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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Dai “Quaderni di liberal” il saggio del più grande psicoanalista Usa

he di c a n o r c

L’America non crollerà, è l’Impero delle novità

di Ferdinando Adornato

di James Hillman Esce oggi, in allegato con il quotidiano, il primo numero dei “Quaderni di liberal” che per tre volte l’anno accompagneranno i nostri lettori con temi monografici di rilievo internazionale e nazionale. Questa volta affrontiamo (anche con interventi di John McCain e Barack Obama), una delle domande più attuali dello scenario geopolitico mondiale: il XXI secolo sarà ancora segnato dall’egemonia americana? O le nuove potenze asiatiche, a cominciare dalla Cina, ne segneranno il declino? Dal fascicolo dei “Quaderni” anticipiamo l’articolo di James Hillman e (a pagina 20) quello di John Bolton.

LA SVOLTA DI BELGRADO

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80723

L’arresto di Rado Karadzic, dopo tredici anni di indisturbata latitanza, apre di colpo alla Serbia le porte della Ue. E si fa concreto il dubbio che sia stato un calcolo...

er capire la psiche americana bisogna innanzitutto comprendere la sua fede nell’Eccezionalismo dell’America: la convinzione che gli Stati Uniti d’America siano un paese unico nella storia mondiale, diverso da tutti gli altri Stati nel fondamento e nello scopo, espressione delle più nobili aspirazioni per la società umana. Quando (prima del 1918) gli Stati Uniti erano ancora politicamente una potenza di secondo piano, erano già una forza eccezionale dal punto di vista psicologico. In quanto patria della filantropia, luogo di rifugio e mediatore tra le potenze, nonché come simbolo idealizzato, gli Stati Uniti attrassero immigrati da tutto il mondo. Molti di coloro che sfuggivano alla coscrizione in patria si arruolarono volontari nell’esercito americano.

P

Il baratto alle pagine 2 e 3

«Da noi devono sentirsi a casa»

Storace rettifica la Santanché

Rutelli organizza i cattolici del Pd

«Cavaliere, la Destra non entra nel Pdl»

s eg ue a p a gi na 21

Tensione nella maggioranza sulle riforme

Il federalismo di Calderoli, nuova sfida Fini-Lega

Akp, il 28 la discussione sulla chiusura

La Corte decide il destino di Erdogan

di Francesco Rositano

di Riccardo Paradisi

di Errico Novi

di Mario Arpino

L’obiettivo è ambizioso: i cattolici del Pd si devono sentire a casa propria. «E continuare a portare il loro contributo anche se talvolta è scomodo». Parola di Francesco Rutelli.

Daniela Santanchè, dice lei, riceve un’offerta di incarico governativo dal centrodestra. Francesco Storace puntualizza che «non è questa la linea del partito». Ma che cosa farà la Destra?

«A settembre il Cdm approverà il disegno di legge delega sul federalismo fiscale», ha assicurato Roberto Calderoli. Ma in realtà, all’interno della maggioranza, non c’è l’ombra di un vero accordo.

Grande aspettativa per il giudizio della Corte costituzionale turca dopo l’audizione della difesa dell’Akp, il partito islamico di maggioranza del premier Erdogan e del presidente Gul.

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nell’inserto Occidente a pagina 12

MERCOLEDÌ 23 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

138 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina C’è tanto fumo dietro l’arresto

pagina 2 • 23 luglio 2008

Dopo la cattura di Karadzic, Belgrado ha più speranze di entrare nella Ue. A Sarkozy il ruolo di mediatore unico

di Andrea Margelletti

arresto del leader serbo Karadzic dimostra ancora una volta come in politica si tratti da posizioni di forza. Il ricercatissimo e nascosto l’ex leader serbo si è dimostrato certamente più stupito per il proprio arresto che dell’essere scoperto. Il sedicente medico, infatti, ben sapeva che il suo esilio era poco più di un segreto di Pulcinella.Tutti, ma proprio tutti, sapevano dove stesse. Soprattutto quelli che lo cercavano. Infatti, come nelle migliori tradizioni, il controllo del territorio è essenziale per i grandi latitanti: Cosa Nostra lo insegna. Quello che manca non è mai l’indirizzo al quale suonare il campanello, ma piuttosto le condizioni politiche per andare a “bussare alla porta”. Questo ovviamente non solo in Serbia.

L’

mente hanno ripreso la strada del dialogo e della cooperazione. Prima fra tutti con gli statunitensi e con i francesi. Il secondo caso si svolge nella seconda metà degli anni Ottanta: siamo nel pieno dell’era dell’“Impero del male”, quando l’amministrazione Reagan “vedeva rosso” dappertutto e considerava il Nicaragua del sandinista Daniel Ortega come una nuova pericolosissima Cuba dalla quale sarebbero partite operazioni di destabilizzazione dell’intero Centro America. Nascono così, sotto i buoni auspici dell’intelligence americana e argentina, i “contras”. Un gruppo un po’ raccogliticcio di campesinos, avventurieri, mercenari ed ex

Per “patteggiare” la chiusura definitiva sulle terribili pagine delle pulizie etniche bisognava offrire un agnello sacrificale Il grande Paese balcanico oramai ha scelto la propria strategia, quella dell’integrazione con l’Europa, ammesso e non concesso che al momento della stessa ci sia ancora un’Unione europea nella quale inserirsi.Al fine di poter“patteggiare” una chiusura definitiva sulle terribili pagine delle pulizie etniche e degli orrori che hanno caratterizzato gli ultimi decenni al di là del mare Adriatico, era assolutamente necessario offrire la testa di un agnello sacrificale. Quella di Rado Karadzic. Ma il baratto in politica estera non è certo una novità. Numerosi sono i casi in cui è stato utilizzato questo arcaico, ma tuttora efficace, metodo di contrattazione. Facciamo luce su alcuni. Recentemente la Libia ha scelto la strada della sopravvivenza politica quando, al fine di non essere strozzata dall’embargo internazionale ed erosa all’interno da numerosi movimenti islamici, ha scelto la via di abbandonare il proprio programma per la costruzione di armi di distruzione di massa. Ora la Repubblica libica e il suo leader continuano a essere ospiti scomodi ai tavoli dei consessi internazionali, ma certa-

tagliagola del dittatore del posto Somoza. Guidati tra gli altri dal comandante “Zero”, i contras combattono una guerriglia, su mandato occidentale, al fine di limitare i progetti espansionistici sandinisti. Quando poi, sulla base di accordi segreti tra l’amministrazione statunitense e quella di Managua, si raggiunge un accordo, successivamente esplicitato con ufficialità anche dagli altri Paesi centroamericani, di colpo come per magia i contras scompaiono. E per la verità a molti di loro questa cosa non è ancora andata giù. Ma il caso più eclatante di baratto avviene nel 1962 durante la celebre crisi di Cuba, mentre il mondo intero si chiedeva se avrebbe visto il mattino successivo gli uomini più fidati di Kennedy e di Kruchev ponevano le basi per un accordo, se non proprio tra gentiluomini, certamente di lunga durata. Da una parte gli Stati Uniti avrebbero rinunciato per sempre a invadere Cuba e riportare al governo i seguaci di Batista, e anche questo le migliaia di rifugiati cubani in Florida non l’hanno mai perdonato. Gli Usa inoltre si impegnavano a ritirare dalle basi europee, compresa quella italiana di Gioia del

Mladic e Hadzic,i due che mancano Il boia di Srebrenica, Ratko Mladic, amava dire alle sue vittime prima di ucciderle che le frontiere devono essere tracciate con il sangue. Nato il 12 marzo 1943 a Bozinovici, ha appena due anni quando il padre viene ucciso dagli ustascia croati. Fa risalire a quell’episodio il suo odio viscerale per croati e musulmani, che lo porterà a massacrare oltre ottomila islamici nella piana di Srebrenica. Orfano di guerra, dopo gli studi in Bosnia riesce ad entrare all’accademia militare di Zemun, un sobborgo di Belgrado. Nel 1965 entra nella Lega dei comunisti, ma nel1991 è ancora un semplice ufficiale del battaglione ‘Pristina’, che controlla la frontiera tra Albania e Jugoslavia. All’esplosione della guerra con la Croazia quello stesso anno, il colonnello Mladic assume il comando delle unità dell’esercito federale jugoslavo a Knin, che diventa di lì a poco la capitale dei secessionisti serbi di Croazia. In sei mesi di guerra, Mladic conquista il 70 % della Bosnia: si tratta del conflitto più sanguinoso in Europa dopo la II Guerra mondiale. I suoi uomini attuano quella che verrà definita pulizia etnica: due milioni e mezzo di persone cacciate dalle loro terre per realizzare il disegno della Grande Serbia. Contro Ratko Mladic, così come contro Radovan Karadzic, il Tribunale penale delle Nazioni Unite formalizza, nel luglio e nel novembre 1995, due atti di accusa per genocidio e crimini contro l’umanità. Nel 1996, il Tpi emette contro i due un mandato di cattura internazionale. Dal novembre dello stesso anno è latitante. Goran Hadzic è un politico serbo accusato di crimini contro l’umanità per il suo coinvolgimento nel massacro della popolazione croata durante la guerra dei primi anni ’90. Prima di entrare in politica, lavora come magazziniere: entra nella Lega comunista, da cui esce alla fine degli anni ’80 per unirsi al Partito democratico serbo. Qui compie una rapida carriera, tanto da divenire il candidato premier della Regione autonoma serba, un’entità politica indipendente dalla Yugoslavia. Il 26 febbraio del 1992 un’Assemblea non riconosciuta nomina Hadzic primo ministro della nuova Repubblica della Krajina serba, un ulteriore agglomerato non riconosciuto che unisce la Regione ad altre zone limitrofe. Rimarrà in carica fino al dicembre del 1994. Al momento, Hadzic deve rispondere di 14 accuse diverse: si va dai crimini di guerra alle atrocità, per finire con il genocidio. È latitante dal novembre del 1996.

A destra: Karadzic arrestato, commemorazione di Srebrenica, il giudice Brammertz A sinistra: i super-ricercati Hadzic e Mladic Colle, i propri missili nucleari a medio raggio Thor e Jupiter. I sovietici avrebbero invece ritirato i loro missili dal giardino di casa di Washington e non avrebbero mai più istallato armi di quel tipo così vicino alle coste degli Stati Uniti. Come vediamo niente di nuovo sotto il sole rispetto ai giorni nostri.L’ex leader serbo, le cui foto assomigliano in maniera impressionante a quelle di Saddam Hussein appena dopo la cattura, è l’ennesima “vittima”della Realpolitik. È ovvio che per offrire qualcuno deve stabilire il prezzo del baratto. E certamente non poteva essere l’Unione europea nella sua interezza a stabilirlo. La lista dei sospettati non è lunga, visto l’attivismo che il Presidente francese ha assunto negli ultimi mesi e il ruolo che la Francia sta attivamente giocando nell’intero scacchiere europeo, continentale e mediterraneo potrebbe proprio essere Sarkozy ad andare all’incasso di questa cattura. D’altro canto in un contesto di leader europei per lo più opachi, o con gravi problemi di tenuta interna, solo il neo presidente francese pare in grado di essere l’unico interlocutore in politica estera decisionista ed autorevole con il quale fare affari. E il governo di Belgrado con l’arresto di Karadzic, l’affare l’ha fatto davvero grosso.

Il professor Cassese, primo presidente dell’Hague, invita l’Ue ad accogliere la Serbia

«È un baratto, ma a fin di bene» colloquio con Antonio Cassese di Vincenzo Faccioli Pintozzi n baratto fra la Serbia e l’Unione Europea, ma in nome della democrazia e del processo. Il professor Antonio Cassese, primo presidente del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia ed ordinario di Diritto internazionale a Firenze, commenta così a liberal l’arresto di Radovan Karadzic, avvenuto dopo quasi tredici anni di latitanza da parte del massacratore di Srebrenica. Dopo anni di critiche ed insuccessi oggettivi, derivati da un atteggiamento omertoso del governo di Belgrado, è arrivato il momento per l’ex Yugoslavia di tirare le somme di quella che è stata de-

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finita la guerra più sanguinosa mai avvenuta in Europa dalla conclusione del secondo conflitto mondiale. Il professor Cassese risponde a chi accusa l’Hague di sprechi ed invita ad accogliere la Serbia in Europa, unico modo per aprirla realmente alla democrazia. Professore, come ha accolto la notizia dell’arresto? Mi dispiace doverlo dire, ma con grande gioia. Adesso dobbiamo aspettare soltanto l’arresto di Ratko Mladic, il braccio operativo di Karadzic ed esecutore materiale del massacro di Srebrenica, per poter chiudere con successo i battenti del Tribunale in-

ternazionale. A suo avviso, si può parlare di un arresto-baratto? Assolutamente sì, se si sottolinea che questo baratto è stato compiuto in nome della democrazia e del progresso. Belgrado ha sempre saputo tutto di Karadzic, era al corrente di ogni suo spostamento. Il suo arresto è direttamente collegabile all’elezione del presidente Tadic, che ha posizioni nettamente europeiste ed è pronto a pagare lo scotto per l’ingresso nell’Unione. D’altra parte, bisogna accogliere con favore la Serbia, perché soltanto in questo modo la si può costringere ad aprirsi veramente al mondo, ai procedimenti democratici e libe-


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Scenari e prospettive del nuovo corso serbo

Si apre il dialogo con Bruxelles di Federico Eichberg n arresto che a molti ha fatto guardare indietro. Ai tre anni e mezzo di assedio a Sarajevo, ai tredici anni trascorsi dalla stipula degli accordi di Dayton; anni in cui, ciclicamente, file di corpi riemergevano dall’oblio delle fosse comuni, frutto del progetto genocidi di Radovan Karadzic. Molti vi hanno guardato con dolore, molti con un senso di rivincita. Tutti con mestizia. Oggi non sfugge che un arresto avvenuto all’esordio di un nuovo esecutivo a Belgrado (il Governo Cvetkovic nato dall’accordo fra filoeuropeisti e socialisti) ed alla vigilia di un importante appuntamento internazionale (il Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne dell’Unione Europea) sia il sigillo di una pagina di storia (ancora una volta retrospettiva) chiusa. È chiusa la pagina di storia di una Serbia in cui la componente nazionalista svolge un ruolo primario (si tratta del primo esecutivo della Serbia democratica senza il Dss di Kostunica); è chiusa la pagina di storia di una Serbia introflessa ed incapace di pensarsi in chiave continentale, di tessere rapporti di collaborazione reale con Bruxelles e L’Aja. È chiuso, forse, anche il regolamento di conti fra componente socialista e componente nazional-conservatrice, che per anni si son sfidate nei tre lustri della dissoluzione, anche a suon di consegne a L’Aja (per mano nazional-conservatrice quella di Milosevic del 2001, per mano socialista quella di ieri di Karadzic).

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orate da prove serie, sono costretti ad assolvere». Ora i prosecutors dovranno mostrare massima trasparenza ed efficacia probatoria. Al contempo, e questa è una lesson learned dal caso Slobodan Milosevic, sarà importante che non si trasformi il processo Karadzic in un palcoscenico per il leader serbo-bosniaco e le sue tesi revanscistiche, spostando dal livello giuridico al livello politico “di civiltà”, il caso. In buona sostanza massima chiarezza nella fase istruttoria, massimo rigore nella fase dibattimentale (e decisionale).

Sul piano regionale sarà importante non cedere alla tentazione di polarizzare sullo scenario bosniaco la “questione Karadzic”. Evitare, cioè, il riproporsi del “riflesso incondizionato”, proprio – in qualche misura comprensibilmente della componente musulmana, di trovare gli appigli che rendano palese una presunta responsabilità univoca in capo ai serbi di Bosnia. Si tentò di farlo ai tempi della sentenza del tribunale Onu su Srebrenica; si intravede pari tentativo oggi – soprattutto da parte di Haris Silajdzic - nei confronti della leadership di Milorad Dodik, forse nel malcelato tentativo di coprire le falle incolmabili del bilancio della federazione croato-musulmana. Pari atteggiamento dovrà realizzarsi anche rispetto al dossier Kosovo: la consapevolezza di aver dinanzi una leadership serba aperta al dialogo e desiderosa di collaborare dovrà portare ad un ridisegno della missione Unmik (e, conseguentemente Eulex) che tenga conto delle red lines – solo apparentemente formali – che Belgrado pone. Ed avviarsi verso una riconsiderazione (modello federativo fra Serbia e Kosovo; modello federativo fra Kosovo e Trans-Ibar…) dell’assetto kosovaro e dei riconoscimenti.

appare realistica la proposta di stralciare dall’Asa l’accordo interinale economico e commerciale e dare impulso alla liberalizzazione dei visti

rarsi finalmente dell’eredità comunista. Ora, a livello giuridico, cosa accade? Per prima cosa bisogna aspettare che Belgrado conceda l’estradizione all’Aia. Una volta che questo avviene, entro un giorno Karadzic deve proclamare la sua posizione davanti ai giudici. Se si dichiara colpevole, cosa che escludo, si salta il dibattimento e si passa alla consultazione fra i giudici per emettere la sentenza. Avvenne per la sua vice, poi condannata ad undici anni di galera, ma non avverrà mai per lui. Se si dichiara colpevole, il processo verrà aggiornato a sei mesi, il tempo di preparare i documenti e convocare i testimoni. In ogni caso, sarà un processo lungo.

Alla luce di questo successo, cosa risponde a chi, nel corso di questi ultimi anni, ha accusato il Tribunale internazionale di sprechi? Se ci sono state colpe, se sono stati commessi illeciti, questi rimangono. A mio avviso, tuttavia, non si può parlare di sprechi, ma di errori di procedura. Nel corso del tempo sono venute alla luce delle impostazioni errate che facevano perdere tempo e denaro al sistema, ma queste sono state corrette dai giudici, che hanno adeguato il Tribunale allo scopo per cui è nato. Ora posso dire che lavora a tempo pieno, al punto che ogni giorno si portano avanti più processi.

Sin qui lo sguardo retrospettivo. Ma si guarda anche avanti, agli errori che, adesso, sarà importante non commettere, anche alla luce dei procedimenti che già hanno visto a L’Aja imputati eccellenti; alla luce del trattamento che leader politici ed intere nazioni hanno subito, sentendosi – verosimilmente o meno – “alla sbarra”. Innanzitutto il Tribunale de L’Aja è percepito in Serbia, al di là dei delicati rapporti sviluppatisi negli anni di Carla del Ponte, come la corte che ha assolto l’ex Premier kosovaro Ramush Haradinaj e l’ex comandante dell’esercito musulmano di Bosnia Naser Oric. Per ammissione dello stesso primo Presidente del tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, Antonio Cassese, «purtroppo alcuni procuratori sono stati meno attenti nelle indagini contro musulmani o kosovari, che in procedimenti contro leader serbi o croati: e siccome i giudici sono imparziali, quando le accuse non sono corrob-

Ripercussioni immediate dovranno inevitabilmente esserci – infine – anche nei rapporti con l’Unione europea. Seppure non c’è da attendersi, alle condizioni odierne, un complessivo “scongelamento” dell’accordo di stabilizzazione ed associazione (Asa) già firmato ad aprile, appare realistica la proposta di stralciare dall’Asa l’accordo interinale economico e commerciale e dare immediato impulso alla liberalizzazione dei visti. Per rendere palese che un nuovo corso, finalmente decisionista, è presente anche a Bruxelles.


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politica

Il presidente della Camera chiede il semipresidenzialismo per compensare il federalismo fiscale. Calderoli risponde picche. E concorda con il Pd un decentramento “vuoto”

Sotto le riforme niente Nuovo scontro tra la Lega e Fini di Errico Novi

ROMA. Non manca nulla. Il federalismo è chiaro nella testa di Roberto Calderoli. La commissione Affari regionali lo ascolta e sublima il proprio compiacimento nell’elogio rivolto al ministro da Lorenzo Ria, rappresentante del Pd nell’organismo bicamerale. Sono chiare, si può dire scolpite, anche le tappe: «A settembre il Consiglio dei ministri approverà il disegno di legge delega sul federalismo fiscale. Entro la fine dell’anno», assicura Calderoli, «il testo avrà il sì del Parlamento insieme con il Codice delle autonomie. A gennaio ci sarà il decreto legislativo che attua il federalismo fiscale e contemporaneamente il Parlamento potrà cominciare il lavoro sulla riforma costituzionale,

con il rafforzamento dei poteri del premier. Giovedì prossimo la bozza del sottoscritto sarà inviata a tutte le Regioni e autonomie locali». Che cosa manca? Nulla, sembrerebbe. E invece c’è un dettaglio preoccupante. Non c’è l’ombra di un vero accordo nella maggioranza. È una rocambolesca sovrapposizione temporale a dirlo. Mentre ieri pomeriggio il ministro alla Semplificazione normativa espone-

del Capo dello Stato può essere un fattore di bilanciamento. L’investitura popolare rafforza il ruolo di garanzia e di unità del presidente della Repubblica».

