i quaderni di liberal
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
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È ora di aprire un nuovo tempo della Repubblica
di e h c a n cro
di Ferdinando Adornato
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80725
di Ferdinando Adornato
i può dire che la transizione italiana sia finalmente compiuta? Si può dire che il quadro sistemico configurato dalle elezioni dell’aprile 2008 sia definitivo e possa, dunque, durare nel tempo? A noi sembra che si debba rispondere di no. Per diverse, obiettive ragioni.
S
OBAMA IN GERMANIA
A Berlino per sceneggiare il paragone mitologico con JFK. È davvero così? L’Europa ci crede, ma in America molti pensano che per lui questo viaggio sarà un boomerang…
Il nuovo Kennedy (o il bis di Carter?) alle pagine 2 e 3
I QUATTRO NODI IRRISOLTI La prima è legata allo scenario storico. Quando, negli anni Novanta, crollò la cosiddetta prima Repubblica, quattro erano le grandi questioni che giustificavano la transizione verso un nuovo tempo della Repubblica: 1) La questione istituzionale, già posta alla fine degli anni Settanta (Craxi) affrontata lungo il corso degli anni Ottanta (De Mita) e infine riproposta, sia pure con colpevole approssimazione, dal movimento referendario. 2) La questione giudiziaria, esplosa drammaticamente in un inedito e pericoloso conflitto con la politica di settori della magistratura, dei media e dell’opinione pubblica. 3) La questione dell’unità nazionale e del federalismo, nel permanente rischio di una frattura storico-sociale tra Nord e Sud. 4) La questione della modernizzazione liberale, sentita come ineludibile, in tutti i campi della vita pubblica, per mettersi al passo con il resto dell’Occidente.Ebbene, tutte queste questioni sono ancora davanti a noi, irrisolte; anzi, incancrenite dal tempo perduto. s eg ue a pa gi na 12 ne l l’ in s er to C ar te
Ritratto di una donna spregiudicata
Scontro sulle Regionali abruzzesi
I cattolici vogliono un nuovo partito
Di Pietro affila le armi contro il Pd
Ipotesi sul ”popolo invisibile”
di Marco Palombi
di Rocco Buttiglione
di Errico Novi
di Franco Cardini
Antonio Di Pietro si appresta alla guerra totale col Partito democratico. Campo di battaglia, le Regionali abruzzesi che si svolgeranno con ogni probabilità il 30 novembre prossimo.
Ipsos ci regala una ricerca sugli orientamenti dell’elettorato cattolico nelle recenti elezioni e nel periodo successivo. La ricerca, ben fatta e bene impostata, offre materiale per una seria riflessione.
Ci sono due ipotesi. Una forse più fantasiosa. L’altra più cupa, inquietante, eppure meno inverosimile. Repubblica in ogni caso vuole riscrivere gli equilibri nel Partito democratico.
Aveva umiltà e orgoglio, la contessa Matilde, da credere che il potere che aveva le era concesso dal cielo. Un atteggiamento vicino a quello che spingeva i pontefici a dichiararsi servi dei servi di Dio.
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VENERDÌ 25 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
Tutti i retroscena di un inatteso tradimento
Perché Repubblica spara contro Fassino?
• ANNO XIII •
NUMERO
140 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Matilde, la contessa di Dio
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Ritiro delle truppe dall’Iraq, apertura al dialogo con l’Iran, Chavez e Kim Jong-il: il senatore ricorda, più che JFK, un altro presidente, ma di minore appeal
Il ritorno della Carter-politik di Gerald Warner a richiesta del senatore dell’Illinois di pronunciare il suo discorso davanti alla Porta di Brandeburgo ha mandato la Cancelliera Merkel su tutte le furie, galvanizzando la stampa e provocando ghiotti calcoli e pensieri nel team di McCain. Ogni repubblicano conosce a memoria la storia di Icaro che brucia le sue ali cercando di raggiungere il sole e confida che manchi “tanto così” a che la storia si ripeta. La domanda a questo punto è: precipiterà prima o dopo le elezioni di novembre? Se fosse prima, questo tour europeo inaugurato ieri a Berlino potrebbe rivelarsi l’occasione giusta per una gaffe pronta a cambiare definitivamente il corso di questa corsa alla Casa Bianca. Viceversa, la partita sarebbe ancora tutta da giocare. Ma una lezione da tutta questa kermesse berlinese è stata imparata: i simboli è meglio lasciarli fuori. Vediamo perché: la campagna di Obama ha cominciato a suggerire l’idea di un nuovo JFK proprio a partire da Berlino.
L
La scelta di Brandeburgo a quello voleva alludere: Ich bin a Berliner. Non lo avrebbe mai detto, ma certamente sarebbe stato suggerito da molti. Eppure, il non poter pronunciare il suo “credo” da quel luogo, lo ha salvato. Davvero. Annullando il rischio di quella gaffe di cui sopra. Perché quel luogo ricorda, non solo simbolicamente, un grande statista: Ronald Reagan, quando il 12 giugno 1987 disse: «Mr. Gorbaciov, butti giù questo muro». E su quella immagine Obama non avrebbe mai potuto avere la meglio. In realtà Barack Obama evoca un altro deja vu, ben lontano da JFK: la presidenza Carter, quella costellata di mali. I paralle-
li sono malauguranti. Carter, il padre della Rivoluzione iraniana, ha preparato la cacciata dello Scià ed ha classificato la realpolitik del Dipartimento di Stato con un nome in codice punto chiaro: “il nostro bastardo”. Una caratteristica della politica estera del tempo. Ma ricordiamolo: Carter ha destabilizzato il regime dello Scià soltanto per vederlo rimpiazzare da quello dell’ayatollah Khomeini e dalla dottrina che definisce gli Stati Uniti come “il Grande Satana”. Che autogol, Jimmy. Nel suo primo anno al potere, Khomeini ha condannato a morte più persone di quanto abbia mai fatto lo Scià in 25 anni. Fra questi, buona parte di quei 2.400 prigionieri comunisti i cui presunti maltrattamenti in carcere avevano scatenato l’intervento indignato dell’ex coltivatore di arachidi. Nessuno è più letale di un liberal deluso. Vi è un’elegante simmetria nel modo in cui il fallito tentativo di liberare gli ostaggi americani in Iran (prigionieri per 444 giorni, dal 4 novembre 1979 al 20 novembre 1980, ndr.) ha messo il timbro finale all’abissale fallimento della presidenza Carter. Ora la Carterpolitik è tornata. Oba-
ma è deciso a sedersi allo stesso tavolo di Ahmadinejad,“Ciccio”Chàvez, Kim Jong-il (e in che cosa ha sbagliato Osama bin-Laden, per non essere nella lista?). In pratica, per usare le parole di Ronald Reagan, «fa come ogni matto che vuole trasformare l’America in una distesa di cenere». Non solo: Ha anche proposto di ritirare entro 16 mesi le truppe dall’Iraq.
iniziare la ri-occupazione del territorio perduto, la cacciata del fragile governo di Baghdad e lo sterminio degli empi. Questo se nello Studio ovale vi fosse il presidente Obama. Non solo: tutto ciò coinciderebbe con il caos all’interno degli Stati Uniti, visto che questo dilettante di economia vuole raddoppiare le tasse sui profitti, far resuscitare le abominevoli tasse di successione al suo massimo livello e bandire l’espansione delle in esplorazioni cerca di petrolio. Anche se l’economia americana fosse in buona salute, misure del genere la distruggerebbero: nella sua attuale condizione di crisi, il programma di Obama è una sicura ricetta per la Götterdämmerung keynesiana, la teoria economica sulla “caduta degli dei”. A compensare questa distruzione materiale, però, bisogna sottolineare che quella di Obama sarebbe una morale, cristiana Amministrazione. Dopo esser stato seduto ai piedi del preziosissimo “vessillo del Signore”- quel reverendo Jeremiah Wright che implora Dio di maledire l’America – Obama ha da poco dichiarato: «Sono sul mio personale percorso di fede, attualmente in cerca». E questo
Il calendario di ogni bunker di al-Qaeda ha la data del primo giugno del 2010 cerchiata in rosso: è la data in cui Obama potrebbe ritirare le truppe Soltanto Obama può concepire uno schema che trasforma l’invasione di Dubaya in Iraq nella seconda peggior decisione di politica estera mai presa dagli Stati Uniti del 21esimo secolo. I fatti dicono che la surge continuerà ad avere successo e che pian piano le autorità irachene riusciranno ad emanciparsi e garantire il controllo delle province, ma prima che questo accada, per Obama, le forze statunitensi in loco dovrebbero dire: «Ragazzi, è stato magnifico conoscervi». E via, a casa. Il calendario sul muro di ogni bunker di al-Qaeda ha la data del primo giugno del 2010 cerchiata in rosso: è la data in cui potrebbe
Almeno centomila persone al discorso di Obama
«I love Berlin, ma non sono John Kennedy» di Katrin Schirner
BERLINO. Se nel 1963 John F.Kennedy è passato alla storia per la celebre frase Ich bin ein Berliner, oggi l’aspirante presidente americano Barack Obama ha detto una cosa che sta facendo impazzire i tedeschi: I love Berlin. Nonostante le polemiche relative alla richiesta di parlare alla porta di Brandeburgo (per gli americani il simbolo della fine della guerra fredda) per sugellare un’affinità ideale con il mito di JFK, Obama non demorde. Il suo staff punto dritto al cuore emotivo degli Usa per convincerlo della sua abilità anche sul palcoscenico internazionle e questo alla Merkel non è piaciuto affatto.Tanto che ieri sera, per impegni inderogabili e l’avvio dell sue vacanze, non ha potuto partecipare all’orazione del candidato dell’Illinois tenutasi, in seconda battuta, davanti ala Colonna della Vittoria (la Siegessauele): da dove, grazie ad un’abile gestione delle telecamere, si intravedeva sullo sfondo anche la Porta di Brandenburgo. Si è trattato dell’unico discorso di
pellegrinaggio lo ha fino ad ora convinto ad opporsi al bando del Partial-Birth abortion (aborto con nascita parziale) ed ha bloccare un decreto legge dell’Illinois che voleva impedire l’omicidio di neonati incidentalmente sopravvissuti a questo genere di aborto tardivo.
Ma la vera mossa cinica arriva adesso. Il 17 giugno, il leader della maggioranza del Senato Usa ha introdotto un decreto legge su incarico di Obama, il suo sponsor principale: il Preventing Stillbirth and Suid Act, una misura che combatte le cosiddette morti in culla. Si tratta della pennellata pro-life sull’atteggiamento abortista di Obama, che deve ora corteggiare il voto cristiano. State attenti ai politici carismatici. Blair è soltanto l’esempio più recente di leader egomaniaco ed auto-referenziale che non pochi danni ha provocato. Pochi fra noi vi hanno avvertiti contro di lui, ma le masse – a cui i media hanno fatto il lavaggio del cervello – potrebbero non ascoltare. E l’America si ritroverebe a subire l’esperienza di un dominio di ciarlataneria in una scala mai vista prima. Le conseguenze globali potrebbero essere veramente profonde. Obama in questa settimana all’estero ed il fatto di averlo pronunciato a Berlino (anche se da «cittadino e non da candidato») non era casuale. Per gli Stati Uniti, nessuna città europea ha un vincolo emotivo così intenso come Berlino.
I tedeschi sono stati, un tempo, i piú fedeli alleati dell`Europa continentale e proprio loro si sono ritrovati ad essere tra i critici più determinati dell’amministrazione Bush. Un sondaggio del German Marshall Fund ha rivelato che l’adesione dell’opinione pubblica tedesca alla politica americana è caduta dal 68% del 2002 al 38% di oggi. Anche per questo i tedeschi investono molte aspettative sulla possibile presidenza Obama. La stampa della capitale negli ultimi giorni è andata su di giri, come davanti a una rockstar: «Berlino impazzisce», scriveva un giornale; «un uomo destinato a vincere parla davanti alla Colonna della Vittoria» strillava un altro. Un giornale ha pubblicato un foto-
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Per il neocon Usa la Colonna della Vittoria è un simbolo ambiguo
Caro Obama, vincerai la jihad? di Bill Kristol ro certo che Barack Obama sarebbe stato accolto “alla grande”a Berlino. La mia non era una scommessa difficile: un recente sondaggio ha dimostrato, infatti, che l’opinione pubblica tedesca preferisce Obama al rivale John McCain (con 59 punti percentuali di distanza). Ma questa benevolenza non ha cancellato l’angoscia della Germania. Dicono infatti che la Cancelliera Merkel non abbia gioito affatto all’idea di un novello Ronald Reagan di fronte alla Porta di Brandeburgo. Pertanto gli organizzatori della campagna di Obama hanno deciso di farlo parlare alla Siegessäule – la Colonna della Vittoria – nel centro cittadino. Una struttura davvero imponente, in special modo se si hanno inclinazioni militariste. Si tratta di una grande colonna sormontata da una statua dorata della Vittoria alata, che celebra le vittorie prussiane su Danimarca, Austria e Francia. Molta strada ci divide ormai dalle guerre europee del XIX secolo e dal regime nazionalsocialista del XX secolo.Tuttavia, come ha scritto domenica il settimanale Der Spiegel, alcuni politici tedeschi sono preoccupati per la scelta di questa sede. Il vicepresidente dei Liberaldemocratici si è chiesto se il candidato democratico «sia stato ben consigliato nella scelta del luogo ove tenere un discorso sulla sua strategia per creare un mondo basato su una maggiore cooperazione». Per un democratico-cristiano, il fatto di parlare di fronte al monumento che celebra la vittoria su Paesi che sono oggi amici ed alleati «ha un significato simbolico alquanto problematico».
E
montaggio con le foto dei politici tedeschi tutti somiglianti al candidato democratico. Insomma, Barack Obama non è ancora eletto, ma Berlino non perde tempo e lo mette allo stesso livello di John F. Kennedy. La sua frase più famosa Ich bin ein Berliner detta durante la sua visita del 1963 nella città simbolo della Guerra fredda e la frase ugualmente famosa - di Ronald Reagan nel 1987 davanti alla Porta di Brandenburgo «Mr. Gorbaciov tiri giù questo muro», hanno indotto la stampa (e l’opinione pubblica) a una sorta di gara su quale sarebbe potuta essere la frase storica pronunciata da Obama.Tutti i maggiori canali del mondo hanno trasmesso l´evento in diretta.
Eppure, la Berlino politica ha gestito la visita di Obama con molto meno entusiasmo. La Cancelliera Merkel lo ha incontrato solo in mattinata spostando così di un giorno le proprie vacanze. In serata si trovava già a Bayreuth per il grande festival annuale di musica
wagneriana ed intendeva, «magari», guardare dal televisore della sua stanza di albergo il discorso. Nessuno tra i politici tedeschi di spicco era presente alla Siegessaeule. Neanche il ministro degli Esteri, il socialdemocratico Steinmeier, che ha incontrato Obama nel pomeriggio. Come nel caso del minivertice con la Merkel non è stata organizzata nessuna conferenza stampa; nessun giornalista tedesco ha potuto parlare con Obama. Cosí, niente di concreto è emerso dopo le consultazioni. Anche se tutti sapevano da ore che Obama avrebbe spinto gli europei a sperare in una cooperazione futura piú aperta, ma anche bisognosa di maggiori impegni, soprattutto in Afghanistan. Un nervo scoperto per i tedeschi, che Obama ha preferito non “sfrugugliare”troppo. Anche perché la Merkel al riguardo era stata molto chiara: il governo tedesco ha in programma un aumento delle truppe in Afghanistan da 3.500 a 4.500 soldati e niente piú. Anche il Ministro degli esteri Steinmeier ha ribadito in un intervista per il settimanale
Die Zeit - che la Germania è in Afghanistan un partner affidabile per gli americani sin dal 2001 e che non progetta ulteriori cambiamenti oltre quelli giá pianificati.
Nella
stessa
intervista
Steinmeier sosteneva inoltre che la posizione della Merkel sull’ipotesi di un discorso di Obama davanti alla Porta di Brandenburgo era stata troppo “puntigliosa”. Tanto che per settimane il disaccordo fra i due è stato più che palpabile. La verità è che anche in Germania è cominciata la campagna elettorale (per il 2009) e i socialdemocratici vorrebbero tantissimo che la gloria di Obama ravvivasse la loro immagine. Detto questo, una cosa è orami chiara a tutti: la futura politica estera degli Stati Uniti verso gli alleati della Nato non sarà molto diversa sia che alla Casa Bianca salga Obama che McCain. L’importante è che sia diversa da quella di George W. Bush.
Condivido lo sdegno di ogni individuo civilizzato per il militarismo prussiano e la profonda avversione per il nazionalsocialismo. Eppure credo che la scelta di quella colonna sia un segno di speranza. Spero che significhi che Obama a Berlino sia andato oltre il messaggio anodino che gli organizzatori della sua campagna hanno pubblicizzato: un dibattito sullo “storico partenariato fra Stati Uniti e Germania” e il rafforzamento delle relazioni transatlantiche. Mi chiedo se Obama abbia scelto la Colonna
della Vittoria per pronunciare il suo discorso in quanto simbolo di buon augurio, di vittoria. Vi è un altro precedente illustre. Come Obama ben sa, è stato ampiamente paragonato – specie in Europa - ad un altro giovane e carismatico leader del Partito Democratico, John F. Kennedy. Forse, a Berlino, Obama ha scelto di seguire le sue orme. Quando, nel giugno ’63, il presidente Kennedy parlò di fronte ad una folla immensa nel municipio di Berlino ovest, la vittoria della Guerra fredda sembrava essere una remota speranza. I sovietici avevano soffocato la rivolta dei tedeschi dell’Est nel 1953 e la ribellione ungherese del 1956. Nel 1961 era stato eretto il Muro di Berlino e meno di un anno prima la crisi dei missili cubani aveva portato il mondo sull’orlo della guerra. Erano in molti in Europa e nel resto del mondo a voler trovare una via d’uscita a quello scontro. Parlando a nome del mondo libero, Kennedy sfidò coloro che erano anti-comunisti ed i pacifisti. Redarguì «i molti individui in tutto il mondo che davvero non comprendono, o affermano di non comprendere, qual è la vera questione che separa il mondo libero da quello comunista». Rimproverò aspramente coloro che, in Europa e nel resto del mondo, «affermano che si possa lavorare con i comunisti». A tutti costoro, Kennedy disse: «Che vengano a Berlino». Forse Obama – con la Colonna della Vittoria alle spalle – vuole lanciare la sfida a coloro che oggi ritengono impossibile prefigurare una vittoria contro gli jahidisti. Kennedy guardava al giorno in cui Berlino e la Germania avrebbero potuto riunirsi in piena libertà. Affermò che, quando quel giorno fosse arrivato, gli abitanti di Berlino Ovest «sarebbero stati soddisafatti per essere stati in prima linea.» Oggi la prima linea si trova altrove, in una lotta contro un diverso nemico. Non sappiamo se il jihadismo si rivelerà un nemico più o meno forte del comunismo, ma forse, grazie ai notevoli sacrifici fin qui condotti e a dispetto di alcuni sbagli, Obama capirà che il mondo libero potrà provare quella serena soddisfazione solo dopo aver conseguito una significativa vittoria.
politica
pagina 4 • 25 luglio 2008
Due scuole di pensiero: il vero obiettivo è D’Alema, del cui peso ingombrante si vuole liberare Veltroni; ma molti pensano che il gruppo L’espresso voglia spazzar via anche Walter e impadronirsi del Pd
Il giallo del fuoco amico Perché “Repubblica” spara contro Fassino? I retroscena di un inatteso tradimento di Errico Novi
ROMA. Ci sono due ipotesi. Una forse più fantasiosa. L’altra più cupa, inquietante, eppure meno inverosimile. Repubblica in ogni caso vuole riscrivere gli equilibri nel Pd. Solo che secondo la prima scuola di pensiero che si fa strada nel centrosinistra, l’attacco a Piero Fassino e a Nicola Rossi concesso a Giuliano Tavaroli nell’intervista pubblicata tre giorni fa è un modo per avvantaggiare Walter Veltroni, per liberare il campo dalla concorrenza. Che porta sempre il nome di Massimo D’Alema, vero obiettivo delle rivelazioni fatte dall’ex responsabile della sicurezza di Telecom. Ad ascoltare l’altro filone che si consolida tra i democratici e in generale nel centrosinistra, c’è invece qualcosa di più pesante.
