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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Una folla di ragazzi da evento rock a Sydney con Benedetto XVI

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Ai “concerti” di Ratzinger una generazione controcorrente

di Ferdinando Adornato

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ISSN 1827-8817 80715

MANOVRE IN MEDIORIENTE Bush, Olmert, Abu Mazen, Sarkozy: tutti dicono che siamo ad un passo da un accordo tra Israele e Palestina che, in realtà, è ancora molto lontano. Perché? Cosa si nasconde dietro quest’intesa solo annunciata?

di Giorgia Meloni o non so se questa gioventù italiana ed internazionale sia migliore o peggiore di quelle precedenti. Francamente, penso che il giochino di porre ogni nuova generazione a confronto con altre di un passato più o meno recente, sia privo di reale utilità oltre che di scarsa attendibilità. Resto invece convinta che nei giovani di oggi, seppur nell’evidente difficoltà di trovare un tratto comune ad un’infinità di esistenze tra loro molto differenti, si intravedano buoni presupposti per giudicare gli uomini e le donne di domani. In particolare, in coloro che partecipano alla Giornata mondiale della gioventù, mi sembra di poter cogliere una grande speranza per il futuro della nostra civiltà. Certo, prima di ogni altra cosa, l’evento organizzato dalla Chiesa cattolica si propone come una forte e coinvolgente esperienza di fede. I partecipanti hanno obiettivi precisi: incontrarsi, pregare con il Papa. Già questo basterebbe a elevarli un gradino al di sopra di esistenze prive di qualunque aspirazione. Ma accanto a questo punto di vista rigorosamente confessionale si colloca un’altra sollecitazione che mi piace sottolineare: la voglia di partecipare. E’ la brama di chi non vuole relegare alla sola dimensione di Internet la possibilità di conoscere giovani di ogni razza e nazionalità. Di più, è il desiderio di essere parte con gli altri di una straordinaria avventura. Ad un occhio neutrale che osserva le immagini delle Giornate Mondiali della Gioventù fin qui celebrate, la prima suggestione che balza alla mente è quella di un megaconcerto rock.

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Il mistero della pace alle pagine 2 e 3

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La Siulp: “il governo ci ha traditi”

Il seminario sulla riforma elettorale

Parla un importante banchiere italiano

Modello tedesco: Pdl: non se ne parla Pd: niente dialogo

«È come nel ‘29: ma Berlusconi non è all’altezza»

di Errico Novi

di Giancarlo Galli

di Marco Palombi

di Francesco Capozza

Fare le riforme o disfare un partito. Veltroni ondeggia, capisce che lo spazio non è mai stato così angusto. Ieri ne ha avuto percezione al convegno delle 14 fondazioni celebrato a Roma.

Il Gran Banchiere che mi ha dato udienza non nasconde le preoccupazioni. «Sulla finanza nubi minacciose: la borsa è da settimane scossa da grandinate di vendite e il barometro lascia poche speranze».

«La settimana prossima si bevono Del Turco». Era un anno e mezzo almeno che questa frase circolava tra parlamentari e giornalisti abruzzesi e alla fine la settimana giusta è arrivata. Questa.

Forze dell’ordine e militari sul piede di guerra: la manovra finanziaria ridurrà di 40.000 uomini le divise blu. Le organizzazioni attendevano un segnale dal Cdm, che però non ha affrontato il problema.

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Terremoto sulla giunta del governatore d’Abruzzo

L’arresto (inutile) di Ottaviano Del Turco

MARTEDÌ 15 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

132 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Fiducia sul decreto sicurezza. Gli agenti scendono in piazza

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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In senso proprio: perché l’ostacolo più grande è il controllo delle risorse idriche. In senso politico perché sia Olmert che Abu Mazen sono deboli e hanno fretta di chiudere. Perciò gli annunci prevalgono sui dati di fatto...

La pace con l’acqua alla gola di Osvaldo Baldacci

Completamente privo di iniziativa politica

Comunque vada il governo italiano è fuori gioco di Andrea Margelletti vviva Euromed, a Parigi e in tutto il mediterraneo si festeggio l’ennesima sovrastruttura internazionale in grado di risolvere gli storici problemi del vicino e medio oriente. Pace fatta tra israeliani e palestinesi, immigrazione normalizzata, Iran sotto controllo, Siria presente. I primi mesi del nuovo inquilino dell’Eliseo sono caratterizzati da un attivismo in politica estera tale da far preoccupare anche Downing Street. Sarkozy “gioca” un doppio ruolo, continentale ed “imperiale”. Da un lato un rapporto sempre più stretto e concreto con la Germania, con un peso che diventa sempre più rilevante anche nei Balcani, altro giardino di casa italiano. Dall’altro una rinnovata liason con la Gran Bretagna, sia in ambito di politica di Difesa che di cooperazione industriale strategica. E sono bastate poche parole su un possibile maggiore impegno in Afghanistan per far arrivare miliardi di dollari in commesse militari americane per le casse francesi. E l’Italia…? Ancora una volta il nostro Paese gioca un ruolo marginale. Oltre 2mila uomini in Libano e la negoziazione tra israeliani e Hezbollah la fanno i tedeschi, siamo presenti in Ciad, ma in un silenzio fragoroso, in Afghanistan nonostante la formula italiana funzioni rincorriamo gli errori altrui invece che far pesare il nostro ruolo e le nostre scelte. E quando sarebbe il caso di tacere, vedi il sequestro somalo, si fanno nomi e cognomi. Siamo uno strano Paese, ma sarebbe bello vederlo assumere un ruolo anche vagamente autorevole. Ma a casa nostra impera la cronaca, e non diciamo che le altre Nazioni hanno classi politiche meno corrotte o economie più sane. Solo che basta superare il confine per vedere governi, di ogni colore, che hanno una visione della politica ampia e di largo respiro. Politici che hanno ben chiara la differenza tra paesello e Nazione. Con tutta la comprensione possibile, anche per un esecutivo “giovane”, non è concepibile che l’unica notizia di esteri che per giorni è stata in evidenza sia quella inerente il barbaro assassinio di una connazionale in Spagna. Mentre noi rischiamo di “baloccarci” tra frizzi e lazzi gli altri ce le “suonano”davvero.

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a Annapolis a Parigi, il cammino di pace offre ai palestinesi un’occasione unica. Non è un caso che il presidente Abu Mazen si dica ogni giorno meno pessimista. “Ora o mai più”è probabilmente una locuzione esagerata, ma certo le circostanze attuali sembrano fornire le condizioni più adatte alle possibilità di un accordo con Israele. Anzi: oggi la pacificazione è forse più una necessità che una speranza. Non senza controindicazioni e rischi di naufragio, tanto più con una finestra temporale tanto ristretta per la scadenza del mandato di Bush. Non c’è quindi da essere ottimisti, ma nemmeno aprioristicamente contrari. Resta il fatto che Il tempo è poco e che i nodi da sciogliere sono tanti e dolenti. Oltre alle fratture e contrapposizioni interne ai palestinesi, con Israele restano da risolvere le questioni storiche più gravi. Gerusalemme, considerata capitale indivisibile da Israele (ma non dai leader dell’attuale governo) e ritenuta irrinunciabile dai palestinesi (con un certo avallo della comunità internazionale). La definizione del territorio e dei confini della Cisgiordania, soprattutto considerando i problemi degli insediamenti israeliani (difficile che si torni ai confini del 1967, più probabile un sistema di compensazioni), il ritorno dei profughi palestinesi del 1948 e dei loro discendenti, altro punto di principio per l’Anp che Israele non può accettare, pena un profondo squilibrio demografico: anche qui occorrerà trovare un’altra strada, probabilmente con il supporto economico internazionale. E infine una protagonista tanto fondamentale quanto dimenticata di questa crisi: l’acqua. Israele al momento controlla gran parte dei bacini, ma su questi deve trattare con i vicini: le sorgenti d’acqua in territorio palestinese sono in gran parte utilizzate dai coloni, la valle del Giordano è sotto gestione israeliana, la vera importanza delle Alture del Golan, contese con la Siria, sta nelle loro sorgenti. Sebbene un israeliano disponga in media di 250 metri cubi d’acqua all’anno e un palestinese di 115, anche Israele deve confrontarsi già adesso con la scarsità d’acqua, risorsa che continuerà a diminuire e sulla quale si gioca gran parte della partita della pace.Temi spinosi e difficili da risolvere, quindi, ma imprescindibili per un accordo vero.

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Quali dunque le circostanze che rendono favorevole questa prospettiva? Prima di tutto un riassetto delle alleanze. Dopo l’11 settembre, la crescita dell’estremismo islamico, la guerra in Iraq e l’irrigi-

dimento della contrapposizione con l’Iran, i Paesi arabi hanno sensibilmente cambiato ottica: il loro vero nemico non è più Israele (e dietro di lui l’Occidente). I nemici degli arabi sono l’estremismo armato sunnita da un lato e l’arrembante potere iraniano che tramite le comunità sciite e alcuni gruppi armati si ramifica fin nel cuore dei principali Paesi mediorientali. In quest’ottica la causa palestinese non è più l’espediente che può servire a distrarre le masse islamiche. Molto più utile ottenere una stabilizzazione dell’area che favorisca sviluppo e sicurezza. Non a caso la Lega araba è passata dai no di Khartum del 1967 («Mai Israele») al piano di pace del saudita Abdullah nel 2002 (relazioni normali con Israele nei confini del 1967). Allo stesso tempo mai come ora Israele vuole la pace, sia con i palestinesi che con gli altri, compresi Siria e Libano. Anzi, per la precisione la vuole Olmert e il suo partito Kadima. Le stesse difficoltà di politica interna spingono il governo israeliano a forzare sulla pace. Altra circostanza favorevole, Israele (ma anche tutta la comunità internazionale) vuole rafforzare Abu Mazen come interlocutore moderato rispetto ai rischi portati da Hamas. Il processo di pace è un’arma importante per disarmare Hamas, ma allo stesso tempo, ora, la situazione di Hamas favorisce il dialogo: se infatti qualche mese fa la sua forza costituiva un ostacolo per la credibilità e l’autorevolezza dell’Anp, oggi le diffi-

coltà di Hamas nello gestire la Striscia di Gaza (tanto da arrivare a decidere che una tregua con Israele è nel suo interesse) ridanno ad Abu Mazen consenso tra i palestinesi e quindi forza.

È poi noto come adesso l’Amministrazione Bush,desiderosa di un risultato storico per la conclusione del mandato, spinga con tutte le forze per la pace in Medio Oriente. E, altra cosa inedita, mai come ora Francia, Gran Bretagna, Russia e anche Cina si sono impegnate concordemente e direttamente per ottenere un accordo. Senza dimenticare che chi remava contro, come la Siria, sta cambiando posizione e resta solo l’Iran a soffiare sul fuoco. Olmert e Abu Mazen a Parigi hanno detto che l’accordo non è mai stato così vicino. Ma se le trattative riservate fervono, non bisogna trascurare il grande interesse che tutti i leader hanno adesso nel calcare la mano. Non è solo Bush a voler dare lustro alla sua immagine. Sia Olmert che Abu Mazen sono indeboliti sul fronte interno e puntano tutte le loro carte (le ultime, almeno per l’israeliano) su questo grande risultato, mentre le stesse trattative in corso ne giustificano la permanenza al potere. Come dire: le vicende politiche personali convergono sull’impegno a trattare. Ma se la porta della pace è aperta, bisogna pur sempre varcarla. E questa è un’altra storia.

Anche Abu Mazen cerca una via d’uscita dal suo isolamento

È il sogno di Olmert (nei guai) ma non è la realta di Emanuele Ottolenghi

Senior Analyst Ce.S.I.

l summit per l’Unione del Mediterraneo deve essere stato una panacea per il primo ministro israeliano, Ehud Olmert: dopo alcune probabilmente spiacevoli ore trascorse in compagnia di investigatori della polizia israeliana che lo hanno interrogato la settimana scorsa, cosa c’era di meglio che un fine settimana a Parigi, in ruolo di statista, insieme ai leader di altre 42 nazioni, molte delle quali non hanno nemmeno relazioni diplomatiche con Israele? Certo, c’erano le notizie che arrivavano da casa – altri missili Kassam sparati da Gaza contro obbiettivi israeliani, quasi a ricordargli che la pace che sta negoziando con il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha non pochi ostacoli da superare. Ma per fortuna i missili sono atterrati senza fare danni o vittime e così Olmert ha potuto godersi la gloria di Parigi. Certo, c’è stata l’uscita un po’plateale del dittatore – pardon, presidente – siriano, Bashir el-Assad, al momento del discorso di Olmert, ma del resto nemmeno il re del Marocco ha voluto condividere l’aria da respirare con la sua contro-

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Parla l’ambasciatore israeliano a Roma

«Noi ci crediamo, ma la Siria di Assad?» colloquio con Gideon Meir di Pierre Chiartano leader di 43 Paesi hanno inaugurato l’Unione mediterranea voluta da Nicolas Sarkozy. Dopo Annapolis questa potrebbe essere una “ripartenza” per il dialogo in Medio Oriente e per il processo di pace israelo-palestinese. L’iniziativa francese ha cercato di far uscire dall’isolamento internazionale il siriano Bashar Assad. Ma Gerusalemme obietta sulle reali intenzioni di Damasco. Siamo di fronte al cosiddetto wishful thinking oppure si sono create condizioni reali per un cambiamento? Soprattuto, la pace in Palestina è influenzata da eventi simili, oppure va per la sua strada? Lo abbiamo chiesto a Gideon Meir, ambasciatore d’Israele in Italia e profondo conoscitore della politica mediorientale. Nicolas Sarkozy sta portando fuori dall’isolamento Assad. Questa iniziativa quanto è credibile e come potrà influenzare il processo di pace in Palestina? Il problema va diviso in due. La prima parte riguarda il rapporto fra Israele e la Siria e la seconda quello fra Gerusalemme e la Palestina. Sono due vicende non connesse tra loro. Sui rapporti con la Siria, Israele conosce bene il prezzo che dovremo pagare per la pace. Non sappiamo invece cosa Assad sarà veramente disposto a pagare. Proprio a Parigi quando era il turno dell’intervento del premier Olmert, Assad è uscito dalla sala. Che segnale è mai questo, se si vuole parlare di pace? Se due nemici vogliono discutere devono prima ascoltarsi. A Damasco Assad ospita i rappresentanti di due organizzazioni terroristiche, Muhamad Meshaal di Hamas e Ramadan Shallah della Jihadd islamica. La Siria è disposta a bloccare il flusso dì armi che arma Hezbollah? Non può parlare di pace e armare i terroristi. Dà un pessimo segnale all’opinione pubblica, sia in Israele che in Siria. Riguardo il processo di pace israelo-palestinese i negoziati stanno continuando da tempo, lontano dall’attenzione dei media. Un lavoro svolto con la parte moderata della leadership palestinese. Il premier Olmert con Abu Mazen e il ministro degli Esteri Livny con Abu Allah. Si stanno affrontando tutti i temi sul tappeto del negoziato. Il progetto di Euromed è solo un parto della volontà politica dell’Eliseo o riflette delle condizioni reali di cambiamento? L’iniziativa di Sarkozy è estremamente positiva. Abbiamo tutti da imparare l’uno dall’altro. Occorre che il mondo arabo

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parte algerina, e se questi son problemi comuni, allora non sono problemi grandi. Tutto, anzi, diventa insignificante di fronte all’incontro con Mahmoud Abbas – che male non fa all’ego e al prestigio dell’ospite d’onore, il presidente francese Nicholas Sarkozy. Perché Olmert, che se non si dimette prima verrá probabilmente esautorato a settembre alle primarie per la leadership del suo partito e se non se ne andrá di sua sponte verrà spodestato dall’uscita del partito laburista dalla coalizione di governo, Olmert sta facendo la pace. La pace! Quella con la P maiuscola, tanto per capirci. E sono quisquilie se questa pace poi è una pace che non c’è, perchè l’Autorità Palestinese non ha autorità, il primo ministro israeliano che la deve firmare da qui ad allora non sarà primo ministro, e i contenuti dell’accordo non tengono conto di Gaza – che però a sentire le previsioni del tempo, non conta di sprofondare nel Mediterraneo prima della fine dell’anno. Ma controbattono gli ottimisti, l’accordo, anche se non applicabile immedia-

tamente, potrà essere rispolverato in futuro, quando le circostanze politiche saranno migliori. Una volta firmato, impegnerà governi successivi. E chissà perchè tanti son convinti che questa sia una buona idea. Sarà bene far spazio sugli scaffali degli accordi di pace allora, perché son già fitti di siffatti documenti – Camp David uno e due, Roger, Clinton, Reagan, Baker, Ginevra, Taba, la Roadmap, Tenet, Mitchell e chissà quanti ancora. La pace che non c’è oggi non potrà esserci nemmeno domani. Primo, perché l’autorità dei leader politici che la vorrebbero firmare oggi vale, anche dopo averle messe assieme, meno del due di picche. Secondo, perché i leader palestinesi non hanno il controllo del territorio e della popolazione sui quali devono imporre gli accordi. Terzo, perché quell’accordo quindi non tiene conto di, né risolve la crisi a Gaza. Sognare si può – si deve, nel caso della pace. Ma la realtà odierna è ben lontana da quell’obbiettivo. Non facciamoci illusioni dunque, perché in Medio Oriente le docce fredde diplomatiche finiscono sempre con l’innescare il prossimo conflitto.

non renda il processo di pace vincolato al problema palestinese, senza questa trasformazione è difficile che accada qualcosa di concreto». In pratica Meir suggerisce di non ripetere gli errori del processo di Barcellona, dove gli arabi avevano politicizzato i colloqui legando ogni issue – anche di carattere ambientale - al conflitto palestinese. Gia nel 2007 ad Annapolis si era aperta una porta alla Siria, nel tentativo di sganciarla dall’abbraccio mortale con Teheran. Questo secondo passaggio potrebbe essere quello definitivo verso una maturità politica per Damasco? Israele è scettica e Meir non nasconde che i rapporti con l’Iran sono tutt’altro che recisi. Di più, non pochi analisti vedono come il passo verso Parigi e la comunità internazionale potrebbe essere stato causato da altri problemi. L’economia siriana è in pessime condizioni. Hanno bisogno della Ue e degli Usa per riattivare gli investimenti. Intanto Recip Erdogan è sotto schiaffo, per la prossima sentenza della Corte suprema turca che potrebbe rendere lui e il suo partito, l’Akp, fuorilegge. La Turchia è però un attore sempre più importante, sia nella partita irachena che nel rapporto privilegiato che ha costruito con Israele, proprio negli equilibri con Damasco. La Turchia è un Paese di cui ci fidiamo. È uno Stato islamico con un ruolo molto importante per la stabilità in Medio Oriente e ha una grande influenza nella regione». Meir quindi conferma i buoni rapporti, augurandosi una risoluzione della vicenda che rispetti la volontà turca di essere stabile al suo interno e una chiave per i rapporti regionali. Fuori dalle valutazioni“diplomatiche” e tornando sul terreno della concretezza politica l’ambasciatore sottolinea come ai gesti, ai simboli debbano fare seguito dei fatti. «In Libano la risoluzione Onu 1701, in tutte le sue componenti, va applicata ora. Hezbollah si sta riarmando in tutto il Paese. Ne ho parlato la scorsa settimana durante la visita del ministro degli Esteri Franco Frattini, accompagnato dal nostro ministro Livny. Si deve applicare l’embargo al flusso di armi e smantellare le milizie». Chi vive sulla propria pelle la questione sicurezza pare meno affascinato dai processi generati nell’altra sponda mediterranea, pur apprezzandone lo spirito, almeno fino a quando non si trasformino in azioni concrete per cambiare la vita di un popolo, quello israeliano, da più di sessant’anni in lotta per la sopravvivenza.

Olmert, Abu Mazen, Tzipi Livny e Abu Allah stanno lavorando al negoziato


riforme

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All’atteso seminario delle fondazioni nasce un fronte per una riforma “modello Germania”. Ma il Pdl fa blocco e Veltroni chiude a Berlusconi

L’alleanza tedesca di Errico Novi

ROMA. Alternativa semplice: fare le riforme o disfare un partito. Walter Veltroni ci pensa, ondeggia, capisce che lo spazio non è mai stato così angusto come in queste ore. Ieri ne ha avuto chiara percezione al convegno delle quattordici fondazioni politico culturali celebrato a Roma, alla Residenza di Ripetta, sul riassetto istituzionale. E ha chiamato time out: «Non c’è possibilità di dialogo, Berlusconi vuole fare tutto da solo». Dentro al Pd c’è una solida scuola di pensiero che spinge verso il modello tedesco. Il segretario non la asseconda, ma capisce che l’atto di resistenza può costargli un altro disagio strategico: la convocazione del congresso, con tutti i rischi che ne derivano. «Siamo per il bipolarismo, è scritto nel programma: se vogliamo possiamo riparlarne». È una battuta rischiosa. Più che in termini di maggioranza interna – quella sembra salda nelle sue mani – il problema riguarda il metodo: per difendersi dall’assalto degli ex diesse, Walter dovrebbe irrigidire il sistema di controllo, sconfessare la sua stessa teoria del partito aperto, attrezzarsi per una guerra di posizione che vuol dire alleanza con gli ex popolari (il dipartimento organizzazione è pur sempre affidato al post-dc Beppe Fioroni) e battaglia estenuante da qui alle prossime elezioni politiche.

non può passare senza lasciar segno. Bisogna certificare le divisioni nel luogo più consono, il congresso. Franceschini prova anche a individuarla, una via d’uscita, ma forse non si rende conto di scoperchiare una botola: «Devo avvertirvi che secondo me Berlusconi non è interessato a una legge elettorale che liberi la Lega e complichi il sistema delle alleanze». È vero, ma questo non fa che confermare la prospettiva bellica incombente su Veltroni. Il Cavaliere non può eludere la riforma del sistema di voto, ma rischia di farlo a spese della serenità interna dei democratici. Di qui a meno di un anno si celebrerà il referendum promosso da Giovanni Guzzetta e Mario Segni. Non è scontato che basti il gentleman agreement tra il premier e Bossi per evitare il raggiungimento del quorum. Ancora meglio: il senatùr ha bisogno di garanzie più scientifiche, giacché un successo dei quesiti condannerebbe di fatto il Carroccio alla dismissione del proprio simbolo. E allora una nuova legge serve nel giro di pochi mesi. Silvio non può che trascinare Walter verso una soluzione vicina al modello spagnolo, sufficientemente gradita ai leghisti ma destinata a scatenare conflitti in casa Pd.

