QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
La Corte Costituzionale “grazia“ l’Akp (e gli dimezza i fondi)
In Turchia vince la realpolitik ed Erdogan si salva
di e h c a n cro di Ferdinando Adornato
di Andrea Margelletti ontro tutto e contro tutti ha vinto la logica. Mentre il mondo intero si aspettava la messa al bando del Partito Giustizia e Sviluppo del premier Erdogan da parte della Corte Costituzionale di Ankara, a sorpresa il partito islamico ha visto sancire, forse per sempre, la sua presenza nell’arena politica turca. Con buona pace dei movimenti federalisti europei, che vedono in una Turchia “europea” un pericoloso attentato al Vecchio Continente bianco e cristiano, la real politik che ha animato gli ultimi mesi dell’amministrazione Bush, ha fornito un’inversione di tendenza. Il partito islamico turco, con un vertice assai poco islamico e più laico, potrà continuare il suo cammino verso l’integrazione europea. È una vittoria non solo statunitense - possiamo solo immaginare quale pressioni gli Usa abbiano prodotto su Ankara - ma anche di quei Paesi europei, primo fra tutti l’Italia, che da sempre hano prodotto una forte azione lobbistica per l’integrazione turca. È una vittoria però che non doveva e non poteva essere indolore. E che ha visto pagare una sorta di prezzo di sangue. Il partito vedrà dimezzare i propri fondi e quindi, teoricamente, metà delle proprie capacità di fare propaganda e azione politica. Ho però la sensazione che le risorse della ricca comunità turca in Europa e negli Stati Uniti potranno presto risanare il buco economico.
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IL FALLIMENTO DEL WTO
(di piazza e di governo)
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80731
Hanno vinto i noglobal Il mancato accordo commerciale tra Occidente e Asia frena la globalizzazione e dà ragione agli estremisti antimercato e ai nuovi “protezionisti di Stato“. E Cina, Giappone e India si infuriano... alle pagine 2 e 3 Sondaggio a caldo: ha ragione Silvio Oggi la ratifica dell’accordo di Lisbona
I deputati del Pdl: Approviamo «E’ vero, siamo il Trattato, peggio dei senatori» ma l’Europa cambi
s eg u e a pa gi n a 2 3
Dure polemiche dopo le dichiarazioni di Berlusconi
Alitalia: cinquemila esuberi tricolori
Intenti comuni sulla lotta alla povertà
Cristianesimo-Islam: la task force del dialogo
di Marco Palombi
di Giuliano Cazzola
di Riccardo Paradisi
di Ahmad Vincenzo
Un sondaggio a caldo sul ”caso onorevoli e senatori”, rivela che su trenta deputati del Pdl i due terzi minimizzano sulle frasi di Berlusconi, tre si rifiutano di rispondere e cinque sono d’accordo con Bocchino.
Se l’Europa dell’integrazione economica è una realtà affermata, con la ratifica del Trattato l’Europa politica riceverà un’importante accelerazione, con importanti innovazioni di governance.
La cordata tricolore per Alitalia di Silvio Berlusconi prevederebbe 5mila esuberi. E i sindacati insorgono di fronte a un piano di ristrutturazione che non prevede nemmeno una bozza di piano industriale.
L’appello Meccano per il Dialogo interreligioso del 6 giugno 2008 è uno dei primi decaloghi elaborati nel mondo islamico. In alcune parti sembra evidente il riflesso dei colloqui con il Pontefice.
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GIOVEDÌ 31 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
144 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Il mancato accordo manda in fumo 130 miliardi di dollari e segna l’irrilevanza politica dell’Unione Europea. Così vincono Bovè e Tremonti: gli estremisti anti-mercato e i protezionisti di Stato
Gli opposti ”no global” di Enrico Cisnetto on è un caso se nel giro di pochi mesi abbiamo dovuto assistere prima alla débâcle della costruzione europea, arrivata con la bocciatura irlandese al Trattato di Lisbona, poi allo stop (dopo lunghi negoziati) al “Doha Round”, cioè l’ultima tornata di negoziati della Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Che cosa hanno in comune queste due clamorose inversioni di marcia? Semplice, che la globalizzazione non è più di moda. Come gli irlandesi hanno detto un No forte e chiaro alla ratifica del Trattato, proprio per la paura che il processo d’integrazione europeo significhi maggiore apertura al mondo globale, così ora, dopo dieci giorni di trattative no-stop, i 153 delegati della Wto si sono arenati su una questione di dazi e tariffe – simboli del protezionistico anti-globalizzazione – mandando a monte gli sforzi di sette anni di negoziati. Il Doha Round, infatti, era nato nel lontano 2001, in concomitanza con l’attacco terroristico alle Torri Gemelle, e doveva servire a rilanciare l’economia mondiale attraverso un “round”, appunto, di nuovi negoziati (i primi tra l’altro in cui è entrata anche la Cina, ammessa nel “club” solo nel 2001) per rilanciare gli scambi, abbattendo dazi e tariffe in particolare sull’agricoltura (riduzione dei sussidi agli agricoltori Usa) e sulle importazioni di tecnologia dei Paesi in via di sviluppo (altissimi, specialmente in Cina e India). Due punti che hanno fatto naufragare le trattative sul lago di Ginevra: in particolare, l’India si è impuntata sul mantenimento della cosiddetta “clausola di salvaguardia” sulle materie prime (in pratica, ha preteso di poter alzare dazi sulle importazioni in particolare di materie prime agricole, nel caso in cui la grande crisi alimentare mondiale dovesse portare Nuova Delhi a dover importare altro riso e grano). Un punto su cui gli Usa però sono stati irremovibili.
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futuro che attende la Wto, infatti, riflette in maniera speculare quello dell’Unione Europea in crisi di crescita: troppi membri, procedure decisionali eccessivamente complicate, senso di distacco dai cittadini. E se da una parte il processo di “unificazione” Ue viene bloccato per spingere in avanti le cosiddette cooperazioni rafforzate, dall’altra, sul fronte del commercio, avviene esattamente lo stesso. Stabilito che è impossibile andare avanti “all’unisono”, in sede Wto si procederà per accordi bilaterali. Tutto bene, madama la marchesa? Niente affatto: perché la Wto era nata proprio come “forum” multilaterale, con strumenti precisi (come la “clausola della nazione più fa-
denze del pensiero economico, rappresentate dal neo-colbertismo “alla Chavez”del ministro Tremonti e ai mai sopiti spiriti “local” leghisti, con il ministro dell’Agricoltura Zaia che si compiace per il fallimento della trattativa («bene, così saranno protetti i prodotti italiani»). Insomma il nuovo sport mondiale è il protezionismo, mentre la globaliz-
Dopo la débâcle di questi giorni, serviranno almeno 3-4 anni per riprendere le trattative, ammesso che davvero succeda, perché non è affatto scontato
Ma al di là di quali ne siano state le cause, il fatto grave è che il mancato accordo non solo manda in fumo 130 miliardi di dollari di risparmi per tutti i Paesi membri derivanti dall’abbattimento dei dazi (questa la cifra stimata dalla stessa Wto), ma segna ancora una volta l’irrilevanza politica dell’Unione Europea – che con gli scontri tra il commissario Mandelson e il presidente francese Sarkozy ha dimostrato la solita incapacità di proporsi come soggetto affidabile e unitario – e soprattutto mette in crisi la stessa legittimità dell’organizzazione nata 14 anni fa sulle ceneri del Gatt. E non è difficile capire che il combinato disposto di tutte queste cose fa sì che il “flop di Ginevra” mini l’idea stessa di globalizzazione. Il
vorita”, che garantisce a tutti i membri le stesse condizioni) e soprattutto il Dsb (dispute settlement body, meccanismo di soluzione delle controversie interno che costituisce un avanzatissimo tribunale arbitrale).
Due garanzie che andranno automaticamente a farsi benedire, se si continuerà a procedere, come è probabile, sulla via del bilateralismo. Del resto, dopo la débâcle di questi giorni, serviranno almeno 3-4 anni per riprendere le trattative, ammesso che davvero succeda, perché non è affatto scontato. Bisogna ricordare che il Doha Round è nato in un momento in cui il sentiment internazionale sulla globalizzazione era alto – nonostante le varie cassandre alla Naomi Klein e alla Jose Bové (a proposito, che fine hanno fatto?) – ed era opinione condivisa che liberalizzare gli scambi fosse l’unica via per far crescere soprattutto i Paesi in via di sviluppo. Oggi non è più così: secondo gli ultimi sondaggi provenienti dagli Usa, infatti, dal 2001 ad oggi il sostegno popolare alla liberalizzazione degli scambi è crollato del 25%. Ovunque, nel frattempo, fiorisce un sentimento di neo-protezionismo: basta guardare a quello che succede in Francia, dove per resistere alle ambizioni transalpine dell’Enel, Parigi si è affrettata a creare un campione nazionale dell’energia come SuezGaz de France; o in Russia, dove il principale obiettivo del Cremlino è quello di disincentivare (usiamo questo understatment) la presenza di investitori esteri (vedi i casi di Bp ed Eni). O, per guardare in casa nostra, alle ultime ten-
zazione è ormai out. Unica domanda: possiamo permettercelo? Per rispondere basterebbe ragionare sul fatto che, secondo il Tesoro Usa, il 44,5% del
Le reazioni infuriate dell’Asia al fallimento del Doha Round
Pechino, Delhi e Tokyo sul piede di guerra
debito pubblico americano collocato sul mercato (debt held by the public, cioè escluso il debito finanziato direttamente dai fondi pensionistici, agenzie, ecc.) risulta sottoscritto da investitori stranieri.
E che, in particolare, il valore dei treasury bond a lungo termine detenuti dai soli 6 maggiori Paesi asiatici (Cina, Giappone, Hong Kong, Corea del Sud, Taiwan e Singapore) ha raggiunto i 1.197 miliardi di dollari, pari al 61% delle obbligazioni di questo tipo e a circa un quarto del debito pubblico complessivo collocato sul mercato. O valutare il peso che ha l’intervento dei fondi sovrani dei Paesi petroliferi nel salvataggio delle grandi banche e istituzioni finanziarie internazionali. In conclusione, corriamo il rischio di essere tutti anti-global in pubblico e global al 100% in privato. Rischiamo di essere tutti, insomma, come l’omino rappresentato nella vignetta dell’ultimo New Yorker: un tizio che agita uno striscione con su scritto “boicotta Pechino 2008”, ma tutto ciò che ha addosso, dalle scarpe alla camicia, fino all’altoparlante con cui urla i suoi slogan, è rigorosamente “made in China”. Una metafora azzeccata, che mostra quanto la situazione sia a dir poco grottesca. (www.enricocisnetto.it) n tragico fallimento, un passo indietro, un enorme collasso. Sono le reazioni ufficiali dei governi di Cina, Giappone ed India alla conclusione – infruttuosa – dell’incontro dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) che si è svolto nei giorni scorsi a Ginevra. Chen Deming, responsabile del dicastero del Commercio di Pechino, non usa mezzi termini:“Davanti alla recessione economica che ha colpito il mondo intero, la crescente inflazione e gli imminenti rischi finanziari che ci circondano, questo risultato si pone come un ostacolo al già fragile sistema economico multilaterale. Non è nient’altro che un fallimento”. La maratona di negoziati (nove giorni) per un patto economico globale è crollata senza un accordo conclusivo dopo lo scontro fra l’India e gli Stati Uniti sui livelli dei sussidi statali e sulle tariffe per l’importazione. Secondo Chen, il risultato è ancora più frustrante alla luce degli enormi compromessi compiuti dal governo cinese: “Spero che tutti i membri del Wto siano impegnati in una vera riflessione sulle conse-
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Cambiare la testa geopolitica del mondo è l’unica strada
Ripartire dal G10 con Cina e India colloquio con Paolo Savona di Vincenzo Faccioli Pintozzi er superare l’impasse del Doha Round, bisogna ripartire dalla base: un gruppo di G10, che comprenda i nuovi giganti economici dell’Asia, in cui discutere di fluttuazione monetaria e di cambi fissi e variabili. Ma, soprattutto, deve cambiare la testa politica del sistema mondiale: se questo non avviene, rischiamo di assistere ad uno sterile corpo a corpo fra le nazioni, senza accordi economici rilevanti. È l’opinione di Paolo Savona, economista di fama e internazionale presidente di Banca di Roma, che a liberal commenta il fallimento dell’incontro di Doha e fornisce la ricetta per superare la crisi nascente con le nuove potenze economiche mondiali: Cina ed India.
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Il direttore generale del Wto, il francese Pascal Lamy. Nel tondo: protesta a Manila contro la deriva protezionista del vertice. A fianco: il premier indiano Manmohan Singh (a destra) insieme al governatore del Gujarat Narendra Modi
guenze di questo fallimento. I prossimi incontri dovranno dimostrare maggiore qualità ed efficienza”. Da Tokyo interviene persino il premier, Yasuo Fukuda, che sottolinea: “Oltre una settimana di colloqui, e non è stato raggiunto alcun accordo. Il Wto è una realtà in cui il Giappone crede, ma questi risultati sono da biasimare”. Stessa linea per il suo ministro del Commercio, Akira Amari, che da Ginevra parla di “passo indietro”e biasima“l’atteggiamento di alcune nazioni, che ad un passo dalla sigla di un accordo importante e soddisfacente si sono tirate indietro”. Ai colloqui dell’Organizzazione mondiale del Commercio partecipano Stati Uniti, Australia, Brasile, Unione Europea, Cina, India e Giappone. I nove giorni del Doha Round sono stati costellati di polemiche sull’atteggiamento dei Paesi occidentali rispetto all’importazione delle merci asiatiche – definito “protezionismo” - e sui tassi di interesse da applicare ai sussidi statali. Secondo Kamal Nath, ministro indiano del Commercio e dell’Industria, è“disdicevole”che nel corso di un incontro così
importante non si sia arrivato ad alcun punto che possa soddisfare le parti in causa. Le nazioni che non appartengono al mondo occidentale, aggiunge, devono fare i conti con la povertà delle loro popolazioni, non con i vizi.Tuttavia, la fiducia nell’istituzione rimane: “Tutto quello che abbiamo fatto fino ad ora rimane. Prendiamo nota di quanto accaduto ma siamo convinti di dover andare avanti”.
Eppure, Pechino e Delhi non sembrano intenzionate a rimanere passive davanti alla posizione di Usa ed Ue. In uno scarno bollettino della Xinhua, l’agenzia di stampa ufficiale del governo cinese, il Consigliere di Stato Dai Bingguo ha voluto ricordare che i rapporti fra le due nazioni sono “al miglior punto mai raggiunto. Entrambe siamo convinte che il nostro futuro debba essere legato ad un mutuo scambio di sviluppo reciproco”. E questo, fra le righe, sembra essere un avvertimento all’Occidente del Doha Round ed alle sue posizioni irremovibili.
Professore, quali ripercussioni può avere il mancato accordo al Wto sull’economia italiana? Nessuna. La riunione è stata presentata come un successo per noi perché manteniamo il protezionismo tariffario, il quale è sempre da condannare in quanto cela le rendite e le inefficienze dietro ad una falsa istanza di socialità. Ciò che si doveva ottenere e quindi in parte – soprattutto in Europa – si ha, è il protezionismo sulla qualità dei prodotti. Questo vuol dire battere sull’origine protetta, l’origine controllata: un dovere delle autorità.
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che l’Occidente, ed in particolare l’Europa, si trova in una situazione di contraddizione logico-economica e politica che naturalmente loro non possono ignorare. Il ministro del Commercio indiano ha auspicato che vi sia “una vera evoluzione” nei prossimi incontri del Wto. Secondo lei ha ancora un senso un’organizzazione come questa? Personalmente, e l’ho scritto anche nei miei libri, la migliore Organizzazione sovrannazionale che affronta i problemi della cooperazione economica mondiale rimane il Wto. Quindi, le sue riunioni devono essere costantemente ripetute. Una volta c’era un Segretariato permanente, con dei delegati che discutevano continuamente: oggi il Fondo monetario internazionale ha perso il suo ruolo, le varie istituzioni sovrannazionali sono debolissime perché rotte all’interno dai diversi interessi dei Paesi partecipanti, che le penalizzano e l’Ocse di Parigi – nato per gestire il Piano Marshall – è morto e nessuno se ne è accorto. Il Wto è l’unica istituzione seria nel mondo, che garantisce l’abbattimento delle barriere e la stesura delle regole del gioco.
Senza un nuovo ordine politico rischiamo di assistere ad uno sterile corpo a corpo fra le nazioni
Alla luce delle proteste dei Paesi asiatici sull’incontro del Wto, possiamo ipotizzare delle ripercussioni contro la nostra economia? Non credo che vi saranno delle ritorsioni. Credo che all’origine di questo irrigidimento di Cina ed India vi sia il fatto che i G8 si sono rifiutati di accettarli fra le potenze mondiali, cosa che invece di fatto sono. Di conseguenza, questi Paesi sono maldisposti nei confronti dell’Occidente, che insiste sul fatto che la barriera tariffaria – che noi chiediamo che loro demoliscano sui prodotti industriali – ad un certo punto sia posta anche sull’agricoltura. Diciamo
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Secondo lei, è possibile trovare un accordo con le nuove potenze asiatiche? Credo che sia necessario ripartire dalla testa. Incominciare con un gruppo di G10, dove mettere sul tappeto la riorganizzazione monetaria e valutaria che non funziona (perché non si può andare avanti con nazioni che hanno il cambio fluttuante mentre altre hanno il cambio fisso); le regole del gioco anche della presenza dello Stato nell’economia (e quindi i fondi sovrani) ed infine il processo di liberalizzazione, che va esteso sotto protezione della qualità anche al settore agricolo ed industriale. O si cambia la testa politica del sistema geopolitico, oppure avremo un continuo corpo a corpo fra le nazioni, con piccoli accordi che non risolveranno mai i problemi di fondo.
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politica
I licenziamenti italiani sono più sopportabili di quelli francesi? Nel mondo sindacale e politico è polemica dopo le dichiarazioni di Berlusconi
Esuberi tricolori di Riccardo Paradisi a cordata tricolore per Alitalia immaginata da Silvio Berlusconi prevederebbe 5mila esuberi, ma anche l’arrivo di 90 aerei grazie alla fusione con Air One, e soprattutto fondi freschi immessi da una cordata di imprenditori. Talmente tanti soldi, dice sempre il presidente, che a molti volenterosi «ho dovuto dire che non c’è più spazio per partecipare alla cordata». Su questa strada peraltro Berlusconi tira diritto e anzi avverte che non si fermerà certo per qualche manifestazione. Tanto più che saranno riaperte diverse rotte verso l’Asia e «riallacciati i contatti con Air France». Però i sindacati «non dovranno mettere il bastone tra le ruote, altrimenti salta tutto», avverte Berlusconi. Ma se quei 5mila esuberi venissero confermati, perché il sindacato dovrebbe assistere impassibile a un piano di ristrutturazione – per ora solo annunciato – visto che non si vede all’orizzonte nemmeno una bozza di piano industriale? Tanto più che quel sacrificio di personale diventa ancora più macroscopico e pesante se si considera che sono 2500 in più di quelli previsti dal piano industriale dell’offerta di Air France.
