aura paurosa di reclusorio cupo e di luogo dalle mille nefandezze, tramandatoci da Le mie prigioni di Silvio Pellico, per assumere un’immagine molto più rassicurante, dove i detenuti vengono trattati con modalità distinte da quelle usate per i criminali comuni: cibo e assistenza medica migliore, e soprattutto assoluta abolizione del regime dell’isolamento. I patrioti possono addirittura scegliersi i compagni di cella e possono comunicare con gli altri nel corso di lunghe passeggiate, mai impediti dalla polizia carceraria. In definitiva ci troviamo di fronte a un bellissimo racconto, condotto in punta di penna, con grande intelligenza, sapienza, e capacità di introspezione psicologica. Naturalmente attendiamo con curiosità una reazione da parte degli storici del Risorgimento.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Sta davvero tramontando il mito del maschio italico? NESSUN ALLARME DAVVERO FONDATO, CERTI PROBLEMI SONO SEMPRE ESISTITI E’ notizia di due giorni fa, apparsa sul sito Internet del quotidiano Corriere della Sera: «Sembra avviarsi lungo il viale del tramonto il mito del maschio italiano come amante latino per eccellenza. Stando almeno a quanto emerge dalla campagna ”Torna ad amare senza pensieri”, promossa dalla Società italiana di Andrologia (Sia): il giovane maschio italiano oggi è ”preoccupato, fragile e perennemente in ansia» per la sua vita sessuale”». La spiegazione della tesi? «Quindicimila telefonate al numero verde messo a disposizione per problemi sessuali in soli quaranta giorni». Ma può davvero bastare questo per portare avanti la teoria del ”tramonto del maschio italiano”? Non credo. I problemi legati alla sfera sessuale penso ci siano sempre stati, ma al contrario di oggi, forse non esistevano Internet o numeri verdi ai quali appoggiarsi per risolverli. Diciamo anche che un tempo era più sviluppato rispetto al presente un senso di pudore e, se vogliamo, anche vergogna, che sicuramente influiva sulla psicologia degli uomini, che per non apparire, appunto, «fragili, ansiosi, con problemi sessuali», preferivano tenere per sé, nella sfera privata, i
LA DOMANDA DI DOMANI
Qual è il vostro giudizio sul No Cav Day dello scorso martedì? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
propri problemi. Dunque credo semplicemente che non ci siano elementi tanti e gravi per poter strombazzare un «allarme macho italico», per poter parlare di vero e proprio «tramonto del mito del mascio italiano come amante latino per accellenza». Insomma, le donne e gli uomini del Paese si affidino senz’altro ai medici per curare le proprie defaillance, ma dormano pure sonni tranquilli.
Maurizio Pinci - Milano
TRAMONTO O MENO CHE SIA, BISOGNEREBBE COMUNQUE PRENDERE SERIAMENTE LA QUESTIONE Insomma, quindicimila telefonate in appena quaranta giorni non sono proprio pochissime. Ma che poi quese siano state effettuate perlopiù dal Sud d’Italia, cioè la cosiddetta ”Patria degli sciupafemmine italiani”, beh, questo dovrebbe bastare a prendere seriamente in considerazione l’allarme lanciato dalla Sia, la Società italiana di Andrologia. I numeri e i luoghi infatti parlano chiaro: a chiamare sono stati uomini di tutte le regioni italiane, con una netta prevalenza delle regioni del Sud e delle isole, con il 42,3%. Ultimo in classifica è il Nord-Est con l’11,4%. E tra le città, invece, Roma (1049) batte Milano (835) e Napoli, con 946 telefonate, sorpassa città come Palermo (321) e Firenze (221). Ma soffermiamoci anche sulle presunte cause che possono, secondo la Sia, influenzare notevolmente questo tipo di problemi. Spiega infatti la Sia che «la netta preponderanza di chiamate da parte di giovani uomini, sicuramente perché più inclini all’utilizzo di strumenti quali infoline e siti web, deve farci riflettere. È un chiaro sintomo di come i giovani maschi italiani siano preoccupati, fragili e in ansia relativamente alle diverse tematiche della funzione sessuale, anche in assenza di particolari patologie». Ecco, credo che in realtà andrebbe affrontata con maggiore serietà proprio la questione dell’eccessivo uitilizzo di Internet e del telefonino quale principale causa dei problemi legati alla sfera sessuale. Ma senza eccessive strumentalizzazioni e da una parte, e dell’altra. Cordialmente ringrazio per l’attenzione, a presto.
