2008_08_01

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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Sottovalutato in Italia il fallimento del Doha Round

Insistiamo: se vincono i protezionisti il mondo è a rischio

di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

di Andrea Mancia

F

IL NUOVO PIANO PER ALITALIA

Inganno di Stato Air France avrebbe licenziato di meno e garantito un sicuro futuro strategico. Ma soprattutto: gli imprenditori privati vogliono aiuti pubblici e un’azienda senza debiti. Ma allora, non bisogna indire un’asta trasparente?

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alle pagine 2 e 3

Berlusconi e alcuni protagonisti della cosiddetta “cordata italiana”: Salvatore Ligresti, Gianluigi Aponte, Emma Marcegaglia e Gilberto Benetton Tensione sul federalismo fiscale

LIBERAL ESTATE Da oggi per tutto il mese di agosto, “Liberal Estate”. Nell’inserto di otto pagine le rubriche “Accadde oggi”, “Scrittori e luoghi”, “I vigliacchi della storia”, “I sentimenti dell’arte”, “Cruciverba” e “L’almanacco del giorno”

L’inflazione vola: scontro tra Stato e Regioni

orse quelli “strani” siamo noi. Se si esclude il commento di Federico Rampini pubblicato in prima pagina da Repubblica, a sfogliare i quotidiani italiani si fa una gran fatica a trovare qualche analisi di peso sul fallimento dei negoziati sulle liberalizzazioni in seno al Wto, che è stato l’argomento di “apertura” del nostro giornale di ieri. La stampa internazionale, al contrario, ha ben compreso la portata storica dell’evento, dando spazio ad una grande quantità di commenti da parte di economisti, storici e politologi, spesso ricordando che nel XX secolo la deriva protezionista e l’abbandono delle politiche di free-trade sono state tra le cause principali dei conflitti militari che hanno sconvolto il nostro pianeta. Per gli editorialisti del quotidiano economico statunitense Investor’s Business Daily, «il collasso del Doha Round sul commercio mondiale è qualcosa di più di un evento burocratico. È una tragedia per l’economia globale, sia per le nazioni ricche che per quelle in via di sviluppo». Il Wall Street Journal si chiede addirittura se si tratti di una «temporanea battuta d’arresto» o della «fine di quell’epoca del free-trade che tanto ha fatto per diffondere prosperità nel pianeta dopo la Seconda Guerra Mondiale». c o nt in u a a pa gi na 23

Proposta di legge popolare dei centristi

Preferenze: nasce l’asse Lega-Udc

L’uomo che ha salvato l’Akp

Babacan, il nuovo volto di Ankara

di Alessandro D’Amato

di Riccardo Paradisi

di Ilaria Ierep

L’inflazione cresce ancora. E con essa i guai per il governo. A luglio, infatti, l’aumento dei prezzi ha superato la soglia ”psicologica” del 4%, attestandosi al 4,1, in crescita rispetto al 3,8% di giugno.

Senza grandi intese niente grandi riforme. Eccolo il succo dell’incontro tra il ministro alla semplificazione legislativa, il leghista Roberto Calderoli, e il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini.

Il premier Erdogan ha indicato Babacan, quarantunenne ex ministro dell’Economia nel precedente gabinetto, come successore di Gul al ministero degli Esteri. Una nomina chiave per la Turchia.

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VENERDÌ 1 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

145 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Il progetto di Banca Intesa è chiaramente peggiore di quello di Air France e si configura come un vero e proprio “inganno di Stato”

«Questo è solo un regalo ad amici» colloquio con Bruno Tabacci di Francesco Pacifico

ROMA. «Ma perché Passera ed alcuni amici dovrebbero gestire tutto questo ben di Dio». Chiusa l’estate, la stagione d’oro per il turismo, al Tesoro verrà il momento di tirare le somme sul turnaround di Alitalia. E se la riforma della Marzano è la condizione necessaria per trovare imprenditori disposti a investire, è chiaro a tutti che i debiti di Alitalia – 1.115 milioni di euro a giugno, con 375 milioni in cassa e che brucia quasi mezzo miliardo al giorno – e almeno un quarto dei dipendenti finiranno a carico dello Stato. Corrado Passera, che da Ad di Intesa tira le fila per il salvataggio, dice a Repubblica che l’alternativa al piano «è il fallimento puro e semplice». Si profila così l’affidamento in bonis del marchio Alitalia, di un mercato in crescita come quello italiano e del poco di buono che rimane della compagnia di bandiera a carico del contribuente. «Un regalo ad alcuni amici», sintetizza Bruno Tabacci. Il deputato dell’Udc, che da tempi non sospetti denuncia i rischi e le contraddizioni dell’operazione, fatica a trovare nuove parole per commentare l’ultima evoluzione: «Questo è una forzatura che viene fatta nel silenzio quasi generale: ho visto e letto soltanto qualche timida critica. Eppure è una cosa letteralmente scandalosa, altro che regalo ad Air France… Il regalo lo si fa ad alcuni amici perché si deve dimostrare che si è voluto salvare Alitalia. No, questo non è un salvataggio». Intanto Gilberto Benetton, uno dei possibili componenti della cordata tricolore, ha già messo le mani avanti su un suo conflitto d’interessi in quanto azionista di Aeroporti di Roma, la società che gestisce Fiumicino… …e le autostrade? Sono mesi che ripeto, inutilmente, il rischio che si corre facendo partecipare alla cordata taluni concessionari pubblici. Sembra che vengano pregati per fare una cortesia, quando gli è stato già riconosciuto un premio come accaduto con la nuova concessione autostradale. E il contribuente ringrazia. E paga due volte: prima con il prelievo fiscale utilizzato per i 300 milioni del prestito ponte, poi attraverso le tariffe visto che si facilita il lavoro dei con-

cessionari in altri campi. Veramente potrebbe pagare anche tre volte se il tesoretto, anziché essere utilizzato per tagliare le tasse, fosse destinato ai debiti di Alitalia. Quest’operazione si regge sul fatto che si consegna alla Newco un attività sgravata dai debiti, e che la cassa integrazione speciale per i lavoratori e il passivo sia posto a carico della fi-

scalità generale. Il commissariamento avrebbe invece tenuto assieme l’azienda, bloccato l’indebitamento, ma non tagliato i debiti. Allora che fare? A questo punto, se proprio il governo deve fare quest’operazione, che sia messa a gara l’azienda. Magari sono interessati altri soggetti. Non le bastano gli esiti delle due aste precedenti?

Il deputato dell’Udc chiede un bando di gara: «Perché tutto questo ben di Dio dovrebbe essere gestito da Passera e dalla cordata italiana. Da gente che potrebbe rivendere, forse ai francesi, tra 20 mesi?» Bruno Tabacci, nella foto qui sotto. Nella pagina a fianco: Carlo Toto (in alto a sinistra) e Corrado Passera (in basso a destra)

Una sostanziosa plusvalenza per il patron di Air One

Niente cordata, ma soldi sonanti anche per Toto

A parte che l’ultima non è stata fatta male: intanto si vendeva Alitalia nella sua interezza, eppoi Air France si era candidata ad acquistare tutto. Ora la stanno svendendo: sono stati tirati via i debiti, 5mila persone finiscono in un altro contenitore. E poi perché deve essere questo gruppo a gestire tutto questo bene di dio? Non si fida di loro? Non sono operatori del settore. La terranno per 20 mesi e poi la rivenderanno a prezzo maggiorato. Forse anche ad Air France. Eppoi in quest’operazione non c’è logica di sistema, non si guarda a quanto sta avvenendo in Europa dove i tre grandi gruppi (Lufthansa, Air France e British) tendono a competere integrando le loro piattaforme per offrire un servizio migliore al cliente. E vendendo ai francesi questo processo si poteva attuare. Invece il piano Passera si fonda sul monopolio della Linate-Fiumicino. Non mi voglio addentrare su un aspetto che soltanto il mercato può definire. Dico soltanto che, per come stanno le cose, a pagare saranno i viaggiatori. E pagheranno di più. A differenza di altri. C’è un’ipotesi che tende ad avvantaggiare alcuni investitori. Vengono chiamati a sal-

ROMA. Per Carlo Toto sembra precluso l’ingresso nella tolda di comando della nuova Alitalia. Ma l’imprenditore abruzzese potrebbe non farsene un cruccio, riuscendo a comunque a chiudere un’operazione con una sostanziosa plusvalenza. Anche grazie al suo maggiore sponsor bancario, IntesaSanpaolo advisor del Tesoro nella vendita di Alitalia. Corrado Passera – stando alle confessioni carpite da Eugenio Scalfari e riportate ieri su Repubblica – ha detto che non è prevista alcuna fusione tra Alitalia e AirOne e che si acquisteranno da questa alcuni parti come «flotta aerea, tutte le autorizzazioni di cui dispone, tutti i contratti di nuovi aerei». Si profilerebbe quindi una bad company anche per la creatura di Toto. Ieri questa ricostruzione è stata in parte (e ufficiosamente) smentita da Ca’de Sass. Ma sono in molti, tra gli imprenditori italiani contatti per la cordata, a non voler avere a che fare con Toto. Il quale ha però la necessità di alleggerire la sua posizione debitoria. E qual è la banca con la quale ha la maggiore esposizione? Guarda caso IntesaSanpaolo. Dati ufficiali non ce ne sono perché il bilancio consolidato della Ap Holding non è stato ancora disponibile (si sa soltanto che il 2007 si è chiuso con un rosso di 1,3 milioni), ma

vare la bandiera in cambio di chissà quali cose: in realtà fanno semplicemente un buon affare. In più c’è una banca, in chiaro conflitto d’interesse, che è un po’ è advisor un po’ è azionista. E che soprattutto deve sistemare i debiti di un suo cliente. Il signor Carlo Toto. Ma su questo, come in futuro sul monopolio della Milano Roma, non dovrebbe intervenire l’Antitrust? L’Antitrust? Intanto dovrebbero intervenire i giornali. Ma come si fa, se i loro azionisti sono le banche? Resta il fatto che sta passando l’idea che il problema di Alitalia sia stato quel pizzico di concorrenza portato da AirOne. E che deve essere eliminato. È un problema non tanto di Antitrust, ma di cultura, di tendenza al monopolio concorrenziale. Che è insito in questo ceto imprenditoriale che vuole e consente il mercato soltanto casa d’altri. Glielo permette anche la confusione del governo. Che dire di più sul governo. Non si può certamente giudicarlo in maniera peggiore di quanto abbiamo fatto finora: è andato al di là di ogni considerazione: il centrodestra prima si scannato in campagna elettorale, ha agito a Borsa aperta trattando le azioni come se fos-

voci mai smentite dicono che la banca di Bazoli e Passera avrebbe in capo almeno il 70 per cento dei debiti, che in totale supererebbero i 200 milioni di euro e nel cui computo vanno inseriti i quasi 90 aeromobili che la società ha comprato o opzionato. Toto, che a quanto pare lavora per tenersi il ramo che raccoglie i suoi aerei (Ap Fleet) e trasformarsi in un concessionario in leasing, intanto può mettere sul piatto la sua uscita sul mercato italiano, che ridarebbe all’Alitalia il monopolio sulla Linate-Fiumicino. Nel city airport milanese si è garantito 18 slot: valore in media di ognuno tra i 4 e i 5 milioni di euro. Appettibile per la futura Alitalia poi la flotta nuova di zecca sul medio raggio (la Magliana deve disfarsi dei vecchi MD80) che Toto sta creando con gli Airbus A330: 50 comprati e non tutti consegnati, un’altra decina opzionati, che valgono in media tra 700 e i 800 milioni di euro l’uno. Mr AirOne non ha ancora finito di pagarli. E le risorse potrebbe dargliele Alitalia. Così prendersi i pezzi migliori di Toto potrebbe costare alla cordata italiana fino a 500 milioni. Ma per comprare aerei e slot l’unica soluzione resta l’acquisto di un ramo d’azienda. Quello che Passera ha ventilato a Scalfari.


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Gli imprenditori italiani non sono propensi a rischiare

Soldi privati o di Stato? di Gianfranco Polillo litalia: primo spiraglio, ma solo il tempo dirà se le rose fioriranno. I problemi non mancano. Quello più urgente è recepire i 700 – 800 miliardi che mancano all’appello. Dovrebbe essere compito della “cordata”. Ma deve trattarsi anche di denaro “vero”. Ossia di un investimento a capitale, con tutto quello ch’esso comporta: compresa la possibilità di aver giocato sul numero sbagliato e perdere la posta. Problema non semplice per un capitalismo, come quello italiano, più propenso ad investire i soldi degli altri – risparmiatori e contribuenti – piuttosto che aprire il portafoglio. Se non fosse stato così, oggi Telecom sarebbe come Telefonica e non quell’agglomerato di potere che incute timore e gioca a rimpiattino con il potere della politica.

A

La seconda condizione è quella di individuare un vero “capo d’azienda”. Qualcuno cioè disposto a credere in un’impresa difficile se non disperata. Ancora una volta il riferimento è al caso Telecom. Il “nocciolino” di allora, quando per controllare una delle più grandi aziende europee di comunicazione bastava un pugno di euro, fallì per i contrasti interni a quella piccola cordata. Dove ciascuno – banche, Ifil e quanti altri - erano più interessati a spartirsi le spoglie di un potere residuo che non a “fare industria”. Ossia sviluppare la società lungo le grandi autostrade della tecnologia. Un rischio che, per Alitalia, deve essere evitato. Inquieta, sotto questo profilo, la recente intervista di Benetton che ha messo le mani avanti, facendo balenare l’idea di compensazioni. Se dovesse essere vera l’ipotesi del “do ut des” di cui parla Eugenio Scalfari, nel suo lungo colloquio con Corrado Passera, si partirebbe con il piede sbagliato. Certo, gli imprenditori italiani non sono dei santi. Come diceva il vecchio Marx, prediligono il pagamento in contanti. Ma questo vale in una normale condizione di mercato. Quando le cose vanno bene ed il profitto è la misura dell’efficienza. Il caso Alitalia è diverso. Si tratta di mettere la parola fine ad una storia di errori e di catastrofi che dura da troppo tempo. Il rischio dell’insuccesso esiste. Ma che dovrebbero fare allora quei 5.000 – sempre che siano solo questi – lavoratori che rischiano di rimanere a casa non si sa per quanto tempo? Considerazioni extra-economiche? Certamente. Ma il prezzo dell’egemonia diceva un grande economista come Kindleberger – lasciamo in pace Antonio Gramsci – è la somma algebrica di vantaggi ed oneri. La crisi del ’29, sempre secondo la sua tesi, fu conseguenza della miopia americana. Divenuti potenza egemone, dopo il primo conflitto mondiale, gli Usa non se ne resero conto e, di conseguenza, non esercitarono quella funzione di leadership che il mondo richiedeva loro. Le conseguenze, com’è noto, furono catastrofiche, non solo per i poveri cristi. Il capitalismo, in quanto tale, ne uscì a pezzi, mostrando a tutti le lacune dei vecchi gruppi dirigenti. Che da allora furono affiancati e spesso sostituiti dai nuovi manager pubblici.