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francese viene ora fuori che ci saranno varie sinergie con Parigi riguardo il piano delle rotte internazionali. Insomma non solo sul salvataggio della compagnia di bandiera Berlusconi si dice ormai sicuro, ma il Cavaliere è anche ottimista sul futuro dell’azienda. Mancano certezze, in ogni caso. Ed è per questo che al premier è stato chiesto di riferire a Montecitorio, sia da parte del presidente della Camera Fini che dai deputati di opposizione. Il vice capogruppo dell’Udc Vietti lascia intravedere anche sospetti sulle «fluttuazioni» in borsa determinate da voci incontrollate. E fa notare che «sarebbe il caso, nell’interesse di tutti, che il governo
Fini, Udc e Pd chiedono che il governo riferisca alla Camera.Tabacci: «Non c’è un piano industriale, è una cordata fantasma». Grillo: «Ma quella di Air France era un’annessione»
Sicchè sorge spontanea la domanda:perché gli esuberi di Air France erano eccessivi, troppo dolorosi, socialmente insostenibili e quelli della cordata tricolore invece non dovrebbero suscitare nemmeno reazioni sindacali? Un atteggiamento che l’esponente del Pd Nicola Rossi imputa al provincialismo dell’imprenditoria italiana e all’incoerenza del governo: «Il presidente del Consiglio dovrebbe riflettere sulle conseguenze dei suoi comportamenti, prima di chiedere al sindacato un atteggiamento rigoroso. La vicenda Alitalia si concluderà con una soluzione non comparabile rispetto a quella che si era profilata con Air France. Una volta che il premier si sarà assunto le sue responsabilità, allora potremmo discutere di quelle degli altri». Sulle prossime mosse del sindacato Rossi non si sbilancia: «Credo che le rappresentanze attenderanno di conoscere il piano in tutti i suoi dettagli prima di commentare e decidere le proprie azioni sugli esuberi». Esuberi che, garantisce Berlusconi, sarebbero assorbiti da scivoli, prepensionamenti, ammortizzatori sociali. Non solo, da un colloquio che il Cavaliere avrebbe avuto con il ministro dei Trasporti
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venisse in aula a spiegarci cosa fare». «Ma di che stiamo parlando? Ma perchè qualcuno dovrebbe mettere soldi su un una cosa che non esiste, che non ha alcuna possibilità di realizzarsi?»: Bruno Tabacci, anche
lui dell’Udc, ex presidente della commissione Attività produttive, è anche più duro. Non se la sente di essere ottimista. Anzi. Ricorda come gli atti parlamentari siano «pieni di previsioni di quanto sarebbe accaduto perchè era chiaro da tempo che il governo su questa strada non avrebbe trovato consenso. Mi stupisce – dice ancora Tabacci – che i media continuano a dar credito al premier malgrado non ci sia nemmeno un piano industriale». Laddove invece quel piano venisse presentato e fosse quello annunciato da Berlusconi allora, secondo il leader del Pd Walter Veltroni, il governo punterebbe a risolvere la situazione di Alitalia facendone ricadere l’onere sugli italiani, visto che «una parte dell’assetto della nuova società sarà prodotto dalla partecipazione di soggetti privati e una parte dalla formazione di una bad company dove si mettono le voci negative del bilancio. In altre parole un’operazione a carico dei contribuenti. Una cosa – nota il leader del Pd – che non sarebbe accaduta se si fosse scelta la strada di Air France».
A sospettare sulla stessa natura della cordata tricolore che dovrebbe salvare la compagnia di bandiera è il presidente della Provincia di Milano Filippo Penati: «Da quanto si vocifera questa sarebbe
Conflitti d’interesse e debiti eccessivi per lo Stato: perché Passera non ha ancora convinto Palazzo Chigi
Un piano che è carta straccia senza la Marzano bis ROMA. Il piano scritto da Corrado Palazzo Chigi non sembra poterselo con attenzione il possibile conflitto Passera e Gaetano Miccichè per il rilancio di Alitalia è, come ha rivelato ieri il Corriere, pronto al 99 per cento. C’è un perimetro aziendale più ampio (la manutenzione resta alla Fly per la gioia dei sindacati), tornano i voli internazionali a Malpensa e il discusso Carlo Toto fa due passi indietro: non entra nella cordata tricolore ed esce dal trasporto aereo, vendendo AirOne. Così come resterebbe fuori Roberto Colaninno, che di soldi suoi non ne vuole proprio mettere.
Ma tutti questi progetti sono carta straccia se il governo non modificherà la legge Marzano. Se non attiverà tutte quelle procedure che permetteranno alla nuova Newco di partire in bonis e scaricare gli 1,2 miliardi di debiti diretti all’azionista Tesoro, quindi al contribuente. E al momento
permettere. Di conseguenza nessuno è disponibile a cacciare un euro soltanto per il richiamo della bandiera. Che tutto sia in alto mare l’ha chiarito – bruscamente – Gilberto Benetton. Ieri, n un’intervista al Sole 24 Ore, il leader finanziario del gruppo di Ponzano Veneto – e forte di una cassaforte da 10 miliardi di euro, Sintonia, utile per le infrastrutture – ha spiegato: «Noi Benetton siamo pronti a fare la nostra parte: ma, per favore, e questo l’ho detto anche a Berlusconi e Tremonti, non considerateci come una nuova Iri». Non contento ha aggiunto: «Non abbiamo ancora visto un piano industriale, dei numeri, una proposta concreta, un partner internazionale disposto a intervenire subito». Se non bastasse, ecco un’accezione che sa di precetto: «Bisogna ricordare che come gruppo dobbiamo valutare
d’interesse, data la partecipazione posseduta in Adr». Cioè nella società che controlla lo scalo di Fiumicino.
La maggior parte degli imprenditori contattati da Passera per la nuova Alitalia sono o concessionari di licenze pubbliche o hanno rapporti diretti con lo Stato (i Benetton, ma anche Toto, Aponte, Marcegaglia e Ligresti). Così è facile leggere nelle parole di Benetton la richiesta di una tutela per evitare le scure dell’Antitrust. Antonio Catricalà, non certo un nemico delle aziende, ha fatto sapere che non andrà oltre il derogare per un anno – lo prevede la legge – il monopolio che di fatto si creerà sulla rotta Milano-Roma, la più remunerativa d’Europa, dopo la fusione Alitalia-AirOne. Giulio Tremonti deve studiare norme che possano evitare brutte sorprese. Ed è difficile. Forse impossibile. Allo
politica
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Il leader dell’Anpac accetta il diktat del governo: non metteremo i bastoni tra le ruote
«Silvio non farà come Spinetta» colloquio con Fabio Berti di Francesco Pacifico
ROMA. Presidente Berti, Berlu-
stesso modo, se si deve evitare il commissariato previsto dalla legge Marzano, non si può nemmeno approfittare delle sue norme per fare il concordato preventivo con i creditori. E per lo più i debiti sono con banche e società di leasing, grandi nomi come Citi o General eletrics. Berlusconi lo ripete in tutte le salse: serve chiudere l’operazione a inizio settembre. Per ora ha ottenuto una pax armata dei sindacati – zitti sui 5mila esuberi perché nessuno vuole bloccare gli aeroporti d’estate, quando il traffico è al top – in cambio della promessa che la futura Alitalia riassorbirà i lavoratori licenziati. In più sperava che un’operazione tanto allettante – comprare a poco un’azienda e rivenderla risanata al quadruplo in pochi anni – chiamasse imprenditori con soldi veri. Poi gli hanno spiegato che il suo governo non può non tagliare le tasse per prendersi i debiti risparmiati al gotha dell’imprenditoria italiana. Se qualcuno non fa un passo indietro, se Passera non si prenderà in carica qualche passivo in più, tutto resterà sospeso.
composta da concessionari dello Stato e da costruttori, non vorrei che l’Expo fosse una cambiale per saldare questa cordata mentre non si parla nemmeno del rilancio di Malpensa: sarebbe gravissimo se i diritti di volo non fossero liberalizzati ma andassero in capo alla nuova Alitalia, questo significherebbe la morte dell’hub milanese». Che ci sia ancora molta incertezza intorno ad Alitalia, lo testimonia d’altra parte il fatto che il presidente della commissione Infrastrutture e comunicazioni del Senato Luigi Grillo ieri ha scritto al ministro dell’Economia Giulio Tremonti per invitarlo ad aggiornare la commissione sugli sviluppi della vicenda.
Anche se da parte sua Grillo ha le idee già molto chiare: «L’accordo con Air France era un’annessione e una capitolazione. Bene ha fatto il presidente del Consiglio a bloccarlo: un Paese che ha 60 milioni di abitanti e dove il turismo è una delle principali voci in bilancio ha il dovere di mantenere una compagnia aerea di bandiera». E i cinquemila esuberi? Per Grillo sono per ora solo indiscrezioni «E comunque – dice il senatore del Pdl – oggi c’è il fattore petrolio che complica ulteriormente gli equilibri economici dell’azienda».
sconi chiede a voi sindacati di non mettere i bastoni tra le ruote al piano Intesa di Alitalia… …e sono d’accordo con lui, perché i bastoni tra le ruote potrebbero frenare la percorribilità di un piano che dovrebbe dare futuro all’azienda. E a chi lo sta scrivendo, ricordo che ha la responsabilità degli impatti sociali. Ma lei è quel Fabio Berti, che da leader dei piloti dell’Anpac per salvarne 200 del cargo rigettò l’intesa con Air France? Certo, perché i francesi volevano dismettere un’attività che potrebbe essere vantaggiosa per il Paese. Mi spiega perché si sono fatti avanti imprenditori privati per accaparrarselo? Ci spiega, lei, perché il sindacato fa fuoco e fiamme davanti a 2.120 esuberi di Air France ed è silente di fronte ai 5mila della cordata tricolore? Intanto, per quanto mi riguarda, ho già detto e scritto che la risposta sarà identica di fronte un piano come quello francese. E che faceva fuori 507 piloti dall’oggi al domani. Le ultimi voci, perché il piano Passera non l’abbiamo letto, parlano di 550 esuberi tra piloti Alitalia e AirOne. Un bel contentino. Ma il problema, più dei numeri, è la gestione: non si può applicare la cassa integrazione ai piloti, quando il brevetto è legato all’operatività. Altrimenti decade. Per questo abbiamo detto no ad Air France. Resta il fatto che sapete bene che è difficile parlare di ammortizzatori sociali con il fondo volo dell’Inps a zero e un platea di lavoratori molto giovane? Intanto numeri ufficiali non ce ne sono. Eppoi parliamo di cassa integrazione o di personale che andrà a lavorare per un’altra società. Mi sembra difficile che il governo si comporti come Air France dopo aver definito il piano di Spinetta «poco dignitoso».
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Com’è il piano Passera? L’Alitalia può sopravvivere in due modi: o con un partner internazionale, difficile da trovare visto il prezzo del petrolio, oppure aumentando la sua massa critica a livello nazionale, come avviene all’estero. Ecco quindi l’unione con AirOne. Così il Milano-Roma costerà più del Milano-Londra? Ma mi spiegate perché soltanto in Alitalia è cresciuta un concorrente del vettore di riferimento e non soltanto i lowcost? Si parla tanto di mercato, ma perché non si dice che in America le compagnie fanno pagare a parte tutto il catering? Oppure che i lowcost, per l’aumento del greggio e dopo aver abbindolato i passeggeri, abbandoneranno le rotte che sono più di servizio pubblico? E che fa Alitalia. Lei però è ottimista di fronte a una Newco che non risolverà neppure il dualismo tra Malpensa e Fiumicino. Ottimista io? Io guardo in faccio alla realtà e so che non siamo di fronte a un’operazione risolutiva, ma a una mossa per tenere in piedi la compagnia in attesa di trovare un partner straniero. Che oggi non investirebbe. A chi fa demagogia chiedo perché l’operazione Air France non è stata fatta durante l’era Cimoli? Perché non si pensa ai tanti dipendenti di 40 anni con figli a carico? Il sindacato, senza i francesi, torna padroni della Magliana? Il sindacato è un termine generico, L’Anpac è notoriamente vicina all’azienda e a suoi interessi. Senza coinvolgimento dei lavoratori, sia chiaro, non c’è futuro per nessuno. Air France ne è l’esempio con il patto stretto con Snpl, sigla forte del trasporto aereo francese. Un motivo in più per rimpiangere Jean Cyrill Spinetta? Il rammarico c’è, perché Air France resta la soluzione migliore. Purtroppo ha presentato un piano inaccettabile, con troppi aerei messi a terra.
Sappiamo che non è un’operazione risolutiva, ma l’importante ora è tenere in piedi la compagnia
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politica
Oltre all’uscita di Brunetta sullo statuto speciale, pesano le nomine nelle giunte locali e nei cda delle municipalizzate
In Sicilia è lite tra Pdl e Mpa di Alfonso Lo Sardo
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Assegni sociali e precari: si cambia Il governo fa dietrofront su precari e assegni sociali. È passato infatti in Commissione Bilancio del Senato l’emendamento che modifica l’articolo 21, quello sui precari. Con la nuova versione, il datore di lavoro, solo nel caso di giudizi in corso per la violazione della disciplina delle norme sul termine del contratto di lavoro o della sua proroga, e fatte salvo le sentenze passate in giudicato, non dovrà più provvedere al reintegro del lavoratore ma sarà «tenuto unicamente ad un indennizzo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto». Quanto agli assegni sociali, resta stabilita la necessità di aver lavorato in Italia per almeno dieci anni, ma scompare la necessità di aver percepito un reddito «almeno pari all’importo dell’assegno sociale».
Di Pietro lancia il referendum anti-Lodo Alfano «È iniziato il conto alla rovescia per chiedere ai cittadini cosa ne pensano della legge sull’impunità che si è fatta apposta il presidente del Consiglio Berlusconi per non farsi processare». Lo ha detto Antonio Di Pietro entrando al Ministero della Giustizia a Roma per depositare, assieme ad una trentina di componenti dell’Italia dei Valori, il quesito referendario sull’abrogazione del lodo Alfano.
ROMA. I matrimoni d’amore, solitamente, finiscono quando viene a mancare il sentimento. Per i matrimoni di interesse la prassi è che l’unione finisca al momento stesso della perdita dell’utilità da parte di uno dei contraenti se non anche di entrambi. È questo il pensiero che la mente richiama se si pensa al connubio, di interesse e non d’amore sia chiaro, tra Silvio Berlusconi da Arcore e Raffaele Lombardo da Grammichele, provincia di Catania. In realtà non c’è mai stato un matrimonio vero e proprio, ma un regime more uxorio, una relazione pubblica instaurata sulla base di reciproche convenienze. Quella del Cavaliere consisteva nello scardinare le resistenze dell’Udc siciliana minandone le fondamenta del consenso e del successo territoriale, dunque la certezza di aggiudicarsi elettoralmente e politicamente la Sicilia. L’interesse del governatore è stato essenzialmente conquistare la presidenza della Regione in scioltezza e rivendicare una politica autonomista e di rilancio delle prerogative dell’amministrazione previa elargizione, legittima, di fondi da parte del governo per le infrastrutture e di investimenti per lo sviluppo. Ebbene, cosa è successo invece nelle ultime settimane? Che il ministro Renato Brunetta sia arrivato a dichiarare di voler abolire le regioni a statuto speciale, entrando a gamba tesa innanzitutto sulla Carta costituzionale e sull’articolo 116. Per Brunetta sarebbe giunta l’ora di mettere tutti sullo stesso piano: «Nessuna regione può essere più speciale delle altre anche perché va combattuto il federalismo all’italiana in cui la spesa raddoppia».
Giovanni Iarda, lombardiano, ha iniziato una battaglia contro i falsi malati e i fannulloni dell’amministrazione. Questo non ha impedito a Pistorio di minacciare Brunetta: «Consiglierei al ministro che ha sempre pronta l’accetta in mano di far cessare la sua ossessione di colpire tutti indistintamente, ricordandogli che chi di accetta ferisce, qualche volta di accetta perisce».
Su tutto in realtà c’è la vicenda dei fondi destinati tra l’altro alla realizzazione delle infrastrutture in Sicilia e che sono stati distratti dal governo anche per coprire le mancate entrate dovute all’abolizione dell’Ici sulla prima casa. L’Mpa anche in questo caso si è scagliato contro il governo chiedendo in un primo tempo che si sbloccassero i fondi aggiuntivi destinati alle infrastrutture, sia quelle previste nella legge Finanziaria varata dal governo Prodi sia a quelle ex Fintecna. Dal governo sono arrivate rassicurazioni e promesse, che certo però non potevano bastare a tranquillizzare il governatore. Non è casuale il voto contrario di 5 deputati Mpa che ha contribuito a mandare sotto l’esecutivo sul decreto milleproroghe. Le tensioni con il resto della maggioranza di centrodestra, in Sicilia, si registrano anche sulla composizione delle giunte provinciali o nell’ottica di eventuali rimpasti per quelle già definite: è il caso dell’amministrazione comunale di Palermo, dove il sindaco Diego Cammarata è alle prese con l’approvazione del bilancio e con gli ultimatum che arrivano proprio dall’Mpa: gli uomini di Lombardo chiedono maggiore considerazione e maggiore presenza nei cda delle società ex municipalizzate. L’Udc in Sicilia non sta a guardare e, nella anomala posizione di partner di governo alla Regione e di opposizione a livello nazionale, per voce del suo segretario regionale Saverio Romano, fa notare che «le contraddizioni tra le promesse di Berlusconi e i ricatti che lo stesso premier è costretto a subire dalla Lega, vero ago della bilancia e dominus dell’azione di governo, fanno capire come al governo nazionale poco interessi lo sviluppo e la crescita del Meridione, e che l’amico Raffaele Lombardo è stato solo usato dal Silvio nazionale, se non addirittura gabbato, e che a nulla sono serviti, sinora, i nostri moniti».
Alleanza in crisi: nel partito di Lombardo c’è delusione per il congelamento dei fondi e la possibile revoca delle prerogative costituzionali
Apriti cielo: il colonnello Giovanni Pistorio, presidente del gruppo Misto-Mpa al Senato, uno dei più attivi tra i dirigenti del movimento di Lombardo, ha tuonato contro il ministro alla Funzione pubblica: «Brunetta, preso da furia iconoclasta contro fannulloni e sperperi amministrativi, ritiene di voler distruggere anche la Costituzione con lo statuto della Regione Sicilia che ne è parte integrante. La specialità, costituzionalmente sancita, della Sicilia è semmai un modello che va salvaguardato e ribadito, tanto più in tempi in cui si pensa al federalismo da attuare nell’intero Paese». E pensare che nella lotta agli sprechi nell’amministrazione pubblica Pdl e Mpa sono alleati, tanto è vero che l’assessore regionale siciliano
Milleproroghe: Senato dà il via libera Il decreto Milleproroghe è legge. L’Aula del Senato lo ha approvato con 161 voti a favore, 115 contrari e un’astensione.Tra i voti contrari quelli del Pd. Giuliano Barbolini, senatore dei democratici, ha motivato il no del partito, affermando che «il provvedimento penalizza il Sud e ha abbandonato l’impegno contro l’evasione fiscale
Allarme del Csm: al Sud procure vuote Il Consiglio Superiore della Magistratura ha invitato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, «ad adottare le iniziative legislative opportune per fronteggiare la situazione di emergenza» conseguente alla riforma dell’ordinamento giudiziario che vieta la destinazione, nelle funzioni di Pm, dei magistrati di prima nomina. Per effetto di questa disposizione - soprattutto nelle Procure meridionali più impegnate nella lotta alla criminalità organizzata - sono vacanti 86 posti da Pm su un totale di 660 posti. In particolare la scopertura è pari al 13% con 41 posti vuoti in Sicilia, 20 in Campania, 19 in Calabria e 6 in Puglia.
Milano: parte pattugliamento dei militari Faranno un pattugliamento a piedi, e prevalentemente di sera e di notte, e avranno la pistola al posto del mitragliatore, i 424 militari che saranno impiegati a Milano per la sicurezza e che, a tappe, entreranno a regime entro l’11 agosto. I controlli partiranno già da lunedì prossimo con l’arrivo di 45 soldati con pattugliamenti nelle zone di via Padova, Baggio (Quinto Cagnino) e la Stazione Centrale oltre a una decina dei possibili obiettivi sensibili partendo dalla Cattedrale. In particolare, 170 unità saranno utilizzate in controlli, 174 in postazioni fisse e 80 al Centro di permanenza temporanea (Cpt) di immigrati in via Corelli.