Altro che paletti. Dal presidente della Camera arriva un’imprevedibile ipoteca su un edificio che la Lega dà già per realizzato. Si scambiano complimenti freddissimi, il leader di An e il ministro del

Il ministro alla Semplificazione presenta uno schema privo di dettagli sulle imposte da conservare nelle singole regioni, i democratici applaudono e snobbano Alfano, che rilancia l’intesa sulla giustizia va il suo disegno in commissione, le agenzie battevano i passaggi principali di un’intervista rilasciata da Gianfranco Fini alla rivista francese Politique internationale: «No, non temo il federalismo fiscale, ma occorreranno strumenti che non penalizzino le regioni meridionali». Come se l’intento non fosse già nel modello di Calderoli. E poi: «Non c’è solo il federalismo, bisogna evitare che si determinino squilibri all’interno del sistema. L’elezione diretta

Carroccio. Che alla fine dell’audizione dice la sua sul presidenzialismo: «Quando si partirà a gennaio si avrà come base il testo Violante. E nel testo Violante il semipresidenzialismo non c’è». Ci sono invece il rafforzamento dei poteri del premier e quelli del Parlamento, ricorda Calderoli. Eppure non dovrebbe essere già tutto chiaro come da programma? Improvvisamente il clima tra il Carroccio e la sponda aennina del Pdl è tornato uguale a un tempo: e cioè improntato alla reciproca diffidenza. Può una così importante revisione dell’assetto istituzionale e delle autonomie locali possa realizzarsi con simili condizioni di partenza? Difficile. Adesso nella maggioranza tutto sembra affogare nella palude. E in uno sterile rimbeccarsi, che senz’altro si è esasperato a partire dall’uscita di Bossi sull’inno nazionale. D’altronde Berlusconi ha evitato anche ieri di intervenire. Comprende che le tensioni degli ultimi tre giorni hanno comunque avuto origine dalla sua determinazione in materia di giustizia. La Lega ha voluto prendersi una rivincita con l’accelerazione sul federalismo, e però il processo a catena non sembra potersi fermare, visto che anche Fini rivendica la sua parte con il ritorno al vecchio amore presidenzialista. È un gioco strano e un po’ infantile che non sembra preludere a passi decisi.

L’immagine, prima di tutto. A questo punta la Lega, trascinandosi dietro An. È inevitabile che sia così: da qui a meno di un anno c’è una tornata elettorale non irrilevante. Ci si misura in alcune città e soprattutto alle Europee. Il Carroccio punta a consolidare la propria forza e ha assoluta necessità di portare a casa risultati tangibili entro l’inizio della primavera. È

disposta per questo anche a incassare una versione più aerea del federalismo fiscale.Vuol dire che con il ddl delega di cui parla Calderoli si arriverà a definire una cornice, un modello di riassetto, senza però stabilire ad esempio le quote di Iva e Irpef che dovrebbero rimanere nelle regioni. Senza simili dettagli si tratterà di una riforma vuota. Ma Bossi e i suoi preferiscono accontentarsi di una soluzione ponte. E su questo schema di fedrealismo fiscale ”aperto”hanno già incassato il via libera del Partito democratico. Gli apprezzamenti rivolti a Calderoli da Ria, nell’audizione di ieri, non sono casuali. A maggior ragione se si considera il clima teso creato con l’opposizione dalla polemica sull’inno di Mameli. Rifugiarsi nella consolatoria comprensione dei democratici rappresenta per il Carroccio un atto di realismo, certo. Ma è anche il segno che nella maggioranza mancano le necessarie condizioni di agibilità.

Cenni di insofferenza, da parte della Lega, sono arrivati persino nei confronti di Berlusconi, seppure in modo indiretto. «Il modello lombardo di Formigoni non va


politica

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Volano gli stracci sulla futura presidenza del Veneto

Bossi non si arrende e marcia su Galan di Marco Palombi

ROMA. Non sarà certo sulle marachelle di Bossi sull’inno o sugli insegnanti nati troppo a sud, per quanto se ne possano dolere i patrioti di Alleanza nazionale, che si aprirà un problema politico dentro la maggioranza. Il silenzio di Berlusconi su questo punto non è imbarazzo, ma banale disinteresse. Dove il nuovo centrodestra traballa è negli equilibri territoriali nel Nord: la questione settentrionale oramai si declina anche in termini di rappresentanza. Detto volgarmente, la Lega, forte del trionfo elettorale di aprile, ora vuole qualche presidente di regione.

bene per tutti». E poi: «È stato un errore abolire l’Ici, era una tassa federalista. Adesso bisognerà trovarne una altrettanto adatta a rappresentare quello che il singolo comune effettivamente offre». Anche qui: ma la cancellazione dell’imposta sulla prima casa non era un must della campagna elettorale? L’impressione che ognuno vada per conto proprio, con educata e fredda compostezza, si rafforza a ogni passo. Nel Carroccio nessuno parla più di giustizia. Lo ha fatto invece il Guardasigilli Alfano, in vista del via libera definitivo sul lodo che porta il suo nome atteso per oggi in Senato. «È un provvedimenhto giusto, in autunno apriremo un confronto con l’opposizione per apportare modifiche di sistema». Può darsi. Intanto dal fronte democratico rispondono che «con un Berlusconi sovrano senza limiti la collaborazione è difficile». È un segnale inviato innanzitutto a Bossi, la cui inclinazione all’autonomia viene calcolatamente sollecitata da Veltroni. Non ci sarebbe nemmeno modo di incunearsi, se nella maggioranza non si fossero già aperte evidenti smagliature.

In sostanza le poltrone calde sono due: la Lombardia e il Veneto. Ma se nel primo caso un governatore forte e dall’identità politica strutturata, Roberto Formigoni, deve fare i conti soprattutto con la fronda romana che gli fa Forza Italia nella persona di Giulio Tremonti, nel Veneto di Giancarlo Galan oramai volano gli stracci. In tutte le direzioni. Il motivo è molto semplice: gli azzurri si scannano tra loro mentre la Lega è, con oltre il 27% dei voti, il primo partito. Il conflitto procedeva sottotraccia già da aprile, quando Galan denunciò di essere stato lasciato solo a contrastare la valanga verde. Ce l’aveva col coordinatore regionale di Fi, Niccolò Ghedini, in altre faccende affaccendato: l’avvocato fece la mossa e si dimise, accusandosi del meno 8% piovuto sul Pdl alle politiche. Ovviamente, Ghedini è ancora al suo posto. La piccola debacle elettorale ha comunque esacerbato i rapporti dentro Forza Italia e tra Pdl e Lega. Lo spostamento di consensi ha oggettivamente indebolito il governatore e rimesso in gioco una bella tornata di nomine – municipalizzate, fiere, aeroporti, autostrade – che vanno portate a casa di qui a breve. Galan, un liberale emerso politicamente con Berlusconi, amante del buon vivere, egocentrico e decisamente poco diplomatico, non ama la trattativa, specialmente se rischia di perderla. Da qualche mese ha pure dato alle stampe un libro dal sobrio titolo Il nord est sono io, che gli è valso peraltro la querela di Vittorio Casarin, dirigente veneto di Forza Italia descritto dal nostro come «il perfetto erede della peggiore vecchia Dc». Non è il solo attacco a freddo: il veneto Brunetta, per non fare che un esempio, vi figura tra i «pesci pilota: utilissimi perché aiutano quelli più grandi di loro. Peccato che qualche volta si montino la testa». Risul-

tato: una parte non minima di Fi gli fa apertamente opposizione e sta spingendo ad un riposizionamento pezzi importanti del potere economico. Quanto a Bossi, Galan gli dà senza indugio di «scorfano», ovvero «pieno di spine, a volte pericoloso, vive sul fondo ma se lo calpesti ti fai male». Il senatur, come si sa, ha risposto a tono dal congresso della Liga Veneta, prevedendo che il governatore «finirà male» e candidando al suo posto il sindaco di Verona Flavio Tosi. E il conflitto Lega-Galan oramai è a tutto campo: immigrazione e rifiuti veneti, posti in cda, infrastrutture e perfino la marcetta di Mameli. Gli insulti personali però, per quanto indicativi, non sono il centro della questione. Quello che preoccupa la Lega è il progetto che Galan va accarezzando da qualche tempo e a cui ha dato avvio l’assemblea degli autoconvocati, 600 amministratori del centrodestra veneto che chiedono che la costituzione del Pdl parta fin da ora: «Il Doge - così chiamano il governatore in regione – pensa infatti a un partito del nord est federato col Pdl e fa gli occhi dolci ad esponenti della ex Margherita come Cacciari e Treu». Un movimento di questo tipo per la Lega è inaccettabile - le farebbe concorrenza sul suo stesso terreno – e per strozzarlo nella culla farebbe di tutto, compreso mandare in crisi la giunta regionale. Il piano di emergenza è già scritto: elezioni nella primavera 2009 insieme alle europee e a una tornata amministrativa che in Veneto è abbastanza rilevante.

Per ricandidarsi il governatore avrebbe bisogno dei voti del Carroccio. Ma Tosi: «Un quarto mandato sarebbe un’anomalia»

Peraltro, si fa notare dal Carroccio, Galan è già al suo terzo mandato e per ricandidarsi avrebbe bisogno di una modifica allo Statuto regionale per cui gli servono i voti leghisti. E puntuale arriva la dichiarazione di Tosi: «Un quarto mandato sarebbe un’anomalia». E per chi non avesse capito: «Che sia il Veneto o la Lombardia o entrambe, ora ci sono i numeri per proporre un presidente della Lega». Il Doge, dal canto suo, s’è convinto che qualcuno a Roma abbia venduto la sua pelle prima del tempo per risolvere grane nazionali e ha preteso la pubblica ricandidatura, via agenzie, da parte di Ghedini e del coordinatore nazionale di Fi Denis Verdini. La guerra è appena iniziata, qualcuno resterà sul terreno.


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politica

Secondo un sondaggio, i credenti hanno preferito Udc e Pdl. Rutelli tenta il recupero: «Da noi devono sentirsi a casa»

I cattolici del Pd si organizzano d i a r i o

di Francesco Rositano

d e l

g i o r n o

Giustizia, Alfano: riforma in autunno

Francesco Rutelli con Luigi Bobba

«Appuntamento in autunno per la riforma della giustizia». Lo ha dichiarato il ministro Angelino Alfano intervenendo nell’Aula del Senato sul «Lodo Alfano». Il Guardasigilli nel suo intervento ha invitato i settori meno giustizialisti dell’opposizione all’appuntamento di autunno, ammonendoli che, in caso di identico comportamento tenuto con il Lodo Alfano, «avranno coltivato ancora una volta l’antiberlusconismo» ma «mancato un appuntamento importante» poiché oggi «la linea di confine tra riformatori e conservatori è segnata dalla giustizia». La riforma, ha anticipato il ministro della Giustizia, riguarderà il processo civile, quello penale, e il sistema carceri.

Gasparri: 1,5 mld per le forze dell’ordine Per le forze dell’ordine ci sarà un miliardo e mezzo di euro recuperato dai beni confiscati alla mafia, afferma Maurizio Gasparri. Per il governo, ha sottolineato il presidente dei senatori del Pdl nel corso di una videochat sul sito di Alleanza nazionale, trovare i fondi da destinare alla giustizia e alla sicurezza «è un impegno prioritario. La Difesa - ha aggiunto - potrà utilizzare il patrimonio immobiliare che dopo la leva volontaria resta inutilizzato».

Scuola, Gelmini: aumentano i promossi ROMA. L’ obiettivo è ambizioso: i cattolici nel Pd non possono rimanere ”una riserva indiana”. «Si devono sentire a casa propria. E continuare a portare il loro contributo anche se talvolta è scomodo». Parola di Francesco Rutelli che, intervenendo ieri alla Camera durante la presentazione di un sondaggio realizzato dall’Istituto Ipsos dal titolo «Cattolici ed elezioni 2008 - Un’analisi post-voto», ha detto chiaramente che «in Italia esiste un cattolicesimo di popolo e chi lo volesse ignorare farebbe un grave errore. Un terzo degli italiani dichiarano di frequentare la messa ogni domenica: non è detto che partecipino davvero alla liturgia ogni settimana, ma se lo dichiarano vuol dire che si sentono parte di una comunità».

Un’affermazione che ha l’implicito sapore del mea culpa se si calcola che gli stessi dati dimostrano che «il Pdl nella precedente competizione elettorale ha staccato il Pd di otto punti percentuali tra i cattolici impegnati, di oltre 17 punti tra i cattolici non impegnati, di 13 punti tra i praticanti saltuari». Quanto basta per suggerire ai cattolici del partito democratico un netto cambio di rotta. Che Rutelli traduce così: «Il dibattito della precedente campagna elettorale è stato centrato solo sul portafoglio. E poco sui valori. Negli Stati Uniti in campagna elettorale non ci si occupa solo di economia. Si parla anche di principi e valori, che invece sono scomparsi dal dibattito pubblico italiano». Per rimediare, quindi, secondo l’ex vice-premier bisogna ricominciare a pensare anche «al cuore e non solo alle tasche». Rimettendo in agenda il didattito sulla difesa dei valori. Essi non sono solo quelli relativi alla vita, alla morte, alla convivenza tra persone dello stesso sesso. Ma riguardano «l’emergenza educativa o il grande tema dell’ambiente. Quei temi, cioè in sui si investe per le future generazioni». Un discorso che in qualche modo indica anche quali saranno le future mosse dei credenti del Pd. I quali, commissionando questa ricerca hanno già voluto ribadire che hanno a cuore certi temi e faranno il possibile per dar loro lo spazio adeguato all’interno del partito. Insomma, prima di pensare a nuove alleanze tra cui quella tanto chiacchierata con l’Udc,

i credenti del Pd si rimboccheranno le maniche per essere più incisivi a casa loro. Lo ha ribadito lo stesso Rutelli, negando esplicitamente «l’esistenza di prove tecniche di dialogo tra le due formazioni».

L’altra ipotesi che è stata smentita dagli stessi promotori dell’iniziativa - Luigi Bobba e Renzo Lusetti - è che i cattolici del partito abbiano l’intenzione di mettere i bastoni tra le ruote di Veltroni. Il primo a mettere le cose in chiaro è stato il fondatore del gruppo teo-dem, Luigi Bobba, che ha smentito le previsioni avanzate da un quotidiano. «La nostra - ha affermato - non è una miccia accesa sotto il Pd: non abbiamo la vocazione di bombaroli. Direi che questo è il titolo di un giornale infelice». Lo ha appoggiato anche il collega di partito, Renzo Lusetti, che ha aggiunto: «Da parte nostra non c’è alcuna intenzione minacciosa verso il Pd». Ma, come ha sostenuto Bobba, «solo un’occasione per aprire nel partito un itinerario con l’individuazione di luoghi di confronto per condividere un visione politica e programmatica in senso laico. E in questo senso la componente dei cattolici può essere una risorsa straordinaria». Un itinerario dal quale i teo-dem non hanno voluto tener fuori i cattolici di altri schieramenti. Significativa infatti, la partecipazione di esponenti della formazione di Pier Ferdinando Casini, che poteva contare sul presidente Rocco Buttiglione, il segretario Lorenzo Cesa e il capogruppo in Vigilanza Rai, Roberto Rao. Politici cui la ricerca ha dato una soddisfazione: l’Udc è la forza che più di altre è in grado di rappresentare i valori cattolici. Premesso, però, che per il 48% degli italiani non ci sono forze politiche in grado di rappresentare i cattolici. Un dato che il presidente del partito, Rocco Buttiglione, commenta così: «Gli elettori, anche quelli che non votano per noi, ci riconoscono un primato nella difesa del valori cristiani sul terreno della politica. La grande maggioranza dei nostri elettori è composta da cattolici praticanti. Il 20% degli elettori ci dice che, in politica, ci vuole un partito chiaramente orientato ai valori cristiani. Si tratta di una fascia ampia di elettorato che oggi si sente senza rappresentanza. Ad essa deve guardare l’Udc ed è essa a poter dare forza alla nascente Costituente di Centro».

Berlusconi batte Veltroni nella conquista dei cattolici. Ma è il partito di Casini a rappresentare meglio degli altri i valori cristiani

Aumentano i promossi agli scrutini (59,4%), le ragazze si confermano più brave dei compagni, la matematica è una «emergenza didattica». La sintesi sui risultati dell’anno scolastico è stata data dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. «Dopo quasi 15 anni si ritorna a studiare d’estate per recuperare le insufficienze», ha ricordato il ministro riferendosi agli studenti con «giudizio sospeso» (26,9%). I non ammessi sono stati il 13,7%. Alla maturità aumentano i 100 e lode (0,9%), le ragazze diplomate sono il 98% contro il 96,7% dei ragazzi.

Fini: fusione An-Fi entro 2008 ”Entro la fine dell’anno o l’inizio del prossimo e’ previsto il congresso che dovra’ sancire la fusione di An e FI in un unico soggetto politico, il Pdl”. Lo conferma Gianfranco Fini, intervistato da ’Politique internationale’. ”La lista unica con cui ci siamo presentati alle elezioni - prosegue il presidente della Camera - non e’ stata un fulmine a ciel sereno. Il Popolo della Liberta’ era gia’ nato, tra la gente, nella grande manifestazione del 2 dicembre 2006 a Roma: oltre un milione di persone in piazza a manifestare contro l’allora governo Prodi”. ”La nascita del Pdl e’ il frutto della naturale evoluzione storica di questi ultimi dieci anni, al di la’ - osserva - delle contraddizioni e dei momenti di incomprensione che pure non sono mancati”

«Cortina InConTra»: al via la sesta edizione D’estate la cultura si trasferisce ad alta quota. Al via dal 26 luglio fino al 31 agosto 2008 la sesta edizione di ”Cortina InConTra”, la kermesse estiva ideata da Enrico e Iole Cisnetto. Incontri, dibattiti e presentazioni di libri con personaggi illustri per cercare risposte alle domande del nostro tempo.

Caso Del Turco, nessun altro indagato Per il momento non ci sarà nessun allungamento della lista degli indagati nell’inchiesta su presunte tangenti nella sanità. Le indagini hanno portato, il 14 luglio scorso, all’arresto di dieci persone tra le quali l’ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco (foto a destra). E’ quanto viene ribadito dalla Procura di Pescara, la quale fa sapere che «questa inchiesta è solo una parte di un’indagine più ampia».


politica ROMA. E la Destra di Francesco Storace che fa? La domanda, sorge spontanea dopo le ultime polemiche interne al partito. Con Daniela Santanchè, candidata della Destra alle ultime elezioni politiche, che riceve, dice lei, un’offerta di incarico governativo dal centrodestra e Storace che puntualizza che non è questa la linea del partito. Posizione ribadita dalla neonata corrente della Destra capeggiata da Valeriano Tasca e Giovanni Palombo in cui si chiarisce di non volere nessun accordo col Pdl, di sostenere Storace alla guida del partito e superando a destra il leader di richiedere le dimissioni di Daniela Santanchè. Un conto insomma è il dialogo, che la Destra vuole con il Pdl, un conto è l’annessione: «Noi siamo indisponibili a confluire in quel partito, altrimenti ci saremmo risparmiati la fatica di sostenere lo sforzo di Daniela Santanchè alle elezioni di aprile. Se Berlusconi vuole decidere chi guiderà La Destra – dice Storace – versi venti euro alla direzione del partito entro il 31 luglio perchè sarebbe un nuovo iscritto – e dica la sua. Da noi si usa così. Da noi non si usa un partito. Se invece vuole dialogare, è inutile che cerchi altri».

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Francesco Storace smentisce l’annessione del suo partito al Pdl

«Cavaliere,con la Destra è inutile che ci provi» colloquio con Francesco Storace di Riccardo Paradisi Onorevole Storace secondo lei c’è una strategia di annessione da parte del Pdl nei confronti della Destra? Non so se c’è un tentativo di annessione in atto: però un segnale di chiarezza a questo punto andrebbe dato. Perché di indizi io comincio a vederne parecchi.