Lezioni di storia: che tuttavia non andrebbero dimenticate. Perché la partita che si gioca, al di là della finanza e dell’economia, è tutta qui. Esiste una classe dirigente? Se c’è batta un colpo e dimostri che di fronte a problemi di quella complessità, la profezia del vecchio Marx può essere smentita. Se sarà così, intorno ad Alitalia potrà sorgere una nuova coesione sociale. Ma se inizierà una nuova epoca di furbizie e di particolarismi, tutto diverrà più difficile, se non proprio impossibile. Del resto l’esigenza di un simile impegno si può desumere dalle grandi difficoltà del momento. Con il prezzo del petrolio alle stelle, la crisi dell’intero settore è inevitabile. Lo dimostrano i fallimenti che negli ultimi mesi si sono succeduti, le difficoltà finanziarie delle compagnie low cost: RyanAir innanzitutto. Quelle soluzioni che solo qualche anno fa sembravano la panacea di tutti i mali, dimostrano tutta la loro fragilità. Con i costi delle materie prime ai livelli attuali non basta riempire gli aerei. Occorrono solide basi finanziarie ed un management – di nuovo torniamo alla necessità di un “capo azienda” – capace di misurarsi con le difficoltà del mercato.

Attenzione, tuttavia, non è una missione impossibile. Per fortuna, in Italia, esiste il paracadute dell’euro, che riduce i costi del carburante. La politica, inoltre, può rappresentare un piccolo volano. Il Presidente del consiglio, in questa vicenda, gioca gran parte della sua credibilità. Le banche, colpite meno di altri dalla crisi dei subprimes, possono fare la loro parte. Resta l’incognita sindacale. Ma se lo sforzo sarà corale, sarà difficile potersi tirare nuovamente indietro. Molte difficoltà, se prevarrà quello “spirito repubblicano” a cui spesso Giulio Tremonti si richiama, possono essere superate. Resta l’incognita dei soldi. Le risorse necessarie per finanziarie la bad company: facendo fronte ai relativi debiti ed agli ammortizzatori sociali, necessari per non disperdere il patrimonio di esperienze degli ex dipendenti di Alitalia. A questo dovrà provvedere il ministro per l’Economia. Problema di non semplice soluzione, viste le precarie condizioni della finanza pubblica. Ma anche in questo caso non bisogna disperare. Forse nelle pieghe del bilancio qualche riserva esiste ancora, stando almeno agli ultimi dati disponibili: andamento delle entrate e del fabbisogno dello Stato. Fieno messo in cascina per far fronte a scadenze ugualmente impegnative. Ma l’arte del governo è saper scegliere. Tremonti dovrà quindi decidere come impegnare quel poco che gli è rimasto, sempre che gli sia rimasto. Noi crediamo che l’antica promessa del governo Berlusconi di finanziare gli ammortizzatori sociali è tempo che sia onorata. Saranno soldi spesi bene, se potranno consentire una chiusura del cerchio, realizzando, nei fatti, quella solidarietà nazionale che è la premessa, tutta politica, del rilancio della Compagnia di bandiera.

La partita che si gioca, al di là della finanza è tutta qui: esiste una classe dirigente?

Per Tabacci è un rischio l’ingresso nella Newco di concessionari di licenze pubbliche: «I cittadini pagheranno due volte, prima le loro tasse sono servite per il prestito, poi subiranno tariffe più alte» sero fagioli in una pentola, quindi ha lanciato quest’operazione di salvataggio in chiaro conflitto d’interesse. Tra i silenzi imbarazza quello del sindacato. Hanno la coda di paglia. E dovrebbero pure mettersi ancora a parlare? Ma sono quelli che hanno fatto scappare anche Lufthansa: l’azienda tedesca fece un sondaggio tra i suoi lavoratori e tutti dissero di stare lontani dal sindacato italiano. Eppoi dal 1994 a oggi hanno assecondato gli Schisano, i Riverso, i Cempella, i Mengozzi, i Cimoli, i Libonati, i Prato, i Police. E hanno concorso al disastro Alitalia. Cosa vogliano?

La cordata italiana gli farà riavere peso? Peso? Ma che peso possono avere con 5mila persone che perdono il lavoro. Onorevole Tabacci, da due anni a questa parte l’unica novità nel trasporto aereo è che Malpensa, abbandonata da Alitalia, sta vedendo i suoi slot occupati da Lufthansa. Ma non dove chiudere miseramente? Se Malpensa è in grado di svolgere la sua funzione come aeroporto importante e tendenzialmente come hub, e saprà recupere il gap di collegamento con l’area padana, non arriverà soltanto Lufthansa.


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politica

I centristi in Cassazione lanciano una proposta di legge popolare e Calderoli le prevede nella riforma elettorale europea...

L’asse Lega-Udc Il rilancio delle preferenze unisce Bossi e Casini di Riccardo Paradisi ROMA. Senza grandi intese niente grandi riforme. Eccolo il succo dell’incontro tra il ministro alla semplificazione Roberto Calderoli e Pierferdinando Casini. Incontro dove alla proposta di federalismo e di riforma elettorale per le europee proposte dal ministro leghista si registra la soddisfazione del leader centrista. Che definisce il federalismo di Calderoli minimalista per la Lega e realista per l’Udc e la legge elettorale – soglia di sbarramento al 4 per cento, preferenza unica, aumento delle circoscrizioni a dieci o quindici, il recupero dei resti su base

nazionale – un testo di legge migliore di quello presentato dal Pdl alla Camera. Un asse Lega Udc? Se non proprio questo forse qualcosa che gli assomiglia. La proposta Calderoli, che stamattina verrà presentata al Consiglio dei ministri, appare come la media ponderata rispetto ai disegni di legge che Partito democratico e Pdl avevano depositato alla Camera.

Il di segn o di legge del Pd chiedeva infatti la soglia di sbarra-

mento al 3 per cento e fino a due preferenze ma con l’obbligo della differenza di genere, quello del Pdl invece la fissava al 5 e le liste bloccate al posto delle preferenze (che oggi sono fino a un massimo di tre). Calderoli avrebbe trovato un onorevole compromesso che più di tutti soddisfa il centro. Ma che viene accolto positivamente anche dai democratici che riconoscono alla maggioranza l’aver fatto scendere la soglia di sbarramento dal 5 al 4 per cento, un quorum abbastanza vicino al 3 per cento proposto dal Pd per poter dire di avere vinto una battaglia.

Il centro invece coglie l’occasione della modifica di legge elettorale per le europee per andare oltre proponendo la riforma anche per quella che regole le elezioni politiche. «Devono essere i cittadini a scegliere i propri rappresentanti e non i segretari di partito» dice il segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa dopo aver depositato alla Corte di cassazione la proposta di legge d’iniziativa popolare per la reintroduzione del voto di preferenza alle elezioni della Camera dei deputati. Una battaglia che i centristi hanno intenzione di trasferire da subito «sulle spiagge, in montagna in tutti i luoghi di vacanza, raccogliendo le firme per il ritorno al voto di preferenza e per restituire ai cittadini la loro capacità di scelta contro le oligarchie dei partiti». A prendere la palla al balzo è anche il Partito socialista: «Qualcosa si muove – registra il segretario

A sinistra il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli; in alto il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa con Pier Ferdinando Casini e in basso il costituzionalista Stefano Ceccanti nazionale Riccardo Nencini – sul fronte della reintroduzione del voto di preferenza. Dopo la presentazione della legge elettorale per le europee e prima che il disegno di legge vada in aula faremo un appello nominale con il quale interrogheremo tutti i leader a pronunciarsi sullo sbarramento e sul voto di preferenza». Tutti contenti dunque? Mica tanto. Contrariato e parecchio è il segretario della Destra

Per Stefano Ceccanti del Pd questo sistema discrimina le donne

«Le preferenze avvantaggiano il Centro, non c’è più il voto utile»

Francesco Storace. L’ex governatore della Regione Lazio mena fendenti sia sul metodo sia sul merito della modifica alle legge elettorale. «Si vogliono soffocare le voci libere di questo Paese alle elezioni europee – dice a liberal Storace – non solo, siamo al punto che dribblando la via parlamentare è il governo a farsi promotore di una legge elettorale». Storace promette però che la

ROMA.

Costituzionalista, esponente del Partito democratico, Stefano Ceccanti sembra moderatamente soddisfatto del compromesso trovato dal ministro Roberto Calderoli sulla legge elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo. Anche se Ceccanti vede quelli che secondo lui sono i limiti della legge. A partire dalla preferenza unica. Perché la preferenza unica è sbagliata secondo lei? Sostanzialmente per un motivo: perché rischia di tenere le donne fuori dal Parlamento europeo. Per questo la proposta del Partito democratico era la doppia preferenza di genere, che consentirebbe finalmente un sistema di pari opportunità reali nella competizione elettorale. Sull’aumento del nume-


politica uscite pesantemente sconfitte dalle urne». Meglio dunque la doppia preferenza di genere, «unica norma – secondo Arcidonna – capace di ridurre realmente il gap di rappresentanza tra uomini e donne».

Un’intesa che può sbloccare il dialogo sulle riforme

Doppia o unica che sia la

di Giancristiano Desiderio

di centrosinistra che applaude». In effetti sembra ci sia un accordo di fondo tra maggioranza e opposizione su questo passaggio mentre resta il nodo

sburgo : «Da quando nel nostro Paese si è votato con la preferenza unica, protesta l’associazione femminile vicina alla sinistra, le donne sono

preferenza è comunque un mezzo per restituire lo scettro all’elettorato secondo Alessandro Campi, politologo dell’Università di Perugia. «Solo che se si vota con la preferenza alle europee perché non farlo anche alle politiche? Sembra mancare una filosofia ispiratrice unitaria in queste riforme elettorali fatte assecondando ogni volta contingenze e soprattutto convenienze politiche del momento. La soglia di sbarramento poi – senza dubbio utile per evitare l’eccessiva frammentazione politica – è diventato lo strumento per tenere fuori dal Parlamento chi non si desidera ci entri». Ad essere invece contrario alla reintroduzione della preferenza è il costituzionalista Augusto Barbera: «Io avrei auspicato il superamento delle preferenze: nessuna democrazia importante ce l’ha. Questa lunga polemica sulle liste bloccate è stata fuorviante, ha partorito una falsa soluzione». Il sistema delle preferenze, secondo Barbera, non sarebbe infatti l’unico in grado di far scegliere i cittadini. «Ci sono altre soluzioni, i collegi uninominali, i collegi piccoli. Il sistema delle preferenze richiede ingenti risorse finanziarie a ciascun candidato dando potere ai gruppi di pressione o a canali illeciti di finanziamento».

ro delle circoscrizioni che la bozza Calderoli sembra prevedere invece siete d’accordo? Non conosciamo le circoscrizioni previste da Calderoli, però la quantità di cui si parla

dovrebbe essere simile alla nostra. Nel nostro disegno le circoscrizioni dovrebbero essere una decina, un numero sufficiente e necessario a instaurare un rapporto più stretto tra eletti ed elettori mentre resta fissato il principio che i seggi vengono assegnati sul computo dei voti nazionali. Si parla da mesi di liste bloccate, ora si va a votare con le preferenze. Guardi io in linea di principio sono contrario al sistema delle preferenze. Perché? Perché scatena nei partiti una competizione interna inopportuna. L’alternativa al voto di preferenza però sono o il collegio uninominale, che si può adottare alle politiche, o liste corte in collegi piccoli tipo quelli spagnoli. La scelta della preferenza alle europee perciò mi sembra quasi obbligata.

Lo sbarramento al 4 per cento vi va bene? Noi votiamo lo sbarramento al 3 indicato dalla nostra proposta. Apprezziamo però che dal 5 per cento che avevano proposto siano scesi al 4. Ceccanti con lo sbarramento al 4 per cento le forze politiche minori rientrano nel gioco politico. La preoccupa il ritorno di Rifondazione comunista sulla scena? Io credo che Rifondazione comunista dopo la sua recente radicalizzazione perderà ancora voti. E poi la distribuzione degli elettori è a campana: centrosinistra, centro, centrodestra. Senza più ”voto utile” Più che le estreme a guadagnare consenso alle europee potrebbe essere il centro. (Ric.Par)

destra venderà cara la pelle: «La nostra protesta sarà durissima. Civile ma inflessibile. Se è la democrazia ad essere in gioco non possiamo stare a guardare come l’opposizione

della scelta tra preferenza e lista bloccate e si discute anche sulla valenza della preferenza unica. Per Arcidonna viatico sicuro per lasciare fuori le donne dal Parlamento di Stra-

Il compromesso dello sbarramento al 4 per cento accontenta tutti. Tranne Rifondazione e La Destra. Storace promette proteste durissime

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Resta da vedere come reagirà Berlusconi

i sono almeno tre buoni motivi per sostenere l’iniziativa del partito dei cattolici liberali per la reintroduzione delle preferenze nella legge elettorale nazionale: perché le preferenze ridanno all’elettore la possibilità di scegliere l’eletto; perché il medesimo principio è ribadito nel ddl presentato da Umberto Bossi proprio oggi in Consiglio dei ministri e, di conseguenza, condiviso dalla maggioranza per la nuova legge elettorale europea; perché su questo “terreno comune” del principio della preferenza c’è la concreta possibilità di riprendere il filo del dialogo, come giustamente auspicato dal presidente Napolitano. È bene, del resto, che il dialogo sulle riforme riprenda proprio da qui, dal modo in cui si elegge il Parlamento, perché la legge elettorale è parte determinante per maturare buone riforme e un bipolarismo virtuoso.

