QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Il caso Del Turco: gli opposti estremismi sul rapporto politica-giustizia
e di h c a n o cr
Ci sono i teoremi dei magistrati, ma c’è anche quello di Berlusconi
di Ferdinando Adornato
LA TRAGEDIA DEL DARFUR Mentre il Sudan è sotto accusa, il reportage di un testimone d’eccezione: «Ci sono migliaia di bambini, donne, uomini violentati, uccisi, bruciati senza traccia di memoria...»
Ho visto il genocidio
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80716
di di Bernard-Henri Bernard-Henri Lévy Lévy
alle pagine 2, 3 e 4
Una riforma per viale Mazzini
Parla Linda Lanzillotta
Rai, Calabrò vuole la Bbc e sfratta i partiti
«Soltanto il sistema tedesco garantisce il Pd»
di Francesco Capozza
di Francesco Rositano
Impacciata da un lato, paralizzata (dalla politica) dall’altro. Così è apparsa la Rai al presidente dell’Autorità garante nelle comunicazioni, Corrado Calabrò nella sua relazione annuale.
Per l’ex ministro per gli Affari regionali l’introduzione di un sistema elettorale alla tedesca potrebbe garantire il pluralismo dei partiti. Quanto alle alleanze, afferma: con Di Pietro abbiamo chiuso.
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Quali conseguenze per il mondo
Le incognite di una guerra contro l’Iran Molti leader europei considerano un attacco militare come uno scenario “catastrofico” e “disastroso”. Ma è vero che un attacco sarebbe una catastrofe? E cosa si può fare per mitigarne gli effetti?
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di Emanuele Ottolenghi
Dopo monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, anche il cardinal Angelo Bagnasco condanna la sentenza della Corte d’Appello civile di Milano.
MERCOLEDÌ 16 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
e l’Italia fosse un “Paese normale” (tanto per iniziare con una citazione ormai famosa) le inchieste della magistratura non sarebbero “teoremi” e il panorama parlamentare ed extra della politica non si dividerebbe in giustizialisti e anti-giustizialisti, giacobini e riformisti. Ma l’Italia non è un “Paese normale” e, quindi, quando la magistratura rivolge attenzioni all’amministrazione della politica e ai pubblici uffici, spesso e volentieri lo fa in modo eclatante, mettendo in isolamento in carcere di massima sicurezza il politico di turno e, d’altro canto, la politica reagisce parlando di complotto, teoremi e magistratura politicizzata. La situazione dell’Italia, dunque, è tragica ma non è seria (Flaiano). Da troppo tempo tutti sanno che la riforma dell’ordinamento giudiziario è necessaria, ma da altrettanto troppo tempo nessuno ha posto mano con rigore alla riforma. Siamo ora giunti ad un punto ad un punto di non ritorno? Sono ormai mature le condizioni perché governo e opposizione facciano insieme quella riforma che separi le carriere di pm e giudici, e riveda l’obbligatorietà dell’azione penale? Non c’è altro da fare che attendere e lo sapremo. C’è, però, un altro aspetto di questa tragicommedia italiana che va avanti da oltre tre lustri che vale la pena sottolineare. seg ue a pagin a 5
L’intervento del cardinale Angelo Bagnasco
Eluana, la Cei condanna i giudici
di Giancristiano Desiderio
nell’inserto Occidente da pagina 12 WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Da sinistra: il massacro in Darfur non risparmia nessuno, nè uomini - i primi ad essere uccisi - né donne e bambini, nei cui occhi si legge l’orrore. Festeggia, invece, Omar Hassan Al Bashir, uomo forte del Sudan, incriminato dalla Corte penale internazionale per genocidio
Mentre Al Bashir è sotto accusa, il filosofo francese racconta gli orrori che ha trovato nel Darfur
Ho visto il genocidio (dietro il Sudan c’è l’artiglio della Cina) di Bernard-Henry Lévy uello che ho visto nel Darfur ha largamente superato, e viceversa anche ridimensionato, molte delle cose che ho visto fino ad oggi.Trovarmi di nuovo a parlarne, dopo mesi, è per me straziante. Abbiamo veramente poche informazione su questo luogo che ho visitato recentemente ìnsieme ad un fotografo dell’agenzia francese Gamma. E vorrei qui parlare delle conclusioni che ho tratto da quel viaggio. La prima conclusione è stata e ancora è, che dovremmo smettere di parlare della crisi del Darfur o della guerra nel Darfur. È la guerra di un esercito contro la popolazione civile. Non è una guerra civile, è una guerra contro i civili. Naturalmente ci sono anche dei guerriglieri sia in Darfur che nelle altre aree che ho visitato. Ma sono così miseramente equipaggiati che non possono essere chiamati eserciti. Questi guerriglieri li ho anche visti proteggere come potevano la popolazione del Darfur. Una guerra contro i civili, che queste persone cercano di proteggere col loro povero armamentario. La seconda conclusione è che dovremmo
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sfatare, almeno in parte, il mito delle Janjaweed: questi cavalieri del diavolo, ugualmente male attrezzati, che arrivano nei villaggi e bruciano capanne, spargendo terrore come nel Medioevo. Lo scenario a cui ho assistito non è esattamente questo. Ho visto enormi buche nel terreno,
Armata, diretta dall’esercito dello Stato, che è lo Stato del Sudan. Io l’ho vista e ne sono testimone.
Quello che sta succedendo in Darfur, se posso osare dirlo, merita o no il nome di genocidio? So che su questo punto ci sono
UN MASSACRO SENZA PARAGONI Ci sono migliaia di bambini, donne, uomini, violentati, uccisi, bruciati senza traccia di memoria, senza nessuna iscrizione da nessuna parte, senza tombe, senza faccia, senza nome, senza numero
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crateri frutto di bombe, di più: risultato certo di un bombardamento. Provocate non da un uomo a cavallo, di cui non c’era nemmeno l’ombra, ma da un aereo che sorvolava la zona pochi giorni prima del mio arrivo. Quello non era un Janjaweed, era un vero bombardiere. Ma anche una vera guerra, con armi vere, vera violenza.
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molte polemiche. Ma ho viaggiato per cinque o seicento chilometri di fila e in tutta l’area ho trovato difficilmente traccia di vita umana. Non solo: qualche volta non ho nemmeno trovato traccia di morte umana. Sono stato in Burundi, in Rwanda, in Angola. Niente di simile ho mai visto. Come mai mi era capitato di non poter risalire,
nemmeno in parte, all’effettivo numero di morti. Il che significa che forse in Darfur ci sono centinaia o migliaia di bambini, donne, uomini, violentati, uccisi, bruciati senza traccia di memoria, senza nessuna iscrizione da nessuna parte, senza tombe, senza faccia, senza nome, senza numero. Al giorno d’oggi tragedie come queste non sono così frequenti. Non so se sia un genocidio, se si possa chiamare genocidio, ma è una realtà che non si può paragonare a nessun’altra mattanza di qualsiasi altro luogo del mondo. Il punto, adesso, è capire: perché? E perché la comunità internazionale è così passiva? Perché questa incapacità di prendere decisioni e di farle rispettare quando sono prese? Le ragioni sono ovvie: il regime di Khartoum, un regime dove“se ammazzi ottieni petrolio”. E avere petrolio nel mondo moderno ti garantisce diritti che altrimenti non puoi avere. C’è anche un altro motivo (reale): il regime di Khartoum è riuscito a far credere all’Occidente (e soprattutto all’America) di avere una carta da giocare (e che carta!) nella lotta al terrorismo. Si tratta di Osama bin Laden, che - è cosa nota - è vis-
Da sinistra: un janjaweed, letteralmente un “diavolo del deserto”. Per Henri Lévy la loro violenza è relativa ma, per motivi utilitaristici, viene pompata dal governo. Hu Jintao, presidente cinese e segretario di Stato della Commissione centrale del Partito comunista. I resti di un’elica nel deserto
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Da sinistra: l’indifferenza di tre uomini davanti alla vista di un anziano ucciso negli scontri; quel che resta di un villaggio del Darfur, macerie. Un destino comune a centinaia di piccoli villaggi rurali e che spinge la popolazione a cercare conforto nei campi profughi, come queste donne con figli
I numeri della tragedia
Trecentomila morti e 2 milioni di profughi SCOPPIATA 5 ANNI FA la guerra in Darfur ha causato, secondo i dati Onu, almeno 300mila morti e oltre 2 milioni di profughi. Breve cronologia: Febbraio 2003: cade il capoluogo del Gulu (Darfur del nord) per mano dei ribelli. Da allora la guerra civile imperversa con due movimenti, l’Esercito di liberazione del Sudan (Sla) e il Movimento per la giustizia e l’equità (Jem). Agosto 2004: arrivano i primi soldati di una forza di pace africana, l’Amis. Gennaio 2005: un rapporto della commissione d’inchiesta Onu, presieduta da Antonio Cassese, afferma che il governo sudanese che in Darfur sono commessi crimini contro l’umanità, ma non genocidio. Marzo 2005: 2 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza prevedono sanzioni contro chi commette atrocità e il loro deferimento alla Corte Penale Internazionale. Maggio 2006: La Cpi emana due mandati d’arresto contro un ex ministro, Ahmed Harun e un capo dei Janjaweed, accusati di crimini di guerra. Maggio 2007: Il presidente Bush impone nuove sanzioni al Sudan e chiede un embargo internazionale di armi. Luglio 2007: l’Onu approva l’invio di una forza ibrida composta da truppe Onu e Ua (Unamid). In totale 9.200 uomini.
suto qualche anno nella capitale prima dell’11 Settembre.
Ma la ragione principale della nostra indifferenza, sull’impossibilità di contare
è stato colonizzato (come lo è stato il Sudan), avalla tanti bagni di sangue, commette tali crimini, fermarlo, impedirlo, intervenire per mettere fine al massacro, potrebbe essere un atto di colonialismo. Vi assicuro: in America e in Francia ci sono molte persone di sinistra, come me, che considerano ingiusto intervenire negli affari interni del Sudan. Come dire: stiamo attenti a non imporre, sotto la bandiera dei diritti civili, la vecchia regola della superiorità Occidentale. Il risultato è che stiamo sacrificando a questa idea le morti peggiori, tutte queste migliaia e migliaia di persone. E alla fine: antirazzismo, anticolonialismo, anti imperialismo. Nei decenni passati, negli anni Sessanta e Settanta, durante la guerra fredda per intenderci, se non stavi né coi Russi né con gli Americani, avevi molte probabilità di cadere nel grande buco dellle guerre dimenticate. Se non avevi un ruolo importante in quel grande conflitto, considerato lo scontro dei poveri contro l’impero, non esistevi.
IL NOSTRO RAZZISMO ALLA ROVESCIA Perché la comunità internazionale è così passiva? C’è una grande parte della popolazione, in America e in Europa che crede che questo tipo di genocidi possano essere commessi solo da brutti e stupidi uomini bianchi...
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queste innumerevoli morti, non è economica, ma ideologica. In poche parole, siamo di fronte ad una sorta di crasi perversa delle tre grandi idee moderne: antirazzismo, anticolonialismo e la guerra all’imperialismo, tre magnifiche idee, tra le migliori che siano state prodotte nel Ventesimo secolo. In questo caso, per una specie di ironia della storia, hanno avuto uno strano esito. Antirazzismo: c’è una grande parte della popolazione americana ed europea che crede, come una sorta di riflesso condizionato, che questo tipo di assassinii, questo tipo di genocidi, possano essere commessi esclusivamente da brutti e stupidi uomini bianchi. Come in effetti è successo in passato: uomini bianchi ad Auschwitz, nei Gulag, e così via. Anticolonialismo: siamo cresciuti con l’idea che il colonialismo sia un crimine, qualcosa di cui doversi sbarazzare; l’intervento negli affari di un Paese del terzo mondo è qualcosa che dobbiamo assolutamente evitare perché in passato ha prodotto conseguenze e brutture, alias il colonialismo. E si tende a credere che quando un Paese del terzo mondo che
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cendo, e più di me, Mia Farrow, che si reca regolarmente in quelle terre per portare una testimonianza, come farà di nuovo tra un minuto, per forzare questo muro di invisibilità. Numero due: possiamo e dobbiamo chiedere delle vere sanzioni allo Stato del Sudan, nonostante il petrolio. Quello che facciamo con l’Uzbekistan e lo Zimbawe, quello che abbiamo fatto col Sudan dopo vent’anni di guerra contro il sud (che ha funzionato), ovvero: sanzioni per i massacratori, restrizioni di viaggio, congelamento dei beni, sia quelli più segreti, che quelli che tengono al sicuro nelle nostre banche. Insomma, delle vere punizioni per i colpevoli, i cui nomi sono perfettamente conosciuti. Da ultimo: c’è un mostruoso protagonista dietro tutto questo, che ha enormi poteri e potrebbe fare moltissimo se solo lo volesse. La Cina. Che procura le armi che io ho visto e i bombardieri che sganciano le bombe aprendo voragini mostruose. La Cina fornisce le armi. La Cina compra gran parte del petrolio. La Cina protegge il
I VERI COLPEVOLI STANNO A PECHINO C’è un mostruoso protagonista dietro tutto questo: la Cina. Fornisce le armi, compra gran parte del petrolio, protegge il regime sudanese nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. È sulla Cina che bisogna intervenire per fermare i massacri
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Detto questo, cosa possiamo fare per affrontare il problema e fermare questa devastazione? Prima di tutto, ovviamente, cercare di renderla visibile, come sta fa-
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regime sudanese nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Quindi la più grande pressione da fare, la più efficace, sarebbe sulla Cina. Si è già tentato di farlo riguardo al Tibet e un risultato si è già ottenuto: la ripresa di dialogo col Dalai Lama. Sì, c’è molto da fare per salvare il salvabile in Darfur.
Da sinistra: forze Unamid (Onu e Ua) controllano la distribuzione alimentare in un villaggio. Il procuratore Luis Moreno Ocampo, che ha incriminato al Bashir dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja, primo provvedimento preso - in assoluto - contro un capo di Stato nel pieno delle sue funzioni
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Il dittatore sudanese ha chiesto un intervento in suo favore al Consiglio di sicurezza dell’Onu
El Bashir spera in Mosca e Pechino di Justo Lacunza Balda arrivata l’ora della verità per il Darfur, la regione sudanese martoriata da anni con le razzie dei Janjaweed, le milizie islamiche appoggiate dalle forze armate. La Corte penale internazionale (Cpi), per bocca del suo procuratore generale, Luis Moreno Ocampo, ha accusato di genocidio il presidente del Sudan, Omar asan El Bashir e ha chiesto il suo arresto alla Camera della Cpi. Le accuse sono pesanti: El Bashir ha programmato la distruzione di tre gruppi etnici del Darfur: i Fur, i Masalit e i Zaghawa e ha organizzato le milizie paramilitari Janjaweed per sradicarli dalle loro terre. Il risultato del piano militare di El Bashir è stata una catastrofe innimaginabile: 2.5 di rifugiati, almeno 265mila morti e migliaia di famiglie disperse. Con la decisione della Cpi il dittatore di Khartoum non ha via di scampo e dovrà rispondere dei crimini commessi. E non lo dice solo la Cpi dell’Aia, considerata da molti come un modo per imporre il potere occidentale. I movimenti di opposizione al regime, come il Justice and Equality Movement (Jem), hanno condannato il governo di El Bashir per le attrocità compiute ai danni delle popolazioni del Darfur. Il presidente del Jem, Khalil Ibrahim, che aveva nel passato vari incarichi ministeriali nel governo di El Bashir, ha dichiarato: «Il Sudan è un grande corpo ammalato e bisogna estirpare il tumore, cioè il governo». Perché la tragedia immane del Darfur è una piaga aperta che per anni non ha ricevuto le cure mediche adeguate. Non perché non ci fossero le possibilità o gli organismi internazionali, ma perché El Bashir lo ha impedito con le spedizioni punitive e la persecuzione delle popolazioni, fomentando un clima di paura, di terrore e di morte. Le conseguenze sono lì per chi vuole constatare e vedere.
È
caforte militare. All’inizio del suo mandato presidenziale, nel lontano giugno del 1989, fu il presidente del National Islamic Front, Hasan El Turabi ad imporre la “via islamica”con l’appoggio militare di El Bashir. Le “nozze” fra i due leader durarono alcuni anni nei quali il Paese diventò un alleato della causa islamica. L’introduzione della Shari’a nel 1982 aveva già gettato le fondamenta per una islamizzazione progresiva. Ma El Bashir mise in prigione El Turabi perché vedeva il pericolo di essere rovesciato e di perdere il potere.
Non c’è nessun dubbio che le ambizioni egemoniche di El Turabi puntavano in quella direzione: far nascere un governo islamico fortemente influenzato dalla Repubblica Islamica dell’Iran. Non bisogna dimenticare la visita di Stato compiuta in Sudan dall’allora presidente iraniano, Hashemi Akbar Rafsanjani, dopo il vertice dell’Organizzazione della Conferenza Islamica celebrata a Dakar nel 1991. Ma El Bashir ha sempre voluto comandare le milizie islamiche e controllare i movimenti islamisti. Era l’unica strada per mantenersi al potere, sfruttare le risorse del Paese e diventare un leader chiave nella gestione delle alleanze strategiche con i suoi vicini. E questi sono nove: Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenia, Uganda, Repubblica del Congo, Repubblica di Centroafrica, Chad e Libia. Perciò il mandato di arresto di El Bashir, l’instabilità politica in Sudan e il rafforzamento dei movimenti di opposizione potrebbe avere delle gravi conseguenze per il Sudan a quattro livelli. Prima quello interno dove i vecchi fantasmi dell’indipendenza del Sud cominciano a farsi notare con le stesse rivendicazioni di dividere il Paese. Secondo, il Sudan potrebbe diventare un spazio di contese internazionali per l’accaparamento delle risorse. Terzo, l’Islam radicale è in agguato per controllare la política e il governo centrale con l’imposizione della Shari’a. Quarto, potrebbe nascere un nuovo conflitto fra Egitto e Khartoum per il controllo delle acque del Nilo. Per gli islamici sarebbe un modo per rovesciare la classe politica egiziana, considerata troppo vicina all’Occidente. Nel frattempo El Bashir rimane il personaggio più wanted del continente africano. Ma non è solo lui ad essere nel mirino della Cpi.
L’instabilità politica del Paese e il rafforzamento dell’opposizione potrebbero avere gravi conseguenze
Ma il dittatore sudanese, che ha sempre appoggiato la causa islamica in Sudan e in Africa, ha iniziato a mobilitare le masse per mantenersi in sella e a contrattaccare le decisioni della Cpi. La African Union (Au) non sembra essere d’accordo con il mandato di arresto di El Bashir, ma si sa che l’organismo che raggruppa gli Stati africani non dichiarerà mai i gravi misfatti in Sudan. Come non lo ha fatto con sufficiente autorità in altri casi. Liberia, Sierra Leone, Zimbabwe, Congo, Somalia sono solo alcuni esempi dell’Africa dove la Au ha dimostrato molta indifferenza davanti agli orrori della persecuzione contro gli stessi cittadini africani. E il presidente sudanese ha anche bussato alle porte dell’Onu per chiedere al Consiglio di Sicurezza di intervenire in suo favore. El Bashir spera che Russia e Cina pongano il veto, e in modo particolare la Cina che ha dei grossi investimenti in Sudan e cerca di sfruttare al massimo le risorse naturali del Paese dei Due Nili, quello bianco e quello blu. Le manifestazioni di piazza si sono schierate in difesa del capo della Nazione ed è qui che risorgono le spinte islamiche che hanno sempre servito El Bashir per diventare una roc-
L’iniziativa del procuratore Ocampo
Superficialità e protagonismo pericoloso di Luisa Arezzo uis Moreno Ocampo, il procuratore argentino della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja, con una reputazione da “duro e puro” conquistata negli Ottanta alla Commissione per i desaparecidos, ha chiesto l’arresto di Omar Hassan al-Bashir. Lo accusa di genocidio e afferma di averne le prove. Di fatto è il primo atto in assoluto della Corte contro un capo di Stato nel pieno del suo esercizio dittatoriale e crea dunque un precedente di enorme rilievo. Senza esagerare: è una richiesta storica. Il procuratore lavora al dossier Darfur da oltre due anni, da quando il Consiglio di Sicurezza Onu ha approvato la risoluzione 1593 con cui ha deferito alla Cpi il giudizio sui crimini commessi in Darfur. Da allora, e nel silenzio internazionale, ha incriminato l’ex ministro dell’Interno e attuale ministro per gli Affari umanitari Ahmed Harun e il leader dei janjaweed Ali Kosheib. La Corte, esaminati i documenti, ha confermato i capi d’imputazione e la richiesta. Ciononostante entrambi vivono liberi, non sappiamo se felici, ma contenti. E questo, già di per sé, mostra i limiti “operativi” che la Corte incontra (e sì che deriva da una decisione vincolante del CdS e che dunque tutti gli Stati - anche queli che non hanno ratificato il Trattato di Roma, vedi il Sudan avrebbero l’obbligo di eseguire le ordinanze dei giudici dell’Aja, ma certo non sarà Al Bashir a consegnare i suoi). Ma incriminare un ministro o un guerrigliero non è la stessa cosa che chiedere l’arresto del capo di uno Stato come il Sudan che oltre ad essere dilaniato da scontri e guerre e teatro della resistenza di al Qaeda, oltre ad avere sul posto 10mila uomini Unamid più decine di Ong, confina con Centrafrica, Ciad, Congo, Egitto, Eritrea, Etiopia, Libia, Kenya ed Uganda. Come dire: confina con la dinamite. Emettere un mandato (sacrosanto se si pensa al dittatore, che tutto qui vogliamo tranne che difendere) contro Al Bashir rischia di far esplodere un’intera regione e mette a repentaglio la vita di molti. L’impressione è dunque quella di avere agito con una certa superficialità e usato uno stile alla Henry John Woodcock per mettere in scena un Coupe de théatre utile a scuotere l’apatia internazionale, ma di scarsi effetti pratici. Perché se avesse voluto far davvero arrestare il dittatore avrebbe atteso la definitiva condanna che i giudici della Corte devono emettere entro settembre dopo aver vagliato le carte in suo possesso. E non c’è bisogno di aver visto Law and Order, basta Carabinieri, per sapere che la cattura di un pezzo da Novanta passa per la segretezza dell’operazione. E che non si rischia il collasso di una parte d’Africa senza avere prima preso tutte le precauzioni del caso.