D’Alema in pressing su Walter: «Se sul modello non siamo d’accordo parliamone al congresso»

Tanta fatica per scongiurare il proporzionale con sbarramento. Non ci sono vie d’uscita morbide. Lo ha fatto capire ieri, al convegno introdotto da Franco Bassanini, una tagliente battuta di Massimo D’Alema. Appena finita la relazione del veltroniano Stefano Ceccanti, nettamente contraria al tedesco, l’ex vicepremier ha detto a Dario Franceschini: «Mi è sembrata un’ottima piattaforma congressuale». Vuol dire appunto che la diversità di vedute nel Pd

Piuttosto che scoperchiare la botola, la segreteria Veltroni-Franceschini potrebbe optare per una soluzione semplice: aprire al modello tedesco e separare il proprio destino da quello del premier. Non si può certo dare per scontato il fallimento dell’operazione: la Lega è interessata a una riforma elettorale “purché sia” non solo per scacciare lo spettro referendario ma anche per tenere aperto l’indispensabile tavolo

Al convegno organizzato ieri da quattordici fondazioni politico culturali a Roma alla Residenza di Ripetta è stata ribadita la possibile convergenza su un modello elettorale «di chiara impronta parlamentare» tra Udc e parte del Pd, ma Casini ha anche preso atto che con la assoluta indisponibilità del Pdl (attestata ieri da Cicchitto) non si può parlare ancora di riforma del sistema di voto

di trattativa con il Pd sul federalismo. Lo sanno bene dalle parti del Pdl: un passaggio non casuale dell’intervento di Cicchitto al convegno di ieri è stato dedicato al decentramento sollecitato da Bossi. Il tedesco è dunque al centro dei giochi. Perché è una soluzione che renderebbe tra l’altro perseguibile l’ambizione che

molti coltivano nel Pd: costruire l’alleanza con l’Udc.

La chiusura del Pdl testimoniata da Cicchitto costringe Casini a dichiarare la momentanea impraticabilità del campo: «C’è un rifiuto non al 90 ma al 120 per cento, oggi evidentemente non si tratta di fare la legge elettorale». Eppure il leader dell’Udc non rinuncia a ribadire la propria preferenza per un modello di chiara impronta

parlamentare, sostiene che «questo finto bipartitismo ha ridotto gli spazi della vita democratica» e incassa l’approvazione di Francesco Rutelli sul ripristino delle preferenze. Soprattutto, Casini può contare su una solida sponda nel Pd a proposito dello sbarramento per le Europee: «Quella legge deve essere realmente proporzionale, c’è il rischio di un sostanziale vulnus se dovesse contenere, in forma esplicita o implicita, degli

Perché frammentazione e instabilità sono soltanto alibi infondati

Le due bugie di Capezzone ROMA. A furia di trattare la legge elettorale come un campo di battaglia solo virtuale si alimentano curiose mitologie. E si può dire tutto di qualsiasi sistema, assegnare un certo difetto o inesistenti prerogative a ciascun modello. Tanto è invalso l’uso della banalizzazione che ieri persino un politico lucido come Daniele Capezzone ha detto almeno un paio di cose false sul sistema tedesco. Afferma che con una legge simile si restituirebbero «poteri di veto a nanetti e cespugli». Ma dov’è scritto? Ha senso, il proporzionale con sbarramento, se la soglia d’accesso è alta come in Germania, se è del 5 per cento. E oggi con un limite del genere starebbe fuori anche l’Italia del valori. Non si vede dunque per quale via la proposta sostenuta al convegno di ieri potrebbe riaffer-


riforme

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Paola Binetti replica alla sua collega di partito

«La Bindi non è il Pd.E Casini è molto meglio di Di Pietro» colloquio con Paola Binetti di Francesco Rositano

ROMA. Non parla assolutamente di scissioni o da più a sinistra - ha dato di sé il peggiore scena-

sbarramenti elevati». Si riferisce al complesso della proposta del Pdl: non solo un limite segnato al 4 o al 5 per cento, ma anche circoscrizioni accresciute di numero, in modo che il riparto dei seggi limiti il più possibile il peso delle forze intermedie. Dietro la strategia del Pdl c’è un approdo ben individuato dalla relazione di uno dei principali promotori del convegno di ieri, Stefano Passigli: «Regalare al centrodestra un lungo periodo

di sistema a partito dominante». È la principale preoccupazione degli oppositori interni di Veltroni, a cominciare da Massimo D’Alema. Ed è la questione attorno a cui Walter sembra tenuto a ragionare, considerata la seppur tenue disponibilità al negoziato espressa ieri da Roberto Calderoli. Coinvolgere la Lega nella complicata partita è l’unica chance di trasformare l’incombente scadenza referendaria in una opportunità per il Pd.

mare la frammentazione. Il portavoce di Forza Italia dice anche che il modello in questione finirebbe per tenere gli esecutivi sospesi «alla volontà dell’una o dell’altra forza alleata». Cosa che avviene casomai adesso con una legge pure basata sul premio di maggioranza: senza i senatori della Lega il governo non avrebbe numeri sufficienti. Su una cosa l’analisi di Capezzone è oggettiva: quando dice che con il proporzionale si lascerebbero liberi i partiti di fabbricare alleanze post-elettorali. Sarebbe effettivamente così, ma è davvero da dimostrare che il grado di disordine sarebbe superiore a quello potenzialmente assicurato dall’attuale legge. Oggi tutti cercano di entrare in coalizione, per avere una soglia più bassa e guadagnare seggi grazie al premio di maggioranza. Il “tedesco” lascerebbe meno incognite sul tavolo, a parte quella della Lega che nessuno può sciogliere del tutto. Contro il proporzionale con sbarramento si agita un pregiudizio infondato. Con due possibili conseguenze: che la riforma elettorale non arrivi affatto, o che la sua intrapresa costi la frantumazione del Pd.

nuove alleanze. Ma a Rosy Bindi, che in una recente intervista aveva prospettato una possibile uscita di Francesco Rutelli dal Pd, ha replicato: «Stiamo solo valutando delle ipotesi. Nessuno ha mai parlato di bruschi cambi di rotta. Certamente se la possibile allenza del Pd a sinistra coincide con lo spettacolo orribile della manifestazione di Piazza Navona io mi tiro fuori. Stimo Rosy, ma su questi temi la pensiamo diversamente. D’altra parte lei rappresenta solo una parte del partito. Senza parlare del fatto che quello che è accaduto alla manifestazione organizzata da Di Pietro ha trovato la contrarietà di moltissimi dei nostri elettori». Paola Binetti non mette in discussione la sua stima per la collega di partito, ma prende posizione sul percorso che sta portando avanti con i cosiddetti coraggiosi di Francesco Rutelli: «Stiamo lavorando per un riformismo ”alto e forte”, ma che non rinunci ai valori tipici della tradizione margheritina. Quanto ad una intesa con i centristi, aggiunge: «La pensiamo allo stesso modo sull’adozione di un sistema elettorale alla tedesca e su una politica che recuperi la dimensione umana». Onorevole, cosa sta accadendo nel vostro partito? Al convegno di Montecatini, quello dei coraggiosi di Rutelli, si sono approfonditi molti temi, si sono analizzate le cause che hanno provocato l’attuale agitazione all’interno del partito. Ma soprattutto si è cercato cercando di trovare un nuovo punto di partenza nuovo per il Pd. Lo scopo è quello di dare al partito quella dimensione fortemente innovatrice sul piano delle riforme, ma anche assolutamente radicata a dei valori e dalle tradizioni proprie dell’ex Margherita. E per questo stiamo sperimentando anche la via del dialogo con altre forze, come ad esempio l’Unione di Centro. Una volontà che abbiamo dimostrato invitando a Montecatini due suoi esponenti: Savino Pezzotta il primo giorno e Bruno Tabacci il secondo giorno. Una strada che sta portando risultati, visto che su diversi temi, come l’adozione di un sistema elettorale alla tedesca ci troviamo d’accordo. E vogliamo continuare su questa strada di intesa sul campo. Ma la sua collega ha prospettato ipotizzato che Francesco Rutelli stia pensando di uscire dal Pd? Queste sono boutade bindiane. Voglio dire che a Montecatini nessuno ha parlato di uscita; tutti hanno parlato di lavorare al futuro del Paese senza trascurare i valori tipici della tradizione margheritina. Non dimentichiamoci che solo pochi giorni fa l’altra alternativa al Pd - quella che guar-

rio che si potesse vedere. Non è possibile che l’alternativa all’alleanza con l’Unione di Centro sia la Piazza Navona: direi che soltanto questa ipotesi mi fa tremare le vene e i polsi. E questo rende ambiguo lo stesso Partito democratico. La Bindi ha una sua prospettiva rispettabile, anzi rispettabilissima. La Bindi come sempre è una persona di grande intelligenza, di grande passione politica, di grande convinzione nelle sue scelte. Ma direi, che a parità, mi conservo passione, convinzione e determinazione nelle proprie scelte. Ma non siete d’accordo nemmeno sul rapporto con Di Pietro e con la sinistra radicale, Ribadisco: lei sostiene le proprie idee, io sostengo le mie. Delle idee sulle quali so di avere moltissimi compagni di strada: tutti quelli che erano a Montecatini, superiore ad ogni aspettativa. Ma anche ampia parte del Paese. Pure perché una vasta percentuale di elettori del Pd ha provato orrore per la manifestazione di Piazza Navona. E sulle alleanze che farete? Non è un problema che dobbiamo sciogliere oggi. È un problema di fronte al quale abbiamo due alternative: o cresciamo verso il centro o cresciamo verso sinistra. In questo momento i fatti dimostrano che l’apertura verso sinistra ha creato uno spettacolo non condivisibile dalla stragrande maggioranza di noi. Ma se si continua in questo modo la spaccatura è inevitabile Dipende dalla capacità di negoziare, dalla capacità di mediare. E poi non vorrei che si facessero inutili semplificazioni. La Bindi ha espresso il suo parere. Ed è il parere dei ”bindiani”. Ma quanto sarà il parere dei bindiani? il 10% del Pd. Quel di cui sono fermamente convinta è che bisogna sperimentare. E per ora gli esperimenti che abbiamo fatto hanno generato a sinistra un luogo di confronto non condivisibile in nessun modo. Niente di quello che è uscito da quella piazza è condivisibile.Viceversa, nell’assise dei ”coraggiosi” con Pezzotta e Tabacci abbiamo intravisto alcuni punti di convergenza con i centristi. E quali sono? Tre punti cardine. Primo: l’autentica volontà di varare riforme funzionali ai bisogni del Paese. Secondo: le comuni radici di un’antropologia comune.Terzo: le affinità che nascono dalla stima reciproca, dalla lealtà a ricostruire. Quella semplicità e la dimensione umana della politica, che comunque rappresenta un tessuto preziosissimo su cui lavorare e con cui lavorare.

Non è possibile che l’alternativa all’alleanza con l’Unione di Centro sia la Piazza Navona: la sola ipotesi mi fa tremare i polsi


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politica

Parla il segretario del Siulp: «Giovedì in piazza contro i tagli», mentre viene posta la fiducia sul decreto sicurezza

«Il governo ci ha tradito» Nel ruolo di “paladina” della sicurezza

Povera An, la Lega ti ha rubato il posto! di Franco Insardà lleanza nazionale schiera in difesa il ministro Ignazio La Russa, con tanto di mimetica. Ma è soltanto un’operazione d’immagine per tentare di parare i colpi che sul governo e sul partito di Fini arrivano dai sindacati di polizia. La delusione è forte. An, da sempre al fianco degli uomini in divisa, assiste inerme ai tagli previsti per il triennio 2009-2011. E pensare che qualche mese fa, era il primo dicembre 2007, a Milano proprio Ignazio La Russa e il vicesindaco, Riccardo De Corato, erano in corteo con migliaia di agenti che protestavano per i tagli previsti dal governo Prodi. Con la vittoria del Pdl le sigle sindacali delle forze dell’ordine e gli agenti hanno sperato che le cose potessero cambiare, anche perché quello della sicurezza era stato uno dei principali cavalli di battaglia della campagna elettorale. Qualche giorno fa il capogruppo a palazzo Madama, Maurizio Gasparri, aveva tentato di rassicurare le forze dell’ordine sui tagli: «la loro presenza sul territorio è essenziale. Il mantenimento degli organici sono una priorità». Ma gli agenti non ci hanno creduto e giovedì saranno tutti a protestare davanti alle questure e al Viminale. Ma l’elemento da sottolineare è che a prendere le loro difese sia ormai più la Lega, ancora dotata di un potere d’interdizione, che An. Infatti il Carroccio, come ha dichiarato il capogruppo alla Camera, Roberto Cota, presenterà un emendamento al decreto di legge 112 che prevede l’istituzione di un fondo speciale per la sicurezza. «Pensiamo ad uno stanziamento di un miliardo di euro l’anno. Vogliamo dare alla gente e alle forze dellordine un segnale». Effetti di un partito unico ancora virtuale, ma capace di cambiare ruoli consolidati.

A

colloquio con Felice Romano di Francesco Capozza

ROMA. Forze dell’ordine e militari sul piede di guerra: la manovra finanziaria comporterà, infatti, la riduzione di 40.000 uomini in divisa nei prossimi tre anni. Le organizzazioni attendevano un segnale di correzione di rotta nel Consiglio dei ministri della scorsa settimana che però non ha affrontato il problema e così è partita la mobilitazione. Giovedì ci sarà un volantinaggio davanti a questure e caserme e poi anche una manifestazione nazionale, entrambi organizzati da tutte le sigle sindacali della polizia e dai Cocer delle forze armate. Il clima si è fatto ancor più incandescente, anche all’interno del ”Palazzo”, dopo l’annuncio, dato a fine serata dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, che il governo porrà in aula la questione di fiducia sul Dl sicurezza. Nel mirino dei sindacati il decreto che, accusano,“ contiene solo tagli, riduzioni di spesa e nessuna forma di investimento”.Un taglio che ammonta, nel triennio, ad oltre tre miliardi di euro sui capitoli della Sicurezza e della Difesa. Ciò, lamentano i sindacati,“impedirà l’acquisto di autovetture, di mezzi, nonché la possibilità di avere risorse sufficienti per l’addestramento, per rinnovare le armi in dotazione, per l’acquisto di munizioni, divise e per l’ordinaria manutenzione degli uffici”. La riduzione di organico comporterà inoltre “ migliaia di operatori in meno sul territorio, con conseguente riduzione dei servizi e dei controlli”. Felice Romano, dallo scorso maggio segretario generale del Siulp ( Sindacato unitario lavoratori di polizia), sembra essere molto determinato nel portare avanti la protesta dei lavoratori in divisa. Seggretario, il decreto ”sicurezza” arriva in aula alla Camera, la sua è una denuncia o un appello che rischia di cadere nel vuoto? Innanzi tutto mi permetta una premessa: questa è la prima volta che tutti i sindacati e tutti i Cocer del comparto Sicurezza e Difesa si uniscono in un’unica manifestazione – unanime- di condanna nei confronti di un provvedimento governativo. Detto questo, il decreto in questione taglia un miliardo di euro solo alla polizia e ciò porterà ad un collasso della parte operativa del sistema sicurezza, con il dimezzamento delle volanti sul territorio e la chiusura di oltre un terzo dei commissariati. Questo vuol dire meno agenti di polizia a servizio del cittadino? In cinque anni ci saranno 7.000 poliziotti in meno che, sommati agli attuali 9.000 vuoti d’organico, porteranno il deficit di agenti a 16.000 unità. Con le risorse che abbiamo a disposizione attualmente ad ottobre non saremo più in grado di riparare i mezzi e di rifornirli di carburante, con i tagli previsti nel decreto sicurezza non supereremo il mese di luglio!”.

Il governo ha posto la fiducia alla Camera sul decreto legge sicurezza che secondo i sindacati ”contiene solo tagli, riduzioni di spesa e nessuna forma di investimento”. Sopra il ministro della Difesa, Ignazio La Russa Nelle sue parole avverto un po’ di delusione per quello che sta facendo questo governo nei confronti delle forze dell’ordine. Mi sbaglio? Vi aspettavate una politica diversa? Certamente, ci aspettavamo una boccata d’ossigeno invece ci tagliano ulteriormente le già insufficienti risorse. Negli ultimi anni si sono alternati alla guida del Paese governi di centrodestra e di centrosinistra. L’unica nota in comune di entrambi gli schieramenti è il fatto che la sicurezza non viene mai risparmiata dalla mannaia che regolarmente, ad ogni cambio di governo, si abbatte sulla Pubblica Amministrazione. Tutti hanno ben chiaro, ormai, che la sicurezza deve essere considerata un investimento da potenziare e non un costo da eli-

una protesta così forte non si era mai vista prima d’ora. Quello che ci motiva è la sicurezza del cittadino. Lo sa che se questo decreto passa così com’è, se un agente di polizia si gettasse – faccio un esempio concreto- in un fiume per salvare un cittadino in pericolo di vita e disgraziatamente si ammalasse, gli verrebbero trattenuti da un minimo di 40 ad un massimo di 70 euro per ogni giorno di malattia? Lei, sapendo questo, si butterebbe? Ripeto, è la sicurezza dei cittadini che ci sta a cuore. Quindi la protesta continua, e in che forma? Abbiamo già dimostrato davanti a Montecitorio e giovedì prossimo faremo volantinaggio in tutta Italia, davanti a tutti gli uffici pubblici statali. Compresi, ovviamente, palazzo Chigi, Camera, Senato e Ministero dell’Interno. Un ultimo tentativo di dialogo? Mercoledì incontreremo il ministro dell’Interno Maroni. A lui manifesteremo il disagio di migliaia di agenti delle forze dell’ordine che sono delusi da un governo che in campagna elettorale li aveva rassicurati ed ora, invece, taglia i fondi per i loro stipendi e ridimensiona di migliaia di unità la loro compagine. Gli diremo anche che noi non aspettiamo il prossimo governo per ricercare le responsabilità e che per quanto ci riguarda la colpa di questo taglio da un miliardo di euro alle nostre retribuzioni, ai nostri strumenti di lavoro ed ai nostri organici è da ascrivere unicamente alla responsabilità di questo governo, quello che vede Roberto Maroni ai vertici del nostro ministero. Se dovesse fare un appello al presidente Berlusconi? Gli direi come Gian Giacomo Trivulzio disse al suo sovrano: «Signore, per poter far bene la guerra e per difenderci occorrono tre cose: denaro, denaro e ancora denaro». A questo punto non resta che puntare i riflettori sul parlamento, con il rischio che le nostre forze dell’ordine rimangano a piedi!

È la prima volta che tutti i sindacati e tutti i Cocer del comparto Sicurezza e Difesa si uniscono in una manifestazione. Il decreto taglia un miliardo solo alla polizia minare, eppure, immancabilmente, all’indomani delle elezioni si presenta sempre lo stesso identico problema: si taglia sugli strumenti, sugli straordinari, si taglia sigli organici. E quando la misura è colma e la situazione sta per esplodere il governo in carica non trova niente di meglio da fare che dichiarare : “sicurezza in crisi per mancanza di fondi? Tutta colpa del governo precedente”. In effetti voi eravate critici anche con il governo Prodi, dicevate che vi toglieva i soldi per la benzina… Certo, ed era vero. Ora, il governo Berlusconi ci toglie anche gli uomini per guidare le volanti. Nei prossimi tre anni, anche con soluzioni previdenziali di dubbia opportunità, il personale sarà ridotto di 40.000 unità. Una follia nei termini e nei modi: torneranno a esserci i “baby pensionati”. Che cosa vi motiva tanto? Infondo


politica

15 luglio 2008 • pagina 7

Tangenti-sanità per milioni di euro in Abruzzo, in manette anche due assessori. Polemiche con i pm sulla misura estrema

L’arresto (inutile) di Del Turco d i a r i o

di Marco Palombi

d e l

g i o r n o

ROMA. «La settimana prossima si bevono Del Turco».