Daniela Santanchè dovrebbe decidere quale è la sua posizione, dire quello che pensa facendone partecipe il partito nei congressi

Ce ne dice uno? Gliene dico due: il coordinatore di Forza Italia Denis Verdini che comunica a mezzo stampa (in un’intervista al Tempo venerdì scorso N.d.r.) che la Destra starebbe per confluire nel Pdl e poi questa idea di un ruolo di sottosegretario per portavoce del partito Daniela Santanchè. Se queste non sono azioni di disturbo mi dica lei… Questo sta generando tensioni notevoli dentro la Destra. Ma vede il nostro è un partito dove il dibattito interno è assolutamente trasparente. In altri partiti invece i congressi non si fanno, le assemblee non si tengono, sicchè sembra non ci siano discussioni. Voglio però precisare che nessuno scomunica chicchessia perché ha posizioni diverse. Il problema è che alla conferenza programmatica di Orvieto lo scorso fine settimana Daniela Santanchè ha detto delle cose diverse da quelle che poi ha detto al Giornale lunedì. Ecco: dovrebbe allora decidere quale è la sua posizione, dire quello che pensa facendone partecipe il partito nei suoi momenti assembleari. Da noi i congressi e le assemblee esistono. C’è chi ha detto che ad appoggiare la Santanchè ci sarebbe un partito del nord, la sosterrebbe ad entrare nel governo Non c’è nessun partito del nord: queste sono chiacchiere. Glielo assicuro. Che ci sia un tentativo di annessione della Destra però le sembra un’ipotesi probabile. Da parte di chi? Prima della campagna elettorale mi sembra ci fosse qualcuno che diceva non votate la Destra. Non diceva non votate la

sinistra. Era più preoccupato che i voti non li prendesse il partito di Storace più che quello di Veltroni. Poi però la Destra ha preso un milione di voti. Era Silvio Berlusconi. Però questa volontà di annessione dovrebbe anche lusingarvi. Più che lusingarci conferma un dato che qualcuno vorrebbe rimuovere: la Destra c’è e bisogna farci i conti. L’ipotesi che si fa è che in previsione di un autunno caldo Berlusconi non voglia oppositori anche a Destra. La ritengo un’ipotesi verosimile. Però se così fosse io sarei più gentile con la Destra. Cioè? Insomma fra poco si voterà in Abruzzo, se io fossi ai vertici del Pdl e volessi interloquire con la Destra in modo urbano io farei una telefonata a Teodoro Buontempo, che tra le altre cose è abruzzese, e gli direi: Buontempo, lei che è una persona di specchiata onestà, una persona perbene, un politico con grande esperienza amministrativa si candiderebbe alla presidenza della Regione Abruzzo in testa a una coalizione di centrodestra? Chiaro. Ma allora non siete all’opposizione del Pdl. Ma guardi che non è stata la Destra a rifiutare l’apparentamento con il Pdl, è stato il contrario. Si è detto di si a tutti: alla Lega, a Pizza, al Movimento siciliano per le autonomie, solo alla Destra si è detto di no. Noi ci siamo trovati come l’8 di settembre: l’alleato, che era venuto al nostro battesimo salutando la nostra nascita, ci aveva voltato le spalle. Qualcuno lo aveva convinto che era meglio non averci tra i piedi. E a quel punto siete diventati fieri avversari del bipolarismo. Dei due supermercati Pd e Pdl come diceva la Santanchè in campagna elettorale. Non ci provi. Le cose non stanno così. Berlusconi è stato una delusione politica vera: noi i programmi fotocopia Pd-Pdl li abbiamo visti dopo, non prima del voltafaccia. Le nostre critiche non erano strumentali erano e sono serie e fondate. Da che base dovrebbe ripartire il dialogo con il Pdl? Dal rispetto innanzi tutto, dalla trasparenza nei rapporti. Poi dai contenuti. Non mi sembra che il governo abbia ancora toccato gli interessi bancari. Bisognerebbe cominciare a farlo. E poi dallo stralcio della bozza di legge elettorale per le europee con lo sbarramento al 5 per cento. Del resto se il popolo italiano ormai è così bipolarizzato come ci stanno raccontando di che hanno paura?


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pensieri & parole

Il ruolo del Pd è quello del confronto politico e del dialogo sulle riforme

Veltroni al bivio di Alessandro Forlani ella recente manifestazione di Piazza Navona è riemersa quell’anima antica della sinistra italiana da sempre contrapposta frontalmente al potere, quando questo sia esercitato da soggetti di diversa tendenza politica, instancabile nella denuncia di complotti, pratiche di corruzione e svolte reazionarie annidate dietro l’angolo.

N

Il nuovo Pd e la linea dialogante scelta da Veltroni avevano prospettato inizialmente la possibilità di superare finalmente questa forma di lotta politica. Era peraltro ormai evidente che alla sinistra non aveva portato fortuna. Veltroni sembrava orientato alla svolta illuminata fondata sul dialogo e sul rispetto dell’avversario, per raggiungere la necessaria intesa sulle riforme e superare l’ossessione Berlusconi. Con la preclusione di alleanze con forze politiche che non si riconoscessero nelle liste del Pd,

sembrava profilarsi una storica rottura con le componenti estreme e demagogiche e una coraggiosa opzione nel solco delle grandi socialdemocrazie europee che hanno avuto il coraggio di separare i propri destini da quelli delle formazioni ancora legate a schematismi ideologici e a rigidità classiste. Era la premessa per una democrazia compiuta, una moderna democrazia dell’alternanza in

listi, radicali e forze dell’estrema sinistra. Ha accordato a Italia dei valori la possibilità di allearsi con il Pd, concorrendo con il proprio simbolo e le proprie liste. Perché questo trattamento privilegiato al partito dell’ex pm, in deroga al criterio preannunciato solennemente e rigorosamente applicato nei confronti di partiti di gloriosa tradizione nella storia della sinistra italiana? In questo modo il leader del Pd ha innescato una spirale che potrebbe compromettere seriamente il suo tentativo di modernizzare il confronto politico nel nostro Paese. Ha favorito, sfruttando la tesi berlusconiana del voto utile, la scomparsa della rappresentanza parlamentare della Sinistra Arcobaleno, ma ha consentito di sostituirla ad un partito come Italia dei valori, caratterizzato da un moralismo populista e demagogico tra i più esasperati e, nel-

Ha commesso l’errore di concedere a Di Pietro ciò che aveva negato a socialisti, radicali e sinistra cui le parti si legittimino reciprocamente, senza più evocare gli spettri delle dittature del Novecento, né i tenebrosi misteri italiani e le dietrologie tanto cari a una certa pubblicistica. Quasi contestualmente però Veltroni ha commesso un grave errore: ha concesso a Di Pietro quello che aveva negato a socia-

lo stesso tempo, sprovvisto di quella tensione e sensibilità sui temi economici e sociali che dobbiamo comunque riconoscere a un Mussi e a un Bertinotti. Oggi Di Pietro si pone abilmente alla testa di tutta quella protesta viscerale che intende ricondurci ai vecchi schemi sterili della contrapposizione ideologica e, direi quasi, antropologica.

Speriamo che gli eccessi emersi durante la manifestazione di piazza abbiano indotto Veltroni ad una riflessione sia pure tardiva e alla consapevolezza del grave errore commesso. Il coraggio è essenziale nei momenti di svolta. I dirigenti del Pd devono liberarsi dal complesso di perdere voti a sinistra, di essere scavalcati dai raggruppamenti demagogici e radicali, dalla paura di perdere quel voto in più necessario a battere Berlusconi.

Da questi timori si sono affrancati già Blair nel 1996, quando serenamente prese atto della scissione di Scargill dal Labour Party, Schroeder, nel 2005, quando separò i suoi destini da Lafontaine, Jospin, nel 2002, quando concorse da solo, coraggiosamente, alle presidenziali, insidiato da più candidati di sinistra, moderata ed estrema, distinguendo così il Psf dai gruppuscoli demagogici o massimalisti. Anche per la sinistra riformista italiana è tempo di recidere legami ormai ostativi di un nuovo ciclo del confronto politico e del dialogo necessario sulle grandi riforme. Eventuali sacrifici in termini elettorali indotti da questa scelta nell’immediato saranno ampiamente ripagati in futuro, con grande profitto della funzionalità delle istituzioni e della democrazia dell’alternanza.

I centristi, a differenza del Ps, sono riusciti a sopravvivere al ”bipartitismo imperfetto”

I socialisti guardano all’Udc di Biagio Marzo lle ultime elezioni politiche l’Udc candidò Pier Ferdinando Casini alla premiership, altrettanto fece il Ps con Enrico Boselli. Le sorti dei due partiti furono diametralmente opposti: l’Udc ebbe una affermazione di tutto rispetto in quella situazione dominata dal voto utile, una parola d’ordine strumentale per portare acqua ai mulini del Pd e del Pdl. Per il Ps fu una catastrofe: mai prima d’oggi i socialisti sono stati fuori dal Parlamento. Hanno pagato, toccando il minimo storico dello 0,98%, per la cattiva politica del gruppo dirigente di San Lorenzo in Lucina. Boselli si era incaponito sulla linea politica incentrata sul laicismo, una proposta contronatura per come i socialisti hanno interpretato i rapporti con il mondo cattolico: dalla formazione del centrosinistra storico, quello di Pietro Nenni, al governo Craxi, che riformò il Concordato. In sintesi, se ci fosse una intesa di Ps con l’Udc, per i due

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partiti potrebbe essere salutare. A Nencini non dispiacerebbe, anzi; altrettanto a Casini, speriamo.

L’Udc ha vissuto una situazione elettorale difficile, segnata dal “bipartitismo imperfetto”, ma ha portato a casa un buon risultato, senza poter fare di più per i molti ostacoli disseminati dal Pdl e dal Pd lungo il percorso. L’obiettivo (non dichiarato ma tanto desiderato) era di chiudere la partita

Pier Ferdinando Casini e Riccardo Nencini potrebbero iniziare un percorso per difendere l’autonomia dei loro partiti elettorale con un pari e patta. In quel caso Casini avrebbe potuto dire la sua, sulla formazione del nuovo esecutivo, nel caso si fosse costituito un governo di larghe intese. Le cose non sono andate così e l’Udc si trova all’opposizione. In effetti, ha giocato, pesantemente, nelle elezioni la guerra per evitare che sorgesse un centro, che avrebbe scombinato i giochi del Pdl e del Pd che non volevano un “nemico al centro”. Diversa la storia del Partito socialista, la cui sorte è segnata dal Pd, come prima dal Pci. Il Pd non vuole un “nemico a destra”, considerandosi l’unico depositario del verbo

riformista. Sull’altro lato, Forza Italia, per l’appunto, vede come il fumo negli occhi i socialisti organizzati in un unico partito, sentendosi, a parole e non ancora nei fatti, l’erede di quel riformismo modernizzatore, portato avanti dal Psi, negli anni Ottanta.

A destra come a sinistra, tutti contro i socialisti. Con la scomparsa di Bettino Craxi, sembra che i socialisti siano colpiti da una sorta di maledizione. L’ultimo caso, quello di Ottaviano Del Turco. Nonostante che non militasse più nel Partito Socialista, bensì nel Pd, i mass media hanno fatto di tutto e di più per presentarlo nei vecchi panni socialisti. Due partiti e due storie (quella dell’Udc che in massima parte raggruppa i figli e i nipoti dell’ex Dc e quella del Ps che ha accasato i discendenti diretti e indiretti del Psi) importanti che non possono essere messe in archivio. Anzi. Una lettura attenta del Caso Italia porta a dire che queste due tradizioni, che per decenni hanno governato l’Italia, sono costrette per il bene del Paese a stringere una alleanza per i prossimi appuntamenti elettorali. Ma per far sì che questo avvenga, Pier Ferdinando Casini e Riccardo Nencini si parlassero per iniziare un nuovo corso a dispetto dei loro “nemici” e, nello stesso tempo, a favore dei loro destini politici.


mondo ina alla finestra e Italia in trincea. Chi vorrebbe cambiare le regole del commercio, internazionale, senza prendersi responsabilità, e chi deve invece difendere la propria economia e il pregio dei prodotti agroalimentari. In mezzo il caos del caro-cibo. Si sono aperti lunedì a Ginevra i lavori della World trading organization (Wto) nel dopo Doha - in realtà una riunione informale del Trade negotiations committee. Un Doha round che secondo Mario Draghi era fallito «strada facendo» e per l’ex segretario al Tesoro Usa, Robert Rubin «morto ancor prima di nascere». Nonostante i tentavi di spargere quel poco d’ottimismo che rimane, da parte del direttore del Wto, Pascal Lamy, non tira una bella aria sulle rive della Corniche ginevrina. Sul fronte italiano, il ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia lancia l’allarme: «l’Italia difenderà le sue posizioni. Sarà una battaglia dura contro provvedimenti che se saranno approvati, per come sono scritti oggi, porteranno al funerale dell’agricoltura italiana». Il problema nasce per le indicazioni geografiche dei prodotti. Gli americani non ne vogliono sentir parlare, visto che i prodotti «Italy sounding» - cioè che sembrano italiani ma non lo sono -sono per loro un business da 50 miliardi di euro. Per voce del rappresentante del dipartimento del Commercio Usa, Susan Schwab arriva una specie di doccia fredda sui nostri prodotti dop, doc e igp: «Non siamo impegnati sul tema, e non intendiamo esserlo».

C

Sul versante europeo invece, il commissario Ue, Peter Mendelson è pronto ad un taglio delle tariffe doganali sui prodotti agricoli fino al 60 per cento. Adolfo Urso, sottosegretario al Commercio Estero, rincara: «l’Europa ha concesso molto, forse troppo, adesso ci aspettiamo lo stesso da parte di Usa, Cina, India e Brasile». Mendelson si lamenta che un fallimento degli accordi multilaterali metterebbe a rischio anche quelli su clima ed energia. Ed è vero, ma si può fare poco, perché parliamo di 153 Paesi, ognuno con potere di veto. In un contesto, quello del commercio globale, che chiamare complesso è un eufemismo. A questo va aggiunto il problema principe, stigmatizzato sempre da Rubin, durante la recente visita italiana. «Sono in pochi ad aver capito quanto profondi siano i cambiamenti in atto nell’economia mondiale (...) e la disfunzionalità della politica è forte». Il multilateralismo, concetto chiave, soprattutto nel trading internazionale, è in crisi, ma

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Il «fallimento» del Doha round approda a Ginevra

La Cina e le nuove regole del Wto di Pierre Chiartano

vediamo come nasce questo brutto periodo. Il sospetto c’è sempre stato, che la Cina aderisse al Wto per poi cambiarne le regole, ma la fiducia nel complesso dell’Uruguay round – prima ancora del draft di Marrakesh - e nella guida tutta

la più ricca e indubbiamente la più dinamica, con una divisa di riferimento mondiale e continuerà ad essere il maggior catalizzatore d’investimenti dall’estero. L’Europa forse ha un’economia e un interscambio commerciale estero più grande

Dal dipartimento del Commercio Usa arriva una doccia fredda sui nostri prodotti doc e igp: «Non siamo impegnati sul tema, e non intendiamo esserlo». Il ministro Adolfo Urso: «Ho il mandato per trattare» Usa della macchina del commercio mondiale, spingevano verso l’ottimismo. Era caduto il muro, Washington metteva all’incasso le cambiali della vittoria sul comunismo, e riducendo il budget militare inondava di soldi tutto il resto. Crescerà una classe media anche in Cina, spingerà a nuove conquiste sociali, sindacali e chiederà nuove libertà, si affermava. Ecco fatta la ricetta del liberalismo in salsa asiatica. Qualcosa non ha funzionato però, vediamo perché. Gli unici protagonisti del mercato in grado di definirsi potenze globali sono gli Usa, l’Ue e la Cina. L’America è ancora quel-

di quello statunitense e con una moneta sempre più competitiva rispetto al dollaro, ma è ancora un nano politico.

La Cina è il nuovo associato del club. «Pone alcune sfide agli altri due, ma è ancora povera, con un mercato ancora poco sviluppato, se consideriamo l’intero territorio cinese e con un regime politico di tipo autoritario (...) Spesso viene associata all’India, come gigante economico emergente, che ha però un pil che è meno della metà di quello cinese», l’analisi di Foreign Affairs. Fin dall’inizio della sua crescita così spettacolare ci si chiedeva se, una

volta entrata nel Wto, ne avrebbe accettato le regole o avrebbe voluto cambiarle. Oggi, dopo il fallimento del Doha round abbiamo la risposta. È la prima volta, dal secondo dopoguerra, che il commercio internazionale subisce una battuta d’arresto così significativa. «Quasi esclusivamente per colpa di Pechino» sottolinea FA, che non ha voluto accettare le regole del multilateralismo insite nel Wto. Si è inventata come scusa l’essere un recently acceded member per non volere rispettare le regole del gioco. Poter continuare ad agire come Paese in via di sviluppo, evitando le responsabilità di un partner di rango globale. Di più, con tutta una serie d’accordi bilaterali in Asia, ha deviato rispetto allo spirito liberoscambista perché, di fatto, questi trattati sono nati più per esigenze politiche che per necessità commerciali. Un esempio è il free trade con l’Asean, firmato per tenere buoni quei Paesi, spaventati dal gigante asiatico, che non ha alcun valore economico. Mettendosi così in competizione con l’asse Giappone, Corea del Sud e Asean. Sarà più difficile recuperare Pechino

al tavolo delle regole internazionali di quanto non fu per il Giappone. Inoltre la politica regionale cinese mina alle basi la struttura del trading internazionale, fondata nel 1994 a Marrakesh. È una sfida aperta della Cina al sistema a guida statunitense, lanciata già nel 2006 al forum di cooperazione economica asiatico dell’Apec. Un confronto che come nel domino, prima o poi coinvolgerà altre istituzioni mondiali, come l’International monetary fund. «Pechino agisce ancora con un approccio politico da Paese emergente, come se le sue azioni non avessero un impatto globale, soprattutto nel settore commerciale». Nessuna responsabilità, nessun impegno. Serve ammettere che anche il protezionismo agricolo di Usa e Ue abbia dato una mano nel flop di Doha, allo stesso modo l’Imf ha fatto poco per l’affermazione di regole più stringenti in campo monetario. Proprio sul fronte agricolo Washington sembra invece disposta a ridurre i sussidi interni a circa 15 miliardi di dollari all’anno, rispetto ai 17 preventivati. Un’offerta «condizionata al successo degli accordi», secondo le ultime dichiarazioni della Schwab.

L’aria che tira dal Cairo a Pechino, passando per le capitali occidentali, non è favorevole a un commercio mondiale con regole che moltiplicano i prezzi di riso e grano e di quasi tutto ciò che finisce sulle nostre tavole. Ieri una delegazione mondiale degli agricoltori ha presentato a Lamy una dichiarazione comune in cui si esprime l’opposizione all’attuale proprosta sull’agricoltura». E il Comitato delle organizzazioni agricole Ue non è da meno: «la proprosta beneficia solo alcuni esportatori industriali e porterà alla rovina buon aparte delle famiglie agricole, che sono i principali fornitori di derate alimentari per le comunità locali». Insomma se non proprio filiera corta almeno filiera nazionale, cioè il diritto di ogni Paese a produrre quello che serve per il consumo interno. Con queste premesse a Ginevra ci sarà ben poco su cui accordarsi. Mandelson chiederà l’allargamento della protezione dei prodotti agroalimentari, anche nel rispertto della Convenzione Onu sulla biodiversità. Per l’Italia, invece, baionette in canna, per «la difesa della nostra storia e della nostra dignità» come affermato da Zaia e con la determinazione del ministro Urso che ha ricevuto il mandato per trattare dal governo italiano. E la Cina? Starà a guardare un Occidente in serie difficoltà.


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BUENOS AIRES. Il Brasile è più che mai impegnato a diventare, in un decennio, una potenza energetica. Nonché politica ed economica. Per la leadership regionale. Per un posto al sole nel mondo che conta (Lula si è detto compiaciuto per la promessa di Berlusconi di un’inedita giornata di incontri nel 2009 tra G8 e G5). Per ridurre le disuguaglianze interne (il 10% dei piú ricchi ha nelle mani il 75,4% della ricchezza). Il governo si muove su tutti i fronti. Dopo l’etanolo da canna da zucchero, la fonte energetica che ha già superato l’elettricitá ed è utilizzata dall’85% dei veicoli, sull’onda dell’euforia delle scoperte di megagiacimenti off-shore di greggio e gas, punta ora al nucleare. Il ministro dell’energia, Edison Lobao ha annunciato che, dopo una ventennale paralisi, dal primo settembre ricominciano i lavori per costruire la centrale Angra III. Che, tra quattro anni, affiancherà le due già in funzione. Manca solo l’ok dell’Ibama (Instituto brasileiro do Medio Ambiente e dos Recursos Naturales Renováveis). Ci sarà: con lo Stato che sussidia 40 milioni di famiglie, gli ambientalisti sono inascoltati.

Si investiranno 4,2 miliardi di dollari. E si sta formando un Comitato per lo sviluppo del programma nucleare che coordinerà Dilma Rousseff, l’ex guerrigliera che guida ferreamente la “Casa Civil” della presidenza e che si prepara a succedere a Lula nel 2010 e dice di sé: «Non sono il premier, perché il Brasile è presidenzialista». Per Angra III non si importerà più uranio arricchito. «Ricorreremo alle nostre riserve, le seste nel mondo», sottolinea Lobao. E assicura che già ci sono i piani per altre tre centrali. E che «poi ne realizzeremo una all’anno, per arrivare a produrre 60mila megawatt nel giro di 50 anni». Un futuro per il quale il Brasile pensa ad un suggestivo triangolo. Con Francia e Argentina, l’altro Paese sudamericano che, con il vicino gigante, fa parte delle 10 nazioni al mondo in possesso della tecnologia nucleare. Il terzetto ha già mostrato la sua volontà politica: Lula e Sarkozy in febbraio in Guyana; Cristina Fernandez de Kirchner a Parigi con Sarkozy in aprile. E i due sudamericani si sono accordati per costituire un’impresa binazionale per produrre un reattore nucleare compatto. Se quest’ultima è una novità, poiché, fino a non molto tempo fa, i due Paesi si guardavano in cagnesco sul nucleare, la collaborazione tra Brasilia e Parigi viene da lontano. Dopo la fu-

mondo Il Brasile apre una nuova centrale e ne progetta altre 3. Con Francia e Argentina

Lula e il triangolo d’oro del nucleare di Oscar Piovesan

Il Paese punta a diventare uno dei dieci grandi produttori mondiali di greggio. E, in un decennio, una delle tre potenze che possono dominare l’economia globale sione tra la tedesca Siemens e la francese Framatome, il colosso francese Areva ha ereditato un contratto per le forniture per Angra III che risale al 1975. Ai tempi della dittatura, quando i militari nazionalisti hanno avviato sia i primi piani energetici e petroliferi sia quelli nucleari. Ma in ballo c’è anche uno dei sogni di quei generali: un sottomarino nucleare. «Ho detto a Lula che siamo disposti a costruire un sottomari-

no Scorpene in Brasile», si è vantato Sarkozy. Pur se convenzionale, permetterebbe ai brasiliani di mettere a punto quello nucleare. Il ministro della difesa, Nelson Jobim ha di contro specificato: «Il reattore lo produrrà la marina brasiliana. Lo scafo ed i sistemi elettronici saranno quelli dello Scorpene». Un sogno condiviso anche dall’Argentina, che, per il nucleare, vanta la primogenitura in America Latina. Nel 1950,

Perón creò una Commissione per l’energia atomica che, nel 1957, produsse il primo reattore del continente. Nel 1974, sempre Perón, inaugurò la prima centrale, Atucha I. Dopo, Menem affossó tutto per le pressioni Usa.