Caso Saccà: rinviato il Cda Il Presidente della Rai, Claudio Petruccioli, ieri ha rinviato ad oggi il Cda dell’azienda per mancanza del numero legale. Nel testo inviato ai Consiglieri di Amministrazione, al Collegio Sindacale e al Direttore Generale, tra le altre cose, ha scritto: «I lavori riprenderanno dallo stesso punto dell’ordine del giorno nel quale il numero legale è mancato, vale a dire la votazione sulla delibera di nomina del Direttore Sviluppo e Coordinamento Commerciale», conclude Petruccioli.
politica Roma.Questo non è un pezzo politico, ma un articolo di costume. Ieri infatti alla Camera dei deputati è accaduto l’inconcepibile, uno di quegli scarti della storia che non possono che lasciare sorpresi e con la sensazione che il mondo in cui si è vissuti fino ad allora è finito per sempre. È caduto il governo? La maggioranza è collassata? Macché, assai di più. Per la prima volta da un quindicennio un “suo” deputato ha criticato Silvio Berlusconi (duramente, per di più) e questo senza pensare di lasciare il partito o la vita pubblica. Così, come se fosse una cosa normale. Roba da Prima Repubblica. Questi i fatti. Martedì il centrodestra, a dispetto dei numeri, riesce ad andare sotto a Montecitorio sul decreto Milleproroghe. Niente di grave, ma il premier va fuori dalla grazia di Dio e, arrivato a una cena coi senatori del Pdl, non si tiene: voi sì che siete bravi, dice, la vostra superiorità nei confronti dei deputati è «indiscussa e indiscutibile». Sembrava una rampogna come un’altra, un episodio destinato al massimo a finire in un articolo di colore alla prossima sfuriata. E invece Italo Bocchino, come in un happening teatrale di qualche anno fa, ha stracciato la sceneggiatura e inserito un brandello di vita in una recita scontata. In soldoni, gliene ha dette quattro: quelle di Berlusconi sono parole «infelici, irrispettose e irricevibili», che «provocano un ulteriore disagio ai deputati, già costretti a convertire decreti blindati del governo». Erano le 10.04 quando la prima agenzia ha rilanciato il comunicato stampa del vicecapogruppo del Pdl – ma proveniente da An – e lo stupore si è diffuso rapidamente. Il generale Roberto Speciale, che pure di situazioni difficili deve averne affrontate a iosa da militare, era ancora sotto choc quando all’ora di pranzo, fuori dalla commissione Difesa, apostrofava i colleghi di An uno a uno: «Guarda cosa ha fatto il tuo amico… guarda, guarda… questo tenta di delegittimare Berlusconi… è inammissibile». Uno sgomento diffuso tra numerosi deputati – ma va detto che altri se ne impipavano beatamente – che è stato in parte sanato da Ignazio La Russa: il ministro della Difesa e reggente di An, in una nota pomeridiana, ha chiarito che Berlusconi semplicemente non aveva detto niente contro i deputati, ma solo elogiato i senatori. Garantisce lui, che era presente alla cena. Solo a quel punto Bocchino si è dichiarato soddisfatto. L’inconcepibile, che pure è avvenuto e di cui resta traccia sulle agenzie di stampa, è stato allora tacitato nelle coscienze. Da
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Nostro sondaggio a caldo: i deputati del Pdl danno ragione al premier
«Siamo peggio dei senatori, Silvio ha proprio ragione» IL 66% DEL GRUPPO PIEGA LA TESTA Se mille o duemila persone, a stare agli istituti di statistica, possono determinare gli orientamenti di tutti gli elettori italiani, allora tre decine di deputati sono un buon campione sui circa 273 che compongono il gruppo del Pdl. Ieri in 29 hanno risposto all’artigianale sondaggio di liberal sulla superiorità “indiscussa” dei senatori del Popolo della libertà sui loro colleghi di Montecitorio teorizzata, o forse no, da Silvio Berlusconi durante una cena proprio coi suoi senatori. Questi sono i risultati: In 21, quasi tutti provenienti da Forza Italia, sostengono in varie formulazioni che si trattava di “una battuta” fatta per gratificare i senatori in 3 rispondono che hanno di meglio a cui pensare e che di queste polemichette se ne fregano ben 5, quasi una minoranza interna, si dichiarano d’accordo con Italo Bocchino che ha definito “irrispettose e irricevibili” le parole del premier. Sono tutti di Alleanza nazionale.
di Marco Palombi un sondaggio volante condotto da liberal interpellando una trentina di deputati del Pdl risulta infatti che i due terzi minimizzano la faccenda («era solo una battuta»), altri tre si rifiutano di rispondere («me ne fotto») e addirittura cinque si dichiarano d’accordo con Bocchino a patto di conservare l’anonimato «visto che oramai la faccenda è risolta».
Al di là dello sconcerto dei peones però la faccenda è interessante anche per come funziona-
no i rapporti all’interno del Pdl. La domanda è: com’è nato lo scarto del parlamentare campano di An? Da qualche mese Italo Bocchino, è fatto noto, mal sopporta di doversi sobbarcare la maggior parte del lavoro sporco per tener unito il gruppo, farlo stare in aula disciplinato e tutte quelle cose noiose che fa un capogruppo, mentre il capogruppo vero – cioè Fabrizio Cicchitto - va nei Tg a dichiarare contro “l’eversivo”Di Pietro. Ieri, però, al suo malumore si è aggiunto quello di Gianfranco Fi-
Scatto d’orgoglio di Bocchino: dietro di lui c’è anche l’irritazione di Fini. Ma a Montecitorio solo una piccola minoranza dà ragione al vice capogrupppo e accusa Cicchitto per la sua latitanza
lusconi, è stato il ministro della Difesa a sminare il caso: Berlusconi non ha mai detto le parole incriminate.
ni: il presidente della Camera ha infatti colto dietro le parole del premier anche una critica a come lui gestisce l’Aula e così ha dato il via libera alla lavata in pubblico dei panni sporchi. Bocchino ha caricato Berlusconi, mentre Amedeo Laboccetta, altro aennino, si è premurato di chiarire: «Fini è uno dei migliori presidenti della storia repubblicana» e quindi «le polemiche sull’efficienza della maggioranza in aula devono essere indirizzate verso la direzione giusta». Cioè su Cicchitto. Teorizza un dirigente di An: «Se uno ti dà uno schiaffo glielo devi ridare, senno quello pensa che lo può fare». Assestato lo schiaffo e dopo una telefonata La Russa-Ber-
La cosa però non è finita qui. Prima di pranzo il presidente del Consiglio ha chiamato a rapporto il suo capogruppo alla Camera, cancellando addirittura la prevista visita alla centrale Enel di Civitavecchia. I presenti raccontano di una scena anche commovente con Cicchitto che si giustificava dicendo che il suo gruppo è assai più numeroso di quello affidato alle cure di Maurizio Gasparri e che conta più ministri e sottosegretari, assenti fissi, e quindi certe cose possono capitare anche se tutti si impegnano allo spasimo. Berlusconi, dal canto suo, ieri non era più così affezionato alla sua collera e aveva ben altri problemi – vedi Alitalia – quindi ha detto che farà qualcosa per limitare le assenze dei membri del governo e concluso il tutto con uno di quegli abbracci che lo fanno amare dagli amici. Come detto, questo non è un pezzo politico.
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ome ebbe a dire Robert Schuman, «l’Europa non verrà creata tutta in una volta e secondo un unico progetto generale, ma sarà costruita attraverso realizzazioni concrete dirette a creare solidarietà reali». La considerazione, quasi una profezia, di uno dei padri fondatori della Comunità, si è rivelata giusta. Se l’Europa dell’integrazione economica è ormai una realtà affermata (sia pure con limiti che vanno colmati), con la ratifica del Trattato (che giunge dopo il fallimento di un eccessivamente ambizioso progetto costituzionale) l’Europa politica riceverà un’importante accelerazione, con importanti innovazioni sul piano della governance. È la dimensione sociale a camminare adagio, costretta a muoversi, come vedremo, all’interno degli spazi piuttosto angusti che gli Stati nazionali sono disposti a cedere, in questa delicata materia, ai generosi tentativi di un’iniziativa comune di spessore sovranazionale. In sostanza, è proprio l’accanimento degli Stati a voler difendere le proprie prerogative in materia di diritti sociali e del lavoro a togliere quel respiro di prospettiva che le riforme dovrebbero avere e a consegnare, come è accaduto da ultimo in Irlanda, i singoli Governi nelle mani di opinioni pubbliche orientate - per tanti motivi - alla conservazione della realtà esistente piuttosto che alla ricerca dell’innovazione. Ecco perché l’affermazione compiuta di una “dimensione sociale” comunitaria non passa attraverso la difesa della sovranità degli Stati nazionali in materia di diritti sociali e del lavoro, ma dalla conquista e dall’affermazione di una migliore capacità d’intervento e di direzione dell’Europa.
politica
C
Occorre innanzitutto riordinare, attraverso le riforme, quel modello sociale europeo di cui siamo fieri, ma che è divenuto insostenibile nel nuovo contesto della globalizzazione. Tanto che - proprio in questi stessi giorni - l’Unione europea ha tenuto, nell’indifferenza generale, una linea di condotta sostanzialmente conservatrice nel negoziato del Wto, col pretesto di difendere i propri assetti produttivi e i propri privilegi sociali contro l’incalzare della concorrenza dei paesi in via di sviluppo. Ecco perché il disincantato realismo di Lisbona 2 è preferibile all’utopia programmatica di Lisbona 2000 e alla proclamazione solenne di trasformare l’Europa entro il 2010 nella «economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’impiego e di una maggiore coesione sociale, nel rispetto della sostenibilità ambientale». Un obiettivo questo che è solo un groviglio di contraddizioni (e che spiega la crescita modesta dell’Unione nel suo insieme):
Oggi il Parlamento italiano ratifica l’accordo di Lisbona
Approviamo il Trattato, ma ora l’Europa cambi modello sociale di Giuliano Cazzola perché non saremo mai in grado di trasformare la principale causa del nostro declino (il modello sociale europeo, appunto) in una leva per lo sviluppo.
Sulla stessa linea di Lisbona 2000 si era mosso anche il rapporto “Alzare la sfida” redatto dal gruppo di alto livello coordinato da Wim Kok. Orgogliosamente e incautamente, il rapporto prendeva le distanze dal modello americano affermando che la strategia di Lisbona non era un tentativo d’imitare gli Stati Uniti, ma puntava a realizzare «la visione che l’Europa ha di ciò che essa vuole essere e di ciò che vuole conservare», tenuto conto del rafforzamento della concorrenza mondiale, dell’invecchiamento della popolazione e dell’allargamento della Ue a 25 poi a 27 paesi. L’Europa è altrettanto consapevole di dover affrontare, nel contesto della concorrenza internazionale la duplice sfida lanciata da un lato dall’Asia (dall’India e dalla Cina in particolare) e dagli Stati Uniti, dall’altro. Persino gli Stati dell’allargamento, osservati con sospetto per l’incombente minaccia di dumping sociale, inducono visibili preoccupazioni. È stata la minaccia dell’idraulico polacco a far fallire, in Francia, il referendum sulla Costituzione
europea. Eppure, se l’Unione ha un motore occorre cercarlo nei nuovi paesi entrati, non certamente nella Europa benestante dei Quindici paesi. Si osserva, infatti, che la crescita della produzione e della produttività nei dieci nuovi paesi entrati è stata superiore negli ultimi 5 anni a quella degli Usa. Così, rimpiazzando tecnologie divenute obsolete, questi paesi si apprestano al salto di una generazione sul piano delle capacità tecnologiche. Nello stesso tempo la loro fiscalità vantaggiosa e i loro salari poco elevati continueranno ad atti-
continuazione il primato del “modello sociale europeo” (che poi è tutt’altro che uniforme) senza chiedersi se esso sia sostenibile o meno. Nel mondo moderno, nelle economie sviluppate la difesa delle prerogative acquisite non passa soltanto dalle norme e dagli ordinamenti, ma anche e soprattutto dalla capacità di assicurare un contesto di crescita e sviluppo che sappia conciliare le esigenze di competizione con l’intelaiatura di un qualificato standard di diritti. È una ricerca questa che si muove lungo un crinale angusto, sospeso tra il declino e il progresso. La domanda inquietante che assilla noi europei e alla quale continuiamo a dare risposte più improntate all’ottimismo della volontà che al pessimismo dell’intelligenza - è sempre la stessa: il modello sociale europeo è una malattia cronica con la quale è necessario convivere, contenendone il più possibile gli effetti invalidanti oppure è una risorsa, un punto di forza da far valere nella battaglia della globalizzazione? È possibile che abbiano un futuro dei paesi le cui strutture pubbliche drenano ed impiegano la metà del
Il modello sociale comunitario è una malattia cronica con la quale è necessario convivere o una risorsa nella battaglia della globalizzazione? rare gli investimenti provenienti dal resto dell’Europa. E sarà un bene, perché soltanto in questo modo il vecchio Continente potrà essere competitivo nel mondo dell’economia globale.
Che fare? È ormai inadeguato il metodo del coordinamento aperto (i processi di coordinamento politico fondato sui Nap e la cosiddetta sorveglianza multilaterale). Né sembra più sufficiente ribadire in
prodotto? L’Europa non è in grado di cambiare radicalmente i propri standard di vita, ma neppure di continuare a vivere al di sopra delle possibilità consentite, come accade ora. È nostro compito trovare un equilibrio possibile mediante le riforme sociali e del lavoro, con un occhio attento all’allocazione delle risorse. Ecco perché sarebbe sbagliato un allentamento dei vincoli del patto di stabilità. Se il Trattato di Maastricht non ci fosse stato, se non fossimo entrati nel club della moneta unica, il Paese, senza le coordinate dei “vincoli esterni”, non avrebbe mai superato da solo le crisi degli ultimi anni.Va rimosso, invece, il limite strutturale del patto: è necessario andare oltre il principio della sussidiarietà e il metodo del coordinamento aperto. L’Unione deve acquisire poteri decisionali anche in materia di riforme, estendendo ad esse, mutatis mutandis, la logica del trattato di Maastricht (con obiettivi da conseguire e sanzioni da erogare in caso di violazione degli stessi). In questo senso, abbiamo bisogno di più Europa ovvero di un processo più intenso di integrazione economica e finanziaria in grado di scandire le prospettive dell’Europa. Il Vecchio Continente deve lasciarsi alle spalle la percezione di sé descritta da Mario Draghi: «L’Europa è vista come un’area di stabilità e di ricchezza dove la gente è pagata per non lavorare, dove la produttività è bassa e le tasse sono alte, dove le opportunità della rivoluzione tecnologica degli anni Novanta non sono state utilizzate appieno, dove la presenza dello Stato come proprietario dei mezzi di produzione e regolatore di quelli che non possiede è rilevante, dove il sistema finanziario è prevalentemente fondato sull’intermediazione di un mercato bancario oligopolistico e generalmente inefficiente, dove si riscontra un’incapacità da parte di tutti (governi per primi, ma anche imprese, intermediari finanziari e bancari, gli stessi lavoratori) di superare con decisione le barriere nazionali, di sfruttare appieno la maggiore scala che l’integrazione europea permetterebbe di conseguire».
Ecco perché, al di là dei best seller di successo, al di là di qualche eccesso verbale in direzione delle burocrazie di Bruxelles, al di là della tardiva difesa di un apparato produttivo che ha già dimostrato di saper affrontare, sul piano della qualità, la concorrenza dei paesi di recente sviluppo, la scelta essenziale il Governo l’ha compiuta con l’impostazione triennale della manovra anticipata, a conclusione della quale stanno il conseguimento del pareggio di bilancio e la riduzione del debito. Come la Ue richiede. Ma resta ancora tanto da fare. A partire dall’unificazione del mercato dei servizi dopo la sostanziale battuta d’arresto della “ex Bolkestein”.
il caso
31 luglio 2008 • pagina 9 Il comitato di Mediobanca sarà composto da Cesare Geronzi (nella foto con Alessandro Profumo), Marco Tronchetti Provera, Dieter Rampl, Tarak Ben Ammar, Eugenio Pinto; e per la parte tecnica da Piergaetano Marchetti e Antonio Scala
Tempi più lunghi per il cambio
Scatta l’armistizio MILANO. Mediobanca cam-
Donato Masciandaro difende il sistema di governance abbandonato da Mediobanca
«Il duale funziona ovunque» colloquio con Donato Masciandaro di Alessandro D’Amato
ROMA. «Il duale non è la fonte di tutti i mali, e non è vero che Bankitalia lo osteggia». Donato Masciandaro, professore di economia della regolamentazione finanziaria alla Bocconi e tra i massimi esperti europei di diritto bancario, difende il modello tedesco di governance. E ricorda che la sua adozione ha consentito fusioni e aggregazioni fondamentali per la finanza italiana. Ma soprattutto sottolinea che è meglio se la politica sta alla larga dai mercati. Il duale, introdotto dalla riforma Vietti, è rimasto per lo più ignorato per un paio d’anni. Cosa ha fatto cambiare idea ai banchieri italiani? Be’, intanto diciamo che quella del duale è stata una novità legislativa, con un aspetto innegabilmente positivo: le aziende italiane ora possono scegliersi il disegno della governance, secondo il modello continentale, monistico o tedesco. Ed è giusto che in un’economia di mercato si possa farlo. Quello del duale è stato un esperimento di cui oggi cominciamo a vedere gli effetti: come è normale che sia, per alcuni funziona e per altri ci sono dei ripensamenti. Hanno inciso i regolamenti di Bankitalia nel ripensamento di Geronzi? Non credo. L’affermazione corrente, secondo la quale “Via Nazionale non ama il duale” è semplicemente falsa: Draghi ha soltanto dato alle banche dei principi generali riguardanti la trasparenza e l’as-
sunzione di responsabilità. Draghi ha creato una sproporzione tra banche e imprese non finanziarie? No. O meglio: il governatore ha deciso, a mio parere correttamente, di tutelare la loro speculare differenza rispetto alle altre imprese. E il motivo è presto detto: le banche hanno in carico il problema della stabi-
Per l’economista della Bocconi il modello «ha facilitato le fusioni bancarie». E consiglia di non tirare in ballo via Nazionale: «Non è vero che lo osteggia. Draghi ha soltanto dato delle regole agli istituti» lità economica del sistema. Vista la loro responsabilità, mi sembra assolutamente normale ispirarsi alla prudenza. Il duale ha un pregio: moltiplica i posti e le poltrone. È l’unico pregio? Sinceramente, la ritengo una lettura degna di un Bar dello Sport. Il duale ha il vantaggio di definire con chiarezza le responsabilità all’interno di una struttura: c’è chi veglia e chi gestisce. Può accadere che non venga applicato efficacemente, ma la sua funzione la assolve con grande capacità. Una carica la si è trovata a tutti. Il duale non ha la caratteristica genomica di moltiplicare le poltrone: non si può addossargli tout court questa colpa. Ma non dimentichiamoci che ha facilitato fusioni e aggregazioni che altrimenti sa-
rebbero state difficile da portare a compimento. Nel suo editoriale pubblicato ieri sul Corriere della Sera, Francesco Giavazzi critica il modello duale, dicendo tra l’altro che «quando si accetta che l’interesse delle aziende si pieghi alle richieste di singole persone, poi si paga il conto»… Giavazzi però segnala anche l’utilità che ha avuto il modello al momento del cambio di governance e delle fusioni bancarie. Un confronto con la Germania è impossibile. Lì il sistema, certamente innovativo, non è stato introdotto da poco tempo: quello del duale è un modello consolidato, che Deutsche Bank e le altre adottano da sempre. A parte il problema del duale, oggi, sempre più, sembra adombrarsi una divisione sempre più ampia tra i banchieri italiani: ci sono i “politici” e i “market oriented”. Di quale dei due c’è più bisogno nel Belpaese? Guardi, di certo c’è una cosa: se la politica entra nel mercato finanziario c’è sempre un problema, e di sicuro crea più danni di quelli che vuole risolvere. I disastri che oltreoceano stiamo vedendo con la gestione della crisi finanziaria da parte degli Stati Uniti, con lo statalismo selvaggio e le nazionalizzazioni di Freddie Mac e Fannie Mae sono sotto gli occhi di tutti. Insomma, se la politica si mischia al mercato è facile rispondere che ci perdono tutti.
bia, ma senza fretta. Soltanto così si trova l’accordo tra i soci. E il titolo ne risente, visto che piazzetta Cuccia per tutta la giornata è stato in controtendenza (-0,64 per cento) rispetto agli altri istituti bancari. Le linee guida del nuovo modello saranno approvate dal comitato governance, sentito il consiglio di gestione, a cavallo tra agosto e settembre. Il comitato sarà composto da Cesare Geronzi, Marco Tronchetti Provera, Dieter Rampl, Tarak Ben Ammar, Eugenio Pinto; e per la parte tecnica da Piergaetano Marchetti e Antonio Scala. La proposta dovrà passare al vaglio di Bankitalia per un primo via libera, per poi essere formulata entro metà settembre, ovvero in tempo utile (entro 40 giorni) per la convocazione dell’assemblea dei soci sul bilancio in calendario al 28 ottobre. Insomma, i tempi non saranno lenti come immaginavano Alberto Nagel e Renato Pagliaro: l’idea è quella di arrivare alla proposta delle modifiche già nella prossima assemblea, senza convocazioni straordinarie. La discussione in seno all’assemblea «è stata serena» e la riunione «è stata positiva» – fanno sapere alcune fonti – «c’è consenso e quando i risultati sono positivi e i manager efficaci il consenso si troverà sempre». Sarà stata la moral suasion di via Nazionale, saranno stati gli ottimi risultati riportati da Ad e presidente operativo, sarà stata la volontà da parte di piazza Cordusio di non regalare potere al rinato asse Bazoli-Geronzi, fatto sta che il risultato finale rimane comunque questo e non è certo il redde rationem che si temeva. Ma che i fronti continuino a essere caldi lo testimonia l’intervista rilasciata da Gilberto Benetton al Sole. Riguardo Telecom paventa addirittura un’uscita al prossimo aumento di capitale, «se il piano di Bernabé non ci soddisferà» (e Galateri a stretto giro di posta smentisce l’ipotesi di mettere altri soldi sul piatto). Un’estate fin troppo calda aspetta il capitalismo italiano. (ale.d’am.)