Un’invasione di campo, la ricerca di un azzeramento che il ”partito-Repubblica” vorrebbe attuare. Innanzitutto per accantonare la leadership di Walter Veltroni, inadeguata da molti punti di vista. E quindi per impadronirsi più o meno indirettamente dell’intero partito, modificarne l’antropologia, anzi ricondurla a una più sana matrice di antiberlusconismo puro, di neo-giustizialismo.
Quello che è certo è che quasi nessuno, nella galassia democratica, pensa che l’intervista a Tavaroli sia casuale, rappresenti un semplice atto di obbedienza al diritto dovere di informare. C’è una ragione, una seconda lettura inevitabile, un fine non dichiarato dal giornale di
più gettonata», racconta Ritanna Armeni, «di sicuro è in corso uno scontro tra poteri forti di cui sfugge in parte il significato». Certo, ci sono anche le ombre sollevate su Marco Tronchetti Provera, che il Corriere della Sera dirada con una
Caldarola teme una volontà di azzeramento della leadership, non abbastanza antiberlusconiana per i gusti dei commentatori del quotidiano, che invocano un neo giustizialismo semi dipietrista
E tutta l’aula applaude Piero n ringraziamento istituzionale e bipartisan, dedicato a tutti coloro che hanno manifestato la loro solidarietà in questa vicenda che «deve essere archiviata al più presto». Lo ha espresso oggi alla Camera Piero Fassino, in risposta all’applauso scrosciante che ha accolto la conclusione del suo intervento in Aula. Fra le tante cariche politiche ringraziate direttamente - i vertici di Camera e Senato Fini e Schifani, così come il presidente della Repubblica Napolitano – non è stato però citato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Commosso «per la grande espressione di stima», Fassino ha auspicato che «ogni comportamento, politico e civile, venga ispirato al principio di responsabilità sociale».
U
Piero Fassino è intervenuto ieri alla Camera e ha ringraziato per i molti attestati di solidarietà ricevuti, tra gli altri, anche dal Quirinale, dopo l’intervista a Tavaroli pubblicata dal quotidiano di Ezio Mauro che gli attribuisce la titolarità dell’Oak fund
Ezio Mauro. In un caso l’ambizione di influire sul rafforzamento della leadership attuale, nell’altro appunto l’uscita dall’equivuivoco del giornale-partito, che decide di levarsi la maschera e scendere in prima linea. In transatlantico molti si sono iscritti al primo filone. «Mi è sembrata questa l’ipotesi
contraerea dai riflessi prontissimi. Eppure non è possibile che il quotidiano da decenni schierato per una nuova sinistra consideri il duro colpo al Pd come un sacrificio inevitabile. «L’idea infatti è dare un sostegno a Veltroni con l’indebolimento di D’Alema: molti sono convinti che questo sia il
fine dello scoop di Repubblica», attesta la Armeni.
E invece il gioco di potere potrebbe essere più forte. Ne è convinto Giuseppe Caldarola: «Si tratta di uno schema semplice: il gruppo L’espresso, gli intellettuali che vi fanno riferimento, più ancora di Carlo De
Benedetti, sono del tutto insoddisfatti di Walter Veltroni.Trovano insufficiente la sua ostilità a Berlusconi, e nello stesso tempo non abbastanza robusta la sua capacità di controllo del partito. Se Veltroni fosse così forte e spietato da impedire il riemergere di Massimo D’Alema assolverebbe bene al suo compito, pensano a Repubblica. Ma così è come se non servisse, è un’anatra zoppa. E per questo lanciano un’opa sull’intero Pd». C’è una prima sfumatura, dunque: il Pd è un soggetto debole, almeno quanto il suo segretario. Serve una raddrizzata e l’unico modo per darla è colpire il Pd il più in alto possibile, mettere in ginocchio la classe dirigente (Pier Fassino è pur sempre un ministro ombra) e aprire la strada a una rivoluzione interna. L’assunto di partenza contiene dunque una legittimazione morale, un richiamo alle superiori ragioni della sinistra. Ma in fondo c’è un quadro ideologico di riferimento più lineare e tradizionalista: «Non è che si vuole trasformare il Pd in un grande aggregato dipietrista.
politica
25 luglio 2008 • pagina 5
Il direttore del Riformista
Il direttore di Europa
«Non è complotto, «Resti un giornale, è solo sfiducia» non detti la linea» colloquio con Antonio Polito
Ma certo i commentatori di Repubblica invocano un neo giustizialismo senza equivoci, e non possono sopportare le gradazioni di grigio e la presunta scarsa incisività che Walter sembra esibire nei confronti del premier. Si vuole andare verso una forza più apertamente antiberlusconiana. Che dia consistenza a un partito radical espressione del capitalismo familiare, della Fiat e di altri colossi. È da quando esisteva ancora il Pci che Repubblica fa sentire il fiato sul collo della sinistra».
È così? C’è davvero tanta presunzione nel partito-Repubblica? Davvero la politica, le sue strutture, devono limitarsi a svolgereun ruolo ancillare? Se lo chiedono in molti, tra i democratici. Chi ha lavorato per anni con Piero Fassino aggiunge alle ragioni di angoscia la certezza che «uno come Piero non può avere nulla a che vedere con l’Oak fund di Londra». Rappresentanti del Pd romano si chiedono come è possibile che tutto avvenga proprio ora: «Certi attacchi potevano avere delle spiegazioni quando il centrosinistra era al governo. Ma ora a che serve rivoluzionare la classe dirigente se al governo ci sono altri.? C’è velleitarismo, si gioca con i soldatini. E se fosse solo questo il significato del fuoco amico?».
ROMA. Antonio Polito, che oggi dirige il Riformista nel quotidiano di via Cristoforo Colombo ci ha lavorato. E non vede nessun complotto contro il Pd. Ma solo un progressivo scetticismo nel suo progetto politico. «Certo - afferma - la reazione del Pd, con Fassino che parla di delegittimazione del gruppo dirigente, fa capire che al Nazareno quantomeno hanno avvertito che queste vicende li hanno indeboliti». Cosa sta accadendo a Repubblica? A Repubblica sta sorgendo lo stesso interrogativo che ha già preso gli altri elettori di centro-sinistra: avvertono il rapido indebolirsi del progetto della forza del progetto del Pd e del carisma della leadership di Veltroni. E sono attraversati da un progressivo scetticismo. Non credo che da questa riflessione politica discendano le iniziative giornalistiche che sono - almeno io lo continuo a credere - autonome. Ci ho lavorato in quel posto e so che la libertà del giornalista, valutata sulle notizie che porta, prevale su qualsiasi disegno. Quindi sono contro le dietrologie che immaginano che D’Avanzo risponda ad un progetto. Però la reazione del Pd, con Fassino che parla di delegittimazione del gruppo dirigente, fa capire che quantomeno che al Nazareno hanno avvertito queste vicende come un colpo al Pd. D’altra parte è anche evidente che quando c’è qualcuno che puoi prendere a pugni ogni mattina che ti svegli e ti viene voglia di farlo, ne deduci che quel qualcuno non è poi così forte. E ora che accadrà a Repubblica? In effetti, in queste settimane il giornale ha già rimproverato al Pd di essere poco aggressivo nei confronti di Berlusconi. Tanto che ha manifestato una simpatia chiara per il movimento che poi ha portato a Piazza Navona, anche se poi ha dovuto fare marcia indietro. L’esito di quella manifesta-
“
zione è stata un tale regalo a Berlusconi che loro non hanno potuto fare altro che ammetterlo. Quindi questo sì. Certo si deve aggiungere che il quotidiano fondato da Scalfari ha un grosso potere nei confronti dell’elettorato di centro-sinistra. Un potere che è stato esercitato in più occasioni, nella sua storia per favorire una o un’altra soluzione. E quindi credo che in futuro Repubblica seguirà con partecipazione diretta i centri della politica per capire in che modo ci si possa indirizzare in futuro in maniera convincente verso una rivincita del centro-sinistra: l’obiettivo del giornale è togliere Berlusconi da Palazzo Chigi. Ma se alla fine ci sarà uno cambio di linea editoriale, quanto questo influenzerà anche il vostro giornale? Posso dire che non cambierà nulla. Come ho già detto Repubblica sta puntando molto sul fatto di riuscire a mandare a casa Berlusconi. A noi invece ha sempre preoccupato costruire una forza di centrosinistra che sia in grado di governare. Non a caso abbiamo sempre evitato tutte le scorciatoie che possono accelerare la fine di Berlusconi, compresa quella dei processi e del giustizialismo. Non ci credevo già nel 2006. Ecco perché ero d’accordo con il cosiddetto ”salvacondotto” o ”Lodo-Alfano” che ha creato una polemica con Scalfari. Bisogna uscire da questa specie di incantesimo della politica italiana, che rafforza solo Berlusconi. (f.r.)
Quello che sta accadendo certamente non fa bene al Pd. Lo dimostra anche la reazione di Fassino
”
colloquio con Stefano Menichini
ROMA. «Quando Repubblica fa schieramento a favore di uno o bene ad interpretare il malumore contro l’attuale governo e a dargli voce. Però se pretende che il Pd segua questa linea sbaglia. Non è un partito, ma un quotidiano». Stefano Menichini, direttore di Europa, giornale vicino al Pd, riconosce al quotidiano di Ezio Mauro il peso che si è conquistato tra le file della sinistra. Ma questo, sostiene, non lo autorizza a dettare l’agenda politica alla formazione di Walter Veltroni. Cosa sta accadendo dentro Repubblica? Attualmente assistiamo ad una fase di disorientamento abbastanza evidente, dovuto anche ad un investimento economico consistente, ad un risultato elettorale controverso, a difficoltà di mercato editoriale. C’è un errore di valutazione. E riguarda il peso che si ritenga che il quotidiano di via Cristoforo Colombo abbia sull’opinione pubblica di centro-sinistra. I giornali escono, in un modo o nell’altro, non solo sulla base di schieramenti politici o calcoli, ma anche per dinamiche tipicamente giornalistiche: per ragioni di concorrenza tra testate, per di ragioni concorrenza dentro le testate fra diversi giornalisti, per valutazioni del direttore. Non tocca dar retta al fatto, come adesso si dice che Repubblica toglie la fiducia a Veltroni o vuole contrastare D’Alema: a queste cose ci ho sempre creduto poco. Quindi, cosa sta succedendo? Mi limito ad avvertire che è sbagliato interpretare tutto quello che un giornale scrive - in questo caso parliamo di un quotidiano vicino al Pd - in una logica di
“
dell’altro esponente nella lotta politica interna. Le ragioni che spingono i mezzi di informazione ad affermare certe cose sono altre. Ma nel caso della manifestazione di Piazza Navona ha assunto una linea molto precisa Repubblica ha avvertito nella sua ”fetta”di lettori un crescente sentimento che ha pensato potesse trovare risposta nella manifestazione di Piazza Navona. E ha ritenuto di poter dar voce ad una parte consistente di opinione pubblica di orientamento democratico che non vuole una linea molto oltranzista sul tema del dialogo delle riforme con il centro-destra. Ha sbagliato a farlo perché ha dato l’appoggio preventivo ad una manifestazione che invece si è dimostrata profondamente lontana anche dai sentimenti di rispetto e di civiltà nello scontro politico che questo quotidiano interpreta. Quindi ha commesso un errore. Ma fortunatamente questo sbaglio non ha condizionato il Pd, a parte questo singolo esponente. Ciò è avvenuto indipendentemente dall’endorsement di Ezio Mauro. E dimostra che il partito ha la forza di resistere alla pressione di un giornale che esprime certo un’opinione pubblica molto vicina, ma in quel caso aveva sbagliato analisi. Quindi è stato un errore voler dettare l’agenda al Pd? Quando Repubblica si considera e si muove come un partito sbaglia. E sbaglieremmo noi a considerarla come tale. Il giornale ha diritto ad interpretare un flusso di opinione pubblica che ha visto i limiti del governo Berlusconi per come si è mosso. Ma se pretenda che il Pd segua questa linea commette un errore: spesso i politici ci vedono meglio di chi dirige il giornale. (f.r.)
Il giornale rappresenti pure i suoi lettori ma non si trasformi in un partito politico
”
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politica
Il campo di battaglia: le Regionali abruzzesi che si svolgeranno probabilmente il 30 novembre prossimo
Di Pietro affila le armi contro il Pd di Marco Palombi
ROMA. Antonio Di Pietro si appresta alla guerra totale col Partito democratico. Campo di battaglia saranno le Regionali abruzzesi, che si svolgeranno con ogni probabilità il 30 novembre prossimo e l’arma scelta è la sua stessa persona. Il leader di Italia dei valori, in buona sostanza, ha in mente di impegnarsi in prima persona candidandosi a presidente della regione: alcuni esponenti del suo partito glielo hanno chiesto esplicitamente e ne hanno ricevuto risposte vaghe ma decisamente possibiliste. In realtà lo stato maggiore di Idv dà già la cosa per scontata, convinto com’è che le condizioni necessarie alla discesa in campo del grande capo non tarderanno a verificarsi. In soldoni, Di Pietro si aspetta un deciso peggioramento dello scenario abruzzese: «E’ la nuova Tangentopoli», aveva dichiarato all’indomani dell’arresto di Ottaviano Del Turco. Sembrava più una speranza che una certezza, eppure il “memoriale Masciarelli” pubblicato ieri (quello in cui si tirano in ballo Cicchitto e Verdini e si quantificano in 400 milioni le tangenti passate di mano in questi anni) sembra spostare la barra proprio in questa direzione: il tribuno molisano è certo che lo scandalo scoppiato a Pescara non sia che all’inizio e si attende che l’inchiesta si allarghi ulteriormente coinvolgendo politici di rilievo nazionale. Solo se questo accade si potrà permettere una campagna elettorale tutta d’attacco: regionale in teoria, nazionale in pratica. Il modello comunicativo è pronto, rozzo ma efficace come al solito: tutti rubano, a destra come a sinistra, il sistema politico non è riformabile, affidatevi al “partito degli onesti”, e cioè al Tonino nazionale. Praterie oratorie che Di Pietro non vede l’ora di occupare. D’altronde le intemerate anti-casta sono il suo pane, e questo nonostante gestisca Italia dei valori come se fosse non un partito politico, ma una sua proprietà privata. E’ così sicuro che tutto andrà come prevede che mercoledì si è spinto ad annunciare a Radio radicale che Italia dei valori correrà da sola in ogni caso: «Non ci siederemo al tavolo delle trattative, perché non c’è più nulla da trattare, c’è solo da cambiare la classe dirigente del nostro Abruzzo trasversalmente intesa, da destra a sinistra». È più di una scelta d’occasione, per Di Pietro questa è la scommessa della vita ed è giocata soprattutto contro il Partito democratico: fare di Italia dei valori un partito a doppia cifra, capace di poter competere in solitaria in qualunque tornata elettorale. Il trampolino di lancio sarà proprio l’Abruzzo: alle ultime politiche Idv aveva raggranellato un ottimo 7,1% dei voti, ma con Di Pietro candidato potrebbe tranquillamente attestarsi su una cifra compresa tra il 20 e il 30 per cento. Un’enormità. Da quel momento i dipietristi punterebbero tutto sulle europee della primavera 2009
per dare la spallata definitiva a un Pd in crisi di progetto e identità. Da settembre il conto è facile: si tratta di nove o dieci mesi di campagna elettorale contro i leader democratici e, ovviamente, Berlusconi. «Se si mette male quello potrebbe pure vincere”». Un deputato abruzzese proveniente dalla Margherita lo ammette con un fondo di terrore nella voce. Il fatto è che centrosinistra e centrodestra stanno facendo di tutto per dare una mano all’ascesa dell’ex ministro. Il Pd, soprattutto, è alle prese con una guerra intestina tra ex Ds e ex Ppi.
La cosa ormai è pubblica: Enrico Paolini, diessino, vice presidente della regione, ha rilasciato un’intervista per dire che lui e i suoi sono diversi dagli ex Dc, che s’erano già accorti che qualcosa non andava nella sanità e che la Procura lo ha perfino ringraziato per la sua col-
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Manovra: la Camera approva il decreto Sì dell’Aula della Camera al decreto legge che contiene la manovra economica. Il testo è passato al Senato. I voti a favore sul provvedimento sono stati 305, 265 quelli contrari, tre gli astenuti.
Napolitano promulga il decreto fiscale Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha promulgato la legge di conversione del decreto legge n. 93 del 2008, recante disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie. Il Presidente ha proceduto alla promulgazione dopo aver preso atto che il decreto legge n. 112 del 2008 in materia finanziaria, nel testo risultante dalla legge di conversione approvata in prima lettura dalla Camera dei Deputati e attualmente all’esame del Senato- si legge in una nota diffusa dal Quirinale- prevede l’abrogazione del comma 3 dell’articolo 5 del decreto legge n. 93 che affronta in modo inappropriato il delicato tema della flessibilità del bilancio. Il Presidente - conclude la nota- ha tenuto conto altresì della nuova formulazione del comma 7 dell’articolo 60 del predetto decreto legge n,. 112, in materia di metodologia di valutazione degli effetti delle norme di spesa sui saldi di finanza pubblica.
Berlusconi /1: I giudici sono contro di me «Quando la finirete di non capire o di far finta di non capire che contro di me c’é stata una persecuzione inacettabile, sarà sempre troppo tardi». Lo ha detto, rivolto ai giornalisti, il premier Silvio Berlusconi dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il premier della Repubblica di Malta Lawrence Gonzi. «Il Lodo Alfano, è il minimo che una democrazia potesse apprestare a difesa della propria libertà», ha continuato Berlusconi. A chi gli chiedeva se si avvarrà del Lodo Alfano, il presidente del Consiglio si è limitato a rispondere: «Avevo già detto inutilmente che non mi sarei avvalso della clausola sospendi processi che è stata chiamata salva premier».
Berlusconi/2: Caso Mills, rinvio a settembre Il plenum del Csm all’ unanimità ha deciso di rinviare a settembre, alla ripresa dell’ attività dopo la pausa estiva, la risoluzione in cui si contestava al presidente del consiglio di aver usato «espressioni denigratorie» nei confronti dei magistrati di Milano del processo Mills, in cui Berlusconi è accusato di corruzione in atti giudiziari. L’assemblea ha accolto la proposta del vice presidente Nicola Mancino. La risoluzione sarà discussa in un plenum straordinario, a settembre, al quale forse parteciperà anche il Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Una seduta nella quale, secondo il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, si dovra’ parlare anche del ruolo, della funzione e delle attribuzioni del Csm.
Il leader di Idv:«Correremo da soli:bisogna cambiare i dirigenti del nostro Abruzzo,trasversalmente intesi,da destra a sinistra»
laborazione. Dopo averla letta Franco Marini, gran padre del Pd abruzzese, s’è decisamente arrabbiato avendo subodorato un tentativo di veto alla candidatura di Luciano D’Alfonso (mariniano, sindaco di Pescara e giovane segretario regionale del partito) o di un altro ex democristiano alla successione di Del Turco. L’ex presidente del Senato ha chiarito via agenzie: gli ex ds non sono antropologicamente diversi e Paolini in questi anni non stava sui monti ma in Giunta. Sottotesto: il candidato è nostro e comunque non sarai tu. Anche il Pdl si prepara allo scontro, ma completamente al buio: «Finché non si capisce se commissariano la sanità, nessuno si farà avanti sul serio», spiega un esponente di spicco di Fi. Di Pietro intanto aspetta e prega: se il candidato è D’Alfonso, finito in un paio di inchieste assai imbarazzanti, la strada è tutta in discesa.
Tragedia sul monte Bianco: 4 morti Quattro alpinisti - un padre e tre giovani figli olandesi - sono morti ieri mattina precipitando dal Mont Dolent (3.800 metri), sul massiccio del Monte Bianco. La madre (unica superstite dell’incidente) è ora ricoverata sotto shock all’ospedale Parini di Aosta. Le vittime stavano scendendo in cordata. Sono in corso le operazioni di recupero da parte del soccorso alpino valdostano e della guardia di finanza di Courmayeur. La scorsa settimana, dalla stessa parete era precipitata una cordata di tre alpinisti francesi che si erano feriti gravemente. stato un escursionista francese che si trovava su un colle di fronte al luogo della tragedia a dare l’allarme alla Protezione civile valdostana. Ha affermato di aver visto con il binocolo scivolare la cordata. La cima del Mont Dolent, che si trova nell’alta Valle Ferret, sopra Courmayeur, è lo spartiacque in Valle d’Aosta dei confini Italiano, Francese e Svizzero.
politica ostituire Vittorio Sgarbi è cosa complicata. Sarà per questo che anche a Roma, Gianni Alemanno ha nicchiato nel conferirgli giusto e meritato incarico. Dopo la dipartita meneghina, piuttosto che qualcuno di meno noto, il sindaco Letizia Moratti ha preferito tenersi l’interim. E a sentire i dirigenti del Comune, pare anche con gusto, poiché la signora Moratti oltre a possedere una splendida raccolta di quadri antichi, si diletta di arte contemporanea con un occhio attento al mercato cinese. D’altronde (a meno di colpi di mercato di stampo calcistico a cui la famiglia Moratti ha abituato i tifosi, per esempio chiamare l’ex ministro della cultura francese Jack Lang) qualsiasi sostituto pensabile avrebbe dovuto confrontarsi con l’eredità e il caratteraccio di Sgarbi. In quanto alla prima, un asse non troppo consistente, si poteva trovare un accomodamento. Sul secondo, non ci sono protezioni di sorta.