Nel 2006, però, Nestor Kirchner ha lanciato il Piano di riattivazione dell’attività nucleare ed inaugurato i lavori per costruire Atucha II. Non per nulla, la moglie Cristina ha parlato con Sarkozy di cooperazione nucleare e con Lula della possibilità che il reattore del suo sommergibile usufruisca della tecnologia argentina. Un triangolo in fieri. In

cui, per Fabian Calle, professore di relazioni internazionali dell’universitá argentina Di Tella, «Argentina e Brasile sarebbero in grado di stabilire una “divisione del lavoro”. La prima con sostanziali passi in avanti per i reattori mediani e la loro potenziale trasformazione in motori per la propulsione dei sottomarini e il partner puntando alla leadership per l’ arricchimento dell’uranio». Jobim, da par suo, ha specificato alla Commissione esteri della Camera dei deputati: «Il sottomarino non avrà scopi offensivi. Sarà pronto tra una decina d’anni, con un costo di 613 milioni di dollari. E sarà destinato alla difesa del greggio». Le cui recenti scoperte sono tanto entusiasmanti che Lula si è raccomandato di non trascurare l’etanolo. Soprattutto quella di tre mesi fa: a 150 chilometri al sud di Rio ci sarebbero 33 miliardi di barili. Quasi 5mila tecnici e operai stanno approntando la piattaforma che, da fine anno, ne estrarrá 180mila al giorno. Insieme a sei milioni di metri cubici di gas. Il tesoro, che si trova a 10 chilometri di profondità, ammonterebbe a 6 miliardi di dollari. Da estrarre però ai costi più alti al mondo, ma redditizi ai prezzi attuali. Petrobras, il cui valore di mercato è schizzato a 250 miliardi di dollari, è già la sesta compagnia più grande del mondo. Presume Peter Wells, direttore di Neftex Petroleum Consultants, grande impresa di consulenza del settore: «Il Brasile può diventare uno dei 10 grandi produttori mondiali di greggio. E, in un decennio, una delle tre potenze che possono dominare l’economia globale». Le conseguenze geopolitiche già ci sono. Dopo 58 anni, dal primo luglio scorso, la IV Flotta Usa è tornata ad operare nell’Atlantico Sud. Apriti cielo. «Adesso che abbiamo scoperto il greggio a 300 chilometri dalle nostre coste, mi piacerebbe sapere quale logica sottindente a tale dispiegamento in una regione pacifica», si è chiesto Lula davanti ai colleghi del Mercosur. Ed ha incaricato Jobim, che a fine mese incontra la Rice a Washington, di chiederle “spiegazioni”. E di preparargli «un esauriente rapporto». Ma c’è dell’altro che inquieta la Casa Bianca. Trasferimento di tecnologia militare: caccia, elicotteri, satelliti di vigilanza dell’Amazzonia e formazione di soldati brasiliani secondo il sistema francese. Sarko dixit in Guyana. E Cristina, a Parigi, ha siglato un contratto con l’Alstom per un Tav Baires-Cordoba, con investimenti per 3,2 miliardi di euro. Il presunto “triangolo” ha tutta l’aria di andare già d’amore e d’accordo.


mondo

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Giovedì a Glasgow le elezioni rischiano di siglare la terza disfatta laburista. Il conservatore Mason in pole position

Brown teme una doccia scozzese di Silvia Marchetti

d i a r i o

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Attentato a Gerusalemme, allerta per Obama

Dopo due defezioni il premier ha imposto alla politica locale Margaret Curran di candidarsi

LONDRA. Terzo “knock-out”in arrivo per Gordon Brown. Questa volta in Scozia, nella sua città natale. Giovedì a Glasgow East si terranno le elezioni suppletive per scegliere chi dovrà prendere il posto del parlamentare del Labour dimessosi dalla carica per motivi di salute.Tutti i sondaggi danno i nazionalisti in testa con il 33 per cento dei voti contro il 29 per cento dei laburisti. Per il primo ministro Brown è un incubo a occhi aperti: Glasgow East è sempre stato un feudo del Labour, perdere anche questo seggio significherebbe “abdicare”alla guida del Regno Unito. Dopo le amministrative di maggio e le suppletive di Nantwich e Crewe, il Labour non può permettersi un’ulteriore batosta elettorale. Specie in Scozia dove da un anno, da quando i nazionalisti hanno vinto le elezioni locali, crescono i sentimenti antibritannici (ossia l’antipatia verso Brown) e la voglia di indipendenza. E così, dopo anni di dominio laburista a Glasgow East potrebbero vincere questa volta i nazionalisti di Alex Salmond, a capo del governo locale scozzese. Alla vigilia del voto il clima che si respira non è proprio di euforia. Gli unici a fare una vera campagna elettorale sono i nazionalisti, che hanno tutto da guadagnare, convinti di potere strappare al Labour il seggio e certi che il voto locale avrà delle ripercussioni a livello nazionale. Di questo sono convinti – e perciò timorosi – gli stessi laburisti, che al contrario dei nazionalisti hanno tutto da perdere e perciò hanno deciso di condurre una campagna elettorale low-profile, praticamente fantasma, inesistente. Lo stesso Brown, forse annusando odore di sconfitta, non ha mai visitato la sua Glasgow. Nelle ultime settimane il premier ha dovuto faticare per trovare i candidati, nessuno sembrava disposto a candidarsi per delle suppletive già date per perse. David Marshall, il parlamentare laburista che dal 1979 ricopre il seggio di Glasgow East, se ne è andato lo scorso mese per misteriosi problemi di salute, anche se certe voci maligne interne al Labour sostengano si tratti di una scusa per non doversi ricandidare. Brown è stato allora costretto a scegliere il numero due del partito a Glasgow, George Ryan, che a un certo punto, tuttavia, ha preferito abbandonare la competizione. Dopo Ryan viene così nominata, contro la sua volontà, una donna, Margaret Curran, ad oggi (se resiste) candidata del partito alle suppletive. Margaret è di Glasgow, ma è stata via per lungo tempo, ha perso il contatto con i cittadini e stando alla stampa britannica sta facendo un ultimo

“disperato sforzo per evitare ciò che si preannuncia un terremoto politico”. Insomma, non si può certo dire che negli ultimi tempi la fortuna sia dalla parte di Gordon Brown. Soltanto in Scozia ha dovuto affrontare una serie incredibile di defezioni di uomini chiave che hanno destabilizzato l’equilibrio interno del partito. Alcune settimane fa la leader dei laburisti scozzesi, Wendy Alexander, è stata costretta a dimettersi in seguito a un’inchiesta che aveva fatto luce sull’uso illecito dei fondi elettorali per la sua nomina a guida del partito.

L’avversario numero uno della signora Curran è John Mason, candidato dei nazionalisti scozzesi. A differenze della sua sfidante, Mason è un ex-consigliere comunale che ha la città nel sangue, non ha paura di esporsi (anzi, è famoso per le sue gaffe) e non perde un minuto della giornata per fare campagna elettorale. Ma soprattutto, Mason può contare sul sostegno del suo leader, il premier scozzese Alex Salmond, che non lo lascia un attimo da solo. Salmond, eccitato e iperattivo, sbandiera il voto di giovedì come un’opportunità per mandare a casa Brown e suoi amici laburisti, aizzando i cittadini di Glasgow con vane promesse di indipendenza. Ma il timore è che giovedì pochi andranno a votare: le elezioni cadono nel mezzo delle tradizionali ferie estive dei lavoratori di Glasgow. L’unica carta che potrebbe giocare a favore dei laburisti è quella religiosa. Glasgow è una città a maggioranza cattolica e il Labour è sempre stato il partito dei cattolici, mentre il nazionalista Mason è un evangelico convinto. Ma per il resto tutto va contro i laburisti. Glasgow East è forse il seggio più decadente dell’intera Gran Bretagna, la pecora nera del Paese, dove dilagano la disoccupazione e il crimine, i casi di cancro, alcolismo e obesità sono sopra la media nazionale, gli stipendi dei cittadini sono bassi. Insomma, il seggio è un microcosmo che racchiude le questioni più dolenti per il Labour e che rischia di essere visto come l’emblema dei suoi “misfatti” governativi. Gordon Brown lo sa e per questo ne sta alla larga.

Nuovo attacco a bordo di un bulldozer a Gerusalemme, dopo quello che il 2 luglio aveva causato tre morti e oltre venti feriti. Secondo le prime ricostruzioni, l’uomo alla guida del mezzo, un palestinese, è stato ucciso dopo che si era scontrato con un autobus e due auto. Almeno sedici persone sono rimaste ferite, una è grave. L’attacco nel cuore di Gerusalemme, vicino al Liberty Bell Garden all’altezza di un affollato incrocio stradale, è avvenuto a poche ore dall’arrivo in Israele del candidato democratico alla Casa Bianca, Barack Obama, che ha fatto scattare rigidissime misure di sicurezza. L’attentatore si chiama Hassan Abu Tir ed è parente di un membro di Hamas, riferiscono fonti sul posto. L’attacco, come è stato immediatamente riferito dalle forze dell’ordine israeliane, è avvenuto in King’s George Avenue. A poca distanza da dove è stato fermato il bulldozer si trova l’hotel che dovrà ospitare Barack Obama.

Zimbabwe, la Ue inasprisce le sanzioni I ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno deciso di inasprire le sanzioni in vigore contro lo Zimbabwe, aggiungendo altre 37 persone alla lista dei 131 cittadini del Paese africano a cui già dal 2002 sono stati congelati i beni e viene negato un visto per l’Ue. Le nuove sanzioni colpiranno anche società che sostengono il governo del Presidente Robert Mugabe. Stando a quanto riferito da un diplomatico europeo, sono quattro le imprese che si vedranno congelare i beni. Le misure decise dall’Ue mirano a colpire persone ritenute responsabili delle violenze commesse nello Zimbabwe dopo il primo turno delle elezioni presidenziali, il 29 marzo scorso, e uomini di affari che sostengono economicamente il regime. L’elenco si conoscerà solo dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. I ministri hanno deciso di inasprire le sanzioni nonostante il protocollo di intesa firmato lunedì ad Harare da governo e opposizione, per avviare un negoziato che porti a un governo di unità nazionale. «Le sanzioni sono fondamentali: senza di esse non sarebbe stato fatto nessun passo avanti» ha detto il ministro degli Esteri francese, Bernand Kouchner, riferendosi all’accordo.

India, il governo ottiene la fiducia Il governo di Manmohan Singh ha ottenuto la fiducia in parlamento ed è sopravvissuto allo scandalo creato dall’opposzione che aveva denunciato il tentativo di comprare i voti necessari alla sopravvivenza. In ballo c’era l’accordo con gli Stati Uniti per uno sviluppo della collaboazione nucleare in ambito civile che ora il governo vuole mandare avanti per avere accesso a tecnologia e combustibile e porre fine a decenni di isolamento. Durante il dibattito un deputato del partito nazionalista Hindu, Ashok Argal, aveva denunciato in aula le manovre del governo di Manmohan Singh per resistere all’attacco di nazionalisti e sinistra critici sull’accordo con Washington. La seduta del parlamento è precipitata nel caos quando Argal ha mostrato borse piene di banconote che ha cominciato a distribuire ai deputati. Erano, ha detto, la prova che la maggioranza aveva tentato di comprare il suo voto con 30 milioni di rupie (400mila euro). Rajeev Shukla, portavoce del governo, ha respinto le accuse sostenendo che non vi è alcuna prova che quel denaro sia una mazzetta, ma l’opposizione ha subito chiesto le dimissioni di Singh. Secondo le previsioni, la maggioranza si gioca la sopravvivenza per uno o due voti, anche se il governo ostenta sicurezza dicendo che non si sarebbe mai affidato al voto di fiducia se non fosse stato sicuro di vincere.


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speciale esteri rande aspettativa per il giudizio della Corte costituzionale turca dopo l’audizione della difesa dell’Akp (Giustizia e Sviluppo), il partito islamico di maggioranza del premier Erdogan e del presidente Gul. Sebbene la prima seduta con la presenza della difesa si sia già svolta giovedì 3 luglio, non è improbabile che queste si ripetano nel tempo e che il verdetto, tutt’altro che semplice, debba essere atteso ancora a lungo, sin dopo l’estate.

G

Le accuse della suprema Corte I fatti sono noti, ma giova riassumerli. Il dossier dell’accusa, presentato già nel marzo scorso in un testo di 162 pagine dal Giudice Abdurrahman Yalcinkaya, presidente della Corte, è pesante non tanto per il volume, quanto per la specificità e la gravità del contenuto: l’Akp e i suoi capi sono accusati di portare avanti un piano strisciante per l’islamizzazione progressiva del Paese e delle istituzioni, ispirato a stabilire, assieme ad altri movimenti dell’islam politico, un sistema basato sulla sharia, la legge coranica, piuttosto che sullo stato di diritto. Ciò è grave violazione alla Costituzione kemalista in vigore, la cui ultima versione, revisionata nel 1980, ribadiva il principio della laicità dello Stato e delle Istituzioni, lasciando alla sfera del privato il credo religioso.La questione è complicata, e il partito di Recep Tayyp Erdogan, che ha avuto più di un mese per allestire la propria difesa, incentra le sue ragioni sulla politica moderata del governo, sui successi in politica estera – tra i quali il ruolo positivo di Ankara nel processo distensivo tra Siria e Israele – e in politica interna, come la lotta contro i ribelli del Pkk (partito comunista curdo). La positiva, anche se preoccupata, accettazione di Erdogan sul piano internazionale costituirebbe un altro elemento utile ad alleggerire l’accusa, né poteva accadere diversamente, visto che l’Akp ha vinto le elezioni

Occidente

ban, nelle università, provvedimento subito contestato e annullato dalla stessa Corte, in quanto ritenuto uno dei piccoli passi di una politica tendenzialmente islamizzante. Il procedimento della suprema Corte è certamente cauto, anche se determinato, perché lo scioglimento del Akp e dei partiti islamici potrebbe portare a complicazioni interne e internazionali. Ciò confligge tuttavia con l’esigenza di far presto, perché, nel frattempo, il governo potrebbe far approvare dal parlamento una serie di nuovi emendamenti costituzionali, che annullino quelli proposti dai militari nel 1980, e tolgano così alla Corte il potere di dichiarare illegali alcuni partiti, e quindi ordinarne lo scioglimento, come già successo. La fretta, per cui una sentenza attesa per settembre potrebbe essere anticipata già in questo mese di luglio, deriva anche dal fatto che Erdogan ha dimostrato di non voler stare alla finestra come passivo osservatore degli eventi. All’inizio del mese, infatti, la polizia aveva arrestato 21 persone nell’ambito di un’indagine a livello nazionale sull’Ergenekon, un gruppo estremista laicista sospettato di aver organizzato attività di matrice terroristica ai fini di un colpo di stato. Tra gli arrestati, vi sono alti ufficiali in pensione dell’esercito e della gendarmeria, oltre che direttori di quotidiani e di enti pubblici, tutti noti come critici del partito islamico di governo. L’atteggiamento dei militari Le forze armate, custodi dell’eredità laicista di Mustafà Kemal Ataturk, che negli ultimi cinquant’anni hanno destituito quattro governi, nelle questione sembrano aver scelto il basso profilo, confidando nel risultato dell’azione della Corte costituzionale, ritenuto sul piano internazionale più digeribile di un loro intervento diretto, sempre possibile e comunque mai da escludere. Infatti, come riporta Asia Times del 10 giugno scorso, il capo di stato maggiore, ge-

I militari, che negli ultimi 50 anni hanno destituito 4 governi, oggi sono cauti due volte ( nel luglio 2007 con quasi il 47% di consensi). Non mancano gli elementi a sfavore, come l’aver accelerato le elezioni presidenziali sull’onda del favore popolare, ottenendo la vittoria del numero due del partito di Erdogan, Abdullah Gul, e il provvedimento sulla liberalizzazione del velo islamico, il tur-

nerale Mehmet Yasar Buyukanit, si è espresso una volta sola, ma in tono inequivocabile: «La Repubblica turca è l’unico Paese del mondo islamico con una struttura laica.Vi è chi vuole distruggerla o aggiungere attributi al nome del Paese. La magistratura non permetterà che ciò accada. Non vi è nessun potere

Fissata per il 28 luglio la discussione sulla chiusura dell’Akp, il partito del premier e del presidente

LA CORTE DECIDE IL DESTINO DI ERDOGAN di Mario Arpino abbastanza forte da rovesciare la repubblica e i suoi principi fondamentali». Dopo aver diffidato chiunque, in patria e all’estero, a parlare della Turchia come Paese islamico moderato, ha aggiunto «la Turchia è uno stato laico, democratico e sociale, governato dal diritto. È impossibile cambiare queste caratteristiche…». Dopo di che, silenzio. Non ha più parlato. Lo ha invece fatto con toni morbidi il suo vice, il generale Iker Basbug, che in occasione dei 21 arresti dei giorni scorsi, aveva invitato l’esercito alla calma: «…la Turchia sta vivendo giorni difficili, dobbiamo agire con buon senso, attenzione e responsabilità».

Ai giudici l’ardua sentenza, che si prevede contenga, oltre la messa al bando dell’Akp, anche l’interdizione dall’attività politica per cinque anni di 71 dei suoi membri, tra cui Gul ed Erdogan. La Turchia dopo la sentenza Le conseguenze, in Occidente e nel Medio Oriente, non sono del tutto prevedibili, anche se si può senz’altro pensare, nel brevemedio termine, a un non positivo incremento dell’instabilità regionale. All’interno, le grandi manifestazioni del maggio 2007 ci hanno insegnato che la massa urbanizzata, il cittadino medio, desidera sviluppo di tipo occidentale nella libertà e in de-

mocrazia, e non cerca certo né avventure islamiche, né regimi militari autoritari. Allora si comprende come, se si accetta che le regole della democrazia in Turchia possano essere legittimamente diverse da quelle dei Paesi dell’Africa nera, da quelle indiane o da quelle dei Paesi dell’Europa centrale, si possa anche pensare che nel più lungo termine sarà possibile persino avere dei benefici. Nessuno può essere infatti sicuro, oggi, che la formula di Islam politico dell’Akp sarà in grado di mantenersi indefinitamente entro i limiti dei principi democratici in cui sembra credere Erdogan, e non invece lasciarsi spingere,


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A sinistra Recep Tayyip Erdogan, premier turco , in basso a destra, Abdullah Gul, presidente del Paese to dalla suprema Corte all’Akp sta presumibilmente portando a situazioni di paradosso. Deve l’Unione, che è occidentale, democratica e liberale, sostenere forze ostentatamente laiche e occidentalizzanti, come quelle rappresentate dalla suprema Corte, dai ceti elitari e dai militari, oppure dare un amorevole e “democratico” appoggio a coloro che, eletti in situazione maggioritaria, si proclamano “islamici moderati”? È un bel problema, per chi mai ha osato spostarsi dal politically correct. A Copenhagen nel 1993 erano stati fissati i criteri per valutare chi poteva stare dentro l’Unione e chi invece doveva pazientare e prepararsi agli esami rimanendo, libri alla mano, fuori dalla porta. I criteri erano, e sono: sistema stabile e democratico, protezione delle minoranze, rispetto dei diritti umani, economia di mercato e forza economi-

Non c’è garanzia che l’islam politico dell’Akp rimanga entro i principi democratici sull’onda del crescente favore che la “fabbrica” islamica del consenso ha già dimostrato altrove di saper creare, verso la “trappola”di quel radicalismo – sono sempre concetti riportati da Asia Times – di cui l’Akp stesso potrebbe essere inconsapevole incubatore. In quanto ai rapporti con l’Occidente, con il mondo cristiano non ci dovrebbero essere grandi cambiamenti. Nella sua visita in Turchia del novembre 2006, Benedetto XVI aveva affermato che «è compito della autorità civili di ogni Paese democratico garantire la libertà effettiva di tutti i credenti e permettere loro di organizzare liberamente la vita della comunità religiosa». Ciò dopo aver rilevato che il Paese, dopo la svolta impressa da Ataturk all’inizio del secolo scorso, «…si è dotato dei mezzi per divenire un grande Paese moderno, in particolare facendo la scelta di un regime di laicità, che distingue chiaramente la società civile e la religione, così da permettere a ciascuna di essere autonoma nel proprio ambito, sempre rispettando la sfera dell’altra». L’ingresso nell’Unione Europea Per quanto riguarda l’ingresso nell’Unione (sempre che la Turchia dopo tanti schiaffi lo desideri ancora), il processo intenta-

ca sufficiente per una concorrenza interna all’Unione. Criteri ineccepibili: quelli economici sono misurabili, quelli umanitari osservabili, quelli per le minoranze regolamentabili. Ma che dire per il “sistema democratico”? Davvero i parametri sono uguali per tutti? Chi si arroga il diritto di decidere quanto e in quale misura, riferendosi ovviamente alle condizioni interne del Paese, il vicino di casa è abbastanza democratico? All’inizio Erdogan, pieno di entusiasmo, si era affannato a spiegare che la pena di morte era stata abolita, che il codice penale, dopo la riforma, non è dissimile da quelli europei, che i diritti dei Curdi – comunisti del Pkk a parte - sono ormai garantiti e che perfino i militari sono ora sufficientemente sotto il controllo dell’Autorità politica. Ma Erdogan, allora, non aveva ancora fatto lo “scivolone” rivelatore sulla buccia di banana del velo islamico, anche se era già stato oggetto delle attenzioni della Corte. Alla fine, non importa se in regime islamico moderato, di tutela dei militari o da parte della suprema Corte, molti turchi hanno da tempo perso ogni spinta per l’ingresso nella Ue. Con Eduardo, potrebbero già essersi accorti che per loro gli esami non finiscono mai.