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politica
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Di Donato e l’arresto di Del Turco: «Vittima della persecuzione, come noi»
ROMA. «Siamo sempre stati i
questa retata è un colpo di coda: lo si capisce dalla durezza più intelligenti. Abbiamo avuto dei provvedimenti, dalla stessa un’idea chiara di modernizzadecisione di utilizzare la detenzione del Paese. Ci hanno colpizione preventiva, dalla misura to per questo, e nel caso di Otestrema dell’isolamento. Nello taviano Del Turco l’origine sostesso tempo anche sul piano cialista ha pesato, spiega il perpolitico queste iniziative non ché di tanta ferocia». trovano più sostegno. Giulio Di Donato ha un’idea chiara della storia sua e dei Sul Corriere della Sera di suoi compagni di partito. Del Ieri Angelo Panebianco ha Psi craxiano è stato vicesegresostenuto che il Pd deve tario, alla fine degli anni ’80 ha cogliere l’occasione per avuto un peso enorme, ha covoltare completamente nosciuto quindi le asprezze dei pagina sulla giustizia. giudici di Mani pulite. Oggi non Potrebbe cominciare col manisi abbandona a nessun particofestare solidarietà a Del Turco lare moto di stupore per l’arrein modo più convinto, e non lo sto del governatore abruzzese e ha fatto. Veltroni non può cadei suoi assessori. varsela con l’amarezza e la soCerto da quando i presilita frase sulla fiducia nella macolloquio con Giulio Di Donato di Errico Novi denti di Regione sono gistratura. L’ordinamento va eletti con l’attuale legge riformato, vanno aggiornati i non era mai capitato che in Abruzzo può sembrare una realizzarla, credo. Sopravvivo- che possa aver commesso i rea- codici e soprattutto separate le un giudice ne ordinasse molotov fatta rotolare sotto al no sussulti estremi da parte di ti di cui è accusato. Spero che carriere, altrimenti la terzietà l’arresto. Il primato tocca tavolo della pace. Ma una cosa magistrati comunque non più tutto si chiarisca presto e che della magistratura giudicante all’unico goverè certa: oggi la magi- maggioritari. Anche se, per ca- Del Turco possa dimostrare di sarà sempre in dubbio. natore di chiara stratura militante è rità, nel caso dell’Abruzzo le essere innocente. Ma ripeto: L’Italia tifa per Berluscoorigine socialini? sta oggi in cariGli italiani pensano che la queca. stione principale non sia il processo Mills ma gli stipendi da Non so se si può par1200 euro al mese. lare di maledizione. È Bobo Craxi Nel governo c’è una buoche l’ha messa na rappresentanza di ex una minoranza sem- accuse potrebbero essere tutte così. socialisti. Allora non è vepre più isolata. Il resto inattaccabili. Ma noi non siamo ro che la persecuzione vi dei giudici non è più maledetti nel senso Insomma: Del Turco paga ha falciato tutti. Tremonti, Sacconi, Brunetta e che risultiamo particolarmente interessato a seguire la strada o no per aver portato alantipatici, o perché su di noi in- dello scontro. Vuole discutere l’occhiello il garofano? gli altri all’epoca di Mani pulite combe un anatema. Semplice- con l’attuale governo per arri- La sua origine socialista può erano seconde file, sono stati rimente abbiamo avuto una fun- vare a una riforma del sistema. aver giocato un ruolo. Io lo cosparmiati per questo. C’è chi ora dice: Del Turco zione storica: rompere uno Ci sono tutte le condizioni per nosco: non riesco a credere aveva sconfessato Craxi, schema in cui dominavano due su di lui si è abbattuta una grandi chiese, la Dc e i comuniGiulio Di Donato, nella foto piccola, è stato nemesi storica. sti. Mostrarci dunque più movicesegretario del Psi craxiano, coinvolto È un discorso inaccettaderni, dinamici, determinati a quindi da Tangentopoli, che invece bile. Spero possa dimocambiare questo Paese. risparmiò Ottaviano Del Turco Vi è andata male. strare la sua totale C’era un disegno chiaro: indeestraneità. Anche se bolire la politica in modo che il non dimenticherò mai potere potesse essere controllaquei giorni: fu eletto to dalla grande finanza. Si cosegretario di venerdì e la mincia sempre dai più attrezzadomenica andò a Milano ti e intelligenti, se si deve spaza riferire al Pool. Probazare via una classe dirigente. E bilmente per assicurare infatti i socialisti soche lui non c’entrava niente con la no praticamente Gli opposti estremismi sul rapporto politica-giustizia vecchia gestione. E tutti morti clinicache avrebbe sciolto mente o politicail partito nel giro di mente. Del Turco è poco tempo… un’appendice Addirittura? Ne è imprevista. certo? segue dalla prima scio dell’altro. La riforma della giustizia è anche riforma della politica. Ma con una piccola differenza: la seconda può naIntanto è un espoNo, ovviamente nesnente del Partito desuno può sostenere Chi chiede una rigorosa o, più banalmente, una riforma eu- scere fin da ora adottando provvedimenti e stili diversi dal mocratico. E poi nel questo. Certo quella ropea della giustizia lo fa non contro il Paese e la magistra- passato. Il lodo Alfano ha risolto un problema al premier, al suo caso non parlevisita a Tribunale tura ma nell’interesse del Paese e della magistratura. I libe- governo, alle istituzioni, all’Italia. Ma il lodo Alfano non può rei di un accanichiuso, di domenica, rali – chiamamoli così – sanno che è necessaria la riforma essere sterile. Non è fine a se stesso. Anzi, non è fine a Silvio mento postumo nel mentre si era nel non solo per motivi interni, ma anche esterni, non solo giuri- Berlusconi e Silvio Berlusconi deve dimostrare che non è coricordo di Tangentopieno della tempedici e giudiziari ma anche istituzionali e politici: in altre pa- sì. E lo può fare in un solo modo: lasciando perdere i teorepoli. Casomai si sta lasciò molti dirirole, i liberali sanno che la magistratura va riformata perchè mi e i complotti e realizzando quella riforma dell’ordinamennon si può sempre gridare allo scandalo e al complotto e ai to giudiziario che serve al Paese. Se non si compie questa tratta di un estremo genti stupefatti, me teoremi ogni qual volta il tale politico o la tale giunta si spor- riforma indispensabile e non si archiviano le stagioni concolpo di coda da incompreso. Avemmo ca le mani oltre il dovuto. Il circo mediatico-giudiziario è la trapposte dei giustizialismi e dei complotti, allora, il lodo Alquadrare nel condiscussioni forti, in rovina di un “Paese normale”. Ma il circo mediatico-politico fano sarà solo una foglia di fico e il Paese resterà in balia del flitto in via di soluquel periodo. Ma io non ne è la salvezza. Siamo tutti d’accordo che la giustizia va circo mediatico-politico che si indigna e strepita e grida al zione tra magistraresto un garantista. riformata, ma dobbiamo essere tutti altrettanto d’accordo complotto se la magistratura indaga sulla politica ma, una tura e politica. E ripeto: non posso che non si può ricorrere all’utilizzo del teorema e del com- volta salvato il salvabile, non sa che farsene della riforma e credere che Del TurBel modo di plotto sempre e comunque. Il circo mediatico-giudiziario e il della democrazia liberale. co abbia commesso superare un circo mediatico-politico sono, tutto sommato, l’uno il rovei reati di cui è accuGiancristiano Desiderio conflitto. sato. È vero, l’operazione
«Vi spiego io la maledizione socialista»
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Eravamo i più intelligenti, gli unici con una visione moderna del Paese. Siamo stati colpiti per questo. Ma è solo un colpo di coda
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I teoremi dei magistrati e quello di Berlusconi
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politica
Il cardinal Angelo Bagnasco: «Una sentenza non può annullare una vita umana»
Eluana, la Cei condanna i giudici di Francesco Rositano
La Chiesa non ha bisogno di supporter
Un consiglio agli onorevoli Lupi, Bertolini & co. di Franco Insardà ciascuno il suo mestiere. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, legittimamente fa il suo. Esprime l’opinione e la preoccupazione della Chiesa per la sentenza con la quale i giudici di Milano hanno autorizzato i familiari a interrompere l’alimentazione e l’idratazione che tengono in vita Eluana Englaro. Invece ci permettiamo di suggerire agli onorevoli Maurizio Lupi, Isabella Bertolini, Giuseppe Marinello del Pdl e agli altri che si aggiungeranno al coro di evitare di intervenire subito per supportare le opinioni del cardinale. Per due motivi: non ne ha bisogno e, soprattutto, perché in questo modo sminuiscono la portata del pensiero del segretario della Cei. Rischiano con il loro protagonismo quotidiano da supporter vaticani di ridurre e far passare la posizione di un autorevole esponente della Chiesa come quella di una parte politica. Anche le dichiarazioni dei tre sembrano una perfetta clonazione di quello che ha detto Bagnasco. Per il presidente della Cei è «drammatico se si dovesse arrivare a consumare una vita per una sentenza» e Maurizio Lupi dichiara: «La politica non può evitare di domandarsi se è sufficiente una sentenza per dare e togliere la vita a una persona». Lo stesso concetto è ribadito dalla Bertolini: «Non si può morire per una sentenza» e da Marinello: «La sentenza di un tribunale non può decidere sulla vita o la sulla morte di un essere umano». A differenza loro papà Englaro coerente nel suo ruolo, precisando di non voler entrare in polemica con la Chiesa, ha sostenuto la sua posizione espressa già da tempo, ma ha anche precisato: «Io non voglio insegnare niente a Bagnasco perché come tutte le persone ha il diritto di esprimere la propria posizione che, in questo caso, ricalca il magistero della Chiesa. Ci mancherebbe altro». Tornando, invece, agli espomenti del Pdl fa riflettere soprattutto il fatto che hanno atteso quasi una settimana per dire la loro sul caso Englaro e invece ieri, appena il cardinale Bagnasco ha espresso il suo pensiero, nel giro di un’ora hanno diramato un loro comunicato. Quasi a voler far intendere che aspettassero un imprimatur...
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A destra il cardinal Angelo Bagnasco, presidente della Cei, che da Sydney ha criticato la sentenza che sospende il trattamento di nutrizione e idratazione per Eluana Englaro (a sinistra accanto alla madre) opo monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, anche quello della Cei, il cardinal Angelo Bagnasco condanna la sentenza con la quale la Corte d’Appello civile di Milano ha autorizzato la sospensione del trattamento di nutrizione e idratazione che da sedici anni tiene invita Eluana Englaro, entrata in stato vegetativo permanente dopo un incidente stradale nel ’92. Il presidente dei vescovi italiani ha parlato da Sydney, in Australia, dove si trova per la giornata mondiale della gioventù. «Non possiamo tacere la nostra preoccupazione se si dovesse procedere a una consumazione di una vita per una sentenza. Sospendere l’idratazione e il nutrimento nel caso specifico è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi. Si tratta dunque di un momento di forte preoccupazione, che deve far riflettere seriamente tutti noi e tutte le persone di buona volontà». Replica al cardinale Beppino Englaro, papà di Eluana che pur dicendo esplicitamente di non voler polemizzare con la Chiesa, ha affermato: «La sentenza non produce nessuna interruzione di vita, ma solo la necessità che la natura faccia il suo corso, visto che quest’ultimo è stato interrotto dai trattamenti, dai protocolli rianimatori il cui scopo è stato quello di una condizione vegetativa permanente che è innaturale».
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situazioni ordinarie, si evidenzia come grande e bello. Un dono che può essere riconosciuto anche nelle circostanze difficili, apparentemente prive di senso». Molto più dura la reazione del Movimento cristiano lavoratori che per bocca del suo presidente Carlo Costalli, ha affermato: «Chi pensa di poter staccare la spina ad Eluana dovrebbe riflettere a quale morte atroce la si condannerebbe: un vero e proprio omicidio con l’aggravante della crudeltà. È inammissibile che un giudice dello Stato possa impunemente avallare un atto così insensato e incivile, assolutamente contrario al nostro ordinamento giuridico. Staccare la spina ad Eluana significherebbe condannarla a morire di fame: un crimine assurdo, un peso che graverebbe sulla coscienza non solo di chi arrogantemente pretende di avere potere di vita e di morte, ma su tutto il popolo italiano. Bene ha fatto il cardinal Bagnasco a ricordare che la vita è un dono indisponibile».
Sospenderle l’idratazione e il nutrimento è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi
Il mondo cattolico reagisce compatto. E si allinea all’appello di Scienza e Vita «per fermare la mano di chi si appresta a togliere la vita dando attuazione alla sentenza di un tribunale».Tra costoro molti movimenti o associazioni ecclesiali come il Rinnovamento nello Spirito, l’Azione Cattolica, le Acli, il Movimento cristiano lavoratori. Assolutamente in sintonia con il giudizio del cardinal Bagnasco l’Azione Cattolica che in un comunicato ha scritto: «Come associazione chiamata a formare le coscienze avvertiamo tutta la necessità e l’importanza di aiutare a riscoprire la vita come dono. Un dono che, attraverso tante
Dal mondo politico si levano le voci dei radicali, che con Antonio Stango, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani, affermano: «Ecclesiastici come il cardinale Bagnasco, che parla di consumare una vita per una sentenza, o parlamentari come l’onorevole Isabella Bertolini, che ipotizza un omicidio autorizzato, sembrano non avere letto con attenzione la sentenza della Corte d’Appello di Milano. Quest’ultima, nell’autorizzare l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale, ha constatato l’assoluta inconciliabilità della concezione sulla dignità della vita di Eluana con la perdita totale ed irrecuperabile delle proprie facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere». In sintonia con il presidente della Cei il Pdl che ha condannato con più motivazioni la sentenza dei giudici di Milano. Una ”condanna”cui si sono aggiunti i cosiddetti teodem del Partito Democratico, Paola Binetti, Luigi Bobba e Enzo Carra, per i quali questo pronunciamento «introduce subdolamente l’eutanasia».
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politica
16 luglio 2008 • pagina 7
In alto, il presidente dell’Autorità garante delle comunicazioni, Corrado Calabrò. Da lui è arrivata ieri una dura requisitoria contro la gestione della Rai (a sinistra, la sede di Viale Mazzini) troppo legata ai partiti e poco alla missione di servizio pubblico. Una situazione ormai insostenibile, soprattutto in una fase in cui Sky ha rotto il vecchio duopolio
«Impacciata e paralizzata», il presidente dell’Agcom rilancia la riforma di viale Mazzini: nuova governance e più efficienza
Rai,Calabrò vuole la Bbc e sfratta i partiti di Francesco Capozza
ROMA. Impacciata da un lato, paralizzata (dalla politica) dall’altro. Così è apparsa la Rai al presidente dell’Autorità garante nelle comunicazioni, Corrado Calabrò. Nella relazione annuale, sull’attività svolta e sui programmi di lavoro dell’Agcom, che ha illustrato ieri mattina alla Camera, denuncia una Tv di Stato impacciata «da un reticolo di norme amministrativo-contabili» che mal si attaglierebbero «ad un’amministrazione tradizionale e che non sono affatto inscindibili dalla missione di servizio pubblico dell’ente». Un’azienda «nel contempo paralizzata da spinte e controspinte politiche».
che resta la principale fonte di informazione per gli italiani, «ma sta cambiando e bisogna stare al passo». In un panorama mediatico in cui gli aggregatori di contenuti video sono offerti agli utenti tramite internet grazie a siti di social networking come YouTube o Facebook, dove l’uso dei vecchi media (radio e televisione) si integra ormai quotidianamente con quello dei nuovi ( Internet, pay tv, videofonino, lettori mp3) ed in cui la Tv generalista va progressivamente perdendo odience, è necessario - secondo la ricetta Calabrò -
munque resta l’unica a disposizione di una buona maggioranza dei cittadini che usufruiscono del servizio». L’attenzione della platea, con il Presidente della Camera Gianfranco Fini in prima fila, è però tutta rivolta ad un passaggio cruciale della relazione di Corrado Calabrò: l’affondo all’attuale legge sulla ”par condico”. Secondo il Garante, infatti, la legge, così com’è, va totalmente modificata. Troppe sono le difficoltà riscontrate nella sua applicazione, tanto da sfiorare l’inapplicabilità stessa della legge in vigore, e «non è stato facile assicurare il riequilibrio dell’informazione quando, in occasione delle ultime elezioni politiche, è stato necessario intervenire d’ufficio nei confronti dei notiziari e dei palinsesti televisivi».
Per il garante la ”par condicio” deve essere totalmente rivista: bisogna adeguarla alla nuova realtà politica «perché nel 2007 sono state troppe le difficoltà riscontrate tanto da aver sfiorato l’inapplicabilità della stessa legge»
La riforma della Rai diventa così prioritaria. Calabrò non parla esplicitamente di privatizzazione - ma cita il modello Bbc - e dice che «altamente auspicabile» che alla riforma del sistema radio televisivo pubblico si arrivi al più presto, «puntando sull’efficienza, magari enucleando e anticipando alcune norme indifferibili che coniughino il carattere imprenditoriale della governance con il perseguimento degli obiettivi di fondo di un servizio pubblico con marcate finalità d’interesse generale», svincolato, appunto, dall’abbraccio dei partiti. È una reazione a tutto tondo quella di Calabrò, che tocca tutti i punti di interesse del settore radio televisivo. Dalla fine del duopolio rotto da Sky, a una Tv
creare una «nuova televisione» che riesca a far metabolizzare all’utente l’irrefrenabile passaggio dall’analogico al digitale. «In Europa - ha sottolineato il Garante - il passaggio al digitale è in fase di forte avanzamento: nel 2007 si sono registrati 71 milioni di utenti dei servizi di televisione digitale, di cui 12,5 milioni soltanto in Italia». Tutto questo avviene a scapito della televisione analogica, che rischia di collassare anche per l’interesse sempre maggiore degli inserzionisti pubblicitari ad investire in quella digitale. Occorre pertanto - è l’appello di Calabrò - «riuscire a non far perdere appeal alla televisione analogica e generalista che co-
Le difficoltà di applicazione rendono necessaria una revisione della legge per adeguarla sia alla realtà politica italiana, sia al mutamento tecnologico intervenuto. «A distanza di appena due anni gli italiani sono stati chiamati a nuove elezioni. Nonostante il proliferare dei nuovi mezzi di comunicazione, la campagna elettorale si fa ancora quasi interamente in televisione. È la televisione ha osservato Calabrò - a dettare i tempi e le modalità del dibattito politico». La legge disciplina attentamente la ripartizione dei tempi in Tv e affida all’Agcom il compito di vigilare sull’applicazione
della “par condicio”. Ma lo scenario al quale ci si è trovati di fronte nelle ultime elezioni è ben diverso da quello presupposto dalle leggi da applicare, infatti «alle politiche 2008», precisa il Garante, abbiamo avuto diciotto liste in competizione e quindici candidati premier che reclamavano tutti eguale spazio in televisione e nei confronti incrociati», una situazione, ammette, «davvero complicata che, con l’aggiunta del proliferare di trasmissioni dedicate all’attualità politica, hanno fatto perdere gran parte dell’appeal che avevano, invece, le classiche tribune elettorali».