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BUENOS AIRES. Nelle partitelle di calcio che Nestor Kirchner organizza ogni fine settimana nella residenza presidenziale di Olivos, non manca mai un tercer tiempo, durante il quale raduna i suoi “convocati” per impartire loro le trame da ordire per sostenere il governo della moglie Cristina, alla quale ha affidato il potere otto mesi fa, dopo che lui l’ha gestito, ferreamente come s’addice al suo carattere patagonico, per quattro anni. I“K”come i Machbeth, assicurano i più acerrimi avversari. Ma a ruoli invertiti. La Lady è lui. Che, assetato di potere (su Youtube un video con “Von Kirchner” in versione hitleriana sfiora il milione di contatti), le impone i suoi diktat. «Doppio comando», dicono i meno malevoli. Nulla di nuovo. Anche se con un suggestivo scambio di ruoli. «Adesso si sa chi sta sopra», è stato l’incipit dell’editoriale di un settimanale quando, l’anno scorso, Nestor annunciò che non si sarebbe candidato per un secondo mandato, per lasciare la Casa Rosada nelle mani di Cristina (strategia premiata al primo colpo con il 46% dei voti). In sintonia con il caratterino che, insieme al fascino, tutti, avversari compresi, le riconoscono. Ma che, ora, esternerebbe solo di quando in quando (La presidenta soy yo, sarebbe sbottata durante una lite), rassegnandosi alle prevaricazioni del compañero con il quale, da oltre trent’anni, condivide lotta e governo dai bastioni del peronismo, piú o meno populista e progressista. Cristina ponete los pantalones, esigevano appunto i cartelli inalberati dagli agricoltori che, con una storica serrata durata quattro mesi, hanno ingaggiato una “guerra gaucha” per costringerla a ritirare una risolu-
mondo
Argentina. 8 mesi fa Cristina Kirchner diventava presidente al posto del marito
Il fattore “K” vincerà la guerra gaucha di Oscar Piovesan zione che puntava ad una Robin Tax con dazi mobili sugli extraprofitti dell’export della soia. Che ha perso.
Quando, nella madre di tutte le battaglie, all’alba dei 17 luglio, dopo un dibattito di 20 ore da lupi mannari, nel senato, il titolare dello stesso e suo vicepresidente Julio Cobos, nel mentre di un sostanziale pareggio ha deciso di votarle contro. Innescando così il delirio dell’intera opposizione (estrema sinistra compresa) scesa in liz-
dopo l’inattesa sconfitta, in una concitatissima riunione, Nestor, fuori di sé dalla rabbia, avrebbe esaminato la possibilitá di far dimettere Cristina ed indire elezioni anticipate. A rendere pubblica cotanta scena di tono shakespiriano sarebbe stato il da poco ex capo di gabinetto Alberto Fernandez, da un lustro uno dei pochissimi membri del “nocciolo duro”, con il quale i K gestiscono da par loro il potere. Che l’ha spifferata e si è dimesso, con un obiettivo: spingere Cristina a disfarsi di
Gli intellettuali accusano la coppia di aver lasciato “le masse” agli avversari che, nel giorno più “caliente” della lotta, hanno portato in piazza 200mila persone contro le 50mila di Nestor e signora za al fianco del “campo”, cioè piccoli, medi e grandi produttori, esacerbati dal timore di perdere introiti per due miliardi di dollari. Ma, soprattutto, dei grandi media che, come in altri Paesi dell’America Latina, di fronte ad una marea di oppositori frammentati e senza leader, sparando ad alzo zero contro il governi, ne hanno preso il posto rafforzando il loro specifico potere, da cui trarne l’altrettanto specifico tornaconto. Eppure il “doppio comando”dei K non si è arreso, Pur se, poco
alcuni fedelissimi del marito, come chiedono a gran voce da mesi all’unisono media e oppositori, tra i quali spiccano i peronisti antik di destra, guidati dall’ex presidente Eduardo Duhalde. Ma appunto senza esito. Il “doppio comando” ha reagito immediatamente, affidando il posto del dimissionario a Sergio Massa, un habitué delle partitelle di Olivos, che, a soli 36 anni, vanta un ventennale curriculum politico da voltagabbana doc – dalla destra al
peronismo di tutti i colori, buon ultimo il kirchnerista – e sembra avere la stoffa, per pragmatismo e background tecnico ma anche perché va a nozze nel confronto con i media, per ambiziosi traguardi.
É in questa surreale situazione che, Cristina, dopo essersi lamentata spesso contro gli attacchi di “genere’’ sferrati contro di lei, sembra volersi calare ancora di più nei panni di Evita. Gli intellettuali, organici e no del “doppio comando”, accusano infatti i K di aver lasciato perdere “le masse”, mobilitate invece dagli avversari che, nel giorno piú caliente della “guerra gaucha”, hanno portato in piazza 200mila persone contro le 50mila di Nestor. E cosí, mentre lui si lecca le ferite e tenta di mantenere il controllo del partito peronista di cui è presidente, lei, continuando a cambiare vestiti – sempre elegantissima, come le riconoscono tutti gli stilisti - anche due o tre volte al giorno, con un sorriso in cui traspare la voglia di “vendetta” per le umiliazioni subite come donna, punta a risalire la china con ogni sorta di misure populiste e nazionaliste, con le quali approfondire il perseguito modello distribuzionista, con uno Stato sempre piú presente ed efficiente. Dall’in-
dicizzazione delle pensioni agli aumenti dei salari, dalla nazionalizzazione di Aerolineas Argentinas a nuove opere pubbliche. Nonché portando avanti la regolamentazione degli assatanati media, eventuali tasse sui redditi finanziari e lo scardinamento dell’unità dei produttori agricoli, favorendo i piccoli e facendola pagare a latifondisti ed esportatori. Resta il problema dell’inflazione “creativa”: ufficialmente attorno al 10% annuo, ma la reale è più del doppio. Che manda in bestia i possessori dei bond legati al carovita che hanno già perso 10 miliardi di dollari di interessi e rende difficile la gestione dell’economia, anche dal punto di vista sociale. Ma il trend di una crescita del Pil che, da un lustro sfiora incessantemente i ritmi cinesi, non sembra destinato a cambiare in un Paese da 40 milioni di abitanti che produce alimenti per 400/500 milioni di persone. Nonostante gli strali – anche dall’estero – dovrebbe essere l’inaffondabile salvagente di Cristina. O, meglio, del “doppio comando”. In effetti, pur se gli avversari continuano ad esortarla (Salvar a la Presidenta) a disfarsi del marito e dei suoi grossolani fedelissimi e ad avvertirla che rischia grosso «se, per paura di apparire debole, diventasse ancora piú populista», poiché Duhalde o chi per lui potrebbero coagulare l’opposizione in una sorta di «governo di unità nazionale», per ora, nonostante le catastrofiche Cassandre non manchino, non ci sono indizi che l’affiatatissima societá matrimonial-politica dei presunti Machbeth argentini, che ne ha affrontate di tutti i colori, passata dittatura e inestinguibili battaglie peroniste comprese, finisca per dissolversi.
mondo
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L’operazione militare contro le roccaforti qaediste è condotta interamente da forze irachene
La rinascita dell’Iraq parte da Diyala di Antonio Picasso
d i a r i o operazione avviata dall’esercito iracheno all’inizio di questa settimana nella provincia orientale di Diyala, ritenuta una roccaforte di “al-Qaeda in Iraq”, ha in sé tutti i benefici dei recenti risultati raggiunti dal Paese in termini di minore insicurezza. Al tempo stesso, però, dimostra la debolezza politica che è propria del governo di alMaliki. In questa fase di lenta ma progressiva normalizzazione dell’Iraq la transizione si manifesta con i suoi effetti positivi, ma anche con i rischi che le sono propri. Da un lato, Baghdad torna a essere sede delle ambasciate arabe, a significare la reintegrazione del Paese nelle politiche mediorientali. Contemporaneamente il generale Petraeus sottolinea il calo delle vittime di attentati, sia militari sia civili, nel corso degli ultimi mesi. Dall’altro lato però, è innegabile che gli episodi di violenza non siano stati debellati. L’ultimo esempio si è avuto con la strage dei pellegrini sciiti di lunedì. Infine, è altrettanto palese la mancanza di sostegno nei confronti dell’istituzioni centrali, da parte delle tante milizie armate e delle componenti etniche e confessionali che tendono all’autonomia. A questo si aggiunge l’assenza di una strategia comune tra Baghdad e gli Usa. Certo, i 50mila uomini messi in campo dal governo centrale per “riportare la legge a Diyala”, non sono un risultato da poco. L’obiettivo è “snidare gli elementi criminali e le minacce terroristiche e recidere i canali del contrabbando con le province circostanti”. Diyala, infatti, resta la provincia più pericolosa di tutto il Paese. Abitata da sunniti, sciiti, curdi e cristiani – oltre che confinante con l’Iran – si presenta come una sorta di “microcosmo iracheno”.Teatro più volte di attacchi di diversa origine fra loro, oggi risulta essere il rifugio di gruppi armati isolati, guerriglieri sbandati ed esponenti dell’intricato arcipelago sunnita, “al-Qaeda in Iraq” inclusa, ma anche di altri che rispondono agli ordini di Moqtada al-Sadr, quindi sciiti dell’Esercito del Mahdi. Il quadro, di conseguenza, è decisamente complesso. E l’intervento non può che essere di ampia portata. Una nota del Consiglio Provinciale di Diyala parla di un impegno sul territorio che durerà almeno due settimane. Interessante è notare che si tratta della prima operazione la cui paternità è praticamente tutta irachena. Segno, questo, che le istituzioni centrali stanno cercando di riprendere il controllo degli apparati di sicurezza. Merito degli effetti bene-
L’
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g i o r n o
Olmert annuncia le dimissioni Il premier israeliano Ehud Olmert ha annunciato ieri sera le sue dimissioni da capo del governo entro due mesi. L’annuncio è stato fatto dallo stesso primo ministro nel corso di una conferenza stampa, convocata a sopresa. Olmert non correrà per le primarie del suo partito, Kadima, previste per il 17 settembre, e lascerà aperta la strada per la formazione di un nuovo governo. Le dimissioni saranno formali non appena Kadima sceglierà un nuovo leader.
Cina, condannato per le foto del terremoto Un insegnante è stato condannato a un anno di lavori forzati per aver pubblicato delle foto di edifici scolastici crollati nel terribile terremoto del 12 maggio scorso nel Sichuan. Liu Shaokun e’ stato condannato senza processo la scorsa settimana dopo aver messo su internet delle foto di denuncia contro le carenze strutturali delle scuole. Subito dopo il sisma, infatti, Liu scattò e pubblicò le immagini di alcune delle moltissime scuole distrutte dal sisma.Alla famiglia non è consentito vedere Liu né è stata comunicata formalmente la condanna, come previsto dalla legge.
Karadzic, diversi mesi per inizio processo
Grande attesa per le elezioni, che segnano il punto d’arrivo del debole governo al-Maliki fici della surge, che permettono ad al-Maliki di agire con relativa autonomia.Tuttavia, una buona percentuale di questo ottimismo è un maquillage che nasconde le debolezze strutturali e politiche delle istituzioni a Baghdad.
Da una parte, infatti, il Paese si sta avvicinando alle elezioni amministrative. Un appuntamento positivo e fortemente atteso da tutti, perché costituirà l’ennesima cartina tornasole dell’Iraq post-Saddam. A cinque anni dall’inizio delle operazioni, ci si chiede a che punto sia il processo di normalizzazione dell’Iraq. Le previsioni, in merito, non sono del tutto rassicuranti. Le manifestazioni di piazza in Kurdistan – per una maggiore autonomia dalla capitale e l’annessione di Kirkuk nella propria sfera di influenza – insieme ai nuovi attriti fra sciiti e sunniti fanno temere che le divisioni etniche e confessionali continueranno a essere un nodo del problema. Va aggiunta, poi, la questione della distribuzione dei proventi petroliferi. Contenzioso, questo, per cui resta aperto il dibattito sulla emanazione di una legge che soddisfi tutti.
Dall’altra la posizione dell’amministrazione Bush non sembra essere in piena linea con quella di alMaliki. I risultati della surge, infatti, sembra che siano stati raggiunti con modalità troppo machiavelliche. Con la visione di scarsa profondità strategica che ha caratterizzato tutta l’avventura americana in Iraq e al fine di ridurre in maniera sensibile il numero degli attacchi contro i loro soldati – elemento che incide direttamente sulla politica della Casa Bianca – le truppe Usa sarebbero entrate in diretto contatto con le tribù sunnite più antagoniste di al-Qaeda, ma altrettanto nemiche del governo di Baghdad. Da queste relazioni, sarebbe nato un vero e proprio gruppo combattente, i “Figli dell’Iraq”, composto da miliziani comandati dai capi tribù sunniti locali, ma supportati dagli Usa e impegnati a sradicare al-Qaeda dal territorio iracheno. A questo punto, pare evidente come la creazione e il successivo supporto di milizie armate, che si muovono in maniera autonoma dal governo centrale, non possono che porre in serie difficoltà alMaliki e i suoi successori, nell’avere un effettivo controllo del Paese. Paradossalmente i “Figli dell’Iraq” stanno riducendo la capacità di influenza delle istituzioni di Baghdad sul resto del territorio. La autorità di al-Maliki viene corrosa e con essa il progetto di stabilizzazione nazionale.
Ci vorranno ’diversi mesi’ per l’inizio del processo per genocidio contro l’ex leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Lo ha fatto sapere il procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, Serge Brammertz. Questi ha spiegato: “Sarà un processo complesso, come tutti quelli davanti a questo Tribunale. Per provare questi gravi crimini, l’accusa dovrà presentare un gran numero di elementi di prova, tra cui numerose testimonianze”. Il procuratore ha precisato che prenderà in considerazione l’insieme degli avvenimenti per i quali Karadzic è attualmente perseguito, lasciando tuttavia intendere che il suo atto d’accusa sarà riformulato in funzione dei processi passati e della giurisprudenza e avvertendo che ci vorranno “mesi” prima che il processo inizi.
Kosovo, rilasciati primi passaporti Il governo del Kosovo ha presentato ieri i primi passaporti ufficiali della storia della ex provincia serba a maggioranza albanese, a poco più di cinque mesi dalla proclamazione unilaterale d’indipendenza da Belgrado del 17 febbraio scorso. I documenti - rilasciati dalla repubblica del Kosova (Kosovo in lingua albanese) - sono stati consegnati ai titolari direttamente dal primo ministro, Hashim Thaci, nel corso di una cerimonia solenne svoltasi a Pristina. I passaporti saranno accettati per il momento dai circa 40 Paesi (sugli oltre 190 rappresentati all’Onu) che hanno finora avallato lo strappo da Belgrado, inclusi gli Usa e la maggioranza degli Stati dell’Ue. Non avranno invece alcun valore nei Paesi che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo, a cominciare dalla Serbia la quale continua a rivendicare i propri diritti storici di sovranita’ sulla regione contesa.
Paraguay, il Papa dispensa Lugo Il presidente eletto del Paraguay, Fernando Lugo, ha ricevuto ieri la dispensa dal ministero episcopale da parte di papa Benedetto XVI che gli ha cosi’ concesso la riduzione allo stato laicale. Lo ha annunciato a Asuncion il nunzio vaticano, mons. Orlando Antonini. In questo modo Lugo, ex vescovo di San Pedro, ha ormai libera la strada per assumere ufficialmente il suo incarico il prossimo 15 agosto. Dopo aver dato lettura del decreto, il nunzio ha giustificato la nuova posizione adottata “per il bene del Paese, e perche’ si distingua chiaramente ed in modo definitivo il ruolo di presidente della repubblica e quello del ministero episcopale”.
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speciale educazione e Bossi avesse evidenziato la differenza tra gli edifici scolastici del Nord e quelli del Sud, anziché riferirsi agli insegnanti, gli avrei dato ragione». Marcello D’Orta quelle scuole “scarrupate” le conosce bene. Come quelle di Forcella, Secondigliano o Arzano, quartieri disagiati di Napoli, ad alta densità criminale. Dove vent’anni fa, insegnava ai suoi alunni, protagonisti coi loro temi del celeberrimo Io speriamo che me la cavo. «Mi arrabbio quando sento parlare di docenti di serie A e serie B - dice -. L’Italia è divisa in due sugli edifici scolastici: al Sud oltre il 50 per cento non è a norma». Racconta dei suoi 15 anni di insegnamento nel degrado, ma ricche di umanità. E di quella volta che nominò un bullo capoclasse, facendolo cambiare. Cosa pensa della proposta del ministro Gelmini di tornare al grembiule? Il grembiule non è né di destra né di sinistra. Quando insegnavo io, tra gli anni ’70 e ’90, lo portavano tutti. Innanzitutto risponde a un problema pratico e d’igiene: i bambini usano i colori, corrono e si sporcano. Poi educativo: evita il rischio di creare divisioni tra chi veste firmato e chi non se lo può permettere. Ma l’esempio dovrebbe partire dagli insegnanti, che dovrebbero sempre rispettare le regole del decoro. E il voto in condotta per la promozione? La scuola deve insegnare ma anche educare. Purtroppo stiamo assistendo alla “morte”della famiglia, che dimostra sempre più disinteresse verso i figli. Il voto in condotta può significare un preciso segnale educativo. A scuola non si può fare tutto quel che si vuole. Altrimenti il passo successivo rischia di essere il bullismo. Cosa le è rimasto della sua esperienza di insegnante elementare? Cercavo di fare il maestro fino in fondo, che significava prima di tutto riportare a scuola i ragazzi, strappandoli dalla strada, poi d’insegnare loro le regole del vivere civile e solo in un secondo
Socrate
«S
L’insegnante autore del romanzo “Io speriamo che me la cavo” si schiera a favore delle ultime disposizioni del ministero
LA SCUOLA CHE VERRÀ colloquio con Marcello D’Orta di Francesco Lo Dico lo avete riportato in classe. Ma quando stava in famiglia abbuscava 30mila lire al mese. E mo’ chi me le dà, vuje?» A quale ricordo è più legato di quell’esperienza?