L’Ue potrebbe sanzionare Il Paese per la messa al bando del partito

E Sarkozy (forse) non aspetta altro di Ilaria Ierep resce la tensione in Turchia. La Corte Costituzionale sta per esprimersi e questa attesa tiene in sospeso un intero Paese, lacerato e diviso in due fronti contrapposti: uno laico ed uno islamico, sull’orlo di uno scontro frontale. La situazione interna si è ulteriormente complicata in seguito a una campagna di arresti di personaggi di spicco, appartenenti agli ambienti militari e non solo, accusati di pianificare un colpo di Stato. E i mercati finanziari sono in allarme. Il valore delle azioni alla borsa di Istanbul è crollato al livello più basso dal marzo scorso, mentre la lira turca si è pesantemente indebolita di fronte all’euro e ad altre valute. Le conseguenze innescate da questo meccanismo sull’esterno saranno importanti. Il primo riflesso colpirà sicuramente le relazioni che la Turchia sta faticosamente costruendo con l’Unione Europea, ovvero il processo di adesione di Ankara alla Ue. La questione è chiara per Bruxelles: non rientra negli “standard democratici”generalmente riconosciuti che un tribunale metta un partito fuorilegge, scavalcando una qualsiasi discussione in Parlamento o una consultazione popolare. Se, come da previsione, arriverà il via libera alla dichiarazione di incostituzionalità dell’Akp, l’Europa potrebbe realmente sanzionare questa decisione come una violazione delle regole democratiche e, di conseguenza, innalzare un muro davanti ai negoziati di adesione. In questo modo verrebbero accontentati tutti i Paesi da sempre contrari all’ingresso della Turchia in Europa.

C

In primis, Francia, Grecia, Austria e Cipro. Uno dei rischi maggiori è proprio la degenerazione delle fratture interne tra i Paesi membri dell’Ue sulla questione. Basti citare il beneplacito dell’Italia e la levata anti-turca verificatasi nella Cdu tedesca. Si tratterebbe, quindi, di alimentare il fuoco di una situazione istituzionale comunitaria già abbastanza incandescente dopo le fallimentari bocciature al Trattato di Lisbona degli ultimi mesi. In questo contesto, un ruolo di prima linea lo sta giocando la Francia e il suo progetto di Unione del Mediterraneo. Il sistema inaugurato il 13 luglio a Parigi ha però lasciato poco spazio a qualsiasi reale consultazione con i partner arabi e turchi, verso cui è stata rilanciata l’ancora del dialogo e della cooperazione. Questo approccio ha portato molti, all’interno dei Paesi della sponda Sud, a dubitare della sincerità dei partner europei. Ad Ankara il progetto è stato percepito proprio come una tat-

tica francese per tenere la Turchia fuori dall’Unione Europea. Malgrado anni di adeguamento alle norme comunitarie, la Turchia sta ancora aspettando un posto nell’Europa politica. L’impressione è che oggi Sarkozy voglia chiuderle definitivamente la porta in faccia e aprire - contemporaneamente - la“finestra”dell’Unione Mediterranea.

L’estate in corso sta segnando un momento molto delicato nelle relazioni bilaterali tra Bruxelles e Ankara. Lo scenario di breve-medio periodo è che i rapporti euro-turchi entreranno in una fase di criticità.Tuttavia, si tratterebbe di una condizione di transizione. La situazione è fluida e i fattori in gioco sono numerosi. Non va dimenticato che l’Europa ha bisogno della Turchia, soprattutto da un punto di vista economico. Energia è la parola chiave. L’oleodotto che ogni giorno, attraverso il territorio turco, trasporta un milione di litri di petrolio dal Caucaso al Mediterraneo è stato convertito in un corridoio energetico che permette all’Europa di poter dipendere sempre meno dalla Russia e dai Paesi del Golfo. Il premier Erdogan lo sa e ha tutte le ragioni per giocarsi questa carta a suo favore. Ma la vera partita ora si deciderà sul tavolo delle istituzioni. Dalla chiusura o meno dell’Akp dipenderà la stabilità interna e internazionale del governo di Ankara. Il rischio più immediato è quello di uno scontro istituzionale frontale in Turchia tra i nazionalisti laici e gli islamisti radicali. Rimane poi il pericolo che si giunga a un’estremizzazione della questione all’interno dei Paesi europei. L’attesa sentenza della Corte Costituzionale contro il partito islamico e il possibile allontanamento, seppur non definitivo, della Turchia dall’Unione Europea potrebbero incidere negativamente sulla politica interna dei Paesi europei, già attualmente divisi tra prospettive divergenti riguardo alla gestione dei rapporti con il mondo islamico. L’Italia in questo rappresenta un esempio: se da una parte il governo sostiene l’ingresso della Turchia in Europa, la Lega fa dell’opposizione ad Ankara un elemento fondante della sua identità. Se soprattutto i governi di Parigi e Berlino tratteranno con Ankara dalla forte posizione contrattuale in cui si trovano, potranno coordinare un’azione politica volta a fare della Turchia non un elemento di destabilizzazione, ma un tassello fondamentale dell’Unione Europea. Analista Ce.S.I.


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speciale esteri ethullah Gülen, religioso islamico di ideologia sufi ed animatore di uno dei movimenti culturali più noti del mondo turco, è pressappoco uno sconosciuto per la maggior parte della comunità internazionale. Eppure, il suo destino potrebbe ricalcare quello dell’ayatollah Khomeini, che ha sfondato il muro della Storia uscendo da una coltre di anonimato per ridurre l’Iran ad una delle teocrazie più repressive del mondo intero. Nato nel 1941 in un villaggio dell’Anatolia orientale, Gülen entra nel ministero per gli Affari religiosi di Ankara con la qualifica di imam (che in Turchia è pari ad un funzionario statale) e vi rimane fino al 1981. In un sondaggio condotto alcune settimane fa da Foreign Policy e da Prospect si colloca al primo posto fra gli intellettuali più apprezzati del mondo intero. Moltissimi fra accademici e giornalisti interessati all’area turca lo ritengono un moderato e ne applaudono la sua lettura della teologia islamica – definita “moderata e modernizzatrice” – ed il suo atteggiamento europeista. Nel 2003, l’Università del Texas lo ha definito “un eroe della pace”e lo ha paragonato a Martin Luther King jr, il Mahatma Gandhi ed il Dalai Lama. Nell’ottobre scorso, la Camera dei Lord di Londra si è riunita per ascoltare una sua conferenza, cui ha partecipato il meglio dell’intellighenzia britannica.

Occidente dell’islam che ritengono la scienza e le conquiste sociali come il naturale progredire dell’essere umano. Al di là del suo presunto impegno politico, il suo operato si snoda nell’ambito filosofico ed intellettuale, con un evidente sforzo teso a conciliare scienza e fede, islam e modernità. Alcuni definiscono la sua religione “islam light”, per distanziarlo dal fondamentalismo mantendo ancorata la tradizione religiosa, che diventa ogni giorno di più il nuovo collante della Turchia.

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Eppure, il suo movimento e la sua esperienza politico-religiosa presentano alcune ombre di considerevole spessore. Nel 1973, la Corte per la sicurezza statale di Izmir lo ha condannato per “aver cercato di distruggere il sistema statale ed aver cercato di instaurare un nuovo ordine basato sulla religione”. I suoi buoni rapporti con il governo centrale, e soprattutto la turbolenza politica che ha agitato la Turchia sino alla metà degli anni ’90, gli sono valsi un perdono ufficiale. Tuttavia, Gülen non ha ritenuto necessario moderare i toni e, nel 1998, ha invitato i suoi seguaci a “lavorare con pazienza per prendere il controllo dello Stato”, facendo riferimento inoltre al Fronte islamico per la salvezza algerino, che nel 1991 prese il potere arrivando allo scontro diretto con i militari. Alla luce di queste dichiarazioni, definite dalla stampa laica delle “minacce neanche troppo velate”, i giudici turchi lo hanno ritenuto colpevole di voler minare le fondamenta dello Stato e di camuffare i suoi veri scopi sotto il manto della democrazia e della moderazione. Condannato in absentia, si è ri-

Biografia ragionata del teologo islamico più famoso (e pericoloso) della Turchia

Fethullah Gülen, un nuovo Khomeini? di Vincenzo Faccioli Pintozzi tirato in un esilio dorato a Philadelphia, da dove continua indisturbato a guidare la sua potentissima organizzazione: il Rumi Forum, di cui è presidente onorario ed amministratore unico.

Questo Forum, dicono fonti ufficiali del governo turco, controlla istituti caritatevoli e società immobiliari, compagnie di investimento e circa mille scuole private. Queste si trovano principalmente in Turchia, ma sono rintracciabili anche nelle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, in Afri-

ca, Cina e Stati Uniti. Fondamentale poi il controllo dei media: in maniera più o meno diretta, Gülen controlla radio private, settimanali di informazione religiosa per i turchi all’estero, e soprattutto l’influente Zaman, il quotidiano che detta la linea ai seguaci del movimento, stimati in cinque milioni. Di questi, almeno un milione vive in patria. Molti dei suoi seguaci vengono dalla borghesia turca, che concilia in questo modo il sostegno politico al Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) del premier Erdogan – noto invece per il suo

populismo – e la fede nell’islam, contestato dai militari e ritenuto “a rischio” dalle frange più religiose del Paese. Sarebbe tuttavia ingiusto dipingere Gülen come un leader estremista. Questa visione è sostenuta più che altro dall’ala più intransigente dei neo-con statunitensi, che temono il seguito popolare ed il grande carisma dell’intellettuale ospite nel loro territorio. Sono moltissimi infatti gli esperti dell’ex Impero ottomano che ritengono l’intellettuale “la faccia moderna della tradizione sufi”, uno dei pochissimi ideologi

Oltre le accuse di estremismo, dall’esilio in Usa guida un Forum dedito ai poveri ed agli orfani

Carità e scienza le ”missioni ufficiali” Nato nel 1941 in un piccolo villaggio presso Erzurum, Fethullah Gülen ha dedicato la sua vita alla restaurazione della tradizione sufi nell’islam turco, che considera l’eredità più importante dell’Impero ottomano. Dopo 22 anni come imam al servizio del governo, ha lasciato il Paese per un esilio dorato negli Usa, da dove guida il Rumi Forum, una delle macchine organizzative più potenti della Turchia. Considerato un sostenitore dell’Akp, cerca di modernizzare

l’islam tramite un inedito connubio fra il Corano e la scienza. Dotato di un carisma fuori dal comune, è guardato con sospetto dalla destra statunitense, che lo ritiene un potenziale nuovo Khomeini. Sul suo sito ufficiale, Gülen dichiara di voler lavorare per la pace e l’umanità. Il Rumi lancia periodicamente borse di studio per i poveri e segue da vicino gli orfani del conflitto in Bosnia. Autore di circa 60 testi, Gülen vanta un patrimonio personale imponente.

In una lezione rimasta nella storia della teologia islamica contemporanea – che ha scatenato polemiche e rimbrotti da parte di Arabia Saudita ed Iran – Gülen ha dichiarato che “non si può trovare tutto nel Corano. Per capire la scienza serve la scienza, anche se questa è un realtà perennemente provvisoria e quindi mendace per natura. Tuttavia, chi effettua ricerche su fisica e biologia si avvicina alla verità coranica, all’esistenza del Creatore”. In un certo senso, una rivoluzione copernicana nel modo di intendere il libro sacro dei musulmani. Eppure, le ombre sulla sua onestà intellettuale e sul suo totale disinteresse politico rimangono. Dalla metà degli anni ’90, infatti, la potente macchina guidata da Gülen ha iniziato ad esprimere con forza il suo appoggio all’Akp. Incoraggiati dall’intellettuale, i vertici governativi hanno smorzato il radicalismo islamico con cui sono arrivati al potere, lanciato un dialogo interno sui diritti umani e abbandonato il progetto di introdurre la sharia, la famigerata legge islamica, nell’ex Califfato. La ricompensa per questa fruttuosa partnership è stato però il condono totale delle condanne pendenti sul capo di Gülen, che ora viene invitato con regolarità a rientrare in patria per prendere in mano la sua organizzazione e creare un nuovo ordine intellettuale nella moderna Turchia. Ed è questo, dicono gli analisti, il capitolo più atteso della biografia sul controverso leader islamico: cosa succederà quando le ruote del suo aereo toccheranno di nuovo la madrepatria. Il ricordo di Khomeini che rientra a Teheran nel 1979, accolto da ali di folla e da articoli di giornalisti occidentali entusiasti del nuovo “profeta illuminato” della Persia, non è così lontano da essere sbiadito. Una sua replica su suolo ottomano allontanerebbe per sempre la Turchia dall’Unione Europea, avvicinando però in maniera pericolosissima il territorio europeo al fondamentalismo islamico.


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Un popolo senza patria di almeno 20 milioni di persone (12 nella sola Turchia) aspetta il verdetto

Un ritorno al kemalismo rafforza i curdi di Carlo G. Cereti l persistere di un movimento indipendentista curdo e del profondo radicamento del sentimento loro identitario, non può essere ridotto al fenomeno terroristico. Al contrario, si tratta di uno dei tanti problemi irrisolti che caratterizzano le aree dell’ex Impero Ottomano divise al termine della prima guerra mondiale. All’epoca dell’Impero, i curdi rappresentavano una delle tante nazioni (millet) del mondo ottomano. Alla fine della Grande Guerra, per un breve periodo, è parso possibile creare uno stato per i curdi nei territori del vilayat ottomano di Mosul, ma questo non si è potuto realizzare anche per l’opposizione del movimento kemalista, impegnato nel nobile sforzo di creare una nazione turca, laica e volta all’Europa. L’importanza che Ataturk ha dato all’identità etnica della nazione ha portato, come conseguenza quasi necessaria, ad uno stato di conflittualità con i curdi, che videro in pericolo la loro stessa identità. Questo rimane vero ancor oggi, sebbene vi siano state aperture, ed oggi la situazione sia un po’ migliorata.

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Benché il partito islamico oggi al potere in Turchia sia meno legato alla dottrina di Ataturk e, almeno in teoria, ogni musulmano sia eguale davanti a Dio ed alla comunità dei fedeli, la politica di di-

scriminazione nei confronti dei curdi è rimasta, ma questo è dovuto non tanto, o non solo, ad un nazionalismo troppo acceso, ma soprattutto all’esistenza ed alle attività di gruppi di terroristi riconducibili al Pkk che fu di Ocalan. L’ultimo episodio, l’invio dell’esercito in Kurdistan, dove ha condotto una campagna tesa a stanare i combattenti curdi che, avendo le loro basi nelle montagne di Qandil nel Kurdistan iraqeno, guidavano azioni violente in Turchia ha, però, anche ragioni di politica interna. Infatti, oltre all’obiettivo militare dichiarato, Erdogan aveva in mente altro quando ha dato il via all’azione militare. La sua intenzione era quella di rassicurare l’esercito, che ancora oggi rappresenta, insieme al potere giudiziario, la spina dorsale del movimento laico in Turchia, della lealtà, sua e dell’Apk, ai capisaldi della dottrina kemalista. D’altronde, un esercito impegnato in una campagna nell’estremo

libri e riviste

ibro di un paio d’anni fa, vincitore di numerosi premi, è la prova che ci sono state delle «prediche inutili» anche oltre Atlantico. La dimostrazione che i problemi di un’economia senza regole, che oggi vengono al pettine, erano già stati individuati. Le ragioni profonde della crisi viste da un insider. L’autore è stato amministratore di un importante mutual fund e aveva lanciato l’allarme, nelle more del caso Enron, sulla necessità di riforme del mercato dei capitali e della corporate governance. Alla base il degrado morale che ha investito gli operatori economici, che hanno messo l’interesse personale davanti a quello delle aziende e dei clienti. Uno scenario di conflitto continuo per il controllo del sistema, dove regole e strumenti

L

non funzionano perché il meccanismo cambia continuamente. Bogle sottolinea una contraddizione inaccettabile. Oggi la maggior fonte di liquidità per il sistema finanziario sono gli stipendiati, i pensionati e i piccoli risparmiatori, mentre, a fronte di questa «democratizzazione del capitale», i guadagni e il benessere prendono altre strade. Un analisi considerata da molti esperti del settore come la migliore su quella che definiscono la «bubble era». John C. Bogle The battle for the soul of capitalism Yale university press 288 pagine – 16 dollari

oriente dell’Anatolia autorizzata dal Premier e dal Parlamento è, fatalmente, un esercito meno attento alla politica nazionale. Chiunque s’interessi di Medio Oriente sa che oggi il popolo curdo rappresenta la più grande etnia priva di una patria. Consistenti minoranze curde esistono in Turchia, in Iraq, in Iran, mentre gruppi meno numerosi sono presenti in Siria ed Armenia, senza contare la diaspora, particolarmente numerosa, per limitarci alle nazioni europee, in Svezia e Germania.

È difficile stimare con esattezza quanti siano i curdi in totale, ma difficilmente si può pensare ad un numero inferiore ai 20 milioni. In particolare in Turchia si contano circa 12 milioni di curdi, presenti soprattutto nell’Anatolia orientale, dove mantengono tuttora un forte senso d’identità etnica. Nessuno può ignorare che in anni recenti, in modo particolare dopo la caduta di Saddam Hussein, i curdi hanno assunto un’importanza, politica e strategica che prima non avevano. La nascita del Kurdish Regional Government (Krg) nelle province settentrionali dell’Iraq ha dato loro una rappresentanza istituzionale unitaria, caratterizzata dalla prudente guida del Presidente dell’Iraq Jalal Talabani (Upk) e di Masud Barzani (nella foto), presidente della regione del Kurdistan Iraqeno, entrambi concordi nel rifiu-

nalisi senza sconti all’America, fatta da chi non ama i repubblicani. Nostalgie per Fraklin Delano Roosevelt e il New Deal, che aveva portato il Paese fuori dalle secche della Grande depressione. Fdr esprimeva bene - scrive Krugman - l’incarnazione del ceto medio a scapito dei grandi capitali. Con una politica redistributiva nello stile del liberalismo americano. Gli anni Settanta sono individuati come il periodo del peccato originale padre dell’attuale situazione, con la destra al timone dei rep. Si torna a parlare di reti di sicurezza sociale e di keynesismo. Paul Krugman La coscienza di un liberal Laterza – 308 pagine - 18 euro

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tare ogni ipotesi di divisione dell’Iraq, ma unanimi nella richiesta di uno stato federale dove i curdi possano difendere la loro identità. Grazie alla loro opera, e al sostegno degli Usa, il Kurdistan iraqeno è oggi l’unica area dell’Iraq ad essere effettivamente pacificata. Alcuni ambienti americani, poi, immaginano che i curdi iraniani possano rappresentare uno strumento di pressione nei confronti del governo della Repubblica islamica.