La necessità di cambiare la “par condicio”, a sentire Calabrò, passa anche per l’etere. Nella sua relazione ha, infatti, snocciolato un dato che fa riflettere: una recente ricerca sulle elezioni presidenziali Usa 2008 ha rilevato l’importanza di Internet nella formazione delle opinioni degli americani. Il 46 per cento dei cittadini a stelle e strisce, ha utilizzato la rete per informarsi e il 30 per cento ha scaricato video relativi alle elezioni per farsi, grossomodo, un’idea di chi votare. Al termine della relazione, durata quasi 45 minuti, nella sala della Lupa, al primo piano di Montecitorio, l’aria era particolarmente pesante e preoccupata. I parlamentari presenti hanno capito che il capitolo Rai da una parte (cui si aggiunge l’irrisolto nodo sulla presidenza Vigilanza e il prossimo rinnovo del Cda) e la “par condicio” dall’altra, saranno al centro del dibattito dei prossimi mesi, se non delle prossime settimane.
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pensieri & parole
etrolio alle stelle, borse a picco. Nuovo record». C’è sempre una ragione perché si possa ritenere attuale una notizia. Mai come quest’anno, almeno una volta al giorno, abbiamo letto o sentito la notizia: «Petrolio alle stelle, borse a picco. Nuovo record». Mai come in questi ultimi mesi ci si è scatenati nel preannunciare tanti scenari niente affatto rose e fiori. Mai come in queste ultime settimane la lente dell’attualità sembra essersi fermata con tanta insistenza su una singola notizia.
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«Petrolio alle stelle, borse a picco. Nuovo record». E allora la domanda che, come direbbe qualcuno,“sorge spontanea”, ci porta inevitabilmente a deviare per un momento la nostra attenzione dal fatto oggetto della notizia alle ragioni per le quali non facciamo che leggere o ascoltare di continuo il solito «Petrolio alle stelle, borse a picco. Nuovo record». Stiamo davvero attraversando una crisi che ci riporta indietro di trent’anni o, molto più semplicemente siamo, come tanti Truman Burbank, vittime di un cinico show girato su scala mondiale grazie alla comune regia di enti di statistica, giornali, telegiornali e radio? «Petrolio alle stelle, borse a picco. Nuovo record». Quasi sempre è questa l’ultim’ora. Ma prima alcuni dati. In Borsa, almeno per il momento, non c’è rialzo che tenga. La Consob fa sapere che la stabilità dei mercati è ancora lontana. L’Eurostat conferma il calo nella produzione in zona euro. L’Ocse dichiara che il superindice di maggio registra una frenata economica e prevede per il biennio 2008-2009 un aumento della disoccupazione. L’Istat segnala un calo del 6,6 per cento nella produzione industriale. Il Fondo monetario internazionale rilancia il rischio di nuove crisi finanziarie legate al rialzo materie prime. La Bce consiglia di non legare i salari ai prezzi. Per Warren Buffet c’è stagflazione e la ripresa sarà lenta. Ora qualche elemento di riflessione. Dopo più o meno un quarto di secolo di ininterrotto sviluppo e crescente benessere, siamo negli anni Settanta, si verificarono alcuni avvenimenti che sconvolsero drammaticamente il corso dell’economia globale. Gli Usa uscivano dalla guerra del Vietnam e la bilancia commerciale iniziava a registrare un crescente deficit. Lo choc petrolifero assestò un bel colpo – in primis a Italia e Giappone perché dipendenti interamente dall’estero per soddisfare il loro fabbisogno energetico – a più o meno tutti i Paesi industrializzati. Le materie prime
Il petrolio è alle stelle e le Borse a picco. Ma le riforme non si fanno
Tutti al Truman show della stagflazione di Michele Gerace e i cambi in continua oscillazione rendevano il sistema instabile. La produzione industriale calò ovunque e i consumi crollarono come mai in passato. L’origine esterna dell’inflazione, dovuta in particolare all’aumento dei prezzi delle materie prime, unita alla rigidità dei sa-
sembrare assurda, verrebbe da sperare in una risposta altrettanto assurda del tipo: «Va bene ragazzi, fino a oggi abbiamo scherzato. Sorridete, siete in onda su “The Truman show”» e via discorrendo. Purtroppo la preoccupante sovrapposizione tra ieri e oggi di
Caro vita, greggio ai massimi, industria ferme. Sembra di tornare agli anni Ottanta se non fosse per gli emergenti che sostengono la domanda mondiale e per l’assenza di leader come la Thatcher lari, diede vita a una fortissima spirale inflazionistica. I tassi di disoccupazione crebbero a ritmi elevatissimi e ci vollero dieci anni buoni perché iniziassero a decrescere. Fu allora che, in un momento di stagnazione economica e forti spinte inflazionistiche, si iniziò a parlare di stagflazione. «Petrolio alle stelle, borse a picco. Nuovo record». Non scherziamo. Anche se la domanda che ci siamo posti poco fa può
segnali e le analisi degli economisti portano a tutt’altro tipo di risposta. Se non stiamo attraversando una fase di stagflazione, poco ci manca. Pur di fronte a una nuova crisi petrolifera, è da considerarsi incoraggiante – come ha scritto Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera – la mancata battuta d’arresto dei consumi. Pare che a scongiurare il rischio stagflazione siano proprio gli acquisti di quel miliar-
do in più di persone che, uscite negli ultimi anni dalla povertà grazie alla globalizzazione, hanno iniziato a consumare. In subordine, quasi tutti concordano nell’affermare che, sebbene l’inflazione sia arrivata a livelli allarmanti come in passato, è difficile che si possa tornare alla stagnazione degli anni Ottanta. E questo soprattutto grazie ai recenti sviluppi tecnologici come a una accresciuta competitività che hanno dotato di una maggiore flessibilità e capacità di reazione il sistema economico. Ideologie e cultura politica: sul piano delle analogie, c’è un altro aspetto che trascende l’elemento economico e che avvicina e lega quegli anni con i nostri in modo forse ancor più profondo. Allora, la crisi generale del sistema generò radicali mutamenti nelle ideologie e nella cultura politica. L’idea stessa di una società del benessere, che sarà dominante per tutto quel decennio, venne aspramente criticata dall’opinione pubblica che iniziava a
vedere nello stato assistenziale la fonte di tutti i mali. I governi, per far fronte agli altissimi costi dovuti al mantenimento del welfare state, furono costretti ad aumentare notevolmente la pressione fiscale. Presto ogni forma di statalismo venne condannata. Tanto nella versione riformatrice quanto in quella rivoluzionaria, la cultura di sinistra, a lungo egemone soprattutto tra i più giovani, non tardò a mostrare alcuni segni di cedimento. L’abbandono del modello del welfare state e il ridimensionamento numerico e politico della classe operaia, mutarono la società e la cultura politica alla radice. Margaret Thatcher e Ronald Reagan, incarnando pienamente lo spirito antistatalista e antifiscale, portarono conservatori e repubblicani al potere. Nel 1979 in Gran Bretagna e nel 1980 negli Usa vinse le elezioni chi promise tagli alle spese e alle tasse. La fallibilità del sistema economico e l’impossibilità di perseguire fini di giustizia sociale attraverso gli strumenti di controllo politici portarono economisti e pensatori a rivalutare, riformulare e ispirare l’azione di governo su basi liberiste e monetaristiche.
Con la caduta dei più ambiziosi progetti di trasformazione sociale e politica, specie in Italia, venne messe in discussione la capacità dei sistemi ideologici nel saper rispondere alle concrete esigenze della gente. Fu come se, in conseguenza, alla dura fase di recessione economica, fosse mutato il modo di intendere lo Stato. Specialmente in Italia il sistema politico, come quello economico, subì una scossa tale che portò le forze in campo a rivedere la propria ragione sociale. E se la Gran Bretagna reagì alla crisi procedendo con alcune riforme che le permisero di parare il colpo, altri Stati, e tra questi più di tutti l’Italia, rinviarono, a data ancora oggi da definirsi, l’adozione di alcune riforme di assoluta importanza. Se la Gran Bretagna già nei primi anni Ottanta mise in discussione il welfare state, lasciando inalterate le prestazioni fondamentali, privatizzò settori strategici dell’industria pubblica e regolò in modo deciso i rapporti con le Trade Unions, nel 2008, in Italia ancora si discute se è il caso di riformare il sistema Paese. Tanto che viene da chiedersi: sogno o son desto? È davvero possibile che, passati trent’anni, non si riesce ancora a capire che non c’è più tempo da perdere e che occorre decidersi in fretta a rivedere le regole del gioco? «Petrolio alle stelle, borse a picco. Nuovo record». Cos’altro deve accadere perché ci si dia una mossa?
politica
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Parla Linda Lanzillotta: «Mai più alleanze con la sinistra. Con l’Udc intese su singoli punti»
«Solo il sistema tedesco garantisce il Pd» colloquio con Linda Lanzillotta di Francesco Rositano
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Sicurezza, la Camera ha votato la fiducia La Camera ha votato la fiducia al governo Berlusconi approvando con 322 voti a favore l’emendamento al decreto legge in materia di sicurezza. I voti contrari sono stati 267. Otto deputati si sono astenuti. Il seguito dell’esame, con la discussione degli ordini del giorno e la votazione finale sul decreto è previsto per mercoledì mattina, a partire dalle nove. Il provvedimento dovrà poi tornare a Palazzo Madama per la conversione in legge.
Alfano, da settembre riforma giustizia «Occorre intervenire sulla giustizia con una riforma organica, in tempi rapidi e non con una legislazione alluvionale, ma con interventi mirati che non vanno contro qualcuno sui processi e sull’asse istituzionale e costituzionale; per una giustizia al servizio del cittadino». Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia Angelino Alfano intervenendo al convegno organizzato dai penalisti sul tema delle riforme per la giustizia.
Veltroni: basta con il tafazzismo ROMA. Per Linda Lanzillotta - deputata del Pd e già ministro per gli Affari regionali nel precedente governo Prodi - D’Alema e Veltroni non starebbero assolutamente litigando. «È normale, afferma, che in un partito che ha ottenuto il 33% dei voti e aspira anche a qualcosa di più, si discuta e si abbiamo visioni diverse su alcuni punti. Ma questo non significa assolutamente che ci siano problemi o che l’alleanza sia in crisi». E Di Pietro? «Si è messo fuori gioco da solo in quella manifestazione di Piazza Navona, dove ha criticato il Capo dello Stato. D’altra parte con la sinistra radicale, nella scorsa legislatura, abbiamo già visto che non si sono le condizioni per una convergenza. Così come non ci sono i presupposti per una convergenza con l’attuale maggioranza. Basta vedere il modo in cui Tremonti sta affrontando le principali questioni di politica economica». Quindi: con chi si alleerà il Pd? «Lo vedremo di volta in volta, su singoli punti che riteniamo di interesse del Paese». Un quadro piuttosto buio nel quale l’unica cosa da fare, per ora, è trovare intese su singoli punti: insomma la sua strategia sarebbe quella di approntare un sistema tedesco sul piano delle alleanze. Partendo dall’Udc con cui si potrebbero affrontare diverse sfide: la riforma elettorale, quella della giustizia e quella di un maggiore competitività sul piano economico. Certamente, visto che con la mia associazione Glocus ho sottoscritto il documento. Ma senza ideologie. Anche perché il nostro sistema preferito da sempre resta quello maggioritario a doppio turno. Comunque attualmente, per una serie di ragioni, non mi opporrei ad un sistema tedesco: permetterebbe ai partiti di stringere delle alleanze sulla base di un’identità di progetto e di visione. E non sacrifichebbe il bipolarismo, ma solo il bipartitismo, che attualmente rimane una prospettiva irrealistica. D’altra parte il Pd non ha ancora una vocazione all’autosufficienza: nessuno infatti può pensare che in un tempo ragionevole riesca a raggiungere realisticamente in un tempo storico il 51%. Sicuramente abbiamo bisogno di fare un balzo in avanti, elaborando i motivi della sconfitta elettorale e disegnare una nostra visione sul futuro del Paese che non si limiti a rispondere all’agenda che è imposta dal governo. A suo avviso su quali punti potreste intendervi con l’Udc? La nostra aspirazione sarebbe quella di diventare un grande partito di massa come quelli che nacquero nei
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primi anni del ’900 per affrontare sfide concrete e rispondere ai bisogni dei cittadini. D’altra parte assistiamo ad un mutamento culturale simile a quegli anni: stiamo di fronte ad un periodo di crisi economica, l’autunno sarà ancora più duro. E i cittadini hanno bisogno di risposte concrete. Ci sono quindi problemi grandi che non si possono ridurre alla sola alleanza con l’Udc. Con la quale, però, possiamo convergere su questioni concrete: dalla riforma della giustizia alle riforme sulla libertà economiche. L’unico modo per contrastare la politica di Tremonti che sta cercando di ritornare ad un sorta di statalismo e dirigismo. Il suo pensiero è che - visto che le forze imprenditoriali non ce la fanno a stare da sole sul mercato, esse vanno protette. È allucinante quello cui stiamo assistendo: abbiamo azzerato l’Autorità sull’energia, abbiamo messo una pietra tombale sulla liberalizzazione del servizo pubblico locali, abbiamo giustificato l’indicizzazione dei prezzi dell’autotrasporto che influirà sul costo dei prodotti al consumo. Il Pd invece vuole essere il partito delle libertà economiche. Ci sono ancora possibilità di un accordo a sinistra e di una ricucitura con Di Pietro? Di Pietro si è messo fuori gioco da solo nel momento in cui non si è separato dalla manifestazione di Piazza Navona: ha insultato il Capo dello Stato e ha dato un’importanza totalmente giustizialista alla politica. Ciò significa che sul piano dei contenuti l’alleanza con Di Pietro sia in via d’esaurimento. E si debba trovare degli interlocutori con i quali costruire un’agenda democratica, moderna, riformista. Quanto alla sinistra radicale abbiamo già sperimentato la distanza programmatica che ci ha portato alla crisi di due governi: una nel ‘98, una nel 2008. visto la difficoltà di trovare un’intesa con il governo Prodi. Sulle regole del gioco invece possiamo convenire: è giusto che le forze intermedie come la sinistra radicale siano rappresentata in Parlamento. Nel discorso di alleanze programmatiche, pensa ci possa essere un’intesa con la Lega sul federalismo fiscale? Assolutamente sì. infatti la Lega ci tiene moltissimo a non rompere ”la tela del dialogo”proprio per questa ragione. Il federalismo che vogliamo noi è però un federalismo solidale, che garantisca le risorse per finanziare le prestazioni fondamentali che garantiscono i cittadini.
Con il partito di Casini si potrebbero affrontare diverse sfide: la riforma elettorale, quella della giustizia e quella economica
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Non cita il seminario di lunedì da cui il Pd è uscito malconcio e con titoli pesanti sui giornali, tutti all’insegna dello scontro tra lui e Massimo D’Alema. Ma alla direzione del Pd tenuta ieri, Walter Veltroni ha chiesto a tutti di uscire dal «tafazzismo» e dalle logoranti discussioni interne su temi, come quello della legge elettorale, che oltre tutto nemmeno sono all’ordine del giorno, vista la chiusura della maggioranza. «Abbiamo il tesseramento che parte domani, dobbiamo ancora aprire circoli in tante parti d’Italia, abbiamo da organizzare la manifestazione del 25 ottobre su cui dobbiamo concentrare tutto il nostro impegno coinvolgendo associazioni, sindacati, società civile e poi c’e’ la raccolta di firme per la petizione». Quindi basta con le eterne diatribe interne: «Noi discutiamo troppo e sembra sempre che non arriviamo mai da nessuna parte», ha detto il segretario.
Calderoli: dialogo con tutti Ancora criptico sulle riforme istituzionali il ministro alla Semplificazione Roberto Calderoli. Nonostante la prudenza l’esponente leghista ha fatto però trapelare anche ieri il suo auspicio per una ripresa del dialogo. «C’è una proposta del Pd e la nostra: se non e’ zuppa è pan bagnato. Il dialogo c’è e c’è stato, dal federalismo fiscale alla legge elettorale europea. «Non solo con il Pd, ma con tutte le forze dell’opposizione, anche quella che non sono in Parlamento». Un nuovo tavolo Calderoli? «È da un mese che va avanti...», risponde il ministro.
Barroso: con Berlusconi serve politica comune su immigrazione e energia L’auspicio di una politica comune europea su energia e immigrazione è stato ribadito oggi a Palazzo Chigi dal presidente della Commissione europea, José Manuel Durao Barroso, al termine di un colloquio con il premier Silvio Berlusconi. In particolare sul tema dell’immigrazione, ha sottolineato il capo dell’eurogoverno, «sarebbe assurdo creare 27 politiche diverse».
Università, dilaga la protesta Contestazioni, minacce di bloccare lezioni, esami e sessioni di laurea, allusioni nemmeno troppo velate allo stop del prossimo anno accademico. In molte università italiane è già iniziata la mobilitazione contro i tagli decisi dal governo il 25 giugno con il decreto che anticipa la manovra Finanziaria. Una protesta che sta dilagando e che, con toni e modalità diverse, coinvolge rettori, docenti, ricercatori e personale amministrativo. A preoccupare il mondo accademico sono diversi provvedimenti. Il più criticato è la graduale riduzione, collegata ad una forte stretta sulle assunzioni, del Fondo di finanziamento ordinario, con risparmi di circa 1,5 miliardi di euro fino al 2013.
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mondo La co-presidenza dell’Unione del Mediterraneo, guidata dalla coppia Sarkozy-Mubarak, dovrebbe durare due anni non rinnovabili. Non è chiaro, però, se l’incarico è legato al semestre europeo francese e per il presidente egiziano le regole per la successione sono ancora più indefinite
giusto liquidare, come ha fatto la stampa anglosassone, il summit parigino di lancio dell’Europa per il Mediterraneo come l’ennesimo coup de théâtre del Presidente bling bling? Archiviare il 13 luglio 2008 come mero successo mediatico della presidenza di turno dell’Ue è alquanto riduttivo. A Parigi si sono infatti compiuti gesti simbolici di notevole spessore e gettate le fondamenta per un’importante evoluzione delle relazioni tra le due sponde del Mediterraneo. Innanzitutto non deve essere sottostimato il rilancio di immagine dell’Unione europea. Mostrando il suo attivismo in una delle aree chiave per le instabili relazioni internazionali del mondo multipolare e per la gestione dei flussi migratori, l’Ue ha dato segnali di vita importanti dopo la batosta ricevuta con il “no” irlandese. Dopo il referendum di Dublino la maggior parte degli osservatori aveva dato per fallita la presidenza di turno francese ancor prima del suo inizio. Il summit del 13 luglio è un’iniezione di fiducia per Parigi e in generale per le istituzioni europee.
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In secondo luogo bisogna sottolineare il significato simbolico della dichiarazione finale dell’incontro di Parigi. Nonostante le differenti sensibilità e il così elevato numero di partecipanti, il testo affronta di petto i tre problemi chiave dell’area. Il terrorismo è condannato in tutte le sue forme. Rispetto al nucleare si puntualizza come il Medio Oriente debba considerarsi area libera dalle armi di distruzione di massa. E infine sono stati direttamente men-
Sarkozy ha lanciato l’Unione, ma renderla operativa sarà più difficile
Il Mediterraneo in un mare di veti di Michele Marchi zionati i colloqui di pace tra Israele e Siria attraverso la mediazione turca. Spente le luci del Grand Palais è altrettanto lecito chiedersi quali possibili scenari apra il lancio dell’Unione per il Mediterraneo e se esiste una road map in grado di delineare un suo sviluppo nel medio periodo.
Il primo importante segnale riguarda lo sviluppo delle istituzioni europee. Come è noto l’Unione per il Mediterraneo: il Processo di Barcellona è in
Roma e Bruxelles hanno trasformato il tutto nella più ampia (e forse più diluita e meno efficace) prosecuzione del Processo di Barcellona, inaugurato nel 1995 e mai decollato. In termini di meccanismi istituzionali dell’Ue il caso è emblematico di come la logica delle “cooperazioni rafforzate”, spesso invocata come panacea per la risoluzione di tutte le crisi dell’Ue sia in realtà irrealizzabile, perlomeno se all’appello manca qualcuno dei grandi. L’Unione Mediterranea pensata da
Il 13 luglio 2008 resterà una data significativa per le prospettive geo-politiche dell’area mediterranea, ma ci sono molte perplessità sul prossimo semestre a guida svedese realtà la versione ridotta e “comunitarizzata” del precedente progetto di Unione Mediterranea, elaborata dalla coppia Sarkozy-Guaino sul finire del 2006. Il piano iniziale prevedeva un accordo tra i soli Paesi rivieraschi, concepito però all’interno della copertura finanziaria dell’Ue. L’opposizione tedesca, per motivi economici così come geopolitici e la sponda trovata da Merkel in Madrid,
Sarkozy senza Londra e Berlino, non era altro che una cooperazione rafforzata. Merkel ha provveduto a ricondurla nell’alveo dell’Unione a 27.