IL NUOVO CLIMA POLITICO Da quando il governo Berlusconi ha iniziato a operare, si è cominciato a respirare un’aria politica diversa. Fra i partiti dell’opposizione, novità rilevanti da registrare a favore del Pd non c’è ne sono. L’unica iniziativa degna di nota è l’aver costituito il cosiddetto “governo ombra” che comunque non ha posto in essere alcuna iniziativa alternativa alla politica della maggioranza. Fra i partiti sconfitti, l’unico a tentare di fare autocritica è Fausto Bertinotti, che ritornando nella scena politica ha messo in evidenza la mancanza di aggregazione dei diversi partiti politici della precedente coalizione di governo e la conseguente improvvisazione degli stessi. Fra i partiti della maggioranza si osservano altrettante incongruenze che lasciano gli italiani interdetti. Per esempio per garantire sicurezza nelle grandi città, il governo, a più riprese, ha “minacciato” l’utilizzo dell’esercito per presidiare piazze e strade di Milano, Roma Torino etc. Successivamente, il ministro Maroni ha fatto chiarezza sulla questione dichiarando che i soldati devono continuare a fare (bene) ciò per il quale hanno
MAREA BIELORUSSA
Una singolare parata di sportivi bielorussi durante la festa dell’indipendenza di Minsk, in Bielorussia, lo scorso giovedì 3 luglio. Nel novembre del 1996 la festa è stata fissata proprio il 3 luglio, giorno in cui Minsk venne liberata dall’Armata rossa dagli invasori nazisti
PER SEMPRE FESTE DELL’UNITÀ Sembra la vecchia festa dell’Unità e lo è. Ma ora si chiama con il nome della città che la ospita. Non c’è nessuna rivoluzione. La novità, certo, si vede. Il suo look è stato aggiornato e rinfrescato. Un po’ di verde e di bianco, una scenografia leggera, scabra ed essenziale, ma evocativa. Sì, perchè le forme, ma anche i colori e le grafiche, non ne mutano la personalità. Infatti, tanti ex compagni e compagne vedono riaccendersi la passione, quando là si trovano riuniti. Là rivivono sensazioni e comunioni e ricominciano a sognare. Del resto, la passione e gli interessi sono intramontabili se profondamente radicati, non sono mai spenti, ma solo un po’appannati. E checché ne dicano Rutelli e Veltroni, il rosso impazza e tira che è un piacere, senza le carenature verdi imposte a livello nazionale, e manterrà nel tem-
dai circoli liberal Andrea Lo Giudice - Catania
prestato giuramento e vengono pagati. Un’altra considerazione è relativa al disegno di legge sulle intercettazioni che parte dalla ragionevole intenzione di tutelare gli Italiani nella loro Privacy. Ci si augura che questa volta si arrivi a promulgare una legge che possa “arginare” il fenomeno e mettere d’accordo tutte le parti. Infine una considerazione su Fitto. E’ un ministro senza portafoglio, pertanto privo di pressioni clientelari, ma la Lega Nord ha già fatto sentire il suo peso votando in Parlamento contro la maggioranza e insieme alla opposizione e, inoltre, alcuni governatori delle regioni del Sud hanno elaborato un documento sul federalismo che sembra non proprio in linea con la politica del Premier. Fitto dovrà utilizzare tutte le sue notevoli capacità per portare avanti un lavoro con non poche difficoltà. E’ proprio vero il clima è cambiato e se ne sarà accorto anche il Berlusconi, dopo l’ipotesi sul decreto di sospensione dei processi che è una disposizione fatta su misura per lo stesso premier. Francesco Facchini CIRCOLO LIBERAL LEVANTE BARI
po la propria seduzione. La solida, pingue e illustre prosapia ce lo pare confermare.