Proprio per queste ragioni, oggi, quando la Corte costituzionale si appresta ad emettere il suo giudizio sulla legittimità dell’Apk, il partito del premier Tayyip Erdogan, è necessario interrogarsi su quello che potrà essere, nell’eventuale nuovo quadro politico, il futuro dei rapporti tra la Turchia e la regione curda dell’Iraq. E di conseguenza il destino dei curdi in Turchia. Benché il ritorno ad uno stato più compiutamente kemalista possa far temere un peggioramento delle relazioni, vi sono vari motivi per pensare ad un’evoluzione più positiva. Il primo è il dato economico: gran parte delle imprese presenti nelle province di Erbil, Sulaimaniya e Dohuk sono turche. Il secondo è relativo alla protezione sino ad oggi accordata dagli Usa ai curdi d’Iraq. È ragionevole pensare che una Turchia più saldamente laica rafforzi i suoi legami con gli Stati Uniti e con la Nato, cosa che potrebbe condurre a rapporti più distesi con il Krg. Il terzo è la giusta aspirazione della Turchia ad entrare in Europa: come partner comunitario la Turchia sarebbe tenuta ad un maggior rispetto dei diritti delle sue minoranze. Tutto questo fa ben sperare, ed una soluzione dell’annoso problema curdo sarebbe certo un buon viatico per la pace nella regione.

er la prima volta nella storia un sistema economico veramente globale ha preso forma», con queste parole comincia l’articolo del guru della diplomazia mondiale. Sembrerebbe una sviolinata, ma non lo è. «Allo stesso tempo – paradossalmente – il processo di globalizzazione istiga un nazionalismo che minaccia il suo compimento». È l’analisi in chiaroscuro fatta da un “realista” della politica internazionale, padre dell’apertura a Pechino negli anni Settanta e del “possibilismo” verso la Russia di Putin. Henry A. Kissinger Globalization and its discontents The International Herald Tribune May 28 2008

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a cura di Pierre Chiartano


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economia In basso, da sinistra, i leader della Cgil, Guglielmo Epifani, della Cisl, Raffaele Bonanni, e della Uil, Luigi Angeletti. Domani riprenderà il tavolo di trattative con Confindustria sulla riforma dei contratti, ma il sindacato di via Po e quello di via Lucullo non vogliono perdere altro tempo per i continui paletti posti ad hoc da corso d’Italia

Alla segreteria unitaria di oggi Bonanni e Angeletti sono pronti a prendere le distanze da Epifani sulla riforma dei contratti

Contratti,ultimatum di Cisl e Uil alla Cgil di Vincenzo Bacarani

ROMA. Cisl e Uil non ci stanno e oggi, nel corso della segreteria unitaria con la Cgil, faranno sentire la loro voce abbandonando i tatticismi del passato. Lo “strappo” di Guglielmo Epifani sulla trattativa per la riforma contrattuale in corso con Confindustria non è stato gradito né da Raffaele Bonanni né da Luigi Angeletti.

Corso d’Italia ritiene che non ci sia la necessità di una nostop della trattativa per arrivare a un accordo con gli industriali entro il 30 settembre. E di conseguenza finisce ancora una volta per prendere tempo. Una presa di posizione che sta creando non pochi problemi a un confronto tra le parti di per sé niente affatto facile che riprenderà domani, salvo colpi di scena dell’ultima ora. «Il problema è capire se c’è la voglia di fare l’accordo oppure no», dice a liberal il leader della Cisl, «Spero che prevalgano il buon senso e la buona volontà». Una buona volontà che, secondo Bonanni, «ha dimostrato proprio la Confindustria». Per aggiungere: «La Cgil ci dica che cosa intende fare». L’obiettivo della Cisl è chiudere la partita sull’inflazione cosiddetta realisticamente prevedibile entro la fine di questo mese per poi affrontare l’altro spinoso tema dei confini della contrattazione di secondo livello subito dopo le ferie, in modo presentarsi al confronto sulla Finanziaria con il governo in una posizione di forza. Sull’inflazione programmata o realisticamente prevedibile c’è

già un balletto delle cifre: per il governo la base è l’1,7 per cento previsto nel Dpef, per Confindustria è il 2 per cento e per i sindacati si deve invece arrivare al 2,5. Distanza non abissale quella tra imprenditori e sigle. Ma al governo il leader Cisl chiede una cosa in particolare: «Se l’esecutivo», spiega, «vuole dare un senso alla propria funzione, deve entrare nel merito dei problemi». Altrettanto precisa la posizione della Uil. «Non possiamo perdere altro tempo», afferma il segretario confederale Paolo Pirani , «se vogliamo raggiungere l’accordo entro la fine di settembre. Ci attende anche un confronto con il governo sulla Finanziaria e occorre che andiamo a questo tavolo in una posizione di vantaggio con una proposta unitaria». Una posizione di vantaggio che, secondo Pirani, avrebbe maggiore valore dopo il rag-

ripercorrere la strada del cosiddetto Patto per l’Italia del 2002, quando la Cgil di Cofferati si rifiutò di sottoscriverlo a differenza di Cisl e Uil. L’accordo riguardava il fisco, il lavoro e il Mezzogiorno e che, soprattutto, prevedeva la sospensione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per tre

I leader di via Po e via Lucullo sono favorevoli a iniziare trattative non stop con Confindustria per trovare un’intesa sull’inflazione già a luglio. Corso d’Italia dovrà fare i conti con accordo separato? giungimento di un accordo con le imprese sulla riforma contrattuale. Altrimenti? «Altrimenti», paventa, «rischiamo davvero la frammentazione». Del resto lo stesso leader della Uil, Luigi Angeletti, aveva già ribadito l’intenzione di andare avanti comunque per chiudere definitivamente la partita della contrattazione dopo le ferie. Una situazione che rischia di

anni per quelle imprese che avessero proceduto ad assunzioni a tempo indeterminato. Un passo, quest’ultimo, che la Cgil vedeva come l’anticamera alla libertà di licenziamento da parte degli imprenditori.

All’orizzonte si profila dunque un altro accordo separato? La Cgil lo esclude, così come esclude che questa ultima pre-

sa di posizione sulla trattativa con Confindustria possa ricondursi in qualche modo allo strappo avvenuto nella categoria commercio, dove il rinnovo contrattuale è stato firmato soltanto dalle organizzazioni di categoria di Cisl e Uil e rifiutato da corso d’Italia. Su questo punto il segretario confederale Fabrizio Solari (della componente riformista) ha ribadito che la firma separata sul contratto del commercio non inciderà in alcun modo su altre trattative in corso. Ma il timore di un’altro conflitto tra le tre confederazioni rimane, anche perché proprio oggi, in concomitanza con la segreteria unitaria, si svolgerà una manifestazione nazionale della minoranza di sinistra della Cgil per contestare il testo ufficiale della segreteria di Epifani sulle contrattazioni di primo e di secondo livello. A guidare la protesta ci saranno la Fiom, l’organizzazione dei metalmeccanici guidata da

Gianni Rinaldini, le componenti di Lavoro e Società (che fa capo a Nicola Nicolosi) e la Rete 28 aprile (che fa riferimento a Giorgio Cremaschi), più alcuni dissidenti sciolti messi all’angolo da Epifani, nel corso del discusso rimpasto che ha effettuato in segretaria nazionale. Un buon 30-35 per cento che potrebbe incidere sulla decisione finale del segretario generale. E comunque una minoranza di cui Epifani non può non tenere conto. A complicare la situazione c’è il fronte del pubblico impiego. Martedì prossimo ci sarà un incontro all’Aran con i sindacati che sono già sul piede di guerra dopo le ultime uscite del ministro Renato Brunetta.

Secondo la Cgil, tra tagli alle retribuzioni e blocco del turnover, la manovra del governo peserà sui lavoratori pubblici e sulle pubbliche amministrazioni per più di 3 miliardi. «Dopo tutto quello che si è sentito sulla manovra del ministro Tremonti», dice Michele Gentile, della Cgil nazionale, «è necessario fare chiarezza». Chiarezza che chiede anche la Cisl, secondo cui il rinnovo dei contratti non fa registrare passi in avanti «a causa», spiega il segretario della Funzione Pubblica, Rino Tarelli, «della scarsità delle risorse messe a disposizione dal governo». Intanto gli autonomi (cioè Rappresentanze di base e Confederazione unitaria di base) hanno proclamato i primi scioperi: si parte con due ore il 31 luglio con manifestazione nazionale a Roma.


economia

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Il colosso inglese riduce al ribasso le stime dei ricavi per il 2008 e penalizza tutti i titoli del settore (-7,3 per cento)

Tlc,Vodafone fa da apripista alla crisi di Alessandro D’Amato

d i a r i o ROMA. Il la è arrivato da Vodafone. La compagnia di telefonia mobile inglese ha rivisto al ribasso le sue previsioni sul fatturato annuale, sulla scia dell’indebolimento dell’economia e di specifiche pressioni provenienti dal mercato spagnolo. A Londra il titolo è arrivato a perdere oltre il 17 per cento, ridotto poi in chiusura a un -13, ma comunque la maggior flessione negli ultimi vent’anni. Il gruppo ha ridotto le stime sui ricavi, che dovrebbero attestarsi nella parte bassa della forchetta compresa tra 39,8 e 40,7 miliardi di sterline, annunciata nei mesi scorsi. Ai mercati non è bastato il cambio della guardia dal timone del gruppo – e annunciato da tempo – tra l’attuale Ceo Arun Sarin e il vicepresidente Vittorio Colao. alla fine hanno pesato i conti e l’effetto si è fatto sentire dappertutto, anche in Italia dove Telecom che a Piazza Affari segna un calo del -4,5 per cento a 1,20 euro ad azione. Il gruppo di tlc perde quota e si avvicina di nuovo al minimo storico. Anche in Italia la multinazionale inglese delle tlc ha chiuso il trimestre con ricavi sostanzialmente piatti (+0,6 per cento), segno di un mercato stagnante. L’effetto è talmente forte che si trascina dietro le Borse deboli. L’indice Dj Stoxx 600, che sintetizza l’andamento delle principali Borse del Vecchio Continente, perde lo 0,52 per cento (con Londra in negativo dello 0,74. A fiaccare i mercati, oltre al panic selling scatenato sulle tlc (-7,3 per cento l’indice Dj Stoxx di settore), contribuiscono anche i tecnologici (-4,10), dopo le previsioni di utile inferiori alle attese di Texas Instruments e Apple, e ora anche le banche (-4,1).

g i o r n o

Eni, scoperto giacimento di gas in Sicilia È stato scoperto da Eni ed Edison un nuovo giacimento di gas nel Canale di Sicilia, a circa 22 chilometro dalla costa di Agrigento a una profondità di circa 560 metri. Le riserve associate alla perforazione del pozzo sono stimate in 16 miliardi di metri cubi e il giacimento dovrebbe produrre 190.000 metri cubi di gas al giorno. I primi test, spiega in una nota dell’Eni, alla cui guida vi è l’ad Paolo Scaroni, «fanno ipotizzare portate produttive più significative che potranno essere ottenute durante la normale vita produttiva del campo».

Abi, crescita lenta per il Pil nel 2008

Per gli analisti la telefonia è un comparto maturo. Si prospetta una razionalizzazione, che potrebbe riguardare anche Telecom Italia

Ma perché crollano le società di tlc? Gli analisti puntano il dito su un settore ormai maturo, nel quale i grandi business – e i guadagni – sembrano terminati, a causa di una normale reazione di un mercato saturo. Soltanto quello italiano e quello tedesco resistono, ma sono considerati un’eccezione. Il primo per l’alta passione per i telefonini, l’altro in quanto ancora “chiuso”, e quindi remunerativo per chi c’è dentro. Cosa resta, strategicamente parlando? Lo si dice sottovoce: la razionalizzazione, ovvero le fusioni tra grandi compagnie. E tutte le ipotesi sembrano convergere sul pesce che sembra più appetitoso, in quanto oggi “a sconto”: proprio Telecom Italia. La compagnia ha un baluardo contro ogni appetito

d e l

nell’alleato spagnolo Telefonica, oggi suo maggiore azionista relativo. A meno che non sia Alierta a provare l’affondo. Ipotesi complessa oggi visto le incertezze sul destino della rete e i contraccolpi che una simile (e costosa) operazione porterebbe su una realtà che ha 46 miliardi di debiti. Quindi questi fattori sconsiglierebbero di seguire questa strategia. Prudenza, innanzitutto visti i conti non così allegri.

Altro candidato in un potenziale risiko potrebbe essere quella Vodafone che ieri ha presentato conti non proprio soddisfacente. Perché si può crescere in due modi: o vendendo il proprio prodotto, oppure acquisendo aziende più piccole. Colao, manager di scuola McKinsey, avrebbe l’expertise per condurre un’operazione difficile soprattutto per le reazioni che potrebbe suscitare in Italia, sia nell’economia sia nella politica. In questo scenario però ci sono da raccontare anche le difficoltà di Franco Bernabè. Il quale deve barcamenarsi tra un piano industriale che secondo almeno uno dei suoi azionisti – Marco Fossati – è inadeguato, e finora non ha certo brillato per originalità di iniziativa e per la realizzazione (il mercato tedesco, dove si predicava un’espansione, dov’è finito?). È per questo che si annuncia un nuovo piano del management, che però dovrebbe venire fuori verso novembre e non – come vorrebbe Fossati – ai primi di agosto, in occasione degli appuntamenti ufficiali. Anche perché questo costituirebbe, indirettamente, un piegare il capo nei confronti di un azionista riottoso che ha deciso di dire a mezzo stampa e non negli organi preposti. E c’è chi pensa che il cosiddetto “piano alternativo”sia soltanto un modo per tenere sulla graticola l’attuale management. Comunque l’alternativa ai piani di Bernabè prevederebbe, stando alle anticipazioni, «integrazione con società di media che producono contenuti (tra cui anche Mediaset?), ingresso nella domotica, sviluppo della telemedicina». Un po’ poco, per parlare di svolta. In più, a livello sindacale, si teme che i 5mila esuberi annunciati dai vertici della società possono triplicarsi. In prospettiva del Cda dell’8 agosto, si annuncia l’ennesima estate calda di Telecom. Una compagnia ancora una volta alla disperata ricerca di un padrone.

Crescita lenta per l’economia italiana, nel quadro di una congiuntura internazionale ancora difficile, ma con qualche segnale positivo per il futuro. È questa la previsione del mondo del credito e della finanza, contenuta nell’Afo financial outlook, presentato ieri dall’Abi. Secondo le stime del centro studi Abi e delle principali banche italiane, infatti, il Pil nazionale dovrebbe crescere dello 0,5 per cento quest’anno, decisamente meno dell’anno scorso (+1,5 per cento). Nel prossimo biennio, però, dovrebbe esserci una leggera ripartenza, su quota +0,9 per cento nel 2009 e +1,4 per cento nel 2010.

Alitalia-Malpensa: Sea vince primo round Prima pronuncia pro Malpensa nella battaglia legale intrapresa da Sea, guidata dal presidente Giuseppe Bonomi, contro Alitalia dopo la decisione di abbandonare lo scalo milanese. Il tribunale civile di Busto Arsizio ha respinto alcune eccezioni sollevate da Alitalia, tra cui quella di competenza e quella di nullità dell’atto di citazione sollevato dalla compagnia di bandiera che accusava di indeterminatezza le domande avanzate da Sea e ha ritenuto infondata l’eccezione di difetto di legittimazione di Sea e Sea Handling ad agire.

Italease: smentito accordo a breve con Dz Banca Italease conferma la decisione di avviare trattative in esclusiva con Vr Leasing (gruppo Dz Bank) in vista di una joint venture in settori specifici, come factoring e leasing da canale bancario e diretto. L’istituto precisa però che «tale operazione allo stato non prevede l’ingresso di società del gruppo Dz direttamente nel capitale di Italease». L’analisi di fattibilità del progetto è prevista completarsi a inizio settembre.

Salvataggio Freddie Mac costerà 25 mld Il salvataggio dei due big Usa dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, costerà ai contribuenti americani «25 miliardi di dollari negli esercizi fiscali 2009 e 2010», lo scrive la Cbo, la commissione bilancio del Congresso Usa, che ha esaminato il piano di salvataggio del segretario al Tesoro Usa, Henry Paulson. Per la Commissione, c’è una probabilità del 50 per cento, «che le perdite future non eccedano quelle già dichiarate, ma quasi una chance del 5 per cento che le nuove perdite raggiungano quota 100 miliardi di dollari».

Ue: boom delle frodi sui fondi strutturali Molte le irregolarità riscontrate nell’utilizzo dei fondi strutturali, quelli destinati dall’Unione europea alle regioni per lo sviluppo. È quanto emerge dalle notifiche nel 2007 alla Commissione europea che ieri ha pubblicato un rapporto sulla lotta alla frode. Il numero delle irregolarità segnalate riguardanti i fondi strutturali e quelli di coesione sono aumentate nel 2007 del 19,2 per cento, passando da 3.216 a 3.832 con un impatto finanziario stimati pari a 828 milioni di euro e una crescita del 17,7 per cento.


polemiche E la chiamano libertà religiosa...

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Diversi articoli sui media pretendono che i cattolici limitino il proprio raggio d’azione sui temi etici

ironia della Provvidenza non smetterà mai di stupire, una settimana da brividi. Massimo L.Salvadori, ottimo tra gli storici ‘censori’di ideologia socialista, da ricordarsi lo scambio di battute imbarazzanti che ebbe in diretta tv nel salotto di Vespa con Giampaolo Pansa, sette giorni orsono ha esaltato il modello Zapatero e sottolineato a suo dire i problemi della Chiesa con la laicità. Tempo fa era lo stesso Salvadori a ricordarci che il socialismo non avrebbe potuto scomparire dalla faccia della terra, e ora chiede che la ‘laicità’ lasci il posto al laicismo di marca iberica. Salvadori prende spunto dalle parole di cento anni orsono di Francesco Ruffini, docente a Torino a inizio ‘900 ed estimatore di Cavour e del suo ‘libera Chiesa in libero Stato’.Teorie che portarono alla confisca e scioglimento, quando non alla morte, di interi ordini religiosi.

L’

Mercoledì Salvadori riportava ampi brani del centenario autore e del suo saggio sulla ‘Libertà religiosa’:«Il vero concetto di libertà…può solamente esistere dove identiche concessioni si fanno a tutti», insomma uguale libertà. Questo sarebbe il punto sostenuto dalle nuove misure del senor ‘Z’ che la Chiesa contrasta e non capisce. Un messaggio liberale sarebbe quello nel quale lo Stato, dice Zapatero nel suo articolo a Repubblica del 7 luglio, «non consenta a che vi sia chi è più eguale degli altri». A questo inno della laicità e della libertà, la Chiesa opporrebbe, secondo Salvadori, «la posizione di fede…che la propria verità sia verità tout court…e l’idea che lo Stato debba avere un nucleo ‘etico’da espandere nella società». Per queste ‘ragioni’ alla Chiesa sarebbe vietato di confondere le acque con i propri appelli alla «tolleranza, pluralismo, valo-

di Luca Volontè rizzazione delle differenze» etc. Sempre da Torino, scopriamo nelle pagine de La Stampa, un difensore della Chiesa, di quella ambrosiana guidata da Tettamanzi e dai suoi collaboratori. Garelli, preside di Scienze politiche e sociologo da sempre in lotta con la Chiesa perché troppo dimentica delle emergenze sociali, si erge a difensore del successore pro tempore di Ambrogio. Sia chiaro, la diocesi di Ambrogio non è di Dionigi, come non era proprietà di Carlo Maria, tutti ne sono pastori. Tettamanzi parla dei problemi sociali, fa bene a insistere più su quelli che sui principi non negoziabili, come se le due cose potessero separarsi, male invece fanno ad accusare la sinistra cupola della diocesi milanese,

di Milano ed invece lo ha irriso. Lo sfidiamo a trovare un pontefice che non abbia accennato alla conseguenza dell’amore di Cristo, la testimonianza. Garelli, veloce come gli antichi scooter, ha dimenticato di leggere le prolusioni di Ruini e Bagnasco. Piuttosto sarebbe problematico giustificare la silenziosità del credente, «essere senza dire», visto che proprio della fede in Cristo e negli apostoli è l’annuncio della lieta novella. Tettamanzi si dedicherebbe (unico) all’impegno sociale e caritativo, invece nella Chiesa italiana ci sarebbe solo l’impegno verso la vita, la famiglia e la bioetica. Fosse così, Tettamanzi dovrebbe dimettersi, visto che i segni dei tempi nella società occidentale, vedono pro-

Tettamanzi parla dei problemi sociali ma i principi non negoziabili non possono essere taciuti. I nostri tempi sono segnati dagli attacchi alle radici cristiane: vita, vita umana e famiglia. coloro che lo criticano sull’islam, l’immigrazione, le soffuse parole su Eluana. «Tettamanzi è un vescovo aperto (gli altri son chiusi), indubbiamente allo spirito del Concilio (gli altri, compreso il Papa, non lo sarebbero) e al suo richiamo a leggere i segni dei tempi (di cui sono incapaci gli altri vescovi)…una sensibilità che l’ha spesso portato a ricordare a tutti l’importanza di una fede testimoniata con la vita…è meglio essere cristiano senza dirlo che proclamarlo senza esserlo».