Il secondo importante punto sul quale riflettere riguarda la copertura economica dei progetti lanciati all’interno dell’Upm (Unione per il Mediterraneo). È certamente un passo avanti, come ha ricordato il
consigliere di Sarkozy Guaino, la nuova filosofia che consiste nel sostituire a una logica burocratica quella di progetti concreti. Ne sono stati individuati sei come avvio: decontaminazione del Mediterraneo, autostrade marittime, protezione civile, sviluppo dell’energia solare, creazione di un’Università euromediterranea e di un’agenzia per lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Il problema di fondo è che tutti questi progetti dovranno attingere risorse all’interno di un budget ridotto, lo stesso del Processo di Barcellona. Fondamentali a questo punto appaiono gli investimenti privati o semi-pubblici, al momento non presenti all’orizzonte.
Terzo spinoso scenario da chiarire quello delle nomine. Al momento è stata istituita una co-presidenza guidata dalla coppia Sarkozy-Mubarak. La durata del mandato dovrebbe essere di due anni non rinnovabili. Per quanto riguarda il Presidente della riva nord non si è chiarito se l’incarico francese durerà realmente due anni (cioè fino al prossimo vertice) o se si dovrà seguire la rotazione semestrale della presidenza dell’Ue. Il primo semestre del
2009 toccherà alla Svezia. Siamo sicuri che Stoccolma impiegherà nel progetto le stesse energie di Parigi? Per il Presidente della riva sud le regole per la successione sono ancora più indefinite. Tutti i giochi restano poi aperti sul segretariato permanente. A novembre spetterà a Kouchner riunire a Marsiglia i ministri degli Esteri per cercare di arrivare ad un accordo sia sulla titolarità che sulla sede. Da Parigi fanno sapere di non disdegnare l’ipotesi Maghreb. Ma anche in questo caso le rivalità tra Tunisia, Algeria e Marocco rischiano di far prevalere Barcellona, Malta o addirittura Bruxelles.
Infine un punto che riguarda più i Paesi della riva sud che quelli europei. I vari progetti presenti all’interno della cornice dell’Upm rischiano di rimanere un elenco di buone intenzioni se non saranno accompagnati, nei prossimi anni, da dinamiche di sviluppo endogeneo Ad oggi infatti le grandi possibilità offerte dallo sfruttamento delle risorse energetiche non hanno condotto ad un significativo miglioramento dei sistemi educativi, né ad un reale sviluppo delle società civili dei Paesi della riva sud del Mediterraneo. Insomma il 13 luglio 2008 resterà una data significativa per le prospettive geo-politiche dell’area mediterranea del prossimo futuro. I dossier aperti sono numerosi e di estrema importanza. La scossa al torpore europeo, dopo l’ennesimo intoppo istituzionale, è stata notevole. Dopo il tempo dei proclami è giunto ora quello dell’impegno. Serio, magari silenzioso, e soprattutto lontano dai riflettori.
mondo
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Il presidente della Commissione paga il no irlandese, riconferma sempre più incerta
Ostacolo Ppe per Barroso di Maria Maggiore
d i a r i o BRUXELLES - Il più risoluto nell’affermare che il No
Dopo mesi di polemiche e crescenti tensioni, oggi Osman Can, perito della Corte Costituzionale turca, consegnerà il rapporto sulle presunte attività antilaiche dell’Akp, il partito per la Giustizia e lo sviluppo. 71 dirigenti dell’Akp, fra cui il premier Erdogan, il presidente Gul e 38 deputati, rischiano di essere allontanati per 5 anni dalla politica. Da oggi il Presidente della Corte Costituzionale, Hasim Kilic, può distribuire una copia del rapporto a tutti i componenti del Supremo Consiglio e determinare il giorno per discutere e votare il caso. Affinché le ragioni deI procuratore Yalcinkaya vengano accolte è necessario il voto favorevole di 7 giudici su 11. In questo momento 8 componenti del Supremo Consiglio sono di nomina sezeriana, decimo e ultralaico presidente della Repubblica turca.
Belgio, il governo nelle mani del Re
E se fino al giorno prima del referendum irlandese la
Questa è la nuova linea per l’Europa. Finora Barroso è stato attaccato dagli europeisti per non aver osato di più e anche per la non-azione nelle campagne referendarie, prima in Francia e Olanda e poi in Irlanda. Ma adesso le direttive che arrivano da Berlino sono chiare: occorre una Commissione di retrovia, che lasci ampio margine di manovra agli Stati. E, di conseguenza bisogna mostrare un segno di svolta rispetto al passato, nominando un altro Presidente. Ecco spiegata anche l’uscita, ritenuta poco felice, del premier Berlusconi, che durante il recente vertice di Bruxelles, ha imtimato ai commissari di «stare zitti» e di non esternare. Subito ripreso da Barroso, che stizzito gli ha risposto: «la Commissione non diventerà il segretariato dei governi». E invece questo vogliono i leader di oggi, con in testa la coppia Sarkozy-Merkel. «I francesi del Ppe hanno sostenuto una seconda nomina di Barroso, fin quando questa rientrava in un
g i o r n o
Turchia, dirigenti Akp a rischio
dell’Irlanda al Trattato di Lisbona non avrebbe avuto effetti sull’avvenire, è stato proprio lui, José Manuel Barroso. A Roma per una due giorni conclusasi proprio ieri, il Presidente della Commissione, il giorno del referendum, era sceso in sala stampa, plumbeo in viso, per affermare che «la responsabilità del No non è della Commissione, ma degli Stati membri incapaci di spiegare l’Europa». Sarà anche vero, però adesso i capi di governo vogliono fargliela pagare. In primis proprio i suoi compagni del Ppe. L’ex primo ministro portoghese voluto da Blair nel 2004 per ostacolare la nomina del più europeista Juncker, l’amico di Bush che ospitò il famoso vertice delle Azorre, con Aznar, sulla guerra in Irak, il fedele discepolo della Francia che dopo il No franco-olandese di tre anni fa, spense i riflettori sulla Commissione, decidendo di adottare un profilo basso oggi, senza più proposte legislative di peso, rischia di venire messo in un angolo.
sua ri-nomima come Presidente della Commissione, sembrava cosa fatta, oggi sono in molti a storcere il naso e a coprirsi dietro un diplomatico «si vedrà dopo le elezioni europee». Il più doloroso e il più determinante voltafaccia, è arrivato dalla sua stessa famiglia politica. La prassi, già messa in pratica con Barroso (inserita in un articolo del futuro trattato di Lisbona) è che il gruppo politico vincitore delle elezioni europee sceglie il Presidente della Commissione. Ora è facile immaginare che il Ppe continuerà a essere il primo gruppo del Parlamento europeo. Ma non è altrettanto sicuro che il candidato dei popolari sarà Barroso. «La percezione del successo può cambiare alla luce del no irlandese», dice un sibillino Graham Watson, capogruppo dei liberali a Strasburgo, fino a qualche giorno fa grande sostenitore del portoghese, oggi più prudente. Nel Ppe c’è invece chi è già partito all’assalto di Barroso. «Questa Commissione è responsabile del no irlandese, perchè la gente vede Bruxelles con astio, non capisce chi prende le decisioni e perchè», ha urlato durante un dibattito in plenaria il tedesco cristiano-democratico Hartmut Nassauer. Il problema è che Nassauer è considerato a Bruxelles un po’ il portavoce Cdu del cancelliere tedesco. Che Frau Merkel abbia deciso di scaricare Barroso? «Questa Commissione ha fatto troppe volte di testa sua, continuando a legiferare su materie che spettano agli Stati», spiega Nassauer al telefono. Che Commissione volete per il futuro? «Un’esecutivo di controllo che metta in pratica le politiche europee. Basta con nuove leggi e, soprattutto bisogna lasciar lavorare gli Stati sulle materie di loro competenza».
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Il tandem franco-tedesco cerca un nuovo candidato per la presidenza dell’esecutivo europeo. L’attuale leader dell’Unione, accusato di immobilismo, lascerà il passo agli Stati membri pacchetto più ampio di nomine», spiega il vice-presidente dell’Eurocamera, Mario Mauro. Sarkozy voleva Blair alla presidenza stabile del Consiglio e, in cambio, avrebbe accettato il portoghese. Ma adesso che l’entrata in vigore del trattato sarà ritardata, Sarkò sta abbandonando l’ «amico» Manuel. Al vertice europeo se l’è presa, in un attacco frontale, con il liberalismo sfrenato del commissario al commercio Mandelson. Un modo elegante – dicono molti osservatori - per avvisare l’inquilino di Palazzo Berliaymont che i suoi giorni sono contati. Un’altra frecciata gli è arrivata dall’attuale presidente del Ppe, il francese Joseph Daull. Interrogato sulle chance di Barroso di ottenere un secondo mandato, Daull ha risposto : «avrà spazio come candidato, ma ce ne saranno forse altri». Ecco fatto, avviso di sfratto inoltrato. Fino a qualche giorno fa gli elogi per il – diciamolo pure – modesto Presidente Barroso, si sprecavano, «il migliore candidato», dicevano molti capi di governo di passaggio dalla capitale europea. Ora il vento è invece decisamente cambiato. «Io non credo che la partita sia già chiusa dentro il Ppe – continua Mauro – i paesi dell’Est hanno sempre visto male questo Presidente, ora anche francesi e tedeschi lo stanno abbandonando». A questo punto chi potrebbe rappresentare meglio i desiderata dell’asse franco-tedesco? Forse proprio un tedesco e, perchè no, l’attuale commissario all’industria Gunther Verheughen che, seppur socialdemocratico dell’Spd, potrebbe incarnare la gross Koalition in voga in Germania e in parte realizzata in Francia, con l’ingresso nel governo Sarkò di alcuni ministri socialisti.
La casa reale belga non ha ancora deciso se accettare o meno le dimissioni presentate dal primo ministro di Bruxelles, Yves Leterme. «Insuperabili» le contrapposizioni tra le differenti comunità linguistiche del paese, cosi il premier aveva motivato la sua decisione. Per ora è solo l’opposizione dei socialdemocratici fiamminghi a volere nuove elezioni. I cinque partiti della coalizione di governo più i verdi, sono invece per la formazione di un nuovo governo. I media belgi, fiamminghi e valloni, non danno però molto più credito a Leterme. «Il termine di Leterme», con questo calambour Le Soir, sembra aver messo una pietra tombale sul breve tentativo di disinnescare la crisi nazionale fatta dal democristiano. Un esperimento di breve durata. Il governo oggi in via di smobilitazione era nato il 20 marzo scorso.
Canada, boschi sotto tutela In futuro foresta e taiga, gli immensi spazi verdi canadesi, verranno protetti dal disboscamento selvaggio. Il progetto del premier della provincia dell’Ontario, Dalton McGuinty, sarà probabilmente ripreso a livello federale. La natura canadese, è un tesoro intatto dall’ultima glaciazione, 10mila anni fa. Ora 225mila kmq di verde, un quarantesimo della superficie nazionale, saranno interdetti a progetti industriali. Per McGuinty l’Ontario è rimasto l’unico vero territorio naturale del pianeta. Secondo i dati del governo il Canada è responsabile del 2 per cento delle emissioni di gas nocivi.
Iraq, a breve la nuova bandiera Tra poco la bandiera irachena cambierà aspetto. Ieri il parlamento di Bagdad ha indetto un concorso per il nuovo simbolo nazionale. Alla gara potranno partecipare artisti, stilisti e cittadini comuni anche residenti all’estero. I termini per iscriversi scadranno a settembre. Il parlamento deciderà chi avrà presentato il miglior progetto. Poche settimane fa l’organo legislativo aveva deciso di rimuovere le tre stelle verdi che simbollizzavano il partito Baath del defunto dittatore saddam Hussein. La scritta in arabo, «Dio è grande», è invece rimasta.
Centro Wiesenthal, Heim è in trappola Uno dei più ricercati criminali nazisti è sul punto di cadere. Il responsabile del ‘organizzazione ebraica per i diritti umani, Efraim Zuroff, concludendo un viaggio in Sudamerica ha dichiarato di avere prove concrete che Eribert Heim, l’ex medico delle SS, si trova nel “Cono Sur” dell’America latina, tra Argentina e Cile. Più precisamente il criminale conosciuto come “dottor morte” e “boia di Mauthausen” sarebbe a Puerto Montt, città cilena distante 160 chilometri da San Carlos de Bariloche in Argentina.
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speciale esteri olti leader europei considerano un attacco militare come uno scenario “catastrofico” e “disastroso” a causa delle sue conseguenze. Ma è vero che un attacco sarebbe una catastrofe? Quali sono le conseguenze di un attacco? E cosa si può fare per mitigarne gli effetti? Non c’è dubbio che un attacco militare contro l’Iran sia possibile e che, specie se condotto dagli Stati Uniti o da una coalizione di forze occidentali, esso avrebbe alte probabilità di successo. Tuttavia, un’operazione contro l’Iran presenta diverse incognite, che sono in parte funzione del tipo di attacco preventivo e della misura del suo successo. Tanto più efficace sarà l’attacco nel neutralizzare non solo le istallazioni militari, ma anche altre strutture militari e paramilitari cui l’Iran ricorrerebbe nella sua rappresaglia, tanto meno incisiva sarà la risposta convenzionale iraniana. Cosa potrebbe fare l’Iran per rendere il prezzo di un attacco particolarmente caro e cosa possono fare i pianificatori militari per minimizzare quindi le conseguenze di un attacco? L’Iran ricorrerà a risposte sia convenzionali che non. Le azioni convenzionali possibili sono: • Il blocco degli Stretti di Hormuz; • lanci di missili contro basi americane nella regione; • lanci di missili contro istallazioni petrolifere, raffinerie, impianti per la desalinizzazione dell’acqua di mare lungo la costa meridionale del Golfo. Le risposte non convenzionali sono: • intensificazione degli attacchi a forze americane in Iraq; • attacchi terroristici a obbiettivi americani e occidentali in tutta la regione, in particolare nel Golfo; • rappresaglie di tipo terroristico contro i paesi arabi sospettati di aver fornito supporto logistico all’attacco; • apertura di un secondo fronte tramite Hezbollah e Hamas per trascinare Israele nel conflitto • attacchi terroristici contro obbiettivi occidentali, in particolare americani, israeliani ed ebraici, in Europa, Nord America e America Latina.
M
Qualsiasi operazione militare deve dunque prendere in considerazione questi scenari e provvedere a integrare nei piani d’attacco una serie di azioni aggiuntive mirate a prevenire e impedire possibili rappresaglie iraniane. Tali rappresaglie possono essere in parte neutralizzate. Tanto più estesa la lista di bersagli non nucleari, di operazioni speciali – uno sbarco di forze speciali ad Abu Musa per esempio per neutralizzare le
Occidente
motovedette iraniane – e di bombardamenti mirati agli strumenti convenzionali cui l’Iran farebbe ricorso per vendicarsi, tanto meno incisiva e quindi «disastrosa» (per riprendere le parole del ministro degli esteri italiano Franco Frattini sul tema) la risposta iraniana. Certo, nessun attacco, ancorché coadiuvato e integrato da azioni di forze speciali, lanci contro obbiettivi militari e di infrastruttura di sostegno e supporto, telecomunicazioni, porti, punti nevralgici dell’apparato di sicurezza e politico, può prevenire l’aspetto non convenzionale della risposta iraniana. E di certo, un attacco americano esporrebbe immediatamente le truppe americane nel Golfo ad attacchi convenzionali e terroristi. Tutte le rappresentanze diplomatiche americane e occidentali, i cittadini occidentali che risiedono e lavorano nel Golfo e nella regione, le loro zone residenziali, i loro club e luoghi di preghiera, le sedi delle compagnie straniere, nonché l’infrastruttura civile e militare che li ospita, sarebbero bersagliati. Tuttavia, non siamo nuovi a questo rischio – che si presentò durante la campagna “Tempesta nel Deserto” per la liberazione del Kuwait nel 1991 – e al quale si possono dare risposte aumentando le attività di intelligence, monitorando aggressivamente la presenza iraniana nel Golfo, rafforzando sicurezza, sorveglianza, controlli portuali e aeroportuali e via dicendo.
L’Iran certamente attiverebbe tutte le cellule terroriste presenti in Europa, Stati Uniti e Canada per organizzare spettacolari “risposte” contro obbiettivi civili – anche in questo caso, l’Occidente dovrebbe aumentare le misure di prevenzione e difesa oltre che chiarire all’Iran che il ricorso ad atti di terrorismo non farà altro che invitare rappresaglie contro obbiettivi civili in Iran – centrali elettriche, ponti, dighe, e così via. Sin dalle prime ore dell’attacco, l’Iran cercherà di aprire un secondo fronte per isolare gli Stati Uniti nella regione, spingendo Hezbollah e Hamas ad attaccare Israele su due fronti, trascinando lo stato ebraico in una nuova guerra contro le due organizzazioni a Gaza e in Libano. Al di là del risultato, uno scontro tra Israele e l’Iran attraverso i tributari di Tehran sul Mediterraneo metterebbe in grave difficoltà sia gli Stati Uniti sia i loro alleati arabi moderati – e comporterebbe senz’altro proteste, manifestazioni e possibili sommosse nel mondo arabo a favore di Hezbollah e Hamas e contro l’asse del “Grande Satana” e del
Ahmadinejad mostra i suoi missili al mondo, Israele fa le prove generali, Gli Usa schierano l’ammiraglio Mullen. Con quali conseguenze?
LE INCOGNITE DI UNA GUERRA CONTRO L’IRAN di Emanuele Ottolenghi “Piccolo Satana”. Il tentativo di trasformare un attacco americano al programma nucleare iraniano e all’infrastruttura militare che lo difende in un più vasto conflitto regionale non va sottovalutata, ma nemmeno esagerata. I regimi arabi hanno già risposto in maniera piuttosto sommessa e moderata, sia alla guerra tra Hezbollah e Israele, sia sostanzialmente alla guerra d’attrito tra Israele e Hamas. Il tentativo di Saddam Hussein di trascinare Israele nel conflitto con il lancio di missili Scud su
Tel Aviv nel gennaio 1991 fu vanificato in parte dalla decisione israeliana di non rispondere e in parte dalla posizione presa dal mondo arabo che sommessamente accettò il diritto di Israele a difendersi. Non è da escludersi che i governi arabi moderati prenderebbero una simile posizione anche questa volta. Infine, c’è l’incognita politica delle conseguenze di un attacco. Si presume che un attacco galvanizzerebbe il sentimento nazionalista della popolazione, che si stringerebbe attorno al regime. Que-
sto ritarderebbe di anni un possibile cambio di regime generato dalla volontà di cambiamento interno. Un regime “rafforzato” paradossalmente da una sconfitta perderebbe la tecnologia ma non la conoscenza scientifica per ricominciare daccapo con il programma nucleare – e godrebbe di forti consensi interni per riuscire.
Ci sono però tre legittime obiezioni a questo possibile scenario: 1. il 50 percento della popolazione iraniana non è persiana,
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I piani operativi sono già stati predisposti da tutti gli attori sul campo
Come riportare indietro l’orologio “nucleare” di Stranamore n queste ultime settimane i protagonisti del “grande gioco”iraniano si sono scambiati una serie di messaggi sul piano prettamente militare. Israele ha effettuato, con grande fanfara, quelle che sono state presentate come le“prove generali”per un attacco aereo in grande stile contro l’Iran.Teheran ha mostrato i muscoli con una serie di lanci, più ò meno taroccati, di missili balistici a breve e medio raggio. Il terzo protagonista, gli Usa, hanno scelto di schierare il Capo degli Stati Maggiori congiunti, l’Ammiraglio Mullen, il quale ha sobriamente commentato che un confronto bellico contro l’Iran rappresenterebbe un impegno non trascurabile, considerando le operazioni in corso in Iraq ed in Afghanistan. Non perché non si possa fare, solo che sarebbe una bella fatica, visto che la coperta…è corta. Ovviamente i relativi piani operativi sono già stati predisposti da tempo e sono costantemente aggiornati, anche perché più l’Iran cerca di galvanizzare la propria opinione pubblica e i propri soldati con manovre ed esercitazioni, più consente agli “spettatori interessati”di ottenere informazioni sulle effettive capacità militari di Teheran. Ad esempio i lanci missilistici sono stati attentamente seguiti dagli americani (e non solo) che hanno messo in campo sensori di ogni tipo, inclusi velivoli Cobra Ball.