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In questi giorni tanto, per divagare, si può raccontare l’ennesima trovata del critico ferrarese. Nonostante la schiacciante vittoria a Salemi, primigenia capitale d’Italia e oggi riconosciuto capoluogo dello Sgarbistan, la carica di sindaco di provincia è poca cosa rispetto alle potenzialità di Vittorio che sperava di ottenere altro alto incarico, soprattutto adesso che il Centrodestra è al governo. Lo iato tra potenzialità e realtà deve essere sembrato così ampio e insostenibile che a un certo punto Sgarbi ha deciso di vergare di proprio pugno un dotto articolo in cui, criticando le politiche culturali del ministro Sandro Bondi e del sindaco Gianni Alemanno, elogiava se stesso per la fedeltà alla causa, l’indefesso lavoro fatto a Milano, e vari altri antichi meriti. Detto per inciso è in programma per ottobre l’uscita di un urticante pamphlet (pubblicato dalla sorella Elisabetta in Bompiani) in cui si darà conto dell’operato come assessore e dei motivi che lo hanno separato dalla Moratti e, crediamo, con il quale verrà sancita definitiva rottura. Orbene anche all’immaginifico Sgarbi pareva però troppo firmare l’apologia di se stesso in vita, ed è per questo che con un rapido giro nelle redazioni ha proposto il suddetto articolo chiedendo che altri se ne assu-
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Ha proposto un articolo apologetico sul suo operato da inserire nel libro in uscita a ottobre
Lo strano caso del pamphlet di Sgarbi di Angelo Crespi messero la paternità. E, cosa strana, nei vari quotidiani (il Giornale, per esempio) nessuno se l’è sentita di sottostare al giochino. Per sua sfortuna, Sgarbi alla fine ci ha provato anche con Massimiliano Parente, scrittore di vaglia, la cui cattiveria è pari solo al genio. Parente ha rifiutato la “complicità”con Sgarbi il quale, in un trascendere di sms in cui coprolalia e raffinata esegesi critica letteraria si mischiavano perdutamente, ha dato il peggio e il meglio di sé. Solo che il perfido Parente, manco fosse un occhiuto pm o un giornalista in cerca di scoop, ha fatto pubblicare per intero sul Riformista queste sorta di intercettazioni. Dalle quali esce il tentativo di “apocolocyntosis”del divo Sgarbi, un autoinzuccamento che ha lasciato anche gli amici intimi esterrefatti.
Torniamo però a Milano. Sostituire Sgarbi è difficile, per cui la Moratti ha deciso di costituire un comitato di 8 saggi per rilanciare la città sede dell’Expo. Nello specifico sono Davide Rampello, presidente della Triennale e da molti indicato come naturale successore di Sgarbi; Francesco MichelI, finanziere di successo, melomane ex presidente del Conservatorio e oggi patron del MiTo, il festival musicale in coproduzione tra Milano e Torino; Andrée Ruth Shamman direttore del teatro Franco Parenti; Massimo Vitta Zelman, azionista di maggioranza di Skirà, casa editrice leader dei libri e cataloghi d’arte; Gianni Canova, critico cinematografico; Massimiliano Finazzer Flory, animatore della manifestazioni culturali milanesi; l’architetto Roberto Perregalli; e infine Gisella Borioli, giornalista di moda e anima del
Letizia Moratti (in parte destinataria delle critiche del volume dell’ex assessore) intanto ha nominato un comitato di saggi per rilanciare la politica culturale SuperstudioPiù, un team di comunicatori tra i più creativi del settore. La questione è quella di dotare Milano di una politica culturale degna di una manifestazione mondiale come l’Expo. Senza particolari animosità, si può concordare nel dire che il bilancio della precedente gestione non è troppo positivo, sebbene dal punto di vista dell’esposizione mediatica è sembrato di vivere un fermento mai visto prima. Ciò nonostante, solo poche iniziative dell’assessorato hanno avuto un riscontro unanime di critica e pubblico (per esempio Bacon), mentre altre sono state inutilmente innalzate agli onori della cronaca (Serrano, Botero, arte e omosessualità…) producendo, nonostante il chiasso, più danno a Sgarbi che alla Moratti.
In generale, molte sono state le tensioni tra le varie anime culturali presenti in città, e l’idea di un così variegato parterre di “saggi” va forse nella direzione di un appeacement dopo che le numerose frizioni e lacerazioni non avevano di certo dato solido consenso né al sindaco, né alla giunta, né a Sgarbi. Il quale è caduto sulla politica culturale e non, come tende a dire, sulle manifestazioni culturali, poiché l’assessore è chiamato in funzione di un progetto politico e se l’arte – è vero - non ha colore, gli assessorati e gli assessori, purtroppo per lui sì. Ora però si tratta di ripartire con grandi progetti culturali (pensiamo all’ipotetica mostra su Leonardo Da Vinci, o alle celebrazioni di Caravaggio, di cui una preziosa tela verrà esposta in autunno proprio a Palazzo Marino), manifestazioni che possano fare da eco all’Expo e agli imponenti progetti architettonici che modificheranno nel bene e nel male il volto del capoluogo e che esaltano le reali capacità imprenditoriali di una città capitale. Le forze economiche ci sono, gli uomini pure. Si stanno preparando i contenitori. Si tratta solo di pensare ai contenuti.
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ntonio Catricalà a tutto campo. Su richiesta del ministro dell’economia Giulio Tremonti, il presidente dell’Antitrust interverrà per dipanare il puzzle della speculazione che stringe alla gola i consumatori. Che il prezzo del petrolio e dei prodotti agricoli contenga in sé un quid di speculazione è cosa che, soltanto, gli Stati Uniti e qualche economista controcorrente si ostinano a negare. Che poi all’origine di questi fenomeni siano anche problemi inerenti l’economia reale – i cambiamenti degli equilibri mondiali – e una politica monetaria eccessivamente accomodante è questione che non inficia la prima preposizione.
A
Ma Catricalà interverrà anche nella gestione del processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Il decreto sulla manovra consente deroghe alle procedure di evidenza pubblica. L’authority vigilerà sul rispetto della norma. Prezzo? Nuove assunzioni per 40 funzionari. Che per l’Antitrust, come si legge nella relazione presentata ieri in Parlamento, sono indispensabili «per evitare la paralisi dell’istituzione» e per il buon fine stesso della riforma. Evidentemente l’esclusione di tutte le authority dal blocco del turn over, che è stato imposto invece a tutte le altre amministrazioni pubbliche, non è stato ritenuto sufficiente. Basterà questo per riportare in auge un modello che mostra evidente il segno dei tempi? In passato non erano mancati tentativi di imporre una riforma, facendo convergere le diverse strutture verso un modello con caratteristiche omogenee. Ma il tentativo si era arenato ancor prima di giungere all’esame del preConsiglio dei ministri. Colpa dei veti incrociati e delle pressioni trasversali. Troppi i legami tra la politica e gli esponenti di un’alta burocrazia blaÈ sonata. dubbio se il modello dell’authority abbia avuto successo. Costrette a operare all’interno di una struttura giuridica che reca evidente i segni della tradizione napoleonica, soltanto raramente sono riusci-
pensieri La crisi di queste istituzioni poco adatte al sistema italiano
Authority, tanti compiti e troppa confusione di Gianfranco Polillo te a disegnare un profilo istituzionale forte. Troppe le reciproche diversità. Troppi i campi di intervento – dalla concorrenza alla telecomunicazioni, dalla tutela della privacy ai lavori pubblici, e così via – la sensazione è che esse abbiano operato in solitudine. E che i successi conseguiti siano stati più la conseguenza del-
la personalità dei propri presidenti, che non il frutto di una cultura sedimentata. Nella lunga storia delle authority più antiche – l’Antitrust appunto e la stessa Consob – non sono man-
no spinta? Per definizione il riformista è gradualista. E la politica l’arte del possibile. Violare questi parametri può portare, come nel caso di Alitalia, ad un vero e proprio disastro. È solo un esempio. Ma di questi fatti è costellata la storia, seppur breve, di queste istituzioni. Si pensi soltanto alle limitazioni poste alla costituzione della banca dati sugli insolventi. Rispetto della privacy, si è detto. Ma con quali conseguenze sulla gestione del credito al consumo? Oggi che gli Usa mostrano quanto delicato sia questo strumento forse è stato meglio così. Ma c’è mai stato qualcuno che ha cercato di analizzare le conseguenze ultime di decisioni, pure giuridicamente, corrette? Certo, oggi l’Antitrust, grazie alla presenza di Antonio Catricalà – lo diciamo senza enfasi – è un’altra cosa. Ma basta questo a riscattare tutto il resto? E come la mettiamo con Mario Draghi che rivendica più poteri per la Banca centrale nella sua azione di vigilanza sulle banche? Anche in questo caso la riforma di qualche anno fa – la ripartizione per funzioni – fu più conseguenza della congiuntura politica che di un disegno organico. Il suo predecessore, Antonio Fazio, “governava”la Banca d’Italia, tra scalate e intercettazioni telefoniche, in grado di rivelare al mondo l’opacità di quei rapporti e la contiguità politica di quei processi. È cambiato il panorama?
L’Antitrust deve anche combattere le speculazioni e vigilare sulla riforma dei servizi pubblici. Bankitalia attende nuovi poteri. E l’economia finisce per risentirne cate luci e ombre. Pensiamo, per esempio, ad alcuni episodi che hanno riguardato antiche fusioni bancarie, come quelle tra Mps e Banca 121. Oppure alla stessa attività dell’Antitrust, al tempo di presidenti come Giuseppe Tesauro. C’è ancora chi gli imputa responsabilità nel fallimento di Alitalia. Fu giusto, in nome del principio di concorrenza, difeso con la stessa determinazione con cui i Templari presidiavano il Santo Sepolcro, autorizzare i voli low cost? A differenza degli altri Paesi europei – Francia e Germania – questa scelta ha segmentato il mercato interno. E frantumato il bacino d’utenza della compagnia di bandiera, contribuendo alla sua crisi irreversibile.
I consumatori hanno avuto il vantaggio di un volo a basso costo. Ma gli stessi sono stati chiamati più volte a contribuire al suo salvataggio. Qualche viaggiatore, più svelto degli altri, ne ha beneficiato. Ma l’insieme dei contribuenti – anche quelli che l’aereo non lo possono prendere – ne ha pagato il prezzo relativo. Si poteva trovare una linea me-
Riflettere su questi temi significa spersonalizzare al massimo il problema. Quegli istituti sono figli di un sistema giuridico – quello anglosassone – che ha poco a che vedere con la prassi amministrativista che regola ancora la struttura pubblica italiana. Sono coerenti con il sistema della common law, con la presenza dello Stato ridotta ai minimi, con la dimensione di un mercato che è il principale regolatore della vita non solo economica del Paese. In Italia, purtroppo, vigono altre regole. Diametralmente opposte. Il problema è capire in quale direzione si intende andare. Se vogliamo più mercato, allora le authority devono essere addirittura potenziate. Ma per farle, occorre ridurre drasticamente la superficie dell’intervento discrezionale. Almeno del dirigismo se non proprio del “colbertismo”. Quindi più concorrenza, meno intervento dei pubblici poteri, più libertà e regole poste a tutela della stessa. Ma se questo non avviene, allora il corto circuito diventa inevitabile. Con il rischio di trasformare il meglio nel nemico del bene.
& parole
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Un sondaggio Ipsos dimostra che il 20 per cento dei cattolici vuole un nuovo partito
Ipotesi sul ”popolo invisibile” di Rocco Buttiglione Ipsos ci regala una ricerca sugli orientamenti dell’elettorato cattolico nelle recenti elezioni e nel periodo immediatamente successivo. La ricerca, pur presentando qualche difetto sul quale torneremo dopo, è molto ben fatta e metodologicamente bene impostata. Offre, dunque, materiale per una seria riflessione.
L’
In primo luogo, l’Ipsos ci spiega che, in realtà, l’espressione «mondo cattolico» è assai imprecisa. Tutti gli italiani vivono nello stesso mondo e tutti sono influenzati, pur se in modi e misure diversi, dalla tradizione cristiana o dagli insegnamenti della Chiesa Cattolica. Se l’11,4 per cento degli italiani partecipa alle attività delle associazioni e dei movimenti cattolici, il 34 per cento partecipa regolarmente alla messa domenicale; un altro 40,6 per cento partecipa in modo irregolare alla liturgia della domenica ed un 12,4 si dichiara cattolico non praticante. L’87 per cento degli italiani ha dunque un legame con la Chiesa Cattolica. Solo l’11,4 per cento si dichiara non credente e l’1,6 per cento di altra religione. L’area di ascolto dell’insegnamento della Chiesa è molto più ampia di quello dei praticanti regolari. Parlare di cattolici significa in realtà parlare del popolo italiano. Se guardiamo ai temi della bioetica, vediamo che solo il 19 per cento degli italiani pensa che la legge sull’aborto vada bene così com’è. Un 20 per cento vuole restringere la possibilità di abortire o proibire del tutto l’aborto. Un 54 per cento vuole più prevenzione e più aiuto per evitare l’aborto. Sembra lecito concludere che uno sforzo per una politica volta ad offrire alle donne alternative all’aborto avrebbe il sostegno di una vasta maggioranza. Sembra che si possa anche dire che per la maggioranza degli italiani l’aborto non sia un diritto ma un disvalore morale che tuttavia non deve essere punito. Se veniamo alle questioni più politiche, il primo dato che colpisce è che con il governo Prodi l’elettorato cattolico praticante si è spostato verso Berlusconi. Si potrebbe dire che la perdita di sostegno nell’area
Il popolo cristiano, e in particolare quella parte di esso che esprime il desiderio di un soggetto (laicamente) cristiano, non si sente rappresentato nella politica italiana. Parta da qui la sfida dell’Unione di Centro cattolica è la vera causa della sconfitta del Partito democratico. Questo però non sarebbe del tutto vero. Uno spostamento analogo si è avuto, anche se in misura forse minore, nell’elettorato più laico. Le questioni che vengono indicate come di massimo rilievo non sono state molto diverse fra i cattolici ed i non cattolici e fra di esse non risultano i temi «eticamente sensibili».
Su questo bisogna però fare due osservazioni. La prima, è che sulla lotta alla disoccupazione e sui temi economici l’elettorato non ha colto una grande differenza fra le due maggiori forze politiche. La seconda, è che una differenza significativa appare sul tema della sicurezza e dell’immigrazione. A questo tema l’elettorato cattolico pare essere molto sensibile. Qui c’è l’unico errore di metodo che mi sembra si possa rimproverare alla ricerca. Manca una domanda sulla identità cristiana della nazione italiana e sulle sue radici. E’
probabilmente questo tema, più che non quello delle questioni «eticamente sensibili», ad avere guidato le scelte degli elettori cattolici. Essi sono aperti all’accoglienza ma chiedono che l’immigrato mostri apertura e rispetto verso i valori tipici della nostra cultura.
È infine interessante ciò che l’indagine dice sul tema di un partito fortemente (pur se laicamente) impegnato sul tema dei valori cristiani. Il 18 per cento degli intervistati ritiene che di un simile partito ci sia bisogno. Alcuni commentatori ritengono che questo indichi il definitivo superamento di una identità cristiana organizzata in politica. A me sembra, invece, che oggi nessun partito abbia in realtà un nocciolo duro identitario del 18 per cento, certo da ampliare ed accresce attraverso l’azione politica. Certo, l’idea di un partito di questo tipo si inscrive assai più facilmente in un sistema di coalizioni che non in un sistema bipartitico:
ma dal bipartitismo l’Italia è, mi pare, ancora lontana. Ancora più interessante è il fatto che una maggioranza relativa degli intervistati individui nell’Udc il partito che con più coerenza difende o rappresenta i valori cristiani in politica. D’altro canto, l’elettorato dell’Udc è costituito in grande maggioranza da cattolici praticanti. Io credo che da questi dati sia possibile trarre qualche interessante conclusione politica. Esiste lo spazio elettorale in Italia per un partito a forte radicamento nei valori cristiani. Esiste un’area del 18-20 per cento interessata ad una simile ipotesi politica. E’ ovvio che in tale area è già insediato l’Udc, che però non riesce ad esaurirne la capacità. Questa area non coincide con quella dei cattolici praticanti, che è molto più ampia. Per di più, molti elettori che non sono cattolici praticanti favoriscono l’ipotesi della formazione di un simile partito. Tutto questo dice che l’ipotesi è una ipotesi laica non confessionale. Cristiana ma laica. Ovvero, anche laica perché cristiana. E’ ovvio che un simile partito sarebbe un partito.
Oltre il nocciolo duro di coloro che vi aderiscono per un sentimento di identità, esso dovrà poi cercare di aggregare un consenso tutto politico costruito sui programmi e sugli altri elementi che possono contribuire alla sua caratterizzazione. In altre parole, un partito così può andare anche molto oltre il 20 per cento. Un partito che parte dall’Udc ma va molto oltre l’Udc. Non somiglia questo molto all’idea della Unione di Centro? Il popolo cristiano, e in particolare quella parte di esso che esprime il desiderio di un partito (laicamente) cristiano, non si sente rappresentato nella politica italiana così come essa è oggi. Non si fida del Partito Democratico, e nemmeno del Popolo delle Libertà anche se (maggioritariamente) lo vota. Questa è la sfida dell’Unione di Centro. E’ una sfida che non si vince solo con una professione di fede. Si vince con l’intelligenza di un programma in cui quel popolo si possa riconoscere. E si vince con il coraggio di una testimonianza che non tema di affrontare anche battaglie impopolari, e forse di minoranza, in nome di una idea diversa della politica come servizio alla nazione e come servizio ideale.
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opo il mortale incidente di lunedì scorso, il governo centrale cinese ha ordinato l’immediata chiusura di tutte le miniere di carbone della provincia centrale del Guanxi. Lo conferma il portavoce dell’Amministrazione di Stato per la sicurezza sul lavoro, l’organismo alle dipendenze del Politburo che ha l’ultima parola sulle questioni legate alla produttività del lavoro. Secondo il portavoce del gruppo, i responsabili della miniera allagata nella contea di Tiandong, dove sono morti almeno sette minatori (ma altri 57 risultano “scomparsi” a cinque giorni dall’incidente), non hanno messo in atto le misure di sicurezza obbligatorie per le miniere. Ed ora, tutte quelle della provincia dovranno pagare. Ad un’attenta analisi, si tratta dell’ennesima manovra propagandistica in vista delle prossime Olimpiadi. Il governo ha già troppi problemi a cui pensare, troppe questioni che rischiano di attirare il biasimo internazionale, per permettersi anche degli scandali legati alle miniere di carbone nazionali. Che, per inciso, sono le più mortali al mondo.