Forse Garelli, da non confondere con il filosofo Giorello accanito anti cattolico e tuttavia pluri invitato a tenere lezioni e dibattiti nei seminari di diverse diocesi, voleva fare un piacere al cardinale

prio i maggiori attacchi alle fondamenta della stessa umanità e antropologia cristiana: vita, vita umana e famiglia. Dunque da Torino, la maggior parte delle firme postume all’appello contro la visita del Papa alla Sapienza vennero da lassù, viene un doppio attacco e male fanno a bearsi nella Curia milanese, della difesa di Garelli a Tettamanzi. La Chiesa dovrebbe accettare di essere ridotta a una qualunque setta, dove guardarsi dall’affermare la verità e, inoltre, dovrebbe occuparsi esclusivamente del sociale, non pensando però d’esserne monopolista. Una Chiesa ridotta a queste caratteristiche, non potrebbe essere né pre-conciliare, né post-conciliare. Semplicemente non sarebbe la Chiesa Catholica, ma una delle tante ‘onlus’ de-

dite al sociale. Forse questa chiesa potrà interessare il dottor Enzo Bianchi di Bose o il prof. Garelli di Torino, certo riceverà gli applausi da La Stampa e Repubblica. In taluni ambienti curiali, non solo a Milano, è ben vero che si è molto avanti in questo progetto (per pietà e amore della Chiesa evitiamo di citare fatti e persone) ma ciò non toglie che sia una strada ‘fuori porta’, che quanto meno confonde e disorienta i fedeli buoni e semplici cristiani.

Forse sarà inutile parlarne, dal momento che il mitico Mons. Ravasi (notissima la sua idea del 2002 sul Sole 24 ore della Resurrezione come semplice elevazione ed esaltazione, la Pasqua come non storica) è stato appunto ‘elevato’ alla Cultura Vaticana. E che dire infine dell’accoppiata, domenica 20 luglio Rodotà e lunedì 21 Prosperi su Repubblica? Una summa di evoluzionismo vetero giuridico, estraneo all’ordinamento italiano il primo e, il secondo, un soggetto sul diritto alla morte e il nuovo medioevo, tanto “obiettivo” dal voler pretendere non solo la chiusura della bocca di Eluana ma pure di tutti noi che vogliamo difendere la sua vita. Tacere? No, non possiamo più tacere le scempiaggini, non per arroganza, ma per nostra stessa costituzione personale. Io non potrei far altro, difendere e proporre ciò che mi sta più a cuore, dai laicisti sodali di Zapatero e dalle ‘dottrine casalinghe’ di taluni prelati, financo ai ‘pietosi del circolo della morte’: digiuni, preghiere e parole, opportune e inopportune. Pietro nel pascere le pecorelle aveva dodici e più guardiani, oggi quanti ne rimangono? «Affrontare la realtà!», ha detto il Papa nella Veglia di Radwick, noi umanamente lo seguiamo.


musica cco un artista da non perdere in questa lunga e calda estate dei tour. Americano della Florida, Eric Sardinas, il bluesman, che più di ogni altro è in grado di superare qualunque barriera formale della musica tradizionale nera, è in tourneé nel nostro Paese fino al 25 luglio (le ultime date sono il 23 a Trezzo Sull’Adda, Blues River Festival, il 24 a Savona, presso il Rumblin&Tumblin e il 25 a Brescia). Look aggressivo, quasi selvaggio, fisico asciutto, lunghi boccoli neri, cute disegnata da vistosi e pittoreschi tatoo, di cui uno enorme sulla schiena che egli ha suggestivamente denominato respect tradition, vestiario attillato, quasi sempre di pelle nera, è l’inventore di uno stile musicale inconfondibile che amplifica la sua presenza scenica, spettacolare e di grande impatto durante i suoi concerti. Probabilmente il personaggio non piace ai puristi ed ai cultori del blues tradizionale per l’irruenza e le forti contaminazioni rock del suo genere musicale. Non si può, tuttavia, non rimanere musicalmente ed emotivamente coinvolti dall’energia, dal feeling e dalla straordinaria tecnica chitarristica che caratterizzano le sue adrenaliniche esibizioni del vivo. Sardinas è in grado di esprimere un sound incisivo e dirompente, basato sull’utilizzo inusuale e trasgressivo del dobro, tradizionale chitarra acustica a cassa metallica, che usa con amplificazioni distorte da vero “metallaro”e con un uso magistrale e sopraffino del bottleneck.

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nas sono quattro, e tutti degni di nota. Nel 1999 debutta con il suo primo album, Treat Me Right, in cui miscela la tradizione a un virtuosismo basato sulla velocità e sull’uso di nuovi suoni, “terrorizzando”il panorama musicale di fine millennio con la sua dobro infuocata. Ritmi blues e country, virtuosismi acustici, voce roca e tantissima energia da trasmettere: lo stile di Eric diventa in breve tempo, unico e inconfondibile. Nel 2001 esce il secondo album Devil’s Train in cui dimostra una più ampia varietà di influenze e un mutamento generale del suo suono che lo rende più che mai autentico. Il terzo album, esce nel 2003, Black Pearls è un altro capitolo dell’evoluzione musicale di Eric, sempre rispettosa della tradizione ma al tempo stesso alla ricerca di nuovi suoni e energia.

E

Da questa miscela, ne scaturisce un sound rock-blues moderno e coinvolgente, dall’impatto sonoro talora devastante (specie nelle sue esibizioni dal vivo), ma profondamente improntato ed ispirato da una lunga frequentazione della più autentica tradizione del blues. I saldi legami con la scuola dei padri emergono più chiaramente nei “momenti acustici” dei suoi concerti, quando, spenti amplificatori e distorsori e con la sezione ritmica in pausa, emerge uno stile chitarristico rigoroso e tecnicamente esemplare. La formazione è quella classica del power trio nella quale viene attualmente supportato con grande efficacia da Patrick Caccia alla batteria e Levell Price al basso. Eric Sardinas nasce nel 1970 a Fort Lauderdale in Florida. A sei anni prende già in mano la sua prima chitarra, anche se mancino, impara a

L’artista americano è in tour in Italia fino al 25 luglio

Eric Sardinas blues allo stato puro di Valentina Gerace

Il suo sound è dirompente, basato sull’utilizzo inusuale e trasgressivo del dobro, tradizionale chitarra acustica a cassa metallica, che usa con amplificazioni distorte da vero “metallaro” suonare da destrorso. Ma questo, non solo non rappresenta un impedimento, anzi contribuisce a rendere il suo modo di suonare più incisivo e originale. Eric, il blues ce l’ha nel sangue e lo fa sentire. Lui stesso sostiene che il blues «è una forma musicale emotivamente pura. Se non parli col cuore esprimendo vere emozioni e se non sei onesto con te stesso, vieni scoperto». La sua ricca e articolata formazione musicale comprende tutto il filone della musica nera, in particolare, il blues del Delta del Mississipi, il blues rurale suonato con chitarra acustica ed ampio uso del bottlenecke, i cui mae-

stri sono Charly Patton, Son House, Robert Johnson, Bukka White, Fred McDowell. Ma non mancano le contaminazioni elettriche del sound di Chicago: John Lee Hooker, Howlin’Wolf, Muddy Waters e Albert King. Certo nel suo sound si riconosce anche il gospel, il “R&B” e il Rock’n’roll degli anni cinquanta e sessanta (Elvis Presley, Bo Diddley, Chuck Berry). Un’altra grande influenza, soprattutto sentendo il suono della sua chitarra, è data dal filone dei grandi chitarristi rock degli anni ’60 e ’70: Jimi Hendrix, Rory Gallagher e Johnny Winter in testa. I dischi ufficiali pubblicati da Eric Sardi-

Sardinas vive, interpreta e trasmette il blues in maniera diretta, istintiva e passionale, superando il rigore formale dello stile ma recuperando all’occorrenza la disciplina delle fonti originali. Chi assiste ad un suo concerto difficilmente rimane indifferente

Il disco è stato registrato e mixato nientemeno che da Eddie Kramer, il fonico di Jimi Hendrix, Led Zeppelin, Beatles e una miriade di gruppi-simbolo del sound rock anni ’70. Registrazione in analogico, niente pro-tools e artifici vari, tutto praticamente in presa diretta, forse il modo migliore per catturare la vera essenza di Eric. Il suo ultimo disco dal titolo Eric Sardinas & Big Motor, uscito nell’aprile del 2008, è un’altra prova, senza novità o variazioni di rilievo, del suo genere stilistico e del suo sound inconfondibile, supportato dai già citati ottimi compagni di strada Patrick Caccia e Levell Price. Ma dove sta l’originalità di un musicista come Sardinas in un’epoca in cui esiste un’infinità di band che, pur ispirandosi ai grandi maestri del blues, cercano di creare un proprio stile originale? Eric Sardinas, nella sua fusione di generi musicali, è riuscito, insieme a non molti altri, a svecchiare il solito canovaccio formale del blues attraverso una giusta dose di sana trasgressività, rivitalizzando un genere che, troppo compresso nei sui ristretti canoni storici e stilistici, rischia costantemente di scadere in un clichè musicale, senza anima e senza emozioni. Egli vive, interpreta e trasmette il blues ed il rock, rivitalizzato “a modo suo” in maniera diretta, istintiva e passionale, superando il rigore formale dello stile ma recuperando all’occorrenza la disciplina delle fonti originali. Chi assiste ad un suo concerto difficilmente rimane indifferente. Durante lo show, perché è di spettacolo che si tratta, più che di un semplice concerto musicale, Eric sfoggia una confidenza ed una comunicativa straordinaria con il suo pubblico. È istrionico, carismatico, attraente, e trasmette grandi dosi di benefica energia. Il consiglio è di non perdere il passaggio di questo artista.


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anticipazioni

Nel XXI secolo la leadership sarà ancora di Washington? Dai “Quaderni di liberal” l’articolo dell’ex ambasciatore statunitense all’Onu

Usa, il declino che non c’è di John Bolton otizia della mia morte estremamente esagerata» scriveva in un telegramma Mark Twain. L’espressione «estremamente esagerata» bene si confà anche alle continue, periodiche previsioni di un declino americano. In effetti sin dai primi momenti successivi alla conquista dell’Indipendenza, c’è stato chi ha predetto la fine, il declino o la scarsa importanza dell’America. L’unica variazione sul tema consiste nell’attribuzione dell’eclissi degli Stati Uniti alle debolezze interne o alla incomparabile superiorità di chi offuscherà il paese nordamericano.

«N

Scommettere contro gli Stati Uniti può andare di moda, ma non ha mai pagato. E non pagherà finché gli Stati Uniti resteranno fedeli ai principi fondamentali e interrelati sui quali si fondano: la centralità della libertà individuale, l’apertura a nuove idee e opportunità e l’ottimismo che ha spinto nel nuovo mondo moltissimi dei nostri avi. Certo, tali convincimenti si possono ritrovare in quasi tutte le nazioni del pianeta e non sono, quindi, appannaggio esclusivo degli Stati Uniti. Ma soltanto in America sono stati riuniti e concentrati nel modo in cui abbiamo assistito nel corso della storia degli Usa. E’ questa la base di quello che può definirsi «eccezionalismo» americano, la caratteristica che induce i sostenitori del declino a darsi all’alcool o a cadere nella confusione mentale più di chiunque altro. Inizialmente dopo la fondazione degli Stati Uniti d’America, molti europei ritenevano che non fossero tante le possibilità di sopravvivenza del nuovo Stato e ancora meno quelle che potesse prosperare. Eppure, mentre l’Europa si autoconsumava con i suoi conflitti interni, gli Stati Uniti crescevano e i piccoli insediamenti sulla costa atlantica si tramutavano in un grande paese continentale. Purtroppo la crescita fu macchiata dalla piaga della schiavitù e gli Stati Uniti vissero una fase di dilaniante guerra civile, particolarmente sanguinaria anche per l’epoca, volta ad abolire la schiavitù e conservando, al contempo, l’unità faticosamente conquistata. Nel periodo in cui il paese risorgeva dalle ceneri dei campi di battaglia della guerra civile, prendeva corpo la rivoluzione industriale, il West veniva unificato al Nord e al Sud del Paese e, alla fine del XIX secolo, soltanto chi non voleva vederlo poteva ignorare l’emergere dell’America sulla scena mondiale. In realtà, l’espansione ad Ovest degli Stati Uniti ha costituito l’unica esperienza «imperialista» realmente duratura del XIX secolo, dato il successo del processo d’integrazione dei territori occidentali entrati a far parte dell’Unione quali Stati paritetici. L’Europa non vi prestava forse la dovuta attenzione o non

capiva a fondo ciò che stava accadendo. Gli europei in generale - e i sostenitori del declino in particolare - tendono quindi ancora a ignorare la storia statunitense precedente al XX secolo. Sostengono implicitamente che quanto è accaduto durante il primo secolo di vita degli Usa non sia rilevante per comprendere ciò che è avvenuto nel secolo successivo e lo sia ancora meno in relazione al terzo secolo di vita del paese oggi dinanzi a noi nel XXI secolo. Questo non significa semplicemente ignorare la storia, bensì anche non avere cognizione dei principi comuni della libertà, della creatività e dell’ottimismo ai quali si è ispirata l’America nel XIX secolo e che ne hanno fatto una potenza mondiale nel XX. Naturalmente ha contribuito ad alimentare l’eccezionalismo americano il fatto che molta parte del resto del mondo abbia continuato a restare sensibile al fascino dei governi totalitaristici o autoritari, o che si sia lasciato trasportare verso le varianti del fascismo o del comunismo. Le tre grandi guerre del XX secolo, due tradizionali e una guerra fredda sono state, ciascuna a proprio modo, un riflesso del conflitto tra i fondamenti dello Stato americano e le alternative prodotte nel resto del mondo.

naturale che la rinascita dell’Europa abbia reso gli Stati Uniti, in termini relativi, un po’meno l’unica superpotenza. Ma c’è qualcuno che ritiene che l’America avrebbe dovuto agire diversamente negli anni successivi al secondo conflitto mondiale? Naturalmente no, e questo è tra i pochi dibattiti della storia recente che sembra ormai definitivamente chiuso. Tuttavia, purtroppo, lo spionaggio sovietico ha consentito lo sviluppo di capacità nucleari e l’emergere di una nuova forza economica, mentre l’ideologia comunista ha accelerato la deriva verso la guerra fredda. Negli anni della guerra fredda sono state prodotte numerose teorie per spiegare l’impossibilità della vittoria americana. Inizialmente alcuni ritenevano che le fragili democrazie europee occidentali del dopoguerra sarebbero cadute sotto il comunismo, così come era avvenuto per i Paesi dell’Europa centrale e orientale. Ma ciò non è avvenuto. Poi furono fatte previsioni secondo cui Unione Sovietica e Stati Uniti si sarebbero scontrati fino a raggiungere una situazione di stallo, vi sarebbe stata «convergenza» tra capitalismo e comunismo e i due schieramenti avrebbero finito per assomigliarsi. Neppure questo è avvenu-

Le tre grandi guerre del XX secolo, due tradizionali e una fredda, sono state un riflesso del conflitto tra i fondamenti americani e le alternative prodotte nel resto del mondo L’Europa ha più volte rimproverato agli Stati Uniti l’atteggiamento isolazionistico assunto dopo la prima guerra mondiale, come se gli Usa fossero responsabili dell’ascesa del fascismo e del comunismo in Europa nel periodo post-bellico. A dire il vero, sebbene gli Stati Uniti non abbiano riconosciuto i Trattati di Versailles e la Lega delle Nazioni, si sono tuttavia impegnati attivamente a livello economico e diplomatico per il controllo degli armamenti per tutto il periodo tra le due guerre. Molti sostenitori del declino individuano nel 1945 l’inizio dell’indebolimento del dominio americano: un periodo in cui la potenza statunitense aveva raggiunto il suo apice, da tutti riconosciuto, e non avrebbe quindi potuto fare altro che diminuire. Naturalmente poiché l’Europa giaceva fiaccata dalle ferite che si era autoprocurata, si trattava di sapere se sarebbe risorta, come poi fece grazie agli aiuti affluiti tramite il piano Marshall. E’ La scommessa sul declino degli Stati Uniti continuerà a non pagare finché gli Usa resteranno fedeli ai principi sui quali si fondano: centralità della libertà individuale, ottimismo e apertura a nuove idee e opportunità

to. Ma ai sostenitori del declino si può rimproverare tutto tranne che non siano ostinati, a loro modo. Hanno previsto che il Giappone avrebbe preso il posto degli Stati Uniti. Poi ci è stato detto che l’Unione Europea avrebbe inevitabilmente superato gli Usa: una previsione che diventa sempre meno realistica. Inoltre in nazioni quali l’Irlanda, ai margini dell’Europa, nessuno sembra credere che il progetto di costruzione dell’Ue possa procedere spedito, senza intoppi. Le attuali previsioni di un declino americano si fondano sull’assunto che alcuni paesi una volta appartenenti al terzo mondo (solitamente si fanno i nomi di Cina, India e Brasile) acquisiranno inevitabilmente maggiore peso, anche ove la potenza statunitense non registrasse un vero e proprio declino. Si tratta di un’idea di declino in un certo qual senso più sofisticata: la teoria del declino relativo degli Stati Uniti, anziché un reale deterioramento della situazione economica o una riduzione della potenza militare.

I sostenitori della teoria del declino dell’America compiono diversi importanti errori. Innanzitutto tendono a «proiettare» le dinamiche positive registrate da altri paesi all’infinito, nel fu-

turo, facendo lo stesso con i problemi e le difficoltà attuali degli Usa. In secondo luogo ignorano sistematicamente qualsiasi possibilità alternativa che non sia in linea con la loro conclusione preconcetta. In terzo luogo quando si pensa a un probabile futuro, quello dell’America finisce per essere sempre configurato come il peggiore possibile, mentre gli «altri», in qualche misura, sono sempre fortunati. Tali lacune analitiche evidenziano l’importanza non soltanto dell’assunzione di una prospettiva storica di più ampio respiro, ma anche di capire ciò che determina detta prospettiva, sia negli Stati Uniti che negli aspiranti Paesi concorrenti. Il rischio più grande che corre l’America è di diventare troppo uguale agli «altri». In Europa, ad esempio, il «principio precauzionale» è oggi consolidato. Secondo tale principio, ogni rischio evitabile dovrebbe - anzi deve - essere evitato. Esso esprime un’idea esattamente contraria a quella che ha mosso gli Stati Uniti nel corso del tempo, resa mirabilmente dal celebre aforisma di David Crocket: «Innanzitutto, accertati sempre di aver ragione; poi, vai avanti». Ai suoi tempi Crocket - politico molto più noto di quanto sia apprezzato oggi - e i suoi venivano chiamati «Go Ahead Men» (uomini «vai avanti») e in effetti gli Stati Uniti erano un Paese che «andava avanti». L’applicazione del principio pre-


anticipazioni

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Dai quaderni di liberal il saggio del più grande psicanalista Usa

L’America non crollerà. È l’impero delle novità di James Hillman segue dalla prima

cauzionale avrebbe forse potuto evitare gli eventi di Alamo, ma avrebbe altresì fatto perdere il Texas agli Usa e forse anche il resto del nostro attuale territorio nazionale. Allo stesso modo le menti più alte del mondo sono attualmente ossessionate dal riscaldamento del pianeta o «cambiamenti climatici», come li chiamano alcuni

stesso obiettivo: un’autorità statale più forte e minori libertà individuali. Qui gli scenari alternativi assumono la massima importanza. Per quanto lo tema, non posso negare che sacrificare la libertà sull’altare del surriscaldamento del pianeta costituisca una reale possibilità per gli Stati Uniti. Infine i teorici del declino americano si

Tra venticinque anni potremmo tornare a parlare di «decadenza a stelle e strisce» e molti sosterranno che sarà già iniziato. Avranno torto, così come si sbagliano oggi adepti. A essere onesti è un’ossessione molto diffusa anche in America. Il presidente ceco, Vaclev Klaus, ha puntualmente sottolineato come il surriscaldamento del pianeta abbia preso il posto del socialismo quale principio organizzatore attorno al quale convergono tutte le più alte menti per dare nuove giustificazioni a un maggiore controllo dello Stato sulla nostra vita personale, sostituendo una logica all’altra al fine di conseguire lo

basano in parte sull’idea storica che non sussistano più reali minacce per i paesi occidentali perché, secondo alcuni, saremmo giunti «alla fine della storia». Secondo tale logica, venendo meno le minacce, chi avrebbe bisogno di una superpotenza militare che protegga se stessa o gli altri? Secondo questa teoria, quindi, la forza americana sarebbe irrilevante e non se ne dovrebbe tenere conto nel confronto della forza relativa, con conseguente indebolimento della posizione degli Stati Uniti nel mondo. Come minimo. La proliferazione delle armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche e biologiche) resta una grave minaccia, siano esse nelle mani di Stati canaglia quali Iran o Corea del Nord, oppure nelle mani di terroristi. Purtroppo dobbiamo oggi constatare che l’Europa non prende seriamente come gli Stati Uniti questo tipo di rischi.

Ho adottato una prospettiva storica rispetto alle previsioni del declino americano perché ne sono state formulate molte in passato e si sono spesso rivelate errate. E’bene quindi inserire in tale contesto le teorie attuali. Sarebbe tuttavia una leggerezza da parte mia non preoccuparmi del posto che occupa l’America nel mondo. L’autocompiacimento è sempre un rischio e una tentazione alla quale gli Stati Uniti, così come altri paesi, hanno talvolta ceduto. Ma facendo una panoramica sulla storia americana, l’autocompiacimento non si è mai radicato a lungo. Indubbiamente, tra venticinque anni potremmo tornare a parlare del «declino» americano e molti saranno pronti a sostenere che detto declino sia già iniziato. Avranno torto, così come si sbagliano oggi.