Statali: i sindacati abbandonano il tavolo

Era un anno e mezzo almeno che questa frase circolava tra parlamentari e giornalisti abruzzesi e alla fine la settimana giusta è arrivata. È questa. Nel frattempo, però, il governatore dell’Abruzzo s’era beccato già un’avviso di garanzia, e il Partito democratico – che governa la Regione, tutte le Province e quasi tutti i maggiori comuni – aveva visto squagliarsi il suo gruppo dirigente sotto i colpi delle inchieste dell’agguerrita Procura di Pescara. La verità è che il tanto decantato modello Abruzzo – grazie al quale il centrosinistra era riuscito a sfondare in una regione dalla solida tradizione moderata – pare rivelarsi non altro che la discesa a patti con il vecchio blocco di potere e mostra la sua natura politicista e, letteralmente,“impopolare”: già si sprecano, infatti, i paragoni con il blitz ai danni della giunta Salini nel 1992, tra cui figurava, scherzi del destino, Domenico Tenaglia, padre dell’attuale Guardasigilli ombra del Pd.

Sul pubblico impiego si riapre lo scontro tra governo e sindacato. Dopo che il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, ha annunciato che saranno gli enti locali a decidere l’entità degli stipendi, i sindacati hanno fatto sapere in una nota che «non ci sono le condizioni per aprire il negoziato per il rinnovo contrattuale nel pubblico impiego». Alla base del contendere i 70 euro di aumenti previsti per il 2009. Come hanno annunciato, le sigle si attendono «risposte adeguate» dal governo altrimenti ci saranno «iniziative di lotta da attuare nel mese di settembre».

Villa Certosa, nessun abuso del premier Un condono, tra l’altro fatto dal suo governo, evita a Silvio Berlusconi l’accusa di reato ambientale per i lavori a Villa Certosa. «Vi ricordate i miei presunti reati ambientali in Sardegna? Mi è appena arrivata una telefonata dell’avvocato che mi ha detto che sono stato assolto perché il fatto non sussiste», ha fatto sapere il premier. Intanto il deputato del Pd, ed ex presidente di Legambiente, Roberto Della Seta, ha presentato un’interrogazione parlamentare alla Prestigiacomo per sapere se nella villa siano stati commessi abusi dopo l’approvazione del condono.

Per questo la prima e più illustre vittima “politica” di questa tangentopoli locale non è Ottaviano Del Turco, che ha un ruolo assai più difficile e persino fisicamente impegnativo, ma Franco Marini, padre nobile del Pd e ago della bilancia all’ombra del Gran Sasso. Concentrare l’attenzione solo sull’indagine deflagrata ieri sarebbe un errore. In Abruzzo tutti sanno che il castello crollava già da un paio d’anni, cioè a far data dal primo arresto di Giancarlo Masciarelli, ex presidente della finanziaria regionale in quota centrodestra: era il 27 ottobre 2006 e il giorno prima, riportano le cronache, Masciarelli aveva mangiato capretto a casa sua insieme a Del Turco e altri membri della Giunta, dando il via – a parere degli inquirenti - alla spartizione illecita che ha scatenato gli arresti di ieri. Nel frattempo in carcere, per un’altra storiaccia, era finito pure l’ex sindaco di Montesilvano, Enzo Cantagallo, grande elettore e amico di Marini: era la primavera dell’anno scorso e Cantagallo, guarda i casi della vita, si ritrovò a condividere la cella nientemeno che con Masciarelli. Un anno dopo, siamo al maggio di quest’anno, finisce invece sotto inchiesta per una vicenda di tangenti legate ad una speculazione edilizia Guido Dezio, dirigente del comune di Pescara e braccio destro del sindaco Luciano D’Alfonso, che poi risulterà indagato anche lui in almeno due inchieste. La storia di D’Alfonso peraltro, sebbene di minore impatto mediatico rispetto all’arresto di Del Turco, è la cartina di tornasole del fallimento politico del Pd abruzzese: il sindaco di Pescara infatti, ex Ppi, negli anni Novanta giovanissimo presidente della provincia, è il delfino di Franco Marini, tanto da essere diventato, a ottobre 2007, segretario regionale del partito.

Maroni: non schederemo gli studenti Dopo le accuse dell’Arci, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni smentisce di voler schedare studenti stranieri e Rom iscritti alle scuole italiane. «Sono accuse false e destituite di ogni fondamento», spiega, «Ho deciso di non rispondere piu’ agli insulti, compreso quest’ultimo dell’Arci che definisce la nostra azione come discriminatoria e razzista. Non posso più accettare come ministro di essere trattato in questo modo sulla base di accuse false». Secondo Maroni l’associazione ha fatto e sta facendo «una campagna denigratoria e d’ora in avanti presenterò querela per diffamazione».

Lampedusa, affonda gommone

Così il nuovo modello si è compromesso con metodi e uomini del vecchio sistema democristiano

Adesso questa nuova inchiesta coinvolge la Giunta in brutte storie di rimborsi sanitari (comparto che era, al 2006, l’84 per cento del bilancio regionale) e porta in carcere l’altro uomo forte del potere abruzzese, l’ex socialista che con soldi illeciti voleva spaccare il suo vecchio partito e acquisire potere nel nuovo. Da questo breve, e incompleto, riassunto si capisce come il Pd, e le più rilevanti istituzioni regionali che esso guida, non possano che essere allo sbando. Giova essere chiari: il problema non sono le responsabilità penali, che non spetta alla stampa accertare, ma il modello di sviluppo e gestione del potere – poco trasparente e per nulla meritocratico, per gli amanti degli eufemismi –

che da anni finisce sotto le lenti della magistratura.

Inevitabile interrogarsi su un voto anticipato che non ha molte alternative. Si cerca di capire quanto sta “cantando” Vincenzo Angelini, il ras della sanità che da più di un mese collabora coi magistrati. L’inchiesta, dicono fonti ben informate, è solo all’inizio e potrebbe riportare in auge quella che, nell’italiano creativo dell’allora pm Di Pietro, venne chiamata “dazione ambientale”. Le tangenti, sono convinti i pm, assommano a circa 6 milioni di euro e non sono occasionali: fanno parte di un sistema di gestione della cosa pubblica. Di certo nell’elenco delle persone da arrestare figurano anche l’assessore alle Attività produttive Antonio Boschetti, il capogruppo Sdi in Consiglio regionale Camillo Cesarone e, seppur destinato ai domiciliari, l’assessore alla Sanità Bernardo Mazzocca. A Roma, intanto, lamenta l’eccessiva durezza delle misure ma si concentra soprattutto sulle alleanze da rinnovare. E chissà che qualcuno non si ricordi che la maggior parte delle inchieste che stanno mettendo in croce il partito in Abruzzo hanno avuto origine dal leader regionale di Rifondazione, l’ex deputato Maurizio Acerbo. Dagli amici mi guardi Dio.

Tre cadaveri sono stati recuperati a largo di Lampedusa dalla nave “Fenice” della Marina Militare. Il gommone su cui viaggiavano si sarebbe ribaltato a causa dell’agitazione scoppiata tra i passeggeri che hanno visto avvicinarsi l’unità militare. Sul natante c’erano almeno 76 persone, delle quali 48 tratte in salvo. Sono andate avanti per tutta l giornata le ricerche degli altri dispersi. L’incidente sarebbe stato causato dalle cattive condizioni meteo nel Canale di Sicilia, con mare forza 4 e il vento a 17 nodi. Sempre nella mattinata di ieri sono sbarcati sull’isola 27 clandestini, giunti a bordo di una barca di legno di piccole dimensioni.

De Magistris: respinto ricorso del pm La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal pm Luigi De Magistris contro le decisioni del Csm di trasferirlo d’ufficio. «Esco da questa vicenda a testa alta, anche se molto amareggiato. Le modalità con le quali si e’ svolto il processo disciplinare e l’esito di uno dei procedimenti presso la procura di Salerno, rendono comunque evidente a tutti come stanno le cose». L’organo di autogoverno della magistratura ha disposto il trasferimento di sede e funzioni del magistrato nell’ambito del procedimento disciplinare avviato a suo carico in relazione alla gestione di alcune importanti inchieste, mentre la Procura di Salerno, competente territorialmente su vicende riguardanti i magistrati del distretto di Catanzaro, aveva chiesto nei mesi scorsi il proscioglimento sul piano penale rispetto alle accuse mossegli, evidenziando un clima di ostilità che si sarebbe creato nel palazzo di giustizia della città calabrese nei suoi confronti. De Magistris si dice comunque pronto a continuare la sua opera di magistrato: «Non farei una scelta diversa».


società

pagina 8 • 15 luglio 2008

Matrimonio dei preti, emergenza educativa, dialogo ecumenico. Parla monsignor Piacenza

Una folla da evento rock a Sydney

«Non siamo politici, sul celibato non si cambia»

La generazione controcorrente

colloquio con monsignor Mauro Piacenza di Francesco Rositano

E sì, perchè la cultura occidentale giovanile è stata fortemente condizionata ed indirizzata da una serie di immagini legate al ’68, a Woodstock, a quei riti di cui abbiamo appreso tutto dopo un’indigestione culturale durata quarant’anni. Non intendo fare discorsi da “bacchettona”, ma è certo che la risonanza dell’evento di Sidney non sarà neppure lontanamente paragonabile a quella del raduno di Woodstock, eppure i numeri sono notevoli e la sua capacità di determinare in positivo l’evoluzione della società è altrettanto notevole. Oggi il Papa è simbolo di unità religiosa e culturale insieme, ed affida il suo messaggio a coloro i quali, i giovani, sono forse gli unici a non essere oberati da sovrastrutture ideologiche. Non è necessario essere cristiani per apprezzarne il valore. E’ necessario essere donne e uomini. Milioni di giovani affollano le città dove ogni due-tre anni si svolge il raduno mondiale. Le cattolicissime Buenos Aires, Santiago de Compostela (pre-zapateriana) e Czestochowa (postcomunista), la Denver cuore degli Stati Uniti, racchiusa tra la tradizione agricola legata alla religiosità cristiana e le Montagne Rocciose, cordone culturale che unisce l’America dal Canada al New Mexico, la Manila cristiana, minacciata ed insanguinata dai separatisti musulmani del Milf, la Parigi contesa tra il laicismo illuminista, il cattolicesimo e lo scissionismo lefebvriano, Roma, la città della “prima Pietra”, la Toronto crocevia di sentimenti anglicani, francofili e cattolici, la Colonia cara a Benedetto XVI e fiera avversaria di Lutero, ed ora Sidney, città del nuovissimo mondo, dalle origini anglicane ma oggi fortemente cosmopolita e multiculturale, “carezzata” dall’integralismo musulmano di origine indonesiana. Tutte queste città, dal 1987 ad oggi, sono state letteralmente invase da fiumi di ragazzi provenienti da tutto il mondo, anticonformisti, fieri, trasgressivi, la cui calamita non era una rockstar, ma due uomini di fede capaci di trascinare moltitudini di persone. Non so dire se questa generazione sia migliore o peggiore delle precedenti, ma certamente si muove controcorrente.

olti giovani oggi mancano di speranza. Rimangono perplessi di fronte alle domande che si presentano loro sempre in modo più incalzante in un mondo che li confonde». Come al solito Benedetto XVI va dritto al punto. E, alla vigilia del grande raduno dei giovani di tutto il mondo a Sydney, ha lanciato un suo appello. Un monito diretto ai ragazzi, che ha invitato a non perdesi in false speranze. Ma anche un invito implicito alla Chiesa universale ad accompagnare con sempre più responsabilità gli adulti di domani. Monsignor Mauro Piacenza, arcivescovo e segretario della Congregazione per il clero, riflette sulla missione della Chiesa e sulle grandi questioni d’attualità che riguardano i suoi pastori. Eccellenza, a suo avviso qual è il ruolo dei sacerdoti in quella che lo stesso Pontefice ha definito “emergenza educativa”? La nostra epoca vive, certamente una vera e propria emergenza educativa e credo che questa circostanza richiami, innanzitutto i sacerdoti, a riscoprire la forza e la centralità, nel ministero, dell’educazione. Da sempre la Chiesa è stata “educatrice” del popolo, è dunque urgente e necessario, anche come clero, tornare ad educare, con forza e convinzione, innanzitutto con l’esempio, il quale si irraggia come primo elemento pedagogico. È necessario poi tornare a dare certezze, riferimenti forti, capaci di orientare l’esistenza degli uomini del nostro tempo e, soprattutto dei giovani. Per ogni Sacerdote, questi riferimenti e queste certezze sono una Persona: Gesù di Nazareth, Signore e Cristo. Alcuni episodi recenti hanno riacceso il dibattito sul celibato dei sacerdoti. Qual è la posizione della Chiesa a riguardo? Il Celibato è un dono e si legge nell’ottica di una singolare ricchezza, un tesoro particolarmente consono alla stessa ontologia del sacerdozio ordinato. Tra infedeltà alle esigenze del proprio stato e celibato, non c’è nesso. I tesori di famiglia non si svendono. Per risalire la china, dopo qualsiasi situazione negativa, si deve sempre porre attenzione ed accento sulla fede forte, chiara, luminosa. La fede illuminata da una sana e sinfonica panoramica dottrinale, accende gli affetti, muove ai più alti ideali missionari, e allora tutto il quadro tiene. Allora si trova la strada giusta anche per le vocazioni. La fede muove anche l’ascesi, la fede fa crescere nella fortezza e questa induce anche al coraggio delle riforme, quelle vere, cioè che fanno camminare sulle vie dell’ideale evangelico, sulle vie dello Spirito di Dio, e non sulle vie dello Spirito del mondo. Da tempo, la Santa Sede sta affrontando il rapporto tra la Chiesa Cattolica e la comunione anglicana. I re-

«M

La gente è stufa di ecclesiastici secolarizzati, politicizzati, orizzontalizzati. La politica, in se stessa, è nobilissima arte finalizzata al bene comune, ma la si deve lasciare in mano a chi ne ha il mandato centi fatti che hanno scosso quest’ultima – nello specifico la possibilità di far accedere le donne al ministero episcopale e la situazione dei preti gay - quanto potranno frenare gli sforzi verso l’unità tra le due confessioni? Gli autentici sforzi ecumenici partono dalla preghiera, sono “impastati” nella preghiera e sono mossi da intenti di prioritaria fedeltà alla Divina Rivelazione, alla Tradizione e sono contraddistinti da una carità ardente e non di maniera, quella che vuole il vero bene dell’interlocutore. Non sarà mai l’opinione pubblica dominante, o ritenuta tale in forza del cicaleggio mediatico, a costituire il luogo teologico del vero dialogo ecumenico. Esso è possibile solo ed unicamente i Gesù Cristo. Infine c’è il rapporto tra ministero sacerdotale e politica. Soprattutto in America Latina abbiamo assistito a quanto esso sia delicato. Prima la decisione di monsignor Fernando Lugo di candidarsi alle presidenziali del Paraguay e di abbandonare così il ministero episcopale; poi la situazione recente del Venezuela, dove alcuni esponenti cattolici e anglicani, hanno annunciato di voler dar vita ad una nuova comunità religiosa che sostiene gli ideali del “socialismo bolivariano’’ del presidente Hugo Chavez. Cosa anima queste tendenze? Le vere intenzioni dei singoli le vede solo Dio, noi possiamo solo dire che a ciascuno, nel Corpo Mistico della Chiesa, compete ciò che è specifico della propria identità. Il rito di ordinazione dei sacerdoti e quello dei vescovi dicono rispettivamente: «Volete celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo secondo la tradizione della Chiesa, specialmente nel sacrificio eucaristico e nel sacramento

In alto a sinistra Benedetto XVI all’arrivo in Australia, dove si trova per la Giornata mondiale della gioventù. Qui sopra, monsignor Mauro Piacenza, arcivescovo e segretario della Congregazione per il Clero

della riconciliazione» […] «Vuoi predicare con fedeltà il Vangelo di Cristo?; Vuoi pregare, senza mai stancarti, Dio onnipotente per il suo popolo santo […]?». È questa identità che trova espressione giuridica nel Codice di Diritto Canonico che recita: «È fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile» (Can. 285 § 3). I Sacri Pastori favoriranno lo sviluppo delle coscienze cristiane dei fedeli laici, piuttosto che occuparsi personalmente della “cosa pubblica”. La gente – a meno che non ne tragga interesse di parte – è stufa di ecclesiastici secolarizzati, politicizzati, orizzontalizzati. La politica, in se stessa, è nobilissima arte finalizzata al bene comune, ma la si deve lasciare in mano a chi ne ha il mandato. Il Sacerdote non riceve mandato dal popolo, perché ne ha ricevuto uno, ben più alto, da Dio stesso. Piuttosto si può osservare che lo stesso ministero pastorale avrà dei riverberi politici perché induce a scelte che, occasionalmente, potranno essere più vicine ad una parte e più lontane da un’altra. È chiaro che la concezione della famiglia, la visione antropologica, la visione della sacralità della vita e della sua assoluta intangibilità, quella del creato e così via, sono temi afferenti ad una visione morale che avrà riverberi notevolissimi anche in politica. Ma occuparsi di ciò è fare morale e non politica, per i ministri sacri.Talvolta accade che alcuni politici si occupino di “morale”, più che ecclesiastici di “politica”.Va tenuto presente, comunque, che la legittima autonomia della politica non significa assenza di riferimenti morali. Uno stato sanamente laico sa valorizzare tutti quegli elementi, da qualsiasi parte vengano, che concorrono al vero bene comune, che è al centro della dottrina sociale della Chiesa.

di Giorgia Meloni segue dalla prima


scenari

15 luglio 2008 • pagina 9

L’analisi di uno dei banchieri più noti d’Italia che preferisce mantenere l’anonimato

La crisi è grave, come nel ‘29 «Non so se Berlusconi è all’altezza, forse Tremonti è meglio» di Giancarlo Galli l Gran Banchiere che mi ha concesso udienza non nasconde le preoccupazioni. Giovedì 10 luglio a Milano il cielo era sereno, i turisti erano arrivati in buon numero, anche se i commercianti si lamentavano e la Notte bianca dello shopping a prezzi di saldo aveva un po’deluso. Sull’orizzonte della finanza, invece, nubi minacciose: la borsa è da settimane scossa da continue grandinate di vendite ed il barometro lascia poche speranze. Certo, le cose vanno malissimo ovunque, dall’Atlantico a al Pacifico; e la vicina Svizzera s’è trasformata nel Porto delle Nebbie. Altro che terra di rifugio: le sue maggiori istituzioni bancarie vanno cumulando svalutazioni, ed il loro avvenire pare incerto. Mal comune non fa comunque mezzo gaudio. Anzi. L’illustre interlocutore non fa mistero delle sue ansie. Spiega che in Italia avevamo coltivato l’illusione di essere ai margini della tempesta. Questo perché s’è continuato a ripetere che il problema stava nei mutui subprime, mentre in realtà il marcio finanziario è risultato ben più esteso. «E nessuno è ancora in grado di stabilire quanto sia profondo il pozzo nero», precisa.

I

Ecco la delicata questione. Ormai da troppi anni, diciamo dall’inizio del XXI secolo, o se vogliamo dall’11 settembre del terrorismo (2001), il sistema finanziario si è praticamente sottratto ad ogni controllo con l’ambiziosa pretesa di sostituirsi, nel ruolo di protagonisti, all’economia reale, finanzieri e banchieri (due volti della stessa medaglia), si sono concessi ogni sorta di licenza. Nel convincimento, rivelatosi folle o quantomeno azzardato, che la leva dello sviluppo vada ricercata non nell’intraprendenza in-

L’Italia è debole nel contesto internazionale. La ristrutturazione è sicuramente urgente

dustriale, nell’innovazione, nella produttività-competitività, bensì “facendo correre” il danaro. Attraverso l’indebitamento.

Si sono indebitate le banche, le industrie, in una giostra di fusioni-acquisizioni; si sono indebitati i cittadini, coi mutui, il credito al consumo. D’un tratto, il castello ha preso a scricchiolare, e non poteva essere diversamente, es-

sendo la Finanza rimasta vittima di un imperdonabile peccato d’orgoglio: ritenersi in possesso di una bacchetta magica capace di trasformare il danaro (di carta o addirittura semplici numeri sul computer), in vera ricchezza. Eppure esistevano, teoricamente, migliaia di sentinelle. Organismi di controllo, banche centrali, rivelatesi in realtà dormienti o, c’è da temere, complici della sbronza collettiva.

Fin qui, siamo tuttavia alla fotografia del presente, che in troppi, ai più alti livelli, si sono sforzati di mantenere sfuocata, con esercitazioni dialettiche improntate ad un irrealistico e drogato ottimismo. «Al contrario un numero crescente di indizi, ci induce a ritenere non avventati i richiami di coloro, bollati quali Cassandre, che vanno denunciando un inquietante parallelismo fra la Grande Crisi degli anni 1929-1935, e l’attuale», dice a denti stretti il Gran Banchiere. «Vorrei sbagliare ma…», sospira. E allora? Il raffronto storico esige un approfondimento sul modo in cui il capitalismo (nonostante fosse, all’epoca, incalzato dal comunismo), seppe uscire dal guado. A quali prezzi però! Innanzitutto, la fuga nell’opzione militare, che sfociò nella Seconda guerra mondiale. «Vogliamo chiudere gli occhi innanzi a ciò che sta avvenendo in Medio Oriente? Un conflitto con l’Iran è

ben più di un’ipotesi. Ed i conflitti si sa come iniziano ma non come si sviluppano. Comunque, le economie di guerra rispondono a logiche proprie: scompongono e ricompongono», precisa il mio interlocutore. Che passa al secondo punto: «Una crisi di questa portata può mettere in discussione i metodi della democrazia. In emergenza, gli eccessi di pluralismo dialettico, non sono ammessi. E non v’è dubbio che oggi, in troppi casi, la democrazia più che una virtù appare un freno, un ostacolo alla solu-

Tremonti viene definito un colbertista e Colbert non fu antesignano di Keynes?

zione dei problemi. L’assemblearismo, la piazza si vanno trasformando in un boomerang; la gente comincia ad invocare Qualcuno che decida…». E l’Italia? «Noi siamo particolarmente deboli nel contesto internazionale. Vi è assoluta urgenza di una ristrutturazione industriale e nelle infrastrutture che coinvolga politici, banche, imprenditori, sindacati. Inconcepibile che

per essere competitivi le grandi industrie debbano trasferire gli stabilimenti nell’Est europeo o in Oriente; e per le piccole e medie imprese ricorrere al lavoro nero, all’evasione fiscale».