C

La scelta dell’Udc. È da tempo che Pier Ferdinando Casini insiste sulla necessità di introdurre le preferenze. Il valore della preferenza non è assoluto, ma l’attuale legge elettorale è il peggio del peggio. Le preferenze introdurrebbero un elementare principio di scelta ed eviterebbero l’elezione dei parlamentari attraverso la imposizione delle segreterie dei partiti. Un Parlamento scelto non dagli elettori, bensì dai partiti e legittimato in seconda battuta dal voto popolare è antidemocratico. Le preferenze riporterebbero la logica democratica alla sua giusta dimensione: i partiti propongono, gli elettori scelgono ed eleggono. La scelta degli elettori avrebbe anche una seconda e non secondaria conseguenza: la competizione tra i candidati. L’ultima campagna elettorale - per ammissione universale di candidati, politici ed osservatori - è stata la peggiore della storia. Le preferenze, almeno in teoria, dovrebbero migliorare la legge reintroducendo scelta, competizione e, chissà, magari anche quella competenza che qualificherebbe meglio la classe dirigente. La bozza preparata da Roberto Calderoli prevede che per le Europee si vada al voto con il sistema pro-

porzionale sì, ma con lo sbarramento al 4 per cento, dieci circoscrizioni e una preferenza. Su quest’ultimo punto c’è una riduzione: si passa, infatti, dalle 3 preferenze della legge attualmente in vigore, ad una sola preferenza. La bozza Calderoli, dunque, è in contrasto con la battaglia per le preferenze dell’Udc? Sembrerebbe così ma, come è noto, a volte le apparenze ingannano. Nella nuova legge elettorale, come è immaginata dal ddl presentato dal ministro per le Riforme, è mantenuto proprio il principio delle preferenze. La sostanza è valida: preferendo la preferenza ci si incontra sul terreno comune per il dialogo. Possibile?

Il dialogo che non c’è. Il presidente della Repubblica, solo qualche giorno fa, ha richiamato partiti, coalizioni e leader a riprendere il dialogo, «altrimenti il Paese rischia». L’incontro sulla legge elettorale non solo appare possibile, ma è necessario. Qui, però, le strategie dei partiti e - in particolare - di Forza Italia divergono. Forza Italia e non il Pdl perché, stando ai fatti, Forza Italia ancora c’è, mentre il Pdl è di là da venire. E proprio l’esistenza del partito del premier e il controllo monarchico che il presidente del Consiglio esercita sui suoi deputati e sui suoi candidati fa sì che il dialogo proceda a rilento, sia quasi immobile. Quella “legge porcata” - secondo la icastica espressione di Calderoli - ha consentito a Berlusconi di maturare la più ampia vittoria elettorale che la storia repubblicana ricordi e, dulcis in fundo, gli ha permesso di eleggersi da sé la maggioranza parlamentare. È, dunque, un segreto di Pulcinella il pensiero di Berlusconi sulla legge elettorale e la sua riforma: niente preferenze. La quadratura del cerchio, come sempre, è ardua. L’iniziativa dell’Udc ha il merito di proporre una direzione per la riforma della legge elettorale. È da vedere cosa si risponderà. Perché almeno questo è un dato certo: la legge elettorale va cambiata, ridando facoltà di scelta ai cittadini e salvaguardando il valore dell’alternanza.

La politica torni alla sua giusta dimensione: i partiti propongono, gli elettori scelgono


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politica

Tensione sul federalismo fiscale: gli enti locali minacciano la rottura. Tremonti sotto accusa

L’inflazione vola. Scontro Stato-Regioni d i a r i o

di Alessandro D’Amato

d e l

g i o r n o

Manovra, il Senato oggi vota la fiducia Il voto di fiducia sulla manovra economica al Senato si svolgerà stamattina. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama. L’annuncio è stato dato dal capogruppo del Pdl, Maurizio Gasparri. La Finanziaria potrebbe approdare per la prima volta prima delle ferie estive sul tavolo del Consiglio del ministri. Secondo quanto si apprende da fonti parlamentari, il ministro dell’economia Giulio Tremonti potrebbe presentare già domani ai colleghi del consiglio dei ministri il disegno di legge per la Finanziaria 2009.

Schifani: «Riforma Csm non è uno scandalo»

Nichi Vendola

Roberto Formigoni

ROMA. L’inflazione cresce ancora. E con essa i guai per il governo. A luglio, infatti, l’aumento dei prezzi ha superato la soglia ”psicologica”del 4%, attestandosi al 4,1, in crescita rispetto al 3,8% di giugno. E, dato poco consolante, il costo della vita italiano si allinea perfettamente a quello del Vecchio Continente, visto che anche Eurostat stima in zona euro un 4,1%; una voragine rispetto a quella programmata dall’esecutivo nel Dpef – che viene utilizzata per i rinnovi contrattuali -, che rimane al di sotto del 2%. Fanno paura i dati su energia ed alimentari: +16,6% la crescita su base annua per la prima, +12% per pane e cereali. Boom anche per tabacchi (+5,4%) e servizi balneari (+8%). Secondo l’Isae, anche se nella seconda metà dell’anno cominciasse il rallentamento, la crescita del costo della vita annuo sarebbe del 3,6%: il più elevato dal ’96. E mentre Catricalà se la prende con il sistema alimentare “ingessato”, Scajola chiede “più controlli sui prezzi con le materie prime in calo”. Basterà?

Cresce poi la tensione sul federalismo fiscale, dove siamo al vero e proprio scontro istituzionale. Sia tra Regioni e governo che all’interno stesso dell’esecutivo. Ieri Berlusconi ha incontrato insieme al fido Gianni Letta e ai ministri Maurizio Sacconi e Raffaele Fitto una delegazione degli Enti Locali. Significativa l’assenza di Giulio Tremonti, che si era già reso protagonista di una serie di scontri con Roberto Formigoni, governatore della Lombardia, durante i precedenti incontri. Che quello di oggi fosse in qualche modo una tappa interlocutoria lo si è capito dalle assenze più che dalle presenze, ma anche dal fatto che Berlusconi ha cominciato l’happening illustrando ai presidenti delle Regioni l’attività internazionale del governo. Il suo significato politico ce l’ha comunque avuto, visto che è stato teatro, secondo il governatore della Puglia, Nichi Vendola, di uno scontro “virtuale” tra Letta e Tremonti: «Anche se il ministro per l’Economia non era presente, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio continuava a ripetere che bisogna trattare con riguardo e rispetto le regioni altrimenti è tutto inutile. Stiamo assistendo alla solita commediola all’italiana». E a rincarare la dose ci ha pensato il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero: «Formalmente c’è stata un’apertura da parte del presidente Berlusconi. Però, le preoccupazioni restano immutate se non vedremo immediatamente dei

fatti concreti». Tanto che si comincia a mormorare di una coalition of the willings degli Enti Locali contro le incertezze dell’esecutivo: «Siamo ad un passo da una rottura definitiva dei rapporti in sede di Conferenza Stato-Regioni - ha aggiunto Loiero - e questo pericolo è stato avvertito da Berlusconi, il quale ha promesso sia pari dignità che una consultazione preventiva sui provvedimenti da adottare».

A parte il folklore, resta il problema. Bocciata la proposta di legge fatta dalla Regione Lombardia in quanto le simulazioni – effettuate per il gruppo parlamentare del Pd e ritenute “valide”da Tremonti in persona – hanno indicato una serie di squilibri di spesa incolmabili, la bozza di ddl inviata alle regioni da Calderoli prevede «il finanziamento integrale garantito, sulla base dei costi standard, delle prestazioni essenziali in materia di sanità, istruzione e assistenza e l’adeguato finanziamento del trasporto pubblico locale», attraverso tributi propri: Irap, o quello che diventerà, altri tributi regionali, compartecipazioni regionali all’Irpef e all’Iva, e con con quote specifiche del fondo perequativo. Il problema, fanno sapere dall’entourage di uno dei presidenti di Regione, è che la difficoltà sta nel definire dei costi standard validi per l’intero territorio nazionale e per tutte le funzioni interessate, comprese quelle “protette” come la sanità. Un lavoro apparentemente tecnico, ma che richiederà tempi ben più lunghi dei sei mesi previsti dal ddl per l’emanazione dei decreti ministeriali di attuazione. Difficile sarà anche quantificare il significato di “adeguata perequazione”e quali saranno i nuovi tributi regionali che sostituiranno l’Irap. Tutti problemi difficili da risolvere nei tempi brevi che pretende la Lega. Per questo c’è chi pensa che nel governo sul federalismo fiscale ci sono due velocità: quella di Calderoli, accelerata al massimo, e quella di Fitto che invece tira il freno a mano. E infatti proprio l’ex governatore della Puglia ha dichiarato ieri che “i rapporti con le regioni cambieranno”, aggiungendo che «forse per la volontà di accelerare i tempi si è sacrificato il metodo», L’emiliano Vasco Errani, invece, ha rincarato la dose: «Bisogna smetterla con atti unilaterali e dare risposte concrete su questioni come il patto della salute, il cui mancato rispetto è inaccettabile, e il fabbisogno sanitario per il 2010 -2011, sottostimato di 7,5 mld di euro».

A luglio l’aumento dei prezzi ha superato il 4%. Alle stelle energetici e alimentari: +16,6% e +12% in un anno

«Non considero uno scandalo parlare di riforma del Csm»: lo ha detto il presidente del Senato Renato Schifani nel corso della cerimonia del Ventaglio a Palazzo Giustiniani. «Non in una chiave conflittuale - ha aggiunto - perché lo spirito è un altro». Quanto alla possibilità di reintrodurre l’immunità per i parlamentari, Schifani ha aggiunto: «La politica non deve tornare a difendersi attraverso l’istituto dell’autorizzazione a procedere». Questa misura, ha aggiunto «può risolvere il problema ma accentuerebbe lo scontro tra maggioranza e opposizione e farebbe tramontare ogni ipotesi di dialogo».

Rai, slitta ancora la riunione del Cda Il Consiglio di amministrazione della Rai è stato convocato oggi alle 14 «per motivi di urgenza». Anche ieri, infatti, è mancato il numero legale: erano infatti presenti il presidente, Claudio Petruccioli e i consiglieri di centrosinistra Nino Rizzo Nervo, Carlo Rognoni e, in videoconferenza, Sandro Curzi. Presente al completo anche il collegio sindacale (con uno dei componenti in collegamento telefonico).

La Romania boccia il governo sui nomadi «Il governo romeno non approva, ripeto non approva, parte o gran parte delle misure del governo italiano» contenute nel pacchetto sicurezza per i nomadi. Lo ha sottolineato il presidente romeno Traian Basescu in una conferenza stampa a Palazzo Chigi con il premier Silvio Berlusconi. «Le impronte ai bambini saranno prese con l’autorizzazione dei genitori, del tutore legale o altrimenti alla presenza di un giudice», ha aggiunto Basescu. «Vorrei farvi notare che la metà dei poliziotti romeni sono di etnia rom», ha affermato il presidente romeno. Sulla raccolta delle impronte digitali ai bambini rom, sostiene Berlusconi, c’è stata una «disinformazione completa» perché l’intento del governo è identificare i minori, e gli adulti, per garantire loro ”diritti”. Il premier aggiunge peraltro che già l’Ue l’anno scorso ha deciso che tutti i passaporti dei cittadini europei rechino le impronte digitali dei titolari perché «l’identificazione è un fatto primario».

L’Italia ratifica il trattato di Lisbona Dopo il Senato anche la Camera ha approvato all’unanimità il trattato. L’unica eccezione arriva dai banchi della Lega Nord: i deputati del Carroccio al momento della proclamazione sono rimasti seduti in silenzio.

Eluana: la Camera dice sì al conflitto attribuzione L’Aula della Camera ha deciso di sollevare alla Corte costituzionale conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sul caso Eluana Englaro, la ragazza in coma da 16 anni. La votazione è avvenuta con il sistema elettronico senza la registrazione dei voti. Hanno votato a favore solo deputati del Pdl, della Lega e dell’Udc; contro hanno votato quelli dell’Idv. I deputati del Pd non hanno preso parte alla votazione.


economia

1 agosto 2008 • pagina 7

Molti ecologisti, un tempo contrari hanno ora cambiato idea. Tra questi una divulgatrice scientifica del New York Times

Nucleare, l’autocritica di Gwynet di Alfonso Piscitelli l nucleare, una via da riprendere e da ripercorrere. Potrebbe essere questo il leitmotive in un momento di ripensamento dell’utilità e degli effetti dell’energia nucleare. Interessanti, in questa fase, risultano i contributi di coloro che in passato si sono battuti contro l’impiego dell’atomo e che oggi hanno maturato una convinzione opposta. Giova talvolta ascoltare le tesi di chi ha cambiato idea. Gwynet Cravens, scrittrice e divulgatrice scientifica per il New York Times, per il Washington Post ha espresso le sue argomentazioni in materia di risorse energetiche in un libro recentemente pubblicato da Mondadori in Italia dal titolo inequivocabile: Il nucleare salverà il mondo. La verità nascosta su un’energia pulita. La Cravens per anni ha militato nelle associazioni ecologiste, ha manifestato contro le centrali nucleari, ha cercato di ampliare il proprio background di conoscenze scientifiche appunto per dare spessore alle proprie battaglie per la salvaguardia dell’ambiente.

I

Ma proprio frequentando scienziati, visitando centrali atomiche e comparandole con gli impianti che utilizzano il carbone è giunta ad una conclusione che le sarebbe apparsa assurda qualche anno prima: l’energia nucleare è la più efficiente ed economica, ma anche la più “pulita” tra le varie fonti attualmente disponibili. Dell’economicità del nucleare rispetto alle alternative dei combustibili fossili comincia ad essere persuasa la maggioranza delle persone che paga una bolletta elettrica salatissima in Italia. Ma il cuore della argomentazione della Cravens batte sull’argomento della sostenibilità ambientale del nucleare. Le centrali atomiche non emettono gas nocivi, utilizzano una fonte, l’uranio, che in minime dosi riesce a produrre una enorme mole di energia, che può essere riciclata (secondo una procedura attualmente eseguita in Francia) o anche sostituita dal torio. Di conseguenza, anche il volume di rifiuti radioattivi delle centrali è assai ridotto quindi risulta facilmente gestibile secondo criteri di grande sicurezza. Il timore per la radioattività - diffuso tra la gente comune dall’evento singolare di Cernobyl - non tiene conto secondo la Cravens di una distinzione essenziale tra grandi dosi di radioattività e radioattività in piccole dosi. È ovvio che una dose massiccia di radiazioni sia letale o gravemente dannosa per l’organismo. Ma è anche vero che l’eventuale diffusione in dosi minime di radiazioni è perfettamente sostenibile dall’ambiente; questo per una ragione molto semplice: la terra di per sé è radioattiva. Piazza San Pietro con la sua base di cobalto è ben più radioattiva della zona circostante a una centrale nucleare. La naturale radioattività di certe zone dell’Iran è di gran lunga superiore a quella di Cernobyl, e stavolta le mire di Ahmadinejad non c’entrano… Chi diffidasse di queste considerazioni riguardo alla radioattività può constatare il numero di decessi attribuiti al nucleare e quello causato dall’esposizione ad altri tipi di scorie. «Negli Stati Uniti in sessanta anni il nucleare non ha provocato nessun morto - scrive la Cravens - viceversa ogni anno negli USA le emissioni di carbonio uccidono 24.000

persone». Dal 1986 anno di Cernobyl circa mezzo milione di americani sono morti a causa del carbone. Nessuno per le radiazioni nucleari. In un dibattito così acceso come quello pro o contro il nucleare tale genere di considerazioni è destinato a suscitare polemiche ai limiti dell’invettiva.