I Dopo l’attacco i terroristi attaccherebbero obiettivi civili in Europa, Usa e Canada ma appartiene a minoranze etniche, linguistiche e religiose, che abitano in prevalenza nelle regioni di confine e periferiche del Paese. Anche se l’esperienza della guerra Iran-Iraq invita alla cautela in merito – gli Arabi delle provincie del Kuzestan non si sollevarono contro il governo di Teheran come probabilmente sperava Saddam Hussein – non è detto che il loro sostegno per il regime venga ravvivato da un attacco esterno. 2. non bisogna dimenticare il ruolo che pesanti sconfitte giocano nella sopravvivenza di un regime dittatoriale; l’argomento nazionalista poteva ben valere anche nel caso dell’Argentina nella Guerra delle Falklands del 1982, della Serbia di Slobodan Milosevic nel caso del Kosovo nel 1999 o dello stesso Iraq sotto Saddam Hussein dopo la campagna Tempesta nel Deserto del 1991; invece, in tutti e tre i casi, la dura sconfitta militare e l’umiliazione subita dal regime misero in moto processi interni che portarono alla caduta della giunta dei generali in Argentina, all’eventuale rimozione di Milosevic dalla presidenza con moti di piazza e alle ribellioni curde e sciite in Iraq. 3. l’opinione pubblica è un fattore assolutamente secondario nell’equazione: anche presu-
mendo che il 100 percento della popolazione iraniana sostiene la democrazia ed è contraria al programma nucleare, il loro attuale impatto sulle politiche del regime è zero.
Preoccuparsi di un cambio di opinione pubblica a conseguenza di un attacco è in realtà un pretesto o un abbaglio – quello che conta è se un’operazione militare ha la possibilità di distruggere o di danneggiare severamente il programma nucleare iraniano, non se troverà il sostegno di un’opinione pubblica che difficilmente applaudirà le bombe che gli cadono sulla testa! Un attacco all’Iran non sarà una passeggiata. Ma non bisogna dimenticarsi delle ben più gravi conseguenze che comporta l’alternativa – un Iran nucleare. Come dice Mustafa Alani, esperto del Gulf Research Centre di Dubai, «Se dobbiamo scegliere tra la deterrenza di un Iran nucleare e l’intimidazione iraniana da un lato, o accettare l’azione militare come soluzione, accetteremo l’azione militare» spiegando come «Nel Golfo possiamo vivere con le rappresaglie iraniane per una settimana o un mese. Esse sono gestibili se le si paragona alla possibilità che l’Iran divenga una potenza nucleare».
L’attenzione va concentrata sulle capacità americane, perché Israele non è assolutamente in grado di effettuare una operazione davvero massiccia sull’Iran. Non si tratta di ripetere il blitz che mise fuori gioco il centro nucleare iracheno di Osirak, perché le distanze in gioco sono ben diverse (posto che uno sguardo alla carta geografica basta per comprendere che per arrivare sull’Iran bisogna sorvolare diversi Paesi musulmani, non tutti “disponibili”), mentre le difese iraniane sono piuttosto serie e soprattutto i bersagli da colpire, se si vuol fare male, sono innumerevoli. Gli aimpoints, i punti sui quali indirizzare missili e bombe, sono centinaia o migliaia. Anche pensando di impiegare i sottomarini per lanciare qualche manciata di missili da crociera, il massimo che Israele può fare è condurre una azione dimostrativa, colpendo solo target selezionati e con valore strategico/simbolico. Il discorso è molto diverso per gli americani. Secondo gli addetti ai lavori, gli Usa possono preparare e eseguire con successo una riedizione della mini-campagna aero-missilistica Desert Fox, condotta contro l’Iraq di Saddam Hussein un decennio fa. Solo che i progressi della tecnologia militare e il vantaggio strategico di avere già presenti nella regione o comunque a portata di tiro consistenti forze aeronavali permette al Pentagono di
pensare ad una campagna di straordinaria intensità, ma di durata relativamente breve (intorno alle 72 ore), sfruttando l’effetto sorpresa e impiegando in larga misura le forze “alla mano”, senza dover compiere un lungo e visibilissimo build-up.
Un punto deve però essere chiaro: non c’è una soluzione militare per eliminare radicalmente la minaccia militare iraniana o rovesciare il regime. Nessuno si sogna di “conquistare” l’Iran. Quello che si può fare è riportare indietro l’orologio del programma nucleare e missilistico iraniano di diversi anni e intanto eliminare alcune capacità militari chiave di Teheran (ad esempio i sottomarini classe Kilo e la nuova base navale al di fuori di Hormuz), scardinando anche il sistema di difesa aerea e comando e controllo, si da rendere più agevole effettuare successivi attacchi. L’intelligence ha consentito di compilare liste di bersagli piuttosto complete, spetta ai decisori politici stabilire il limite di ciò che è opportuno o meno colpire. Tenendo conto che la “polverizzazione” dei siti nucleari/missilistici rende difficile eliminarli tutti. Alcuni di questi siti poi sono totalmente sconosciuti.
L’attacco partirebbe naturalmente di notte e verosimilmente coinvolgerebbe missili da crociera a lungo raggio lanciati da navi di superficie e sottomarini, ma anche da bombardieri, grandiose operazioni di guerra elettronica e informatica, attacchi di soppressione/distruzione della rete comando controllo e comunicazioni e della difesa aerea. I “pacchetti”di aerei decollati dalle portaerei, dalle basi nel Golfo, ma anche dall’Afghanistan attaccherebbero i singoli bersagli. Oggi un singolo aereo può attaccare 6-8“punti d mira”in una sola sortita, di giorno come di notte. CI potrebbero anche essere limitate operazioni su terra effettuate dalle forze speciali. È vero, l’Iran queste cose le sa e si sta preparando al meglio ed anche ingegnosamente, ad esempio puntando poco sui radar da difesa aerea basati a terra e utilizzando invece i vecchi caccia F-14 come mini radar volanti, concentrando le difese antiaeree ed impiegando una pluralità di sistemi. Ma c’è poco da fare. Lo svantaggio della dispersione è che non si può difendere tutto. Anche l’orografia del Paese avvantaggia gli attaccanti. Una offensiva americana violenta ed a grande intensità potrebbe davvero spuntare le zanne al leone iraniano.
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speciale esteri
Occidente A lato una portaerei americana nel Golfo Persico e l’ammiraglio statunitense Michael Mullen. Nell’altra pagina forze armate israeliane preparano un attacco con i carrarmati Nella fotina l’ayatollah Mohammad Taghi Mesbah Yazdi
Inglesi e francesi hanno manifestato la loro disponibilità, Berlino e Roma sono più attendiste
L’Europa divisa sull’intervento di Ilaria Ierep e Antonio Picasso el caso di attacco all’Iran le opzioni sono due: un’operazione multinazionale che coinvolga direttamente alcuni Paesi dell’Unione Europea, oppure una unilaterale israeliana. Entrambi i casi implicano una serie di conseguenze capaci di sconvolgere letteralmente l’intero assetto mediorientale e che, in un secondo tempo, avrebbero delle ripercussioni sensibili anche all’interno dell’Ue. Prima di tutto va detto che le due ipotesi richiederebbero la chiamata in causa dei Paesi confinanti con l’Iran, sia a livello politico sia a livello operativo-militare. Infatti, non si può pensare di colpire i siti nucleari iraniani, attraverso raid aerei di qualunque provenienza, senza chiedere il permesso di sorvolare i terri-
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nia. La Merkel, infatti, da una parte sta bene attenta a curare gli interessi economici tedeschi in Iran, dall’altra non vuole certamente rovinare i buoni rapporti con Sarkozy facendogli un torto. L’Italia, a sua volta, è divisa tra due fuochi. Il governo Berlusconi ha rinvigorito la linea filo-Usa. Ma è anche vero che Roma vanta storicamente un dialogo privilegiato con gli sciiti, quindi con l’Iran. Inoltre, non va sottovalutata la nostra presenza militare in Libano, nell’ambito della missione Unifil, che potrebbe risentire di un chissà quale riflesso negativo nel caso in cui ci esponessimo troppo in favore di un attacco. I caschi blu costituirebbero il primo potenziale bersaglio di un’eventuale rappresaglia sciita. Last but not least, gli interessi economici in gioco. Italia e Germania, infatti, sono tra i partner commerciali più importanti dell’Iran. Già solo per il nostro Paese basta citare la consolidata presenza dell’Eni nel settore energetico, per lo sfruttamento di petrolio e gas iraniani. Di conseguenza, con Londra e Parigi che fronteggerebbero Roma e Berlino, l’Ue vivrebbe l’ennesima spaccatura interna dovuta a una totale mancanza di politica estera unitaria.
La Merkel sta bene attenta a curare gli interessi economici tedeschi in Iran tori di Turchia e Pakistan, come quelli dell’Iraq e di altri Paesi del Golfo. Inoltre, una simile eventualità si andrebbe a incastonare in mezzo a due teatri di guerra già aperti: quello afghano e quello iracheno. Partendo dall’opzione multinazionale, è lecito chiedersi quali Paesi si impegnerebbero direttamente nelle operazioni. Oltre a Stati Uniti e Israele, nel contesto europeo i governi britannico e francese sono quelli che hanno manifestato più esplicitamente la propria disponibilità di forze da dispiegare. Invece, sulla linea dell’attendismo e del confronto politico, resterebbe la Germa-
Sul fronte della sicurezza, i rischi di possibili attentati non sono trascurabili. Ricordiamoci infatti che Gran Bretagna, Germania e Francia ospitano tre fra le comunità più numerose e ricche che costituiscono la cosiddetta diaspora iraniana nel mondo. Solo per fare un
esempio, gli iraniani in esilio nel Regno Unito sono quasi 300mila. La sensazione è che realtà così complesse e demograficamente consistenti possano essere vittime di infiltrazioni da parte dei servizi segreti di Teheran. È risaputo, infatti, che la famigerata Vevak, insieme al suo braccio armato clandestino (alQod), sia riuscita a dipanare una fitta rete di relazioni anche oltre i confini naturali del Medio Oriente.Tuttavia, non si può dimenticare che l’Europa è stata, finora, esclusa da qualsiasi attentato o operazione armata rivendicata da forze e milizie di confessione sciita. Nello specifico caso italiano, a sua volta, l’attenzione della nostra intelligence nei confronti di questi fenomeni si è sempre dimostrata sopra la media ed efficiente. La seconda opzione, invece, quella unilaterale delle Forze Armate Israeliane (Edf), è al tempo stesso la più probabile ma anche la più complessa da realizzare. Il clima di forte attrito e di tensione fra i governi israeliano e iraniano fa temere che il confronto politico possa degenerare in un’escalation militare. A questo si aggiungono i giochi di guerra che entrambi gli eserciti hanno rispettivamente portato a termine negli ultimi mesi. Le grandi manovre effettuate di recente, da parte di Israele, sono state interpretate come un’operazione di addestramento in previsione di un attacco preventivo per zittire definitivamente le ambizioni nucleari di Teheran. Quest’ultima, a sua volta, ha alzato un polverone con i test missilistici della settimana passata, i quali, a ben guardare, sono risultati più un fallimento che un’effettiva prova di forza. Ma la complessità della mise en scènedi un intervento militare israeliano risiede in ostacoli logistici quanto diplomatici. Difficilmente le Edf potrebbero permettersi un’operazione di lungo periodo, co-
me sarebbe in realtà necessario. Sorvolare i cieli di altri Paesi mediorientali non è così facile per un velivolo israeliano. L’alternativa, quindi, sarebbe far rotta verso il Mar Rosso e costeggiare con cautela la Penisola arabica, per raggiungere infine l’obiettivo iraniano. Un lungo e rischioso giro, questo. Da un punto di vista politico, Israele rischia di trovarsi impegnata di nuovo in un conflitto spurio, simile a quello di due anni fa, combattuto contro Hezbollah in Libano. Come la guerra dei 34 giorni, infatti, riscosse l’iniziale favore da parte dei governi occidentali – nonché una velata indifferenza in seno al mondo arabo – lo stesso potrebbe accadere oggi.
In un primo momento, un intervento militare potrebbe essere ben visto. Ma poi? Con l’aumento delle vittime civili, a causa del prolungamento delle operazioni, Israele subirebbe un calo del consenso anche da parte dei suoi sostenitori. Come nel 2006. Tanto più che questa volta non disporrebbe di un movente così valido come il sequestro di alcuni suoi soldati da parte di milizie nemiche. In questo caso si avrebbe a che fare con un vero e proprio attacco preventivo, ben più difficile da metabolizzare da parte della comunità internazionale. Scenari, tutti questi, in parte plausibili e in parte di minor concretezza. Quello che la realtà ci suggerisce è più evidente. I test non riusciti di Teheran, obiettivamente, sono risultati molto meno minacciosi del previsto. A fronte di tutto questo, forse, sarebbe meglio riportare indietro le lancette della tensione e aumentare gli sforzi per il confronto politico. Come Italia e Germania saggiamente suggeriscono. analisti Ce.S.I.
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Un conflitto potrebbe dare il via al “matrimonio” tra reazionari iraniani e jihadisti arabi
Attenzione al fascismo islamista di Ahmad Vincenzo e ci fosse un attacco contro l’Iran, in molte capitali mediorientali, dietro l’indignazione di facciata, in realtà si farebbe festa. La Persia è nettamente divisa dai suoi vicini. Un isolamento che ha radici profonde, politiche e religiose. Ma soprattutto antiche. In una regione dove le frontiere sembrano evanescenti, l’unico confine sicuro è quello che risale al trattato di Qasre Shirin del 1639 e che divide l’Impero Ottomano da quello Safavide. Dalla Transcaucasica al Golfo Persico, traccia oggi la frontiera tra Turchia, Iraq e Iran. È questo il vero confine orientale dell’Europa. La Repubblica islamica d’Iran ha fatto di tutto per varcare quel limite. Prima ha cercato di esportare la sua rivoluzione. Poi ha approfittato della crisi palestinese, finanziando Hamas, sostenuto le rivendicazioni della Siria sulle alture del Golan, anche attraverso Hezbollah. È intervenuta in Iraq, dove la presenza shiita è maggioritaria. Ha speso fiumi di petroldollari, ma i risultati sono stati effimeri.
jihadista è definito come un’eresia.
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Mai come adesso, infatti, i palestinesi hanno voltato le spalle all’Iran e sembrano vicini alla pace con Israele. Hezbollah, dopo i successi nella guerra con lo stato ebraico, ha trovato un nuovo ruolo politico nel Libano e non è più così ben
disposto nei confronti dell’Iran. Il presidente siriano Bashar al-Assad, aperto il Paese agli investimenti statunitensi, siede oggi a Parigi assieme a Sarkozy e agli altri leader europei. Persino gli shiiti arabi dell’Iraq sembrano poco entusiasti dei sogni di grandezza dei loro cugini persiani. Per non parlare dei Paesi del Golfo, che li considerano eretici e che guardano sempre con sospetto dall’altra parte dello stretto di Hormuz. In caso di guerra, però, i festeggiamenti della prima ora potrebbero smorzarsi molto presto. Qualcosa di terribile, infatti, potrebbe avvenire. Un peri-
libri e riviste
il primo compendio sulla storia del Federal bureau of investigation. Scritto da un esperto d’intelligence, professore all’Università d’Edimburgo. Una descrizione dell’Fbi calata all’interno della storia statunitense. Scopriamo così che la genesi dell’agenzia risale ben oltre il 1908. Si fa un salto a ritroso fino al 1870, anno in cui il Congresso votò una legge per combattere il Ku Klux Klan e la campagna di terrore che stava scatenando contro i cittadini neri che andavano a votare. Il carattere originario deriva da quella missione che, mutatis mutandi, pare sia arrivata fino ai giorni nostri. La figura del mitico J.Edgar Hoveer ne uscirebbe ridimensionata rispetto alla fama che aveva consolidato nel tempo. E la divisione del settore di controspionaggio
È
colo che finora quell’antico confine è riuscito a scongiurare: il matrimonio tra reazionari iraniani e jihadisti arabi. Nessuno più di loro si augura un attacco. Il presidente Ahmadinejad è in crisi. A dispetto delle ricchezze petrolifere, il suo governo non è riuscito a centrare uno sviluppo economico e sociale. Per rifarsi un’immagine ha bisogno di una guerra e della reazione nazionalista e anti-occidentale, che essa provocherebbe. Ne hanno bisogno anche i suoi mentori religiosi, in particolare l’Ayatollah Mesbah Yazdi: avversario dell’Occidente e sostenitore del jihad, era stato definito dall’ex presi-
fra Fbi e Cia viene considerato un peccato originale, un grande errore foriero di successive débacle. La contestualizzazione storica inoltre facilita la comprensione dei motivi alla radice della forza e della debolezza dell’agenzia. I suoi errori come alla vigilia dell’ 11 settembre causati da una cultura xenofoba e il suo ruolo nei più importanti casi, come il Watergate. «Una cronaca intelligente e accurata del primo secolo d’attività dell‘Fbi» come ha affermato nel Bbc hitorical magazine. Rhodri Jeffreys-Jones The Fbi Yale University press 320 pagine - 27,50 dollari
dente Khatami un vero e proprio “teorico della violenza”. Anche al-Qaeda è in crisi. In Afghanistan e in Pakistan non ha più gli appoggi di un tempo. In Iraq la sua influenza si è dispersa nei rivoli dello scontro etnico e confessionale tra curdi, sunniti e shiiti. Personalità importanti, come il Grande Ayatollah Sistani, sono intervenute più volte per fugare i rapporti tra shiiti e al-Qaeda. Gli stessi Paesi del Golfo si oppongono in maniera sempre più determinata alla propaganda guerrafondaia, stanchi di vedere giovani arabi morire suicidi. Negli stessi ambienti fondamentalisti, il movimento
a new age Sarkozy non ha portato solo un cambiamento mediatico del rapporto fra il presidente francese e i suoi cittadini. Il cambiamento è sostanziale anche nel nuovo modello politico che lo accompagna, soprattutto la visione del mondo. Sembra finito l’eurocentrismo francese. La globalizzazione ha cambiato il mondo. «La gerarchia delle potenze mondiale è cambiata e sta ancora evolvendosi. Il mondo non è diventato necessariamente più pericoloso ma solo più instabile (...) il terrorismo di matrice jihadista è una seria minaccia per la Francia e per l’Europa» sono parole scritte nel Libro Bianco sulla difesa e sicurezza redatto dal governo di Parigi. Una vera rivoluzione concettuale sotto tanti punti di vista. J. Peter Pham France’s New Recipe The National Interest July/August web exclusive
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L’unione tra al Qaeda e reazionari iraniari potrebbe creare una nuova ideologia di stampo panislamista. Come nel 1979, la Rivoluzione iraniana potrebbe tornare a essere presa a modello di un’utopia politica autoritaria e autocratica su scala mondiale. Con una differenza rispetto ad allora. Nel 1983 l’Ayatollah Khomeini aveva bandito Hojjatieh, un’organizzazione che intendeva usare la violenza per favorire il ritorno dell’imam atteso dagli shiiti duodecimali. Attualmente, invece, si pensa che Mesbah Yazdi e Ahmadinejad siano tra i suoi capi. Le similitudini tra Hojjatieh e la cupola di al-Qaeda sono notevoli. Entrambi usano la violenza per realizzare un’utopia politico religiosa, il ritorno dell’Imam o quello del Califfo. Entrambi esaltano il suicidio. Paradossalmente, una guerra potrebbe favorire quella stessa escalation nucleare che vorrebbe scongiurare. Nel 2005, infatti, la Guida Suprema Khamenei aveva dichiarato illegittimo dal punto di vista islamico l’uso delle armi nucleari. Dopo un attacco, la situazione potrebbe cambiare. La voglia di forzare il corso della storia spingerebbe verso un nuovo fascismo islamista. Che il confine orientale di Qasr-i Shirin non sarebbe più in grado di trattenere.
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uanto sono serie le minacce ambientali? Tenendo ferma la popolazione mondiale e lo sviluppo economico ad oggi, la terra non riuscirà a sopravvivere fino alla conclusione del secolo. Naturalmente il peggioramento sarà decisamente più rapido. L’analisi che sta alla radice di questo libro è che la comunità ambientalista sia cresciuta in termini di popolarità, radicamento sociale e qualità scientifica dei suoi membri, ma il problema sia drammaticamente peggiorato arrivando sul confine della catastrofe. Sul banco degli imputati viene messo il modello politico-economico figlio del moderno capitalismo. James Gustave Speth The bridge at the Edge of the World Yale University Press 220 pagine - 27,53 dollari
a cura di Pierre Chiartano
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emmeno sono partite le trattative tra gli interessati e già si scommette che il prossimo sarà un autunno caldo per il pubblico impiego. Lunedì i sindacati confederali hanno disertato il primo incontro all’Aran sul rinnovo del contratto, ieri la Confsal ha proclamato lo stato di agitazione dopo aver letto la proposta del governo sulla dirigenza pubblica. Ma in questa querelle, e più dei 7 miliardi che servirebbero per chiudere l’intesa per l’anno 2009, i sindacati guardano soprattutto agli effetti della riforma Brunetta sul pubblico impiego.