Pierpaolo Vezzani
NESSUNA LEZIONE DA ANTONIO DI PIETRO Finalmente giunse il giorno di Piazza Navona. Tutti riuniti per dirci come vorrebbero l’Italia, per spiegarci di lasciar perdere Berlusconi e Veltroni, per chiederci di consegnare nelle loro mani il nostro futuro. Per fortuna e per saggezza degli elettori, vi siete presi voi un «vaffa...» alle votazioni e Di Pietro avrà il resto quanto prima, quando gli elettori ricorderanno la sua storia di uomo e magistrato, prima che di politico. Da Di Pietro lezioni di perbenismo non si possono accettare: avrà fatto «mani pulite», ma non basta per godere della stima di gente perbene.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
COMUNICAZIONE PER I CIRCOLI LIBERAL TODI - VENERDÌ 25 LUGLIO 2008 - ORE 11 Prossima riunione dei presidenti e dei coordinatori regionali liberal all’Hotel Bramante di Todi. A seguire, l’inizio dei lavori del seminario Vincenzo Inverso segretario organizzativo circoli liberal
APPUNTAMENTI SEMINARIO DI TODI - VENERDÌ 25 E SABATO 26 LUGLIO 2008 Seminario, ore 15.00, Hotel Bramante, in via Orvietana 48 I lavori del seminario, che vedrà la partecipazione tra gli altri di Casini, Cesa, Buttiglione, Vietti, Volontè, avranno inizio il venerdì a partire dalle ore 12.00 e si chiuderanno per le 14.00 di sabato
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L’ultimo tuo bacio è sempre il più dolce Dolcissima Fanny, tu sei sempre nuova. L’ultimo tuo bacio è sempre il più dolce: l’ultimo sorriso il più luminoso; l’ultimo movimento il più aggraziato. Quando ieri sei passata davanti alla mia finestra ero colmo di ammirazione come se ti avessi vista per la prima volta. Qualche tempo fa mi hai fatto una scenata perché io amavo soltanto la tua bellezza. Non ho altro da amare in te che quella? Non vedo un cuore naturalmente dotato di ali rendersi prigioniero per me? Nessuna prospettiva malsana è riuscita a distogliere i miei pensieri da te neppure per un attimo. Quanto sono più profondi i miei sentimenti sapendo che tu mi ami! Non ho mai sentito la mia mente trovare riposo in qualche cosa con la stessa gioia assoluta e senza distrazioni: in una persona, se non in te. Quando sei nella stanza i miei pensieri non volano mai fuori dalla finestra: su di te sono sempre concentrati tutti i miei sensi. John Keats a Fanny Brawne
CONTRATTO FARMACISTI: 30 MESI DI VERGOGNA Malgrado i fatturati delle farmacie siano in costante crescita, i farmacisti dipendenti di farmacia privata da 30 mesi sono senza contratto. Allineandosi tra i rinnovi più lunghi della storia contrattuale, la situazione sta diventando giorno per giorno più difficile. E diventa ancora più pesante perché coinvolge anche la scelta dei dipendenti verso forme di previdenza complementare. A tutt’oggi i farmacisti dipendenti delle farmacie private sono obbligati a mantenere il proprio Tfr nelle aziende, senza poter scegliere forme previdenziali aggiuntive, proprio perché non esiste ancora un accordo sottoscritto su quale previdenza contrattuale applicare ai professionisti. La rigidità della Federfarma circa l’aumento economico e la richiesta di massima flessibilità nell’orario di lavoro, mal si concilia con la scarsa disponibilità a rivedere retribuzioni per straordinari, reperibilità e notturno. Tale rigidità nasce da una miopia assoluta nei confronti dei propri dipendenti che invece di essere visti come una preziosa risorsa dell’azienda sono considerati co-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
10 luglio 1509 Nasce Giovanni Calvino, umanista e teologo francese 1778 Rivoluzione americana: Luigi XVI di Francia dichiara guerra al Regno di Gran Bretagna 1871 Nasce Marcel Proust, scrittore e saggista francese 1888 Nasce Giorgio de Chirico, pittore e scenografo italiano 1925 Viene fondata l’agenzia di stampa ufficiale dell’Unione Sovietica, la Tass 1940 Seconda guerra mondiale: Viene istituito il governo della Francia di Vichy 1985 Il vascello di Greenpeace, il Rainbow Warrior viene affondato con una carica esplosiva nella baia di Auckland, Nuova Zelanda, da agenti del Dgse francese 1992 A Miami, Florida, l’ex leader panamense Manuel Noriega viene condannato a 40 anni di prigione per traffico di droga 2002 Ad un asta di Sotheby’s, il dipinto Il massacro degli innocenti di Pieter Paul Rubens viene venduto per 49,5 milioni di sterline a Lord Thomson
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
me dei “vassalli”. Dipendenti laureati che hanno stipendi inferiori a quelli degli infermieri, dei gommisti, dei portieri d’albergo, dei fornai, malgrado responsabilità civili e penali in capo alla loro attività. Professionisti che non hanno diritto a un carriera e spesso sono utilizzati in umili mansioni per risparmiare sul personale. Uno stipendio di 1.250 euro al mese (quando in regola) a cui vanno tolti i contributi obbligatori per l’iscrizione all’ordine e quelli per la previdenza di categoria. Stipendio che naturalmente soffre del diminuito potere d’acquisto e che quindi risulta in sostanza molto inferiore. Questo silenzio è assordante e grave se si pensa che era stata la Fofi a sostenere la necessità di inserire il contratto dei farmacisti collaboratori in quello della sanità, allorchè si trattava di contrastare, con tale mossa, le istanze dei farmacisti non titolari a poter vendere i farmaci con obbligo di ricetta nelle parafarmacie; istanze che erano inserite nella “terza lenzuolata Bersani” e che avevano fatto tremare i polsi ai vertici di categoria.Vogliamo fare qualcosa?