Come se ne esce? «Avendo rivisitato il passato, cioè la Grande Crisi, studiato Keynes, ritengo che questo capitalismo e non mi riferisco solo all’Italia, abbia il fiato corto.Tocca allora alla politica farsi avanti, lo Stato ritrovando un ruolo in economia. Con una presenza dinamica, non creativa, clientelare o di risulta. Negli anni Trenta fu l’Iri. In un prossimo domani, ed il pensiero va subito, come esempio, ad Alitalia, a qualcosa del genere. I banchiere dovrebbero fare la loro parte. Non foss’altro perché nessuna banca può prosperare in un Paese in declino». I politici attuali sono all’altezza di questa sfida, ammesso che la ricetta sia giusta e non velleitaria? «Su Berlusconi ho perplessità, ma il ministro Tremonti probabilmente sì. Non viene forse definito un colbertista, e Colbert non fu antesignano di Keynes? Se qualcuno, anche dalle opposizioni, gli tendesse una mano…».


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BELFAST. Gli anniversari, si sa, sono giorni carichi di simboli e significati. In Irlanda del Nord il 12 luglio è uno di quei giorni, l’occasione in cui viene celebrata la vittoria del protestante Guglielmo d’Orange sul re cattolico Giacomo Stuart nella battaglia di Boyne del 1690. Una data in cui gli odi mai sopiti tra unionisti e repubblicani, protestanti e cattolici, sudditi di sua maestà e cittadini della repubblica irlandese, scoppiano nuovamente sfociando in scontri e violenze. Nell’Europa del Terzo millennio c’è ancora uno stato diviso in due; città dove quotidianamente si continua a respirare un’atmosfera di settarismo e divisione. Le sei contee del nord d’Irlanda, il cosiddetto Ulster, rimangono infatti tristemente famose per i continui scontri tra chi vorrebbe un unico stato sotto il governo di Dublino e chi, invece, vuole rimanere sotto la Corona della casata inglese. Il 12 luglio rappresenta insomma, oggi come ieri, un detonatore che fa scoppiare ogni anno violenza e odio. Per comprenderne il livello, basti pensare che tra la fine degli anni ’60 e il 1998, quando sono stati siglati gli accordi di pace del Venerdì Santo, a perdere la vita solo state oltre 3.600 persone. Dopo la decisione dei cattolici nel 2007 di entrare a far parte delle forze di polizia nordirlandese, e dopo l’istituzione del governo biconfessionale (da una parte rappresentato dal reverendo Ian Paisley (Dup) e dall’altra dal repubblicano Martin McGuinness (Sinn Fein), il sogno di una pace duratura è sembrato a portata di mano. Superato però il primo anno di governo di unità nazionale, in Irlanda del Nord si è ripresentata l’ombra delle opposte fazioni durante le marce orangiste dello scorso sabato: un banco di prova importante per un sistema che sta cercando di rimettersi in sesto con grandi investimenti, anche provenienti dall’estero. Il bilancio del 12 luglio 2008 fa pensare che il cammino della pace sia lungo e che ci sia da fare ancora molto. Ma facciamo qualche passo indietro. Per ricordare la vittoria orangista del 1690, i protestanti iniziano i festeggiamenti nella notte tra l’11 e il 12 con l’accensione di grandissime pire di fuoco. Il più delle volte in cima alla catasta di legno viene posizionata, da bruciare, una

mondo Ulster, gli scontri (e 19 feriti) alla marcia orangista riaprono le ferite del Paese

L’unità nazionale ancora non placa Belfast di Tommaso Della Longa In senso orario: la polizia chiude il varco dopo il passaggio orangista a Springfield road, un bambino cattolico con il volto coperto dalla bandiera irlandese, i cattolici dell’Ardoyne manifestano contro i protestanti. Foto di Della Longa

bandiera irlandese oppure qualche striscione che richiama alla memoria i martiri irlandesi (come Bobby Sands, morto durante uno sciopero

si sono bruscamente chiusi i valichi del muro di filo spinato che divide la Fall’s road cattolica e la Shankill road protestante. Oltre all’odore acre dei fuo-

Nella capitale nordirlandese sono due gli appuntamenti contestati: la marcia mattutina sulla cattolica Springfield road e quella pomeridiana che attraversa il quartiere cattolico dell’Ardoyne della fame nel 1981 nei Blocchi H, le supercarceri inglesi). Il tutto, al confine tra i quartieri orangisti e quelli filoirlandesi. Quest’anno, la sera dell’11 luglio si potevano già contare decine e decine di falò che lasciavano apparire Belfast una città appena bombardata. Al primo festeggiamento dei protestanti,

chi che si respirava in tutta la città, in due zone diverse si è avvertito anche quello di gas lacrimogeni e bombe molotov. I nazionalisti cattolici hanno infatti ingaggiato una piccola battaglia contro le forze dell’ordine a Belfast e Portadown: 19 poliziotti feriti dopo un lancio di sassi, bottiglie incendia-

rie e barattoli di vernice. Secondo i nazionalisti cattolici tutto è normale, tutto è giusto. Perché «è intollerabile che ancora oggi i protestanti celebrino marciando anche sui quartieri cattolici di Belfast». Dall’altra parte, gli orangisti hanno chiamato a raccolta persone da tutto il Regno Unito, «tra cui anche hooligans e violenti di professione».

Nella capitale nordirlandese sono due gli appuntamenti del 12 luglio dove tutto può succedere (e dove tutto succede da sempre): la marcia mattutina sulla cattolica Springfield road e quella pomeridiana che attraversa il quartiere cattolico dell’Ardoyne. «Ancora oggi il clima è molto teso – ci spiega una signora cattolica – molte

famiglie che hanno le case sul percorso delle parate preferiscono direttamente andar via da Belfast». Alle 10 del mattino, su Sprinfield road, erano tanti i cattolici che aspettavano silenziosi la marcia orangista, muniti di striscioni e cartelli con scritto Make sectarianism history (Fai diventare storia il settarismo, ndr). Il momento di maggior tensione si è verificato quando, all’apertura improvvisa di un varco, un gruppo di bambini protestanti ha tentato di “sfidare”a suon di insulti i propri coetanei cattolici. E proprio i più piccoli sono da sempre i protagonisti degli scontri del pomeriggio. Nell’enclave dell’Ardoyne, la marcia orangista proprio non piace. È questo il luogo in cui si sono sempre consumati gli scontri più gravi. Quest’anno, per evitare altri violenti fronteggiamenti, si era arrivati all’accordo di far passare solo una banda musicale che protestante scandisse unicamente il passo di marcia con il tamburo. I protestanti sarebbero stati fatti transitare in pullman, mentre i due servizi d’ordine, verde e arancio, avrebbero tenuto a bada i manifestanti di entrambe le parti. E la polizia avrebbe solo vigilato in maniera meno visibile. All’arrivo degli autobus, però, i protestanti hanno tentato di scendere dai pullman, lanciando biglie di ferro e bottiglie contro i cattolici. Dall’altra parte i ragazzi più piccoli hanno cercato di rispondere “al fuoco” e successivamente attaccato la polizia con mattoni e bottiglie. Bilancio: circa un’ora di sassaiola tra urla, insulti e lancio di mattoni da parte di ragazzi di appena 16 o 18 anni. Adolescenti cresciuti con l’odio e il rancore e che sembrano aspettare il 12 luglio di ogni anno per far esplodere la propria rabbia.

In questo scenario, dove il cammino di pace appare praticato per lo più nelle stanze della politica, ma non in quelle delle piazze, gli interrogativi continuano a non avere risposte certe e ipotesi future convincenti. Oltre ai necessari accordi ufficiali, ci sarebbe bisogno di un dialogo che coinvolgesse realmente il popolo, rompesse il muro del ghetto edificato nel tempo e garantisse un futuro alle giovani generazioni. Altrimenti la pace continuerà a rimanere un sogno, che nella realtà è un fuoco che cova nella cenere, pronto a bruciare i prossimi 12 luglio a venire.


mondo

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Torna al potere il partito dell’ex dittatore. Per affrancarsi ha un solo compito: catturare Mladic e Karadzic

I figliocci di Milosevic alla prova di Angelita La Spada

d i a r i o ostalgia del passato o futuro europeo? Otto anni dopo le dimostrazioni di piazza che decretarono la caduta di Slobodan Milosevic, il Partito socialista della Serbia (Sps) torna al potere in un governo di coalizione che potrebbe giocare un ruolo chiave nelle future relazioni di Belgrado con l’Europa. Indecisi fino all’ultimo istante, se essere l’ala radicale di un governo guidato dal Partito democratico (Ds) di Boris Tadic o quella moderata di un esecutivo nelle mani delle forze radicali e del Dss di Vojislav Kostunica, i reduci dell’ancien régime hanno finito per schierarsi con i democratici. Un’alleanza, in realtà, formata da una insolita coppia, visto che il Ds ebbe un ruolo determinante nella consegna dell’ex-uomo forte di Belgrado al Tribunale internazionale dell’Aja (Tpi), accusato di genocidio e di crimini contro l’umanità. I

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economica, a vantaggio delle politiche populiste. Ma poco trapela in merito a un mutamento di rotta nella posizione dei socialisti, storicamente contraria, riguardo alla cooperazione con il Tribunale dell’Aja, requisito indispensabile per la piena integrazione nell’Ue. Il soddisfacimento del criterio della piena cooperazione con il Tpi vincola la ratifica dell’Accordo di associazione e stabilizzazione con Bruxelles, siglato da Belgrado lo scorso aprile e che rappresenta l’anticamera di un’adesione vera e propria, in particolare per facilitare la cattura dell’ex generale serbo-bosniaco Ratko Mladic, superlatitante ricercato per crimini di guerra che proprio ieri l’ambasciatore americano John Clint Williamson, ha confermato trovarsi in territorio serbo assieme all’altro super-ricercato dal Tribunale internazionale dell’Aja, Radovan Karadzic. Una simile proce-

d e l

g i o r n o

Darfur: Corte penale internazionale condanna al Bashir Il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Luis Moreno Ocampo, ha chiesto che la Camera della Corte chieda il mandato d’arresto per il presidente del Sudan Omar Hassan al Bashir per genocidio e crimini di guerra relativamente alla crisi del Darfur. Immediata la replica del governo del Sudan che ha detto di non riconoscere l’atto formale d’accusa con cui Moreno Ocampo ha chiesto l’arresto del suo presidente. La Cpi, la cui sede è all’Aia, in Olanda, è diventata una realtà il primo luglio 2002, dopo la ratifica del trattato istitutivo a Roma da parte di sessanta Paesi. Dal primo giugno scorso, i Paesi sono diventati 106. La Cpi è presieduta dal canadese Philippe Kirsch e conta 18 giudici. Contrariamente ai tribunali “ad hoc” creati per giudicare i crimini commessi durante un determinato conflitto, come il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia o il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, la Cpi ha una giurisdizione priva di scadenze temporali. Poche ore dopo la sentenza il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto garanzie a Khartoum sulla sicurezza del personale delle Nazioni Unite presente nella regione, prendendo di fatto le distanze dalla richiesta del procuratore Ocampo. La Lega araba ha invece indetto un summit straordinario per sabato prossimo.

Turchia, 86 accusati di golpe

Sopra Mirko Cvetkovic, A destra i ricercati dal Tribunale Internazionale dell’Aja, Radovan Karadzic e l’ex generale serbo-bosniaco Ratko Mladic

Il partito non ha mai preso le distanze dalla politica autoritaria del suo ex-leader né ha mai fatto ammenda delle sue azioni passate

partner di coalizione hanno innescato un acceso dibattito incentrato sull’interrogativo se i socialisti non siano più quelli che erano negli anni Novanta e se abbiano realmente rinnegato l’acceso nazionalismo di Milosevic. Di fatto, i socialisti non hanno mai preso le distanze dalla politica autoritaria del loro ex-leader, né hanno mai pubblicamente fatto ammenda delle loro azioni passate. Eppure, due stretti collaboratori del defunto “Slobo”, Ivica Dacic e Milutin Mrkonjic, freschi di nomina ricoprono le cariche di vice-premier nonché di ministro degli Interni e di titolare del dicastero delle Infrastrutture. Paradossalmente, però, l’elettorato socialista non segue la nuova linea del partito, continuando ad essere conservatore ed anti-occidentale.

L’orientamento strategico del nuovo gabinetto, guidato dall’ex ministro delle Finanze, il democratico Mirko Cvetkovic, dovrà necessariamente fare i conti con l’impellente necessità di far ottenere al Paese lo status di candidato all’Unione europea, nonché con le spinose questioni dell’indipendenza del Kosovo e del progresso economico. Il Partito socialista ha finito per sciogliere le riserve e ha espresso la ferma convinzione che l’attuazione di questa parte dell’agenda governativa avrebbe una ricaduta positiva sulla prosperità

dura fu adottata per la firma dell’Accordo di pre-adesione con la Croazia, che divenne pienamente operativo solo dopo la cattura del criminale di guerra Ante Gotovina.

Ma un colpo gobbo già disturba gli

esordi del neo-governo. È di domenica la notizia che la presidenza dello Sps ha stracciato l’accordo raggiunto nei mesi scorsi con il Partito radicale serbo e con la coalizione Dss-Ns sulla divisione dei poteri municipali di Belgrado, per non compromettere la governance del Paese. Ne consegue che l’elettorato della capitale possa presto tornare alle urne. Il destino del Partito socialista serbo dipenderà, dunque, in larga misura tanto dal terremoto politico che ha scosso la municipalità della città bianca quanto dal successo del nuovo esecutivo. Ci vorrà, altresì del tempo perché lo stesso partito ottenga il perdono da parte dell’elettorato della vecchia guardia per l’alleanza suggellata con i democratici, pur continuando a reclutare nuove leve tra le giovani generazioni. A una simile formula della riabilitazione coniugata con la resurrezione politica raramente viene concesso un secondo diritto di replica.Tornare a calcare le scene politico-governative può essere interpretata come un’impresa ambiziosa e acrobatica, una di quelle che riuscirà a durare solo a condizione che la nuova leadership mantenga il tocco illuminato.

Giornata di fuoco in Turchia per la lotta alla cosiddetta ”gladio turca”. Gli 86 membri sospettati di fare parte dell’organizzazione Ergenekon saranno processati per attività terroristica e tentato golpe. I capi di accusa sono stati resi noti ieri mattina davanti al Tribunale di Besiktas, a Istanbul. Fra gli 86 sospetti, 48 sono in carcere e fra loro compaiono militari in pensione. In base al primo articolo della Legge antiterrorismo sono stati accusati di attività terroristiche e tentato golpe. I fascicoli sono già stati inviati alla 13ma Corte Penale di Istanbul, che dovrà decidere se recepire tutte le accuse e iniziare quindi il processo. I capi di accusa sono divisi in 441 fascicoli per un totale di quasi 2.500 pagine. Secondo gli investigatori Ergenekon è la principale responsabile dei fatti di sangue che si sono verificati in Turchia negli ultimi due anni. Il loro obiettivo è quello di destabilizzare l’ordine costituito e in particolare il governo islamico-moderato di Recep Tayyip Erdogan, che proprio in questi giorni si trova a sua volta sotto accusa per attività antilaiche e volte a distruggere l’unità nazionale.

Corea del sud, richiamato l’ambasciatore A causa della polemica per un gruppo di isole, Seul ha annunciato il rientro in patria del proprio ambasciatore a Tokio. Il gruppo di isole disabitate, Dodko per i coreani, Takeshima per i giapponesi, sono reclamate dai due Stati. La causa dello scontro sta nelle ricchezze che si presume siano presenti nelle acque e nel sottosuolo del piccolo arcipelago. Secondo un imprenditore sudcoreano in una di queste isole Methanhydrat, vi sarebbero riserve di gas naturale che potrebbero coprire per trent’anni i bisogni del Paese asiatico. La querelle, nata decenni fa, prosegue nonostante le dichiarazioni di distensione e buona volontà dei gruppi dirigenti dei due Stati.

Germania, Obama alla porta di Brandeburgo Il senatore dell’Illinois vuole sfruttare il simbolismo della porta di Brandenburgo e intende tenere un discorso davanti al simbolo europeo della caduta del comunismo. Il primo cittadino della capitale tedesca è d’accordo. Il ministro degli esteri federale lo desidera. Angela Merkel preferirebbe evitarlo. Questo lo scenario tedesco. Obama, come Reagan nel 1987, «Mr Gorbacev abbatta questo muro», il 24 luglio vorrebbe tenere un discorso importante da “sfruttare” anche elettoralmente. Il senato di Berlino ha già dato parere positivo alla richiesta di Obama.


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speciale

economia

NordSud

Il colosso controllato dal governo di Mosca vuole superare entro dieci anni i mille miliardi di capitalizzazione. E staccarsi progressivamente dal Cremlino per passare da semimonopolio di Stato a player come i giganti Exxon, Bp o Shell

GAZPROM, LA SCOMMESSA DELL'ORSO RUSSO di Francesco Cannatà ille miliardi di dollari. Questo sarà il valore di Gazprom tra dieci anni. Al momento la capitalizzazione di Borsa, dell’impresa controllata al 51 per cento dallo Stato, è di 340 miliardi di dollari, un terzo del patrimonio cui aspira la compagnia che in Russia ha l’esclusiva delle esportazioni di gas. Già ora il consorzio ha la maggiore capitalizzazione di mercato al mondo. «Siamo sottovalutati, ma vogliamo raggiungere una posizione dominante a livello internazionale», ha detto Alexej Miller. Secondo il presidente, la concorrenza per il controllo degli idrocarburi è un affare. L’impresa occupa infatti

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Attualmente Gazprom rifornisce Germania, Italia, Italia e Francia, soddisfa i bisogni di Turchia, dei Paesi dell’Europa orientale e della Csi. I dati ufficiali dicono che nel 2006 le vendite verso l’Europa hanno raggiunto i 161,5 miliardi di metri cubi (bmc), quelle verso la Csi e il Baltico 101 bmc. Il resto, 316 bmc – il 54,6 percento della produzione totale – va al consumo interno. E la nascita di nuovi mercati in Asia-Pacifico, il boom del greggio e il cambio nelle normative europee si riflettono sulla vendite del gas.

La nuova strategia di Gazprom, passare dal “big pipeline” al “big business”, è frutto di

Massimizzazione dei profitti e conquista dei mercati di Asia e Nord America un’ottima casella nel gioco globale. Secondo dati forniti da BP, Gazprom, con il 16,5 percento delle riserve planetarie di oro azzurro, partecipa al 19,4 percento della produzione di gas mondiale e all’84 per cento di quella russa. Per gli analisti di Ubs la sua forza non sta nelle riserve di gas, ma nelle infrastrutture e nel monopolio sui flussi viaggiano tra Pacifico e Europa occidentale, Asia centrale e Polo nord.

queste trasformazioni. Allargamento e diversificazione della produzione tra gas, petrolio, carbone ed elettricità. Poi modifiche statutarie, swap di attività con partner esteri, scambi di titoli a mercato aperto. Operazioni che imporranno strappi giuridici e “politici”: da semi monopolio di Stato, Gazprom vuole diventare un’azienda come Exxon, Bp, Chevron o Shell. Se la vecchia strategia era focalizzata sul mercato esterno,

l’Europa, la nuova diversificherà verso la macroregione Asia-Pacifico. Se prima si massimizzava il volume del gas, ora tocca ai profitti. Se in passato si privilegiava lo sfruttamento delle risorse russe, oggi importazioni e transito del gas dell’Asia centrale sono decisivi per andare oltre i confini dell’ex Urss. E in cantina finiranno concetti obsoleti tipo “niente stranieri nella produzione” e “vendita alla frontiera”. “NeoGazprom” intende integrarsi nel business internazionale del gas per arrivare fino al singolo consumatore. Non a caso iol gasdotto North Stream, che unisce Russia e Germania bypassando la Polonia, è finito nel mirino della Ue per «problemi ambientali e geopolitici». L’Europarlamento chiede inoltre «misure per evitare ogni forma di monopolio». In realtà l’abbraccio tra compagnia russa ed Europa è sempre più stretto. Tra 2006 e 2007 Gaz de France, E.On Ruhrgas, Eni ed altri hanno stipulato contratti di 20 o 25 anni. Con la Germania al centro della rete. Joint venture con Whintershall, controllata di Basf per l’energia, collaborazione con Wingas, compagnia di pipeline con 2mila chilometri di “tubi” e cooperazione con Wieh. In Austria con Gas und Warenhandelsgesellschaft, la compagnia russa “copre” il 78 per cento del mercato. Ingresso anche in Gran Bretagna, il mercato europeo più competitivo, nonostante le obiezioni del governo inglese.