L’Eccezionalismo sta alla base del «Sogno americano»: la convinzione popolare che la libertà personale e quella civica producano la prosperità, e viceversa. Sebbene sia una idealizzazione illusoria che non corrisponde alla realtà, l’Eccezionalismo continua a caratterizzare la mentalità americana perché esprime quel perpetuo desiderio della psiche umana per la «buona vita», proclamato dalla Dichiarazione d’Indipendenza americana come «la ricerca della felicità».

In secondo luogo, abbiamo davvero il coraggio di ammettere che l’egemonia della cultura americana sta crescendo? Per il termine «cultura» faccio riferimento a un saggio pubblicato da T. S. Eliot nel 1948, intitolato Notes Towards a Definition of Culture, nel quale sostiene che cultura, religione e comportamento sono strettamente legati insieme e non possono essere nettamente distinti. La cultura, dice Eliot, non si limita alla alta cultura dell’intellighenzia o alle eccentricità della cultura popolare. Semmai, la cultura è il comportamento della società nel suo complesso: il modo in cui ogni giorno camminiamo e parliamo, pensiamo e mangiamo, ci vestiamo e moriamo. La cultura mondiale segue sempre di più i modelli comportamentali stabiliti negli Stati Uniti: la sua musica, i suoi gadget, le sue abitudini alimentari, le tecniche curative, le forme di comunicazioni, il marketing, il revivalismo, le tecniche agricole. Il predominio culturale americano appare evidente in tre diffusissimi sintomi comportamentali: la fretta, l’obesità e le droghe (legali e illegali). L’America rimane la potenza coloniale extraordinaire: la lingua inglese ne è il suo più autentico missionario. Che si tratti di finanza, di commercio, di legge o di scienza, l’incontro tra genti diverse avviene in inglese. Terzo: il denaro. Il declino del valore fiscale del dollaro non implica anche un declino del suo valore simbolico. Il denaro americano è un altro perpetuum mobile: sostenuto soltanto dalla fede e creato per circolare senza alcun ostacolo all’interno di un libero mercato. Le Banche centrali cercano di controllarne la libertà. Definiscono i modi della sua circolazione, ne misurano l’andamento, alzano o abbassano i tassi di interesse. Ciononostante, il denaro cresce in forza del proprio dinamismo interno. In America il denaro è concepito come una forza quasi organica, o

demonica, ingovernabile, archetipica, capace di moltiplicare, dominare e tiranneggiare i suoi «proprietari». Quarto: non bisogna sottovalutare la capacità americana di sorprendere. Gli americani si aspettano l’inaspettato. Non è un caso se l’America è stata chiamata il «Nuovo mondo». L’America è il mondo del nuovo, e gli americani sono drogati di novità. Anche se il nostro governo è ora uno dei più vecchi al mondo, e indipendentemente dal fatto che idoleggiamo i nostri padri fondatori come santi della laicità e che la gestione di trecento milioni di persone è impastoiata da idee, procedure e legislazioni repressive, la novità domina ancora la psiche. Da qui derivano l’inventività degli americani, la loro mobilità e la loro disaffezione nei confronti di qualsiasi duratura fedeltà: matrimonio, clan, lavoro, squadra o luogo di residenza. Quando proclamano che intendono «tenere l’America in movimento», i politici non fanno altro che richiamarsi a un ideale costantemente messo in pratica dal popolo americano: il 20 per cento della popolazione cambia indirizzo ogni anno. Dal New Deal di Roosevelt e alla New Frontier e New Society di Kennedy e Johnson, fino al Change di Obama, i programmi dei nostri partiti annunciano novità non specificate.

L’Eccezionalismo continua a caratterizzare la mentalità americana perché esprime quel perpetuo desiderio della psiche umana per la «felicità e la buona vita»

Questo amore per l’inaspettato è una parte essenziale di ciò che gli americani intendono con il termine «libertà». La capacità americana di inventare sorprese sembra tuttavia in declino. Rispetto ad altri paesi, la registrazione di nuovi brevetti negli Stati Uniti è calata. Ma le invenzioni tecniche e i punteggi ottenuti dagli studenti nei test di matematica non sono uno specchio fedele della novità americana. La sua vera fonte sta nella psicologia delle chances. L’opportunità è il varco attraverso il quale la Fortuna può entrare in qualsiasi momento. Il pragmatismo della mente americana sta nel suo accoglimento del nuovo e nella sua sorprendente capacità di ottenere qualcosa dal nulla: per definirlo, il suo inventore William James (il più importante filosofo americano), ha, come ben noto, usato la frase «il valore contante di un’idea». Per l’America, le opportunità bussano continuamente alla porta; sono come una finestra di sorprese sempre ottimisticamente spalancata. © 2008 James Hillman Pubblicato d’intesa con Roberto Santachiara Agenzia Letteraria (Traduzione di Aldo Piccato)


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Quale sarà il futuro della sinistra italiana? MA QUALI PROSPETTIVE POTRÀ MAI AVERE UNA SINISTRA CHE RIMANE UGUALE A SE STESSA?

NON SO CHI UNA VOLTA DICHIARÒ: «IL FUTURO NON È PIÙ QUELLO DI UNA VOLTA»

A Salsomaggiore (Parma) è andato in scena all’incirca questo siparietto: «Serve farci la guerra, compagno Vendola, quando il nemico di classe governa il Paese?». Oliviero Diliberto ha scelto di chiudere il congresso che lo ha rieletto segretario del Pdci ripetendo l’appello al Prc per l’«unità dei comunisti». E recuperando il «centralismo democratico» leninista: correnti vietate. E guerra ai «fannulloni». Katia Bellillo e i suoi (la minoranza conta il 12 per cento) hanno disertato il voto: «Quello di Diliberto è centralismo autoritario». Ma con queste parti, con questi copioni grotteschi e surreali, ma quale futuro mai potrà avere la sinistra radicale italiana? Illuminante poi la chiusa di Diliberto sui fannulloni del partito, accusati di «passare il 90% del tempo a litigare sui posti anche quando non contano nulla. Non dimentichiamoci - ha ricordato - che siamo un partito marxista-leninista». Diciamoci la verità... forse Diliberto avrebbe fatto bene a star zitto almeno sul Lambrusco... Chissà, magari se ne avesse bevuto un bicchierino avrebbe detto cose meno grottesche e più innovative. Cordialità.

Quale il futuro della sinistra italiana? Bella domanda. A guardare quella di oggi, quella cioè che non è neanche riuscita ad avere una minima rappresentanza a Montecitorio, quella del perdente Arcobaleno, c’è da stare poco allegri. Non so chi un tempo disse: «Il futuro non è più quello di una volta». Ecco, credo che questa citazione riassuma perfettamente le prospettive dei politici di sinistra e le aspettative degli elettori di sinistra. Continuano a essere divisi anche quando ipotizzano l’unità per il futuro. «Il Prc dirà sì all’unificazione dei comunisti italiani» ha detto Diliberto al congresso che lo ha rieletto segretario. Ma alla votazione non ha partecipato la componente di minoranza guidata da Katia Bellillo. E poi una piccola marcia indietro (di già?!) proprio sull’unità: «Per ora dicono no all’unità, ma quando proponemmo il federalismo anche allora prima rifiutarono e poi si avvicinarono alle nostre posizioni. Diciamo che sono riflessivi, si prendono un po’ di tempo, ma alla fine capiranno che non ha senso avere due partiti comunisti». Qualcuno ci sta capendo qualcosa?

Gennaro Corradi - Napoli

LA DOMANDA DI DOMANI

Cassazione: «È stupro anche se la vittima indossa i jeans». Siete d’accordo? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Monica Postiglione - Roma

NOI PROGRESSISTI AVREMO UN DOMANI QUANDO ABBANDONEREMO ”LA POLITICA DEI NO” Quando messi a confronto con la pochezza di una strategia culturale solo in grado di “impedire”e non di “costruire”, noi “progressisti”possiamo solo esibire ricette alternative confuse, che mai colpiscono l’immaginazione o mobilitano davvero l’entusiasmo della gente. In questo senso il governo Prodi ha molto ben rappresentato i limiti culturali della sinistra, ingabbiata da veti incrociati e mancanza di progetti di largo respiro. Il deserto dell’essere opposizione e minoranza, sarà completamente attraversato solo quando ci saremo liberati di una cultura essenzialmente negativa, basata su distinguo e programmi astratti ed impraticabili, ed avremo acquisito la capacità di pensare in grande, immaginando nuovi traguardi e motivando con questi gli elettori.

PER UN RILANCIO DELLA SARDEGNA La Sardegna è un’isola al centro del Mediterraneo, con una superficie pari a 24.090 Kmq e una popolazione di circa 1.600.000 abitanti. Clima mite, mare limpido e cristallino, splendide coste segnate dal tempo e un entroterra ricco di un vasto patrimonio paesaggistico e culturale. Con queste caratteristiche, sembra possedere tutte le credenziali per un futuro di grande sviluppo economico e sociale. Bisogna allora domandarsi perché - sino ad oggi - lo sviluppo non ci sia stato. Anzi, la situazione sembra registrare una tendenza diametralmente opposta. In una situazione già critica, è calato, come una mannaia, il piano paesaggistico della Regione di Renato Soru che, secondo le organizzazioni imprenditoriali e sindacali, ha determinato una grave crisi del settore costruzioni. Sarebbe sbagliato dire che la causa è solo nel governo di Soru, ma sarebbe altrettanto errato negare che l’approccio dogmatico e grossolano di questo governo regionale ha contribuito a peggiorare la situazione. In questo contesto è stata recentemente ufficializzata la nascita della se-

QUERCIA, IL CAVALLO DEL NORD Ecco “Atlantis”, un cavallo fatto di pezzi di legno di quercia caduti. A fargli compagnia, un orso polare costruito con sacchetti di plastica usati, pinguini di vetro riciclato e un tirannosauro di vecchi copertoni. Sono solo alcuni dei protagonisti della mostra londinese ”Recycled Sculpture Show”

NON SCANDALIZZIAMOCI DEL POCO AMORE PER L’ITALIA Egregio direttore, sembra che in tanti non si siano scandalizzati della ”sparata” di Umberto Bossi sull’inno italiano. Un po’ perché comunque sono cose che ha sempre detto e affermato con estrema chiarezza. Un po’ perché bisogna effettivamente rendersi conto che sempre più italiani non sentono più alcun senso di patriottismo. Un senso che risorge ogni quattro anni solo in occasione dei mondiali di Calcio. L’Italia per molti è diventata simbolo di ”terrore fiscale”, ”costosissima macchina burocratica nemica del cittadino”, ”minaccia costante di multe e balzelli vari” e altro. ”«Io non mi sento italiano, ma per fortuna o per forza lo sono» cantava Giorgio Gaber. E’ diventato ahimé un senso di malcontento

dai circoli liberal Silvia Romiti - Genova

zione Sarda del Circolo Liberal. Questo vuole rappresentare un segnale di svolta, di rinascita politica per tante persone normali che, unite dalla condivisione di quel grande patrimonio ideale e culturale che è il liberalismo italiano ed europeo, intendono giocare la partita da protagonisti. Quella di Liberal è una grande opportunità per quanti di noi non intendono più soggiacere a questo deleterio bipolarismo forzato. Fino a ieri ci poteva essere forse un gruppo sommerso di simpatizzanti, talvolta appassionati alle quotidiane vicende della politica, talora legati più o meno intensamente a un dirigente di partito piuttosto che a un amico che si abbandonava alle lusinghe di una candidatura; oggi possiamo auspicare la nascita della nuova stagione politica sarda che, a partire dall’appuntamento elettorale delle regionali di primavera 2009, mi auguro possa determinare una inversione di rotta. Sarà sicuramente impegno di Liberal in Sardegna dare un contributo per favorire tutto ciò. Antonio Cossu RESPONSABILE CIRCOLI LIBERAL SARDEGNA

comune, inutile bendarsi gli occhi. Certo, questo sentimento è molto più evidente al Nord Italia che al Sud ma questo è palese. Il Nord produce sempre più e le tasse richieste, da uno stato sempre più esoso, servono a sovvenzionare i clientelismi di un sistema, ormai malato terminale. L’unica speranza che ho è nella prossima riforma federale, sperando che non sia in linea con il vecchio modo di far politica in Italia. «Promettiamo di stravolgere tutto a patto che non si cambi niente”» Dopo tutto Federalismo significa anche sottrazione di forza ad un certo potere politico... Faccio fatica ad essere ottimista... Di questi tempi dunque non scandalizziamoci della mancanza di amore per questa Italia.

Alberto Moioli Lissone (Mi)

COMUNICAZIONE PER I CIRCOLI LIBERAL TODI - VENERDÌ 25 LUGLIO 2008 - ORE 11 Prossima riunione dei presidenti e dei coordinatori regionali liberal all’Hotel Bramante di Todi. A seguire, l’inizio dei lavori del seminario. Vincenzo Inverso segretario organizzativo circoli liberal

APPUNTAMENTI SEMINARIO DI TODI - VENERDÌ 25 E SABATO 26 LUGLIO 2008 Seminario, ore 12.00, Hotel Bramante, in via Orvietana 48 I lavori del seminario, che vedrà la partecipazione tra gli altri di Casini, Cesa, Buttiglione, Vietti, Volontè, avranno inizio il venerdì a partire dalle ore 12.00 e si chiuderanno per le 14.00 di sabato.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog PIÙ DI PIETRO PARLA E PIÙ SI FA CONOSCERE

Dentro di me il tuo nome brilla sempre Rientro e trovo la tua lettera. Mi penetra nel più profondo del cuore. Sei triste, senti di amarmi, mi vorresti accanto a te... Quanti sentimenti contrastanti combattono dentro di me: un orgoglio immenso, un’inquietudine senza nome, un desiderio smodato di riunirmi a te, una speranza simile a quella che mi ha indotta a partire con te nel 1835. Vuoi che ti scriva con bontà e dolcezza. Che cosa hai dunque letto nelle mie lettere se non un desiderio infinito che si consuma in una solitudine che mi sforzo di rendere degna di te? Sì, a volte mi pare che l’ideale ingrandisca dentro di me. All’interno mi rafforzo e all’esterno mi placo, e dentro di me il tuo nome brilla sempre, a ogni ora. Addio Franz. Nel mio cuore c’è un luogo così profondo che nemmeno tu lo conosci. Lì tu vivi di una vita misteriosa. Quasi divina. Marie Flavigny d’Agoult a Franz Liszt

RITORNA IL RED ...A SINISTRA! Non deve destare meraviglia se un politico del Partito democratico, quale Massimo D’Alema, s’affida, ai nostri giorni, all’antica, rigorosa e impegnativa tecnica del Red e la fa rivivere circondato da tanti compagni. La tradizione del Pci continua ad essere uno stimolo potente e imprescindibile per chi sta da quelle parti, checchè ne dicano Veltroni, Rutelli, Franceschini, la Binetti e Morando. Il nonno partigiano che dava le luci di scena e raccontava le fiabe rosse la sera, la nonna che curava i costumi e rammendava le bandiere e i fazzoletti rossi, gli zii che partecipavano ai collettivi studenteschi ora professori di economia marxista e keynesiana, i cugini che organizzavano le Feste dell’Unità come i viaggi a Mosca e a Cuba, il fratello buyer della Coop e la sorella broker Unipol ed esaltata segretaria del circolo femminista ”Noi donne”, se li ricordano tutti. La sfida semmai era di riuscire a tenere ancora celata questa naturale vocazione e innata passione. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

23 luglio

Il presidente della Repubblica ha parlato dicendo «stop ai processi spettacolo», per intenderci, tutti (anche quelli in Tv di mani pulite sarebbero entrati nell’elenco). Il senatore Di Pietro si è detto «amareggiato». Mi domando se la sua era una considerazione impersonale o piuttosto una critica al dire di Napolitano! Nel primo caso non credo che il presidente debba parlare per addolcire il palato di qualcuno, nel secondo invece non si capisce da quando in qua si possono criticare le riflessioni del Quirinale! Quello che nessuno ha sottolineato è altro ancora: Di Pietro ha invitato Napolitano sugli argomenti da trattare: «Dovrebbe dire ben altre cose». Avesse aperto bocca qualcun altro... ma meglio così: più Di Pietro parla e più si fa conoscere. Certo, se Borrelli l’avesse fatto parlare 15 anni fa... quanti entusiasmi sarebbero venuti meno! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)

1829 Negli Stati Uniti William Burt brevetta la prima macchina per scrivere 1929 Il fascismo bandisce l’uso di parole straniere da ogni comunicazione scritta e orale 1952 Il generale Muhammad Naguib guida il Movimento degli ufficiali liberi (formato da Gamal Abd elNasser - la vera mente dietro il colpo di stato) nel rovesciamento di re Farouk d’Egitto. Unione Europea: entra in vigore il trattato Ceca e nasce cosí la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio 1957 Muore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, scrittore italiano 1985 Negli Usa Andy Warhol fa da testimonial al lancio del nuovo computer della Commodore International: l’Amiga 1000 2005 Attentato terroristico a Sharm El Sheikh. 63 vittime, tra cui anche 6 italiani

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

PUNTURE Bossi è seduto su di un divano in Transatlantico e Paolo Bonaiuti, come un premuroso cameriere, va alla buvette e ritorna ogni volta con panini, noccioline, Coca Cola. Non a caso si chiama Bonaiuti.

Giancristiano Desiderio

L’uomo senz’utopia è come un mostruoso animale fatto d’istinto e raziocino... una specie di cinghiale laureato in matematica pura FABRIZIO DE ANDRÉ

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di FUNNY GAMES Ci sono due modi per terrorizzare lo spettatore: mostrargli sangue, arti smembrati, seghe elettriche, catene e orpelli vari, usando la stessa delicatezza con la quale si può fare buh ad un bambino col singhiozzo; oppure angosciarlo subdolamente, rendendo implicita ogni violenza, lasciando che l’immaginazione di chi guarda faccia il resto. Ormai la prima strada è l’unica percorsa – esordi di Shyamalan a parte – e i risultati sono, quando va bene, disturbanti. Il regista austriaco Michael Haneke, al suo primo film in lingua inglese, sceglie di mostrare ai colleghi d’oltreoceano come si possa essere sadici ed estenuanti senza ricorrere ai soliti desueti cliché. Lo fa col remake del suo omonimo film (uscito nel 1997) proposto al pubblico americano in una versione praticamente identica all’originale, fatta eccezione per il cast, che strizza ovviamente l’occhio ad Hollywood. (...) Haneke è sadicamente abile nello sconvolgere chi guarda i suoi film, con estenuanti piani sequenza e camere fisse che rendono lo spettatore un testimone involontario di qualsiasi nefandezza. A dire il vero dal 1997 – anno in cui uscì per la prima volta Funny Games – , il regista austriaco ha dimostrato di riuscire a fare anche di meglio (vedi Cachè), senza arrivare agli eccessi dei suoi psicopatici dall’impeccabile bon ton. Haneke, forse consapevole di queste esasperazioni, stigmatizza violenza e situazioni abbattendo l’invalicabile muro della finzione scenica. (...) Sono espedienti che non hanno nulla di moralistico (della serie: è tutto finto, don’t try this at home) ma una utilità estremamente pratica, aumentando l’angoscia dello spettatore che viene quasi minacciato dal buon Paul – «Sei dalla loro parte (della famigliola ndr), vero? Su chi scommetti?», riferendo-

si ai macabri intenti della loro “spedizione”. Nonostante tutte le violenze avvengano fuori campo, Haneke le fa vivere, con ancor più efficacia, attraverso gli sguardi, i rumori, le reazioni. Una continua operazione terroristica mirata a sfiancare lo spettatore, che alla fine quasi si augura una veloce dipartita dell’allegra famigliola; ancor più efficace è la perenne sensazione di nonsense che permea tutta la vicenda: quando vengono chiesti ai ragazzi i motivi dei loro gesti, le risposte sono solo un insieme di sarcastici luoghi comuni – famiglia disagiata, inciuci, droghe e quant’altro. Tutto ciò che succede è inspiegabile, ”strano” (altra possibile traduzione dell’inglese “funny”), ma brutalmente reale. Ed è proprio questa la parola d’ordine, il vero motivo per cui Haneke riesce a far breccia nello stomaco di chi guarda i suoi film: l’immedesimazione diventa presto totale e le situazioni, per quanto siano grottesche, sono verosimili e dunque agghiaccianti. La recitazione credibilissima di Roth e della Watts contribuisce ad aumentare questa sensazione di normale (e banale) quotidianità, stravolta da un inesorabile imprevisto, così come le facce d’angelo di Pitt e Corbet, forse meno carismatici dei loro predecessori europei, ma sicuramente adatti al ruolo – merita di essere menzionato anche Darius Khondji, autore di una fotografia validissima, elegante, quasi patinata ma sicuramente incisiva. Senza perdere nulla della forza originale, Funny Games sbarca negli Stati Uniti (e quindi anche nel resto del mondo) con forza e capacità di sconvolgere intatte. Resta però il dubbio che un supplizio del genere possa non essere la più piacevole delle sensazioni che si può provare al cinema. Estenuante.

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