D
Secondo stime dell’Amministrazione di Stato per la sicurezza sul lavoro, infatti, in Cina avviene circa l’80 % delle morti in miniera di tutto il mondo, sebbene copra solo il 35% della produzione di carbone planetaria. Perché lo sviluppo economico cinese continua a uccidere i minatori? E perché questi non possono fare a meno di scendere sotto terra? La risposta si trova innanzitutto nella spaventosa crescita economica, per forza di cose collegata all’aumento della domanda energetica. Attualmente il carbone
mondo Temendo nuove proteste, il governo impone i sigilli alle cave del Guanxi
Per i Giochi, la Cina chiude le miniere di Vincenzo Faccioli Pintozzi
La mancanza di fonti di energia in tutto il Paese induce i proprietari delle miniere ad incrementare la produzione, aumentando così il rischio di incidenti. E le morti. L’inosservanza delle norme di sicurezza e la mancanza di sistemi di ventilazione sono le cause più comuni di incendi ed esplosioni. Garantire la sicurezza è responsabilità del governo centrale e degli amministratori locali, ma questi sono divenuti semplici burocrati corrotti, che si comprano con pochi yuan. A livello locale, la maggior parte degli amministratori delle miniere copre gli
Il carbone rappresenta il 70 per cento del fabbisogno energetico del Paese, il vero motore della crescita cinese. Ma ogni milione di tonnellate estratte muoiono quattro minatori. Nel silenzio fornisce il 70 % del fabbisogno energetico della Cina, non sufficiente però a soddisfare la sete energetica del Paese. A fronte di un tasso di crescita del Pil di poco più del 9 %, il consumo di energia negli ultimi due anni è aumentato di circa il 16 %. Nei primi sei mesi del 2008 le importazioni petrolifere sono aumentate quasi del 40 %, un tentativo di diversificare significativamente le fonti di energia. Ma questo non basta. La Cina produce circa 1,7 miliardi di tonnellate di carbone all’anno, ma gli economisti prevedono che la produzione crescerà di un altro 15 % per venire incontro alla domanda.
incidenti per evitare le indagini e l’eventuale chiusura dell’attività. Questi squali della new economy cinese preferiscono investire nel corrompere le autorità piuttosto che nell’ammodernamento delle strutture e nell’equipaggiamento per la sicurezza. Nello Shanxi, dove a novembre 2006 sono morti 166 minatori, i dirigenti della miniera avevano ordinato ai lavoratori di tornare sottoterra nonostante i continui incendi minacciando licenziamenti. Il rispetto delle norme di sicurezza non può neppure essere assicurato dai sindacati, vietati in Cina. L’informazione interna sulle condizioni dei minatori, inol-
tre, è manipolata dal governo che blocca i giornalisti dal raccontare le storie degli incidenti minerari. Eppure, questi dirigenti sembrano intoccabili. La loro posizione è rafforzata dal fatto che la Cina non ha firmato la Convenzione internazionale sulla sicurezza nelle miniere stilata dall’International Labour Organization nel 1995, e soprattutto dalla relativa tolleranza con cui Pechino controlla le insufficienti regolamentazioni già in vigore e la loro attuazione. Al contrario, la domanda energetica crescente ha spinto le autorità a chiedere rifornimenti d’emergenza; molte delle piccole miniere più inefficienti e pericolose, chiuse dal governo già nel 2000 a seguito di numerose manifestazioni di protesta compiute dai minatori di tutto il Paese, sono state riaperte senza essere in regola.
Vanno poi messi in conto i macchinari inadeguati e la mancanza di aggiornamenti nel campo delle tecniche estrattive: all’alba del 2009, le miniere cinesi funzionano per la maggior parte grazie al lavoro manuale di circa 5 milioni di persone. Le ultime statistiche industriali mostrano che ogni milione di tonnellate di carbone estratto muoiono 4 minatori: secondo l’agenzia cinese ufficiale Xinhua, la percentuale è 100 volte superiore a quella registrata negli Usa. Tra il 1992 ed il 2002, gli incidenti avvenuti in miniera negli
Stati Uniti hanno ucciso 434 lavoratori. In Cina ne sono morti 59.543, senza considerare che il numero è probabilmente da raddoppiare, data la censura imposta dai comunisti agli incidenti sul lavoro.
D’altra parte, nelle regioni centrali e settentrionali del Paese il lavoro in miniera è l’unica possibilità di vita per la maggior parte della popolazione, che proviene dai villaggi più poveri della Cina e non ha alcuna istruzione. Questi sono coscienti dei rischi che comporta il mestiere di minatore, ma lo preferiscono al lavoro nei campi dato il continuo aumento della domanda energetica. Nelle miniere di Fuxin (enorme centro minerario nella provincia settentrionale del Liaoning, dove il 14 febbraio del 2004 sono morte 213 persone), un operaio guadagna in un mese circa 1.500 yuan (150 euro). Per ottenere la stessa cifra, un contadino impiega sei mesi. Fece scalpore, nel marzo del 2007, la storia di un minatore del Guanxi che ebbe le gambe amputate dopo un incidente disastroso nella sua minierae decise di tornare al lavoro perchè non riusciva a sopravvivere con la pensione di invalidità. Chiudere le miniere riduce il rischio di decessi, ma senza un piano di sostegno economico per tutta la popolazione Pechino rischia di venire attaccata di nuovo, questa volta dal motore vivo della nazione. Ed il governo non se lo può permettere.
Il Parlamento annulla la riforma Aubry
Cancellate le 35 ore di Matteo Milesi avorare 235 giorni invece di 218, lavorare di più per guadagnare di più: ecco la ricetta di Sarkozy per far rinvenire una Francia economicamente al tappeto. La battaglia contro le 35 ore si è per il momento conclusa con l’approvazione da parte del Parlamento della legge che di fatto svuota di contenuto la riduzione dell’orario di lavoro ideata a fine anni Novanta dalla socialista Martine Aubry e fortemente sostenuta dal premier Lionel Jospin. Hanno protestato ieri in diverse centinaia, il sindacato comunista Cgt ha minacciato di rendere «inapplicabile la riforma nelle imprese», ma in definitiva non c’è stata una levata di scudi. La riforma consente di negoziare impresa per impresa un accordo sull’orario settimanale che possa andare al di là del tetto invalicabile di 35. Il riferimento restano le 48 ore settimanali massime, plafond europeo accettato dai 27 membri. Il testo prevede anche la possibilità di adottare un accordo interno all’impresa se c’è la firma di organizzazioni che rappresentino almeno il 30% del personale e senza che altre organizzazioni maggioritarie siano contrarie. Consente, inoltre, ed è questa la misura che ha provocato la limitata manifestazione di ieri, di aumentare i giorni lavorativi forfettariamente da 218 a 235 all’anno. I quadri dirigenti, che da oggi lavoreranno qualche ora in più, erano i principali beneficiari del provvedimento di Jospin: la fantasia di un’epoca economicamente meno inquietante di oggi li disegnava più felici per il tempo libero a disposizione, per i week-end allungati da trascorrere con i bambini e per l’opportunità di creare, grazie alle ore lavorate in meno, nuovi posti per i giovani. Promesse disattese. Dieci anni dopo, nulla di questo sembra più lontano dalle preoccupazioni dei francesi: sempre ieri la Renault, gigante dell’auto che per anni ha veleggiato col vento in poppa, ha annunciato che taglierà 5mila posti di lavoro.
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mondo
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Al Wto si litiga sui dazi, mentre scatta l’emergenza alimentare nei Paesi arabi produttori di greggio
Pane & petrolio per gli sceicchi di Pierre Chiartano
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Intrigo internazionale per Karadzic Secondo il Daily Telegraph, Karadzic è stato preso grazie alle soffiate di Ratko Mladic. Secondo il quotidiano britannico l’ex generale serbo-bosniaco avrebbe barattato il tradimento con la promessa di non dover rispondere al Tribunale penale internazionale dell’Aia. Per il giornale, che cita fonti dei servizi segreti tedeschi, Mladic starebbe trattando le condizioni della resa. Nell’operazione Karadzic un ruolo importante è stato svolto da quasi tutti i servizi occidentali. Secondo la Bbc, gli euro-americani temono che in caso di incidenti innescati dal futuro arresto di Mladic, il governo serbo possa cadere. Non si esclude però nemmeno l’eventualità che Belgrado entri definitivamente nell’orbita russa, consentendo a Mosca di piazzarsi nel cuore dei Balcani.
Mongolia, Parlamento bloccato
ane o petrolio, è questo dilemma a lacerare le corti saudite e i Paesi del Golfo. Se da un lato sono all’incasso con i petrodollari, dall’altra devono metter mano al portafogli per servire in tavola cibo per propri cittadini. Investiti in pieno dalla crisi di grano, riso e di tutti quei prodotti alimentari che servono per la dieta delle popolazioni locali, sono alla ricerca di soluzioni a breve e medio termine. E non sempre agiscono per il meglio. Chiudere le frontiere all’export e controllare i prezzi, alcuni governi pensano così di limitare i danni, assicurando le derrate per il consumo interno. A volte però innescano meccanismi perversi. Se Argentina ed Ucraina, i maggiori esportatori di cereali al mondo, cominciassero ad introdurre restrizioni al trading, una situazione già grave, peggiorerebbe. Ad esempio, l’intervento del governo di Buenos Aires sul prezzo dei semi di soia ha fatto crollare le previsioni per la produzione di fine anno. In previsione di minori introiti gli agricoltori produrranno meno. Il governo egiziano ha proibito l’esportazioni di riso fino ad ottobre, nel tentativo di calmierare il settore. Ora sono le forze armate che sfornano pane a prezzo controllato. L’Egitto è il più grande importatore di grano al mondo e ne ha visto crescere il valore del 50 per cento lo scorso anno. Però l’intervento del Cairo ha fatto calare il costo a tonnellata del riso dai 430 dollari dell’ottobre 2007 ai cento di oggi. Anche l’Etiopia ha bandito tutte le esportazioni di cereali. I Paesi del Golfo stanno correndo ai ripari. L’Arabia Saudita in aprile ha eliminato i dazi sulle importazioni di grano e tagliato le tariffe per quelle di pollame.
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Le file davanti ai forni per il pane possono diventare il preludio a sovvertimenti sociali e politici. Occorre intervenire, ma come? Servono circa 10 miliardi di dollari all’anno per importare il 90 per cento di derrate alimentari necessarie per gli Stati dell’area del Golfo. Il riso basmati del Pakistan e dell’India, elemento chiave della dieta in quella regione, ha visto levitare il conto del 70 per cento in un anno. In Quatar, nel primo trimestre 2008, il prezzo medio degli alimenti è salito del 19 per cento. Non c’è dubbio per gli esperti, che gran parte della colpa di questa dinamica dei prezzi sia legata alla produzione di etanolo per carburanti, il cosiddetto biofuel, almeno secondo le analisi di The Middle East. La questione è controversa; metti tre economisti in una stanza a parlare del ruolo del biofuel nella crisi dei prezzi dei cereali, e otterrai 4 teo-
Il Sudan diventerà il mercato e il granaio che dovrà fornire di cibo le tavole dei Paesi del Golfo rie. E alcuni governi, come quello degli United arab emirates, stanno correndo ai ripari con misure draconiane. Prezzi bloccati nei supermercati per 30 prodotti base. Anche le grandi catene di distribuzione come Carrefour, Lulu, Banyas co. e l’Unione delle cooperative hanno calmierato la spesa delle famiglie. Nonostante tutte queste misure, le previsioni danno l’aumento intorno al 40 per cento per fine anno. Il Sudan diventerà il centro, il mercato di riferimento, il granaio che dovrà fornire di cibo i Paesi del Golfo e non solo. Si stanno preparando piani d’investimento infra-
strutturali, per dighe e sistemi irrigui e una lotta senza quartiere alle intermediazioni. Filiere corte e bando delle speculazioni sulle commodity. Almeno queste sarebbero le intenzioni. Thailandia e Filippine stanno posizionandosi come fornitori di riso per il Bharein, mentre l’Arabia saudita ha finanziato con 500 miliardi di dollari il World food programm dell’Onu di cui saranno beneficiari Kenya, Yemen, Etiopia e Somalia. Però non è solo un problema di produzione. I dati Fao sottolineano come sia più una questione di distribuzione, tanto che l’India pur producendo più riso di quello che serve al mercato interno ne importa comunque una certa quantità.
L’Abu Dabi development fund comunque sta investendo nel nord del Sudan, acquistando circa 28mila ettari da trasformare in terreni agricoli. Il mese scorso, i ministri dell’Agricoltura e del Commercio sauditi hanno visitato Karthum, per valutare un piano d’investimenti in loco. Incoraggiando il governo sudanese a varare leggi che facilitino investimenti privati - sempre sauditi nell’allevamento e in agricoltura. Guardando i numeri è palese che il caro-cibo, almeno da un punto di vista inflattivo colpisce i Paesi del Golfo, ma soprattutto la Cina, dove incide per il 75 per cento sugli aumenti generali dei prezzi (dati Financial Times). Quindi se da un lato Pechino ha tirato il freno a mano, facendo fallire gli accordi di Doha, dall’altra deve gestire una situazione, sul fronte alimentare, apparentemente ingestibile senza un tavolo di concertazione multilaterale. Tutto questo mentre al vertice di Ginevra del Wto ”volano gli stracci”.
Ad tre settimane dalle contestate elezioni, l’organo legislativo di Oulam Bator, non ha potuto ancora iniziare i lavori. Secondo il presidente del Partito democratico, Tsakhia Elbegdorj, lo scrutinio si sarebbe svolto in modo scorretto. Oltre a ciò, le indicazioni del partito per risolvere la crisi non sarebbero prese in considerazione. Per tale ragione i deputati di opposizione boicottano l’insediamento del parlamento. Il 29 giugno, nei violenti scontri che hanno accompagnato le contestazioni elettorali, sono morte cinque persone. Il partito di governo pretendeva almeno 39 dei 76 deputati. Il Pd avrebbe avuto 25 seggi, mentre per altri 10 mandati sarebbe necessario ricontare i voti. Affinché il parlamento possa insediarsi serve la presenza di 57 parlamentari neoeletti.
Tripoli contro Berna La compagnia nazionale libica dei trasporti marittimi ha annunciato ieri la sospensione dei rifornimenti di petrolio al Paese elvetico in rappresaglia per l’arresto del figlio minore di Muammar Gheddafi avvenuto la settimana scorsa a Ginevra. Le compagnie nazionali libiche di trasporto marittimo e dei porti, hanno reso noto che entrata e operazioni di scarico delle imbarcazioni battenti bandiera svizzera nei porti libici sono blocate. «Nuove misure» in vista, se «Berna non archivierà il caso montato» contro Hannibal Gheddafi e non presenterà le scuse. Nei giorni scorsi Tripoli aveva adottato diverse misure di ritorsione contro la Svizzera. Secondo quanto riferito ieri dal ministero degli Esteri, Gheddafi ha richiamato alcuni diplomatici da Berna, sospeso il rilascio dei visti per i cittadini svizzeri, annullato alcuni voli diretti in Svizzera e arrestato due elvetici. Berna ha invitato i suoi cittadini a non recarsi in Libia.
Corea del Nord ed Asean fanno la pace Il regime stalinita di Pyongyang e i Paesi dell’Asean hanno sottoscritto un trattato di amicizia. Il documento è stato firmato ieri a Singapore dal ministro degli esteri coreano, Pak Ui-chun. In precedenza il capo della diplomazia del regime comunista si era incontrato con il segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice ed altri quattro partner del cosidetto gruppo dei sei del programma che tende al disarmo atomico della penisola coreana. La Rice ha sottolineato tuttavia, che la strada da percorrere per la pace è ancora lunga.
Il premier Iraq visita Roma E’ giunto a Roma il primo ministro iracheno, Nuri al-Maliki, per un incontro con i vertici italiani e vaticani. Il premier ha incontrato ieri sera alle 20.00 il Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. All’incontro erano presenti anche i titolari dei dicasteri di Difesa, Industria e Interno. Questa mattina alle 11.00 al-Maliki viene ricevuto nella residenza estiva di Papa Benedetto XVI, a Castelgandolfo. Atteso un comunicato della Santa Sede. La delegazione irachena ripartira’ sabato.
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Il bipartitismo che non c’è
segue dalla prima pagina
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bbiamo alle spalle un ventennio sprecato. Le pochissime istituzioni riformate (regioni, comuni, legge elettorale) lo sono state in modo approssimativo, obbedendo a suggestioni ideologiche o di convenienza, fuori da un omogeneo disegno nazionale condiviso. Perciò non si può dire che la transizione italiana sia compiuta. Essa lo sarà solo quando tali nodi troveranno finalmente soluzione. Ne consegue che il contesto politico (contenuti, alleanze, legittimazione reciproca etc…) che permetterà di scioglierli, deciderà anche il definitivo assetto del Paese. Chi e come realizzerà finalmente le grandi riforme? Chi e come farà davvero nascere la Seconda Repubblica? È questa la domanda che deciderà il futuro del Paese. E sarebbe un delitto far passare anche questa legislatura senza rispondere.
In realtà, il contesto dovrebbe essere obbligato: trattandosi di questioni di fondo della nostra vita collettiva bisognerebbe trovare le sedi e gli strumenti per soluzioni condivise. Ma finora non ci siamo riusciti. Il panorama è stato dominato, e ancora continua ad esserlo, da una sorta di guerra civile ideologica nella quale anche una parola debole come “dialogo” si trasforma in una missione impossibile.
Chi e come realizzerà le riforme? Da questa domanda dipenderà il futuro politico del Paese La Francia di Sarkozy è riuscita in pochi anni a riformare la propria Costituzione. Ed è tornata a giocare un ruolo propulsivo nello scacchiere europeo e mediorientale. L’Italia di questo primo decennio del nuovo secolo è invece imprigionata nelle sabbie mobili dell’impotenza politica.
UNA DEMOCRAZIA SENZA PARTITI? La seconda ragione della nostra risposta negativa è legata al problema della rappresentanza. Quale che sia il giudizio sui vecchi partiti, neanche i più disinvolti protagonisti dell’antipolitica, risiedano nel Palazzo o fuori, hanno il coraggio di teorizzare (neppure quando la praticano) che sia possibile una democrazia senza partiti. Eppure è proprio questo ciò che oggi rischia l’Italia. Di fronte alla lunga consunzione degli storici insediamenti politici (già prevista da Aldo Moro) e, poi, alla loro traumatica scomparsa, la politica italiana avrebbe dovuto procedere ad un serio lavoro di ricostruzione: dei fondamenti identitari, spiazzati dai mutamenti dell’assetto geopolitico mondiale; della forma partito per renderla adeguata ai nuovi sistemi di comunicazione e alle mutate caratteristiche della partecipazione; dei meccanismi di selezione della classe dirigente, accertato l’esaurimento delle tradizionali sedi di formazione e la crisi del collateralismo. In una parola, c’era bisogno di un’evoluzione del pensiero politico per individuare la strada di nuovi partiti di massa del XXI secolo. Più leggeri ma non meno radicati, più veloci ma non meno democratici. Viceversa
UN NUOVO TEMPO DELLA REPUBBLICA di Ferdinando Adornato
abbiamo assistito ad un generale decadimento, a volte imbarbarimento, del pensiero politico. Così, tra i vecchi partiti tramontati e i nuovi partiti necessari, ha vinto la pragmatica e sbrigativa soluzione del non-partito. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: la decadenza della qualità della rappresentanza parlamentare; la selezione delle classi dirigenti affidata a meccanismi casuali, oligarchici e padronali; l’assenza di sedi reali del dibattito politico e culturale.
La necessità di dotarsi di leader capaci di significative suggestioni simboliche, circostanza normale per ogni democrazia liberale, ha finito, in questo quadro, per determinare l’avvento di un leaderismo senza partiti, fenomeno invece assai anomalo in tutto il mondo occidentale. Dunque, a meno di non voler sostenere l’utopia di una
democrazia senza partiti, non c’è dubbio che, anche dal punto di vista della rappresentanza, la transizione non è finita e, di conseguenza, l’attuale assetto sistemico non può considerarsi definitivo. Anzi, nel ventennio sprecato, si è perfino aggravata la crisi tra rappresentanza e territorio, creando i presupposti non già di una generica disaffezione, ma di una vera e propria rottura storica, quasi antropologica, tra partiti e cittadini. Eppure non sembra esserci nel mondo politico la necessaria consapevolezza. Ci si accontenta di seguire la logica delle convenienze di breve momento. Ci si illude che la democrazia sia solo la periodica registrazione del consenso elettorale (o dei sondaggi). Non è così. Non è così negli Stati Uniti, figuriamoci se può essere così nello scenario europeo. Quando una democrazia viene ridotta a questo, vuol dire che è già entrata nel tempo della sua crisi.
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IL BIPARTITISMO CHE NON C’È L’evidenza di tali scenari ha indotto la sinistra e la destra, prima delle ultime elezioni, a realizzare due suggestivi “colpi di scena”: la nascita del Pd e del Pdl, evocando l’avvento di un bipartitismo capace di segnare in modo irreversibile il sistema italiano, e di risolvere i nodi della sua lunga transizione. È davvero così? O siamo di fronte all’ennesima illusione spacciata per realtà? La nostra sensazione è proprio quest’ultima: di trovarci di fronte ad un “finto bipartitismo senza partiti”. L’apparentamento con la Lega da una parte e con l’Italia del Valori dall’altra, assieme alla persistenza di partitini organizzati, ha prodotto in realtà due “coalizioni camuffate”. Semplificate certamente, ma pur sempre coalizioni: costruite non già soltanto sulla coerenza del programma, ma soprattutto sulla conquista del premio di maggioranza. Il dopo elezioni ha reso manifesta la finzione: dei rispettivi fronti, Bossi e Di Pietro, hanno subito dato vita a un cinema indipendente. Il risultato è che il governo in carica è, ancora una volta, costretto a mediare quotidianamente tra le diverse posizioni degli alleati. E perfino a registrare imbarazzanti scontri sul valore dei valori: l’unità nazionale. Può un ministro della Repubblica vilipendere gli stessi simboli che dovrebbe rappresentare? E può un maggioranza di governo conciliare uomini come Fini e Bossi che hanno opinioni così diverse su argomenti fondamentali della nostra democrazia? In questo scenario la decisiva discussione sul federalismo fiscale non trova certo il terreno più fertile per diventare davvero una svolta condivisa dell’intera comunità nazionale.