Tuttavia uno sguardo disincantato sul panorama energetico porta alla conclusione che produzioni energetiche a rischio zero non esistono e che la scelta della opzione migliore non può essere compiuta secondo criteri assoluti, ma in base a realistiche comparazioni. La forza della argomentazione della Cravens consiste appunto nel confronto tra gli sfaceli ecologici prodotti dalle petroliere e la gestibilità degli impianti nucleari.

Nell’epoca del barile di petrolio oltre i cento dollari perde terreno l’utopia di coprire tutto il fabbisogno energetico del mondo industrializzato con impianti solari ed eolici Tra i danni prodotti dalle emissioni delle centrali a carbone e gli effetti (più mitologici che reali) delle centrali nucleari. Un mondo con più energia atomica sarebbe anche un mondo con ridotto inquinamento da biossido di carbonio e con minori malattie cardio-respiratorie. L’argomentazione della Cravens purtroppo è destinata a non produrre alcun effetto su quella schiera di ecologisti “coerenti” che non accetta comparazioni realistiche sul nucleare e sul carbone, ma si limita ad opporsi sia all’una che all’altra opzione. Nell’epoca del barile di petrolio oltre i cento dollari questa posizione infantile perde terreno. E purtroppo perde terreno anche l’utopia di coprire tutto il fabbisogno energetico con impianti solari ed eolici.

Più che per l’America - saldamente ancorata all’opzione nucleare - più che per la Francia e la Germania (nucleariste anche sotto governi di sinistra con ministri ambientalisti) il saggio della Cravens sembra essere scritto per l’Italia. Venti anni fa la esplosione della centrale di Cernobyl produsse come effetto più eclatante la distruzione del sistema nucleare italiano. L’Italia fu l’unica nazione a trarre questa conseguenza estrema da un incidente che era frutto della ideologia sovietica e dei suoi disservizi più che della tecnologia nucleare. Smettemmo allora di produrre energia nucleare, ma in verità non uscimmo dal “sistema nucleare”: le centrali atomiche francesi sono sulle alpi, praticamente in Italia. E le luci dei nostri appartamenti si accendono con energia nucleare acquistate a caro prezzo dall’estero.

Come uscire dalla crisi energetica

L’Enea sostiene la via dell’atomo di Ferdinando Milicia ROMA. Anche l’Enea si schiera con il ritorno del nucleare in Italia. Il rientro del nostro Paese nella produzione di energia atomica «rappresenta non solo un modo per riequilibrare il mix di fonti, oggi dominate nella creazione di energia elettrica dal gas e dal petrolio, ma anche il reingresso in una tecnologia di grande complessità e con importanti ricadute industriali». È quanto afferma l’Enea nel rapporto Energia e ambiente 2007 presentato ieri a Roma. Il nucleare quindi come antidoto e ricetta per allentare la dipendenza del greggio e per combattere l’aumento costante delle emissioni di CO2, che, nel solo 2008, farà accumulare all’Italia un debito di quasi 1,5 miliardi di euro. Lo scenario energetico di un futuro a bassa intensità di carbonio lo disegna, durante l’assemblea, il presidente dell’Enea, Luigi Paganetto. Gli ingredienti principali di questa ricetta, oltre al nucleare, sono il risparmio e l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. Investire di più in ricerca. «Solo cosi», sottolinea Paganetto, «si potrà partecipare con successo alla gara tecnologica che si è aperta in Europa su fonti rinnovabili, efficienza energetica e nucleare per realizzare l’innovazione necessaria a procedere a emissioni zero». Soprattutto con l’efficienza energetica - secondo l’Enea - sarà possibile, da qui al 2020, ridurre del 45 per cento le emissioni di anidride carbonica e tagliare la bolletta energetica di cinque miliardi di euro l’anno.

Il nucleare, osserva l’Enea, «contribuirà senz’altro a modificare il mix energetico e dunque a rispondere al tema dell’approvvigionamento». Ma un ritorno al nucleare di terza generazione permetterà anche di ridurre le emissioni del 6 per cento entro il 2020 e del 10 per cento entro il 2040. Le fonti rinnovabili infine faranno ottenere un risparmio del 22 per cento in CO2, con investimenti stimati in 15 miliardi di euro nel 2020 e 20 miliardi di euro in ognuno dei due decenni successivi. Questo nuovo cocktail potrebbe permettere, nel 2020, di contrarre la dipendenza dai combustibili fossili dal 91 per cento del 2005 al 79 per cento nel 2020, fino al 60 per cento nel 2040. Ma per vincere questa sfida ambientale ed energetica - rimarca l’Enea - è necessaria una forte accelerazione nel cambiamento tecnologico e nella ricerca, che secondo l’ente «mostra in Italia investimenti inadeguati, nel confronto con i maggiori Paesi europei». Senza un impegno più elevato del passato, conclude Paganetto, «gli obiettivi europei di riduzione dei consumi, di aumento delle energie rinnovabili e di riduzione dei gas serra risulteranno punti di arrivo quasi inavvicinabili».


pagina 8 • 1 agosto 2008

opo la sentenza della Corte costituzionale, che di fatto ha salvato il Partito di governo Akp, la Turchia deve ridurre a tutti i costi lo scontro fra la componente laica e quella islamica del tessuto sociale. Per intraprendere questo nuovo corso, servono politici nuovi: uno di questi sarà con ogni probabilità Ali Babacan, giovane ministro degli Esteri, nominato dal neo presidente turco Abdullah Gul alla fine dell’agosto 2007 insieme ad un nuovo governo dal forte carattere riformista e europeista. Il premier Erdogan ha indicato Babacan, quarantunenne ex ministro dell’Economia nel precedente gabinetto, come successore dello stesso Gul al ministero degli Esteri. Una nomina chiave: Babacan è un tecnocrate che ha studiato negli Usa, considerato un fedelissimo del premier nell’Akp, e capo negoziatore per la candidatura della Turchia all’ingresso nell’Ue. Con Babacan, visto dalla stampa locale come “un uomo di Gul, che non fa nulla senza prima consultarlo”, sembra che Erdogan abbia lasciato la politica estera nelle mani di Gul stesso. Il giovane ministro incarna la figura dell’uomo nuovo, capace di rappresentare all’estero una luce diversa della Turchia, l’immagine di un Paese impegnato nel processo di riforme interne e fortemente coinvolto nelle questioni internazionali, soprattutto in quelle che riguardano i suoi più diretti vicini di casa. Nato nel 1967 ad Ankara, Babacan vanta una formazione occidentale. Dopo aver frequentato l’Università di Ankara ed essersi laureato in Ingegneria Industriale, ha lasciato il suo Paese per specializzarsi negli States. Grazie al programma Fulbright, Babacan compie i suoi studi alla Kellogg School of Management dell’Università Northwestern di Evanston, in Illinois. Babacan ha poi lavorato per due anni come associato presso una delle più importanti società di consulenza finanziaria per le maggiori banche Usa. Ritorna in Turchia nel 1994 e si divide tra l’attività di consigliere per il sindaco di Ankara e di Presidente della società tessile di famiglia. Fino al 2002, l’anno della svolta. L’anno in cui Babacan entra in politica come co-fondatore e membro del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) – partito nato dal movimento islamico turco e divenuto di tendenze religiosoconservative ed economico-liberali – e viene eletto in Parlamento come deputato di Ankara. Il passo per diventare ministro dell’Economia è breve. Il 18 novembre 2002, a soli 35 anni Ali Babacan è il più giovane membro del gabinetto. Il difficile compito assegnatogli è quel-

mondo porti diplomatici con la Grecia. Si tratta di un fattore indubbiamente positivo poiché è in grado di consentire una normalizzazione della situazione cipriota, che vede la metà settentrionale dell’isola occupata dall’esercito di Ankara. La seconda è il riavvicinamento con l’Armenia.

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Chi è l’uomo che potrebbe aver salvato l’Akp

Babacan, il nuovo volto di Ankara di Ilaria Ierep lo di gestire un gravoso programma di riforma economica, con il supporto dei prestiti miliardari del Fondo Monetario Internazionale.

Quello che è da subito balzato agli occhi degli osservatori è stato che Babacan ha sempre cercato di tenersi lontano dalla mischia dell’arena politica turca, concentrandosi esclusivamente sugli obiettivi economici da raggiungere. Un tecnocrate lontano dal populismo. I risultati positivi del suo lavoro e la consolidata fiducia in lui ripo-

dal ministro al riguardo è stata sottile e basata sul pragmatismo. Prendendo atto delle profonde differenze che sussistono tra i 27 dell’Ue e la Turchia, la posizione turca resta quella di evitare forzature, puntando soprattutto ad un interscambio economico sempre maggiore. Quello attuale è un momento in cui i legami della Turchia con l’Europa sembrano indeboliti dal comportamento di entrambe le parti. Benché la Francia continui a svolgere un ruolo fortemente antagonista nel processo di ammissione,

Il giovane ministro degli Esteri è impegnato sul fronte europeo e nella riconciliazione con l’Armenia. Incarna il nuovo (e presentabile) corso della Turchia sullo scenario mondiale sta dal premier Erdogan, hanno portato Babacan ad assumere un ulteriore incarico di prestigio: capo negoziatore per il processo di adesione della Turchia nell’Ue. Un cammino iniziato nell’ottobre del 2005. Per Ankara l’accesso all’Unione è una priorità politica di rilievo. È Babacan stesso che ha più volte dichiarato che il suo Paese continuerà a cercare questo obiettivo con determinazione e discernimento. La strategia adottata

molti turchi sono convinti che anche l’Unione nel suo complesso si stia ritirando dall’impegno preso nel 2005 di accettarla come membro. D’altra parte, Bruxelles lamenta il fatto che le riforme attese da tempo non sono ancora state messe in atto dall’esecutivo turco. I rapporti bilaterali sembrano giunti a una fase di stallo, anche se i meccanismi di ammissione continuano ad andare avanti. Le due parti hanno troppi inte-

ressi in comune: dal trasporto dell’energia alla sicurezza energetica e alla cooperazione militare, oltre che alla stabilità regionale. Questo lento ma pericoloso sbandamento è dannoso per entrambe. Il problema è se c’è la volontà politica di risolverlo.

Il nuovo orientamento di politica estera turca impresso da Babacan non riguarda solo l’Ue. Accanto alla sua indiscussa “collocazione atlantica”, la Turchia – dal 1952 membro della Nato – ha intensificato il rapporto di partnership strategica e militare sia con gli Usa che con Israele. Ankara è un importante alleato dell’Occidente nella guerra al terrorismo, soprattutto per quanto riguarda l’Iraq settentrionale. I buoni rapporti con Israele partono dalla comune situazione interlocutoria con la Siria. L’obiettivo comune dei due governi è evitare l’espansione delle interferenze siriane nell’area, dati i contatti che il regime di Assad tiene con gli estremisti curdi in Turchia, con Hezbollah in Libano e con Hamas a Gaza.Tuttavia, la volontà di Babacan di svolgere un ruolo effettivo e di lasciare un segno si concretizza in due grandi novità della politica estera turca. La prima è il recupero dei rap-

Delegazioni di Turchia e Armenia si sono incontrate l’8 luglio in Svizzera per riprendere il dialogo e normalizzare le relazioni interstatali. I due Paesi non hanno rapporti diplomatici dal 1991, da quando l’Armenia chiese il riconoscimento internazionale del genocidio avvenuto in Turchia all’inizio del Novecento. Va forse letto in quest’ottica la decisione di Ankara di rimuovere Yusuf Halacoglu dalla carica di Presidente della Società di storia turca. Halacoglu era uno dei più fieri negazionisti delle tesi riguardanti il genocidio armeno che ha più volte definito una “totale falsità”. La Turchia vuole giocare un ruolo chiave nella regione mediorientale e vuole proseguire il suo ruolo di mediazione tra Iran e Occidente nella questione del programma nucleare di Teheran. L’Iran e le potenze del “5+1” hanno sollecitato l’aiuto della Turchia. Dopo l’incontro tra il negoziatore iraniano, Saeed Salili, e l’Alto rappresentante per la politica estera europea, Babacan ha confermato il ruolo di Ankara sul piano internazionale in qualità di mediatore non ufficiale. Ma l’impegno non si ferma qui. Babacan sta portando avanti una difficile campagna all’Onu per sponsorizzare il suo Paese ad ottenere uno dei due seggi non permanenti in palio al Consiglio di Sicurezza per il biennio 20092010. Una pura coincidenza che tra gli altri due candidati ci sia l’Austria, uno dei Paesi europei che più si oppone all’ingresso della Turchia nell’UE. Il capo della diplomazia turca sta faticosamente lavorando per costruire un’immagine nuova della Turchia. Sembra che il messaggio che vuole far risaltare all’esterno è che islam, secolarismo e democrazia possono coesistere nel suo Paese. Ma non solo. La frenetica attività di Babacan sottolinea la volontà del ministro a voler dimostrare quanto egli stesso vale. Non dimentichiamo che si tratta di una figura giovane e relativamente nuova al mondo della politica. La sua storia non è abbastanza lunga da poter essere ancora letta e giudicata. È solo all’inizio e proprio questo desta la curiosità degli osservatori internazionali. Una curiosità su quanto conta realmente Babacan all’interno e quale ruolo vuole giocare all’esterno per risaltare così di più in patria.