La famiglia dimostra disinteresse sui figli. Il voto in condotta può essere un segnale momento le materie. Sapevo già che la maggior parte di loro non avrebbe mai continuato gli studi. Il dramma è che molti con il lavoro nero aiutavano la famiglia, genitori magari disoccupati. Come quella volta che un padre mi disse: «Professo’, vuje adesso me
Ho trovato tanta umanità. Poco fa nei loro temi, alcuni bambini di un’elementare di Miano, vicino a Secondigliano, chiedevano quasi la protezione della camorra, quasi fosse un’agenzia di collocamento. Li ho paragonati ai miei alunni di vent’anni prima.
Alcuni erano parenti o addirittura figli di camorristi, ma hanno sempre preso le distanze dalla camorra. Non si riuscirà mai a debellare questo fenomeno finché non si sarà in grado di creare nuovi posti di lavoro. Come nato il successo del suo primo libro, Io speriamo che me la cavo? Mi è sembrato di vivere una specie di fiaba. In questi anni avevo raccolto i temi dei miei alunni perché era un modo per capirli meglio. Mi sono accorto che erano dei ricchi umanità, di storie incredibili. Ho iniziato a mandarli a diverse case editrici perché volevo che si conoscesse questa umanità di Napoli. Ma nessuno li voleva. Poi, quasi per sbaglio, ho spedito il manoscritto alla Mondadori. La Provvidenza ha voluto che finisse nelle mani giuste.
Che tipo di alunno era quando frequentava le elementari? Ero un bambino molto timido e ho continuato ad esserlo anche da adulto. I miei ex alunni erano molto più“scetati”, svegli. Ho fatto le elementari in un collegio di suore, che si chiamava “Regina coeli”. Lascio immaginare l’ironia dei miei compagni sul nome. Era molto serio ma nello stesso tempo anche allegro. Nel ’59 si usavano ancora le verghe sulle mani. Però s’imparavano sul serio i valori e a studiare davvero. Quali differenze tra il suo insegnamento e quello dei suoi insegnanti? Prima del ’68 non esisteva nessun rapporto docenti-studenti. Nella scuola ognuno ricopriva un ruolo ben preciso dal bidello al preside, che godeva di un grande rispetto a partire dagli
insegnanti. Il ’68 ha cambiato tutto. Il ’74, poi, ha introdotto i decreti delegati, facendo partecipare per la prima volta i docenti nella scuola, con i consigli di classe, d’istituto. Ma poi questa partecipazione ha rischiato di trasformarsi in ingerenza. Il ministro ha parlato di un progetto per il Sud, che prevede la modifica della didattica e dell’edilizia scolastica nelle zone più difficili, ad alta dispersione scolastica. Dalla sua esperienza come si può combattere questo fenomeno? Il grosso problema del Sud è l’edilizia scolastica. Mi sono trovato ad insegnare anche in un ex carcere adibito a elementari. La scuola dovrebbe essere il luogo dell’accoglienza, dei colori. Il problema della dispersione scolastica è legato anche agli edifici
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Il ministro Gelmini ha saputo individuare quali sono i problemi dell’istruzione
Un’istituzione da rifondare partendo dalla disciplina di Alfonso Piscitelli d una domanda su tutti dobbiamo dare una risposta. Gli alunni italiani, secondo recenti studi, evidenziano un livello di preparazione inferiore a quello dei coetanei provenienti da molti altri paesi (anche extra-europei come la Turchia). Spiegare in che modo ciò sia accaduto, come sia stato possibile che un nazione ad altissimo livello di cultura e a forte industrializzazione si sia ridotta a tanto, è una risposta di non poco conto. Soprattutto, se a tutta questa situazione bisogna trovare una soluzione. Lasciamo perdere per ora l’excursus storico e l’individuazione delle colpe “a monte” e cerchiamo di cogliere i nodi principali della “mala scuola”italiana. Innanzitutto si è verificata una perdita di serietà dell’istruzione. Le promozioni troppo facili, l’alleggerimento dei programmi, il diffondersi di un atteggiamento troppo “comprensivo”, si direbbe “mammone” hanno nel corso degli anni suggerito un concetto di scarsa serietà dell’istituzione scolastica.
A
fatiscenti. I ragazzi sanno che oggi la scuola non basta più a trovare lavoro. E sono attratti da un lavoretto in pizzeria o in officina, che offrono loro una prospettiva immediata. Spetta ai docenti far intravvedere loro una prospettiva migliore. Iniziamo a ristrutturare le scuole, ma soprattutto costruiamone di nuove. Ritiene possibile che la scuola contribuisca a risolvere i problemi di Napoli? Se riusciamo a combattere la dispersione scolastica strappando i ragazzi dalla strada, abbiamo già conseguito un buon risultato. Ma la scuola deve anche insegnare il gusto per la lettura. Ma il problema è che non leggono neppure i docenti. Quando insegnavo m’ispiravo alla didattica di Adolfo Ferrière, un pedagogista svizzero che proponeva la scuola attiva, dove invece di stare sempre chiusi in classe si usciva a studiare scienze all’aperto, storia nei musei, educazione fisica giocando a pallone. Spesso da una mancanza di sfogo possono nascere risposte emotive eccessive. Anche il rischio di diventare bulli? In questi casi il rapporto con i genitori è fondamentale. Da insegnante ho sempre dato moltissimo spazio ai temi d’italiano perché mi permettevano di capire il vissuto di quel bambino. Oggi invece dare un tema sulla famiglia significa violare la privacy. Una volta in classe mi era capitato un ragazzo difficile, che infastidiva sempre i suoi compagni. Gli altri insegnanti lo punivano con note e sospensioni col rischio di farne un emarginato. Ho scelto deciso di nominarlo capoclasse dandogli piccole responsabilità. Si è sentito valorizzato e sono riuscito a recuperarlo.
L’adolescente che pratica sport sa che se non si sottopone a un duro allenamento non sarà inserito in prima squadra. L’adolescente appassionato di musica guarda le trasmissioni di Maria De Filippi e vede che per diventare cantanti o ballerini bisogna passare attraverso una rigorosa selezione. Lo stesso adolescente dà per certo che la promozione, tranne poche situazioni estreme, è un dato scontato, un traguardo facile e assolutamente poco impegnativo. Alla perdita di serietà dell’istruzione si è aggiunta una sorta di crisi morale che ha spezzato il nesso fondamentale tra istruzione stessa ed educazione, ovvero tra trasmissione di contenuti e trasmissione di valori. Il docente non è più un modello morale, la scuola stessa non è vista più come l’ambiente in cui si impara a vivere bene, a rispettare le regole. L’altro problema è la crisi di identità della professione docente. La funzione dell’insegnare è stata ridotta a lavoro socialmente utile, a valvola di sfogo della disoccupazione intellettuale, soprattutto femminile (e soprattutto meridionale). La conseguenza è stata una moltiplicazione eccessiva delle cattedre, soprattutto nelle scuole primarie e medie, ma anche un conseguente appiattimento degli stipendi. Più in generale si è determinata la
“proletarizzazione” di un intero ceto che invece dovrebbe occupare un ruolo strategico nel contesto sociale.
Bisogna dare atto all’attuale ministro dell’Istruzione di aver colto questi nodi e di aver fornito indicazioni orientate nel giusto senso. Nelle prime settimane il ministro Gelmini ha richiamato l’attenzione sulla necessità di valorizzare la professione docente introducendo una articolazione delle carriere sulla base del merito. Ha sottolineato la necessità di un ritorno allo studio degli elementi basilari della cultura: alle tre I del modello di istruzione morattiano-berlusconiano (InternetImpresa-Inglese), ha aggiunto la quarta e fondamentale I dell’Italiano, ovvero dell’approfondimento della cultura nazionale. Cogliendo l’onda lunga di un ripensamento critico degli slogan della scuola sessantottina si è spinta ad auspicare il ritorno del grembiule per gli studenti più
piccoli e il ritorno della bocciatura per gli studenti più intemperanti: quelli da 7 in condotta. Sono solo dichiarazioni, certo…d’altra parte le dichiarazioni di intenti sono fondamentali per comprendere la direzione che si intende percorrere. Se poi dalle intenzioni si vuol passare alle decisioni allora si potrebbe incominciare con alcuni atti che rappresentino un segnale forte: 1) Portare avanti l’iter del disegno di legge Aprea che prevede una articolazione delle carriere dei docenti. I docenti sono il perno della scuola, avere dei docenti motivati economicamente, ma anche premiati in base al merito, alla competenza professionalità e al grado di disponibilità al lavoro è il punto di partenza per la riqualificazione della scuola. 2) Affermare il principio che i voti e le
sufficienze vanno meritate: a volte bocciare è un bene. Per molti alunni ripetere l’anno è una occasione preziosa per impadronirsi con una maggiore maturità degli elementi fondamentali della cultura. Al contrario una promozione immeritata danneggia fortemente l’alunno che in tal modo viene sospinto a un diploma che è privo di qualsiasi valenza formativa, dunque di valore oggettivo. 3) Ripristinare gli esami di riparazione nelle singole materie eliminando però l’obbrobrio dei corsi di ripetizione a luglio, sotto il sol leone. Al limite, i corsi di riparazione potrebbero essere proficuamente effettuati nei primi giorni di settembre, ma quel che conta è riaffermare il principio della responsabilità individuale e l’importanza dello studio a casa, senza il quale la partecipazione ai corsi rimane un mero atto di presenza. 4) Agire con più rigore contro i bulli e i prepotenti: certe scuole rischiano di diventare delle balnieu e ad essere danneggiati sono sempre gli studenti tranquilli, seri, rispettosi delle regole. In effetti, già Fioroni negli ultimi mesi del suo ministero aveva invitato a prendere in considerazione un più largo esercizio dello strumento della sospensione per fare argine ai comportamenti violenti o irridenti che si diffondono tra le aule di scuola. 5) Procedere a una revisione dei programmi. Le novità apportate da Berlinguer miravano a dare largo spazio al Novecento: in realtà hanno finito con il tagliare dal programma dell’ultimo anno esperienze fondamentali della nostra letteratura (Leopardi e Manzoni), della nostra storia (il risorgimento e il periodo post-unitario) e del pensiero filosofico mondiale, senza peraltro produrre un maggior approfondimento delle tematiche più recenti. Una più razionale articolazione dei saperi e dei loro tempi di apprendimento oggi si impone. 6) Affermare con chiarezza le priorità didattiche della scuola: nel corso degli ultimi anni sono proliferati “progetti”spesso incentrati su formule vaghe, inconcludenti. Nello stesso tempo la preparazione in matematica, in storia, in italiano dei nostri studenti scendeva ai minimi storici. È tempo che i docenti si concentrino sull’insegnamento degli elementi fondamentali della cultura, lasciando perdere spettacolini, recite, e vaghe iniziative ecologico-pacifico-buoniste. La scuola non è un musical.
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speciale educazione a sì, torniamo all’antico! Una bella scuola come quella di una volta, col maestro unico seduto in cattedra, con quelle belle classi da 35 o 40 alunni pigiati nei banchini in file serrate, grembiuli, colletti e fiocchi: rosa per le bambine e azzurri per i maschietti. E magari il calamaio pieno di inchiostro nero solidamente infisso nell’apposito foro, i pennini metallici da inserire nelle cannucce colorate, le matite rosse e blu per correggere i compiti e la stufa a carbone nel corridoio.
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Chissà perché, ogni volta che si affronta il tema delicatissimo della riforma della scuola, ognuno tira fuori i propri bei ricordi e i propri solidi principi; peccato che non è con i ricordi e men che mai con i principi morali - che si può fare una buona scuola. Buona nel senso di adatta a chi la deve frequentare e soprattutto buona nel senso di utile. Perché, appunto, la scuola la si deve frequentare; andarci non è una libera scelta, si è obbligati a farlo; questo crea pertanto una grande responsabilità di tutta l’istituzione - dal ministro al bidello - verso questi bambini che hanno tutto il diritto di vivere serenamente e con profitto i lunghi anni dell’obbligo. Pensiamo a fare una scuola per i bambini e per i giovani che diverranno adulti e busseranno alle porte del mondo del lavoro nei prossimi venti/ trenta anni; quindi, studiamo il presente e guardiamo al futuro, non certo al passato. Non possiamo tornare alla scuola di una volta perché siamo nell’era di internet, della globalizzazione delle tec-
Socrate
Non si può tornare alla scuola di una volta, siamo nell’era di internet
La riforma deve guardare al futuro di Paolo Fuligni nologie e dei mercati, delle società multietniche e multirazziali, della crisi del petrolio e - sopra ogni altra cosa - di quella del lavoro. Ci servono più insegnanti per classe perché oggi dobbiamo insegnare a questi bambini le lingue, l’informatica, la musica, l’educazione motoria e un sacco di altre cose che solo trenta anni fa neanche ce li immaginavamo; ed è assolutamente fantastico puntare su questo ipotetico docente tuttologo capace di far bene tutte queste materie. Ci serve una squadra perché affrontare classi con bambini albanesi, rumeni, marocchini, tunisini e rom non è assolutamente facile e richiede grande competenza, enorme pazienza e soprattutto tanto tempo.
Il tempo serve anche per studiare le cose nuove, per inventare metodi adatti alla propria particolare scolaresca, per tenere contatti con famiglie sempre meno capaci di controllare il comportamento dei propri figli - che infatti molto spesso si comportano malissimo - e sem-
pre meno capaci di seguirli e motivarli nell’iter scolastico. Inoltre la pluralità di figure offre maggiori garanzie di valutazione e migliori chances educative: non sempre si riesce a legare, ad entrare in sintonia con tutti. Talvolta un bambino rite-
nuto “difficile” da un insegnante risulta collaborativo e tranquillo con un altro e il giudizio risultante dal confronto di prospettive e valutazioni diverse è senz’altro più attendibile ed equo di quello operato da una sola persona, per quanto prepa-
LETTERA DA UN PROFESSORE
GLI ESAMI DI IMMATURITÀ di Giancristiano Desiderio esame di maturità è talmente maturo da essere decrepito. Ogni tanto si prova a ringiovanirlo con qualche bella “pensata”, ma finora si è riusciti sempre e solo a peggiorarlo. Recentemente Angelo Panebianco ha proposto di farla finita con gli esami in uscita per introdurre gli esami in entrata (idea già discussa su queste pagine). In pratica, non ci sarebbe più l’esame di maturità, ma ci sarebbero gli esami per iscriversi all’università (e la stessa cosa dovrebbe avvenire con il conseguimento degli studi della scuola dell’obbligo e l’iscrizione alle scuole superiori: dalla media al biennio o dal biennio al triennio). Anche Francesco Alberoni ha criticato gli esami che si svolgono con test e quiz. Ma a criticare gli esami sono gli stessi professori che devono giudicare la maturità degli alunni proponendo quiz e domandine del tipo “vero – fal-
L’
so”. Ciò che salta agli occhi è la stridente contraddizione tra il concetto di maturità e il concetto di quiz. Come è possibile giudicare la maturità di un alunno con test e quiz? Agli ultimi esami di maturità ne sono successe delle belle.Tracce sbagliate su tutta la linea. Tanto che il ministro Gelmini si è sentita obbligata nei riguardi degli studenti:“Non preoccupatevi, cari ragazzi, le prove sono ugualmente valide e si terrà conto degli svarioni al momento delle correzioni”. A rimetterci le penne è stato qualche dirigente del ministero: “licenziato”su due piedi dal ministro, anche se i veri responsabili degli errori sono altri perché il sistema ministeriale prevede una sorta di sub-appalto per la redazione delle tracce delle prove scritte. Ora, fermiamoci un attimo, guardiamo le cose in faccia per quello che sono: ci sono centinaia di migliaia di studenti che hanno fatto al-
la meno peggio un percorso di studi e si apprestano a fare un esame di maturità affrontando alcune prove scritte nate in un ministero che nulla, ma proprio nulla, sa di quegli studenti di cui vuole “testare” la maturità. Come non vedere che il difetto è nel manico? “Maturità”,“giudizio”,“educazione”,“ministero” sono concetti l’un contro l’altro armati. Un ministero che organizza degli esami per saggiare la maturità della gioventù nazionale è un totale contro-senso. Il modo, poi, come la “maturità” è misurata - con crediti, voti, quiz, saggi, articoli è qualcosa che si avvicina alla insensatezza. Se a questo aggiungiamo lo stomachevole psicodramma nazionale che ogni anno a giugno va in scena nelle scuole e nelle famiglie italiane coinvolte, possiamo facilmente capire come sia tempo di farla finita con questi “esami di immaturità”.
rata ed onesta possa essere. È perfettamente inutile parlare di “sistema premiante”e di“ritorno al merito” se non si definisce con assoluta esattezza che cosa si debba premiare, come e perché. Abbiamo abbastanza pedagogisti, psicologi e sociologi nelle nostre università per dare indicazioni tecniche e scientificamente fondate su come motivare e incentivare i ragazzi. Vorremmo veder premiato l’impegno, sì, ma anche la curiosità e la creatività; non è certo di “secchioni” che la nostra società ha bisogno e l’obbedienza è una virtù sino a che non la si fa sconfinare nella passività. Corriamo il grave rischio di ricadere nella valorizzazione del nozionismo, nel feticismo dei dati imparati a memoria, nell’enfasi del voto. Il miglior premio per un bambino è il riconoscimento della propria capacità, l’accettazione palese da parte dell’insegnante, l’approvazione della propria curiosità intellettuale.
La migliore motivazione è costituita dal divertirsi a scoprire la propria intelligenza e dal godere di stimoli nuovi, vivaci e per lui - interessanti; occorre conoscere i bambini di oggi per dar loro il nutrimento e la formazione di cui hanno estrema necessità. Sono bambini che hanno imparato ad usare un personal computer e una play station ben prima di avere appreso la lettura; sono iperveloci e ipercinetici, scarsamente capaci di attenzione e portatori di un linguaggio ristretto e impreciso. Spesso sono cresciuti in nuclei familiari estremamente permissivi e accomodanti, per cui rischiano di essere intolleranti ed enormemente egocentrici; diceva una maestra ai venti alunni della sua classe: “Lo so che a casa vostra siete tutti figli unici, ma qui ognuno di voi ha diciannove fratelli!”. Ma sono intelligenti, dinamici e curiosi come tutti i bambini, sono un insieme sconfinato di potenzialità e sono l’unico futuro che abbiamo. Risparmiare sulla scuola è assai poco produttivo; spendere meglio certo si può, ma forse persino spendere di più, investire nella ricerca didattica e nell’aggiornamento permanente dei docenti. Gli sprechi si possono ben combattere da altre parti; qualsiasi italiano adulto che guardi regolarmente la televisione e che legga i giornali ne saprà indicare a centinaia. Tagliare i fondi e il personale alla scuola è una forma assai rischiosa di risparmio; sarebbe un po’come se Alitalia - in questa brutta contingenza di bilancio - decidesse di risparmiare sul carburante, acquistandone meno del necessario e ingiungendo con fermezza ai piloti di farselo bastare: volere è potere, no?