I rapporti tra Eni e Gazprom, sostenuti con intelligente continuità dai governi italiani, prevedono anche la realizzazione del gasdotto South Stream e progetti congiunti di esplorazione e produzione in Paesi terzi. Mosca dà molta importanza a questo link tra energia russa e mercato europeo, al punto da essere pronta a comprare tutti i volumi di idrocarburi disponibili in Libia. Il piano, al via nel 2010, permetterà il trasporto di 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno. L’idea di un nuovo gasdotto tra Libia ed Europa, al di là di Green Stream, è stata annunciata venerdi dal vice di Miller, Sergej Kuprianov. In Europa è corsa al gasdotto: Anche grazie a North Stream, Gazprom può contare su sbocchi internazionali plurali per attività diversificate, attraverso una gamma di mezzi di trasporto. Così da rafforzare le componenti elettriche e petrolifere e veleggiare verso i mercati asiatici e nordamericani, i futuri confini dell’impero. Ovviamente i nuovi gasdotti non saranno sufficienti. Occorrerà varcare le colonne d’Ercole del gas naturale liquefatto (Lng), da inviare via mare verso l’Asia. Un passo programmato per il 2009. La nuova avventura partirà dal giacimento Sakhalin 2. L’isola è simbolo di rinnovamento ma anche della capacità russa di fare la voce grossa. Nel 2006, dopo mesi di pressione, Royal Dutch, Shell e i partner giapponesi Mitsui e Mitsubishi hanno ceduto la

maggioranza delle quote. Incertezze invece riguardo invece il progetto Shtokman. Per i russi partirà nel 2014 ma gli ambientalisti di Bellona non credono che allora Mosca avrà le tecnologie necessarie. Ci vorrà tempo prima che inizi il cammino: partire dal terminal canadese di Rabaska per raggiungere il 25 percento delle quote del mercato mondiale del gas liquefatto.

L’orizzonte dell’azienda non è però senza nubi. Si investe poco nella produzione e troppo in altri progetti. Da qui un calo delle estrazioni. Nel 2007 l’1,3 percento su 548,6 miliardi di metri cubi. Per il gruppo una sbavatura dovuta all’inverno mite. In realtà il problema non sarà risolto dai giacimenti, in declino, della Siberia occidentale. Si spera in Juschno Russkoje, in Jamal, e in Bovanenkovo in funzione nel 2011. Per il 2020 Gazprom, con circa 270 miliardi di euro, intende pompare da Jamal, Shtokman e Siberia orientale tra i 650 e i 740 miliardi di metri cubi di gas. Il 30 per cento di questa cifra andrà alla ricerca, il 50 allo sviluppo dei trasporti. Nonostante la scelta espansiva l’azienda non teme l’indebitamento. Lo scorso anno con gli investimenti in Sakhalin 2 e in sistemi di produzione di energia elettrica, l’indebitamento era del 58 percento su 26 miliardi di euro. Nel 2007 il rapporto debito capitale netto era stato invece del 23,4 percento.


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entre il mondo guarda al petrolio, alla chetichella i prezzi del gas naturale stanno crescendo in modo ancora più macroscopico, creando ulteriori difficoltà alle economie energivore. A differenza del greggio, il gas non ha un prezzo globale di riferimento, in quanto la modalità di trasporto prevalente – quella via tubo – impone delle rigidità sul mercato che danno luogo a maggiore opacità e a mercati di dimensione di fatto regionale. Negli Usa, dove esiste un vero e vivace mercato a pronti per il gas, nell’ultimo anno i prezzi sono grosso modo raddoppiati. In Europa, dove invece c’è meno trasparenza in quanto i prezzi sono largamente governati da contratti a lungo termine, si è passati dai circa 250 dollari per mille metri cubi del 2006 (era attorno all’adeguamento a quella cifra che si consumò il braccio di ferro tra la Russia e l’Ucraina) e i 400 dollari attuali.

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Il capo di Gazprom, Alexei Miller, ha parlato di un traguardo a 500 dollari. È impossibile dire, oggi, se si tratti di una profezia destinata ad avverarsi: resta una previsione plausibile, e tanto basta a infiammare gli scambi. Rispetto al petrolio il gas ha un duplice svantaggio. In primo luogo, è più difficile (costoso) da trasportare, quindi le distanze tra i luoghi di produzione e consumo contano molto. Fino a poco tempo fa, la pipeline era pressoché l’unico mezzo di movimentazione, e questo ha plasmato gli attuali mercati europei: in particolare, ha imposto l’esigenza di cercare economie di scala e distribuzione dei rischi che fossero efficienti attraverso contratti “take

I prezzi potrebbero toccare i 500 dollari per mille metri cubi

L’inarrestabile corsa dell’oro azzurro di Carlo Stagnaro or pay” (con penali se non si ritira per intero la quantità pattuita). Questi accordi ripartiscono il rischio tra il produttore (che si assume quello sui prezzi) e il compratore (che si accolla quello sulle quantità). Ma creano vincoli di fatto indissolubili, visto che le possibilità di arbitraggio sono relativamente marginali. Le cose sono forse destinate a cambiare, nel medio o lungo termine, con la diffusione del gas naturale liquefatto (Gnl): anch’esso, visti gli enormi costi capitali, richiede alle spalle un contratto take or pay, ma a differenza del tubo consente maggiore flessibilità. Se il tubo andrà sempre dal punto A al punto B, una nave gasiera può essere dirottata a seconda delle convenienze, rispondere ai segnali di prezzo, collegare mercati distinti e introdurre maggiori capacità di arbitraggio. Un secondo tema, strettamente legato a questo, sta nella modalità di formazione dei prezzi. Mentre quelli di riferimento dei greggi si formano sul mercato, nei contratti a lungo termine per il gas essi sono indicizzati a quelli del petrolio. Questo cosa significa? Essen-

zialmente che, mentre i prezzi del petrolio riflettono l’effettiva scarsità relativa della commodity (il rapporto tra domanda e offerta, corrente e atteso), per il gas i prezzi poggiano sull’ipotesi che, in qualche modo, la sua scarsità possa essere misurata guardando al termometro petrolifero. Questa è un’assunzione pericolosa, perché ormai il gas ha conquistato nei mix energetici europei una centralità tale, da richiedere dinamiche proprie. Forse, quando Miller ha parlato dei 500 dollari per mille metri cubi aveva in mente anche questo. Da più parti si chiede di operare uno sganciamento tra i prezzi del gas e quelli del petrolio. I vantaggi di tale operazione sarebbero indubbi, poiché gli investimenti in esplorazione e produzione di gas ne riceverebbero un più forte impulso e sarebbero diretti in modo più preciso grazie alle informazioni convogliate dai prezzi di mercato. Ma, accanto ai benefici, ci sono anche i costi: poiché la domanda di gas è destinata a crescere più rapidamente di quella di greggio, dinamiche di prezzo autonome potrebbero portare a rinca-

ri più vistosi. Anche se non bisogna trascurare la maggior sostituibilità del gas, che nei suoi principali impieghi – riscaldamento e generazione elettrica – è solo una delle opzioni disponibili, mentre il petrolio è la fonte quasi esclusiva e difficilmente sostituibile nel settore dei trasporti.

Il dato di fatto è che, sul mercato più dinamico, quello americano, secondo alcuni qualcosa del genere sta già avvenendo. Uno studio pubblicato sull’ultimo numero di Energy Journal rivela che «il prezzo del gas naturale è storicamente pari all’incirca a un decimo di quello del barile Wti; ma questa tendenza sembra essersi disintegrata durante gli ultimi anni Novanta e i primi anni Duemila, portandoci attorno a un rapporto di 6:1. La variabilità nella relazione tra i prezzi relativi, che in realtà hanno fluttuato tra 4:1 e 12:1, ha stimolato domande se sia vero oppure no che i prezzi del gas naturale e del petrolio si sono disaccoppiati». Nel lungo termine, una simile evoluzione – con le ripercussioni sulle economie occidentali – non potrebbe non essere valutata positivamente, perché contribuirebbe a impreziosire le informazioni di prezzo e dare indicazioni più precise agli operatori. In ogni caso la lezione dei prezzi è univoca: la crescente domanda di gas e il crescente impiego di questo combustibile nella generazione elettrica, se messe a fattor comune, materializzano un grande bisogno di nuovi investimenti. È essenziale che ogni dibattito politico, anche sullo scacchiere internazionale, affronti il tema di come stimolarli. Purtroppo, al G8 giapponese questa discussione non c’è stata.


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economia

NordSud

Il presidente di Nomisma energia auspica un rafforzamento dei rapporti tra Gazprom ed Eni

Tabarelli: «Un errore escludere Miller dalla distribuzione» colloquio con Davide Tabarelli di Alessandro D’Amato azprom è un interlocutore affidabile per l’Eni e il mercato italiano. Del suo know how avremmo un gran bisogno. Di più, sarebbe positivo anche se entrasse nella rete di distribuzione». Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia, non ha dubbi: la cooperazione tra Italia e Russia sull’energia deve proseguire e crescere. Perché di investimenti ha bisogno l’industria oggi per uscire dall’aumento dei prezzi, causato dalla penuria di offerta. Questo rapporto beneficerà per i nuovi rapporti tra Libia e Gazprom, e l’offerta di Tripoli ai russi di cooperare nella costruzione di un gasdotto tra Africa e Europa? Penso che sia una scelta che consoliderà ulteriormente i rapporti tra l’Eni e Gazprom, e questo non può essere che un bene. L’ente italiano sta seguendo la linea del suo fondatore, Enrico Mattei, e giustamente visto che non può arretrare dopo il know how accumulato nei decenni. Certo, quello del gas rimane un mercato con un forte squilibrio a favore del venditore… Qualche tempo fa si era parlato di un cartello dei Paesi produttori, guidato proprio dalla Russia. Non è possibile ripetere quanto avviene per il petrolio: di un accordo tra venditori, almeno a oggi e nel medio periodo, non c’è bisogno, perché i prezzi sono agganciati all’oro nero. I cartelli servono nei momenti di calo delle quotazioni. Il gas è un’arma geopolitica? Mi sembra una forzatura. Anche perché non ci sono guerre in atto, ma soltanto business. Poi, è chiaro, i contrasti nascono e

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tiche ritornare a una politica di investimenti per aumentare l’offerta. Anche perché questa carenza poi è destinata a gravare sul consumatore. Da questo punto di vista Gazprom fa fatica, Eni pure, nonostante sia presente in Russia con investimenti per 5-6 miliardi di euro, così come Enel. Come reputa una maggiore apertura del nostro mercato a Gazprom? Finora non glielo abbiamo permesso, agitando lo spauracchio dell’orribile monopolista pronto a fagocitare le imprese locali. E sinceramente, penso che sia stato un errore, vista la situazione delle nostre multiutility. Ma lì il problema è strutturale. Strutturale? C’è la politica di mezzo: chi controlla le varie aziende di servizi pubblici locali sono i sindaci, visto i vantaggi che la politica ne trae in termini di posti da spartire e per altro. Sinceramente, ce la vedo poco Letizia Moratti a permettere l’entrata dei russi in A2A. Invece all’estero è andata diversamente. In Germania Gazprom è nei Cda delle aziende energetiche. Già. Anche in Italia potrebbe accadere se l’Eni rinunciasse a qualche provincia del suo impero. Enipower, per esempio, che è al di fuori del proprio core business. L’ingresso di un altro player gioverebbe al nostro mercato. Anche per la rete di distribuzione, dove da anni si combatte una guerra senza soluzione di continuità tra il Cane a sei zampe e i regolatori sulla separazione proprietaria?

Un interlocutore affidabile per superare il gap di produzione e offerta hanno la loro rilevanza. Non escludo che nella Duma ci sia qualcuno che pensi a utilizzare l’energia per tornare ai bei tempi della Grande Russia, ma si tratta di colore. E fatico a vedere la preminenza di una motivazione geopolitica, per esempio, nello scontro tra Russia e Ucraina. Semplicemente, Gazprom voleva farsi pagare il giusto il gas che forniva. E c’è riuscita. Nel giugno 2007 Gazprom e Eni hanno firmato un memorandum per South Stream, un sistema di gasdotti tra Russia ed Europa attraverso il Mar Nero. I rapporti tra Roma e Mosca si rafforzeranno? Sì, e sarebbe un gran bene. Soprattutto perché è necessario per le imprese energe-

Che male ci sarebbe di fronte a un ingresso di Gazprom in Snam Rete Gas? Magari al 49 per cento, mantenendo la maggioranza assoluta nelle mani di Eni. Il settore del gas evidenzia ”forti ritardi”in termini di efficienza e infrastrutture con l’ex monopolista che domina e controlla il mercato in ogni parte della sua filiera. Lo ha detto il presidente dell’Autorità per l’energia e per il gas, Alessandro Ortis, la scorsa settimana. I russi sarebbero un partner affidabile, ne sono sicuro. Tornando invece al mercato dell’energia in generale, che ne pensa del piano di Tremonti, che ha proposto di applicare gli articoli 81 e 82 del Trattato di Roma (norme contro la manipolazione del mercato e i cartelli) anche al di fuori del perimetro della Ue? Non credo sia la soluzione giusta per un problema grave, che non si può affrontare attraverso le semplificazione. La speculazione non esiste finché non scoppiano le bolle, e aumentare i controlli al di fuori dei perimetri degli Stati confinanti è un absurdum anche dal punto di vista giuridico. Non è folle aumentare i margini dei contratti a termine per alcune merci, allo scopo di diminuire l’effetto-leva; ma non si pensi nemmeno lontanamente che questa sia la soluzione del problema. Anche perché questo contribuisce a spostare l’attenzione sulla vera responsabilità di questa situazione. Che è soprattutto la nostra, visto che non siamo stati capaci di mettere in azione strumenti per affrancarci dagli Usa. La finanza non è il male, anzi: è sempre stata utilmente al servizio dell’economia. La soluzione alla crisi odierna è una: miniere, pozzi, raffinerie, tubi. In una parola, dobbiamo ricominciare a produrre.

i convegni ROMA Martedì 15 luglio 2008 Villa Lubin Il Cnel presenta il Rapporto sul mercato del lavoro 2007 del Cnel. Discutono della situazione italiana con il presidente Antonio Marzano, Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil, Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl, Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil. Chiude l’incontro il ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, Maurizio Sacconi. ROMA Mercoledi 16 luglio 2008 Teatro Capranica Giornata organizzata dall’Ice e dall’Istat per illustrare il Rapporto 20072008 L’Italia nell’economia internazionale e l’annuario statistico Commercio estero e attività internazionali delle imprese. Partecipano, tra gli altri, Umberto Vattani, presidente dell’Ice, Luigi Biggeri, presidente dell’Istat, Guidalberto Guidi, presidente della Ducati Energia, e Claudio Scajola, ministro per lo Sviluppo economico. MILANO Mercoledi 16 luglio 2008 Palazzo Romagnosi Si tiene oggi l’assemblea annuale dell’Anie, l’associazione delle imprese energetiche associate a Confindustria. Apre i lavori il presidente della Federazione e della Ducati Energia, Guidalberto Guidi. Saranno presenti Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente, ed Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. ROMA Mercoledi 16 luglio 2008 Palazzo San Macuto L’Arel fa il punto sul mercato del lavoro italiana presentando il volume di Salvatore Pirrone, Flessibilità e sicurezze. Il nuovo welfare dopo il protocollo del 23 luglio, edito da Arel e dal Mulino. Con l’autore ne discutono il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, l’ex ministro e deputato del Pd, Enrico Letta, e il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi.


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Con la liberalizzazione dei prezzi il colosso raddoppierà le sue entrate

Quel giacimento del mercato russo di Francesco Cannatà

MERCATO GLOBALE

Alla scoperta del Mediterraneo di Gianfranco Polillo

n Russia i settori del gas e dell’energia elettrica evolvono verso modelli economici completamente differenti: monopolio di Stato e mercato. Ed è interessante notare che l’iniziativa legislativa dell’Ue del settembre scorso sulla liberalizzazione del mercato energetico, ha prodotto effetti al Cremlino e non nel Vecchio continente: chi produce gas non può gestire pipeline, divieto per i possessori delle centrali elettriche di controllare anche infrastrutture di trasmissione.

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Non escludendo da questo regime le imprese extraeuropee, Bruxelles ha messo in moto qualche reazione. Gazprom, azienda energetica leader nel mercato russo, vorrebbe mantenere il regime di semi monopolio di cui gode nel Paese, adeguandosi invece alla normativa europea per continuare la crescita nel Vecchio continente. I rapporti tra l’azienda russa e i suoi concorrenti sono controversi. Quelli con l’Eni, per esempio, sono consolidati come dimostra l’ultimo colpo del Cane a sei zampe. Attraverso EniEnerghia sono stati sottoscritti contratti di vendita di gas per 350 milioni di metri cubi. Ma non sempre fila tutto così liscio. Soltanto quest’anno, dopo lunghe esitazioni, Gazprom ha accettato che allo sfruttamento di Shtokman, nel mare del Nord, prendano parte con diritti di soci di minoranza la francese Total e la norvegese StatoilHidro. Nel dicembre del 2007 qualcosa di simile era avvenuto con la tedesca Basf per il giacimento di Juscho-Russkoje nel territorio autonomo di Jamal-Nenzen. Quando però lo scorso anno il Cremlino ha fatto capire che lo sfruttamento dei nuovi giacimenti presenti nella penisola di Jamal sarebbe stato meglio farlo con imprese olandesi, Gazprom si è opposta. Lo sconcerto del monopolista russo si è accentuato quando il ministero delle Risorse naturali della Federazione, finora fedele alleato del consorzio, ha affermato di voler vincolare per legge il diritto delle imprese straniere a partecipare allo sfruttamento dei giacimenti strategici più importanti. Comprensibili le resistenze dei russi alla perdita di privilegi. Del resto il progetto di liberalizzazione energetico europeo è malvisto anche dalle potenze guida Ue, Francia e Germania. I rispettivi giganti, EdF, GdF ed E.On, sarebbero penalizzati da un vero regime anti-monopolio. Prevista per il 2011, la liberalizzazione dei prezzi del gas naturale in Russia slitterà di qualche

anno. Quando però questa “rivoluzione copernicana” per il welfare del Paese slavo e ortodosso avverrà – e i prezzi interni dell’oro azzurro raggiungeranno progressivamente livelli “europei”– Gazprom aumenterà in maniera massiccia le entrate. Semidipendente dal mercato occidentale, l’azienda sovvenziona l’economia russa fornendo energia a prezzi stracciati: 76 dollari per mille metri cubi di gas, di fronte ai circa 400 dollari pagati dalle compagnie europee. Assorbendo circa un terzo della produzione, il Vecchio continente genera più della metà dei redditi di Gazprom.Tra qualche anno questo scenario cambierà. Il mercato russo raddoppierà le sue dimensioni e sarà in concorrenza con quello europeo. L’aumento di liquidità permetterà al gigante di Ulitsa Nametkina di essere in pole position quando il potere russo darà il via a ulteriori privatizzazioni energetiche. Senza però abbandonare l’avanzata europea. Dopo che il primo luglio si è autosciolto il quasi monopolista elettrico russo Rao Ues, 400mila dipendenti per l’elettricità a prezzi politici al Paese, Gazprom, che già ne possedeva il 10,5 per cento, ha iniziato l’avanzata nel nuovo settore. Lo schema della liquidazione di Rao prevede la divisione dell’azienda in 29 compagnie elettriche. Soltanto due resteranno nelle mani dello Stato: la rete Fsk e una holding che raggrupperà tutte le centrali idriche del Paese. Il resto è in parte già privatizzato grazie alla politica illuminata da tempo portata avanti da Anatolij Chubais. Una strategia che non piace a tutti. Il padre delle riforme ultraliberali degli inizi degli anni Novanta, dal 1998 alla testa di Rao Ues, è sfuggito a cinque attentati. La realizzazione delle privatizzazioni elettriche è dunque la prova del sostegno del potere russo al piano di rinnovamento economico.

Gazprom ha invece fallito l’ingresso nel settore carbonifero. La programmata fusione con Suek non si è fatta.Vincoli posti dell’Antitrust, contrasti tra i mancati soci e, probabilmente, ripensamenti da parte del Cremlino, hanno bloccato il progetto. Ovviamente la sconfitta in una battaglia, non significa perdere la guerra. I progetti di crescere oltre i confini della federazione russa anche nel campo elettrico non sono stati abbandonati. Le trattative in corso con la Germania per la costruzione di centrali elettriche sul suolo tedesco, ne sono una prova.

rande successo per Nicolas Sarkozy. I quaranta capi di Stato, riuniti nella splendida cornice del Grand Palais, hanno coronato un anno di lavoro, rispolverando il vecchio progetto del “Processo di Barcellona”. Elaborato ben 13 anni, ma finito in un cassetto, puntava a realizzare un’area di libero scambio entro il 2010. Poi le spinte protezionistiche avevano preso il sopravvento: così, eccetto qualche rapporto bilaterale (ma soltanto dove ciascuno poteva conservare le proprie posizioni di vantaggio) e qualche aiuto ai Paesi più poveri, non si era andati oltre la retorica da utilizzare nella manifestazioni ufficiali.