A

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

c c a d d e

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o g g i

agosto 1873

Andrew Smith Hallidie l’autore della grande impresa

“Cable car”, il primo tram da San Francisco parte il futuro di Pier Mario Fasanotti o, non è possibile»: i commenti erano di questo tenore quando a San Francisco si progettò il primo tram. La città californiana, oggi la più“meticcia”d’America, è tutta un saliscendi. Se altrove correvano - si fa per dire - i tram trainati dai cavalli, a San Francisco i nitriti sarebbero stati dolorosamente e inutilmente alti. Ci voleva non solo un sistema di elettrificazione, ma anche un congegno tale da assicurare il traino delle carrozze dal basso verso l’alto e viceversa (salvo rischiare rovinosi scivolamenti lungo le rotaie: sarebbe stato demenziale non pensare a sistemi di frenata sicura). Il primo agosto del 1873, con stupore e gioia dell’intera America, il primo tram di San Francisco era pronto. In Clay Street. Lo chiamarono“Cable Car”.Venne concepito nel 1869, anno in cui alcuni cavalli che trainavano carrozze morirono in Jackson Street. L’uomo che realizzò la grande impresa si chiamava Andrew Smith Hallidie. Suo padre aveva inventato, in Gran Bretagna, il“wire rope cable”. Andrew emigrò negli Stati Uniti nel 1852, nel mezzo dell’epoca della corsa all’oro. Cominciò proprio nelle miniere a usare l’elettricità per trasportare vagoni pieni di materiali ferrosi e di quelli più preziosi fino a una serie di ponti sospesi. Successivamente fondò la “Clay Street Hill Railroad”. Dopo la prova del primo e del 2 agosto, la linea tranviaria cominciò a essere del tutto funzionante a partire dal primo settembre. Il successo fu enorme. Anche se la gente non aveva necessità di percorrere quel tratto collinare, ci furono interminabili code per salire su quel“mostro”di ingegneria, piccolo ma sicuro. Per quattro anni furono quei due vagoncini a solcare la città, in verticale. Poi nel giro di pochi anni la rete tranviaria si ampliò notevolmente fino a raggiungere una rete di 53 miglia. Altre compagnie di San Francisco adottarono lo stesso principio. Un normale tram elettrificato non sarebbe riuscito a salire. Quale fu allora il segreto del “Cacontinua a PAGINA II ble Car”?

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SCRITTORI E LUOGHI

I VIGLIACCHI DELLA STORIA

I SENTIMENTI DELL’ARTE

La Lisbona di Pessoa

L’amore secondo Kokoschka

di Alfonso Francia

di Francesco Ruggeri

Neville Chamberlain di Mauro Canali

a pagina IV

a pagina VI

a pagina VII p a g i n a I - liberal estate - 1 agosto 2008


Il Golden Gate con tipico tram della città Accanto: un’immagine d’epoca di Kearney Street A destra: il Sentinel con il Trans Am Building

segue da PAGINA I Il sistema consiste di un cavo di acciaio collocato in un tubo sotto la superficie della strada, tra i binari della ferrovia, tenuto in posizione da tiranti.Al di sotto il cavo è mosso da un motore fisso, la cui energia viene trasmessa dal motore alla corda d’acciaio e da questa alle vetture tramite un collegamento di aggancio a una sbarra di acciaio che si inserisce nella parte superiore del tubo. Non ci sono impedimenti ai normali spostamenti. Il cavo viene afferrato e rilasciato a piacere da un sistema di agganciamento fissato alla vettura passeggeri e controllato da un addetto. La carrozza in questo modo parte in modo molto più regolare che con i cavalli (che oltretutto potrebbero impennarsi per uno spavento) e può essere fermata in qualsiasi punto della strada. Il controllo è semplice e sicuro. Le vetture erano in grado di accogliere 14 passeggeri, più 16 sullo spazio senza riparo superiore. Si arrivò poi, con vari accorgimenti, al trasporto di 70 persone. C’erano dispositivi di sicurezza abbastanza rigidi per evitare che qualcuno cascasse. Il“Cable Car”divenne un divertimento, qualcosa che assomigliava alla ruota del Luna Park, tanto è vero che l’affollamento si verificava d’estate. La gente veniva informata sui dispositivi di sicurezza. Infatti l’interrogativo più frequente era questo: ma come fa il tram a fermarsi e a non retrocedere lungo il percorso in pendenza e scivolare verso la baia? C’erano dei fre-

n i molto potenti, in ferro e in legno. Inoltre, in caso di avaria, i vagoni si sarebbero fermati sulla strada senza essere“favoriti”, nella corsa, dalle rotaie. A vederlo da una certa distanza, pareva che il “Cable Car”si muovesse da solo, come per un miracolo della fisica. opo quattro anni un’altra società, la “Sutter Street Railroad”, che per tanto tempo aveva assicurato il trasporto urbano con carrozze a cavalli, inaugurò il nuovo tram. Coprì una distanza di tre miglia, riuscendo a salire di 167 piedi rispetto al punto di partenza. Poi la“Geary Street Railroad”, nel marzo del 1880, fece in modo che i suoi vagoni percorressero le strade più affollate.Trentacinquemila

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Uniti, si ovviò all’inconveniente dovuto all’inverno. Nella stagione più fredda, per la pioggia e il gelo, i cavalli erano a forte rischio. Spesso non si potevano nemmeno muovere: gli zoccoli scivolavano sul terreno. Città col clima rigido come Seattle e Washington guardarono all’esempio di San Francisco. L’ideatore, Hallidie, era nato a Londra nel marzo del 1836. Suo nonno era un insegnante, poi arruolato nell’esercito britannico impegnato a contrastare Napoleone. Combattè a Waterloo. Il nome Hallidie accanto a Smith deriva dall’omaggio che lui fece al prozio, sir Andrew Hallidie, che era stato medico alla corte d’Inghilterra nel periodo in cui regnarono William IV e la regina Vittoria. Il suo genio meccanico cominciò a svilupparsi presto: a soli dieci anni costruì un’ingegnosa “macchina elettrica”. Di giorno maneggiava metallo e cavi elettrici, di notte studiava ingegneria. Ci rimise in salute e questo fu il mo-

L’ideatore era nato a Londra nel marzo del 1836. Suo nonno era un insegnante, poi arruolato nell’esercito britannico impegnato a contrastare Napoleone. Combattè a Waterloo passeggeri al giorno. Il costo del biglietto era di cinque centesimi di dollaro. Oltretutto, con il dilagare di questo tipo di tram negli Stati

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tivo per cui il padre lo portò in California. Partì da Liverpool nel gennaio del 1852 e arrivò a NewYork a bordo del “Pacific”della Collins Lines, dopo 15 giorni di traversata. Andrew e il padre ispezionarono le miniere della contea di Mariposa. Suo padre tornò in Inghilterra l’anno successivo. Lui rimase e lavorò in varie miniere con incarichi di ingegnere specializzato nel trasporto dei materiali. Si spostò da El Dorado a Placet, da Calaveras alle contee del Nevada, a volte rischiando la vita come il giorno in cui lui e i suoi colleghi furono assaliti da una banda messicana. Fu nel 1857 che Hallidie abbandonò il mondo delle miniere e si recò a San Francisco. Commerciò nel settore dei cavi e delle funi. Nel 1861 costruì un ponte sul fiume Klamath, a Weichpeck, ma fu costretto ad abbandonare i lavori, che erano a buon punto, a causa di una rivolta indiana. Un altro ponte lo aspettava nei pressi di Nevada City. Nell’estate 1862, dopo aver costruito un ponte sul Bear River, alcuni gli chiesero se fosse disposto a impegnarsi in politica. A fargli la proposta fu un repubblicano di nome Brush. Hallidie rispose d’essere molto vicino ai democratici. Si sposò con Martha Eli-

sabeth Woods, figlia di un noto pioniere di Sacramento. Non ebbe figli. Nel 1864 ottenne la cittadinanza americana, con il nome di Andrew Smith. Continuò a lavorare come ingegnere ed ebbe importanti incarichi. Realizzò sistemi di trasporto con cavo anche nelle zone minerarie della California. Si occupò di ingegneria ma anche di cultura promuovendo varie iniziative librarie. Fu membro della prima Chiesa Umanitaria, della Società degli inventori, dell’“American Geographical Society”, dell’Accademia californiana delle Scienze e della“Old California Historical Society”. Morì nell’aprile del 1900, per un attacco di cuore, all’età di 65 anni. Nell’elogio funebre si parlò di lui come un brillante esemplare dei“self made men”. a città di San Francisco, oltrechè per le bellezze architettoniche e paesaggistiche ( e oggi per una cultura all’avanguardia) fece parlare di sé per eventi catastrofici come i terremoti. C’erano state forti scosse telluriche nel 1812 e nel 1865, ma quella più celebre fu il cosiddetto “Big One”del 18 aprile 1906. Raggiunse un’intensità pari a circa 8,3 gradi della scala Richter (che al tempo non era ancora stata inventata), una magnitudo mai più eguagliata nella storia della California fino a oggi. Non fu il terremoto vero e proprio a devastare la città, quanto gli incendi, innescati dal crollo dei camini e alimentati dalle rotture dei condotti del gas, che divamparono ovunque. Quando gli incendi furono spenti, metà della città era stata distrutta. Il terremoto fu seguito da un decennio di frenetica ricostruzione e nel 1915 l’Esposizione Internazionale di Panama e del Pacifico ritrovò la città più grande e più efficiente che mai. La Grande Depressione la mise in ginocchio, nonostante i progetti

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o stesso giorno... nel 1939

Marek Eldman guida la rivolta di Varsavia di Filippo Maria Battaglia

che prevedevano enormi opere pubbliche. Due delle più imponenti, il Bay Bridge del 1936 e il Golden Gate Bridge del 1937, sono ancora oggi due grandiosi simboli della regione. Durante la seconda Guerra Mondiale, la zona della baia diventò una delle principali basi per le operazioni militari nel Pacifico. Furono costruiti enormi cantieri navali. A metà degli anni ‘50, la città attirò nuovamente l’attenzione nazionale in quanto diede vita a nuovi fermenti culturali. on l’arrivo di Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Gregory Corso, fuggiti da New York per unirsi al movimento dei poeti di San Francisco, fondato da Kenneth Rexroth, la Beat Generation si impose, e non solo in America. Kerouac divenne l’autore di punta del movimento, mentre il cool jazz divenne il suono di North Beach, crocevia del nuovo spirito bohèmien. Negli anni ’60 arrivarono gli hippies e il quartiere di Haight-Ashbury diventò il nuovo fulcro della città. Gruppi musicali locali, come i Grateful Dead e i Jefferson Airplane, fornirono la colonna sonora al movimento e, nel 1967, 20mila persone si riunirono al Golden Gate Park per un concerto gratuito, in quella che tutti ricordano come “l’estate dell’amore”. Mentre gli hippies di Haight prendevano acidi e si adornavano i capelli con i fiori, i rivoluzionari di Berkeley infiammavano le rivolte studentesche di tutto il mondo battendosi per i diritti civili. La vicina Oakland fu teatro di una rivoluzione ancora più radicale quando Eldridge Cleaver, Huey Newton e Bobby Seale fondarono le “Pantere Nere”, il gruppo militante più attivo del movimento per il potere ai neri. Negli anni ‘70 San Francisco fu una delle principali sedi delle rivendicazioni omosessuali. Un secondo

Agosto 1939. Con il patto Molotov - Ribbentrop, Hitler e Stalin si sono divisi la Polonia. Qualche giorno dopo – siamo già a settembre - i tedeschi avanzano ad est verso Varsavia. Nei confini polacchi restano così intrappolati tre milioni e mezzo di ebrei, che dal mese di dicembre sono obbligati a portare al braccio una fascia con la stella di David. Tra tutte le città, è Varsavia ad avere la peggio. Dapprima è costituito lo Judenrat, il consiglio d’amministrazione degli ebrei, poi, datato marzo 1940, arriva l’ordine di costruire un muro perimetrale: cingerà ciò che resterà tragicamente noto come “Ghetto di Varsavia”. Ogni evasione risulta di fatto impossibile (chi la compie, è punito con la fucilazione), ma è molto difficile persino la sopravvivenza: si muore per malattie, fame e stenti, tanto che nel solo 1941 la popolazione è decimata. Nel frattempo, le deportazioni continuano a ritmo incessante. Il clima è così esasperato che scatta la rivolta. L’insurrezione inizia il 19 aprile 1943: dura fino al 16 maggio e, nonostante l’impegno polacco, è un’autentica carneficina. Settemila gli ebrei uccisi, seimila quelli morti per gli incendi appiccati dai tedeschi nel ghetto, che è raso al suolo. Tra i coman-

Settemila ebrei uccisi il ghetto è raso al suolo. L’esercito russo è alla porte della città. Per evitare una liberazione che si sarebbe presto trasformata in un’invasione, la resistenza polacca decide di riprendere le armi contro l’odiato tedesco

danti dell’insurrezione, c’è anche un giovanissimo Marek Edelman, ancora poco più che ventenne, che anni dopo racconterà quei fatti ne Il guardiano, pubblicato da Sellerio. Il 1 agosto del 1944 Edelman parteciperà alla rivolta di Varsavia. L’esercito russo è già alla porte della città sulla riva destra della Vistola, il fiume più lungo della Polonia. Per evitare una liberazione che si sarebbe presto trasformata nell’ennesima invasione (e confidando sull’eventuale appoggio sovietico), la resistenza polacca decide di bruciare i tempi e riprendere le armi contro l’odiato tedesco. «Era iniziata l’insurrezione di Varsavia. Alle cinque del mattino si odono i primi spari. Bisogna andare a combattere. Ma con chi? Noi non facevamo parate di nessuna organizzazione militare. Comunque uscimmo per strada. Ci sentivamo liberi» racconta nel libro Edelman. La guerra si trasforma presto in guerriglia, i mezzi sono impari, i 50mila soldati del generale vom dem Bach ricevono il tassativo ordine di sparare su tutti i civili, senza alcuna distinzione di sesso e di età. Nel frattempo, i sovietici non muovono un dito, i ribelli sono quasi tutti sterminati, la resa è siglata il 2 ottobre. I tede-

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“Big One”, il terremoto di Loma Prieta, scosse San Francisco nel 1989, raggiungendo un’intensità di 7,1 gradi della scala Richter. In tutto morirono sessantasette persone, ma le perdite sarebbero state molto più gravi se non fosse stato per una partita di baseball. Quell’anno la coppa della World Series di baseball era contesa dai San Francisco Giants e dagli Oakland A’s. Quando il terremoto s’abbattè sulla zona, la partita al Candlestick Park stava per iniziare e buona parte della popolazione della zona della baia era a casa davanti alla televisione e non per le strade, solitamente bloccate dal traffico dell’ora di punta. an Francisco ha una storia millenaria. Nel 1970, quando si stava costruendo la stazione “Bart”nel centro storico, gli operai disseppellirono il femore di una donna, risalente all’incirca al 3000 a.C. E’il ritrovamento più antico che prova la presenza di insediamenti preistorici nel perimetro urbano, sebbene i tumuli di conchiglie lasciati dalle popolazioni che si cibavano di cozze e altri frutti di mare indicano che l’area era popolata molto tempo prima. Già nel 1000 avanti Cristo l’ultimo