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Nella “rimodulazione” delle elementari il ministero non esclude una riduzione delle risorse umane
Torna lo spauracchio dell’insegnante unico di Giuseppe Lisciani a «rimodulazione dell’attuale organizzazione didattica della scuola primaria» è ciò che il ministro dell’economia Tremonti si aspetta dal ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini, insieme ad altre cinque “cosucce” riguardanti l’intero sistema scolastico italiano. Il tutto è descritto nel testo del decreto, legge 25 giugno 2008, n. 112, Capo II (contenimento della spesa per il pubblico impiego), Art. 64 (disposizioni in mate-ria di organizzazione scolastica). Per la verità, il testo del decreto si esprime in termini gentili e di circostanza, chiedendo al ministro dell’istruzione «un piano programmatico di interventi volti ad una maggiore razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali disponibili, che conferiscono una maggiore efficacia ed efficienza al sistema scolastico». Vuoi per quanto dice il decreto, vuoi per l’aria severa e preoccupata che circola nella canicola d’Italia, la «rimodulazione» della scuola primaria è stata in-terpretata in termini di tagli alla spesa pubblica.
va e coordinativa della didattica, funzione oggi di fatto assente nel sistema sco-lastico italiano. Sarebbe un peccato se la politica usasse una scure orba e sorda e determinasse un quadro di riferimento inadeguato per gli alunni della scuola elementare, magari con l’argomentazione di cui comunque qualche intellettuale va qua e là vociferando - che quegli alunni hanno ancora bisogno di una figura di riferimento da cui attendere protezione e a cui identificarsi. Stiamo parlando di alunni, nessuno deve dimenticarlo, che hanno consuetudine con un mezzo luminescente come la televisione, con una moltitudine di attività come andare a lezione di pianoforte o di violino, nuotare, giocare a golf, a tennis, a calcio, partecipare a feste e spettacoli, fare judo, pallacanestro, art and craft…
L
E immediatamente è sorta l’ipotesi più ovvia: nella scuola primaria si torna all’insegnante unico. È probabile, infatti. È probabile che durante l’anno scolastico 2008-2009 si facciano calcoli e valutazioni e poi, a decorrere dal 2009-2010, si adottino, come chiede il decreto legge, «interventi e misure volti ad incrementare, gradualmente, di un punto il rapporto alunni-docente»: con la conseguenza che, nella scuola prima-
questione di adeguatezza, cioè di qualità, che non bisogna commettere la colpa di trascurare. I programmi della scuola elementare del 1955 (a metà del secolo scorso!), quelli sì, erano coerenti con l’insegnante unico. Costui aveva essenzialmente il compito di «assicurare alla totalità dei cittadini - come era scritto nella Premessa - la «formazione basilare della intelligenza e del carattere [...]», in modo che «la scuola primaria sia elementare non solo in quanto fornisce gli elementi della cultura, ma soprattutto in quanto educa le capacità fondamentali dell’uomo». A tal proposito, e sulla base di queste
Sarebbe un peccato se la politica usasse la scure per definire un quadro inadeguato ria, si torni al modulo dell’insegnante unico, in maniera più o meno perentoria. È cosa possibile e anzi probabile. Ma non desiderabile. Soprattutto, non è coerente con le indicazioni nazionali vigenti e lo è ancor meno con i modi attuali di vivere e di apprendere. E, per dirla tutta, oltre che una questione di coerenza, vi è una
affermazioni, autorevoli commentatori dei programmi del ’55, come M. Agosti e V. Chizzolini, evidenziavano e sottolineavano il «carattere umanistico» della scuola elementare. In altri termini, l’insegnante doveva far fronte a una domanda di istruzione piuttosto modesta ed era perciò in grado di svolgere il compito da solo, senza troppa
difficoltà. I programmi della scuola primaria furono letteralmente nel rivoluzionati 1985, con il coordinamento del pedagogista Mauro Laeng, allora docente presso l’università La Sapienza di Roma.
Laeng accolse i princìpi (e le conseguenze) della «teoria dell’istruzione» formulata dal grande psicopedagogista americano, Jerome S. Bruner che introdusse nella cultura pedagogica italiana l’idea che agli alunni della scuola elementare si dovesse insegnare senza “bambineggiamenti”, in maniera intellettualmente onesta e scientificamente corretta. Con i programmi del 1985 furono sostanzialmente definiti due concetti: 1) la necessità che l’alunno della scuola elementare apprendesse le discipline - non importa a quale livello - rispettandone comunque la struttura epistemologica; 2) la necessità che l’insegnante di una disciplina avesse competenze epistemologiche e didattiche sulla disciplina insegna-ta. Ne conseguiva che un
È multiforme ed affollato il mondo dei nostri allievi di scuola elementare. I quali, inoltre, secondo le promesse di Mariastella Gelmini, debbono riprendere da subito a studiare e praticare, con aumentato vigore e rinnovato entusiasmo, sia l’inglese che l’informatica. Né va dimenticato che stiamo parlando della scuola che in Italia funziona meglio di tutte. I Mauro Leng, professore dell’Università cui alunni non hanLa Sapienza, coordinatore dei programmi no più bisogno di 1985 per la scuola primaria rapportarsi ad un unico insegnante. insegnante unico non avrebbe Già osservava, oltre settant’anpotu-to far fronte al compito. ni fa, la nota e autorevole psicoNacquero, allora, i moduli con loga Susan Isaacs: «Nel periopiù di un insegnante nella clas- do tra i sette e gli undici anni, se. l’adulto è in misura assai minore di prima l’arbitro assoluto I successivi programmi - volu- della felicità del bambino. Il ti da Letizia Moratti e accuditi fanciullo non dipende più come da Giuseppe Bertagna, ancora in passato dal sorriso e dal in incerta fase di attuazione - broncio dei grandi» (Dai sette non hanno smentito le idee agli undici anni, University of bruneriane messe in campo da London Press 1932, trad. it. Laeng, ma anzi, le hanno po- Giunti Barbéra Fi-renze 1972, tenziate, suggerendo sul piano p. 84). Se volete, date pure a organizzativo la figura chiave questi alunni qualche grembiudell”«insegnante tutor». Che io le in più, e chiamatela apparteda subito ho interpretato - e nenza, ma, per cortesia, non dicontinuo ancora oggi ad inter- pingete di grigio la policromia pretare - come funzione diretti- del loro mondo.
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economia Il provvedimento contro i circa 33mila ricorsi dei lavoratori precari, che prevede in sostituzione dell’assunzione a tempo indeterminato un indennizzo che va da 2,5 a 6 mensilità limitato ai casi in essere e non a quelli futuri, permette a Poste di risolvere una storia lunga dieci anni e ai sindacati di allontanare lo spettro di una sanatoria disastrosa per gli altri precari di aziende pubbliche e private
La segretaria confederale appoggia l’emendamento del governo a differenza dei rappresentanti di categoria
Poste, la Cisl si spacca sui precari di Vincenzo Bacarani
ROMA. La battaglia sui precari alla fine l’hanno vinta i sindacati confederali che hanno dovuto sacrificare – per ragion di stato – le potenti organizzazioni di categoria delle Poste, soprattutto quella Cisl, consentendo al governo di segnare un punto a proprio favore. Il provvedimento contro i ricorsi dei lavoratori precari – che prevede in sostituzione dell’assunzione a tempo indeterminato un indennizzo che va da 2,5 a 6 mensilità limitato ai casi in essere e non a quelli futuri – permette a Poste di risolvere una storia lunga dieci anni e ai sindacati di allontanare lo spettro di una sanatoria disastrosa per gli altri precari di aziende pubbliche e private. Sono oltre 33mila i contenziosi in Poste Italiane che sono colpiti da questo provvedimento. Non è affatto contento perciò il segretario generale della FlpCisl, Mario Petitto che si sente in qualche modo tradito dai confederali. E dice: «Il colpo di mano sulla norma sui precari non può annullare gli accordi vecchi e nuovi già operanti in Poste Italiane». Petitto si riferisce soprattutto all’ultimo accordo del 2006, fir-
mato sotto il governo Prodi dall’Ad di Poste, Massimo Sarmi, per l’assunzione di 33mila precari. L’accordo prevede l’inserimento dei postini chiamati dal 1999 in poi a tempo determinato, stagionalmente o come atipici visto che inseriti in regime di ristrutturazione. Alla fine degli anni Novanta le norme che riguardavano la ristrutturazione delle aziende – e quindi la sottoscrizione di contratti a tempo determinato, stagionali o atipici – furono estese anche alle Poste, la cui amministrazione faticava a trovare un
di 10 anni. Dal 1998 a oggi il legislatore non ha mai voluto affrontare il problema, lasciando all’azienda e ai sindacati di categoria il peso di gestire circa 80 mila ricorsi». E così ora il sindacato Cisl delle Poste si trova da solo ad affrontare una situazione difficile. «Se un problema Poste esiste», spiega Petitto, «va affrontato organicamente guardando al diritto del lavoro e non con atti che hanno un intento punitivo e che assecondano logiche lobbiste per noi inaccettabili». La colpa, secondo il leader del-
Petito, leader di Flp-Cisl: «Un colpo di mano inaccettabile, che non può annullare gli accordi preesistenti». E studia il ricorso alla Consulta. Replica da via Santini: «Si deve guardare agli interessi di tutti»
segreteria confederale, ma non sposta di una virgola la presa di posizione dei vertici di via Po che a oggi non vogliono perdersi nel labirinto di rivendicazioni di settore e che mirano invece a lasciare una porta aperta nel dialogo con il governo sui problemi generali. Dice Giorgio Santini, segretario che si occupa della trattativa sulla riforma contrattuale: «La sanatoria è sempre un elemento che ha i suoi pregi e i suoi difetti. Noi dobbiamo guardare agli interessi generali. Se la norma fosse passata così com’era, avrebbe riguardato la bellezza di 2 milioni e trecentomila persone». Che – questo Santini non lo dice, ma traspare dalle sue parole – rispetto ai 33mila delle Poste è una grande, enorme cifra.
riassetto per un servizio efficiente e meno costoso. Tuttavia il risultato è stato estremamente oneroso per l’azienda postale che è stata condannata a 5mila reintegri all’anno. Un peso insostenibile. Ma Petitto ritiene ora ingiusto un provvedimento del genere. «Il cosiddetto emendamento salvaPoste è palesemente anticostituzionale, oltre che tardivo
Che cosa fare allora? «Questa», dice il segretario confederale, « può essere l’occasione per aprire un tavolo di confronto tra sindacato di categoria e l’azienda delle Poste per trovare soluzioni condivise rispetto a una situazione che è oggettivamente anomala». In sostanza ora la Flp-Cisl (che conta oltre 65 mila iscritti), la Slc-Cgil ( che insieme con i la-
la Flp-Cisl è «dei presunti manager che in questi anni hanno sbagliato sottoscrivendo contratti sbagliati e creando essi stessi il problema». E Petitto minaccia anche di ricorrere alla Corte Costituzionale «se la norma non sarà riscritta nel quadro di regole concordate». Il risentimento dell’organizzazione di categoria della Cisl è senza dubbio compreso dalla
voratori dello spettacolo conta 95 mila iscritti) e la Uil-Post (29 mila iscritti) dovranno cavarsela da sole senza l’ombrello confederale che nei decenni passati le ha sempre protette. Sono finiti i tempi in cui i sindacati di Poste e Telegrafi dettavano legge in azienda, soprattutto quello della Cisl in un certo senso protetto prima dal ministro dc abruzzese Remo Gaspari e, successivamente, con altri metodi, dal leader Cisl ed ex presidente del Senato – sempre abruzzese – Franco Marini.
Un segno forse del cambiamento dei tempi oppure un ribaltamento delle lobby oggi denunciate dal segretario attuale dell’organizzazione di categoria, Petitto. «Questa norma sui precari delle Poste», conclude Santini, «può non piacere. E su questo si può anche essere d’accordo. Ma certamente rispetto al problema del precariato in generale, da come si era presentato e rispetto ai provvedimenti in merito che erano stati annunciati dall’esecutivo, rappresenta un elemento positivo. In effetti possiamo dire che il governo è tornato sui suoi passi e questo è, senza dubbio, un buon risultato».
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e frasi di un romanzo. «Hanno mogli o mariti o fidanzati o genitori con cui vivono e che sembrano all’oscuro della loro vera natura. A volte hanno figli. Trascorrono la loro vita attraverso una normalità che intristisce, quasi. Eppure sono brigatisti rossi. Chi passa le giornate accanto a loro non vede, o non può farlo, o non vuole, che è lo stesso». Un brano di una verità che ha riguardato direttamente tante persone: negli anni di piombo e, più di recente, quando il terrorismo è tornato a colpire (nel 1999, quando fu assassinato Massimo D’Antona, e nel 2002 quando la stessa sorte toccò a Marco Biagi). La vita dei brigatisti, raccontata da un testimone diretto: uno che li ha seguiti, spiati, e che ha contribuito a individuarli e a catturarli.
L
Un romanzo-verità scritto da un addetto ai lavori. Si intitola La carne e il sangue (Barbera editore, 272 pagine, 14,90 euro); l’autore, Marco De Franchi è un sostituto commissario della Polizia di Stato in servizio presso la Squadra Mobile, e ha fatto parte del gruppo investigativo che ha condotto l’inchiesta sulle nuove Br, fino all’arresto dei responsabili degli omicidi D’Antona e Biagi e all’arresto di Nadia Desdemona Lioce. Lo stesso De Franchi (che si definisce «uno scrittore prestato alla polizia») chiarisce il contenuto del suo libro in questi termini: «È una storia, è per lo più frutto della fantasia del suo autore, è attraversato da personaggi e vicende che non sono mai accadute. Ma che avrebbero potuto accadere». Ma «ha come sfondo un contesto vero, che più vero non si può. Ci sono gli omicidi di D’Antona, Biagi e Petri. Ci sono le indagini che alla fine hanno permesso di catturare gli assassini delle Brigate Rosse. Ci sono, a tratti, i protagonisti di quegli avvenimenti. E poi ci sono i verbali, le intercettazioni, gli umori, i pensieri, le parole che hanno animato quelle vicende. Ma poi torna il romanzo. La realtà, a un tratto, devia dalla strada che conosciamo e il resto è fantasia». Un’opera letteraria, dunque, ma anche un documento agghiacciante che dimostra come i terroristi siano stati davvero i nostri “vicini di casa”: il ragioniere insospettabile del terzo piano; o la casalinga, madre di famiglia, tanto premurosa e
letture Vite parallele e coperture. Terroristi a nudo nel libro di Marco De Franchi
Il brigatista rosso della porta accanto di Massimo Tosti
nanziare le proprie imprese. Serena commette anche qualche errore, perché è coinvolta emotivamente nel proprio lavoro a causa di quella ferita aperta nei suoi affetti. Sicuramente molti tutori della legge erano ugualmente animati da qualche fatto personale: nel ricordo di qualche collega assassinato. Perché la scia di sangue lasciata dal terrorismo ha riguardato un po’ tutti. Figuriamoci chi è abituato a rischiare la pelle, ogni giorno, per difendere la nostra.
In alto, i brigatisti Roberto Morandi e Nadia Lioce. Sotto, le vittime delle nuove Br Massimo D’Antona (a sinistra) e Marco Biagi (a destra)
Il romanzo, scritto da un sostituto commissario di Polizia, ricostruisce l’inchiesta sulle nuove Br, fino all’arresto degli assassini di D’Antona e Biagi e alla cattura di Nadia Desdemona Lioce gentile; oppure l’infermiera dell’ospedale. Come la protagonista de La carne e il sangue, Lucia Cardini, che lavora in ospedale, che è una moglie fedele e una madre affettuosa. Chi potrebbe immaginare che abbia anche un nome di battaglia, Federica, e che sia una militante rivoluzionaria, una donna spietata pronta a imbracciare una mitraglietta per ammazzare i nemici del popolo, i servitori dello Stato o chiunque si trovi (per caso, e per fatalità) a intralciarne l’azione da brigatista? Nessuno, nemmeno il marito, Stefano Verde, grafico di
professione, che non nutre alcun dubbio sulla personalità della moglie, così carina, così fedele, così amorevole. Nemmeno i colleghi d’ospedale, nemmeno Eleonora che di tanto in tanto timbra il cartellino al posto di Lucia, con una complicità dettata dall’idea che lei (poverina) con un marito e un figlio debba assentarsi per risolvere i suoi problemi familiari, e non per progettare attentati o effettuare sopralluoghi indispensabili per ammazzare qualcuno “in sicurezza”. E nemmeno il figlio, Valerio, che adora la mamma (così tenera) e
piagnucola ogni tanto perché non torna a casa in tempo per il bacio della buonanotte.
Di Lucie-Federiche ce n’erano tante fra la militanti rivoluzionarie. E a cercare di smascherarle, dall’altra parte della barricata, c’erano sicuramente donne come Serena D’Amico, commissario di polizia, in forza alla Digos, che nella caccia ai brigatisti ci mette del suo, perché parecchi anni prima le hanno ammazzato la sorella poliziotta, in un assalto a un furgone postale, una delle tante rapine che servivano alle Br per fi-
Le storie di Serena e di Lucia – come è nella logica di ogni romanzo – si intrecciano fra di loro, verso un finale che non è il caso di rivelare. Ma non c’è dubbio (al di là delle qualità letterarie dell’opera, che sono comunque di rilievo) che l’interesse principale sia rappresentato dal racconto della faccia nascosta del terrorismo (quella che neppure i giornali hanno mai rivelato) e dei meccanismi delle indagini: i pedinamenti, le intercettazioni, lo studio analitico dei documenti delle Br, i memoriali, il lavoro di squadra, le deduzioni e le ipotesi discusse nei minimi dettagli, valutando variabili e subordinate). Un lavoro certosino che ha prodotto i suoi risultati, con l’arresto di tutti i capi delle nuove Br: la Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma. Cinzia Banelli (la prima pentita delle nuove Br, alla quale Lucia Cardini somiglia in modo impressionante). Un finale scritto, nella vita reale, il 24 ottobre 2003, quando un blitz notturno condusse all’arresto di sette militanti delle Br, a Firenze, Pisa e Roma. Tutti in carcere, prima e dopo il processo, che li ha condannati a pene molto pesanti. «La banalità della rivoluzione», si legge nel romanzo, «è tutta lì: dentro quelle gabbie da scimmie, insieme alla loro pretesa di essere ascoltati e qualche volta capiti».
musica
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Interpretate dal grande trombettista Mauro Maur le colonne sonore di Morricone, Rota e Piccioni
Le note di Cinecittà trionfano a Rio di Pietro Gallina cominciata a Rio de Janeiro la tournée del celeberrimo trombettista Mauro Maur e della Youth Orchestra of the Americas, il cui direttore è Placido Domingo e il presidente onorario è lo stesso George Bush (insieme alla First Lady). L’Italia è al centro dell’interesse di questo importante avvenimento, soprattutto per le due Americhe, perché oltre a Mauro Maur, star italiana, il concerto è intitolato: As Grandes Músicas do Cinema Italiano (Le grandi musiche del cinema italiano).
È
La scorsa settimana a Rio, nella grande Sala Italia, quando le luci si sono spente ed è entrato sul palco trionfalmente
ora abbiamo assistito a tale ripetizione dello stesso concerto presentato nell’ambito del IV Seminario Internazionale del Cinema e Audiovisivi, una manifestazione di livello mondiale tra le più importanti del Brasile che ha avuto luogo a Salvador, nello stato di Bahia. L’evento è entrato nel vivo di un ambiente completamente cinematografico, di grandi scambi commerciali e corredato da seminari, conferenze e incontri tra artisti e operatori del cinema. E naturalmente tale appuntamento mondano ha messo in subbuglio tutta la città come se fosse il loro Festival di Cannes o di Venezia o come alcuni fans hanno definito la Hollywood da América Latina. L’esagerazio-
ma italiano come appunto La leggenda del pianista sull’Oceano o Per un pugno di dollari di Morricone; Incontri particolari e Amore mio aiutami di Piccioni; Amarcord, La Dolce Vita e Otto e mezzo di Rota. Occupato il grande Teatro Castro Alves per le proiezioni dei film in programma nel IV Seminario Internazionale del Cinema e Audiovisivi, il concerto si è svolto nel vicino Teatro dell’Università Federale della
In alto a destra il trombettista Mauro Maur con la pianista Françoise de Clossey sotto Il compositore Ennio Morricone (a sinistra) e il tenore Placido Domingo (a destra)
Il concerto è inserito nell’ambito del IV Seminario Internazionale del Cinema e Audiovisivi Nini Rosso, Leonard Bernstein, Riccardo Muti. Gli Usa lo hanno richiesto qualche mese fa per le celebrazioni della Settimana Italiana nel Mondo.