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Un bilancio deludente, quindi. Conseguenza delle profonde divisioni che dividono l’Europa e che ancora oggi sono presenti tra i Paesi più importanti. In quegli anni, poi, non si fece nulla soprattutto perché i progetti tedeschi erano diversi. Ai cancellieri della locomotiva d’Europa interessava la dimensione carolingia. Una proiezione verso Est, cui destinare risorse ed energie. Mentre i Paesi mediterranei – Francia, Italia e Spagna, per non parlare di Grecia e Portogallo – erano troppo deboli per imporre un cambiamento di marcia. Al piano – vedremo in futuro se le rose fioriranno – Sarkozy ha lavorato con determinazione per oltre un anno. Ha atteso con pazienza che la diplomazia a Est conquistasse tutto quello che poteva conquistare e ha quindi aperto un nuovo fronte di lotta. Lo ha fatto con intelligenza: non in nome della Francia, che conserverà un ruolo preponderante, ma in nome dell’intera Europa. Come mostra il cambiamento voluto nel nome della missione: non più soltanto “Processo Barcellona”, ma la nuova

postilla: “Unione per il Mediterraneo”. Forse una foglia di fico per vincere le resistenze tedesche. Comunque un’apertura di cui l’Italia, interessata a quegli sviluppi più della stessa Francia, dovrebbe approfittare. Si è detto che la grande kermesse parigina fosse il contentino per la Turchia, tenuta fuori dal processo di allargamento europeo.Tattica possibile, ma non certo l’unico elemento da considerare. Il successo dell’iniziativa, al di là dei brillanti risultati politici con la Siria tornata a essere “dialogante”, sconta le modifiche profonde intervenute in questo scacchiere della realtà internazionale: il Mediterraneo non è più, o non è soltanto, il luogo dello “scontro di civiltà”. In questi ultimi anni la sua geografia economica è profondamente cambiata. È iniziato un seppur lento processo di sviluppo, che coinvolge i principali Paesi: Egitto, Marocco e Turchia. Mentre Israele vive da tempo uno stretto connubio con la grande avventura tecnologica americana. E i paesi produttori di petrolio – dall’Arabia Saudita agli Emirati – hanno impostato da tempo grandiosi processi di sviluppo, utilizzando a tal fine le loro grandi riserve finanziarie.

Negli ultimi anni il loro tasso di sviluppo è stato del 4,4 per cento. Poco se paragonato a Cina e India, ma un sogno rispetto alla modestia delle medie europee. Forte il flusso di investimenti esteri: dall’estrazione del greggio, alle infrastrutture; dal turismo alla logistica. Tangeri è divenuto un porto che non ha nulla da invidiare a quello americano di Long Beach. Questa, la molla che ha spinto Sarkozy a forzare i tempi e presentare un progetto che può camminare con le sue gambe e contribuire, grazie allo sviluppo economico congiunto, a ridurre i rischi del conflitto politico.


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economia I piani del ministro Tremonti sul federalismo fiscale non sembrano collimare con i progetti dei governatori, che da tempo chiedono maggiore autonomia impositiva su tributi nazionali come Irpef e Irap. Il governo rischia di aprire un nuovo fronte con gli enti locali dopo lo scontro sui tagli alla sanità e alle infrastrutture previsti nella manovra triennale

Tremonti si accinge a presentare il suo piano. Che però non va oltre il trasferimento dell’80 per cento dell’Iva alle Regioni

Federalismo fiscale,un mezzo passo falso di Carlo Lottieri rumors dicono che è questione di ore, o al massimo di giorni, e il disegno governativo in tema di federalismo fiscale verrà reso noto dal ministro Giulio Tremonti. La cosa è positiva, dato che dopo tanti discorsi spesso generici si passa a proposte e scelte concrete. Ma fino a oggi la discussione è stata deludente e anche le anticipazioni in merito al possibile profilo del nuovo assetto della finanza pubblica non sembrano muoversi nella giusta direzione.

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A quanto pare, la montagna governativa starebbe partorire un topolino federale piccolo piccolo, se sono vere quelle voci – sempre più insistenti – secondo cui la nuova finanza degli enti locali sarebbe basata sul fatto di lasciare alle singole regioni un quota rilevante dell’Iva versata all’interno di ognuno singolo territorio. Bisogna anche ricordare che l’Europa impone che tale prelievo sia uniforme a livello nazionale (stessa aliquota per i medesimi prodotti), e quindi non vi sarebbe nemmeno in futuro la chance di dare alle Regioni la facoltà di declinare diversamente il tributo. Sembra poi che la proposta di riforma introduca incentivi volti a premiare quanti sanno gestirsi meglio (specie in ambito sanitario), obbligando chi sfora i limiti di bilancio a imporre ticket e quindi a sfidare l’impopolarità. Ma questa appare una stra-

da volta a razionalizzare il presente: è un centralismo ripensato, non un vero modello federale. Allora è necessario tornare al punto di partenza, chiedendosi perché da vent’anni si parla di federalismo. La prima ragione, e qui la Lega è sempre stata molto chiara, rinvia all’esigenza di ridurre i trasferimenti dal Nord al Sud. L’economia settentrionale, specialmente quando si parla di aziende piccole e piccolissime, paga un prezzo alto per l’intervento pubblico nel Mezzogiorno: e se la grande industria riesce in vari modi a trarre beneficio anche da tutto ciò, lo stesso non si può dire per quelle microimprese che sono un tratto caratteristico del Nordest. Le proposte che circolano – in particolare quella della regione

Almeno in apparenza. Si tratta infatti di capire cosa avviene al resto del bilancio pubblico, poiché è ovvio che per le regioni meridionali l’80 per cento dell’Iva rischia in molti casi di essere poca cosa. È quindi fatale che si prevedano forme di perequazione.

Non esiste politico in grado di opporsi a simili rivendicazioni: la redistribuzione fa male al Nord e soprattutto al Sud, che avrebbe bisogno di più mercato e meno Stato, ma è difficile “disintossicare” dall’oggi al domani un’economia. La questione della redistribuzione non soltanto non verrà risolta dalle riforme sul tappeto, ma neppure rappresenta il vero cuore della questione. Parlare di federalismo fiscale, infatti, non

Il progetto del governo non dovrebbe affrontare in modo incisivo l’autonomia impositiva degli enti locali, lasciando allo Stato centrale l’onere della perequazione dei fondi tra Nord e Sud Lombardia – muove in parte da questa esigenza, perché se (per esempio) l’80 per cento dell’Iva lombarda rimane nella regione, è ovvio che si tratta di una somma cospicua, la quale viene sottratta al bilancio nazionale. “Fermare” le entrate fiscali nelle regioni in cui la ricchezza è prodotta finisce per ridurre la redistribuzione tra Nord e Sud.

implica tanto e in primo luogo che si diano più soldi a Regioni e Comuni. La questione decisiva, invece, è che si inizi a riconoscere l’autonomia impositiva degli enti periferici, che devono poter vivere di risorse loro. Per questo motivo, meglio sarebbe assegnare alle Regioni non già una quota dell’Iva, ma una percentuale dell’Irpef (il 50

per cento, per esempio), lasciando soprattutto che ogni Regione definisca le proprie aliquote, la franchigia per i redditi più bassi, e via dicendo. In tal modo, ogni governatore sarebbe costretto a definire un bilancio fatto di tasse e uscite, e alla fine del mandato sarebbe essere giudicato per ciò che ha tolto e ha dato. Quella responsabilizzazione degli attori politici locali che di fatto è impossibile in un sistema di finanza derivata, dove i soldi pubblici seguono percorsi tortuosi e nessuno sa mai quanto ha pagato e cosa ha ricevuto, potrebbe finalmente prende forma di fronte ai nostri occhi. Ma c’è un altro e ancor più importante elemento. Definire venti sistemi fiscali regionali – analogo discorso potrebbe farsi per i Comuni, seguendo il modello svizzero – introdurrebbe meccanismi competitivi che finirebbero per vincolare la possibilità per gli enti locali di aumentare spese e tasse. Se Toscana e Lazio avessero sistemi fiscali distinti, presto si assisterebbe a una concorrenza in grado di razionalizzare le gestioni, anche al fine di attrarre capitali e imprese: poiché è ovvio che imprenditori e investitori prediligono le aree a bassa fiscalità. Un esempio è in grado d’illustrare il problema. Lo scorso febbraio un’impresa con sede a Firenze e che affitta autovetture alle aziende, la Ar-

val, ha annunciato di voler trasferirsi a Brescia per sfuggire al bollo-auto davvero molto esoso imposto dalla Toscana. Disponendo di circa centomila automobili, essa risparmierà una bella somma potendo pagare tale onere alla Lombardia, che ha deciso un’imposta inferiore. Ecco: immaginiamo che in competizione non sia soltanto un balzello (sostanzialmente marginale) di questo tipo e poco altro, ma invece una voce tanto importante quale è quella delle imposte sul reddito. Per un’impresa straniera, scegliere una regione invece che un’altra in modo da stabilire lì la propria attività, potrebbe voler dire la possibilità di garantire stipendi consistenti ai propri occupati, anche a costi contenuti per l’azienda, grazie alla pressione fiscale contenuta.

La proposta governativa è comunque una buona cosa: toglie il federalismo dal regno dei sogni e ne fa un progetto concreto. C’è però da augurarsi che su quel testo si apra un dibattito sereno e informato, e che da lì si possa partire per realizzare riforme orientate verso una fiscalità locale autonoma, concorrenziale, veramente nelle mani dei presidenti e delle assemblee regionali, dei sindaci e dei municipi. Perché se federalismo deve essere, che federalismo sia davvero.


economia

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Il presidente della Consob chiede nuove regole di vigilanza e attacca le banche sulla gestione dei fondi comuni

Cardia: «La crisi non può dirsi superata» di Alessandro D’Amato

d i a r i o MILANO. «Ad un anno di distanza dal suo manifestarsi, la crisi non può dirsi superata. Sono emersi problemi che richiedono risposte adeguate e tempestive per fronteggiare le tensioni in atto e per prevenirne di nuove. Gli approcci e, in parte, le regole di vigilanza devono essere rinnovati». Neppure il tempo di pronunciare i ringraziamenti di circostanza, e Lamberto Cardia comincia da un argomento caldissimo la sua relazione annuale sull’attività della Consob. Ad ascoltarlo, in prima fila, c’è il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. E queste parole saranno state musica per le sue orecchie, visto che il responsabile del Tesoro non ha perso occasione di criticare – come ha fatto con il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi – chi ha, a suo dire, ha provato a minimizzare la portata della crisi. Cardia invece parla di problemi strutturali nelle cartolarizzazioni (e ricorda che il valore nozionale dei derivati over the counter nel 2007 ammontava da 6200 a 9600 miliardi, con un incremento del 54 per cento), e anche di «fallimento del mercato», puntando l’indice sulle agenzie di rating e sui loro conflitti di interesse. Non lo dice, ma pensa ai famosi titoli-salsiccia che da un lato le varie Moody’s & Co. si trovavano a confezionare, mentre, dall’altro, le stesse case esprimevano un giudizio sulla loro solidità. E si toglie un sassolino nella scarpa, dopo aver chiesto regole internazionali valide per tutti: ricorda che una norma che attribuiva alla Consob la vigilanza sui conflitti d’interesse è stata abrogata prima ancora di entrare in vigore. Quale

d e l

g i o r n o

Sacconi: 400 milioni per evitare ticket Il governo è pronto a portare a 400 milioni di euro, rispetto ai precedenti 50, il contributo destinato al patto per la salute per le Regioni in deficit ed evitare il ritorno dei ticket sulla diagnostica e specialistica per il 2009. La proposta è stata formalizzata ieri, durante un incontro informale con i governatori, dai ministri Maurizio Sacconi e Raffaele Fitto. A stretto giro la replica del presidente della conferenza Stato-Regioni, Vasco Errani: «Abbiamo risposto che non è sufficiente. Gli 883 milioni necessari devono essere a suo carico, come prevedono gli accordi sul patto per la salute».

Subprime, Usa smentisce altri aiuti

Netta stoccata alla fusione tra Borsa italiana e Lse: «L’asse decisionale si sposterà verso Londra» sia la legge è scritto nella nota che accompagna la relazione: è la 262 del 2005, firmata proprio dal ministro Tremonti. Per il presidente della Consob esiste una vera e propria«resistenza al cambiamento» sulle minoranze azionarie, aggiungendo che «l’attivismo dei fondi internazionali è stato attuato in forma non necessariamente conflittuale nei confronti degli assetti di controllo esistenti». E il riferimento sembra proprio essere puntato verso l’infinita querelle tra Generali e il suo azionista di minoranza Algebris. Riguardo lo stato comatoso dei fondi comuni, il presidente della Consob indica come unico responsabile le banche, che hanno preferito vendere prodotti propri.

Sulla class action il giudizio è positivo. «Il rinvio dell’introduzione nell’ordinamento italiano dell’azione collettiva risarcitoria», nota, «non deve distogliere l’attenzione dalla funzione positiva che potrebbe svolgere». Ma a Cardia sta a cuore anche un’altra riforma: quella delle authority. «I tempi», dice, «sono maturi, anche al fine di porre termine alla situazione di incertezza e ai rischi di duplicazione degli interventi». Non mancherà, poi, «un’operazione di sistematizzazione dei propri regolamenti», con la quale iniziare a riformare la Consob. E poi, inaspettata, ecco una critica alla fusione tra Borsa italiana e la Lse. A suo dire, la revisione della struttura organizzativa del gruppo «fa temere la possibilità di un progressivo spostamento dell’asse decisionale sulla piazza londinese». Anche se bisogna ricordare che una valutazione così lusinghiera per Milano – 1.634 miliardi di euro – sarebbe difficilmente arrivata in una fase del mercato come questa.

Dallo stato maggiore di Fiat e Benetton fino alla Marcegaglia: tante assenze nel parterre

E il gotha della finanza marca visita MILANO. I tempi delle scalate dei furbetti sono lontani e l’assenza del presidente della Repubblica certamente avrà pesato. Ma quello che ieri ha assistito all’annuale relazione del presidente della Consob, Lamberto Cardia, era molto distante dal potere essere definito come un parterre de roi. Alcune assenze, come per esempio quelle dell’intero vertice Fiat e Ifil, rischiano di essere interpretate come una risposta polemiche, se lette attraverso la lente della vicenda dello swap Ifil-Exor. Alla stessa stregua la virtuale assenza dell’intero universo Benetton, rappresentato dal solo Gian Maria Gros Pietro, potrebbe essere vista come una sottolineatura dello scarso gradimento dell’atteggiamento della Commissione nell’ambito della vicenda delle concessioni autostradali: quando la famiglia

di Ponzano Veneto era contrapposta all’esecutivo Prodi. Ma al di là delle possibili spiegazioni di carattere personale, rimangono molte le assenze di ieri. Completamente assenti i vertici delle Generali, mancavano i capiazienda della maggior parte delle società dell’S&P Mib. Non c’erano Fulvio Conti di Enel e Paolo Scaroni di Eni, che sono state rappresentati dai rispettivi presidenti (Piero Gnudi e Roberto Poli) così come IntesaSanpaolo, presente con il solo Giovanni Bazoli. A differenza della “galassia” Unicredit-Mediobanca con Alessandro Profumo, Cesare Geronzi e Alberto Nagel. Da un punto di vista politico Cardia ha dovuto incassare le defezione di Emma Marcegaglia. Se dalle presenza si dovesse delineare un indice di gradimento quello di Cardia, oggi non sarebbe altissimo.

Il piano di salvataggio del governo e della Fed per le agenzie parastatali, e colossi dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac non sembra bastare alle Borse americane. Ieri, a metà giornata e dopo uno sprint iniziale, il Dow Jones cedeva mezzo punto percentuale mentre il Nasdaq quasi l’1,25 per cento. Nella decisione di Paulson e Bernanke gli operatori leggono la volontà delle autorità di non ripianare i debiti delle grandi banche d’investimento e delle società finanziarie. Non a caso Dana Perrino, portavoce della Casa Bianca, ha detto che gli aiuti alle due agenzie «non peseranno sui contribuenti americani. Le due società sono ben capitalizzate, abbiamo soltanto inviato un messaggio al mercato che è nervoso: se ce ne sarà bisogno il governo c’è».

Finmeccanica guarda a nuove alleanze In via di completamento l’acquisizione dell’americana Drs, Finmeccanica guarda a nuove espansioni. «Quest’operazione», ha spiegato il presidente e Ad Pier Francesco Guarguaglini, «apre una fase nuova, perché nel 2008 c’è stato il salto di qualità. Prioritario è proseguire sulla strada delle alleanze strategiche sia per determinati settori di business, come nel caso dello spazio o dei sistemi subacquei, sia in specifici mercati, come l’area del Golfo o l’India. Ieri, intanto, si è chiusa con una forte adesione la sindacazione del prestito di 3,2 miliardi da parte di Finmeccanica a supporto dell’acquisizione di Drs Technologies. Un emendamento approvato ieri alla Camera ha disposto che il governonon possa andare sotto il 30 per cento, che è la soglia di controllo. Intanto Stéphane Mayer, Ceo di Atr (joint venture di Alenia Aeronautica ed Eads ha annunciato per fine anno la consegna di 60 velivoli e un fatturato di circa 1,3 miliardi di dollari.

Piazza Affari in positivo (+1,15 per cento) Si apre nel modo migliore la settimana a Piazza Affari: ieri Milano ha goduto del rimbalzo tecnico che ha contraddistinto tutti mercati europei e ha chiuso con un +1,15 per cento. Migliori performance per il settore costruzioni, con Impregilo in crescita del 4,33. Bene anche Italcementi (+3,63) e Buzzi Unicem (+3,04). Le decisioni Fed e Tesoro Usa aiutano invece le banche: Bpm sale del 2,85, Unicredit dell’1,14. Male gli energetici: Snam Rete Gas (-2,32 per cento), Saipem (-2,29) e Enel (-1,93).

Generali: De Agostini al 2,68 per cento Dopo il restyling in Lussemburgo, si rafforza il gruppo De Agostini nel capitale di Generali. La B&D Holding di Marco Drago e C. Sapa, l’accomandita delle famiglie Boroli e Drago, ha arrotondato la propria partecipazione nel Leone di Trieste, salendo al 2,68 per cento dalla precedente quota del 2,452. Lo si è appreso ieri dalle comunicazioni della Consob sulle partecipazioni rilevanti. L’operazione risale allo scorso 7 luglio e la salita nel capitale è dovuta alla fusione per incorporazione della società Dea Participations nella De Agostini Invest.


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letture negli anni della seconda guerra mondiale, ci sono i fascisti locali che fanno gli smargiassi, i notabili dell’“onorata società” che esercitano il loro contropotere, il popolino che china la testa per quieto vivere. Intanto, nell’aria, vaghe indefinite attese di “qualcosa” ( e, in effetti, lo sbarco alleato è prossimo). Tra i rituali del lavoro quotidiano, i treni che vanno e vengono, i concertini domenicali che lo vedono impegnato insieme all’amico Totò Cozzo (Totò suona la chitarra, lui il mandolino, e “da dio”), il casellante Nino Zarcuto vive un’esistenza povera e serena. Nel senso che si accontenta di poco e dunque non gli manca nulla. Anzi, qualcosa gli manca. Infatti, lui e la moglie Minica vorrebbero un figlio. Un bel bambino che riempirebbe di chiassosa allegria la loro casetta gialla, accanto a un pozzo e a un olivo saraceno, nello scabro paesaggio invaso dal sole meridiano.

nche chi si orienta con qualche difficoltà nel colorito impasto siculoitalico inventato da Andrea Camilleri, non può non provare simpatia per il suo eroe: il commissario Montalbano. Et pour cause, visto che Salvo è un tipo tosto, che pare tutto nature e invece ogni tanto ti infila al punto giusto una citazione colta; un tipo che all’occorrenza tira anche degli schiaffoni ma crede nella legge, nello Stato, nelle istituzioni (un po’ meno in chi le rappresenta); che ama mangiare e bere senza troppe preoccupazioni per la dieta e gli anni che passano e pesano; che si inebria della beata solitudine della sua casa affacciata sul mare, e dell’aria, del sole, delle lunghe nuotate; che è rocciosamente fedele, nel cuore, alla sua donna di sempre, la “continentale” Livia, anche se ai desideri, umani, troppo umani, del corpo, ogni tanto lascia briglia sciolta, soprattutto se capita una “fimmena” capace di stregarlo con le arti giuste. Viva dunque il prode, candido ed ispido segugio di Vigata, e viva Luca Zingaretti, che gli ha regalato una faccia tenera e incazzosa, una coccia pelata come si deve, un torace possente e un bel paio di gambe storte!