A Todi due giorni di discussione per tutto il mondo politico «Il bipartitismo che non c’è. Può durare l’attuale sistema?». È questo il titolo del seminario nazionale di cultura politica organizzato dalla fondazione liberal, presieduta da Ferdinando Adornato, che si svolgerà oggi e domani all’Hotel Bramante di Todi. Ai lavori, che saranno aperti dalla relazione di Adornato che pubblichiamo in queste pagine, interverranno autorevoli esponenti dell’Unione di Centro (tra gli altri, Cesa, Tabacci, Pezzotta, Buttiglione, D’Onofrio). Presiederà Angelo Sanza, coordinatore nazionale dei circoli liberal. Parteciperanno, oltre a tutti i parlamentari dell’Udc, anche numerosi ospiti: Maurizio Gasparri, Fabrizio Cicchitto, Francesco Rutelli, Clemente Mastella, Piero Fassino, Paola Binetti, Riccardo Nencini. Concluderà i due giorni di discussione Pier Ferdinando Casini.
L’Italia ha inventato il “bipartitismo di coalizione”: un’illusione scenica non riuscita Giacciono ancora irrisolti, negli attuali contenitori, due enormi nodi strutturali: la questione identitaria e la questione democratica. Nodi di fondo, che pongono l’attuale “mercato politico” in aperta contraddizione con l’articolo 49 della Costituzione.Tutto ciò mentre la dialettica dell’economia mondiale determina inediti scenari di pauperizzazione. Il combinato disposto tra crisi democratica e crisi sociale è da sempre un segnale di estremo pericolo per la convivenza civile delle nazioni.
Dal canto suo l’opposizione di sinistra non solo ha dovuto rinunciare a fare, come aveva dichiarato, un unico gruppo parlamentare, ma si è trovata costretta a dividersi, anche qui, addirittura intorno ad elementi costitutivi della civiltà politica: il rispetto per il Capo dello Stato e per il Pontefice. Su quali basi allora ci si era presentati assieme alle elezioni? Insomma, l’Italia ha inventato il “bipartitismo di coalizione”, evidentemente solo un’illusione scenica, per di più non riuscita. Un bipartitismo di marketing che solo per ciò che riguarda il Pd aveva preso le mosse da una seria operazione politica in favore della governabilità, cioè la rottura con l’area antagonista (per passare poi però dalla padella alla brace con Di Pietro), mentre per il Pdl ha determinato l’opposto: la rottura con una forza di centro. In ogni caso si tratta di un bipartitismo fondato, come si dice oggi, su partiti “liquidi”. Non c’è dubbio, infatti che, sia nel Pdl che nel Pd, sia marcata la sofferenza generata dalla mancata soluzione di quella questione identitaria e di quella questione democratica che segnano, come abbiamo detto, il declino dei partiti nell’attuale fase storica.
PDL E PD: QUESTIONE IDENTITARIA E QUESTIONE DEMOCRATICA Il Pdl. Si tratta, per ora, solo di un “cartello”, figlio di una precipitosa fusione elettorale tra An e Forza Italia. Vedremo quali caratteristiche assumerà dopo la sua costituzione, annunciata per gennaio, ma su alcuni elementi di fondo si può già ragionare.
Proprio qui a Todi, abbiamo teorizzato per anni il progetto di una casa comune dei moderati, frutto dell’evoluzione dei diversi partiti del centrodestra lungo l’asse del cattolicesimo liberale. La Casa delle libertà, che non era affatto un ectoplasma, ma un potenziale seme di futuro, poteva essere il laboratorio di una ricostruzione democratica della politica italiana e l’embrione di un nuovo vero partito popolare. Ma Berlusconi ha deciso di recidere questo seme. Nella mia relazione a un convegno, che ha avuto una certa eco pubblica, dicevo che il “berlusconismo” non sarebbe stato solo l’espressione di una concezione solipsistica del potere ma il lievito storico di un nuovo orizzonte politico a due condizioni: 1) garantire “la continuità storica dell’alleanza, la sua tenuta, il suo naturale svi-
luppo” 2) realizzare “la grande operazione culturale di costruire una stabile rete di formazione, di aggiornamento e di promozione della classe dirigente in modo da creare un’estesa e stabile comunità di governo, culturalmente consapevole”. Ebbene non è andata così. La continuità storica dell’alleanza è stata volontariamente cancellata, salvo che per la Lega. Quanto al secondo punto, mi pare evidente che sia stata scelta la strada opposta. E così, purtroppo, il berlusconismo rimane ancora, sostanzialmente, uno stile di potere e di consenso elettorale legati esclusivamente al carisma personale, non il collante storico di una nuova, stabile costruzione politica.
Così il Pdl va nascendo intorno a “noccioli valoriali” assai diversi da quelli del cattolicesimo liberale e del popolarismo europeo. Il nucleo più forte viene paradossalmente in prestito “dall’esterno”: dalla Lega, che ormai ha fatto prevalere le sue idee forza: la diffidenza nei confronti della globalizzazione, una certa declinazione dei concetti di sicurezza civile, economica e sociale che rimanda più a un protezionismo nord-centrico che al federalismo liberale.Tremonti ne è un magistrale interprete. Un secondo nucleo forte viene interpretato dall’area socialista di Forza Italia, ormai maggioritaria, che offre anche i migliori uomini all’attuale governo. Le parole chiave sono ancora quelle martelliane dei “meriti e bisogni” e quelle craxiane di “modernizzazione e decisionismo”. La resa dei conti con la magistratura è la sua colonna sonora. Un terzo nucleo forte, di impronta prettamente berlusconiana, (che rappresenta il vero “spirito di comunità” del Pdl) orienta i concetti di felicità, di autostima personale e di relazioni con l’altro intorno al mito del successo e al dominio dell’immagine. L’importante è raggiungere l’obiettivo che ci si propone; il modo attraverso il quale ci si arriva, conta meno. L’irresistibilità dei sogni che, nel mito americano, è legata al trionfo della bontà e della moralità umana contro ogni ingiustizia, nel mito italiano ritorna così, more solito, all’irrilevanza dei mezzi rispetto al fine. Si tratta dunque di un’aggregazione inedita per la storia d’Italia, una sorta di “nuova destra”, nella quale convivono, finora in modo disordinato, eredità craxiane, ispirazioni post moderne, suggestioni populiste e una forte vena di liberalismo antiburocratico. Forse ha ragione Berlusconi quando descrive il suo movimento come anarchico nei valori: ma proprio qui nasce la questione identitaria del Pdl, tuttora irrisolta e, comunque, lo ripeto, troppo legata alle singole persone (essenzialmente Berlusconi e Tremonti) per garantire la stabilità di un insediamento storico.
Certamente ci sono nel Pdl anche numerose aree e personalità legate all’ispirazione cristiana e cattolicoliberale. Di più: per realpolitik il Pdl è sempre molto attento a non creare frizioni con la Chiesa; ma se anche i suoi dirigenti lo negano, esibendo il certificato di garanzia del Ppe, appare abbastanza evidente come i principii e gli esponenti di tali aree, a differenza di ciò che succedeva al tempo della Cdl, rivestono ormai un ruolo del tutto marginale nel core business del partito di Berlusconi. Ciò appare del resto del tutto coerente per un soggetto nato escludendo, a priori, ogni rapporto con un partito di ispirazione cattolica, come l’Udc a meno che non fosse disposto, appunto, a rinunciare alla sua identità. Se la questione identitaria rimane, comunque, come è ovvio, controversa e controvertibile, non c’è invece alcun dubbio sul fatto che la questione democratica rappresenti, per il Pdl, una vera spada di Damocle. Sulla scia di Forza Italia, che ha tenuto solo due congressi in tutta la storia, non sono previste strutture ordinarie di discussione. L’unico sistema di promozione sono le nomination del leader e tutti i meccanismi di selezione non sono meritocratici (come si propone al resto del Paese) ma esclusivamente di tipo oligarchico-padronale. Può darsi che la spinta della comunità di An riesca a modificare la situazione. continua a pagina 14
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Difficile però immaginare che, finché regna Berlusconi, il suo partito possa rinunciare alla monarchia.
SINISTRA E MONDO CATTOLICO: LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA Il Pd. A differenza del Pdl è già un partito, perciò le difficoltà della questione identitaria si avvertono in modo trasparente. La ilevante attiene ad un complesso nodo della storia d’Italia: il rapporto tra la sinistra e il mondo cattolico. Lunga è la consuetudine di dialogo, di incontri, di intese, resa possibile da quello che fu uno dei meriti più grandi del Pci: non trasformarsi mai in un partito laicista. Può sembrare paradossale: ma a quel tempo era più facile. Quando il centro della scena era occupa-
o la politica italiana trova la forza, le sedi e le idee per riflettere su quale debba essere la costituzione materiale e formale dei partiti di massa del XXI secolo, oppure resteranno di fronte a noi solo due meste alternative: o la privata nostalgia del vecchio buon partito del
fino il consociativismo, funzionavano come correzione permanente del potere). Quel sistema finì per produrre un’instabilità cronica, quasi un diverso governo ogni anno, e si rivelò non più adatto a gestire la modernità. E oggi? Oggi abbiamo l’opposto: un sistema flessibile nelle
Novecento o la pubblica pochezza dei nonpartiti di questa confusa fase che, in realtà, sono più semplicemente partiti governati attraverso i media.
regole del torneo (c’è l’alternanza) ma portatore di una rigidità estrema, quasi militare, nello schema di gioco. Una volta che uno schieramento ha vinto le elezioni non c’è più alcuna possibilità di correzione parlamentare del potere o di adeguamento del governo ai mutamenti della società. Una sorta di bipolarismo leninista. Ora, siccome il mondo in cui viviamo è segnato dalla velocità del mutamento, risulta abbastanza evidente come questa estrema rigidità del potere, per di più di durata quinquennale, appesantisca di molto la vita pubblica e poco può fare, per alleggerirlo, una flessibilità soltanto episodica.
Decidere se aderire al partito socialista europeo è l’enigma identitario che deciderà il futuro del Pd to dalla questione sociale e dalla questione morale, gramsciani e dossettiani potevano trovare più di una convergenza ideale sulle finalità della democrazia. Ma oggi che si afferma con prepotenza la questione antropologica, e vengono messi in discussione i valori ultimi dell’esistenza, è molto più difficile, per i due mondi, intendersi sul rapporto tra persona e Stato o tra scienza e vita. Anche perché, nel frattempo, nella sinistra europea, sia nella versione post comunista che in quella socialdemocratica si è andata affermando, come nuova bussola ideale, “la frontiera dei diritti”. L’individuo e il cittadino hanno soppiantato la classe nella mitologia politica e l’impianto identitario dominante oscilla oggi tra il patriottismo costituzionale e l’individualismo libertario. È molto più difficile dunque, per gli eredi del Pci, resistere oggi al laicismo che sta diventando la forma mentis delle nuove generazioni di sinistra. Ed è di conseguenza assai complicato immaginare la cornice identitaria di un partito che, sulla questione antropologica, possa riuscire a conciliare gli opposti.
Il contrasto si è reso manifesto in Europa, laddove le parole della politica sono meno sfumate. Decidere se aderire al gruppo socialista appare perciò una scelta dirimente. Certamente è questo l’enigma identitario che pesa anche in Italia sul futuro del Pd.
IL LEADERISMO SENZA PARTITI Più complesso affrontare, per ciò che attiene al Pd, la questione democratica.Va reso atto, infatti, a chi nei Ds e nella Margherita ha governato “la fusione” di averlo fatto, oltre che con coraggio, anche con un reale processo costituente. A differenza del Pdl, il Pd è nato da una discussione che ha coinvolto l’insieme della classe dirigente e dei militanti. Non si sfugge però alla sensazione che, nel corso del tempo, dapprima il mito delle primarie, poi la diffusa suggestione del leaderismo senza partiti, abbia finito per contagiare anche il Pd. Il problema è molto semplice e riguarda tutti:
In sintesi: il bipartitismo che, dal punto di vista sistemico, è solo la riproposizione delle coalizioni con altri mezzi, dal punto di vista identitario si rivela ancora più contraddittorio e, dal punto di vista democratico, denuncia quella che forse è la verità più vera: i partiti italiani di oggi sono solo fragili contenitori costruiti intorno ad un’ipotesi di leader. La qual cosa, visto che la Grande Riforma non s’è fatta, forse corrisponde allo spirito del tempo ma non corrisponde ne’ alla Carta Costituzionale, ne’ alle necessità del Paese. Il bipartitismo non c’è. C’è solo il bileaderismo.
IL SISTEMA È A CINQUE, NON A DUE Si può cambiare? La fotografia dell’Italia che le recenti elezioni hanno scattato, ci dice che gli insediamenti storico-politici della cosiddetta Seconda Repubblica non sono due ma cinque. C’è l’area nord-populista rappresentata dalla Lega. C’è il cartello nazional-popolare del Pdl. C’è l’area cattolico-liberale dell’Unione di Centro, che confina con settori moderati del Pdl e del Pd. C’è l’area di centrosinistra rappresentata dal Pd. C’è infine l’area antagonista, a volte disegnata dal socialismo radicale di Rifondazione o dei Verdi, a volte dal giustizialismo di Di Pietro. Si tratta di un quadro irriducibile ad uno schema binario, come anche gli ultimissimi sondaggi dimostrano. Ebbene, da questo quadro può nascere, senza dover ricorrere al premio di maggioranza, un sistema politico stabile e governabile? I sostenitori del finto bipartitismo lo negano. A nostro avviso, invece, è vero il contrario. Nella Prima Repubblica avevamo un sistema rigido nelle regole del torneo (non era possibile l’alternanza) e flessibile nello schema di gioco (la dialettica tra le correnti dc e gli alleati, e per-
FLESSIBILITÀ VS. RIGIDITÀ È l’era della flessibilità. La chiediamo a tutti gli attori sociali: eppure la politica resta anchilosata in modo ancor più evidente che nel passato. Tanto per fare un esempio macroscopico: non possiamo consentirci, se anche i tempi lo suggerissero, la flessibilità di un governo di Grande coalizione come in Germania.
Volevamo uscire dalla rigidità della prima Repubblica: siamo entrati in una ancora più forte Il principale ostacolo alla flessibilità del sistema è, evidentemente, il premio di maggioranza. I suoi sostenitori obiettano che eliminarlo significherebbe aumentare la frammentazione politica e tornare a negare ai cittadini la scelta “diretta”dei governi. La prima obiezione è già confutata dalla realtà. Come abbiamo visto, infatti, la soglia di sbarramento al 4% è in grado di ridurre a cinque-sei i soggetti parlamentari. La seconda, invece, è un’obiezione seria. Ma non
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La vera protezione per le economie occidentali è da sempre l’innovazione liberale necessariamente vincente: perché non è affatto detto che un proporzionale senza premio di maggioranza, sul modello tedesco, debba inevi tabilmente riportarci ad un passato nel quale i governi si componevano dopo il voto. Un tale sistema permetterebbe alle cinque aree politiche del Paese tra loro alleanze di governo variabili, accrescendo le chance di scelta dei cittadini. Il valore è la democrazia dell’alternanza, non il bipolarismo Alleanze prima del voto, certo: ma libere, non imposte dal premio di maggioranza. Chi l’ha detto che l’Italia debba cristallizzarsi dentro la rigidità di uno scontro sempre uguale a se stesso (Pdl+Lega contro Pd+alleati)? Non è già tra l’altro evidente come questo derby impacchetta il Paese, blocca la sua mobilità, la sua creatività, la sua fantasia politica, in una parola la sua reale governabilità?
Alleanze prima del voto, dunque ma anche alleanze di “nuovo conio”. Saremmo tutti liberi di proporre di volta in volta agli italiani le alleanze più omogeee e più adatte alla fase politica, facendo davvero prevalere i programmi sugli schieramenti. Guadagnando la maggioranza assoluta dei seggi solo se gli elettori la concedono. E confrontandosi poi, liberamente, in Parlamento con tutte le altre forze politiche. La grande differenza con l’oggi non consisterebbe dunque nella rinuncia a proporre leader e governi prima del voto. Ma nella conquista di una nuova flessibilità politica. Nel superamento dell’attuale pietrificazione degli schieramenti. Nella liberazione dalla rigidità di un bipolarismo fondato sull’eterno scontro destra-sinistra, categorie otto-novecentesche che non corrispondono più, se non genericamente, alle domande delle società moderne.
In altri termini, bisogna fare attenzione a non persistere in una grave confusione teorica che è stata, in questi anni, la madre di molti errori politici. Il vero valore della nostra modernità politica non è il bipolarismo. È la democrazia dell’alternanza. Noi dobbiamo proteggere questa seconda, non il primo. Dobbiamo garantire il ricambio del potere, e la scelta preventiva da parte degli elettori dei partiti e degli uomini che debbono governare. Ma questo può avvenire anche con un sistema tribolare, quadripolare o a cinque. Il bipolarismo è solo una forma, in quanto tale variabile. La democrazia dell’alternanza è la sostanza.
È del tutto evidente che, allo stato, non ci sono le condizioni perché questo scenario di nuova modernità politica si affermi. Occorre che maturi la crisi dell’attuale rigidità sistemica e che, nel contempo, emerga un largo fronte critico capace di dare una scossa al conformismo politico-mediatico. Per l’intanto noi cominciamo ad offrire queste riflessioni e questa sede di discussione a tutti coloro che, nei diversi partiti, intendono confrontarsi liberamente.
UNA
NUOVA ALLEANZA PER IL CAMBIAMENTO Per quanto riguarda l’ area di Centro, lavoriamo perché gli esponenti del cattolicesimo liberale, coloro che credono nelle virtù civiche repubblicane, i protagonisti del popolarismo italiano, possano trovare le ragioni di un cammino comune. Oggi protagonisti di queste culture sono presenti in tutte le aree politiche, in particolare nel Pdl e nel Pd. Il nostro progetto è quello costruire insieme una nuova Alleanza per il cambiamento capace di unire tutti i moderati, gli innovatori,“i coraggiosi”, come è stato detto, oltre gli schemi del finto bipolarismo. È questo l’orizzonte della Costituente di Centro. I partiti non sono il fine dell’agire politico. Sono solo “strumenti” che vanno valutati nella loro reale capacità di affermare i valori e i programmi in cui si crede. Ebbene, scopo di questi appunti è sostenere che con gli attuali “strumenti” a sua disposizione l’Italia non ce la può fare a uscire dalle
strettoie nelle quali è precipitata. Dobbiamo chiudere davvero la transizione risolvendo la questione istituzionale, la questione giudiziaria, la questione dell’unità nazionale, la questione della modernizzazione liberale. Dovremmo farlo in un clima unitario di “ricostruzione nazionale”. Ma gli attuali “strumenti” non ce lo consentono. Perciò è necessario aprire un nuovo tempo della Repubblica.
VERSO
LA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA, DELLA FAMIGLIA, DELL’EQUILIBRIO Ma c’è di più. Tali questioni, pur così urgenti, appartengono in realtà già al nostro passato. Sono la drammatica espressione del nostro ritardo. Intanto il presente e il futuro propongono gli inediti problemi di uno scenario storico già mutato. Il tremontismo, che è l’espressione più intelligente dell’attuale governo, pensa ad un nuovo keynesismo. Ma se questo può essere una medicina per “reggere” nel presente, non è certo la ricetta giusta per preparare il futuro. La vera “protezione” per le economie e per le società occidentali è da sempre l’innovazione liberale. Analogamente: modernizzazione e decisionismo che rappresentano, come detto, le parole chiave di questo governo e, diciamo la verità, dell’intera classe politica di oggi, sono certo farmaci necessari per un Paese rimasto al palo da decenni, e segnato dall’immobilismo riformista. Ma il presente e il futuro parlano già d’altro. Suggeriscono di costruire una società della conoscenza, con la ricerca e la formazione al primo posto degli investimenti. Chiedono di muoverci verso una società dei consumatori e degli utenti, una società basata, in ogni settore dei servizi, sulla concorrenza dell’offerta e sulla libera scelta della domanda. In altri termini, una società a misura della famiglia. Consigliano di creare i presupposti di una società dell’equilibrio, capace di realizzare patti e intese sociali oltre il corporativismo, che è il vero nemico della solidarietà. Sappiamo già tutto questo. Ma non stiamo camminando sulla strada opposta?