Mauro Mar con la Youth Orchestra of the Americas, tutti sono stati subito sedotti dalle celebri melodie delle colonne sonore dei più grandi registi italiani, scritte per loro dai musicisti Ennio Morricone, Nino Rota, e Piero Piccioni. Immediatamente con le note della magica tromba, si era portati come per incanto, dentro i set della Dolce Vita, a Fontana di Trevi, o nel far west di Per un pugno di dollari, fino a entrare nel transatlantico della Leggenda del pianista sull’Oceano. Già a Rio insomma il successo è stato strepitoso e
ne brasiliana che vede tutto come un mondiale di calcio è una caratteristica popolare. Bisogna confessare, però, che il concerto, quello di Mauro Maur - pianista Françoise de Clossey insieme alla Youth Orchestra of the Americas - è stato giustamente pensato come una perla sonora messa sulle grandi pizze di pellicola dell’intero Festival.
Il programma ripeteva quasi pedissequamente quello di Rio, vale a dire versioni classiche, quindi con ritocchi orchestrali, delle famose melodie del cine-
Bahia (Ufba), ora Rettorato. I posti disponibili erano circa settecento, ma l’accesso gratuito ha fatto sì che ci fosse il ”tutto esaurito”. Il concerto ha rivelato un Mauro Maur in grande forma. Il suo suono argentino era ottenuto con una tecnica personalissima, nient’affatto frutto di impostazioni accademiche e mai schiava dei grandi metodi tradizionali per tromba. Poi quel suono, sorretto da un’Orchestra scintillante e in alcune parti da un pianoforte (Françoise de
Clossey) in perfetta consonanza, ha fatto tremare di applausi lo spazio gremito. Il successo è stato pieno.
Mauro Maur, bisogna dire, è il nostro Pavarotti della tromba e ha all’attivo, negli States, oltre 100 colonne sonore eseguite. Ha lavorato con un’infinità di grandi artisti, da Ortolani, Cosma,Vlad,Theodorakis, Gloria Gaynor, Placido Domingo, I Solisti Veneti, Barbara Hendrix,
Benedetto XVI ha ricevuto Mauro Maur e la sua meravigliosa tromba d’oro nella Sala Nervi, davanti a 8.000 persone accorse per assistere a un memorabile concerto. Con Morricone, Piccioni e Rota, ha collaborato già dal 1985. Mauro Maur era un grande amico di Giulietta Masina e Federico Fellini, tanto che i loro famigliari gli hanno chiesto di suonare ai funerali rispettivamente dell’uno e dell’altra. Oltre ad altri sponsors, si deve al direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Rio, Rubens Piovano, questo grande sforzo organizzativo. Si spera sempre che questa immensa fame di cultura Italiana in Sud America venga avvertita come una grande opportutnità di sviluppo dai nostri (spesso distratti) governi italiani.
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focus
Islam e Cristianesimo mai così vicini. Deposta ”la spada” hanno trovato un accordo su temi concreti: famiglia, inquinamento e lotta alla povertà. I potenti li ascolteranno?
La task force del dialogo di Ahmad Vincenzo a grande svolta nel dialogo interreligioso ha certamente avuto inizio il 6 novembre 2007, quando per la prima volta un sovrano saudita ha varcato i cancelli del Vaticano. Recando in dono una spada d’oro e pietre preziose, il Re Abdullah ibn Abdalaziz al-Saud incontrava per mezz’ora Papa Benedetto XVI. Quindi aveva un colloquio con i vertici della politica vaticana: il Segretario di Stato, Card. Tarcisio Bertone, e il Segretario per le Relazioni con gli Stati, Mons. Dominique Mamberti. I protagonisti mantenevano uno stretto riserbo sui contenuti dell’incontro. Ai media, assetati di notizie, la sala stampa del Vaticano diramava un comunicato stringatissimo, sette righe in tutto: si faceva riferimento al dialogo interculturale e interreligioso, alla tutela dei valori della famiglia e alla pace in Medio Oriente. Il vice direttore di Famiglia Cristiana, Fulvio Scaglione, sempre attento agli equilibri internazionali,
L
Cairo e dei notabili sauditi, sedeva anche Akbar Hashemi Rafsanjani, presidente iraniano dal 1987 al 1997 e grande avversario di Ahmadinejad. Dallo storico nemico iraniano, il Re saudita cercava e trovava la legittimazione per iniziare una nuova e vasta azione diretta ai rapporti interreligiosi. La storia islamica, comunque, gli forniva numerosi esempi: era il lontano 631 d.C., quando il Profeta Muhammad accoglieva nella moschea di Medina una delegazione di cristiani provenienti dallo Yemen. Alla loro partenza si stabiliva che i musulmani dovessero aiutare i cristiani nello sviluppo della Chiesa, rispettando la funzione dei sacerdoti e garantendo la piena autonomia del culto. Un dialogo che non è venuto meno anche durante periodi difficili come quello delle crociate. Il rosario, ad esempio, e le preghiere cristiane a esso collegate, furono introdotti in Europa da pellegrini reduci dalla Terra santa, dove i musulmani facevano uso da secoli del tasbih, il
La svolta nei rapporti tra Arabia Saudita e Santa Sede è avvenuta il 6 novembre 2007: re Abdullah incontrava Benedetto XVI. Mai un sovrano di questo Stato aveva varcato i cancelli vaticani sulle pagine di Avvenire scriveva del nuovo possibile ruolo che l’Arabia Saudita era chiamata a svolgere nel mondo islamico, soprattutto a fronte di un accresciuto attivismo fondamentalista di Mahmud Ahmadinejad.
Scaglione sarebbe stato uno dei pochi a intuire, immediatamente, gli sviluppi dello storico incontro. Sei mesi dopo, infatti, si teneva alla Mecca una Conferenza Islamica Internazionale per il Dialogo, organizzata dalla Lega Islamica Mondiale (Rabita al-Alam al-Islami), la più grande e influente organizzazione musulmana non governativa, in stretto contatto con il Ministero degli Esteri saudita. All’apertura dei lavori, al fianco del Re Abdullah, del rettore dell’Università al-Azhar del
rosario islamico. Lo stesso San Francesco cercò di interrompere la quinta crociata per aprire un canale di dialogo con il Sultano d’Egitto, ponendosi in contrasto con gli stessi comandanti dell’esercito cristiano. Tuttavia, a partire dall’inizio del secolo scorso, il fondamentalismo ha progressivamente minato le basi del dialogo, promuovendo una prospettiva esclusivista della religione. Nel mondo islamico, così, è stata introdotta la dottrina del takfir, ovvero l’accusa di miscredenza nei confronti di tutti quelli che non si riconoscono nel movimento radicale. Se i fondamentalisti considerano i musulmani come miscredenti, certo la loro considerazione di ebrei e cristiani non è migliore. È così che in Medio Oriente si è innescato un processo di persecuzioni e
soprusi nei confronti delle minoranze religiose. L’appello Meccano per il Dialogo interreligioso del 6 giugno 2008 è un vero e proprio decalogo, uno dei primi elaborati nel mondo islamico. In alcune parti sembra evidente il riflesso dei colloqui con il Pontefice, altre, invece, rappresentano più chiaramente un autonomo contributo islamico. Gli obiettivi del documento, indicati in nove punti, meritano particolare attenzione, perché attorno ad essi potrebbero ruotare le future relazioni internazionali.
I primi due punti sono relativamente scontati: sottolineare l’apporto della civiltà islamica allo sviluppo dell’umanità e correggere le immagini distorte dell’Islam. Il terzo è, invece, un preciso atto di accusa contro il secolarismo, il terrorismo, l’inquinamento e la violazione dei diritti umani. Qui l’eco del Vaticano è molto forte, tanto più che l’Arabia Saudita è uno dei pochi Paesi che si erano opposti alla ratifica della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nel 1948, quasi a ribadire un deciso cambio di registro. Il quarto punto ritorna sul rispetto dei diritti umani e invita alla denuncia della loro violazione. Con il quinto si innalza anche il livello intellettuale, contrastando la teoria dello scontro di civiltà, così come quella della fine della storia. Trattandosi di teorie notoriamente opposte, evidentemente si fa riferimento alla ricerca di una terza e nuova prospettiva. I punti conclusivi mirano a promuovere una cultura pluralista. Nell’ultimo, in particolare, si fa riferimento alla molteplicità delle scuole di pensiero nell’Islam, ancora una volta rompendo la tradizione saudita di privilegiarne solo una, quella wahabita, a detrimento della storica dialettica tra le differenti dottrine sunnite e sciite. Non si fa esplicito riferimento a come realizzare concretamente tali obiettivi, ma c’è più di quanto si sarebbe potuto in un primo tempo immaginare. L’intraprendenza del monarca saudita ha trovato subito con-
sensi anche in ambito cattolico. Il 4 giugno 2008, contemporaneamente all’inaugurazione della conferenza della Mecca, il Cardinale Jean Louis Touran, Presidente del Pontificio Concilio per il Dialogo Interreligioso, annunciava la redazione di un documento sulle linee guida del dialogo interreligioso, chiarendo che «dopo molti anni di esitazioni, riguardo all’opportunità di un tale documento, il tempo è arrivato per offrire ai pastori e ai fedeli alcuni orientamenti generali che ovviamente dovranno essere adattati alle situazioni locali». Non tutti nella Chiesa, forse, sono d’accordo con il cardinale Tauran. Fonti vaticano hanno persino smentito che del documento si sia mai parlato. Però, al dialogo tra le religioni e al loro sostegno reciproco si è fatto diretto riferimento in quella che è stata sinora la più significativa iniziativa pubblica del Papa: la Giornata Mondiale della Gioventù in Australia. Durante l’incontro nella Sala capitolare della St. Mary’s Cathedral di Sydney, Papa Benedetto XVI ha affermato che «in un mondo minacciato da sinistre e indiscriminate forme di violenza», le religioni stimolano «le nazioni e le comunità a risolvere i conflitti con strumenti pacifici nel pieno rispetto della dignità umana».
Più che un confronto teologico, nelle parole di Ratzinger, il dialogo interreligioso sembra diventare uno strumento atto a suscitare una reazione contro la violenza, l’ingiustizia e la decadenza morale e materiale, intervenendo in maniera significativa nelle politiche degli Stati e quindi negli equilibri del mondo. Forse è il caso, a questo punto, di tracciare una breve cronistoria del dialogo interreligioso moderno. Ancora una volta, è stato un Papa a svolgere una funzione catalizzatrice. Era l’ottobre del 1986, ad Assisi, quando Giovanni Paolo II inaugurava la Giornata di Preghiera per la Pace.Vi parteciparono 50 rappresentanti delle Chiese cristiane (oltre ai cattolici) e 60
rappresentanti delle altre religioni mondiali. Era il primo incontro della storia. L’iniziativa fu talmente fuori dell’ordinario da passare in sordina, tanto che lo stesso futuro segretario e presidente del Pontificio Concilio per il Dialogo Interreligioso, Mons. Michael Fitzgerald, anni dopo avrebbe confessato di aver dato quella sera solo un’occhiata distratta al Papa in televisione, prima di tornare ai suoi impegni di missionario in Africa. Eppure ad Assisi non stava avendo luogo un incontro convenzionale. Lo stesso Giovanni Paolo II nel suo discorso iniziale apostrofava duramente i rappresentanti religiosi, ammonendoli che “o impariamo a camminare insieme in pace e armonia, o ci estraniamo da questa vita e roviniamo noi stessi e gli altri”. Quelle parole sono state tristemente profetiche. Se da una parte, nel 1989, cadeva il muro di Berlino e con esso il comunismo, dall’altra si assisteva a una impressionante escalation di guerre e massacri, sempre più spesso fatti in nome della fede religiosa.
Tra il 1991 e il 1995, si apriva nei Balcani una delle pagine più tristi di un’Europa già segnata dalle due Guerre Mondiali. Serbi ortodossi contro croati cattolici, poi croati contro bosniaci musulmani e, infine, serbi contro bosniaci: una
focus
31 luglio 2008 • pagina 21
deli ammontano attualmente a circa tre miliardi e mezzo, quasi i due terzi della popolazione terrestre. Non vi è Paese in cui cristiani e musulmani non si trovino a confronto. Cristianesimo e Islam sono anche le due religioni più vicine dottrinalmente e più distanti storicamente. Vicine, poiché l’Islam è l’unica religione che riconosce la venuta profetica del Cristo, sia pure come Spirito di Dio e non come suo Figlio. Distanti, poiché spesso le spade degli uni e degli altri si sono incrociate così come le rispettive accuse di eresia.
Dopo decenni di iniziativa cattolica nel dialogo, fa notizia l’inversione di tendenza. Il primo segnale si è avuto con la lettera del 13 ottobre 2007, scritta al Papa e ai capi delle Chiese cristiane da parte di un eterogeneo gruppo di 138 sapienti musulmani, su ispirazione del
Ma il riflesso dell’iniziativa sul mondo islamico resta discutibile, anche per l’eterogeneità del gruppo di “sapienti”, tra i quali figurano appartenenti al movimento fondamentalista dei Fratelli Musulmani, tra cui il controverso Tariq Ramadan. Oggi si assiste all’aumento delle tensioni interconfessionali, spesso a scapito delle minoranze cristiane, come quella copta in Egitto. Se condotta su posizioni religiosamente moderate e intellettualmente fondate, l’iniziativa saudita è potenzialmente più efficace, potendo contare su di un’organizzazione, come la Lega Islamica Mondiale, radicata e influente in quasi tutto il mondo. A metà luglio, solo un mese dopo l’incontro della Mecca, Re Abdullah ha voluto che si realizzasse a Madrid uno dei maggiori convegni interreligiosi di tutti i tempi, con invitati provenienti da più di 50 Paesi. La scelta del-
Per il Papa lo scambio tra le fedi può contribuire a combattere la violenza, l’ingiustizia e la decadenza morale e materiale. E riuscire a modificare gli equilibri del mondo la Spagna è un chiaro riferimento all’Andalusia. La Dichiarazione madrilena del 19 luglio scorso mira a istituire una reale task force di intellettuali in grado di elaborare una vera e propria “cultura del dialogo”, così come una adeguata strategia mediatica. Le Nazioni Unite sono state ufficialmente invitate a sostenere questo nuovo progetto culturale. In questo contesto, il Cardinale Tauran ha dichiarato che nel dialogo interreligioso «si comincia a respirare un’aria nuova», e che «ebrei, cristiani e musulmani possono cambiare il corso della storia».
In alto l’incontro in Vaticano tra il re saudita Adbullah e Benedetto XVI del 6 novembre 2007. Qui sotto, il 24 gennaio 2002, Giovanni Paolo II presiede ad Assisi la Giornata mondiale di preghiera per la pace nel mondo con i leader di altri culti
infinita scia di massacri, conclusasi nel luglio 1995 a Srebrenica, dove 7.800 civili inermi hanno trovato la morte. Tra il 1991 e il 2002, invece, si apriva la crisi algerina, provocata da gruppi di jihadisti islamisti, in parte reduci dall’Afghanistan, che innescavano una guerra civile con 200.000 vittime tra la popolazione musulmana civile. La violenza fondamentalista avrebbe squassato anche l’O-
riente. Il 6 dicembre 1992, una folla fomentata da fondamentalisti indù distruggeva la Moschea Babri di Ayodhya, nell’Uttar Pradesh. Gli scontri tra differenti fondamentalisti insanguinavano anche altre regioni dell’India, toccando persino i Missionari della Carità, il ramo maschile fondato da Madre Teresa di Calcutta. L’11 settembre 2001 sarebbe arrivato a suggellare una stagione fin
troppo triste. In questo arco di tempo, il dialogo interreligioso si è concentrato principalmente a livello teologico e umanitario, cercando di individuare sia le radici delle incomprensioni tra religioni, sia mettendo in atto iniziative volte a avvicinare le famiglie e le singole comunità. Ha rivestito un’importanza del tutto particolare il rapporto tra Cristianesimo e Islam. I loro fe-
principe Ghazi bin Muhammad bin Talal di Giordania. La missiva voleva essere soprattutto una risposta al discorso tenuto dal Papa l’anno prima all’Università di Ratisbona, proponendo di confrontarsi su di uno dei temi più cari alla dottrina cristiana, quello dell’Amore. La risposta positiva di Ratzinger non si è fatta attendere e un incontro teologico è previsto per il prossimo novembre a Roma.
Sarà un caso, ma proprio giovedì scorso, 24 luglio, si è tenuta a Londra una marcia delle religioni contro la povertà. Sarà una coincidenza, ma il Papa aveva richiamato, proprio all’inizio del mese, i partecipanti del G8 a prendere posizione contro la povertà e la speculazione. Quella londinese potrebbe essere solo una iniziativa tra le tante, ma potrebbe anche essere un ennesimo segnale di convergenza su temi di interesse collettivo, come la famiglia, l’inquinamento, l’indigenza, la distribuzione delle risorse della terra tra le due maggiori organizzazioni religiose della terra. Se le cose fossero così, il dialogo interreligioso, potrebbe diventare un linguaggio comune per parlare ai governi e ai potenti. Spingendoli ad assumere decisioni che, nel loro egoismo, forse non avrebbero mai voglia di prendere.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Cosa leggete in spiaggia: libri, giornali o rotocalchi? D’ESTATE MAI FARSI MANCARE I QUOTIDIANI, RACCONTANO FAVOLE E BARZELLETTE ESILARANTI
DOPO UN LUNGO INVERNO DI BRUTTE NOTIZIE, MEGLIO AFFIDARSI A LETTURE MENO IMPEGNATIVE
Come farsi mancare sotto l’ombrellone un quotidiano? Attenzione però: non dico questo perché credo che anche in vacanza occorra sempre essere aggiornati sull’attualità politica, economica o di semplice cronaca. In genere d’estate non rinuncio ai quotidiani perché nel periodo d’agosto soprattutto li considero letteralmente spassosi. In quel periodo, si sa, la politica va in vacanza (perché, gli altri mesi invece lavora sul serio?) e i giornali vanno palesemente in crisi. Come riempire dunque le tante pagine tutti i santi pomeriggi? Ed ecco qua che i quotidiani divengono la fonte primaria di barzellette e favole che ti tengono compagnia nelle noiose giornate di sole e di mare. Lo Yeti? Eccotelo avvistato in questa o quella regione del mondo (ritrovati anche peli «strani»). Il mostro di Lochness? Ha tirato su la testa e salutato i visitatori. Per non parlare poi delle ”scappatelle”dei politici o delle nozze delle soubrettine di basso bordo che affollano le scene italiane. Fantastico. D’estate i quotidiani sono quanto di meglio ci sia per rinvigorire lo spirito. Altro che romanzetti e rotocalchi.