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Il piano industriale della pubblica amministrazione per migliorare l’efficienza degli uffici pubblici e a rendere trasparente l’attività amministrativa, prende avvio con il decreto legge numero 112/2008. E contiene i primi interventi di controllo della spesa, di snellimento degli assetti organizzativi, di riduzione degli organici, di limitazione all’assenteismo. Tra gli interventi rilevanti la riforma del sistema di attribuzione del salario accessorio, secondo i criteri di produttività definiti dalla contrattazione collettiva integrativa, in ogni amministrazione. Non a caso il decreto prevede per il 2009 una riduzione delle risorse aggiuntive per il finanziamento della contrattazione collettiva integrativa delle amministrazioni statali, fino a che non sarà definito il nuovo sistema di attribuzione del salario accessorio e dal 2010, a regime, la riduzione del 20 per cento delle attuali risorse. Tali tagli vanno considerati, innanzi tutto, nella prospettiva della riduzione del personale delle pubbliche amministrazioni. Il medesimo decreto prevede l’obbligo per tutte le amministrazioni di ridurre gli uffici dirigenziali (20 per cento per quelli di I fascia, 15 per quelli di II fascia) e di apportare un alleggerimento non inferiore al 10 per cento della spesa complessiva relativa all’organico del personale non dirigente. Per incentivare l’esodo volontario dal servizio e lo svecchiamento del personale sono introdotti la facoltà dell’amministrazione di pensionare i dipendenti che abbiano già raggiunto i 40 anni di contributi e il cosiddetto “esonero dal servizio” per i lavoratori con almeno 35 anni di contributi, che potranno volontariamente dedicarsi ad altra attività di lavoro autonomo o parasubordinato, mantenendo il rapporto di impiego agli effetti pensionistici oltre alla metà della retribuzione (il 70 per cento se impegnati nel volontariato) fino all’età del pensionamento.
economia Per i sindacati sarà «autunno caldo»: nel mirino la riforma Brunetta
Statali, lo scontro va oltre il contratto di Gabriele Mastragostino
La riduzione del 20 per cento del finanziamento del salario accessorio, prevista per il 2010, dovrebbe quindi essere compensata, nelle intenzioni del governo, sia dal taglio degli organici sia dalla riduzione del numero dei destinatari del salario di produttività. Occorre ricordare che l’attribuzione del salario di produttività nella pubblica amministrazione è avvenuta, finora, senza alcun rispetto di criteri e parametri selettivi fondati sulla produttività e sul merito individuale, il che ha significato, tranne poche virtuose eccezioni, valuta-
il disagio o la pericolosità della prestazione lavorativa. Questa tendenza di suddividere il personale per categorie, commisurando la retribuzione al rilievo fittizio della tipologia di lavoro, è fortemente deleteria sul piano delle relazioni aziendali, perché favorisce la chiusura tra i diversi gruppi, innesca forme di rivalità categoriale e accresce la parcellizzazione sindacale e il tasso di litigiosità. E ciò, evidentemente, oltre a costituire vere e proprie rendite di posizione, non può che pregiudicare la produttività complessiva degli uffici.
Il ministro della Funzione pubblica vuole riscrivere le regole del salario accessorio, coniugando merito e risultati, e vincolare ai tagli le risorse per il rinnovo delle future intese collettive zione massima e stesso stipendio per tutti i dipendenti. In verità, alcuni dipendenti hanno ottenuto trattamenti più elevati, ma non perché più produttivi rispetto ad altri colleghi, ma in quanto appartenenti a tipologie di lavoro “privilegiate” dalla contrattazione, quasi sempre in virtù del peso politico/sindacale della categoria, piuttosto che per l’importanza,
Il provvedimento del governo, bloccando l’attuale disciplina, vuole impedire che il sistema premiale possa continuare a causare queste disfunzioni. La nuova disciplina, che sarà contenuta in un apposito decreto legislativo, dovrebbe di conseguenza essere fondata su tre fondamentali punti: 1) Attribuzione del salario accessorio sulla base del merito
individuale e collettivo, valutato secondo parametri e indici oggettivi di misurazione della produttività, con esclusione di trattamenti indifferenziati; 2) Controllo della concreta definizione e applicazione dei criteri definiti dalla contrattazione integrativa e della relativa spesa, che sarà fatto della Corte dei Conti (come già prevista dal decreto 112); 3) Esclusione di risorse aggiuntive che siano nella sostanza null’altro che indennità corrisposte per rendite di posizione, non corrispondenti a una reale rilevanza della prestazione lavorativa nell’ambito dell’amministrazione pubblica. Si delinea in nuce un sistema più elastico e selettivo, nel quale il salario accessorio dipenderà soltanto dall’impegno del lavoratore e dal suo specifico apporto all’incremento della produttività dell’ufficio. Salari elevati, quindi, per chi, sulla base del sistema valutativo, sarà stato molto produttivo. Ma anche salari inferiori, anche più bassi rispetto agli attuali trattamenti indifferenziati, per chi sarà risultato poco o per nulla produttivo, secondo i canoni di un sistema premiale individualizzato. Resta, per la verità, il problema della sospen-
sione (tecnicamente disapplicazione) delle disposizioni che assicurano risorse aggiuntive da destinare alla produttività fino a che non sarà definito il nuovo sistema di spartizione del salario accessorio. Finchè non ci sarà la nuova disciplina, in sostanza, non saranno disponibili le risorse per la contrattazione collettiva del 2009. E la cosa incide non poco nelle tensioni di questi giorni. Tale norma-capestro sembra diretta in realtà più a sollecitare le parti sindacali, evitando eccessivi ostruzionismi, piuttosto che a togliere “punitivamente” importanti risorse alla contrattazione collettiva. Essa, in tal modo, sposta l’interesse a negoziare sui sindacati che, se non vorranno incorrere per l’anno venturo nella prevista decurtazione degli stanziamenti, dovranno al più presto cercare un accordo col governo sul nuovo sistema premiale. Al di là delle schermaglie negoziali, però, è importante che il governo non perda l’occasione di rendere finalmente la contrattazione uno strumento utile ai fini dell’incremento del lavoro e della produzione negli uffici pubblici. Se si vuole un reale impegno delle amministrazioni sulla produttività, occorre individuare un meccanismo che assicuri la stretta coerenza e la tempestività dei contratti integrativi rispetto al budget annuale di gestione. Tali criteri devono infatti essere definiti, in relazione agli obiettivi budgetari, anteriormente al periodo in cui dovranno essere distribuite le risorse e non successivamente, a giochi fatti, quando l’attività programmata si è già svolta.
I contratti integrativi, invece, firmati quasi sempre a bilancio chiuso, e perfino a distanza di anni, sono oggi del tutto inutili ai fini dell’incremento produttivo e si traducono in un mero adempimento burocratico. Perciò andrebbe almeno fissato e fatto rispettare un termine finale alla negoziazione dei criteri produttivi, oltre il quale gli stessi debbano essere necessariamente definiti in via unilaterale dall’amministrazione. Sarebbe inoltre necessaria una circostanziata rendicontazione sulla distribuzione delle somme al personale tesa a verificare, in ciascuna amministrazione, eventuali scostamenti rispetto ai criteri di merito e di produttività. Un conto è infatti il giudizio ex ante sui criteri di premialità contenuti nei diversi contratti integrativi, che spetterà alla Corte dei Conti, un altro è l’analisi ex post del rispetto di tali criteri, in sede di concreta attribuzione del salario ai lavoratori. Analisi che potrebbe essere affidata agli stessi magistrati contabili.
economia
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Presentata Ntv, la società dell’ex leader di Confindustria e di Della Valle che dal 2011 entrerà nel mercato dell’alta velocità
Montezemolo sfida Ferrovie. E Alitalia di Alessandro D’Amato
d i a r i o ROMA. Un esordio scintillante. Con tanto di padrino d’eccezione, quell’Antonio Catricalà presidente dell’Antitrust, che ha parlato di «giornata positiva per la concorrenza». Insomma, la presentazione dei servizi di Nuovo Trasporto Viaggiatori (Ntv), la spa creata nel dicembre del 2006 dagli imprenditori Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle, Gianni Punzo e Giuseppe Sciarrone avviene sotto i migliori auspici. Ed è facile che sia così per le start up che nascono sotto l’ala protettrice di importanti pezzi dell’establishment. Al nucleo originale si sono aggiunti IntesaSanpaolo, Generali e Alberto Bombassei. Proprio il ruolo di IntesaSanpaolo, advisor delle nuova Alitalia, e di riflesso di un diretto concorrente, ha finito per stuzzicare l’interesse dei più. Non a caso il consigliere delegato, Corrado Passera, ha spiegato: «È previsto, in particolare, che occuperanno una quota importante di alcune tratte aeree cosa, comunque, già messa in conto in tutti i piani di impresa» che Ca’ de Sass sta approntando per la Magliana. Parole, le sue, che potrebbero essere anche interpretata come una giustificazione non richiesta rispetto alle critiche che arriveranno all’Antitrust, quando Catricalà autorizzerà la fusione con Air One e che creerà un monopolio sulla rotta Roma-Milano. Anche Emma Marcegaglia, in una nota ufficiale di Confindustria, ha reso omaggio a chi l’ha preceduto, dando la sua benedizione alla nuova iniziativa imprenditoriale. Ntv, operativa dal 2011 con un migliaio di addetti, permetterà di viaggiare sulle linee ad alta velocità – nelle quali lo Stato ha investito finora 40 miliardi – nel massimo confort e sfruttando tecnologia avanzata. La società sarà il primo operatore al mondo ad utilizzare il nuovo treno ad altissima velocità Alstom Agv, con una flotta di 25 unità che potrà raggiungere i 360 km l’ora e per la quale ha sottoscritto un contratto con i francesi di 650 milioni. Ancora provvisorie le tratte: 15 saranno dedicate alla linea MilanoRoma (compresi alcuni prolungamenti verso Torino e Napoli); tre riservate alla Venezia-Roma, due per la Bari-Roma e cinque “in panchina”. Cinquecento posti distribuiti su undici carrozze in classe standard e top, con tanto di poltrone Frau e postazioni per navigare in internet. E Il target sembra quello degli aficionados delle “business class”, che d’ora in avanti potranno spostarsi per lavoro in treno invece
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g i o r n o
L’inflazione corre, il Pil frena L’inflazione schizza al 3,8 per cento trainata da alimentari e energia. Il dato allarmante, con cui l’Istat conferma la stima provvisoria, è il più alto da 12 anni. La variazione mensile è risultata pari allo 0,4 per cento. Gli aumenti maggiori toccano alimentari e combustibili, in particolare il diesel. Pane e pasta, segnala l’Istat, in un anno hanno visto il prezzo lievitare rispettivamente del 13 per cento e del 22,3 per cento. Nel frattempo arriva anche l’allarme di Bankitalia. È un quadro a tinte fosche quello dipinto dall’istituto guidato dal governatore Mario Draghi. Nel ”Bollettino economico” emerge un quadro che raffigura un Paese in stallo, dove manca la produttività, dove la crescita del Pil non supererà lo 0,4 per cento nel 2008 e nel 2009. Dove i consumi stagnano, gli investimenti sono fermi, il potere d’acquisto delle famiglie è eroso dalla corsa del costo della vita.
Euro record, Borse bruciano 140 miliardi Le Borse europee ieri hanno bruciato 140 miliardi di euro di capitalizzazione. Vendite a Piazza Affari (-2,5 per cento) come negli altri listini di Eurolandia, in scia al deludente dato sullo Zew tedesco e alla nuova impennata record dell’euro (oltre 1,60 sul dollaro). I mercati erano già partiti piuttosto male ieri mattina, hanno evidenziato un netto peggioramento nella tarda mattinata, dopo che lo Zew Institute ha annunciato un ulteriore deterioramento dell’economic sentiment index a -63,9 punti, oltre i -55 previsti dagli analisti. La moneta unica è così balzata su un nuovo record di 1,6039 sulla moneta americana.
Alitalia, il governo risponde all’Ue
La compagnia punta alla clientela business e potrebbe dare più fastidio alla Magliana che a Trenitalia che in aereo. Ecco perché a Trenitalia, per ora, sono tranquilli e pensano di poter reggere l’impatto della concorrenza: si pensa che intaccherà in massima parte business aereo, e non il loro. L’azienda, comunque, prevede di acquisire entro il 2015 una quota di mercato del 20 per cento, arrivando a 30mila viaggiatori al giorno, e 10 milioni all’anno. Nel 2011, quando saranno pronti i treni Alstom, sarà anche realizzato l’impianto di manutenzione all’interno dell’Interporto di Nola, dove sono previsti investimenti per 99 milioni e l’impiego di circa 300 persone.
«Siamo un gruppo di imprenditori, una grande banca italiana, una grande assicurazione italiana», ha dichiarato Montezemolo, «quindi una vera impresa italiana; non c’è un euro di denaro pubblico e in momenti come questo credo sia anche importante predicare bene e razzolare bene, cioè investire e aver voglia di rischiare». Per Montezemolo «ci sarà una grande concorrenza che farà bene soprattutto
ai cittadini. Perché il mercato si allargherà molto quando si potrà andare in 3 ore da Milano a Roma e, a quel punto, vincerà chi ha il treno migliore e il servizio migliore». Marco Ponti, ordinario del Politecnico di Milano e tra i maggiori esperti europei di economia dei trasporti, è convinto che con Ntv la situazione del trasporto ferroviario migliorerà. Ma fa dei distinguo: «Se davvero si faranno concorrenza, due operatori restano meglio di uno». E Trenitalia come la prenderà? «Potrebbe essere l’occasione per affrancarsi dal discorso del servizio pubblico essenziale, che le Ferrovie usano come scusa ogni volta che si parla di nuovi operatori, dicendo che se entrano nelle tratte più redditizie loro non avranno soldi per finanziare i treni vuoti. Se sono vuoti, si può chiedere allo Stato di sussidiarli oppure di sopprimerli direttamente». A detta di molti analisti, Ntv potrebbe fare da apripista all’ingresso in Italia di operatori francesi e tedeschi, oggi impegnati soltanto sul versante cargo. «L’agenda europea», nota Ponti, «prevede una graduale liberalizzazione delle tratte. A prescindere da Ntv le barriere all’ingresso dovrebbero cadere: il tutto a vantaggio del consumatore. Quindi, basta la volontà. Il problema è vedere se ne hanno».
Sul tavolo del Commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani, è arrivata la prima risposta del governo italiano in merito all’indagine aperta da Bruxelles l’11 giugno scorso sul finanziamento da 300 milioni di euro concesso all’Alitalia. La Commissione europea aveva avviato un’indagine approfondita sul prestito ponte per verificarne la compatibilità con le norme Ue sugli aiuti di Stato. Intanto il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha affermato: «Se con il caso Alitalia non si trovassero soluzioni diverse potrà essere percorso anche con strumenti di modifica alla legge Marzano». Nei giorni scorsi lo stesso ministro sulla vicenda aveva detto: «Serve una riforma, la legge è troppo macchinosa per le esigenze di Alitalia».
Benzina e gasolio da record Altro massimo storico per la benzina e il gasolio, che ieri hanno toccato quota 1,56 euro al litro. Molte compagnie hanno rivisto al rialzo i loro listini, con un’ondata di rincari che ha interessato sia la verde sia il diesel, arrivati dovunque a livelli di prezzi compresi tra 1,554 e 1,559 euro. Intanto, il greggio a New York ha aperto in salita. Il contratto di riferimento del ”light sweet crude” ha segnato un aumento di 94 centesimi a 146,12 dollari al barile sulla chiusura ufficiale della vigilia. Il Brent ha viaggiato poco sotto la soglia dei 145 dollari.
Nucleare, Maiani: Italia è in grado di ripartire L’Italia è in grado di ripartire subito sul nucleare e deve farlo per colmare gli oltre 20 anni di inattività in questo campo: ne è convinto il fisico Luciano Maiani, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Uno dei più affermati fisici a livello internazionale partecipa così al dibattito di questi giorni. «Il nucleare si deve fare - ha sostenuto Maiani e il terreno perduto va riconquistato». Una scelta, ha rilevato, che nasce dalla consapevolezza che l’energia «non è una merce, ma un valore strategico».
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ul celebre viale Unter den Linden, a due passi dalla Porta di Brandeburgo, tra l’Ambasciata inglese e quella russa, è stata inaugurata il 5 luglio la sede berlinese del Museo delle cere Madame Tussauds. La notizia in sé non sarebbe degna di particolare menzione, perché Berlino ha così tanti eventi e centri stabili di grande rilievo culturale, alcuni ancora poco conosciuti, che un’apertura del genere appare di interesse minore. Tuttavia la faccenda ha scatenato accese polemiche a vari livelli, i media tedeschi hanno focalizzato ampiamente la cosa e quelli italiani le hanno dato notevole risalto, perché tra le centinaia di statue raffiguranti, a grandezza naturale e con realismo fotografico, personalità storiche e personaggi famosi, è stata inserita anche quella che riproduce Adolf Hitler. Ecco dunque la causa di tanto clamore. A Berlino c’è un certo numero di persone, non tutte organizzate secondo i canoni degli organismi tradizionali ma, per paradosso, ancor più efficacemente sintonizzate fra loro e più efficienti di molte altre strutture ordinate, che si muovono all’unisono in qualsiasi occasione in cui ci sia da difendere l’ortodossia marxista-leninista o il tradizionale feticcio dell’antifascismo. E per questi guardiani della rivoluzione permanente, un’effigie di Hitler, in scala 1:1 e così simile all’originale, è un’occasione da non perdere. Mobilitazione e vigilanza democratica sono le parole d’ordine che hanno accompagnato le sedicenti argomentazioni storico-politiche con cui si è contestata la decisione di piazzare uno Hitler nel museo delle cere.
polemiche
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A voler ragionare in modo formalmente sottile, è vero che i neonazisti hanno il gusto del feticcio macabro e una statua così ben fatta del loro idolo supremo potrebbe suscitare le loro velleità esibizionistiche, ma è anche vero che con una statua che raffigura un idolo fallito non si fanno adepti e, certamente, non è di una statua che i neonazi hanno bisogno per rafforzare le loro convinzioni o per fare proselitismo. Dall’altra parte invece, la preoccupazione dei militanti rossi è soprattutto quella di affermare la loro esistenza e, a dispetto della sconfitta storica mondiale, la forza della distopia comunista. Per mostrare l’inconsistenza sia politica sia simbolica di questa battaglia intrapresa dai professionisti dell’antifascismo, basterebbe ricordare che nella sede londinese del Museo Tussauds c’è
La contestata effigie del Führer al Tussauds berlinese
Hitler e i soliti rossi dalla brutta cera di Renato Cristin una statua di Hiltler fin dal 1933, oggetto di ripetuti lanci di uova e perciò protetta da un vetro, che rimase al suo posto anche durante i bombardamenti tedeschi su Londra. Ma a Berlino spesso ha la meglio la logica del terrorismo psicoideologico. Infatti, sabato scorso, poche ore dopo l’apertura del museo, un esaltato ha decapitato l’incerata effigie hitleriana al grido di “mai più guerre”. Questa è la logica: l’ideologia nazionalsocialista si combatte con intransigenza asso-
tunatamente senza gli effetti sperati. Nolte, uno dei maggiori storici contemporanei, era colpevole di aver individuato un “nesso causale” tra il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo, e di aver così non solo infangato l’ideologia marxista-leninista, ma anche intaccato l’egemonia culturale della sinistra.