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gruppo di nativi americani a insediarsi nella zona, gli Ohlone, aveva costruito villaggi nelle paludi

sco, conquistando il territorio in nome della regina Elisabetta, e da lì continuò a navigare verso sud. Non molto tempo dopo, gli esploratori spagnoli ribattezzarono la baia di Point Reyes (oggi conosciuta con il nome di Drakes Bay) “La Bahia de San Francisco”, ma poco dopo essere ripartiti fecero naufragio a Point Reyes e dovettero ritirarsi a sud, nella più sicura Acapulco, con un’imbarcazione di fortuna. Entrambe le spedizioni non s’accorsero della baia. L’avvistò un europeo solo 200 anni più tardi. Nel 1775, Juan Manuel de Ayala fu il primo a varcare il Golden Gate. Nel 1776 fu la volta del capitano Juan Bautista de Anza, che costruì un forte militare, nel cuore di quello che oggi è il distretto di Mission. Sorse un piccolo villaggio che venne soprannominato“Yerba Buena”, cul-

Il “cable car” era un mostro di ingegneria, piccolo ma sicuro. Per quattro anni furono quei due vagoncini a solcare la città, in verticale. Poco tempo dopo il carro dalle ruote di ferro si ampliò fino a raggiungere una rete di 53 miglia. Altre compagnie di San Francisco adottarono lo stesso principio presso la baia e all’interno, lungo i corsi d’acqua. La vita degli autoctoni mutò quando la California cadde sotto la dominazione spagnola. Fu impresa difficile per gli europei“scoprire”San Francisco e la sua insenatura. Nel 1579, Francis Drake approdò a Point Reyes, circa 60 km a nord di San Franci-

schi riconoscono ai pochi insorti sopravvissuti lo status di prigionieri di guerra, ma impongono la deportazione di quasi mezzo milione di persone e la distruzione della città. Da parte loro, le truppe sovietiche entreranno in una Varsavia rasa al suolo solo nel gennaio del 1945. A rivolta sedata, il comunicato del governo polacco sarà più significativo di qualsiasi altro commento sull’inerzia di Stalin e dei suoi colonnelli: «Non abbiamo ricevuto alcun sostegno effettivo... Siamo stati trattati peggio degli alleati di Hitler in Romania, in Italia e in Finlandia… Ci riserviamo di non esprimere giudizi su questa tragedia, ma possa la giustizia di Dio pronunciare un verdetto sull’errore terribile col quale la nazione polacca si è scontrata e possa Egli punirne gli artefici».

la della dell’odierna città.Yerba Buena venne ribattezzata San Francisco nel 1847, poco prima di una scoperta che fece il giro dell’America: nelle montagne della Sierra Nevada, a est, venne trovato l’oro. Una marea di avventurieri si mosse. Nel 1849, oltre 100mila cercatori di fortuna, chiamati poi “quelli del ‘49”, intrapresero il lungo viaggio, per mare e per terra, per raggiungere la città. La popolazione del borgo crebbe a dismisura, passando da 500 a 25mila abitanti in un solo anno. Nel 1850 la California diventò il trentunesimo stato dell’Unione e nel 1854 la città, in piena espansione, contava già più di 500 saloon e 20 teatri per distrarre i minatori. Un enorme giro d’affari. Per i febbrili giorni dell’oro, San Francisco divenne sempre più dissoluta.Tanto che nella seconda metà del 1800 fu soprannominata“Barbary Coast”. La corsa all’oro rallentò nel 1859. Poi iniziò una seconda fase, questa volta nell’ancor più ricca di Comstock Lode, vicino a Reno (Nevada): c’era molto argento.Verso la fine del 1870, la ricerca dei metalli preziosi finì. Comunque la città continuò a crescere: quasi 350mila abitanti all’inizio del secolo.

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SCRITTORI E LUOGHI

Tra sogno e realtà

LA LISBONA di Pessoa Per le strade frequentate da Bernardo si incontrano sempre gli stessi personaggi di Alfonso Francia

Una Una pagina pagina di di “O “O Noticias Noticias Illustrado” Illustrado” dedicata dedicata ai ai caffè caffè letterari letterari di di Lisbona Lisbona

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ernando Pessoa descrisse una volta il suo alter ego Bernardo Soares come “il me stesso senza l’affettività”. Un uomo del tutto privo di legami, posato al fondo di un ufficio dove svolge il lavoro di contabile, lasciato libero di vagare da un angolo all’altro della sua Lisbona. Da un uomo simile dovremmo aspettarci una descrizione minuziosa della vita che anima la città del Tago, perché è risaputo quanto gli uomini privi di compagnia siano buoni osservatori della realtà che li circonda. Una specie di rilettura, questa volta dall’originale, della città percorsa da Pereira nel romanzo di Antonio Tabucchi, tra caffè economici, odori salmastri agli angoli delle strade e crocicchi ombreggiati. Ma la Lisbona che Pessoa ricompone con gli occhi e la voce di Soares è così confusa con i sogni e i vagheggiamenti del protagonista che a noi resta una città incomunicabile, comprensibile solo finché non ci si allontana dallo sguardo del no-

stro contabile. Lo stesso Bernardo lo confessa, in uno dei fogli sparsi che compongono il suo “Libro dell’inquietudine”, privo anche di un solo dialogo tra persone reali:“La mania di creare un mondo falso mi accompagna sempre, e mi accompagnerà fino alla morte”. Le sue conversazioni con compagni di sogno avvengono “in caffè immaginari, che non hanno appartenuto a nessuno spazio dove potessero esistere, al di fuori della consapevolezza che ho di loro”. uesta irrealtà onirica è così realistica da costituire un patrimonio di ricordi indistinguibili da quelli originati da situazioni e luoghi veri. Questa capacità immaginativa è così forte che viaggiare diventa un inutile scomodarsi.“Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire”. Se Bernardo immagina un paesaggio lo crea; se lo crea esiste; se esiste lo vede co-

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L’autore ha prosciugato la sua descrizione da ogni figura umana, lasciando l’immagine pura della capitale vissuta da Soares, “uomo senza affettività” me vede gli altri. È quindi ovvio che la Lisbona reale nella quale Pessoa fa vivere Bernardo sia invincibilmente legata a un’altra città, alla Lisbona abitata dalla sua mente. L’autore non cerca di rimediare a questa ambiguità, ma la mette in mostra rendendo le descrizioni della Lisbona reale talmente caratterizzate e ripetitive da farle sembrare il fondale di un palcoscenico. E se la città vera sembra una scenografia, chi potrà avere da ridire su quella creata nella mente? Così ecco che per le strade abitualmente frequentate da Bernardo tornano sempre gli

stessi personaggi, come se entrassero e uscissero da dietro le quinte del palco. Il garzone del tabaccaio, la lattaia, il venditore di biglietti della lotteria, il principale che è un uomo giusto anche se egoista e poco sensibile. Bernardo riconosce che la sua vita in mezzo a queste presenze è caratterizzata da “una ripetizione persistente degli stessi personaggi come un dramma che consista solo nello scenario, e lo scenario sia alla rovescia”. Anche le stradine che circondano il palazzo dove si trova il solitario appartamento al quarto piano abitato dal contabile sono illuminate da una

luce così definita e fissa da sembrare l’innaturale frutto di un trucco di scena. Nulla ci dice che siamo a Lisbona: potrebbe trattarsi di Roma, Marsiglia o addirittura Londra. I personaggi, fissi nella loro ripetitività, non hanno la profondità di persone, sembrano figurine ritagliate: sono fantocci che ripetono imperturbabili l’azione che identifica il loro ruolo, come le figure meccaniche nei presepi animati. e Pessoa chiudesse il suo personaggio in questa aria asfittica e falsa, non potrebbe lasciarlo libero di intuire tante verità sulla nostra esistenza: perciò in alcuni momenti lo libera in una Lisbona che finalmente comincia a prendere colore e luce naturali, ma mantiene sempre un barlume d’irrealtà.“Alti monti della città! Grandi alture che i pendii scoscesi reggono e ingrandiscono, slittare di edifici raggrumati in varie forme che la luce intesse di ombre e di ustioni”. Qui siamo indu-

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A sinistra: Pessoa fotografato nel 1929 in un’osteria che frequentava abitualmente In basso a sinistra: Pessoa a un tavolo del Caffè Martinho da Arcada Sotto: Pessoa per le stradedi Lisbona Fondo pagina: la firma con dedica di Fernando Pessoa

bitamente a Lisbona, e altrettanto di sicuro in un luogo che solo Bernardo può vedere, che esiste solo nella sua testa. Questa descrizione procede per astrazioni; non stiamo vedendo una città, ma un affastellarsi di figure geometriche. I monti, i pendii, gli edifici sono pure figure, realtà senza vita che non sapremmo immaginare brulicanti di persone o qualunque altra forma di vita. L’unica presenza mobile e viva è quella della luce, che scorrendo per piani e superfici dona a questo paesaggio dimensioni e vita. Una luce che altrove “avvolgeva la successione delle case, la mancanza di soluzione degli spazi, i dislivelli del terreno e degli edifici”. Ma non si tratta di un paesaggio reale, ripreso come farebbe un normale ritrattista: Pessoa ha prosciugato questo scorcio di ogni presenza umana, e ha lasciato la figura pura della Lisbona vissuta da Soares, l’uomo senza affettività. Anche l’Oceano nel quale si affaccia sembra bagnare una

città senza vita umana:“Lieve, come una cosa che comincia, il salmastro della brezza si è diffuso sul Tago e si è sparso sporcando le prime case della Baixa. Nauseava frescamente, in un torpore freddo di mare tiepido. Nuvole rade e alte, cirri, posavano sul nulla, in un grigio che si disfaceva in falso bianco”. erve più di uno sforzo di fantasia per immaginare che una capitale europea si trovi giusto al centro di questa raffigurazione. Ma è questa la città che

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Bernardo riesce a vedere. Descrivendo un parco cittadino, è capace di percepire l’ombra scura di un albero, persino il rumore d’acqua che cade nella fontana, ma non il chiacchiericcio della gente a passeggio e le urla dei bambini che giocano, che pure devono esserci. Persino le strade, che esistono esclusivamente perché siano di passaggio agli uomini, diventano linee che esistono solo per essere guardate dal nostro narratore: “Fra le strade, dove le pozzanghere dormono come acquitrini di campagna, e l’allegria

“Svegliarsi tra i palazzi è sempre più commovente che in campagna, perché ci sono molte più cose che ritornano alla vita”. Nessuno scorcio naturale potrà competere con la bellezza che si vede da San Pedro de Alcantara chiara che si raffredda in alto c’è un contrasto che rende piacevoli le strade sporche e primaverile il cielo opaco d’inverno”. Se le pozzanghere dormono, non sono battute dalle scarpe dei passanti, e l’acqua che le riempie resta ferma ma non c’è nessuno che ci si possa specchiare. Proprio l’acqua a volte diventa il velo sotto il quale Pessoa ci nasconde la Lisbona che conosciamo: sotto il cielo nero vediamo i tetti lustri di pioggia, le cui grondaie“vomitano minuscoli torrenti di acqua sempre nuova”, mentre le gocce battono “lamentosamente e indolentemente”contro la vetrata. La nostra vista resta offuscata, il velo generato dall’acquazzone nasconde ancora la vita che deve proseguire nelle case, negli uffici e nei palazzi. Restiamo in attesa dello spuntare del giorno sotto la desolazione di un cielo “morto che si raggrinzisce qua e là in nuvole ancora più nere del cielo”. E in conclusione, al mattino, Pessoa decide di invitare il lettore a visitare Lisbona da dentro, tra i suoi abitanti che vivono accanto a Bernardo. È giorno da poco, e i negozi, eccetto latterie e caffè, sono ancora chiusi. Ma finalmente il nascere del traffico “rareggia per le strade, risalta la distanza tra i pedoni e nelle rare finestre aperte, in alto, anche alcune figure cominciano a muoversi”. Le vie prendono a popolarsi, i tram delineano la loro parabola precisa lungo i binari che innervano l’asfalto, sferragliando appena. I palazzi si animano dei panni appesi che sventolano tra una finestra e l’altra, giù sul marciapiede sono evidenti le macchie gialle delle banane messe in vendita sui cesti, la gente le vende e parla. Le piazze non sono più dei punti di sosta “lungo strade senza traffico, e senz’altro traffico che le strade”, ma centri dove le persone si incontrano e condividono lo stesso spazio per qualche tempo. In certi attimi sembra che Bernardo si sciolga e si mostri grato di condividere la sua città con altri individui: quasi si commuove guardando i barrocci di paglia e le cassette da riempire, mentre i passanti scorrono lenti. Arriva a fissare i viaggiatori sui tram cerca di ricostruire la loro identità a partire dalle trame

dei loro vestiti. È in questi rari momenti che Pessoa ci lascia intravedere Lisbona e la sua vita, ma vi sovrappone presto la percezione alterata di Bernardo, che ce la nasconde. a sua visione delle cose sopprime sempre ciò che il sogno non può utilizzare; così Lisbona viene privata di tutti i particolari che non sono necessari ai sogni di Bernardo.Viene da pensare che questa particolare disposizione della vista, capace di escludere a piacimento ciò che si vuole, sia dovuta a un amore estremo che Soares sente per la sua città, così totalizzante da richiedere l’esclusione di tutti i suoi altri abitanti. Così se per lui lo svegliarsi in città è “sempre più commovente che in campagna, perché ci sono molte più cose che tornano alla vita”, in realtà parla non della vita delle persone, ma delle finestre, dei muri e dei tetti “indorati dal sole”. In questa celebrazione Lisbona diventa un paesaggio migliore di qualunque altro scenario naturale. Se Bernardo ama il Tago, lo fa perché “sulla sua riva c’è una grande città”. Assapora il cielo perché lo vede da un quarto piano di una strada della Baixa, e sa che nessuno scorcio naturale potrà mai competere con“la maestà irregolare della città tranquilla vista dal belvedere di San Pedro de Alcantara sotto la luna”. La città di Lisbona è un mondo artificiale che comunica con le più forti entità naturali: è fronteggiata dall’Oceano Atlantico, percorsa dal fiume Tago e circondata da alture che la trattengono. È normale che i tratti della città siano riproduzioni rafforzate di quanto esiste in natura; così i palazzi sembrano file di monti regolari, le strade sono false vallate e i lampioni foreste di alberi luminosi. Alla fine dei giochi Lisbona non è altro che la rappresentazione dei sogni e della vita interiore di Bernardo: “Il mondo – scrive – è fatto per lo più di paesaggi, di cornici che inquadrano le nostre sensazioni, di rilegature di ciò che pensiamo”. Un viaggio in questa Lisbona non ci aiuterà a orientarci quando la visiteremo, ma ci avrà permesso di conoscerla con gli occhi della mente di un grande poeta.