L’ Italia è in declino. Ma è anche un Paese “bloccato”. Incapace finora di autoriformarsi. Solo una nuova e coraggiosa visione politica potrebbe invertire la rotta. Probabilmente una visione capace di unire, almeno per il periodo necessario alle riforme, tutte le forze in campo. Ma se la politica continua ad abdicare al suo ruolo, si mostra impotente e corporativa, si specchia anch’essa nel declino, la strada sarà sempre più in salita. L’autunno che verrà darà molte risposte. Intanto è essenziale cominciare a porsi le domande giuste.
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economia I successi registrati dal movimento durante gli appuntamenti internazionali non si replicano nell’ambito del campionato nazionale. Poche risorse garantite dai diritti televisivi e minori spettatori. Così le due squadre più gettonate, Benetton Treviso e Cammi Calvisano, finiscono per essere tentate dalla prestigiosa Celtic League irlandese. Una fuga che metterebbe a rischio l’intera massima serie italiana
Si spacca il movimento che non riesce a sfruttare il successo mediatico registrato dalla nazionale
Rugby: una mischia per gli spiccioli di Francesco Daverio
Q
uella sporca ultima meta. Già perché se il rugby rappresentato dalla nostra nazionale suscita sempre maggiore interesse di pubblico, quello dei club sta vivendo una profonda crisi. Una situazione difficile da analizzare, dove entrano in gioco, tanto per cambiare, interessi di parte, sponsor e diritti tv. Eppure il prodotto rugby funziona. Lo dimostrano i dati d’ascolto: circa 1,5 milioni di spettatori hanno seguito su La 7 Irlanda-Italia, lo scorso febbraio, durante il Sei Nazioni. Secondo gli esperti, sono pari dai 6 agli 8 milioni di ascoltatori su Rai o Mediaset.
Questo sport, che è soprattutto un modo di vivere, attira sempre di più nuovi tifosi: affascina, piace, e ha pubblico. Basti pensare al famoso terzo tempo, il saluto finale che i vincitori tributano ai giocatori della squadra sconfitta. Un esempio di sportività che è arrivato a incuriosire e al tempo stesso dividere il mondo del calcio. Un modello di fair play che ha indotto i vertici del pallone a imporlo a tutte le squadre del campionato con tanto di stretta di mano a fine partita.
Ciò nonostante i grandi network non credono ancora nella forza del rugby, come accade a numerosi altri sport. Gli appuntamenti diventano appetibili soltanto in occasione di grandi eventi come un mondiale o il Sei Nazioni stesso. Ma il fenomeno della palla ovale è in crescita, lo dimostrano gli sponsor della nazionale, dove figurano tra gli altri Cariparma, Iveco del gruppo Fiat, Edison, Kappa, Peroni, San Carlo, Enervit e Gazzetta dello Sport. Grandi aziende che investono in totale 90 milioni di euro. No-
migliori squadre del nostro torneo (Benetton Treviso e Cammi Calvisano) di partecipare per la prossima stagione alla prestigiosa Celtic League. Occasione di vanto ma anche impoverimento per il nostro movimento. Da qui una spaccatura ancora non sanata in Lega Rugby. Non bastavano le sirene per veneti e lombardi, che da Roma si aggiunge la volontà di uscire dalla Lega, annunciata dall’AlmavivA Capitolina. Dice il suo presidente Claudio Tinari: «Senza i due club più importanti la Lega perde i suoi pote-
Gli azzurri hanno ottenuto ottimi risultati di audience, riempito gli stadi e conquistato sponsor per 90 milioni di euro. I team del campionato invece faticano a rinnovare il contratto sui diritti tv con Sky mi e numeri che dicono chiaramente una verità: il rugby, quando si parla di nazionale, ha una capacità economica non inferiore ad altri sport apparentemente più gettonati. Ma il discorso cambia se parliamo invece di campionato – il super 10 – o del torneo d’eccellenza. Tutto nasce durante il 6 Nazioni a febbraio quando dall’Irlanda arriva la proposta per le due
ri. Abbiamo deciso di uscire per creare una sorta di choc positivo per tutto il movimento rugby, per ripartire insieme da capo e provare a lavorare in modo collegiale. A cominciare da quello che riguarda i diritti Tv, dal marketing e dalla distribuzione dei fondi». Intanto la Lire, Lega italiana rugby d’Eccellenza, sottolinea come fosse stata netta la presa
di posizione degli otto Club in relazione alla questione Celtic League. L’Assemblea ha verificato l’oggettiva inopportunità di sviluppare il progetto di partecipazione di due rappresentanti italiane alla competizione, rilevando come ciò avrebbe una indubbia ricaduta negativa sul massimo campionato e dal punto di vista del livello tecnico e da quello della appetibilità del prodotto Super 10. In un comunicato dal club romano si legge invece che l’idilliaca situazione sopra descritta «non rispecchia la realtà dei fatti e l’andamento della assemblea. L’AlmavivA precisa di aver chiaramente espresso la sua posizione favorevole e il suo inequivocabile accordo allo sviluppo del suddetto progetto, in un’ottica di crescita di tutto il movimento italiano». Nei giorni scorsi è stato annunciato il calendario per la prossima stagione: ma nessuno sa se ci saranno le dieci squadre previste. Resta una frattura non ancora sanata visto che il movimento si è diviso – con sette contrari – sulla partecipazione di due nostre rappresentanti alla Magners Celtic League, ovvero le stesse Benetton e Cammi, intenzionate a lasciare il
campionato italiano. E così si scommette che il Super10, così com’è, avrà vita breve. Il 13 settembre si rinnovano i vertici della Lega, ma sono ampi i timori per la sopravvivenza del governo del rugby: per statuto deve rappresentare almeno l’80 per cento delle società, altrimenti perde il mandato da parte della Federazione di organizzare il campionato di Eccellenza. Immense le ricadute di immagine ed economiche.
Resta il fatto che il campionato qualitativamente cresce poco: spettacolo d’élite sugli spalti come davanti alla tv. La barca dell’Eccellenza fa acqua da tutte le parti, lontana dagli oceanici successi mediatici registrati invece dall’Italrugby al torneo Sei Nazioni. Per quanto riguarda, invece, i diritti televisivi la Lega fa sapere che scaduto il contratto di broadcast-partnership con Sky Sport, la trattativa per il rinnovo con la stessa emittente satellitare è in corso, preso atto che vengono contemporaneamente esplorate opzioni alternative sia in ambito satellitare sia per digitale terrestre o analogico. In questo clima di assoluta incertezza la meta resta lontana.
economia
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Confindustria e confederali continuano a discutere, ma i veti della Cgil rallentano una possibile intesa
Contratti, stallo in attesa del governo di Vincenzo Bacarani
d i a r i o ROMA. Sventata all’ultimo minuto una spaccatura tra Cisl e Uil da un lato e Cgil dall’altro, la trattativa sulla riforma del sistema contrattuale tra sindacati e Confindustria è proseguita ieri sera. Ma tra le parti non si respira un’ampia fiducia e si dice che soltanto un intervento del governo potrebbe dare una svolta al confronto. L’esecutivo, come ha già detto il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, non deve venir meno alle sue funzioni. Ma in questo caso non è affatto richiesta una partecipazione concreta del ministro del Welfare Sacconi al tavolo della trattativa, quanto un pronunciamento su eventuali provvedimenti che possano in qualche modo sbloccare l’impasse. E così si guarda a quel patto sulla redistribuzione annunciato un mese fa, che non ha ancora visto la luce. Su questo punto in particolare è chiara la Cisl. Il segretario confederale Giorgio Santini ritiene necessario un incontro ravvicinato con l’esecutivo da tenersi al più presto, visto che misure fin qui presi dal governo non sono ritenute risolutivi. «La detassazione degli straordinari», spiega, «non è sufficiente. Occorre agire in profondità». Si auspicano infatti provvedimenti che incidano su stipendi e pensioni. «In primis», aggiunge Santini, «la detassazione degli aumenti contrattuali di secondo livello. E non soltanto detassazione, ma anche decontribuzione». Un segnale che darebbe maggiore tranquillità ai sindacati nel corso della trattativa con gli imprenditori sul tasso d’inflazione “realisticamente prevedibile”: la Confindustria è ferma al 2 per cento, i sindacati al 2,5. Ma se dovesse intervenire il governo con misure di alleggerimento fiscale, il confronto con gli imprenditori sarebbe diverso. Altro aspetto le tariffe. «Chiediamo al governo Berlusconi», spiega il segretario Cisl, «di ridurre l’incidenza del costo del petrolio ripristinando magari le fasce sociali sulle bollette di luce, gas e telefono». Senza dimenticare un punto nodale come il pubblico impiego. «Non siamo contrari all’efficienza», dicono in Cisl, «Bene la produttività ed anche la mobilità, ma siamo lontani sui metodi che dovrebbero essere adottati e che sono stati illustrati dal ministro Brunetta». Non c’è ottimismo nemmeno da parte di Confindustria. Se per il vicepresidente, Alberto Bombassei, l’accordo si farà a settembre «ma non si sa di quale anno», per il presidente di Federmeccanica, Pierluigi Ceccardi l’intesa resta semplice-
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Berlusconi accelera sul nucleare Ridurre i consumi di energia e tornare alla fonte nucleare per rispondere alle necessità dei diversi paesi. Questa la ricetta del premier Silvio Berlusconi che, in conferenza stampa a Palazzo Chigi ha esposto i dettagli del piano per uscire dalla crisi creata dal «caro petrolio». Intanto, - ha detto il premier - «ridurre i consumi». A questo proposito «abbiamo preparato 25 raccomandazioni, che divulgheremo». Quanto al nucleare, Berlusconi ha rivelato di aver «avuto contatti con altri paesi che si sono detti disponibili ad accogliere centrali nucleari con finanziamenti italiani». Gli fa eco il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola che afferma che la questione energetica «ha ormai assunto i contorni di una vera e propria emergenza che per l’Italia presenta caratteri di maggiore criticità tanto che sarebbe folle rimanere inerti».
Germania: scende l’indice Ifo L’indice Ifo sulla fiducia delle imprese in Germania scende a luglio per delle attese. L’indice cala a 97,5 contro, contro 101,2 di giugno, dato rivisto dall’iniziale 101,39 e contro un atteso 101. L’indice della situazione attuale cala a 105,7, contro un atteso 106,5 e quello sulle aspettative arretra a 90 contro un atteso 93,2. L’Ifo fa sapere che i risultati di luglio mostrano «la fine dell’espansione economica».
Alitalia: Tajani, regole Ue saranno rispettate
Una detassazione sugli aumenti di secondo livello potrebbe rimettere il tavolo sul giusto binario mente «un mio desiderio». E Guidalberto Guidi, numero uno di Ducati Energia, si dichiara non «ottimista sul fatto che si possa raggiungere un’intesa». Anche se, aggiunge l’ex vicepresidente di Confindustria, «vorrei che si raggiungesse un buon accordo, chiaro e che migliori la competitività delle aziende. Ma non serve raggiungere un’intesa solo per il gusto di avere qualcosa di nuovo».
Sul fronte sindacale, il clima è ancor meno sereno. Accontentato Epifani con la cancellazione della dicitura «non-stop», gradita agli imprenditori, ora si parla di «trattativa a oltranza». L’escamotage lessicale ha consentito a Cisl e Uil di uscire in maniera elegante dal braccio di ferro con la Cgil e ha permesso al leader di corso d’Italia di uscire vittorioso. Ma corso d’Italia, trascinata controvoglia a un confronto con gli imprenditori, non ha assolutamente fretta di chiudere la partita per due motivi. Il primo è che vuole conoscere quali potranno essere le pro-
poste del governo, il secondo è che la minoranza interna (cioè la sinistra cosiddetta radicale) sta crescendo numericamente soprattutto dopo il ribaltone voluto da Epifani in segreteria confederale. Quest’aspetto non è di secondaria importanza in quanto i sindacati autonomi (Rdb, Cub e ieri si è aggiunta anche la Confsal) e l’altro sindacato di destra, l’Ugl, hanno già mobilitato i propri iscritti per scioperi e manifestazioni contro Berlusconi. «La mobilitazione», dice il leader dell’Ugl, Renata Polverini, «andrà avanti anche a settembre». Dal canto suo, la Confsal ha chiesto al presidente del Consiglio un incontro urgente. «È giunto il momento», afferma il suo segretario, Marco Paolo Nigi, «di pervenire rapidamente a un’intesa su politiche del lavoro e sul reddito. E in proposito la Confsal conferma la mobilitazione generale». A tutto questo si aggiunge la presa di posizione della minoranza della Cgil (la Fiom di Gianni Rinaldini e le componenti Lavoro e Società di Nicola Nicolosi e Rete 28 aprile di Giorgio Cremaschi) che, dopo l’assemblea nazionale svoltasi mercoledì, chiede l’abbandono unilaterale del tavolo della trattativa con Confindustria e la proclamazione di uno sciopero generale contro il governo senza Cisl e Uil.
«Le regole europee vanno rispettate ed io ho ricevuto da Corrado Passera l’assicurazione che l’Italia lo farà, anche nel definire e portare avanti il piano di ristrutturazione e salvataggio dell’Alitalia». È quanto ha ricordato ieri il commissario europeo ai Trasporti Antonio Tajani parlando della vicenda Alitalia. Bruxelles, ha ricordato ancora il commissario, «esaminerà con grande serietà e rigore tutti gli elementi che saranno portati a nostra conoscenza» nell’ambito dell’inchiesta avviata sul prestito ponte da 300 milioni di euro concesso dal governo all’Alitalia. Ma la questione degli aiuti dati e della procedura d’inchiesta avviata, ha sottolineato Tajani, sono cosa diversa dal piano di ristrutturazione».
Robin Tax: Fmi, non è una buona idea I prelievi straordinari sugli utili di alcuni settori di impresa, come la Robin tax, «non sono, in linea di principio, una buona idea perché potrebbero agire come deterrente per gli investimenti». Lo ha dichiarato David Hawley, uno dei responsabili delle relazioni esterne dell’Fmi, aggiungendo, «che nella pratica, diversi Paesi, con buone relazioni con gli investitori, l’hanno applicata in passato senza grossi danni di credibilità nel lungo termine». L’effetto di una Robin tax, ha spiegato Hawley sarebbe negativo «se gli investitori dovessero pensare che potrebbero ritrovarsi con una nuova tassa nel caso in cui i loro investimenti si rivelassero altamente redditizi».
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letture
Nel libro di Del Debbio le risposte alle questioni che stanno a cuore agli italiani
La ricetta intellettuale della casalinga di Voghera di Massimo Tosti e domande sono – più o meno – quelle che ci poniamo tutti ogni giorno. Le risposte sono ispirate al buonsenso, e sostenute con argomenti convincenti e il supporto di una documentazione esauriente. La cosa funziona: gli ascolti in televisione sono decisamente buoni, e lui – Paolo Del Debbio – è diventato una specie di zio saggio che, ascoltati i pareri della gente comune, tira le somme. La trasmissione va in onda quotidianamente su Canale 5 e Italia 1, e si intitola Secondo voi. Adesso ne è stato ricavato un libro – Secondo voi (e secondo me) – edito da Mondatori (146 pagine, 17 euro). Il sottotitolo offre la chiave di lettura: Le risposte ai problemi che stanno a cuore agli italiani.
magino di avere davanti non una telecamera ma una persona, una donna fra i 60 e i 70 anni, con la licenza elementare, che non ha avuto la possibilità di studiare, e le cui letture si limitano a qualche rotocalco o settimanale; che ha viaggiato poco dopo il matrimonio perché si è dovuta occupare della famiglia, del marito e dei figli e magari anche di qualche persona anziana».
L
Del Debbio spiega nell’introduzione il segreto degli ascolti: «Scegliere i problemi che alla gente stanno veramente a cuore. I problemi con i quali si trova a dover combattere ogni giorno e con i quali, talvolta, si scorna. Quelli, per dirla in altro modo, che alla gente tolgono il sonno, tolgono energie. Quei problemi che, in misura diversa, tolgono alla gente la serenità: la condizione nella quale le normali vicende della vita possono essere affrontate a testa alta, senza soccombere, senza arrendersi a una specie di destino che destino non è». Rispetto alla trasmissione televisiva, nel libro c’è un maggiore approfondimento che riguarda la società italiana e – contemporaneamente – offre uno specchio degli spettatorilettori e sui problemi principali che sono chiamati ad affrontare quotidianamente. Quasi ogni argomento (e ogni possibile soluzione) è corredato da statistiche e tabelle. Si apprende, così, che il 14,6 per cento delle famiglie italiane arriva «con molta difficoltà alla fine del mese»; che gli stranieri indagati per aver ucciso un cittadino italiano nel 2006 sono stati il 10,6 per cento del totale, ma che gli stranieri che hanno un regolare permesso di soggiorno «non commettono più reati degli italiani»; che il 25,3 per cento della popolazione italiana supera i
Precariato, incidenti sul lavoro, tasse, multe pazze o bullismo giovanile sono solo alcune delle ”tragedie nazionali” affrontate dal giornalista in ”Secondo voi, secondo me” 60 anni (e che in questa classifica di anzianità siamo secondi soltanto al Giappone); che Bologna è la città con la più alta percentuale di furti in casa (516 ogni 100mila abitanti), davanti a Torino, Bari, Milano, Roma e Palermo: Napoli – alla faccia dei denigratori – occupa soltanto il settimo posto con appena 92 furti ogni 100mila abitanti; che nell’ultimo decennio il tasso di disoccupazione in Italia è sceso dall’11,2 al 5,9 per cento; che il nostro Paese è il più caro nel mondo (superato soltanto dall’Inghilterra) per le otturazioni dentarie.
Questi sono alcuni esempi, tanto per dare un’idea. I temi spaziano dalle preoccupazioni (ormai generalizzate) per la si-
curezza, al torchio fiscale (sul quale ottenne uno straordinario successo, nell’immediato dopoguerra, l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini: come dire che – gira e rigira – le disgrazie nazionali sono sempre le stesse), dal precariato agli incidenti sul lavoro, dal bullismo giovanile alla grandinata di multe con le quali i Comuni fanno quadrare i loro bilanci, fino al federalismo e al bipartitismo. Ma c’è anche spazio per i temi più scottanti di politica estera: la guerra infinita fra israeliani e palestinesi; il terrorismo e il
fondamentalismo islamico; l’Europa con le sue prospettive e i suoi limiti. Il linguaggio è semplice e non paludato. Per il suo programma tv (ma anche per la carta stampata), Del Debbio confessa di aver ideato «un semplice ma utile stratagemma: mi im-
L’identikit somiglia molto alla “casalinga di Voghera” alla quale si rivolgeva (sempre dal teleschermo) Gianfranco Funari. Ma è anche la ricetta che dovrebbero usare (e rispettare) tutti i giornalisti: scrivere in modo semplice per farsi capire anche dal lettore più sprovveduto. Indro Montanelli – che era un maestro riconosciuto di questo mestiere – andava oltre, con il suo spiccato senso dell’ironia: diceva che un bravo giornalista era colui che sapeva spiegare agli altri ciò che non aveva capito. Del Debbio non appartiene a questa scuola: nel senso che preferisce capire, prima di spiegare. In questo libro, dimostra di aver approfondito i problemi, senza cedere al vizio della superficialità, che troppo spesso si accompagna all’eclettismo (caratteristica positiva per ogni comunicatore). Il lettore più informato e smaliziato probabilmente non scoprirà nulla di sorprendente leggendo questo libro. Ma forse troverà qualche tabella in più a sostegno dei propri argomenti, o qualche statistica per verificare la gravità di certe situazioni a – magari – cambiare idea riguardo alla necessità di intervenire con strumenti adeguati. Poi, ciascuno per proprio conto, si fisserà in testa una gerarchia delle urgenze.
musica
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Tanti appuntamenti ma poche produzioni originali nelle storiche rassegne estive della Capitale
Il ”mal di jazz” che delude i romani di Adriano Mazzoletti rchiviata Umbria Jazz con il successo che caratterizza questa manifestazione ormai da trentacinque anni, continua fino a settembre il Festival di Villa Celimontana e fino alla fine di luglio anche quello della Casa del Jazz. Perché due festival in contemporanea a Roma? Oltre tutto a pochi passi l’uno dall’altro. La risposta forse deve essere ricercata in quel malcelato senso di concorrenza, che spesso ha caratterizzato il jazz italiano. Villa Celimontana con un programma giornaliero assai ricco, la Casa del jazz indubbiamente di buon livello, ma con solo tredici concerti in un mese e in alcuni casi con sovrapposizioni degli stessi musicisti presenti ai due festival. Il sassofonista Max Ionata ad esempio, alla Casa del Jazz ha già suonato lo scorso 10 luglio mentre il 29 sarà a Villa Celimontana, anche se con formazioni differenti. Così anche l’altro eccellente sassofonista romano Maurizio Giammarco che ha suonato il 16 luglio alla Casa del Jazz e salirà sul palco di Villa Celimontana il 24 agosto. Forse la Casa del Jazz avrebbe dovuto pensare a una manifestazione estiva, vista la concomitanza con Villa Celimontana, con una tipologia differente consona agli scopi e alle finalità che questa istituzione dovrebbe avere.