Lettera firmata
PUNTURE La moschea di Milano trasloca al velodromo. Gli islamici hanno voluto la moschea e ora devono pedalare.
Giancristiano Desiderio
“
Si può resistere alla forza di un esercito; ma non si può resistere alla forza di un’idea VICTOR HUGO
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di DI PIETRO SI DISSOCIA DALLA SUA MANIFESTAZIONE Telegramma: la manifestazione indetta da Di Pietro per ufficializzare la sua scalata al comando dell’opposizione in disfatta si è rivelata un boomerang. Stop. Molti esponenti dell’opposizione stessa hanno definit il No Cav. day un fiasco. Stop. Per fare credere al popolino di sinistra che la manifestazione avesse raccolto moltissime adesioni Tonino aveva imbarcato i soliti personaggi impresentabili: da Pancho Pardi a Furio Colombo, passando per la comica Guzzanti e Travaglio. Stop. C’era persino l’immancabile autore di gialletti di quart’ordine in lingua siciliana che pur di vendere qualche libro in più si sottopone alla fatica di queste faticose trasferte. Stop. Ospite d’onore in via amichevole e telefonica nientepopodimenoche... Beppe Grillo. Stop. A occhio e croce in piazza Navona c’erano si e no 10.000 persone, gli ultimi giapponesi che sostenevano il fu governo dell’armata brancaleone che adesso sostengono la stessa armata in disfatta all’opposizione. Stop. Veltroni s’è dissociato. Stop. Lo stesso Furio si è dissociato dagli insulti al Papa e al Capo dello stato. Stop. Il direttore di Liberazione si è dissociato anche lui. Stop. Il direttore del riformista pure. Stop. Molti parlamentari del PD hanno criticato i toni e i contenuti. Stop. La manifestazione contro Berlusconi era solo un pretesto per far casino, Stop. Infatti se la sono presa con chiunque non la pensi come loro. Stop. Do-
po avere schernito e offeso il Papa e Napolitano hanno insultato volgarmente il povero ministro Carfagna che certo non ha nè l’autorevolezza del Papa e del presidente della repubblica, nè tantomeno l’autorità. In fondo è solo una cittadina chiamata a fare il ministro. Stop. Questa è la considerazione della sinistra per le donne e per le istituzioni. Stop. Le loro argomentazioni sono come sempre le leggi contra personam e gli insulti. Stop. La sinistra è finita. Stop. Viva l’Italia! Stop.
Le Barricate www.gemublogs. altervista.org
NUOVI EROI I grandi traumi, si sa, a volte fanno letteralmente sbiancare i capelli. Quando nel ’67 John McCain fu fatto prigioniero dai vietcong, i suoi capelli erano precocemente brizzolati, ma non candidi; divennero però completamente canuti nel corso dei cinque anni e mezzo di prigionia – a base di torture fisiche e psicologiche – presso l’ “Hilton di Hanoi”. Ora, narrano le cronache (più o meno gonfiate dalla solita stampa obamamaniaca) che anche il giovine Obama sia uscito dalle primarie improvvisamente brizzolato. Si può dire che ciascuno dei due candidati porta in capo il segno di una immane tragedia cui è eroicamente sopravvissuto: per McCain, il Vietnam; per Obama, Hillary Clinton.