Nessuno può dunque studiare il nazionalsocialismo e il suo leader senza ricevere gli strali, a volte soltanto paterna-
dello Stato italiano che nel 2006, svolgendo le mansioni di ambasciatore a Berlino, ha boicottato, facendosi scudo dell’intera Farnesina per la sua riprovevole azione censoria, un convegno organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura e dalla Freie Universität di Berlino sul viaggio di Hitler in Italia del 1936, solo perché il cartoncino d’invito riportava una foto di Hitler e Mussolini sullo sfondo della napoletana piazza Plebiscito. E a simmetrica conferma dell’intento ideologi-
La preoccupazione dei militanti marxisti-leninisti è cavalcare l’onda del’orrore nazista per dare senso alla propria esistenza nell’era della sconfitta storica della distopia comunista. E sui gulag tutto tace luta, anche nelle sue più piccole tracce simboliche, mentre quella dell’altro totalitarismo che ha insanguinato il mondo va protetta, pure fin nei suoi minimi simboli, da qualsiasi critica o revisione storica. Di questa logica sa qualcosa Ernst Nolte, che nel 1990 fu aggredito da un gruppo di sedicenti antifascisti che, nel tentativo di impedirgli di tenere una conferenza, gli gridarono “tu, nazista” e gli spruzzarono un liquido corrosivo in faccia, for-
listici ma spesso pieni di accuse anacronisticamente violente, di quegli intellettuali politicamente corretti che rifiutano qualsiasi “revisionismo” che possa anche solo incrinare la compatta cornice ideologica con cui hanno delimitato gli stretti margini entro i quali sono possibili variazioni ermeneutiche della storia moderna e contemporanea. Ma a cadere preda di questa esagitazione ideologica sono, da sempre, in molti, come quel funzionario
co che lo animava, nel novembre dell’anno precedente quel medesimo funzionario aveva osteggiato con altrettanta virulenza un convegno dell’IIC e della Fondazione Adenauer dall’eloquente titolo “Memento Gulag”, al quale intervenne l’allora presidente del Senato, sostenendo che gli Istituti di Cultura non devono trattare simili temi e dare spazio a “pistolotti politici” come la conferenza di Marcello Pera. In questi due episodi, di cui sono stato
testimone diretto, l’esaltazione ideologica si è accompagnata alla protervia istituzionale e all’arbitrio caratteriale, con un ottimo servizio alla causa rossa (e con un pessimo servizio all’immagine dell’Italia). Grazie a sostegni generalizzati, finora al comunismo è stata evitata la giusta e universale sanzione, e mentre il nazionalsocialismo è ormai stato del tutto superato e – giustamente – da tutti condannato, i pasdaran rossi si aggrappano perfino allo Hitler di cera, pur di difendere quel che resta del loro fantoccio ideologico e delle prebende che quella difesa riesce ancora a procacciare. Ma dietro a tutto ciò c’è il nulla concettuale, il vuoto morale, la vacuità storica. La pietra tombale su quest’ultima querelle berlinese – e il conseguente, smascheramento implicito, della strumentalità delle vestali dell’antifascismo – è stata posta da Stephan Kramer, segretario generale della più autorevole organizzazione ebraica tedesca (il Consiglio centrale degli ebrei di Germania), che ha così risolto la questione: “Hitler non dovrebbe diventare un’attrazione turistica, ma se questa esposizione aiuterà, in un certo senso, a normalizzare il modo in cui lo si considera, a demistificarlo, allora proviamoci”, anche perché “non si può cancellare Hitler dalla storia, e tentare di farlo non funziona ed è controproducente”.
Come indica Kramer, i conti con la storia vanno fatti senza reticenze e senza infingimenti, e allora sia il nazionalsocialismo sia il comunismo potranno finalmente essere giudicati per ciò che sono stati. Allora, per esempio, ai film e ai romanzi sulla nostalgia della DDR si affiancherà una denuncia sistematica e dall’ampia risonanza pubblica dei misfatti del comunismo tedesco-orientale. Ma sono necessari anche piccoli passi concreti, come, per esempio, inserire negli itinerari berlinesi dei tour operator anche il museo del carcere della Stasi (la polizia politica della DDR) nel quartiere di Hohenschönhausen, che il direttore Hubertus Knabe riesce solo con grande fatica a sostenere e a promuovere, o come l’accoglimento da parte degli organismi internazionali, e di quelli europei in primo luogo, della proposta dello svedese Bertil Haggman, direttore del Center for Research on Geopolitics di Hastveda, per l’istituzione di una “Norimberga 2”, che processi i crimini del comunismo, i loro artefici ideologici e i loro autori materiali.
musica
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Stephen Stills ritrova nei suoi archivi vecchie incisioni in compagnia del chitarrista di Seattle
L’ultima gemma di Hendrix di Alfredo Marziano uattro album da vivo, cento da morto. A quasi trentotto anni dal giorno in cui lo ritrovarono senza vita in un albergo londinese, Jimi Hendrix continua a riempire gli scaffali dei negozi, sfornando dischi dall’aldilà. L’ultima “novità”è di questi giorni: Stephen Stills, un quarto della famosa ditta CSNY, ha appena ritrovato nei suoi archivi vecchie incisioni in compagnia del leggendario chitarrista di Seattle e si prepara, ovviamente, a darle alle stampe. S’era capito subito, fin da quell’infausto 18 settembre 1970, che Are You Experienced? e Axis: Bold As Love, Electric Ladyland e Band Of Gypsys non sarebbero bastati a saziare la fame dei fan. Da quel preciso momento sui resti del povero Jimi e sulla sua eredità musicale s’è scatenata una guerra senza esclusione di colpi, parenti, amici, manager e produttori discografici pronti a darsele di santa ragione per portarsi a casa un brandello del mito.
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Ecco Alan Douglas, che Hendrix frequentò negli ultimi anni di vita e che amministra i suoi interessi, non si sa mai, da una società offshore con sede ai Caraibi. Ecco la famiglia di Mike Jeffrey, il primo spregiudicato manager di Jimi scomparso in un incidente aereo nel 1973. Ecco John Hillman, lui pure un ex procuratore d’affari del chitarrista, e Lawrence Miller, che per anni ha pubblicato dischi semi illegali sventolando un contratto che Hendrix aveva firmato con la sua società,Yameta, alla vigilia della sua deflagrazione sulla scena rock mondiale, nel dicembre del 1966. Ecco, infine, i legittimi eredi: papà Al, mancato nel 2002, e i suoi discendenti, che dopo anni passati alla finestra nei ’90 hanno messo in piedi un trust, Experience Hendrix, retto con pugno di ferro dalla volitiva e scorbutica sorellastra dell’artista, Janie. Un groviglio di interessi contrastanti e di carte contrattuali contraddittorie che ha scatenato un diluvio di cause legali, fatto la fortuna degli avvocati e riempito le agende dei tribunali americani. Experience Hendrix contro i Jeffrey, contro Hillman e contro
Miller. Contro il domenicale inglese Sunday Times, che nel settembre del 2007 aveva allegato gratuitamente alle copie del giornale un cd contenente registrazioni live estratte dal concerto del 1969 alla Royal Albert Hall di Londra. Contro l’imprenditore statunitense Craig Deffenbach, inventore e distributore della vodka Hendrix Electric, volto e firma del chitarrista in bella vista sull’etichetta (“proprio l’alcol”, s’è lamentata Janie, “una delle cause della morte prematura di mio fratello”). E poi Leon
Hendrix, figlio legittimo di Al, contro la stessa Janie e suo cugino Robert, che lo hanno estromesso dal business citando la sua scarsa affidabilità (pare abbia il vizio della bottiglia e del gioco d’azzardo) e che lui accusa a sua volta di succhiare denaro dal fondo per elargirsi lauti stipendi e pagarsi il mutuo sulla casa. Intanto sul mercato continuano a uscire dischi che disorientano e dissanguano tutti gli orfani di Hendrix: il gioco vale ancora la candela, se è vero che le vendite si aggirano tuttora sui 600mila pezzi all’anno. Sulla base di vecchi contratti che il capofamiglia fece firmare a un Jimi ingenuo e inesperto, i Jeffrey accampano diritti su canzoni famose come Hey Joe e Foxy Lady, che hanno cercato di vendere all’asta (avevano anche trovato un acquirente disposto a sborsare 15
A sinistra Jimi Hendrix. In alto il famoso quartetto CSNY, acronimo dei quattro componenti della band nata nel 1969: Neil Young, David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash
milioni di dollari). Gli Hendrix li hanno prontamente bloccati, e altrettanto sono riusciti a fare – dopo anni di battaglie – con Miller e la sua Purple Haze Records. Ma è come tagliare la coda a una lucertola: nei negozi sono immediatamente comparsi altri cd e cofanetti distribuiti da una non meglio identificata Voodoo Chile Records.
La Experience Hendrix non è meno implacabile, e tra una carta bollata e l’altra trova il tempo di pubblicare registrazioni dal vivo e incompiute di studio come First Rays Of New Rising Sun, “bootleg”autorizzati per collezionisti e le intere esibizioni ai festival di Monterey e di Woodstock, nel mentre trattando con Hollywood e con Quentin Tarantino la cessione dei diritti cinematografici per un biopic sullo scomparso congiunto. Un esempio per i familiari di altri miti passati a miglior vita. Laura Joplin, che sulla sorella maggiore Janis aveva già scritto un libro di memorie, qualche anno fa si è concessa alla stampa internazionale per promuovere la ristampa Sony in versione deluxe dell’album Pearl. Mary Guibert, vedova di Tim Buckley e mamma di Jeff, un cd e un mini album pubblicati prima della morte per annegamento avvenuta nel 1997 nelle acque limacciose del Mississippi, da allora ha sfornato non meno di cinque/sei dischi di provini e materiali incompleti, incisioni giovanili e performance in concerto, facendo storcere il naso anche ai più devoti seguaci del talentuoso figliolo. Nel mentre anche Courtney Love, vedova di Kurt Cobain, ha rimpinguato il portafoglio con i bambolotti che riproducono le fattezze del defunto marito e le scarpe da ginnastica Converse che portano la sua firma. Eppure non è più lui “il morto che guadagna di più”, tra le stelle cadute del rock: secondo la rivista Forbes il primato è tornato ancora una volta al King, Elvis Presley, che solo nell’ultimo anno ha fatto guadagnare ai suoi eredi 42 milioni di euro, precedendo in classifica John Lennon, quasi 32 milioni di euro, George Harrison, poco al di sotto dei 16 milioni, e il rapper Tupac Shakur, che tuttora vale sul mercato circa sei milioni e mezzo di euro all’anno. Degli Hendrix, nella Top Ten, nessuna traccia: Janie, nell’ombra, mastica amaro e medita la prossima mossa per riportare il fratello nella hit parade dei cari estinti.
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cultura
In mostra fino al 21 settembre i capolavori del controverso artista perugino a palazzo Venezia
Tassi,il pittore scellerato di Claudia Conforti
n’esistenza scellerata riassume la vita di Agostino Tassi (1578-1644), formidabile disegnatore ed estroso pittore che dissipò in tentati omicidi, stupri, furti, truffe, crimini e violenze, un generoso talento «ricco nelle invenzioni, vario e capriccioso». I testimoni lo descrivono uno spirito arguto, abile, intelligente, ma al tempo stesso violento, avaro, vendicativo, bugiardo e millantatore: un uomo che ostenta atteggiamenti «da potente e da smargiasso con la spada e con vestiti pomposi». Preda di odi implacabili, ma capace di devote amicizie; assiduo di bettole e di prostitute, di principi e di cardinali; vive come un cavaliere, salvo trovarsi costretto a fughe precipitose, per sottrarsi ai debitori, ai clienti truffati, ai colleghi traditi, agli sbirri e al carcere.
U
Poche azioni umane lasciano tante tracce documentarie come quelle scellerate: denunce, – fatte e subite – , atti di processi, giudizi di condanne, remissioni di pene, confische e pignoramenti hanno depositato il nome di Agostino Tassi negli archivi romani e toscani, consentendo a Patrizia Cavazzini, curatrice dell’originale e bella mostra dedicata al Tassi a palazzo Venezia e del godibilissimo catalogo, una ricostruzione biografica puntuale e vividamente dettagliata, intorno alla quale viene abilmente intarsiato un primo catalogo artistico. Tra i tanti crimini imputati al Tassi gode di fama il processo intentatogli nel 1611 dall’amico e collega, il pittore Orazio Gentileschi, per il controverso stupro della figlia Artemisia, giovane pittrice destinata a duratura reputazione, ingannata dal Tassi con una fallace promessa di matrimonio. Fallace in quanto
Agostino era ammogliato dal 1603 con tale Maria Cannodoli, una prostituta, sposata a Livorno per adempiere a un voto, che dopo le nozze fuggì con un mercante lucchese.
La vicenda processuale che contrappose il violento Agostino all’ingenua Artemisia, ha suscitato ipotesi romanzesche, ricostruzioni cinematografiche e letterarie, che tuttavia hanno sempre trascurato la personalità artistica del presunto stupratore, rimasta fino a oggi sfocata e sostanzialmente sconosciuta al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti. Il lungo e appassionato studio di Cavazzini rende ragione, insieme al turbolento itinerario esistenziale, anche e soprattutto di un percorso artistico tutt’altro che banale, che restituisce spessore alla fama di cui il Tassi godette tra i contemporanei, e giustifica il prestigio dei suoi committenti, che figurano tra i personaggi più ragguardevoli della Curia romana. In primo luogo il pontefice Paolo V Borghese, per cui Agostino, insieme a Carlo Saraceni e a Giovanni Lanfranco, affresca in sette mesi, tra il 1616 e il 1617, il mirabolante impalcato
stanzo Patrizi, tesoriere generale di Paolo V; i cardinali Alessandro Peretti di Montalto, Ludovico Ludovisi e Orazio Lancellotti, che commissionarono allo scapestrato artista imponenti cicli di affreschi, rispettivamente nel palazzo Patrizi (oggi Costaguti) a Roma, nel casino di villa Lante a Bagnaia, dove Tassi opera a fianco del Cavalier d’Arpino; in palazzo Ludovisi oggi Odescalchi ai Santi Apostoli e in palazzo Lancellotti ai Coronari, nel quale ultimo sussistono i cicli di affreschi più grandiosi e spettacolari dell’artista. Se queste opere sono ancora visibili, seppure talvolta mutile o frammentarie, altri cicli, pur ampiamente documentati, sono perduti: tra essi la «sala tutta dipinta a colonnati» nel palazzo di Montegiordano (oggi Taverna) eseguita per il cardinale Maurizio di Savoia, committente anche delle perdute tele che decoravano la chiesa di Sant’Eustachio. Ugualmente scomparse le “pitture e indorature” che impegnarono il Tassi per oltre un anno, tra il 1625 e 1626, nella residenza del cardinale Aldobrandini a Monte Magnanapoli, in prossimità del Quirinale. Prima di raggiungere il successo a Roma, Agostino soggiorna fino al 1610 circa in Toscana, dove si sposa: in più circostanze il pittore afferma di
re il mondo», afferma con spavalda improntitudine lo stesso Agostino, che tace ostinatamente sul lungo, documentato soggiorno livornese. Patrizia Cavazzini ipotizza che la permanenza a Livorno del Tassi sia conseguenza di una delle tante condanne commina-
to a valdesi, ebrei e musulmani; ai condannati offrono la possibilità di scontarvi la pena, in stato di semilibertà, purché si contribuisca alla costruzione e all’abbellimento della città nascente. E, guarda caso, il nome di Tassi ricorre ripetutamente proprio in atti che ne attestano
L’operazione provocatoria e veramente innovativa consiste nel rovesciamento delle gerarchie iconografiche interne alla rappresentazione: gli elementi ambientali prevalgono sulle figure
prospettico che conferisce spiccata teatralità al fregio della Sala Regia (oggi Salone dei Corazzieri) al Quirinale. L’esempio del papa è seguito da molti autorevoli membri della corte, tra cui il marchese Co-
avere servito il granduca di Toscana per ben quattordici anni a Firenze, dove si sarebbe trasferito appena dodicenne, ma già fornito di ottima «introduttione nella professione di pittura». La permanenza nel granducato avrebbe avuto un’interruzione dovuta all’imbarco sulle galere granducali «per vede-
tegli, e queste circostanze giustificherebbero il silenzio dell’artista. Infatti la città labronica, rifondata dai Medici che intendono farne il più grande emporio portuale del Mediterraneo, sta nascendo in quegli anni e ha pertanto necessità di manodopera e di abitanti. Allo scopo i granduchi di Toscana concedono privilegi ai mercanti e agli artigiani; libertà di cul-
il coinvolgimento in opere di abbellimento urbano. Quanto alla parentesi marinaresca, sulle galere del granduca, più che frutto del desiderio di avventura, essa è la conseguenza di un’ennesima condanna per rissa. Lo testimonia Giambattista Passeri, il biografo settecentesco, quando ricorda che Tassi, condannato «alla galera, ma però non al
cultura
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A destra particolari del fregio della Sala Regia del Quirinale; in alto il naufragio di Enea; sopra la Negazione di San Pietro; a sinistra l’Arsenale di Livorno; a lato un paesaggio con satiro e ninfa e nella pagina precedente la Galleria
servizio del remo», approfittò della navigazione coatta per darsi a «disegnare vascelli, navi, galere, porti, burrasche, pescagioni, e simili accidenti di mare». In effetti le imbarcazioni, i porti, gli arsenali, le pesche e i naufragi sono tra i soggetti ricorrenti nella pittura a fresco e da cavalletto, come nei disegni di Agostino, disegni disseminati in collezioni sparse per il mondo, spesso con errate attribuzioni, che Cavazzini ha pazientemente rintracciato, riletto e restituito al catalogo di Tassi, che assume oggi un corpus ragguardevole e figurativamente molto ricco. Le marinerie dipinte da Agostino sono contrassegnate da una straordinaria, affascinante esattezza tecnica, espressa nelle alberature, nel sartiame, nelle vele, nel fustame, nei pulpiti. Essa testimonia una conoscenza non puramente visiva del
soggetto, quanto piuttosto una familiarità fabbrile con le imbarcazioni e con la loro costruzione, che sbocca in rappresentazioni tanto inconsuete quanto suggestive: arsenali con galere in costruzione, brulicanti di minuscole figure sgargianti di rossi e di azzurri; naufragi teatralmente violenti, come quello di Enea, già nella collezione Mazzarino, o quello nella Tempesta di mare di palazzo Barberini.
Un altro soggetto intorno a cui ruota la rutilante pittura del Tassi è costituito dall’architettura: luoghi reali, come il Campidoglio con l’albero della cuccagna, si avvicendano a rappresentazioni di edifici fantastici che, accostati a monumenti esistenti, ordiscono stravaganti capricci, chiamati a far da sfondo a episodi mitologici, biblici o sacri, come l’onirico Imbarco di Sant’Elena, presso la
galleria Jean Pierre Gros di Parigi. Ma dove Tassi raggiunge risultati del tutto originali e sorprendenti è nella manipolazione prospettica e cromatica di spazi architettonici realmente esistenti. Ne è prova la sontuosa, immaginifica teatralità che egli imprime, tramite la forzata dilatazione prospettica e l’accensione delle fasce purpuree di damasco, alla cappella Paolina del Quirinale addobbata nel 1632 per l’investitura a prefetto di Roma di Taddeo Barberini, del Museo di Roma. Nella Negazione di san Pietro, di collezione privata romana, la profondità cadenzata di un portico modellato sulle logge vasariane di Arezzo, si traduce in una fuga vertiginosa di pilastri e di volte, schiaffeggiati dalla luce implacabile di un meriggio irreale e senza tempo. Il soggetto del quadro, la famosa triplice negazione di Pietro davanti al palazzo di Caifa, do-
ve Cristo è interrogato, è collocato sul bordo sinistro della composizione, e sfuggirebbe se non fosse segnalato dal drappo rosso che sovrasta il gruppo del santo con l’ancella e il soldato.
Iperbole prospettica e gusto illusionistico si coniugano nella stupefacente Galleria del museo civico di Prato, replica di una tela più grande, che Agostino conservava nella propria abitazione e nella quale ha idealmente riunito i suoi quadri più famosi. In primo piano volteggiano, come su un palcoscenico, minuscole figure mitologiche, tra le quali si aggira la Morte, raffigurata da un vecchio muscoloso che reca tra le mani la fatidica falce. È assai probabile che quest’opera costituisca il modello delle analoghe celeberrime rappresentazioni di gallerie di quadri che Giovan Paolo Panini dipingerà un secolo dopo. L’operazione
provocatoria e veramente innovativa di Tassi consiste nel rovesciamento delle gerarchie iconografiche interne alla rappresentazione: le tempeste, le marine, le navi, le architetture, sono strappate dal fondale del quadro per venire insediate, con esclusivo dominio, nel primo piano della composizione pittorica. Di contro le figure, tradizionali protagoniste della storia e del quadro che la raffigura, diventano segni sussidiari, minuscoli e sgargianti come pulviscolo che turbina intorno ai monumenti. Inevitabilmente anche il paesaggio viene chiamato alla ribalta dal Tassi, che non per caso fu maestro di Claude Lorraine, il sublime interprete del paesaggio romano. Forse anche per questo genere, destinato nel tempo a straordinario successo, il ruolo di antesignano dello scapestrato Agostino attende di essere pienamente riconosciuto.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Giusto che il voto in condotta influisca sulla promozione? LA PROMOZIONE IN BASE ANCHE ALLA CONDOTTA ERA GIÀ PREVISTA DALLA ”RIFORMA MORATTI” Sono un po’ stupefatto dal risalto dato dalla stampa alla valutazione della condotta ai fini della promozione. Leggendo, infatti, l’intervista del ministro Gelmini al Messaggero del 14 luglio ho trovato tantissimi spunti molto più «pregnanti» della valutazione della condotta. I problemi del personale e della riqualificazione della spesa come quelli del sistema di valutazione sui quali il ministro si sofferma molto non sono diventati «titoli» dei giornali. Invece viene ripresa una parte, chiedo scusa al ministro, marginale dell’intervista in cui afferma, giustamente, che trova «incomprensibile che non si valuti in alcun modo il comportamento dei ragazzi». E giù i titoloni e le prese di posizioni anche di “illustri” intellettuali. Tutti a ricordare «il come eravamo». È sfuggita, sia ai sostenitori che ai contrari, una cosa fondamentale: nei decreti attuativi della riforma Moratti si legge che l’ammissione dello studente all’anno successivo «è subordinata all’avvenuto raggiungimento di tutti gli obiettivi di istruzione e di formazione, ivi compreso il comportamento degli studenti». Cioè, stiamo discettando di un fatto che è negli ordinamenti e che magari va solo applicato.