A
Non solo concerti dunque, ma anche manifestazioni con idee collegate al jazz, ma non per questo meno attraenti. Villa Celimontana, che è invece una kermesse con un numero davvero impressionante di manifestazioni musicali, ha inserito in cartellone altri eventi che forse sarebbe stato più giusto incontrare alla sua concorrente. Ad esempio la serata del 27 luglio dedicata a Gregory Corso con Jasmine Testa e il Blue Lion Quartet. Oppure l’omaggio ieri sera a Cèline con musiche di Davide Pettirossi eseguite dal pianista Alessandro Gwiss. A quando un ricordo di Jack Kerouac e del suo soggiorno romano con le registrazioni effettuate al Rouge et Noir nel 1962? Oppure uno spettacolo multimediale sul jazz a Roma dal dopoguerra a oggi? L’anno prossimo ricorrerà anche il cinquantesimo anniversario della Roman New Orleans Jazz Band. Da non passare certo sotto silenzio, per l’importanza di quello storico complesso, primo del genere in Italia. Insomma ciò che dovrebbe essere realizzato dalla Casa del Jazz viene invece posto in essere da Villa Celimontana e viceversa. Sempre a Villa Celimontana di grande interesse le sei serate con il Chicago Jazz Ensemble diretto da Jon Faddis che ha portato dagli Stati Uniti sei musicisti ancor poco conosciuti, ma di notevole valore: il sassofonista Pat Mallinger, il chitarrista Frank Dawson il contrabbassista Dan Anderson. Il musicista di Oakland che recentemente ha pubblicato l’album Teranga sembra aver ritrovato l’antico smalto dei suoi momenti migliori, quando incideva dischi di alto livello con Oscar Peterson, Kenny Barron e Ray Brown. Un suo duetto con Clark Terry, The Fibble Own Blues, ricorda quelli fra Dizzy Gillespie e Roy Eldrige. Il Lazio in questa estate 2008, sembra essere la regione con il più alto tasso di jazz. Etruria IncontrInJazz si svolge nei siti archeologici più importanti della regione. Tuscania il 12 luglio ha ospitato la cantante Elisabella Antonimi con Alessandro Gwiss e il sassofonista Gabriele Coen. Nella Tuscia, a Soriano nel Cimino, ancora concerti con solisti italiani e americani, spesso già visti lo scorso anno nella stessa manifestazione, per un premio dedicato alla memoria del contrabbassista Jimmy Woode jr. solle-
citato da sua figlia Shawn Monteiro. Ma vediamo quali sono stati e quali saranno i momenti più felici e interessanti di questa estate italiana del jazz. A Perugia le stelle sono state Sonny Rollins, Herbie Hancock e Gary Burton con Pat Metheny. Sulla riviera ligure di Levante, in un piccolo festival che sta diventando sempre più interessante, Carla Bley con Paolo Fresu che ha suonato anche a Umbria e l’orchestra Gil Evans diretta da Anita Evans in cartellone anche alla Casa del Jazz. Umbria Jazz ha anche presentato in collaborazione con la Fondazione Giacomo Puccini un interessante concerto dedicato a musiche pucciniane con il Trio del pianista Riccardo Arrighini e i Solisti di Perugia. Il 150° anniversario della nascita di Giacomo Puccini è stato festeggiato anche da Uri Caine che ha presentato, nel corso della rassgna dell’Estate Romana la sua Bohemian Rha-
Nonostante l’assenza di una precisa filosofia delle organizzazioni, rimane intatta la qualità delle esecuzioni. Da non mancare ad esempio i concerti a Villa Celimontana psody, opera commissionata appositamente al compositore americano da I concerti nel Parco. La prima assoluta si è svolta il 16 luglio scorso e Uri Caine ha affermato: «Ho scelto la rapsodia perché implica una improvvisazione basata su alcuni dei famosi temi de La Bohème. Esattamente come altri compositori hanno scritto parafrasi e arrangiamenti per assolo di pianoforte basati su temi tratti da opere liriche, sto provando a fare lo stesso con Bohème. La musica di Puccini è piena di passione e bellezza ed io l’ho amata ed ammirata per lungo tempo».
Tra le stelle del jazz contemporaneo, Pat Metheny (foto sopra); A sinistra, dall’alto Herbie Hancock, Paolo Fresu e Maurizio Giammarco
Nell’immediato futuro le date da non mancare saranno quelle di domani, con Franco D’Andrea in un recital di pianoforte alla Casa del Jazz, il trio di Mulgrow Miller il 19 agosto a Villa Celimontana e Stefano Bollani, che aveva già “duettato” con Caetano Veloso a Perugia, a Venezia, il 1° agosto incontrerà il funambolico Bobby Mc Ferrin. Questa rapida carrellata sui festival, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, colpisce, a parte alcuni dei casi citati, per l’assenza di una precisa filosofia e per la mancanza di produzioni originali create per l’occasione.
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personaggi
La storia di una delle figure più suggestive del Medioevo: abile, spregiudicata, ma anche ispirata e religiosa in un periodo di trame, scomuniche e guerre
Matilde,la contessa di Dio di Franco Cardini olei che per secoli fu conosciuta come la magna comitissa,“la Gran Contessa”, recò molti titoli, sui quali è bene far chiarezza subito in quanto non si tratta di orpelli esornativi. Signora di tutta la Tuscia – grosso modo l’attuale Toscana – a titolo pubblico, per delega vassallaticobeneficiaria (cioè “feudale”) dell’imperatore, le spettava in quanto tale il titolo di margravia o di marchesa. La parola germanica Markgraf qualificava difatti i “conti di confine”: Tuttavia, la Tuscia era stata, fra VI e VIII secolo, una circoscrizione del regno longobardo, come tale definita “ducato”. I marchesi franchi venivano comunemente indicati dunque, in Tuscia, con l’antiquato titolo longobardo di duces, duchi. Non è pertanto raro incontrare, anche in opere moderna, l’oscillazione tra i due titoli di “marchesa” e di “duchessa”, attribuiti entrambi a Matilde.
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Essa è comunque più spesso, semplicemente, la “contessa”. Con questo titolo, gerarchicamente inferiore agli altri due nella successiva “piramide” feudale (che nell’XI secolo era lungi dall’esistere), si vuole alludere al titolo ereditario che le spettava in quanto uscita dalla dinastia dei conti di Canossa, i cosiddetti “attonidi”. Capostipite del casato era stato nella seconda metà del X secolo un Adalberto Azzo (o Atto), uscito da una schiatta vassallatica d’origine longobarda che proveniva da Lucca. Egli era stato investito, con titolo comitale, di ampi territori nell’area di Reggio Emilia, Modena e Mantova: ma aveva mantenuto la denominazione della sua rocca avìta sull’Appennino reggiano, Canossa. Suo figlio Tedaldo aveva ottenuto nel 988 il titolo marchionale di Tuscia ed aveva esteso i suoi dominii.
Il suo erede Bonifacio aveva sposato in seconde nozze una grande principessa germanica, Beatrice di Lorena: dal loro matrimonio era nata appunto – forse a Mantova -, nel 1046, Matilde. suoi primi anni non furono facili. In seguito alla morte violenta del padre, nel 1052, e a quella prematura dei suoi fratelli maggiori Beatrice e Federico, Matilde rimase non ancor decenne erede sia delle terre sulle quali suo padre aveva esercitato per delega il potere pubblico in quanto marchese di Toscana), sia di molti beni “allodiali”(cioè privati) che, insieme, andavano dal Mantovano e dal ferrarese agli Appennini parmensi-modenesi, alla Garfagnana, fino alla Valle del Tevere. A ciò andavano aggiunti i vasti possessi lorenesi della madre. Sua madre Beatrice aveva spo-
ma ch’era contrastato in Roma dai conti di Tuscolo fautori di un antipapa. Quando nel 1061 Niccolò II morì, anche il suo successore Alessandro II dovette misurarsi con un antipapa. Cadalo, sostenuto dagli avversari della Riforma. Era ormai in atto un conflitto che, con i caratteri di vera e propria guerra civile, sarebbe durato ancora mezzo secolo: quella che solitamente si definisce la “lotta per le investiture”.
Intanto, però, Matilde aveva ereditato dal padre un patrimonio immenso, ch il patrigno Goffredo IV cercava se non d’accaparrarsi se non altro di poter controllare. Egli pensò dunque di procedere nel 1069 a un’irreversibile unione dei casati di Canossa e di Lorena per mezzo delle nozze della figlia-
Aveva tanta umiltà e tanto orgoglio da credere che il potere che aveva le era concesso dal cielo. Un atteggiamento vicino a quello che spingeva i pontefici a dichiararsi servi dei servi di Dio
sato in seconde nozze Goffredo IV il Barbuto, duca dell’Alta e della Bassa Lorena, fratello di papa Stefano IX e duca di Spoleto. Egli aveva insediato con le armi sul soglio pontificio papa Niccolò II, esponente della corrente dei riformatori ecclesiastici – era sostenuto dal cluniacense Ildebrando di Soana – ch’era sì stato eletto pontefice,
stra con il di lui figlio Goffredo V, detto “il Gobbo”. Ma il matrimonio celebrato in Lorena andò male: un figlio appena nato, frutto dell’unione, morì, e nel 1071 Matilde rientrò in Italia lasciando oltralpe lo sposo pieno di livore nei confronti della consorte. Questo Goffredo V era fratello di Ida, la quale sposò Eustachio II conte di Boulogne e
Matilde nel 1076 alla morte della madre e del marito si ritenne libera di agire secondo la sua completa volontà: e si schierò con decisione al fianco di papa Gregorio VII nella lotta ch’egli conduceva contro l’imperatore Enrico IV (in basso a destra). Il sodalizio tra i due era molto stretto: al punto che la propaganda imperiale se n’era impadronita, facendo circolare – senza reale fondamento, ma con il consenso del furibondo sposo di Matilde la turpe notizia d’un legame erotico tra il pontefice Gregorio VII e la contessa ne ebbe un figlio destinato alla fama, quel Goffredo conte di Bouillon che – divenuto a sua volta duca della Bassa Lorena avrebbe partecipato nel 1099 alla conquista crociata di Gerusalemme. Fu in effetti a lui che Goffredo V, morendo in seguito a una ferita nel 1076, aveva affidato la sua eredità. La riforma della Chiesa aveva nel frattempo potuto procedere in modo relativamente spedito, nonostante le molte resistenze, in quanto dal 1056 – con la morte dell’imperatore Enrico III – la funzione imperiale era rimasta vacante: ed era stato più facile quindi, per i riformatori, proseguire la loro opera anche là dov’essa obiettivamente intaccava poteri e prerogative imperiali. Il figlio e successore di Enrico III, il giovanissimo Enrico IV, raggiunse la maggior età solo nel 1065, ma dovette impegnarsi per alcuni anni nella riorganizzazione del regno di Germania. Solo nel 1073 si volse alle cose italiane: esattamente nell’anno in cui Il-
debrando di Soana veniva elevato al soglio pontificio. Cominciò allora, tra i due personaggichiave dell’XI secolo, un duro duello. Gli avvenimenti precipitarono quasi immediatamente.
Sono del 1075 i Dictatus papae, una breve raccolta di affermazioni e di rivendicazione il carattere documentario della quale è ancora discusso – per alcuni si tratta solo di alcuni appunti – sancivano la superiorità direttamente spirituale e indirettamente anche temporale del pontefice romano sui sovrani temporali. Nel medesimo anno, a Worms, un sinodo di vescovi tedeschi sollecitati e sostenuti dall’imperatore dichiarava deposto Gregorio VII; che immediatamente rispondeva scomunicando Enrico VI e sciogliendo i sudditi dal vincolo di fedeltà che a lui li univa. Una mossa di magistrale efficacia, che legittimò di colpo tutte le forme di ostilità nei confronti del sovrano provocandone un isolamen-
personaggi
25 luglio 2008 • pagina 21
quanto rea di lesa maestà. E ne aveva molte ragioni: per esempio, essa aveva fatto nel 1079 dono al papa di tutti i suoi dominii, un gesto di molto discutibile legittimità visti i diritti che il sovrano vantava su di essi, sia come signore feudale di alcuni di essi, sia come parente prossimo per altri. La sorte si era rovesciata: Gregorio VII, assediato in Roma, fu liberato solo dall’intervento dei normanni di Roberto il Guiscardo, formalmente vassallo del papa, e morì esule nel 1085 a Salerno. Matilde però resisté e il 2 luglio di quel medesimo anno batté gli imperiali a Sorbara presso Modena.
to quasi completo. Nel 1076 Matilde - cui erano ormai deceduti sia la madre, sia il marito -, si ritenne libera di agire secondo la sua completa volontà: e si schierò con decisione al fianco di papa Gregorio VII nella lotta ch’egli conduceva contro l’im-
peratore Enrico IV. Il sodalizio tra i due era molto stretto: al punto che la propaganda imperiale se n’era impadronita, facendo circolare – senza reale fondamento, ma con il consenso del furibondo sposo di Matilde la turpe notizia d’un legame erotico tra il pontefice e la contessa.Tali calunnie non sortirono comunque particolari effetti: ben diversi furono quelli della scomunica che colpito aveva Enrico, e che lo ridusse alla disperazione. Fu appunto nel castello di Matilde a Canossa che, nel gennaio del 1077, il pontefice ricevette il suo avversario sconfitto e umiliato, che ne implora-
va il perdono e l’assoluzione dalla scomunica: secondo una tradizione peraltro storicamente non confortata da prove, la contessa avrebbe energicamente insistito per la riconciliazione. L’imperatore era, tra l’altro, suo secondo cugino.. D’altro canto la guerra ricominciò quasi subito: l’imperatore, sfruttando tempestivamente il suo riconquistato ruolo all’interno della Chiesa, seppe sottomettere di nuovo la Germania e scese di nuovo in Italia, ben deciso a prendersi una rivincita. Nel concilio di Bressanone, tenutosi nel 1080, egli aveva fatto deporre Gregorio VII, sostituito da Guiberto vescovo di Ravenna che aveva assunto il nome di Clemente III. Enrico IV poté addirittura insediarsi, nel 1081, in quella Lucca ch’era la principale città della marca e che aveva cacciato il suo vescovo Anselmo, consigliere fedele della contessa; da lì il sovrano decretò Matilde deposta e bandita dall’impero in
Seguirono alcuni anni meno movimentati, in quanto l’imperatore era rientrato in Germania: del che il partito dei riformatori approfittò ovviamente per riorganizzare le sue fila. Nel 1088 la magna comitissa, che aveva quarantatré anni, sposò in seguito alle insistenze del nuovo papa Urbano II il diciannovenne Guelfo V, erede della corona ducale di Baviera. Le nozze facevano parte d’una rete di alleanze che la chiesa riformata stava tessendo attorno all’impero per intrappolarlo. Ma per lei si trattò di un’altra esperienza triste, che durò circa sette anni: anche il figlio nato da quell’unione morì in tenera età, com’era accaduto nel precedente matrimonio. Era uno splendido argomento per le spietate voci che la volevano inseguita dalla malasorte perchè maledetta da Dio a causa dei suoi rapporti peccaminosi con Gregorio VII e della sua infedeltà nei confronti dell’impero. Ma, dal canto suo, non si lasciò scuotere: o, comunque, seppe tener chiuso dentro di sè il dolore. Fomentò e appoggiò intanto le successive rivolte contro di lui dei suoi figli: Corrado di Lorena prima, Enrico poi; e si appoggiò alla potente casata comitale dei Guidi, in Toscana – sembra addirittura adottando il conte Guido II Guerra -, per ostacolare un’altra dinastia, gli Alberti, fedeli all’impero. Nel 1092, Enrico IV era stato di nuovo sconfitto, e non lontano da Canossa; l’anno successivo Corrado, sostenuto dal papa, da Matilde e da una lega di città lombarde, veniva incoronato re d’Italia. Ma la situazione era estremamente complessa: Roma e parte della Lombardia erano in mano ai fautori dell’imperatore e dell’antipapa. Quando tra 1094 e 1096 Urbano II si mise in cammino per organizzare una serie di concili in Italia e in Francia, che avrebbero dovuto sancire la definitiva vittoria del partito riformatore, dovette farlo quasi di nascosto perché braccato dai sostenitori dell’antipapa Cle-
mente. Fu appunto durante quel lungo giro che, nel novembre del 1095, egli tenne a Clermont in Alvernia, una celebre allocuzione indirizzata ai rappresentanti dei ceti feudo-cavallereschi di quell’area che fu si può dire il seme e la scintilla della spedizione che siamo abituati a definire “la prima crociata”. Un anno dopo, nell’autunno del 1096, Urbano II, Matilde e alcune colonne di armati che dalla Francia e dalla fiandra andavano – percorrendo la Via Francigena – in Puglia, per imbarcarsi di là alla volta dell’oriente, s’incontrarono appunto a Lucca, da dove il papa, con al loro scorta, poté rientrare in Roma. Enrico IV morì ormai sconfitto nel 1106: ma suo figlio Enrico V, riprese a sua volta la lotta contro al chiesa riformata. Stavolta, l’atteggiamento della marchesa nei confronti della casa imperiale di Franconia dovette in realtà modificarsi.
La duchessa-marchesa morì a Bondeno, il 24 luglio del 1115, priva d’eredi diretti. Fu sepolta nel monastero di San Benedetto di Polirone, presso Mantova. Nel 1632 le sue spoglie furono trasferite per volontà del papa a Roma, in San Pietro, e deposte in un monumento eretto dal Bernini. La sua memoria le sopravvisse a lungo, in un alone di leggenda. Comunque, non sembra che si fosse mai resa conto delle potenzialità dei centri urbani posti sotto il suo dominio: certo non ne favorì mai il sorgere di istituzioni autonome. Fu ad ogni modo una delle grandi figure politiche di donne che, nel XII secolo, dominarono al scena politica: dopo di lei, quel medesimo secolo assisté difatti alle gesta di personalità quali Eleonora duchessa d’Aquitania, moglie di due re (Luigi VII di Francia ed Enrico II d’Inghilterra) e Melisenda di Gerusalemme. Un’ombra tenace resta sulla sua personalità. Quali rapporti effettivi la legarono a Gregorio VII? Quale fu il carattere della sua religiosità? Non potremo mai rispondere con certezza. Eppure, a partire dal giugno del 1077, essa adottò firmando i documenti una sottoscrizione che per un verso può essere interpretata quasi come un’orgogliosa pretesa d’indipendenza politica, ma per un altri sembra un’umile, sincera dichiarazione di fede: Mathildis, Dei gratia si quid est. Certo, ogni potere nel secolo XI veniva da Dio: ma qui – non dicendosi né ducatrix, né comitissa, essa sembrava sottolinearne la dipendenza diretta, scevra da intermediari. Un’umiltà e un orgoglio che sembrano molto vicini a quegli stessi atteggiamenti che spingevano i pontefici romani a dichiararsi servus servorum Dei.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Forleo, cosa pensate del suo trasferimento? L’UNICA COLPA DI CLEMENTINA FORLEO È STATA QUELLA DI CALDEGGIARE LE CARRIERE SEPARATE
LA QUESTIONE È NIENT’AFFATTO CHIARA, DICO SOLO: D’ALEMA, FASSINO, UNIPOL, BNL
Povera Clementina Forleo.Trasferita da Milano perché «incompatibile con l’ambiente». Oltre alla faccenda in sé, anche la motivazione trova nella lingua italiana una forma davvero infelice. Cosa penso? Prima di tutto, la sostengo. In secondo luogo, mi trovo d’accordo con le sue di motivazioni: «Quando sono iniziati i miei guai? Tutto è cominciato quando sono andata a parlare al convegno delle Camere penali a Milano e ho detto di essere favorevole alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri... Ben venga la separazione delle carriere, dissi. E da allora è cominciato tutto». In effetti, da quel momento per lei ne sono iniziate di cose! «Ma io non mi pento», ha detto il gip a testa alta a tutta la stampa che, quasi nella sua totalità le ha dato contro (pure!). «Perché ora più che mai auspico una separazione delle carriere, auspico anche una seria riforma della giustizia. E quel che dico non è di destra né di sinistra, è solo un messaggio perché sarebbe giusto garantire a ogni cittadino un giudice imparziale e indipendente». Come, in tutta onestà intellettuale, darle torto?