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PAGINAVENTIQUATTRO Sono più di 200 le emittenti televisive tra Nord Africa e Medio Oriente: oltre ad Al Jazeera le più seguite sono Al Arabiya e Al Manar
Nata quattro anni fa per combattere la propaganda di Al Qaeda
Al Hurra un flop tv targato di Federica Zoja
STELLE E STRISCE IL CAIRO. Uno sforzo di 350 milioni di dollari per combattere la propaganda di Al Qaeda e formare una nuova opinione pubblica araba. A quattro anni dalla nascita dell’emittente satellitare Al Hurra (letteralmente “La Libera”, ndr), sono in molti a ritenere che il denaro dei contribuenti americani sia andato sprecato, gettato dalla finestra per superficialità e presunzione. L’aneddotica a supporto di questa tesi è ricca: fra i vari esempi, è sufficiente citare la sorte della suggestiva redazione cairota della tv, con vista Nilo, ormai vuota e abbandonata. Boicottata dalle autorità egiziane – anche se, ufficialmente, un problema tecnico sarebbe all’origine dell’interruzione delle trasmissioni, da qualche settimana a questa parte – l’emittente in lingua araba voluta dall’amministrazione Bush si avvale ora di uno studio controllato dai mukhabarat, i servizi segreti egiziani, che ne controllano i contenuti perché niente sia lasciato al caso. Di problemi, in realtà, Al Hurra ne ha più di uno, oltre alla diffidenza delle leadership nord-africane e mediorientali. Il primo e più evidente è il suo Dna a stelle e strisce, e la palese volontà dei suoi proprietari di utilizzare informazioni “manipolate” per recuperare credibilità in Medio Oriente: gli stessi giornalisti hanno più volte manifestato il proprio disagio nel constatare l’ingerenza del Congresso americano. Il secondo scoglio, non certo minore, attiene all’area redazionale: il personale chiamato a dirigere Al Hurra non ha niente a che vedere con i professionisti esperti e carismatici che compongono lo staff di Al Jazeera (“L’Isola”). Pochi, secondo i bene informati, conoscono davvero la lingua araba o, semplicemente, sono corrispondenti di spessore giornalistico. In-
fine, la verità è che di un’altra tv satellitare di informazione, nel mondo arabo non ce n’era bisogno. Oltre alla stella del firmamento televisivo, il network qatariota Al Jazeera appunto, sono più di 200 le tv che ogni giorno raggiungono il pubblico di Nord Africa e Medio Oriente; fra queste, fanno la loro ottima figura Al Arabiya e Al Manar (“Il Faro”), solo per citare insegne celebri e autoctone, seguite dalle versioni arabe di Bbc e France24. Ma al Congresso americano e agli ideatori di Al Hurra, il panorama mediatico arabo doveva essere del tutto sconosciuto: il modello cui avrebbe dovuto ispirarsi la nuova emittente, Radio Europa Libera, era ben collaudato. Nata in piena Guerra Fredda, quando un pubblico avido di informazioni si sintonizzava sulle frequenze “libere” per tenersi aggiornato, Radio
si spingono a dire che almeno una volta alla settimana, 26 milioni di adulti in 13 Paesi capitano sul Hurra una volta settimana. Tuttavia un recente sondaggio condotto in sei paesi arabi ha svelato che il 54 percento degli intervistati segue regolarmente le trasmissioni di Al Jazeera, il 9 percento quelle di Al Arabyia e solo il 2 percento quelle di Al Hurra. Un po’ poco per un’emittente che trasmette 24 ore su 24, non contiene pubblicità, e continua a rappresentare un investimento senza ritorno.
Capire il perché di questo costoso e clamoroso flop di Al Hurra non è troppo difficile. Secondo alcuni osservatori i suoi redattori hanno mostrato di essere del tutto privi di preparazione professionale e psicologica, e soprattutto di accumulare gaffe. Una per tutte: nel giorno e nel momento in cui lo sceicco Ahmed Yassin, profeta del fanatismo palestinese, fu colpito e ucciso da un missile israeliano, anziché trasmettere un programma dedicato a discutere le luci e le ombre del discusso personaggio (evidenziando naturalmente le sue gravissime responsabilità nella degenerazione dei rapporti arabo-israeliani), Al Hurra mandò in onda ore e ore di rubriche culinarie. Ma, ben peggiore di queste gaffe, ad essere venuta meno è stata la capacità di soddisfare la fame di libertà non solo politica, ma anche e soprattutto sentimentale, femminile, giovanile ed educativa delle masse islamiche attraverso le parole, le immagini e le musiche del mondo libero. Quello che probabilmente gli ascoltatori avrebbero gradito.
La redazione cairota, ultimo piano vista Nilo, è vuota e abbandonata e le trasmissioni sono state sospese da qualche settimana. Ufficialmente perché boicottate dalle autorità egiziane, di fatto perché gli ascolti sono sotto il 2% Europa Libera è stato un mezzo fondamentale nella creazione di consenso in tutto il continente europeo, anche al di là della cortina di ferro. Niente da fare, invece, per Al Hurra, che ha fallito il proprio compito di fornire un’immagine degli Stati Uniti più vicina e amica.
I sostenitori del progetto lo difendono a spada tratta, sottolineando che è difficile avere rilevazioni attendibili sulle audience delle tv satellitari, non solo nel mondo arabo ma anche in Occidente. Ricerche del Congresso