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I VIGLIACCHI DELLA STORIA L’uomo di governo britannico rivelò un’assoluta incomprensione del relativismo morale dei dittatori. Solo Churcill e pochi altri avevano ampiamente previsto i disastri a cui avrebbe condotto una politica eccessivamente arrendevole e esiste un’immagine indelebile d’immoralità politica – ha scritto di recente Christopher Hitchens – è quella della danza di Neville Chamberlain, che a Monaco consegnò la Cecoslovacchia a Hitler”. L’affermazione dello scrittore inglese non solo è condivisibile ma rischia addirittura di apparire eccessivamente corriva nei confronti dello statista inglese, fautore e artefice negli anni trenta della insana politica dell’appeasement. Una politica che, pur di evitare il cozzo con il regime nazista, si caratterizzò per una progressiva arrendevolezza nei confronti delle pretese crescenti di Hitler. I documenti oggi a disposizione confermano che tale politica venne interpretata dal dittatore nazista come una manifestazione di vigliaccheria, convincendolo della sostanziale debolezza morale e materiale del popolo inglese, e incoraggiandolo infine a scatenare la guerra. Quando venne chiamato a dirigere il governo nel maggio del 1937, Chamberlain era ormai tra le personalità più influenti del partito conservatore. Nel corso degli anni trenta, aveva fatto parte dei governi MacDonald e Baldwin, e aveva potuto così influire in maniera decisiva sulla politica estera inglese, alla quale era stato dato un indirizzo pacifista, con la segre-

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Chamberlain

Lo statista che a Monaco consegnò la Cecoslovacchia a Hitler: tra le personalità più influenti del partito conservatore inglese di Mauro Canali

Fautore e artefice negli anni Trenta dell’insana politica dell’appeasement che, pur di evitare lo scontro con il regime, si caratterizzò per una progressiva arrendevolezza verso le crescenti pretese tedesche

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ta speranza di poter in tal modo evitare una nuova guerra. Ma, con l’avvento al potere di Hitler nel gennaio del 1933, i tempi non erano più quelli dello “spirito di Locarno”. E non erano stati evidentemente sufficienti l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni, l’occupazione della Renania, il riarmo, il fallito Anschluss ai danni dell’Austria del 1934, le persecuzione degli ebrei, per far comprendere a Neville Chamberlain la natura irriducibilmente aggressiva del regime hitleriano. La sua ostinata convinzione, che fosse possibile inchiodare il dittatore nazista al rispetto d’impegni presi, rivelava in lui un’assoluta incomprensione del relativismo morale dei dittatori. Tra i dirigenti inglesi solo Churchill e pochi altri avevano ampiamen-

te previsto i disastri a cui avrebbe condotto una politica eccessivamente arrendevole nei confronti di Hitler. Chamberlain aveva già dimostrato grande debolezza nei confronti delle mire hitleriane già nell’estate del 1937, quando il cancelliere austriaco Schuschnigg, per frenare le ingerenze naziste negli affari interni dell’Austria, aveva cercato il sostegno di Londra. Egli aveva invano atteso una risposta di Chamberlain, il quale, con il suo colpevole silenzio, aveva convinto Hitler dell’indifferenza inglese per le sorti dell’Austria. Privo di sostegni il cancelliere austriaco s’era visto costretto a cedere, e aveva affidato, come chiedeva Hitler, il ministero dell’Interno a un nazista austriaco. Se n’era andato, sbattendo la porta, il ministro degli Esteri Eden, in disaccordo

con la politica remissiva del premier. Alla notizia delle dimissioni di Eden, Churchill aveva commentato con amara ironia che era stata : “una buona settimana per i dittatori. Una delle migliori che abbiano mai avuto. Il dittatore tedesco ha messo pesantemente le mani su un paese piccolo ma storico, e il dittatore italiano ha portato vittoriosamente a termine la sua vendetta contro il mio onorevole amico, l’ex ministro degli Esteri”. Alludendo poi alle posizioni antimussoliniane fino ad allora espresse da Eden, Churchill aveva continuato: “Ha vinto il signor Mussolini. Tutta la potenza, la maestà, l’autorità e la forza dell’impero britannico non hanno salvato il mio onorevole amico. Il signor Mussolini ha avuto il suo scalpo”. A dispetto delle insensate speranze di Chamberlain, Hitler, dopo essersi annessa l’Austria nel marzo del 1938, apriva la crisi dei Sudeti, esigendo che si ponesse di fatto fine all’esistenza della nazione cecoslovacca. Anche in questo caso la debolezza di Chamberlain giunse a un grado prossimo alla viltà. Convinto ancora una volta di poter scongiurare la guerra soddisfacendo le pretese di Hitler, operò per indurre il governo cecoslovacco a cedere i Sudeti alla Germania, avvertendo il presidente cecoslovacco Benes che se si fosse opposto avrebbe provocato una situazione “di cui la Francia e la Gran Bretagna non potevano assumere la responsabilità”. Poi, infaticabile, tornò a incontrare Hitler a Bad Godesberg, sottoponendogli un piano anglo-francese che prevedeva un plebiscito tra le popolazioni interessate, e che venne immediatamente respinto da Hitler, fermo alla soluzione della cessione immediata dei Sudeti. Chamberlain naturalmente finì per acconciarsi alle richieste annessionistiche tedesche, accettando anche il trasferimento alla Germania del materiale bellico e di tutte le fortificazioni presenti nella regione. Rimaneva in tal modo del tutto disarmata la parte della Cecoslovacchia rimasta indipendente. Il fondo dell’ignominia venne raggiunto nella giornata del 29 settembre, quando il primo ministro inglese tornò in Germania per l’incontro risolutivo a Monaco con Hitler, Mussolini e il francese Daladier. In un primo momento egli chiese che anche la delegazione di Praga partecipasse ai colloqui, ma di fronte al secco rifiuto di Hitler, accettò che i diplomatici cechi rimanessero ad aspettare in una saletta di attesa, mentre nella sala principale si consumava l’assassinio del loro paese.


I SENTIMENTI DELL’ ARTE al 1911 al 1914 il noto pittore e commediografo austriaco Oskar Kokoschka ebbe una travolgente e appassionata relazione con Alma Maria Schindler (1879 - 1964), meglio conosciuta come Alma Mahler. Lui aveva venticinque anni e lei sette di più ed era rimasta appena vedova del grande compositore Gustav Mahler con il quale aveva avuto due figlie, delle quali solo una sopravvisse per diventare poi scultrice di un certo valore. Il matrimonio con Mahler, più grande di lei di venti anni, e celebrato nel 1902, si era rivelato ben presto poco soddisfacente per l’irrequieta Alma che era considerata la più bella ragazza di Vienna. Figlia di un paesaggista affermato, ebbe la fortuna di crescere in un ambiente privilegiato, la sua casa era frequentata da intellettuali e artisti, tra cui uno dei padri della Secessione viennese, Gustav Klimt (1862–1918), che sembra sia stato il primo amore della giovanissima Alma. Appassionata di musica, valente pianista e compositrice, nel 1910 cercò consolazione dall’infelice legame con Mahler tra le braccia di un giovane architetto, Walter Gropius, che divenne in seguito uno dei fondatori del noto movimento del Bauhaus, fondamentale per lo sviluppo di tutta l’architettura moderna. Con Gropius avrebbe poi contratto matrimonio per la seconda volta nel 1915, alla fine della relazione con Kokoschka, per divorziare nel 1920, quando conobbe il poeta praghese Franz Werfel che sposerà nel 1929. Alma Mahler non era dunque una donna come le altre, oltre a una sicura bellezza doveva possedere forti doti carismatiche ispiratrici di grandi passioni. Aveva certamente una grande carica vitale, che da sola è una potente arma seduttiva, come dichiarò lei stessa in tarda età confermando il suo irrefrenabile bisogno di conquista: “Una quantità di cose erano cambiate nella mia vita, ma una era rimasta la stessa: ogni volta che ottenevo ciò che volevo, non mi interessava più. Non mi ci volle molto per iniziare a stancarmi di Franz…”. Molto del suo fascino, è stato detto, addirittura il suo segreto stava proprio nell’amare più di ogni altra cosa, più dei suoi stessi figli, la passione in quanto tale e non gli uomini che il destino le offrì l’opportunità di incontrare. Sensualissima e gaudente, seduceva anche e soprattutto con la voce,“spassosa, irritante, commovente fino a spezzarti il cuore”(J. D. Landis). Tuttavia non una mantide,

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L’AMORE Il quadro “La sposa del vento” di Oskar Kokoschka

L’indomita passione per Alma Mahler di Olga Melasecchi

cipale che lo distingue dai maggiori rappresentanti dell’arte espressionista del Novecento, di cui è stato uno dei massimi esponenti, lontano com’è sia dal senso di tragica solitudine dell’opera di Edward Munch, che pure ammirava moltissimo, che dalle violente e aggressive espressioni del gruppo tedesco del Die Brucke. Il segno forte, profondo e nero, che gli proveniva dai suoi inizi come incisore, lo vediamo espresso con un movimento circolare vorticoso nella sua opera più nota, la Sposa del vento dipinto nel 1914 quando era imminente la fine della sua relazione con Alma Mahler. Consapevole di questa fine ha dipinto una delle immagini più sublimi e poetiche dell’amore e della passione tra un uomo e una donna, del loro inscindibile legame, e del dramma racchiuso in questa fusione di anime e corpi. Tra striature vorticose blu scuro che a tratti si rischiara fino al bianco o si tinge di rosso i due amanti fluttuano in un cielo tempestoso stretti in un eterno abbraccio, i loro volti, che sono veri ritratti dei protagonisti, riflettono lo stato reale

Non era una donna come le altre. Ogni volta che otteneva ciò che voleva non le interessava più

Dopo il compositore, fu legata al pittore Gustav Klimt, all’architettoWalter Gropius e al poeta Franz Werfel

ma piuttosto una musa ispiratrice. L’incontro con Kokoschka, personalità geniale quanto gli altri amori della Mahler, è stato fondamentale per la vita e la carriera dell’artista. La sua formazione era avvenuta nell’ambiente della Secessione Viennese, a diretto contatto con Klimt, che ne influenzò le prime opere e lo rese noto ai viennesi grazie al Kunstschau del 1908. Le sue prime opere sono infatti vicine ai motivi raffinati e sognanti di Klimt, da cui poco tempo dopo si distaccherà perché i temi e lo stile del grande artista viennese a suo parere erano troppo estetizzanti: “L’esperien-

za è ciò che da membri di un gregge ci fa veramente uomini”, dirà in proposito, “altrettanto priva è l’esistenza dell’esteta chiuso nella propria torre d’avorio. La sua è un’esistenza inutile e antisociale...”. La sua produzione successiva, molto personale, sarà contraddistinta da un segno forte, deformante, ma sempre pieno e spesso, ricco di curve più che di angoli, che trae le sue più lontane origini dal barocco austriaco e che ha fatto perciò parlare di “Barocchismo kokoschkiano”. Questo segno era però espressione non solo di angoscia, ma soprattutto di amore. È questo il fattore prin-

della coppia: Alma riposa tranquilla sulla spalla dell’artista che, al contrario, veglia su questo sonno amato che è incosapevolezza del travaglio interiore nella sua anima per la percezione del distacco. Dipinto autobiografico di intensa tensione drammatica dove il dolore per la fine di un amore diventa tragedia cosmica. Pittura visionaria, traduzione in chiave psicologica moderna delle visioni di El Greco passando attraverso le espressioni angoscianti o di esplosiva vitalità di Van Gogh, artisti studiati e molto amati da Kokoschka. La relazione con Alma Mahler segnò profondamente l’artista e la passione che ella aveva suscitato in lui fu così devastante che per anestetizzare il dolore dell’abbandono l’artista creò una bambola somigliante ad Alma con cui si mostrava in giro per caffè e concerti, per arrivare infine a decapitarla come atto di estrema e definitiva elaborazione del lutto.

p a g i n a V I I - liberal estate - 1 agosto 2008


Cruciverba d’agosto

“Dinnanzi a me sen va piangendo”

di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI 1) Passo fra Italia e Svizzera • 7) L’ottavo dei dodici Profeti Minori della Bibbia • 13) Robert, attore (Marlowe indaga) • 20) Una volta era Formosa • 21) Attrice greca, interprete di Mai di domenica • 23) “Le ........ del Ventennio” di Giancarlo Fusco • 24) Hedda, protagonista dell’omonima commedia di Ibsen • 26) Membrane che separano due parti dello stesso organo • 27) Interprete di La Ciociara (iniz.) • 28) Dinnanzi a me sen va piangendo ....... / fesso nel volto...(Inferno, XXVIII) • 29) Celebre portico di Atene • 30) “Dalla ....... alla luna” di Verne • 31) Capitale della Corea del Sud • 33) Unità Astronomica • 34) Antico suonatore di flauto • 35) Folco, attore (Vite vendute, 1953) • 36) Nomignolo di una celebre diva • 37) Davanti al direttore d’orchestra • 39) Dapporto, attore • 40) Penisola asiatica, teatro di una guerra nell’immediato dopoguerra • 41) Fenomeno come il terremoto • 42) “Una ....... indiavolata” con Silvana Papanini (1951) • 43) Pedro ......... y Serrano, scrittore spagnolo (1892-1951) • 45) Copricapo pontificio • 46) Un Pippo dello spettacolo • 47) Valeria, grande attrice italiana • 48) Sommo poeta • 49) Alberto, attore • 50) Massimo, attore (Sorelle Materassi, 1953) • 51) Iniz. dell’attore Dean Martin • 52) Bagna la Grecia • 53) Personaggio dell’Antigone di Sofocle • 54) “Lettere a .........” di Kafka • 55) ...... domo sua • 56) Iniz. di Ruggero Orlando • 57) “La ....... dell’ago” film di R. Marquand (1981) • 58) Abitanti del Corno d’Africa • 59) Aggettivo possessivo francese • 60) La diva di Femmina (1958) • 64) Categorie • 66) Film del 1979 con Richard Gere • 67) Seguace di una celebre eresia • 68) “L’........ è violenza carnale...” film di Cayatte con Sofia Loren e Jean Gabin (1974)

VERTICALI 1) Richard, compositore di Salomè • 2) Interpretò Lucia in una versione filmica dei Promessi Sposi • 3) Virna, attrice (La cicala, 1980) • 4) Johnson, romanziere tedesco • 5) Iniz. dell’attore Albertazzi • 6) “......... alla corte del re” film con Michèle Mercier (1965) • 7) Desiderato • 8) “........ di giorno” film di Buñuel (1967) • 9) Rischi • 10) Com. Intermin. per la Ricostruzione, istituito nel 1945 • 11) Iniz. di Umberto Nobile • 12) Alfredo, compositore (La giara, commedia coreografica) • 13) “Tre ........ sopra il cielo” film • 14) Ispida, piena di asperità • 15) Touring Club Italiano • 16) Como • 17) Idrogeno e Uranio • 18) Interprete femminile di La decima vittima accanto a Marcello Mastroianni (1965) • 19) Achille, attore • 22) “Il ......... maschio” film con Aldo Buzzanca (1971) • 25) Un condimento • 29) Contrario di olezzare • 30) “Il ........” film con Turi Ferro, Vittorio Gassman e Laura Antonelli (1981) • 31) Topo (arcaico) • 32) Fratello di Cassandra • 34) “Niun mi tema, s’anco ......... mi vede...” (Otello di Verdi) • 35) Le “........” di D’Annunzio: Maia, Elettra e Alcyone • 36) Film di Kubrick (1962) da Nabokov • 38) Somare • 39) Non cotte • 40) La legge dei musulmani • 42) Da Modena, pittore del Trecento • 43) Cécile, attrice teatrale francese (1885-1966) • 44) Ipocrisia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e... (Inferno, XI) • 46) Pat, cantante americano • 47) Maria (1885-1950) e Mariangela, attrici italiane • 48) Si corre a Epsom • 49) Uomo politico sudafricano (m. 1950) • 50) Michel, attore francese (La bellezza del diavolo, 1950) • 53) Salite • 54) Voga • 55) Mario o Raffaele, attori • 57) Compagnia Italiana Elicotteri • 58) ....... Lanka • 59) Patronimico scozzese • 61) ..... sé e per sé • 62) Iniz. di Gene Kelly • 63) Arezzo • 65) Iniz. dello scrittore Capuana.