La Forleo deve lasciare il capoluogo lombardo perché lì non è più in grado di svolgere le sue funzioni con piena «indipendenza e imparzialità» ha sentenziato il Csm. Con i suoi comportamenti ha creato un «disagio diffuso» nel suo ufficio giudiziario e in procura; procura con cui inoltre si è «incrinato il necessario rapporto di reciproco rispetto ed equidistanza». Ma siamo proprio sicurissimi che sia questo il reale motivo del suo allontanamento? Vorrei somamente ricordare una ”cosetta”: la vicenda Unipol. In quella circostanza, il gip Forleo era stata accusata di aver violato i suoi doveri per i contenuti dell’ordinanza, con la quale nel luglio 2007 chiese alle Camere l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni che riguardavano alcuni parlamentari tra cui Massimo D’Alema e Piero Fassino nell’ambito del procedimento sulla fallita scalata Unipol a Bnl. Capito? D’Alema, Fassino, Unipol, Bnl. Francamente, trovo piuttosto torbide le motivazioni di «incompatibilità ambientale» con le quali hanno spiegato la decisione di allontanare il gip da Milano. Ma, sono sicuro, la storia non finirà qui.
Marco Valensise - Milano
LA DOMANDA DI DOMANI
Sport estremi: trasgressione da brivido o soltanto incoscienza? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Amelia Giuliani - Potenza
IL TRASFERIMENTO MI SEMBRA PIÙ CHE GIUSTO, INACCETTABILI LE DICHIARAZIONI AD ”ANNOZERO” Beh, tutto sommato sono d’accordo con la decisione di mandarla via da Milano. Ha spiegato bene le motivazioni il consigliere Gian Franco Anedda, di An: «La denuncia della Forleo ad Annozero di aver subito pressioni istituzionali mai dimostrate è suonata come quella del medico che, a fronte di qualche caso di infezione, denuncia in televisione un’ epidemia di colera». E’ chiaro che, come ha detto il vicepresidente di palazzo dei Marescialli Nicola Mancino, questa decisione «crea indubbia sofferenza, perché dire a un magistrato ”vai in un’altra sede” non è mai facile». Però in questo discusso caso, credo sia stata una giusta decisione, e le motivazioni francamente convincono. Adesso, rimaniamo in attesa di sapere la nuova destinazione.
IL TERZO POLO Sono tempi difficili per la nostra Repubblica; i problemi che riguardano i cittadini sono considerati dalle nostre principali Istituzioni di secondaria importanza rispetto ad altri la cui risoluzione diventa “propedeutica” ai primi. Gli elettori sono, ancora una volta delusi e disorientati e questa sensazione è palpabile sia nel centro destra che nel centro sinistra. Si evince che si crea uno spazio politico concreto al centro che possa appunto recuperare i voti dei delusi, dei traditi e di quanti si sono sempre riconosciuti nei valori portati avanti dalla Democrazia Cristiana. Il terzo polo ha la storica opportunità di ereditare parte dell’elettorato di centro destra e guardare anche agli elettori delusi del centro sinistra dove, proprio in questi giorni, si registrano amichevoli “battute” fra Casini e Rutelli. Il bi-polarismo sembra tramontare, dopo una esperienza non lunga, forse perché figlio tardivo di una cultura appartenente al Novecento. Oggi in una società, per certi aspetti completamente nuova, inserita in un fenomeno assai complesso come quello della globalizzazione, bi-
AUTORITRATTO Noppakhao, elefante di 7 anni che vive vicino a Bangkok, nel tempo ha imparato a dipingere fiori, nature morte e pian pianoanche un suo simile. Le sue opere (valore: 600 dollari) sono andate tutte esaurite! Ma niente lucro, i soldi vanno al progetto per la tutela dell’elefante asiatico
BERLUSCONI È BUONISTA (CON I PM DI SINISTRA)
MASTELLA PROSSIMO ”REUCCIO” IN CAMPANIA?
Secondo gli esperti del governo è un fungo che cresce sotto terra in simbiosi con altri funghi (detti volgarmente invidiosi) che concorrono a definirne il caratteristico profumo. E’ il giustizialista o, più comunemente, il magistrato o pm di sinistra, giurisperito ex Pci ed ex Dc di sinistra. Apprendiamo che il premier Sivio Berlusconi vuole raccoglierlo, spazzolarlo sotto l’acqua fredda, molto fredda, e lasciarlo al sole cocente di mezzogiorno ad asciugare. Altri lo vorrebbero affettare crudo ed altri ancora lo vedrebbero bene dopo una lunga, ma proprio lunga, cottura. S’ode un continuo pissi pissi: che il Cavaliere sia diventato buonista?
Clemente Mastella, lo sappiamo tutti, è uno spirito barocco. Le sue idee sono spesso suggestive e originali, le sue creazioni appariscenti, eccentriche e fiabesche e piuttosto indicate per conferire un tocco teatrale e speciale alle coalizioni che ambiscono al potere. Ora pare che il Mastella, senza risparmio d’energie e veloce come un siluro, miri alla poltrona della Rosa Russo Jervolino o, meglio ancora, a quella di Antonio Bassolino. Sul suo ritorno alla politica attiva, in alleanza col Partito democratico, siamo ottimisti. Sulla realizzabilità del suo sogno non ci esprimiamo. Ma ci chiediamo: dove crede d’essere il Nostro? Siamo in Italia, mica in Marocco.
dai circoli liberal Flavia Rossato - Cosenza
sogna abbandonare i vecchi schemi, le vecchie ideologie. Queste ultime sono state travolte e sostituite da fenomeni poco tangibili ma assai efficaci rappresentati in primis da politiche economiche che si sono sviluppate dopo la disintegrazione dell’Urss e con la caduta del Muro di Berlino. Correre da soli, senza accordi né con il centro sinistra, né con il centro destra, è una scelta difficile e coraggiosa, ma esistono prospettive davvero incoraggianti. La possibilità di realizzare una nuova realtà, un nuovo soggetto politico a vocazione centrista e cattolico liberale è non solo concreta, ma anche auspicata da tutti coloro che credono nei valori, tradizioni e radici cristiane. Infine un’ultima considerazione: mi piace sottolineare l’invito da parte di Elisabetta Pennacchia, del circolo Liberal di Potenza, a “parlare a voce alta” circa l’impegno dei nostri circoli a ridare nobiltà ai valori della politica. Anche questo è un segnale che esiste una base dalla quale partire per arrivare ad una grande coalizione: il Terzo Polo. Francesco Facchini CIRCOLO LIBERAL LEVANTE BARI
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
Lettera firmata
COMUNICAZIONE PER I CIRCOLI LIBERAL TODI - OGGI - ORE 11 Prossima riunione dei presidenti e dei coordinatori regionali liberal all’Hotel Bramante di Todi. A seguire, l’inizio dei lavori del seminario. Vincenzo Inverso segretario organizzativo circoli liberal
APPUNTAMENTI SEMINARIO DI TODI - OGGI E DOMANI Seminario, ore 12.00, Hotel Bramante, in via Orvietana 48 I lavori del seminario, che vedrà la partecipazione tra gli altri di Casini, Cesa, Buttiglione, Vietti, Volontè, avranno inizio il venerdì a partire dalle ore 12.00 e si chiuderanno per le 14.00 di sabato.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog MA DOV’È LA BANCA DATI DEI MINORI ABBANDONATI?
I «fannulloni» visti da Goethe Il fumo istupidisce, rende l’uomo incapace di pensare e comporre versi. Questo vale anche per i fannulloni, per gli uomini sempre annoiati, che dormono per un terzo della loro vita, per un altro terzo si trascinano a bere, a mangiare e a fare cose importanti o superflue, e non hanno idea, sebbene dicano che la vita è breve, di cosa dover cominciare a fare del rimanente terzo. Per tali turchi fannulloni, trafficare amorevolmente con la pipa e osservare con piacere le nuvole di fumo che soffiano nell’aria, rappresenta un geniale divertimento che li aiuta a trascorrere le ore. Se dovesse andare avanti così come l’evidenza può far credere, già si vedrà nel giro di due tre generazioni cosa hanno procurato alla Germania questi zotici fumatori. Dapprima si assisterà alla perdita della genialità, alla storpiatura, all’impoverimento della nostra letteratura, e quei buontemponi ciononostante ammireranno queste miserie col sorriso sulle labbra. J.W. Goethe a K.L. Knebel
PUGNO DURO A ROMA CONTRO L’ABUSIVISMO COMMERCIALE Ma vogliamo parlare dell’abusivismo commerciale che ormai dilaga nella capitale d’Italia? Contro una efficace contraffazione, serve una centrale unica utile anche a contrastare, appunto, l’abusivismo commerciale. E ancora di più occorre un’azione sistematica, continua, continuata, continuativa e coordinata per combattere un fenomeno che costituisce circa il 25% del mercato globale (ed è aumentato del 1600% negli ultimi dieci anni). Ormai c’è un percorso di filiera che va dalla produzione, spesso in fabbriche clandestine a scapito di ogni tutela dei lavoratori, dell’ambiente e dei minori utilizzati, ai centri di smistamento abusivi, fino alla vendita al dettaglio su strada. Sarebbe davvero opportuno che il questo nuovo governo Berlusconi trasformi in reato grave, con pene superiori ai tre anni, quello della contraffazione e di protestare contro la Cina chiedendone l’uscita dal Wto, visto che non rispetta le leggi. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità di questa mia ”denuncia”. A presto, buon lavoro e distinti saluti.
Filippo Rossetti - Roma
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
25 luglio
La situazione sui minori rom orfani in Italia, oramai lo sappiamo bene tutti, è drammatica. Ma perché nessuno parla mai dei minori italiani senza genitori? Che fine ha fatto la banca dati che avrebbe dovuto censire quelli abbandonati negli orfanotrofi? Bisogna necessariamente, veramente a tutti i costi, dare applicazione a quanto diposto dalla legge 149 del 2001: la legge che ha abolito gli orfanotrofi e successivamente ha istituito le case famiglia. Negli ultimi tempi, neanche mezza riga è stata scritta sui più grandi e autorevoli quotidiani italiani su questo problema. Che cosa vuol dire, che manca la sensibilità verso il mondo dell’infanzia abbandonata? Il vero problema è capire oggi il dato reale, non quello relativo, sul numero esatto dei bambini oggi in affido, in adozione o collocati nelle microcomunità. Sappiamo che ogni bambino “vale”per le comunità circa 3 mila e 500 euro al mese? Cordialità.
Romina Giuliani - Lecco
1897 Lo scrittore Jack London parte per unirsi alla Corsa all’oro del Klondike dove scriverà i suoi primi racconti di successo 1909 Louis Bleriot compie il primo volo in aeroplano attraverso La Manica 1943 Seconda guerra mondiale: Benito Mussolini viene costretto a lasciare l’incarico dal Gran Consiglio del Fascismo che vota l’ordine del giorno Grandi; viene arrestato a Villa Savoia dai capitani dei Carabinieri Paolo Vigneri e Raffaele Aversa e sostituito al governo da Pietro Badoglio 1956 A un’ottantina di chilometri da Nantucket Island, il transatlantico italiano Andrea Doria affonda dopo essersi scontrata nella nebbia con la Stockholm, 51 vittime 1978 Nasce Louise Brown, la prima dei cosiddetti bambini in provetta 1994 Israele e Giordania firmano la Dichiarazione di Washington che pone formalmente fine allo stato di guerra che esisteva tra le due nazioni dal 1948
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
PUNTURE Dopo 34 anni sono stati completati 29 km dell’autostrada A3 SalernoReggio Calabria. Tra altri 34 anni saranno completati altri 29 km. Alta velocità.
Giancristiano Desiderio
“
Che sarebbe pensier non troppo accorto, perder duo vivi per salvar un morto LUDOVICO ARIOSTO
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LA POLITICA Quella che non dice agli Italiani che gli operai negli altri paesi ce la fanno, ma non comprano i cellulari e le playstation ai figli, i quali d’estate lavoricchiano per pagarsi le tasse scolastiche e, per l’appunto, il giocattolo tecnologico del momento. E quella che non spiega ai figli degli Italiani che presso gli altri popoli è motivo di orgoglio e di speranza che i ragazzi di ogni ceto nel tempo libero si diano una mossa e cerchino una certa autosufficienza economica ed abitativa. O quell’altra che si indigna (giustamente) se vengono sospesi dei processi dopo 5 anni, ma non prova neanche un po’ di meraviglia nello scoprire quanti, dopo ben 5 anni, non sono ancora conclusi. Quella che per 2 settimane s’arringa intorno ad una manifestazione ”d’importanza nazionale”, convocata a Piazza Navona dove di gente ne entra poca, per l’appunto 30mila. Quella che vuole ”rimuovere le cause” del disagio sociale, senza accorgersi che la povera gente ha i delinquenti alle porte e che uno Stato esiste innanzitutto per ”reprimere gli effetti” della devianza sociale. Quella che vorrebbe il passaporto per il Partito Socialista Europeo, alle prossimissime elezioni, tirandosi dietro deputati ed elettori che, se non son cattolici, son comunisti. Quella che ha adottato un testo sulla sicurezza sul lavoro che sembra un’enciclopedia, mentre andava via lasciandoci le solite scuole sgarrupate e le strade con le buche. Quella che, dinanzi ai drastici dati internazionali sull’ignoranza dei nostri figli, non solleva l’attenzione e l’allarme nazionale e ”si può fare” con 10 ore per materia e gli esami di riparazione una tantum. Quella che sa farsi sen-
tire solo urlando e scioperando, bloccando tutto e bruciando denaro, invece di imparare dal resto del mondo che è d’intesa con il padrone che l’operaio migliora la sua situazione. L’elenco potrebbe continuare, ma penso che basti. Si parla di Veline, Miss ed Escorts, ma come definireste questo genere di politica, mentre ci accingiamo a correre tutti sotto l’ombrellone? Buon proseguo.
Minima Moralia minimamoralia.blog. lastampa.it
DIRETTORE CHE NE PENSA, OGGI LA DIAMO LA NOTIZIA? Cari direttori - mi rivolgo ai direttori di tutti i quotidiani, ma soprattutto ai direttori di Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, Il Messaggero, Il Sole24 Ore e ai direttori dei tg nazionali - la vogliamo dare o no questa notizia in prima pagina? In tre sedute il prezzo del petrolio è sceso da 147 dollari al barile a 129. Insomma, se avete ritenuto il prezzo del greggio un parametro così rilevante per l’andamento dell’economia da strillare ad ogni rialzo record, dovreste continuare a tenere aggiornati i vostri lettori/ascoltatori. Un’inversione di tendenza così decisa, a qualsiasi fattore, temporaneo o meno, essa sia dovuta, non vi pare una notizia? Mica tornerete a parlare di petrolio solo quando il prezzo si alzerà di nuovo, rafforzando nell’opinione pubblica la percezione che i prezzi possono soltanto salire? La vogliamo raccontare questa pausa al ribasso? Oppure bisogna cominciare a pensare che i grandi giornali e le tv facciano parte di un gioco senza neanche rendersene conto?
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PAGINAVENTIQUATTRO Da nemico della piovra a complice della mafia
Agente Contrada, licenza di di Riccardo Paradisi runo Contrada ha finalmente ottenuto gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute dopo che altre venti richieste analoghe erano state in passato tutte respinte. I giudici non ritengono però ancora opportuno disporre per l’ex funzionario del Sisde la sospensione della condanna «per la pericolosità sociale dello stesso». Il figlio di Bruno Contrada, Guido, avvocato penalista parla di un passo importante anche se «Mio padre - dice - continuerà a lottare fino alla morte per dimostrare la sua assoluta estraneità alle accuse che gli vengono contestate. Me lo ha ripetuto anche l’ultima volta che l’ho incontrato in carcere, un mese fa: ’posso tenermi in cella fino alla fine non è questo che mi interessa, io sono un uomo dello Stato». La concessione degli arresti domiciliari a Bruno Contrada è arrivata con grave ritardo secondo il senatore del Pdl Lino Jannuzzi e «se servirà a salvare la vita a un grande poliziotto ora il Parlamento deve procedere alla Commissione d’inchiesta sulla gestione dei pentiti che lo hanno ingiustamente accusato. Questo è il presupposto per la revisione del suo processo». Processo sempre percorso dal leit motiv del ragionevole dubbio: di colpevolezza e di innocenza del funzionario del Sisde.
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È una storia strana e confusa quella di Bruno Contrada. Una storia da romanzo giallo, da film di spionaggio. Obliqua, grigia, misteriosa. Un superpoliziotto impegnato per anni contro la mafia e la criminalità comune, un esempio e un punto di riferimento per colleghi e istituzioni fino al colpo di scena, clamoroso, incredibile all’inizio degli anni Novanta, un decennio in cui l’attacco della mafia allo Stato alza il tiro come non era mai accaduto, infiltrando le istituzioni e decapitando con gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino il pool che aveva vibrato colpi durissimi a Cosa nostra. Alla fine del 1992 dunque Contrada viene arrestato «per concorso esterno in associazione mafiosa», ad accusarlo sono dei pentiti di mafia che gli attribuiscono rapporti di favoreggiamento con esponenti di Cosa nostra. Contrada respinge le accuse, sostiene o di non conoscere le persone con cui lo si dice in combutta o di averci avuto a che fare come loro nemico, combattendole in nome dello Stato e della Legge. Scrive Contrada in una lettera alla moglie un anno dopo il suo arresto: «Marchese (uno dei suoi accusatori N.d.r.) mi accusa di fatti che gli sarebbero stati riferiti dallo zio, ammazzato più di dieci anni fa. Mutolo, crimi-
SOFFRIRE aveva consigliati di fare nomi grossi se volevano avere “favori grossi”. Così loro che non ne avevano di nomi da fare, fecero quello mio e quello di Corrado Carnevale perché, dissero, li avevano letti sui giornali. In realtà io sono sicuro che qualcuno glieli fece fare. Sia come sia, ora che la verità è venuta a galla, altri giudici impediscono alla giustizia di processare quei due per calunnia aggravata e depistaggio». Strano caso quello dell’agente Contrada.
La pattuglia di ”pentiti” che lo ha accusato di concorso mafioso ha riscosso più credito delle testimonianze favorevoli dei suoi colleghi nale da me più volte perseguito, mi accusa di fatti che gli sarebbero stati riferiti da Riccobono, ucciso undici anni fa e Buscetta idem: Spatola ha affermato che sono massone e che mi avrebbe visto in un frequentato ristorante mentre pranzavo con Riccobono, criminale sanguinario che al solo stringergli la mano mi sarei imbrattato del sangue delle sue vittime». A puntare il dito contro Contrada ci sono anche due pentiti di Caltanissetta che accusano lui e il giudice Carnevale di avere avuto favori economici per chiudere un occhio, nel caso delle indagini condotte dal funzionario del Sisde, per aggiustare sentenze, nel caso di Carnevale. «Alla fine», si sfoga nel 2007 Contrada «venne fuori che erano stati imboccati per le accuse. Lo confessarono loro stessi e dissero al giudice che un altro loro “collega pentito” li Bruno Contrada, 77 anni, condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, ha ricevuto la sospensione della pena dal tribunale di sorveglianza di Napoli
Tanto più se si pensa che la losca pattuglia di pentiti di mafia che lo ha accusato ha riscontrato più credito di 140 testimoni a difesa: uomini dello Stato, vertici della Polizia di Stato e dei Servizi segreti, «tutte persone – sottolinea Contrada – che nutrivano e nutrono per me la massima stima. E sa che cosa è successo quando, davanti ai giudici hanno giurato che Bruno Contrada era innocente? Sono stati accusati di falso. La mia sentenza era già stata scritta. Avrebbero avuto da dubitare pure se Gesù Cristo fosse sceso dalla croce e fosse venuto in tribunale». Nel ragionevole dubbio che Contrada non sia colpevole delle accuse che gli vengono contestate uno Stato di diritto non dovrebbe restituirgli il suo onore?