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Ma, come Georges Simenon non “era” solo Maigret, perché sfornava decine e decine di splendidi romanzi (tutti in catalogo da Adelphi) dove del commissario non appariva nemmeno l’ombra, analogamente Andrea Camilleri non “è” solo Montalbano. E l’amata Sicilia ce la racconta in tante altre maniere. Ad esempio, attingendo a favole e leggende. Suggestive, piene di amore e mistero, impastate di ammaliante fantasia. Fatali e fatate. Magari, come ha scritto, le ascoltava da bambino, e a un certo punto sono balzate fuori dall’archivio della memoria,pronte ad essere evocate dalla scrittura. Siculo-italica, ovviamente. L’anno scorso Camilleri ci deliziò e ci commosse con la storia di Gnazio Menisco, un bracciante-muratore di Vigata che, dopo aver lavorato sodo per tanti anni a “Novaiorca”, se ne torna al paese natìo con un discreto gruzzoletto e l’intenzione di farsi una bella famigliola. E così, cerca e ricerca, sposerà una sirena che discende da quelle che incantarono Ulisse e avrà due figli, un maschio e una femmina,“straordinari” come la loro mamma(Manuzza Musumeci, Sellerio) e a mirabili eventi destinati. Ed eccoci adesso a un nuovo “cunto”, ben piantato nella terra e nella storia, ma attraversa-

Esce ”Il casellante”, romanzo sull’amore filiale

Madre coraggio, la nuova star di Camilleri di Mario Bernardi Guardi to da un bel po’ di suggestioni arcane ( Il casellante, Sellerio, pp. 143, euro 11).

Ricordate il mito di Niobe? Era tanto fiera della sua bella e copiosa prole (sette figli e sette figlie) da proclamarsi superiore a Latona, madre di Apollo e Artemide. I quali, invidiosi e vin-

Come nella storia di Niobe, Minica è una donna che desidera la maternità, lotta contro il fato e subisce una metamorfosi

dici ( i soliti dèi…) le uccisero l’amata figliolanza. Poi, mossi a pietà dinnanzi a quella mamma disperata, la trasformarono in una pietra stillante lacrime. Ebbene, anche nel Casellante si verificherà una metamorfosi, legata alla maternità oltraggiata. Non è che lo scenario lo faccia prevedere: siamo a Vigàta,

Vogliono, fortissimamente vogliono, un figlio, Nino e Minica. Non arriva. Ma loro non si danno per vinti e chiedono consiglio a medici e a mammane. I consigli arrivano. Ora, Minica è incinta. Sta arrivando la felicità: e poi Nino ha anche vinto al lotto e quei soldi faranno comodo. Ma gli dèi sono invidiosi. E accanto a noi abitano i “mostri”. Mostri insospettabili. Uno, un tipo tutto gentilezze e carinerie, uno che è peggio di una bestia, violenta Minica. Poi la prende a calci e pugni, e tenta di ammazzarla con una spranga di ferro. I medici ce la fanno a salvarla, ma la donna ha perso il bambino, non potrà più avere figli, e adesso la sua mente è un lago di desolata follia. Li vuole i figli, fortissimamente li vuole, Minica, la donna ferita e profanata, che ha perduto il suo bambino. E siccome lei è “natura”, profonda ed elementare, alle profondità del suo essere oscuramente si richiama. E da un passato arcano vengono a visitarla strane suggestioni. E un appello rigeneratore: la metamorfosi. “Uccisa” come donna e come madre, Minica si convince di poter diventare un albero. Se Nino la innesta, darà frutti. Lui fa tutto per l’amata sposa: commosso, innamorato, pieno di premure, la “serve”in ogni richiesta. E alla fine per la “mater dolorosa”ci sarà anche la pietà divina.


musica

15 luglio 2008 • pagina 19

In libreria, la raccolta dei pungenti faccia a faccia di William Burroughs con Bowie, Smith, Blondie e Devo

Il «grinzoso» rocker della parola di Stefano Bianchi Adorato da tutte le grandi band del passato come i Soft Machine (foto in basso), lo scrittore William Burroughs (foto grande) ha intervistato nel tempo personaggi del calibro di David Bowie (a sinistra), Patti Smith (in basso a destra), Blondie o Devo. Il libro ”Rock’n’Roll Virus”, curato da Matteo Boscarol, ne raccoglie i faccia a faccia

vrà pensato al rock,William Burroughs, prima di volare in cielo a 83 anni? Quel grande vecchio grinzoso come una lucertola, che non veniva “dalla strada” come Allen Ginsberg o Jack Kerouac ma era un borghese laureato ad Harvard, ben sapeva quale fosse il significato di heavy metal.

A

Fu lui a sdoganarlo nel romanzo The Soft Machine del ’61 (introducendo il personaggio Uranian Willy, the heavy metal kid) per poi riprenderlo in Nova Express fra visionarie Genti di Metallo Pesante di Urano e Genti Insetto di Minraud che alludevano, soggiogate da una

«musica di metallo», alle sostanze stupefacenti. Il rock, pigiato nel cervello di colui che raccontava mutazioni genetiche scardinando la parola come «virus che viene dallo spazio», è protagonista del libro Rock’n’Roll Virus (Coniglio Editore, 200 pagine, 14 euro), curato da Matteo Boscarol, che raccoglie i faccia a faccia dello scrittore con David Bowie, Patti Smith, Blondie e Devo. Più l’intervista che Robert Palmer, giornalista di Rolling Stone, gli fece a Londra nel ’72 promuovendolo icona della cultura rock alternativa. Ma a quel pugno d’ossa venerato dai punk e osannato dai dark, non interessava la «forma» del rock quanto le sue potenzialità eversive. In un passo del Pasto nudo del ’59, Burroughs scriveva: «Adolescenti teppisti al Rock and Roll gettano lo scompiglio nelle vie di tutte le nazioni. Essi fanno irruzione al Louvre e gettano acido sul viso di Monna Lisa. Aprono gli zoo, i manifesti, le prigioni, fanno saltare gli acquedotti con martelli pneumatici, asportano il pavimento nei gabinetti degli aerei passeggeri, sparano ai fari, assottigliano i cavi degli ascensori fino a ridurli a un filo esilissimo…». E il rock, ossequioso, l’ha ringraziato e gratificato. Basti pensare agli Steely Dan, che devono il nome al vibratore alimentato a vapore di The Naked Lunch. O agli psichedelici Soft Machine che decisero di chiamarsi così dopo aver “metabolizzato” l’omonimo romanzo. E Frank Zappa? Nella Nova Convention del ’78 con John Cage,

va prendendo frasi, sminuzzandole e rimontandole fino a scovare nuovi significati. William instaura un bel feeling con David, anche se quest’ultimo ammette di non aver letto granché della sua opera: «A essere sincero, non ho letto molto oltre a Kerouac. Ma da quando ho cominciato a scorrere il tuo lavoro, non riuscivo a crederci. Specialmente dopo aver letto Nova Express. Mi sono sentito in sintonia con il libro. Il mio ego, naturalmente, mi ha fatto saltare subito agli occhi il capitolo Pay Color. Poi, ho cominciato a pescare frasi a caso dalle altre parti del romanzo». Con Patti Smith, invece, lo scrittore dialoga nel ’79. Le dice: «Abbiamo l’intera generazione del punk

che è essenzialmente una generazione di anti-eroi. È evidente come rigettino i valori tradizionali, perché questo risveglio li ha resi coscienti del fatto che tutti i princìpi con i quali sono cresciuti sono sciocchezze. Per questo rifiutano quelle regole. Quindi, se vuoi, potremmo considerarli come parte di un movimento che hai aiutato a far nascere». E lei: «Non sono d’accordo con loro. Credo negli eroi. Guarda, amo quei ragazzi, ma talvolta mi sembra di aver generato una covata di piccoli mostri. Non credo che sia grande farsi di eroina a ventun anni e crepare…».

Philip Glass, Laurie Anderson e Patti Smith, declamò The Talking Asshole estrapolandolo dal Pasto nudo. Senza contare le “ospitate”: Burroughs che s’insinua in Language Is

Rider, a flirtare col mefistofelico Tom Waits. L’apocallittico “guru”, nel ’74 si trasferisce da Londra a New York dove affitta un appartamento sulla Bowery, che verrà poi denominato Bunker. L’underground (da Lou Reed a Patti Smith) gli rende omaggio con un incessante viavai. Burroughs è reduce dalla con-

Lo scrittore borghese laureato ad Harvard ben sapeva quale fosse il significato di heavy metal. Fu proprio lui a sdoganarlo nel 1961 attraverso il romanzo ”The Soft Machine” A Virus, nell’86, accanto a Laurie Anderson; gomito a gomito con Kurt Cobain, per The “Priest”They Called Him (’93) e, sempre in quell’anno, dentro Technodon della Yellow Magic Orchestra di Ryuichi Sakamoto e negli interstizi di The Black

versazione con David Bowie pubblicata su Rolling Stone. Una manna, per la rockstar, che sta dando gli ultimi ritocchi all’ellepì Diamond Dogs con tanto di cutup, la tecnica che il romanziere utilizza-

È dell’81, invece, l’incontro con Debbie Harry e Chris Stein dei Blondie. Con tanto di frivolezze postmoderne: voli in parapendìo, cibi in scatola, Ufo… Zero musica, zero letteratura. Ma i Blondie, si sa, sono la faccia più “popular” della new wave. Gli elettronici Devo, intervistati l’anno successivo, sono infine i protagonisti della De-evolution, bislacca filosofia che fa regredire l’essere umano a uno stadio simil-robotico. La colpa? Dell’alienazione consumistica. Burroughs, ovviamente, ci va a nozze. I Devo gli confidano di avere a che fare «con gente che mangia hamburger da McDonald e indossa jeans Jordache. Crediamo che in un certo senso siano le stesse cose che odiamo a darci da vivere». Lui ribatte: «Succede a tutti. L’uomo può vivere senza nemici? La risposta è che non è mai stato così». Saggio e cinico. Un autentico rocker della parola.


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storia

Il decalogo sulla razza che perseguiva gli ebrei compilato da dieci scienziati fu, in realtà, ”dettato” da Mussolini

Il manifesto del Duce di Mauro Canali

sattamente settanta anni fa, il 14 luglio 1938, veniva pubblicato dal Giornale d’Italia il cosiddetto ”manifesto sulla razza”. Compilato da dieci ”scienziati” e costituito di dieci assunti, questo sconcio decalogo suscitò nella stampa italiana, dopo un primo momento di disorientamento, un coro di entusiastici consensi e di commenti servili, tutti orientati a incoraggiare il regime fascista sulla strada di una persecuzione coerente e rigorosa degli ebrei. Con i suoi primi sei articoli il manifesto tentava di dimostrare che l’esistente razza italiana era una pura razza ariana, mentre con gli ultimi tre suggeriva una vera e propria politica razzista, resa necessaria, così sosteneva il manifesto, dalle esigenze di conservare pura la razza italiana. Mentre il punto 8 escludeva l’esistenza di una comune razza mediterranea, e quindi l’esistenza di una razza italiana dalle comuni radici con le razze semitiche e camitiche, il punto 9 dichiarava categoricamente che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana”, e il punto 10 auspicava che si prendessero le necessarie misure per impedire l’alterazione dei caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani. Anche se ufficialmente i riflettori mediatici vennero ovviamente puntati sui dieci ”scienziati” firmatari del manifesto, sulla sua reale paternità qualcosa di significativo ce lo svela nel suo diario Ciano, quando il 14 luglio appunta: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui».

E

La conferma viene da una cronaca di Bottai della seduta del Gran Consiglio del 6 ottobre, in cui si stava discutendo della questione razziale. A un certo punto, scrive Bottai, intervenne Mussolini che alludendo al ”manifesto”affermava: «Sono io, che praticamente l’ho dettato». La realtà è che la bozza provvisoria, sulla quale alcuni tra i più autorevoli dei dieci ”scienziati”, come ad esempio Pende e Visco, intendevano ancora intervenire perché da loro considerata non ancora del tutto rispondente alle loro idee, aveva subito interventi pesanti di Mussolini, che erano valsi a trasformare il manifesto in una sorta di ”breviario del razzista”, utile ai suoi obiettivi politici. E vani erano risultati i tentativi posti in atto dagli ”scienziati” per ritirare la loro firma dal documento.

Le grida, i clamori, le invettive che si alzarono contro gli ebrei nei giorni seguenti da tutti i fogli ufficiali e ufficiosi, dai più paludati a quelli militanti, rappresentano una delle pagine più vergognose della storia italiana. È’ in questo clima che vide la luce il quindicinale La difesa della razza, di Telesio Interlandi. A rinfocolare la ”caccia all’ebreo” ci pensò il comunicato del Pnf del 25 luglio, che prendeva lo spunto dall’incontro del segretario Starace con i dieci firmatari del manifesto. Anche in questo

Il quindicinale La difesa della razza, di Telesio Interlandi uscì dopo la pubblicazione del ”manifesto sulla razza

tuito – coi loro uomini e coi loro mezzi – lo stato maggiore dell’antifascismo».

Sulla sua reale paternità qualcosa di significativo ce lo svela nel suo diario Ciano e lo conferma anche Bottai caso è Ciano a rivelare che, naturalmente, era sempre Mussolini a orchestrare tutta l’iniziativa. Infatti Ciano, il 15 luglio, riporta che Mussolini gli aveva confidato che per la questione della razza avrebbe fatto «chiamare gli ”studiosi” dal Segretario del Partito per dichiarare loro la presa di posizione ufficiale del regime nei confronti di questo problema. Presa di posizione che non significa persecuzione, ma discriminazione».

Il 19 luglio Mussolini intanto anticipava a Bottai le misure successive che avrebbe preso contro gli ebrei: «soluzioni graduali, tendenti a escluderli dall’esercito, dalla magistratura, dalla scuola». Nel comunicato del 25 luglio, Starace inseriva, tra le ragioni a favore della discriminazione, quella che identificava gli ebrei con l’antifascismo. Dopo aver dichiarato genericamente che, con la costituzione dell’impero, l’Italia era venuto in contatto con altre razze, e quindi doveva difendersi «da ogni ibridismo e contaminazione - e dopo aver rovesciato grottescamente le accuse di razzismo sugli ebrei - essi si considerano da millenni, dovunque e anche in Italia, come una razza diversa e superiore alle altre – Starace infatti dichiarava che “nonostante la politica tollerante del Regime gli ebrei hanno, in ogni nazione, costi-

Dunque, ebreo=antifascista. La bislacca teoria venne ripresa, il 6 ottobre al Gran Consiglio, proprio da Mussolini, il quale, dopo aver precisato, come testimonia Bottai, che «il residuo antifascismo è di marca ebraica», aveva grottescamente concluso a titolo di esempio che «i conati di azione ostile a Hitler, durante il suo viaggio in Italia, sono di marca ebraica». La volontà di andare fino in fondo con la campagna antisemitica venne espressa da Mussolini il 30 luglio, quando, dopo una visita a Forlì a un campo di avanguardisti, avvertirà i federali riuniti attorno a sé «che anche nella questione della razza noi tireremo dritti». E infatti il 6 ottobre del 1938 si ebbe la prima sciagurata conclusione ufficiale della campagna razzista. Nella riunione del Gran Consiglio, tenuta in ore notturne, dopo un dibattito dominato da Mussolini, venne approvato una “dichiarazione sulla razza” che forniva al regime fascista una veste legislativa per la persecuzione antisemitica. In realtà il testo approvato era quello elaborato in precedenza da Mussolini. Sul dibattito che si svolse tra le 22.30 del 6 e le 2.30 del 7 ottobre abbiamo due testimoni eccellenti, Ciano e Bottai. Ciano aveva già manifestato molte perplessità sulle leggi razziali, confidando a Bottai, sin dal 6 agosto, che se fosse dipeso da lui avrebbe limitato il problema della razza «a due aspetti: difesa dal meticciato nelle terre dell’Impero; difesa dagli stranieri ebrei, cacciati in Italia da altri Paesi». Sappiamo da Ciano che il dibattito ci fu ma che la voce degli oppositori delle leggi antisemitiche fu molto flebile. Si mostrarono contrari alla ”di-


storia

chiarazione” Balbo, De Bono e Federzoni, mentre a sorprendere Ciano fu l’intransigenza manifestata da Bottai, il quale opponendosi «a qualsiasi attenuazione dei provvedimenti», aveva cinicamente concluso, alludendo agli ebrei, che: «Ci odieranno perché li abbiamo cacciati. Ci disprezzeranno perché li riammetteremo».

Il diario di Bottai si presenta meno avaro di dettagli di quello di Ciano. A differenza di Ciano, egli, riferendosi a Federzoni, Balbo e De Bono, attenua di molto i toni della loro opposizione, gli ultimi due perplessi solo dell’eccessiva estensione delle categorie degli ebrei discriminati. Bottai descrive inoltre un Mussolini che «attacca con impeto polemico». Il capo del governo arriva a reclamare al suo antisemitismo antichi titoli, prima facendolo risalire addirittura al 1908 - «Si potrà, occorrendo, documentarlo», dichiara con enfasi -, poi ricordando, con un lungo salto nel tempo, il suo discorso di Bologna del 3 aprile 1921, in cui aveva già fatto riferimento a «questa nostra stirpe ariana e mediterranea». Tali accenni autobiografici sembrerebbero dare ragione a Giorgio Fabre, che in un recente lavoro, Mussolini razzista, fissa addirittura agli anni dieci, al Mussolini socialista, la conversione all’antisemitismo del futuro duce del fascismo. La storiografia si chiede da almeno un paio di decenni se il razzismo sia stata una componente congenita del fascismo o solo un aspetto contingente e, tutto sommato, opportunistico? La posizione classica defeliciana, espressa dal grande storico del fascismo nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, faceva più o meno coincidere l’ac-

costamento da parte di Mussolini a posizioni antisemitiche con il suo progressivo avvicinamento alla Germania nazista, s’era trattato insomma di una decisione dettata da esigenze tutte politiche, derivate dall’alleanza con Hitler. Il fascismo, fino ad oltre la metà degli anni trenta, risultò quindi immune dal virus razzista, tanto meno dall’antisemitismo. La ricerca storica più recente, espressa soprattutto dai lavori di Michele Sarfatti, respinge tuttavia queste conclusioni, asserendo che il razzismo, di cui l’antisemitismo era un aspetto, fu una componente organica della dottrina e della prassi fasciste. Naturalmente il dibattito è ben lontano dall’essere concluso. E’ tuttavia difficilmente contestabile che forti preoccupazioni di carattere razzista sono evidenti in Mussolini già nel 1936, pochi giorni dopo la vittoriosa aggressione all’Etiopia, cioè quando erano ancora di là da venire i richiami della sirena nazista. A turbare i sonni di Mussolini sembrava essere allora la preoccupazione per la promiscuità facilmente prevedibile che vi sarebbe stata tra italiani e popolazioni etiopiche. L’11 maggio 1936, aveva infatti spedito questo significativo telegramma a Badoglio: «Per parare sin dall’inizio i terribili e non lontani effetti del meticcismo, disponga che nessun italiano – militare o civile – può restare più di sei mesi nel vicereame senza moglie». Ma non s’era limitato a esprimere preoccupazioni.

15 luglio 2008 • pagina 21

Con un decreto legge, aveva sanzionato penalmente qualsiasi rapporto tra «i cittadini italiani e i sudditi dell’Africa Orientale Italiana». Un successivo decreto prevedeva condanne fino a cinque anni di reclusione per qualsiasi «relazione d’indole coniugale con persona suddita». S’intendeva così colpire la pratica assai diffusa in colonia della convivenza more uxorio fra italiani e donne etiopiche, il cosiddetto madamato, che veniva in tal modo sanzionato come reato penalmente perseguibile, scorgendo nell’elevato numero di meticci concepiti da questi rapporti un danno all’integrità della razza italica. A sostegno di questa campagna era intervenuto Virginio

Gayda, direttore del Giornale d’Italia, uno degli intellettuali maggiormente attivi nella propaganda a favore della politica razziale. Le sue sconce considerazioni di carattere razzistico non apparvero solo sulle colonne del suo giornale, ma vennero

affidate anche alle pagine di un opuscolo, La donna e la razza, compreso nell’opera collettanea Inchiesta sulla razza, curata da Paolo Orano, un altro bel campione di razzismo. Gayda non esitava ad esaltare la legge, poiché, a suo dire, impediva i danni che sarebbero inevitabilmente derivati dal numero crescente di meticci, i quali venivano da lui definiti «prodotti bastardi che sono una spaventosa peste per la civiltà spirituale e politica non meno che per quella economica e sociale». A Gayda veniva affidato anche l’aggiornamento per la Enciclopedia Italiana della voce “Razza: la politica fascista della razza”. Insistendo sui danni della promiscuità e degli incroci, egli vi affermava che «il meticciato si è sempre rivelato, nell’esperienza di ogni paese coloniale, come uno sciagurato imbastardimento delle qualità originarie dei produttori». Quindi giusta si presentava, a suo parere, la legislazione fascista basata su «precisi principi di netta separazione», e volta alla inoculazione negli italiani di un «fiero senso della superiorità della loro razza che non deve essere contaminata e avvilita».