Ho sempre trovato squalificanti per la mente di ogni persona i rotocalchi e i giornaletti che in genere adornano i panchetti di barbieri e parrucchiere. Però, però, però... ce n’è uno che proprio non posso fare a meno di divorare quando mi concedo un po’ di relax in spiaggia. Non svelerò il nome della testata per evitare inutile pubblicità, ma in tutta onestà credo che leggerne qualcuno meno pesante durante la pausa estiva non possa fare poi così male. Del resto a luglio e agosto in genere sui quotidiani c’è penuria di notizie che siano davvero importanti per il Paese e almeno in vacanza evito di comprarli per non appesantire le mie giornate con delitti, incidenti stradali o suicidi sparsi in Italia e nel mondo. Credo insomma che le cosiddette ”letture più leggere” siano maggiormente indicate per il periodo estivo. E comunque anche i romanzi, magari i più ”classici”, possano andar bene lo stesso. Il mio consiglio, se posso dunque permettermi, è proprio questo: la vita durante tutti i mesi precedenti ci bombarda di brutte notizie, dalla politica come alla contingenza. Almeno ad agosto, evitiamocelo.
Francesco De Santis - Latina
LA DOMANDA DI DOMANI
Italiani uccisi all’estero. Quanto influisce la cronaca sulla meta delle vostre vacanze? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Eleonora Antonini - Roma
POTRÒ ANCHE SEMBRARE IL CLASSICO ”NERD”, MA IO IN SPIAGGIA LEGGO QUALUNQUE GIORNALE Sarò quanto meno strano, ma a me d’estate piace leggere esattamente tutto ciò che leggo d’inverno o nelle altre stagioni. Praticamente tutto. Quando vado in spiaggia sembro proprio il classico intellettuale un po’ nerd che non avendo altro o altri si fa compagnia da solo o al massimo con un po’ di carta stampata. Nell’ordine al mattino ho con me: tre quotidiani importanti di tiratura nazionale, due giornali minori di approfondimento politico e culturale, un saggio che senz’altro sto leggendo anche la sera prima di andare a dormire, e seci scappa anche un fumetto, ma proprio da sfogliare e divorare in mezzora durante la pausa insalata allo stabilimento. Sì, sarò pure un nerd. Ma quanto mi piace la lettura! Grazie e buona estate a tutti.
LA QUESTIONE CATTOLICA IN BASILICATA Il popolo cristiano, e in particolare quella parte di esso che esprime e il desiderio di un soggetto (laicamente) cristiano, non si sente rappresentato nella politica italiana. Il 20% dei cattolici vuole un nuovo partito! Questa esigenza scaturisce da un recente sondaggio Ipsos che sta togliendo il sonno ai politologi italiani. Parta da qui la sfida dell’Unione di Centro. Il primo dato che colpisce è che con il governo Prodi l’elettorato cattolico praticante si è spostato verso Berlusconi. Si potrebbe dire che la perdita di sostegno nell’area cattolica è la vera causa della sconfitta del Pd. Uno spostamento analogo si è avuto, anche se in misura forse minore, nell’elettorato più laico. E’ interessante ciò che l’indagine dice sul tema di un partito fortemente impegnato sul tema dei valori cristiani. Il 18% degli intervistati ritiene che di un simile partito ci sia bisogno. A me sembra che oggi nessun partito abbia un nocciolo duro identitario del 18%, certo da ampliare e accrescere attraverso l’azione politica. Certo, l’idea
QUESTIONE DI PIERCING I maschi della tribù Yanomami, in Venezuela, si decorano con braccialetti multicolori fatti di penne di uccelli tropicali. Usano poi forarsi lobi, naso e labbra con piccole canne di bambù, piume e fiori. Gli abbellimenti per le donne invece, meno appariscenti e fatti di fiori e petali profumati
FERRERO POTEVA RISPARMIARCI LA ”SCENEGGIATA CONGRESSO”
CAMPIONI D’EROTISMO ...DA ESPORTAZIONE
Su Rifondazione comunista Repubblica scrive: «Ferrero è stato chiaro: mai col Partito democratico». Mi permetto di chiedere se un’affermazione così intransigente vale solo all’opposizione o anche nelle Regioni, Province e Comuni, dove si gestisce nell’ammucchiata del volemoce bene? Alcuni dicono che le alleanze amministrative sono diverse da quelle politiche, ma, a parte questa cretinata, se Ferrero «predica bene e razzola male» poteva anche risparmiarci la sceneggiata del Congresso. Se invece.... allora l’ex operaio Ferrero potrà anche perdere potere ma sarà credibile per il futuro. Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Prendete l’ultima notizia. Una di quelle che lasciano il segno e dalla cui lettura usciamo tutti trasformati, arricchiti e più consapevoli. Impariamo che al festival internazionale del cinema erotico di Madrid, qualche settimana fa, erano tutti ai piedi di un pisellone nostrano. Un maschio dominante che va subito al sodo e che si può permettere tutte le patatine che desidera. Un campione d’erotismo da Oscar e da esportazione. Qualcuno, per favore, dica ai giornalisti dell’Unità e ai filosofi di Micromega che non si trattava di Silvio Berlusconi bensì di Rocco Siffredi. Era lui la stella di prima grandezza. E lunghezza. Distinti saluti.
Leopoldo C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)
dai circoli liberal Marco Valensise - Milano
di un partito di questo tipo si inscrive assai più facilmente in un sistema di coalizioni che non in un sistema bipartitico: ma dal bipartitismo l’Italia è, mi pare, ancora lontana. Ancora più interessante è il fatto che una maggioranza relativa degli intervistati individui nell’Udc il partito che con più coerenza rappresenta i valori cristiani in politica. D’altro canto, l’elettorato dell’Udc è costituito in grande maggioranza da cattolici praticanti. Io credo che da questi dati sia possibile trarre qualche interessante conclusione. Esiste lo spazio elettorale in Italia per un partito a forte radicamento nei valori cristiani. Esiste un’area del 18-20% interessata ad una simile ipotesi politica. E’ ovvio che in tale area è già insediato l’Udc, che però non riesce ad esaurirne la capacità. Questa area non coincide con quella dei cattolici praticanti, che è molto più ampia. Per di più, molti elettori che non sono cattolici praticanti favoriscono l’ipotesi della formazione di un simile partito. Tutto questo dice che l’ipotesi è un’ipotesi laica non confessionale. Cristiana ma laica. Ovvero,
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
anche laica perché cristiana. E’ ovvio che un simile partito sarebbe un partito. Oltre il nocciolo duro di coloro che vi aderiscono per un sentimento di identità, esso dovrà poi cercare di aggregare un consenso tutto politico costruito sui programmi e sugli altri elementi che possono contribuire alla sua caratterizzazione. In altre parole, un partito così può andare avanti anche molto oltre il 20%. Un partito che parte dall’Udc ma va molto oltre l’Udc. Non somiglia questo molto all’idea della Unione di Centro? Questa è la sfida dell’Unione di Centro. E’ una sfida che non si vince solo con una professione di fede. Si vince con l’intelligenza di un programma in cui quel popolo si possa riconoscere. E si vince con il coraggio di una testimonianza che non teme di affrontare anche battaglie impopolari, e forse di minoranza, in nome di un’idea diversa della politica come servizio alla nazione e servizio ideale. Gaetano Fierro DAL COODINAMENTO REGIONALE LIBERAL BASILICATA
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Caro Fellini, i miei pensieri sono le sue parole Caro Fellini, ieri mi è capitata una di quelle cose che scaldano il cuore. Stavo leggendo l’intervista che ha rilasciato all’Express di Parigi (leggo tutto quello che trovo a proposito del Satyricon). Alla quarta frase ero sbalordito e mi dicevo che le sue risposte erano esattamente le stesse che avrei dato io. Ritrovavo le mie idee, per quanto riguarda sia la creazione artistica che il modo di affrontare i vari problemi della vita. E’ sempre miracoloso scoprire di avere un fratello da qualche parte.Volto la pagina e, a conferma del fatto che non mi ero sbagliato circa le nostre «affinità elettive», mi trovo davanti quello che lei dice di me. A questo punto non vedo l’ora che il film arrivi da noi per correre a vederlo. Ma ho anche molta voglia di rivedere lei. Entro la fine dell’anno devo scrivere due romanzi. Non appena sarò libero le chiederò il permesso di fare un salto a Roma per chiacchierare a lungo con lei. Con tutta la mia ammirazione e la mia amicizia. Georges Simenon a Federico Fellini
UN COMPLIMENTO A GIORGIO NAPOLITANO Quando Berlusconi, una quindicina di anni fa, in Parlamento, andò a stringere la mano solo a Napolitano, dell’opposizione, non lo accettai di buon grado. Oggi, dopo la Sua elezione a Capo dello Stato e dopo le Sue frequenti dichiarazioni, sempre più chiare e dignitose, capisco quel gesto: è l’unico comunista che ha capito la storia e la lezione che la storia ha dato alle ideologie cieche. Fu eletto e dissi: è uno di loro! Ora dico: meno male che fu eletto, è uno di loro, ma dotato di cervello! Bravo Presidente, è la prima volta, alla mia età, che faccio un complimento ad un comunista: fossero tutti come Lei, che bell’Italia!
Lettera firmata
BISOGNA ROVESCIARE I PRÌNCIPI E I PRINCÌPI Mario Segni, sulla legge detta Lodo Alfano e su altre iniziative del governo, lancia l’allarme, a giustificazione del referendum perché, sottolinea in un articolo su l’Unità (sic), «è attraverso questa manovra complessiva che si stanno rovesciando alcuni principi». Prof. Mario Segni, con
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
31 luglio 1703 Daniel Defoe viene messo alla gogna per il crimine di diffamazione, dopo aver pubblicato un pamphlet di satira politica 1784 Muore Denis Diderot, filosofo, enciclopedista e scrittore francese 1917 Prima guerra mondiale: nelle Fiandre inizia la terza battaglia di Ypres 1919 L’Assemblea Nazionale tedesca adotta la Costituzione di Weimar 1928 Amsterdam: Elizabeth Robinson vince i 100 metri piani alle Olimpiadi. È la prima gara femminile di atletica leggera nella storia delle Olimpiadi 1944 Muore Antoine de SaintExupéry, scrittore e aviatore francese 1954 La vetta del K2, nel Karakorum, viene conquistata dalla spedizione italiana guidata da Ardito Desio, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli 1969 La sonda della missione americana Mariner 6 raggiunge Marte: invierà alla Terra un totale di 75 foto
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
tutto il rispetto per la memoria del Suo integerrimo padre, con tutto il rispetto per Lei, versione di circa 20 anni fa, forse non ha capito una cosa semplice, semplice: abbiamo votato il Pdl proprio perché vogliamo rovesciare non uno, ma molti princìpi (andrebbe bene anche prìncipi). Se questo modo di pensare è fascista, amen, se è un diritto della maggioranza, fiat! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Paolino Di Licheppo
FINALMENTE SGARBI HA LA SUA RIVINCITA La decisione è stata comunicata ieri in una lettera direttamente al sindaco di Milano Letizia Moratti. «Mi dimetto da assessore». E così, il critico d’arte Vittorio Sgarbi ha l’opportunità di prendersi la sua rivincita restando sindaco di Salemi e dando così uno schiaffo morale alla sua ”nemica”. Tra l’altro facendolo con un’eleganza che, si sa, quando si ha a che fare con Sgarbi, non sempre è così scontata. «Non posso deludere i miei elettori», ha spiegato. Bene, sono felice che sia andata così. Cordialmente ringrazio. A presto.
SEGUE DALLA PRIMA
In Turchia vince la realpolitik di Andrea Margelletti Con sostanziale buona pace di tutti: della Corte Costituzionale che ha comunque fatto il suo gesto formale, dell’Akp che dovrà dimostrare di scendere a patti con la componente più moderata e dei tanti sostenitori della Turchia all’estero che se vorranno un Paese più europeo dovranno mettere mano al portafoglio e impegnarsi direttamente. Al di là delle diverse valutazioni e opinioni, avere una Turchia in Europa rappresenta indubbiamente una grande opportunità. Sotto un profilo politico il suo ingresso potrebbe certamente abbassare i rischi
di attentati islamici, vista la multiculturalità che l’Europa potrebbe assumere. Ma benefici si intravedono anche sotto il profilo economico: la Turchia, infatti, rappresenta per le piccole e medie imprese europee in prima fila quelle di casa nostra - l’ultimo grande e vero mercato di sbocco prima di venire tutti cinesizzati ed andare a far la spesa con il risciò. Ecco perché il mancato verdetto di incostituzionalità della Corte è la vittoria della logica ancor prima della politica, è la vittoria di chi si rende conto che la storia va sempre avanti, che ci piaccia o meno.
il meglio di
Amelia Giuliani - Potenza
LA MANOVRA TREMONTI E IL MONDO UNIVERSITARIO
PUNTURE Il governo ha poche idee. Ma confuse bene.
Giancristiano Desiderio
“
Nessun piacere è un male in assoluto; ma alcune fonti del piacere procurano spesso più male che bene EPICURO
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
Un tassello fondamentale della manovra triennale è l’intervento sulle università, attraverso il quale si concede a queste ultime la facoltà di trasformarsi in fondazioni. Nei giorni scorsi è stato lo stesso Giulio Tremonti a ribadirne la rilevanza ai vari intervistatori. (...) Alla base dell’investimento in educazione e ricerca c’è infatti un (ottimistico) assioma: più si investe sulla dotazione cognitiva di un individuo e meno questi avrà bisogno nel futuro di tutele assistenziali dirette ed indirette. Questa relazione inversa può essere ulteriormente precisata: se investo in capitale umano, dopo un certo tempo otterrò incremento della produttività, crescita non inflazionistica e
maggiore occupazione. (...) Così stando le cose, è evidente che politica educativa, welfare e mercato sono strettamente connessi tra loro. Di qui la domanda cardinale: l’attuale impianto universitario di casa nostra è adeguato per munire gli i giovani di un autentico patrimonio cognitivo? La risposta che il nuovo governo offre a questo interrogativo è negativa. Il sistema universitario italiano appare arretrato rispetto a quello di altri Paesi. Si tratta di una arretratezza che spesso non deriva dalla qualità del personale docente, ma dalla pesantezza della macchina amministrativa, dalla sua autoreferenzialità, dalla scarsità di rapporto e sinergia con soggetti esterni.
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PAGINAVENTIQUATTRO Continuano a crescere gli interessi (e le tensioni) lungo l’area che bagna l’America centrale
Dagli Usa a Chàvez, occhi puntati sul Mar dei CARAIBI di Maurizio Stefanini orna ad agitarsi il Mar dei Caraibi. All’origine ci sono i Caribe, gli indios che gli hanno dato il nome, oltre che alla pratica del cannibalismo e al gigante selvaggio Caliban, della Tempesta di Shakespeare, tanto per dare un’idea della fama che avevano. In alcune isole, al tempo di Colombo, c’erano uomini che parlavano una lingua e donne che ne parlavano un’altra: i Caribe ne avevano sterminato la popolazione maschile, prendendone le mogli. Poi vennero i pirati e corsari, i cui nomi squillanti sono stati tramandati nel libro di quel medico Alexandre Exquemelin, che dopo essersi imbarcato con loro ne creò la leggenda: Morgan il gallese e Pierre Nau l’Olonese, Roche Brasiliano e Montbars lo Sterminatore. Filibustieri delle repubbliche fai-da-te di Tortuga e di Port Royal e bucanieri cacciatori di bestie rinselvatichite. Gli arrembaggi di Emilio Salgari e i tesori nascosti di Robert Louis Stevenson e Edgar Allan Poe. Le fortezze con le muraglie a picco sul mare che gli ingegneri veneziani realizzarono per conto degli spagnoli a Cartagena, replicando le mura che a Famagosta avevano sostenuto l’assalto dei turchi, e la presa di quella Portobello che dà ancora il nome alla Porta Portese britannica. Oltre ai pirati e agli ultimi indios, tuttora sopravvissuti in una piccola comunità nell’isola di Dominica, anche inglesi, francesi, olandesi, danesi e svedesi contesero per tre secoli agli spagnoli quello strategico antemurale delle Americhe. E perfino i lettoni del Ducato di Curlandia, che tennero l’isola di Tobago tra 1654 e 1689.
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Nel 1878 la Svezia rivendette alla Francia il suo ultimo avamposto di Saint Barthélemy, da cui d’altronde l’aveva comprata nel 1784. Nel 1898 gli spagnoli ne furono definitivamente estromessi dopo la sconfitta nella guerra con gli Stati Uniti per Cuba e Portorico. Nel 1917 i danesi rivendettero a loro volta a Washington il loro ultimo possedimento delle Isole Vergini. Ma Francia, Regno Unito e Paesi Bassi mantengono tuttora nei Caraibi qualche tertritorio, assieme a qualche dipendenza Usa e a una quantità di Stati indipendenti, per lo più di dimensioni minuscole. E nel 1950, con la soppressione di quella Quarta Flotta Usa che era stata costituita apposta per
dinare le unità che verranno via via distaccate, per missioni ad hoc. Dal momento che la ricostituzione della Quarta Flotta ha suscitato un vespaio di polemiche in America Latina, con tanto di voto di condanna del Mercosur, l’ammiraglio Kernan insiste infatti che la preoccupazione principale è per le missioni umanitarie. Non a caso, le unità di riferimento di cui si parla sono soprattutto le portaerei Kearsarge e Boxer, spesso in prima linea nel caso di uragani e altre calamità. Ma una preoccupazione dichiarata è pure per il crescente boom del narcotraffico, e una implicita per le ondate di clandestini, e qui il tema già si complica. La rotta della droga tra Venezuela e le coste di Haiti e Repubblica Dominicana, infatti, è cresciuta soprattutto dopo che Chàvez ha espulso la Dea dal Paese. E d’altra parte la vicenda dei balseros tira subito in ballo le incognite sul dopo-Fidel. Ma su Cuba è poi circolata la voce che i russi avessero intenzione di rimandarvi bombardieri strategici, come rappresaglia per il dispiegamento dello scudo anti-missile della Nato in Polonia e Repubblica Ceca. Subito smentita, è vero. E anche Chàvez ha di recente manifestato la volontà di riprendere con gli Usa la cooperazione in materia anti-droga.
Il 24 aprile scorso il Pentagono ha annunciato a sorpresa la ricostituzione della Quarta Flotta degli Stati Uniti, facendo subito storcere il naso al Mercosur. Intanto, il leader venezuelano fa ”shopping” di sottomarini targati Mosca darvi la caccia ai sottomarini tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, quell’area un tempo tra le più contese del mondo sembrava aver definitivamente seppellito il suo passato turbolento.
Le stesse vicende cubane del 1961-62, tra fallimento dello sbarco della Baia dei Porci e crisi dei missili, avevano sì portato il mondo a un passo dall’olocausto nucleare, ma si erano poi rivelate una semmplice parentesi.Washington e Mosca si erano dunque accordate sul principio che l’Urss avrebbe potuto tenere nell’isola basi ma senza mettervi armi nucleari; mentre gli Usa avrebbero potuto mantenere il regime castrista sotto l’assedio economico dell’embargo, ma senza più tentarvi attacchi militari diretti. Con la crisi dell’Urss, la presenza militare russa è stata poi progressivamente smantellata; e da ultimo, nel 2000, anche l’ultima base di Lourdes è stata chiusa. Ma il 24 aprile scorso il Pentagono ha annunciato a sorpresa la ricostituzione della Quarta Flotta. E dal primo luglio il relativo comando è diventato pienamente operativo, sotto il comando dell’ammiraglio Joseph. D. Kernan e appoggiato alla base Mayport di Jacksonville, in Florida.Va detto che però non avrà navi assegnate in modo permanente. Si tratta in pratica di appena una trentina di persone, che si aggiungono alle 120 che già lavoravano a Mayport, e che dovranno semplicemente coor-
Lo stesso Chàvez sta però facendo ripetuti shopping a Mosca di sistemi d’arma, tra cui spiccano sottomarini in quantità. E cresce anche la tensione tra Nicaragua e Colombia, con il sandinista Daniel Ortega che a una storica rivendicazione irredentista sulle isole di San Andrés e Providencia ha ora aggiunto dichiarazioni filoFarc che hanno grandemente irritato Bogotà. Né mancano a Panama i reiterati allarmi su un possibile attacco al Canale, magari da parte di al Qaeda.