LA DOMANDA DI DOMANI
G8 di Genova: cosa ne pensate delle sentenze relative ai poliziotti della caserma di Bolzaneto? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Di contro non si riesce ad aprire una discussione seria sulla reale emergenza educativa che investe il nostro Paese. Discussione che dovrebbe favorire soluzioni sui temi che il ministro ha posto con inderogabile necessità e che sono dirimenti per superare l’emergenza: in primo luogo la formazione e la valutazione degli insegnanti nonché gli strumenti per dare loro quelle motivazioni professionali che possano favorire una effettiva crescita qualitativa del nostro sistema educativo; in secondo luogo la necessità di riqualificare la spesa per l’istruzione, legandola al miglioramento dei risultati. Temi sui quali serve una grande operazione di trasparenza e un forte impegno di tutte le forze del Paese. Della condotta ne abbiamo già discusso abbondantemente nel 2004 e nel 2005. Per troppo tempo.
Domenico Sugamiele
FOLIES PARISIENNES
Splendido scatto la notte tra il 13 e il 14 luglio, a Parigi. I cieli della capitale francese (nella foto la Torre Eiffel) si sono infatti illuminati a giorno a suon di fuichi d’artificio, in occasione della celebrazione della storica Presa della Bastiglia
RISCHIAI LA BOCCIATURA PER UN 7 IN CONDOTTA, LA PAURA MI AIUTÒ A CAMBIARE ATTEGGIAMENTO Quando avevo sedici anni ho preso 7 in condotta al primo quadrimestre. E come me, anche la mia compagna di banco. Era un anno difficile, quello. Il terzo del Liceo scientifico, quello in cui ti piombano addosso materie nuove e più difficili rispetto al biennio. Io e la mia amica attraversavamo un momento molto difficile e quasi a dire ”ci ribelliamo a questo sistema che non ci va giù”, avevamo iniziato non solo a non studiare a sufficienza, ma anche ad avere dei comportamenti in classe irriverenti nei confronti soprattutto dei nostri insegnanti. Che dire, a me quel 7 in condotta bruciò proprio tanto. A tal punto che nel quadrimestre successivo mi sono rimessa sì a studiare, ma ho anche cambiato atteggiamento. La mia amica invece no. Risultato: io sono stata promossa, lei ha ripetuto l’anno. Credo che se non avessi avuto quel 7 in condotta (che tanto è andato a toccare il mio orgoglio), probabilmente anche io sarei stata bocciata come la mia compagna di banco. Dunque dico sì, il ministro Gelmini fa bene a incoraggiare anche la valutazione della condotta degli studenti. La paura della bocciatura può davvero servire.
LA FORZA DI BERLUSCONI La forza di Berlusconi consiste nella consapevolezza di avere dagli Italiani una fiducia quasi illimitata per la quale lo stesso leader ritiene di poter agire contro tutto e tutti. Nell’immaginario collettivo, fra le qualità che gli vengono riconosciute c’è, in primis, la capacità di saper governare e comandare una squadra di governo, così come ha saputo fare da imprenditore in diversi settori dell’economia; inoltre è ritenuto uomo capace di risolvere i problemi con azioni rapide e risolutive, come ad esempio sta cercando di fare con il difficile problema dei rifiuti in Campania; infine le manovre in economia sono caratterizzate da vitalità, ottimismo e da una programmazione fluida e veloce. Di contro Berlusconi ha dimostrato di non dimenticare le sue attività imprenditoriali, seppure delegate a figli e persone di fiducia, e ciò è dimostrato sia dalle intercettazioni telefoniche che dal desiderio di sospendere i processi che lo riguardano. Ma queste considerazioni, che dovrebbero portare il premier a essere “condannato” dall’opinione pubblica, subiscono uno strano mutamento che gli permet-
HA RAGIONE BAGNASCO, ELUANA NON DEVE MORIRE
QUELLA PIANISTA DI LIVIA TURCO
«Non possiamo tacere la nostra preoccupazione se si dovesse procedere alla consumazione di una vita per una sentenza». Il presidente della Cei Angelo Bagnasco da Sydney, è tornato su un tema che sta particolarmente a cuore alla Chiesa e ai cattolici di tutto il mondo: la sentenza su Eluana Englaro, in odore, secondo il Vaticano, di rischio eutanasia. Mi trovo perfettamente d’accordo con Bagnasco e la linea del Vaticano: Eluana non deve morire. Non così, per decisione di un tribunale. Togliere idratazione e nutrimento nel caso specifico è come togliere da mangiare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi.
L’estate si fa sempre più rovente e si sprecano gli eventi e gli incontri hot. Prenda ad esempio quanto accaduto alla vip Livia Turco, parlamentare del PD ed ex ministro della Sanità. E’ stata avvistata e immortalata dai fotografi a fare la pianista, in particolare stato di grazia, in Parlamento. Le foto sono da urlo, davvero nitide e chiare e sembrano reggere ogni contestazione e giustificazione. La signora sceglie l’antiberlusconismo totale e vota per due, per sè e per un suo compagno assente. Ma quel che più sconcerta è che la Nostra non s’è pentita e continua a farci la morale. Decisamente troppo, non Le pare? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
dai circoli liberal Gaia Miani - Roma
te invece di apparire sotto una luce diversa. L’attenzione cade senz’altro sulle “scoperte” intercettate dalla magistratura e divulgate dai media, ma, poi, si concentra su altre considerazioni relative al sistema della giustizia italiana. In molti sono convinti che Berlusconi abbia alcuni “conti”da regolare con la giustizia e ritengono, altresì, che quest’ultima abbia alcuni problemi seri da affrontare attraverso una riforma del sistema. I magistrati appaiono personaggi in grado di sfruttare il loro potere con eccessivo arbitrio; sembrano non essere controllati per il lavoro che svolgono e pertanto si intuisce che costituiscano una “casta” molto forte. Ora, volendo fare un confronto, il premier ne esce vincente: risulta molto più grave che il sistema giustizia funzioni male e con ingiustificabili ritardi rispetto a eventuali colpe dell’”imputato”. In definitiva il premier si trasforma in una vittima, è considerato come una sorta di perseguitato e diventa così legittimato a governare con una forza e una determinazione senza precedenti. Francesco Facchini CIRCOLO LIBERAL LEVANTE BARI
Rita Patricello - Ancona
Pierpaolo Vezzani
COMUNICAZIONE PER I CIRCOLI LIBERAL TODI - VENERDÌ 25 LUGLIO 2008 - ORE 11 Prossima riunione dei presidenti e dei coordinatori regionali liberal all’Hotel Bramante di Todi. A seguire, l’inizio dei lavori del seminario Vincenzo Inverso segretario organizzativo circoli liberal
APPUNTAMENTI SEMINARIO DI TODI - VENERDÌ 25 E SABATO 26 LUGLIO 2008 Seminario, ore 12.00, Hotel Bramante, in via Orvietana 48 I lavori del seminario, che vedrà la partecipazione tra gli altri di Casini, Cesa, Buttiglione, Vietti, Volontè, avranno inizio il venerdì a partire dalle ore 12.00 e si chiuderanno per le 14.00 di sabato
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Le mie mani sono diventate troppo bianche Caro fratello, è già tardi ma voglio scriverti ancora una volta. Non sei qui, ma vorrei che tu lo fossi, e a volte mi sembra che non siamo molto lontani l’uno dall’altro. Oggi mi sono ripromesso una cosa, di considerare la mia malattia, o meglio gli strascichi di essa, come non esistenti. Si è già perso abbastanza tempo, il lavoro deve continuare. Così, che io stia bene o meno, riprenderò a disegnare, regolarmente, dal mattino alla sera. Non voglio più che qualcuno mi dica di nuovo: «Oh, questi sono soltanto i soliti disegni». Oggi ho fatto un disegno della culla del bambino, con qualche tocco di colore. Sto anche lavorando a un disegno come quello dei campi. Le mie mani sono diventate troppo bianche, ma è forse colpa mia? Non posso trattenermi dal lavorare più a lungo. Lo farò regolarmente nonstante tutto, e ora ti auguro la buona notte. Addio, con una stretta di mano, sinceramente tuo. Vincent Van Gogh al fratello Theo
MA CHE RAZZA DI OPPOSIZIONE È QUELLA DI DI PIETRO E DEL PD? Questi signori dell’opposizione sarebbero coloro che chiedono di governare l’Italia? Dopo le elezioni Politiche e Amministrative avvenute tre mesi fa, l’unica azione compiuta è stata quella di attaccare il governo e il presidente Berlusconi. Chiamati ad una manifestazione di piazza si sono sparpagliati in modo indecoroso. Politici, comici, estremisti, intellettuali, non so se anche nani e ballerine si sono dati appuntamento a piazza Navona. Il Partito democratico ha cercato di lavarsi la faccia non sporcandosi con gli altri, ma non è sufficiente: Antonio Di Pietro and Company... sono alleati oppure compagni di merende? A posto siamo con questa alternativa all’attuale maggioranza! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
L. C. Guerrieri - Teramo
A ROMA PUGNO DURO CONTRO I CLANDESTINI Il ciclo della sicurezza va chiuso con interventi immediati ed efficaci che dipendono esclusivamente da una reale volontà politica di risolvere alla radice i flussi d’immigrati clandestini in en-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
16 luglio 239 a.C. Nasce Quinto Ennio, poeta e drammaturgo latino
trata e in uscita. I Centri Identificazione Espulsioni, ex Cpt, sono ormai pieni e i voli charter utilizzati per i rimpatri insufficienti. Inoltre, il controllo delle frontiere è ancora troppo fragile. Nella città di Roma l’ottimo lavoro svolto dal sindaco Alemanno per la sicurezza della Capitale comincia a dare buoni risultati, ma occorre uno sforzo ulteriore per rendere più efficace il controllo del territorio, soprattutto sul fronte degli insediamenti, del commercio abusivo e della prostituzione. E’ evidente che in questo contesto occorrono fondi per espellere i clandestini e stipulare accordi bilaterali o multilaterali per il rimpatrio concordato degli stranieri irregolarmente presenti sul suolo nazionale o dei comunitari senza residenza né lavoro. Dall’Unione europea ci aspettiamo maggiore collaborazione, anche in termini economici, per garantire il controllo delle frontiere sul Mediterraneo, con l’obiettivo di evitare che gli sforzi delle forze dell’ordine siano vanificati da un percorso senza fine. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità. A presto.
Claudio Bergonzoni - Roma
1782 Prima esecuzione dell’opera di Mozart, ”Il ratto dal serraglio” 1918 Rivoluzione russa: Ad Ekaterinburg, i bolscevichi giustiziano lo Zar Nicola II di Russia e la sua famiglia 1945 Progetto Manhattan: Gli Usa fanno esplodere nel deserto del New Mexico la prima bomba atomica 1968 Muore Tina Pica, attrice italiana 1969 Parte l’Apollo 11, che porterà l’uomo sulla Luna 1979 Iraq: il presidente Ahmed Hassan Al Bakr si dimette, lasciando il posto a Saddam Hussein 1999 Al largo della costa di Martha’s Vineyard, un jet privato pilotato da John F. Kennedy Jr. precipita in mare. Assieme a Kennedy viaggiavano la moglie Carolyn Bessette Kennedy e la sorella di lei Lauren Bessette. Tutti e tre muoiono nell’incidente
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
PUNTURE Di Pietro perde pezzi. Dopo l’addio di Touadi, anche Giulietti e Pisicchio pronti a lasciare. Il No Cav Day sta diventando il No Tony Day.
Giancristiano Desiderio
“
Non conosco una via infallibile per il successo, ma soltanto una per l’insuccesso: accontentare tutti PLATONE
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di IL FANNULLISMO NEL PUBBLICO IMPIEGO: RETAGGIO DEL 1968 Si è scritto molto sul lavoro degli impiegati statali e quasi tutti sono concordi che effettivamente ci sono molte anomalie, tra le quali l’assenteismo che colpisce in misura maggiore l’impiegato statale che quello privato. Il ministro Renato Brunetta ha sollevato per primo il problema, cercando di trovare delle soluzioni, ma non è facile. Ma perché la macchina pubblica e soprattutto alcuni settori come quello della magistratura, della sanità, ma anche della scuola, hanno una situazione di quasi paralisi? A questa domanda ha cercato di rispondere Alfredo Mantovano, sottosegretario agli interni dell’attuale governo Berlusconi. Il problema risale a 40 anni fa quando il nostro Paese precipitò dentro una rivoluzione culturale e del costume che distrusse il senso dell’autorità, soprattutto quella del padre. E’ superfluo richiamare l’ampia letteratura sulla scomparsa dell’autorità paterna, ma non solo, sulla perdita dell’autorità del docente nella scuola, sulla ribellione che dilaga anche nella Chiesa. La riflessione sugli effetti della rivoluzione sessantottina è ancora superficiale, soprattutto su quanto ha inciso il venir meno della figura del padre (inteso come il principale riferimento, reale e simbolico, dell’autorità) sulla vita delle istituzioni pubbliche, e cioè di quelle realtà che a vario titolo rappresentano una articolazione dell’autorità. ( Alfredo Mantovano, Il sessantotto, la morte del padre e il disastro della magistratura, 31. 5. 08 Il Domenicale ). Dopo la secon-
da guerra mondiale l’Italia si è risollevata anche grazie alla macchina amministrativa funzionante dello Stato, infatti scrive Mantovano l’idea di lavorare per lo Stato era vissuta dai funzionari come un dovere civile, costituiva fonte d’impegno e puntava al conseguimento di risultati precisi[…]il rispetto per la figura del padre aveva riscontro (con tutti i limiti dell’analogia) nel rispetto del capoufficio o comunque del superiore. Il sottosegretario puntualizza che non intende fare nessuna apologia di un mondo ideale, in particolare prima del 68. So bene scrive che tante forme erano in realtà formalismi. Tuttavia quello che è accaduto dopo il 68 ha puntato non allo snellimento del lavoro, ma alla sua riduzione, soprattutto alla deresponsabilizzazione nello svolgimento delle varie mansioni, in pratica si è giunti al trionfo di quel formalismo che si proclamava di voler combattere. Così troviamo negli uffici dei capi che sono poco equilibrati nell’esercitare la propria autorità, soggetti che viaggiano fra l’abbandono del comando per timore della denuncia sindacale o del ricorso al T. a. r. e l’esercizio di un potere dispotico, altra faccia di una autorità sminuita. Abbiamo dei capiufficio frustrati proprio perché non riescono a guidare il proprio ufficio e quindi non rimane altro che battere i pugni sul tavolo, la stessa cosa capita al docente in una classe o al padre di famiglia. Ma dura poco. Alla fine ci si accontenta del semplice fatto che le carte siano a posto.
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PAGINAVENTIQUATTRO Il campione brasiliano acquistato dal club rossonero per 18,5 milioni di euro
Milan da samba con Kakà e di Italo Cucci
l sogno che diventa realtà. Dopo che le cronache di questi giorni lo hanno attribuito cento volte al Milan e cento volte l’hanno riportato a Barcellona: Ronaldo de Assis Moreira, detto Ronaldinho, è rossonero. Per mesi è stato l’uomo più chiacchierato del calcio mondiale anche se – o forse proprio perché – non parla mai se non negli assurdi e fasulli virgolettati dei fogli sportivi che, come sempre, hanno traviato anche il giornalismo politico. È anche grasso, Ronaldinho, ma non per stravizi peccaminosi: stando al celebre (?) agente Fifa Bronzetti – che sarebbe come dire un mediatore d’antan – Ronnie (o Dinho) è sempre a cena con lui. O con Galliani. O con Braida. Per parlare del trasferimento al Milan, una trattativa sfiancante
I
Marina – di non far spese pazze: perché il bilancio del Milan, come quello dell’Inter, richiede ogni anno forti esborsi di euromilioni per arrivare al pareggio; ma soprattutto perché, con l’aria che tira, con milioni di italiani impegnati a inventarsi la sopravvivenza nella quarta settimana,
Alla corte di Ancellotti dovrà dimostrare di non essere un ex atleta e dovrà smentire ultimo crudele soprannome affibbiatogli dagli spagnoli: “Gordinho” partita da ottanta milioni di euro e arrivata – si dice – a quindici. Per il giro di vita, l’aria imbronciata e l’atteggiamento da pensionato baby, Dinho (o Ronnie) risulta insomma essere un ex atleta meritevole dell’ultimo crudele soprannome affibbiatogli dagli spagnoli,“Gordinho”. La sua crisi viene attribuita alla decisione dell’ottimo Rijkard – poi silurato dal Barcellona – di appiedarlo: ufficialmente per una fastidiosa tendinite, forse per une violenta terapia alcolica anti saudade, già sperimentata a Madrid da Ronaldo e a Milano da Adriano. Cattiverie gratuite, probabilmente, per le quali il Nature Boy di Porto Alegre è diventato un mistero planetario. Al punto di preoccu-
non sarebbe politicamente corretto che il presidente del Consiglio buttasse montagne di quattrini per un calciatore. La situazione è nota ai tifosi rossoneri, alcuni dei quali – irriducibilmente ingrati – hanno esposto anche uno striscione significativo: “Silvio, vat-
mostra di felicità ma semplicemente un riso rictus? Secondo dottrina italica, potrebbe essere archiviato come “foca ammaestrata”: al suo impressionante repertorio di numeri circensi manca infatti la concretezza, la traduzione in gol di tanta ricchezza tecnica che pure impressionò Pelè, uno che col pallone mostrava meraviglie e tuttavia chiuse la carriera firmando mille gol. È mancato, forse, a Ronnie, un maestro. Come il Simoni che ricostruì Ronaldo, o il Capello che aveva inquadrato Cassano. Entrambi, una volta finiti nella giostra dei milioni, si sono rapidamente “ingorditi”. E Carlo Ancelotti potrebbe davvero essere il ri-creatore di Ronaldinho. Avrebbe preferito evitare tanto impegno, il sor Carletto, ma a questo punto è pronto a soddisfare le esigenze estetiche del Cavaliere, al quale ha per troppo tempo negato il piacere di possedere un Milan tanto potente quanto elegante. Come fece Capello, silurando Savicevic, scelta che gli sarebbe costata la panchina se nel frattempo Berlusconi non fosse sceso in campo politico.
Mi piacerebbe veder Ronaldinho diventare il migliore del mondo non solo per la Nike e i patiti di “You Tube” ma per i più esigenti tifosi del mondo. Mi piacerebbe che le im-
RONALDINHO pare anche i lettori del New York Times. Che si chiede, angosciato, “What’s Happened to Ronaldinho?”, cosa succede al giocatore che si è meritato da Jeffrey Marcus la definizione di “splendido calciatore che balla il samba in mezzo al campo”?
Il sogno che è diventato realtà è dipeso soprattutto da Silvio Berlusconi che si è imposto – e ha imposto ai collaboratori, forte dell’appoggio incondizionato di Piersilvio e
tene!”. Sono gli stessi che – ascoltato il Cavaliere a Porta a porta prima del voto d’aprile – si convinsero che l’acquisto di Ronaldinho fosse una delle sue più impegnative promesse elettorali. Se arriverà, dunque, il prestipedatore sambero, dovrà costare quanto Borriello.
Ma è valsa davvero la pena rincorrere con tanto accanimento il ragazzo dagli occhi velati di pianto e dal perenne sorriso che non è
mense qualità di fantasia del Nature Boy potessero essere seguite da un adeguato rendimento. Mi piacerebbe se diventasse come l’unico, straordinario, geniale fantasista che ho conosciuto, Helmut Haller, l’insolito tedesco che per divertirsi si esibiva come una foca bionda e per guadagnarsi l’ingaggio trasformava le risorse circensi in esibizioni dettate da un pragmatismo stupefacente. Mi piacerebbe se Ronaldinho finisse per danzare un samba all’italiana.