È significativo che la dichiarazione della razza del 6 ottobre 1938, con cui si sanzionava la politica antisemitica, contenesse più generalmente il divieto agli italiani del matrimonio con individui appartenenti “alle razze camita e semita e altre razze non ariane”. Forse la ricerca storica, abbandonando il vezzo della contrapposizione a tutti i costi, dovrebbe verificare con più attenzione quanti spazi il razzismo, messo in circolo nel nostro paese dalla conquista dell’impero, abbia offerto al regime per l’avvio di una politica antisemitica. Che fine fecero i dieci «scienziati» che firmarono il manifesto della razza del 14 luglio? Alla caduta del fascismo, la magistratura straordinaria nominata per epurare il Paese da chi si era eccessivamente compromesso col regime fascista, prese in esame la posizione dei firmatari del manifesto, tutti docenti universitari. I quali tuttavia, a riprova delle grandi difficoltà che l’antifascismo incontrò nel giudicare il passato fascista del paese, e come dimostra un saggio di Giovanni Sedita, che vedrà la luce a settembre su Nuova Storia Contemporanea, tornarono tutti a occupare le loro cattedre, talvolta accompagnati da un tributo di onori e riconoscimenti. In realtà, anche se il regime fascista aveva impedito a diversi firmatari, con varie minacce, di ricusare pubblicamente il testo definitivo del manifesto, questo dettaglio, come ha scritto De Felice, se non diminuisce la responsabilità morale di tutti i firmatari del manifesto, serve tuttavia a spiegare «come anche dei veri scienziati finirono per avallare di fatto un testo che sotto tutti i punti di vista, scientifico, politico e morale, rimane una delle cose più meschine e gravi del periodo fascista».


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Marijuana: una sentenza che farà discutere? UNA SENTENZA CHE MI LASCIA ALLIBITO E CHE RAPPRESENTA UN PERICOLOSO PRECEDENTE

HA PERFETTAMENTE RAGIONE VOLONTÉ: «LA CASSAZIONE CONTINUA A SCONCERTARE»

Nei confronti dei seguaci della cosiddetta ”religione rasta” trovati in possesso di ”erba” in dosi significative i giudici devono essere comprensivi e considerare che, per gli adepti di tale religione fumare marijuana aiuta la contemplazione e favorisce la preghiera «nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone». Lo sottolinea la Cassazione che ha accolto il ricorso di tal Giuseppe G. contro la condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione e 4 mila euro di multa, per illecita detenzione a fine di spaccio inflittagli dalla Corte di appello di Perugia, nel 2004. I carabinieri, infatti, lo avevano trovato con circa un etto di ”erba”. In Cassazione l’uomo ha sostenuto di essere un rasta fariano e di fumare l’erba in base ai precetti della sua religione che ne consentono l’uso quotidiano anche di 10 grammi al giorno. Il mio giudizio? Onestamente sono costernato. E credo che questa sentenza rappresenti un precedente assai pericoloso. Quanti ragazzi italiani ora potranno fingere di essere seguaci di questa pseudoreligione per poter fumare spinelli a volontà senza essere toccati?

E’ una sentenza semplicemente ripugnante. Trovo inammissibile che la Cassazione abbia ritenuto ”fondato” il ricorso dell’uomo in questione sostenendo che i giudici di merito non avevano considerato «la religione di cui l’imputato si è dichiarato praticante» escludendo, secondo loro, che potesse detenere un simile quantitativo di marijuana per esclusivo uso personale. Ma in quale mondo stiamo vivendo? Nelle mani di quali giudici siamo finiti? Mi trova dunque d’accordo il commento lucido di Luca Volontè che testualmente ha dichiarato: «La Cassazione continua a stupire con sentenze sconcertanti a tal punto da diventare drammatiche: permettere ai rasta di portare con sé ”hashish”in quanto considerata dalla loro presunta religione come ”erba meditativa” avrà un duplice gravissimo effetto sulla nostra società. In primis, indurrà gli spacciatori e i commercianti di stupefacenti a utilizzare i ’rastà per i loro loschi giri, e, ancor più disarmante, gli abituali consumatori potranno farsi crescere i capelli e millantare di essere ”adepti rasta”per evitare fermi di polizia».

Marco Valensise - Milano

LA DOMANDA DI DOMANI

Ègiusto che il voto in condotta influisca sulla promozione degli studenti? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Amelia Giuliani - Potenza

GIÀ LI VEDO I PLOTONI DI ADOLESCENTI SEGUACI DI ”SANTA MARIA, DROGA DI DIO” Nessuno che sia davvero capace di analizzare i fatti lucidamente potrebbe mai difendere la sentenza della Cassazione che permette agli adepti della religione rasta (una religione che non esiste in realtà) di detenere anche ingenti quantitativi di marijuana. Penso che oramai ci stiamo pericolosamente avvicinando, sempre di più, al pericolossimo ”modelloOlanda”, da sempre il paese delle più discusse e, a mio avviso, indegne libertà. Già me li vedo i nuovi plotoni di adolescenti e ragazzi che si trasformeranno in seguaci fedelissimi del nuovo ”credo” in nome di ”santa maria droga di dio”. Raccapricciante. Non sono cattolico né cristiano, ma immaginare un simile scenario infastidisce non poco anche me. Cordialità.

L’ORIGINE DEL LEADERISMO In queste settimane abbiamo assistito alla resa dei conti all’interno di Rifondazione Comunista. Nonostante l’emergenza causata dalla débacle della Sinistra Arcobaleno, tra le mozioni in campo si assiste ad una contesa fatta di contestazioni con carta bollata: l’ennesima prova che la madre di tutte le riforme è una legge sui partiti. E’ un problema antico che affonda le sue radici nel dibattito all’Assemblea Costituente. Allora si prospettò l’ipotesi, subito respinta senza essere discussa, di inserire nell’articolo della Costituzione sui partiti l’obbligo di previsione della regolamentazione giuridica. Ci si limitò invece ad affermare che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Per questo motivo i partiti sono inseriti nella costituzione tra i diritti dei cittadini e non all’interno dell’organizzazione costituzionale dello Stato. L’accordo “ad excludendum”Veltroberlusconiano ne è la prova. L’antico mancato riconoscimento istituzionale però ha indebolito e indebolisce i partiti, elementi vitali del-

GEMELLI DIVERSI

Un ibis eremita socializza con un suo clone di plastica, fissato sull’elmetto di un operatore. Siamo nella riserva di Barbate de Franco, in Spagna, dove si lavora per salvare gli uccelli, minacciati dai pesticidi usati in campi e paludi dove i pennuti trovano il loro cibo

PUÒ UN CATTOLICO SENTIRSI RAPPRESENTATO DA CAPEZZONE? Non dovrebbe apparire come un trascurabile dettaglio l’investitura ufficiale di Daniele Capezzone a portavoce azzurro di Forza Italia. Il preludio ad un simile evento si era avuto durante la campagna elettorale, quando il leader incontrastato del partito aveva scelto il profilo assai basso dell’anarchia dei valori. Daniele Capezzone è solo l’ultimo dei radicali approdati nel partito azzurro, dopo Vito, Dalle Vedove, Taradash e l’attuale vicepresidente dei senatori del Popolo della libertà, Gaetano Quagliariello. Al contrario degli altri, però, non ha minimamente abbandonato i principi e le storiche e infauste battaglie - ivi compresa la fenomenale batosta subita ai referendum sulla fecondazione artificia-

dai circoli liberal Flavio Corradetti - Bologna

la democrazia. All’epoca della Costituente non si volle fondare la democrazia nei partiti e imporre una disciplina interna fondata su regole democratiche stabilite da statuti. Al Pci dal centralismo democratico non poteva stare bene. E’ questa la vera origine dell’insano leaderismo italiano. Solo ai partiti spettava l’onere e l’onore di concorrere alla politica nella conflittualità con metodo democratico, e non ai cittadini. All’interno dei partiti la democrazia poteva essere una finzione. Con il crollo del Muro se ne sono viste le conseguenze: la politica si basa sulla leadership nella totale confusione dei poteri economici, politici, sociosindacali e mediatici. Il leaderismo tradizionale antidemocratico del Pci si è riprodotto e ribaltato nell’area moderata. Il cittadino non contano più nulla: si chiede al massimo una firma nei gazebo, una procura in bianco. Un comico mediatico vale più di un milione di persone. Ma che democrazia è questa e che speranze di riforme ci sono tese all’affermazione del bene del Paese e non di gruppi di interesse? Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

le - del Partito radicale. Sono ancora freschi, infatti, i suoi inni all’eutanasia, le lodi alla legge 194, l’apologia delle coppie omosessuali e della droga libera, la ”cosificazione” dell’embrione umano, il tutto sempre condito con gli strali più velenosi nei confronti della Chiesa (è sempre celebre il suo motto «No Vatican No Taliban»). La sensazione netta è che con questo incarico si sia provveduto a spedire in soffitta - assieme ai valori, quelli veri – le residue forme di coerenza e linearità politica. Infine una domanda: può un cattolico serio sentirsi rappresentato da Daniele Capezzone? Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine del vostro giornale. Buon lavoro, a presto e distinti saluti.

Enrico Pagano Milano

COMUNICAZIONE PER I CIRCOLI LIBERAL TODI - VENERDÌ 25 LUGLIO 2008 - ORE 11 Prossima riunione dei presidenti e dei coordinatori regionali liberal all’Hotel Bramante di Todi. A seguire, l’inizio dei lavori del seminario Vincenzo Inverso segretario organizzativo circoli liberal

APPUNTAMENTI SEMINARIO DI TODI - VENERDÌ 25 E SABATO 26 LUGLIO 2008 Seminario, ore 15.00, Hotel Bramante, in via Orvietana 48 I lavori del seminario, che vedrà la partecipazione tra gli altri di Casini, Cesa, Buttiglione, Vietti, Volontè, avranno inizio il venerdì a partire dalle ore 12.00 e si chiuderanno per le 14.00 di sabato


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Felice o infelice, so soltanto che ti amo Non credere, non credere mai, Alfred, che possa essere felice pensando di aver perduto il tuo cuore. Che io sia stata la tua amante o tua madre, poco importa, che ti abbia ispirato amore o amicizia, che con te io sia stata felice o infelice, niente di tutto ciò può mutare il mio stato d’animo. So che ti amo, e nient’altro...Vegliare su di te, tenerti al riparo da ogni male, da ogni contrarietà, circondarti di svaghi e di piaceri, è di questo che ho bisogno, è questo che rimpiango da quando ti ho perduto. Come può un compito tanto dolce, un compito che avrei assolto con tanta gioia, essere diventato a poco a poco tanto amaro da rendersi all’improvviso impossibile?Addio, addio, mio piccolo caro. Ti prego, scrivimi spesso. Oh, come vorrei saperti già giunto a Parigi sano e salvo! Ricorda che mi hai promesso di prenderti cura di te. Addio mio Alfred. George Sand ad Alfred de Musset

LA FINE DELLE IDEOLOGIE RIVIVE SU ”LIBERAZIONE” Su Liberazione, a firma Fosco Giannini, non mi sfugge in prima pagina un titolo significativo: «Senza comunismo non sappiamo chi siamo e si lotta per il potere». Mai parole così sagge furono scritte prima. Il problema però è un altro: anche con il comunismo si lotterebbe per il potere. In quanto poi a sapere «chi siamo», l’identità scaturita dal comunismo non credo proprio sia un imprinting di cui andar fieri. Nel contenuto l’articolo assume forme grottesche nel momento in cui si paragona il Congresso del partito ad un campo di battaglia ed altro! Certo, il fallimento di un’ideologia lascia uno sgomento ed un vuoto difficile da colmare: nemmeno la fede può aiutare un ateo, il Dio era l’ideologia stessa, svanita nel disastro!

Lettera firmata

SIGNORI RIFORMISTI, RIFORMATE LA COSCIENZA Veltroni, leader del Pd, continua ad insistere: questo va bene, questo no, qui Berlusconi deve, qui invece voteremo comunque no, ecc. E ancora, questo governo dovrebbe occuparsi di priorità più

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

15 luglio 1808 Napoleone firma per il regno di Napoli lo statuto di Baiona, redatto da Giuseppe Zurlo, in cui si nomina Gioacchino Murat re delle Due Sicilie. 1916 A Seattle, William Boeing registra la Pacific Aero Products (successivamente rinominata in Boeing) 1944 Seconda guerra mondiale: gli americani prendono Saipan 1989 Si tiene a Venezia il discusso concerto dei Pink Floyd che suonano davanti a 300.000 persone 1997 A Miami, Andrew Phillip Cunanan uccide Gianni Versace fuori dalla sua casa 2002 Ahmed Omar Saeed Sheikh e tre altri sospetti vengono dichiarati colpevoli dell’omicidio del reporter del Wall Street Journal, Daniel Pearl 2003 La Aol Time Warner dismette la Netscape Communications Corporation, come conseguenza nasce Mozilla Foundation

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

serie, di salari, della 4a settimana, non di leggi ad personam. Belle parole, ma loro di cosa si stanno occupando da giorni, in prima pagina, sull’Unità? Della Br Petrella, l’assassina Petrella, marchiata doc rosso nostalgia, che Sarkozy vuole in Italia, i francesi temono per pene più aspre, qui s’invoca la grazia, lo sconto, non so, il premio omicidio! Il lupo perde il pelo ma... Signori riformisti, riformate le vostre coscienze per avere una credibilità moderna, toglietevi le croste di dosso, cambiate pelle, ma non come i serpenti che riprendono la stessa, solo più fresca e giovane!

L. C. Guerrieri - Teramo

MARIASTELLA GELMINI MI PIACE SEMPRE PIÙ Il voto in condotta potrebbe pesare sulla promozione degli studenti. Almeno questo è l’orientamento del ministro Gelmini, che ha dichiarato:«Stiamo ragionando sull’ipotesi di legare la promozione anche alla condotta, trovo incomprensibile che non si valuti in alcun modo il comportamento dei ragazzi». Bene, sono d’accordo. Avanti così.

Agnese Floris - Cagliari

PUNTURE In Inghilterra si preparano funerali di Stato per Margaret Thatcher, ma la Lady di ferro è ancora viva. Un po’ come con Prodi in Italia

Giancristiano Desiderio

I veri scrittori incontrano i loro personaggi solo dopo averli creati ELIAS CANETTI

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di IL «COLLASSO INTELLETTUALE» DELLA PRESIDENZA BUSH La Corea del Nord ha consegnato a Pechino 18mila pagine di documenti top-secret sulle sue attività nucleari. Una prima, parziale e tardiva applicazione delle intese raggiunte nel 2005, e perfezionate nel 2007, dal Gruppo dei Sei. In cambio, il presidente Bush ha annunciato la fine delle sanzioni commerciali previste dalla legge ”Commerciare con il nemico” e comunicato al Congresso che entro 45 giorni la depennerà dalla lista degli ”Stati terroristi”. Più che da un reale passo avanti, a molti l’annuncio è sembrato dettato dall’ansia, tipica delle presidenze Usa a fine mandato, di uscire di scena dimostrando di aver ottenuto un successo diplomatico. Tra questi, un ex membro dell’amministrazione Bush, il ”falco” John Bolton, ha espresso critiche particolarmente dure in due articoli, per il Wall Street Journal e il Daily Telegraph. A molti europei, la politica nordcoreana del presidente Bush nel suo secondo mandato sarà sembrata «confortante» rispetto al suo precedente unilateralismo. Le immagini della distruzione della torre di raffreddamento del centro nucleare di Yongbyon appaiono «rassicuranti». In realtà, «ciò che sta collassando non è il programma nucleare nordcoreano, ma la politica estera del presidente Bush». Un «collasso intellettuale», lo definisce. Il più triste. E’ difficile dire cosa rimane della ”Dottrina Bush”, se uno degli stati che con i suoi programmi nucleari e missilistici ha assistito materialmente Siria e Iran la fa franca. (...) I molti buchi «impediscono di capire quanto plutonio sia stato prodotto a Yongbyon durante la sua attività, fattore determinante per stimare quante armi nucleari la Corea del Nord possiede». Pyongyang, ricorda Bolton, «ha violato ogni significativo accordo e tutto induce a

pensare che stia proseguendo con il suo tradizionale gioco». E’piuttosto «esperta» nell’impegnarsi ad abbandonare il suo programma nucleare, come ha fatto negli ultimi 15 anni, salvo poi fare esattamente il contrario. L’accordo del 13 febbraio 2007 stabiliva esplicitamente che avrebbe dovuto fornire una dichiarazione completa di tutte le attività nucleari entro 60 giorni. Non lo ha rispettato, né nei tempi né nella sostanza. «Nonostante abbia fornito meno di quanto previsto dall’accordo di 16 mesi fa, noi la ricompensiamo concedendo più di ciò che avevamo pattuito”, lamenta Bolton. Il reattore gemello di Yongbyon, scoperto e distrutto in Siria dall’aviazione israeliana, non è solo l’ennesima prova della «doppiezza» nordcoreana, ma anche del fatto che il programma nucleare è ancora in vita. (...) L’amministrazione ritiene le critiche «infondate», rispondendo di aver sempre saputo che la denuclearizzazione della Corea del Nord sarebbe avvenuta «per fasi». Ma proprio questa risposta «rivela uno dei problemi centrali di questo tipo di accordi», secondo Bolton: «Procedere per fasi non conviene agli Stati Uniti. Ne trae beneficio solo il regime nordocoreano. Allungare il processo consente a Kim Jong Il di restare al potere e massimizzare i vantaggi politici ed economici che può strappare da ciascuna delle spaventosamente lunghe e dolorose fasi». Per stati come Iran e Corea del Nord, «la diplomazia non è fatta per risolvere i problemi, ma è un modo molto efficace per prendere in giro gli ingenui occidentali, acquistando così tempo prezioso per raggiungere i loro obiettivi». Negoziare con la Corea del Nord o con l’Iran è «come sedersi a discutere con la Mafia per far rispettare la legge».

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PAGINAVENTIQUATTRO La scomparsa di Bronislaw Geremek, l’intellettuale di Solidarnosc

Il liberale scomodo che ha cambiato di Renzo Foa i sono chiesto molte volte come sarebbe l’Europa oggi se, negli ultimi trenta-quarant’anni, non avessero avuto la forza di parlare, di agire e di farsi sentire persone come Bronislaw Geremek. E naturalmente, quando mi riferisco a lui, parlo anche di Sacharov, di Havel, di Mazowiecki e di tutte quelle figure che hanno composto il grande e variegato arcipelago dei “dissidenti”. Cioè quel che sul piano culturale e politico possiamo definire una delle ultime manifestazioni – allo stesso tempo individuali e collettive – di coraggio e di anticonformismo. E la risposta non potrebbe essere che una: sarebbe un’Europa forse ancora divisa in due, certamente più povera quanto a idee, sicuramente molto più indietro nei tempi. Del ruolo di Geremek ormai è già stato scritto tutto e c’è poco da aggiungere ad un itinerario segnato dalla rottura con il comunismo nel giorno dell’occupazione di Praga, dal lavoro accanto a Solidarnosc e a Walesa dodici anni dopo, dal dialogo per superare il regime a Varsavia al ruolo svolto in Europa e nel mondo, nel ricongiungimento della Polonia all’Occidente e nella ricomposizione del continente diviso a Yalta. Per non parlare, infine, del peso che ha avuto come studioso. C’è poco da aggiungere a un commosso cordoglio che ha contribuito a rievocare una fase importante della storia che abbiamo vissuto e di cui spesso smarriamo connotati e sfumature.

M

Per quanto poco da aggiungere, comunque qualcosa c’è. Detto in estrema sintesi, si tratta del peso che la cultura ha avuto nel sommovimento che ha chiuso il Novecento, archiviando la stagione temporale del comunismo. Senza gli “intellettuali” – ricordate gli “intellettuali” che affiancavano gli operai di Solidarnosc, che avevano lontani origine marxiste, ma che si erano reinventati come protagonisti dell’ultima rivoluzione liberale – probabilmente il 1989 non ci sarebbe stato. Senza il loro pensiero e, soprattutto, senza il loro anticonformismo e senza le loro idee difficilmente sarebbe stata imboccata la strada di una rottura senza traumi né sangue.

L’EUROPA Senza il pensiero dei rappresentanti della cultura e, soprattutto, senza il loro anticonformismo e senza le loro idee difficilmente sarebbe stata imboccata la strada di una rottura senza traumi né sangue

In Polonia furono loro – i Geremek, i Mazowiecki, i Michnik – a trasformare una rivolta, una repulsione popolare in una graduale riforma che, iniziata nel 1980 a Danzica, approdò nell’estate di nove anni dopo alla formazione del primo governo non comunista in un Paese dell’Est, quello guidato appunto da Ma-

zowiecki dopo gli accordi con Jaruzelski e le elezioni libere perse dai comunisti. Insieme all’invocazione al coraggio di Wojtyla e alla capacità di decisione di Reagan questi due piccoli dettagli della storia – le idee e l’anticonformismo della cultura liberale polacca – hanno cambiato il volto dell’Europa. E, attenzione, hanno continuato a farlo anche dopo il 1989, quando sono sempre riusciti ad evitare di lasciarsi risucchiare nelle banalità e nei luoghi comuni del mondo con cui si erano ricongiunti. Basti ricordare che Mazowiecki è stato uno dei primi protagonisti della “vigilanza umanitaria”, quando il problema esplose con la di-

sgregazione jugoslava, che Michnik riuscì a litigare sull’intervento in Irak con il suo vecchio amico Cohn-Bendit, duro oppositore della scelta americana, e che, infine, proprio Geremek condusse quasi da solo una battaglia di civiltà contro la legge della lustracja voluta dai gemelli Kaczynski.

Già, perché la maggiore caratteristica di questa cultura politica che la Polonia ha prodotto sta proprio nella sua autonomia, sta in un antitotalitarismo senza deroghe, sta nel rifiuto dei luoghi comuni e della comoda adesione al “buon senso”collettivo. Sta nel non aver paura di trovarsi in posizioni scomode pur di non rinunciare a quello in cui si crede. E Geremek ne è stato uno dei maestri.


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