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68 la soluzione nel numero di domani

L’Almanacco Hanno detto di… successo Vincere non è sufficiente. Tutti gli altri devono perdere.

Gore Vidal

Detti memorabili Nessuno è completamente infelice del fallimento del suo migliore amico. Groucho Marx

LA POESIA CANICOL A Viviamo sulla tua memoria come

D&R

Su una nebbia che forse non dirada,

Il più antico inno nazionale del mondo, ancora in uso, è “God Save the Queen/King”. Fu scritto tra il 1736 e il 1740 dal compositore inglese Henry Carey, sebbene un’aria molto simile sia già presente in un manoscritto del 1619. Per molti anni l’inno fu utilizzato per manifestare lealtà ai regnanti e venne adottato, oltre che in Inghilterra, in Prussia, Danimarca, Svezia e Russia. Sebbene utilizzato in Gran Bretagna come inno nazionale, non è mai stato proclamato tale né dal Parlamento inglese, né per decreto Reale.

ti è a fianco un vuoto colmo di città, di fari lenti, stillicidio d’occhi intenti a distinguerti, ad estinguerti, e la mano ora tocca una contrada magnetica frugando verso il viso che a tratti sbocca contro siepi azzurre o lungo le pulverulente strade di questa dura estate che imperversa; l’ago versa ogni orizzonte, ogni lato;

L’origine di… i nomi delle note I nomi delle note risalgono al Dodicesimo secolo e corrispondono alle sillabe iniziali dei primi sei versetti di un inno a San Giovanni Battista: UT queant laxis / REsonare fibris / MIra gestorum / FAmuli tuorum / SOLve polluti / LAbii reatum, Sancte Iohannes (“affinché i tuoi servi possano cantare con voci libere le meraviglie delle tue azioni, cancella il peccato, o santo Giovanni, dalle loro labbra indegne”). Fu Guido d’Arezzo, un famoso teorico della musica, a notare che ciascun versetto corrispondeva a una diversa tonalità e a utilizzarne le iniziali per definire le note. Si dovrà attendere però il XVI secolo prima che la settima nota riceva un nome definitivo (SI, dalle iniziali di Sancte Iohannes), e il XVII secolo perché anche nel nostro Paese venga sostituita la nota UT con il DO. a cura di Maria Pia Franco

come una risacca il tuo corpo va e viene, verso tutte le promesse che non può mantenere. Non saprai mantenere tropo oltre le parole, tu sei come un odore di viole sulla pietra, e nel cuore non affonda che il tuo ultimo errore a consolarlo, le tue forze ruotanti intorno a un tarlo tempestano in un vitreo orizzonte immune. PIERO BIGONGIARI


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storia

Un saggio di Walter Nugent riapre il dibattito sulle mire espansionistiche Usa

Chiamatelo pure Impero, ma è quello della Libertà di Giampiero Ricci f people want to say we’re an imperial power-fine». Questa affermazione di William Kristol, capostipite del neo conservatorismo americano, quale manifestazione populista – nel senso nobile del termine – di una tensione emotiva inerente una certa parte del conservatorismo statunitense entra letteralmente nella storia.

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No, non è una sagerazione, Walter Nugent, Università di Notre Dame, con Habits of Empire: A History of American Expansion, Knopf, 416 pagine, analizza la supposta persistenza nella ricerca della costruzione di un impero da parte degli Stati Uniti d’America e nella sua analisi entrano di diritto le pulsioni, tutte le pulsioni che hanno agitato e agitano gli Usa, culla della democrazia contemporanea. Nugent, sottolinendo come alla pittoresca affermazione di Kristol abbia poi fatto seguito l’analisi autorevole di Robert Kagan, che con Dangerous Nation ha riconosciuto una certa dose di aggressività degli Usa nel corso della storia, rimarca come molto sia cambiato e stia cambiando intorno alla trattazione dello spinoso argomento Usa=Impero, basti solo pensare al destino d Appleman Williams, grande storico del Ventesimo secolo, etichettato come comunista per aver scritto che una persistente tensione alla costruzione di un Impero può essere con buona pace rintracciata in larga parte della storia di Washington. Il libro, oltre e al di là della questione degli indiani o della guerra ispano-americana e della conquista delle Filippine, si concentra su episodi non sempre oggetto della necessaria attenzione nell’analisi della storia statunitense. Per Nugent l’espansione è avvenuta in tre fasi: la corsa all’ovest con l’allargamento dagli Stati coloniali sull’Atlantico sino al Pacifico, spinta dalla eccezionale crescita demografica che richiedeva acquisizioni territoriali; l’acquisizione poi di protettorati e colonie

attorno al Pacifico e negli Stati caraibici; la seconda guerra mondiale e la guerra fredda.

Interessante nel avoro di Nugent è innegabilmente il racconto del negoziato con Gran Bretagna, Spagna e Francia alla fine della Guerra di Indipendenza, con l’acquisizione di territori dagli Appalachi al Mississipi grazie alle capacità diplomatiche di Benjamin Franklin, John Jay e John Adams capaci di mettere abilmente l’una contro le altre le potenze europee. Poi l’acquisto da Napoleone della Lousiana, la capacità di cogliere in chiave anti-spagnola il momentum della inva-

Stati Uniti d’America si osservi una certa tensione alla acquisizione di territori è cosa contestabile, difficilmente molto di più il sottovalutare o meglio dimenticare come tale tensione sia sempre stata manifesta anche e soprattutto nei padri fondatori, lo stesso Thomas Jefferson si augurava che la neonata creatura divenisse un impero, ma di libertà («an empire of liberty»). Sembra ingeneroso nel pure interessante studio di Nugent non aver dato alcuna importanza alla circostanza di fatto che gli americani con la loro crescita e la loro espansione hanno portato la sovranità popolare quasi ovunque nel mondo e co-

Il professore dell’Università di Notre Dame riconosce una certa dose di aggressività degli States nel corso della storia. Ma in molti sostengono il loro modello di sviluppo a tutela dei diritti individuali sione napoleonica della Spagna che portò alla entrata nella Federazione della Florida, infine la guerra messicana con la conquista di California, Arizona, New Mexico (1848 - Trattato di Guadalupe Hidalgo). Di una certa rilevanza il gossip storico rappresentato dal fallito take over sulla British Columbia solamente per la deterrenza della flotta di Sua Maestà. Infine il noto acuqisto dell’Alaska e le avventure coloniali delle Hawaii, Cuba, le Filippine, Paname e Nicaragua. Per Nugent i suoi concittadini «dovrebbero comprendere che la rivendicazione del ‘eccezionalismo’ resta valida solamente in rapporto alla incomparabile crescita economica e alle notevoli risorse naturali che il loro enorme paese possiede. Non esiste ‘nessun eccezionalismo’ in alcun senso morale o di purezza, di innocenza». Che nella storia degli

duo in ogni angolo del pianeta. me il loro modello di sviluppo, un modello che assicura la tutela delle libertà individuali minime, abbia costretto e costringa tutto il globo a venire incontro alle rivendicazioni di rispetto della dignità umana che grazie al diffondersi del modello Usa oggi raggiungono ogni indivi-

Un risultato “americano”che proviene direttamente dalla consapevolezza delle specialità delle libertà secondo cui è possibile vivere negli Usa e che ha spinto spesso ingenuamente gli States verso battute d’arresto, sconfitte, pareggi o costose vittorie in nome del

dovere messianico che essi innocentemente sentono di rappresentare ed essere ovvero «the lands of the free». Su come i governanti che si sono succeduti abbiano utilizzato tale sentimento l’analisi storica dovrebbe essere capace di riflettere, isolando i fatti dalla morale condivisa dei popoli, come nel libro di Nugent purtroppo non accade.


cinema

1 agosto 2008 • pagina 19

”Grace is gone”, nelle sale da oggi, ci mostra l’altra faccia della medaglia della guerra in Iraq

Soldato Grace. Agli ordini di Francesco Ruggeri l ”vento fa il suo giro” e l’aria sta cambiando lentamente. Dove? Nel cinema americano, sezione ”guerra in Iraq”. Per una Kathryn Bigelow tornata alla regia con The Hurt Locker (storia di un team di soldati americani in Iraq, lo vedremo alla prossimo Festival diVenezia) che promette uno sguardo anomalo e trasversale sull’argomento, ci sono altri cineasti che ci permettiamo il lusso di definire non allineati. A cosa? All’equazione guerra americana in

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strizzatine d’occhio politically correct, lontano mille miglia da posizioni rassicuranti. È vero, si inscrive nel filone ormai infinito del cinema dedicato alla guerra in Iraq, ma lo smonta da dentro. E lo fa esplodere con un’intensità allucinata e struggente. Partiamo dal titolo: Grace is gone. Splendido, c’è già tutto il film e il senso di distacco e di separazione che emana. Grace è una madre di famiglia e una moglie. Ma è anche la grande assente del film. All’ini-

militari in alta uniforme, il resto segue lo schema abituale. Condoglianze, sguardi imbarazzati, parole di conforto che suonano come litanie senza senso. Lui ha un solo pensiero: nascondere per qualche giorno la notizia alle figlie. Per farlo, deve trascinarle da qualche parte, magari in un’apparente vacanza. Vuole donare loro qualche altra ora d’aria, prima di farle sprofondare nell’abisso di una crescita senza madre. E’ quello che fa, partendo per la Florida, direzione Enchanted Gardens (un parco giochi ricchissimo di attrazioni). Smaltire la tragedia

nico rimpianto del protagonista è quello di non essere stato lui a calcare il campo di battaglia al posto della moglie. Sequenza illuminante: la bambina più grande si rivolge al padre, in macchina, e gli chiede cosa ne pensi dell’occupazione americana, della guerra e delle ipotetiche bugie dette al popolo americano per giustifcarla. Cusack la guarda e le confessa che non sa risponderle e che non ‘vuole’risponderle. L’importante - le dice - è credere in quei valori che

Iraq=sporca guerra combattuta da balordi, assassini a piede libero e sbandati di vario tipo. È vero, mai come in quest’ultimo periodo il cinema a stelle e strisce ha gridato il suo ”no” forte e chiaro all’occupazione americana, ma fare di tutta l’erba un fascio sarebbe davvero un errore capitale. I fatti: lo scorso anno Paul Haggis ci ha fatto aprire gli occhi con Nella valle di Elah

America intonato dai superstiti de “Il cacciatore”e ai corpi bruciati dal sole e dalla fatica nel Furore di John Ford. Grace is gone è dunque una delle opere più autenticamente americane degli ultimi anni. Un racconto intriso di commozione e di profonda speranza, un anelito rivolto verso l’alto, ma anche il grido di chi continua a ‘credere’ anche quando la terra cede

Uscito negli Usa in sordina più di un anno fa è il classico film scomodo. Ribelle a schematismi di ogni tipo, allergico a strizzatine d’occhio politically correct, lontano mille miglia da posizioni rassicuranti in cui la tragedia si consumava fra le pareti domestiche di Tommy Lee Jones, fiero e convinto militarista proiettato nell’elaborazione del lutto per la perdita del figlio (marine americano in Iraq).

Oggi si va oltre. Perché Grace is gone (uscito negli Stati Uniti in sordina più di un anno fa) è il classico film scomodo. Ribelle a schematismi di ogni tipo, allergico a

zio perché impegnata nella guerra in Iraq, in seguito perché uccisa sul campo di battaglia. Il suo nome fa rima con lutto e con il vuoto incolmabile che lascia in famiglia. Traducendo, Grace è andata, partita, trapassata. Insomma, non c’è più. Il marito (interpretato da un John Cusack in assoluto stato di grazia) riceve la notizia della sua morte dopo essere uscito dalla doccia. Alla porta suonano due

on the road, cercando di occultarla alle bambine e per certi versi anche a se stesso.

Un’idea semplice, elementare e potentissima. E la guerra in Iraq? Il regista (l’esordiente James C. Strouse) sta bene attento a non trasformala mai in mezzo per la classica tirata o per l’ormai inflazionatissima denuncia. La guerra c’è, punto e basta. E l’u-

hanno spinto tanti giovani (e sua moglie) in guerra. Il resto non conta. «E se nessuno credesse più in quei valori?» gli chiede la figlia. «Non ci sarebbe più scampo per nessuno allora», le risponde lui.

Morale da brivido. Che poi assomiglia molto ad un’etica del sacrificio e del senso d’appartenenza che ci riporta alle radici del popolo americano, al God Bless

sotto i piedi e la notte si avvicina sempre di più. Insomma, un vero atto di fede. Intonato da un cinema coniugato al passato (il valore della tradizione), al presente e al futuro. Ma anche la testimonianza vibrante di un umanismo che fa a meno dell’ideologia a tutti i costi, piegandola ad un rispettoso silenzio. Quello che accompagna le spoglie di chi torna a casa per restare.


pagina 20 • 1 agosto 2008

società

Voglia di biografie. Vip, protagonisti dei reality, ma anche attrici esordienti: tutti scrivono libri e confessano retroscena ”incredibili”

Ora arriva l’autogossip di Roselina Salemi

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uando non hai più niente da dire, scrivi un’autobiografica». La paternità della frase è incerta, c’è chi la attribuisce a Winston Churchill, chi al solito Oscar Wilde, chi a Saul Bellow. L’unico che l’ha sicuramente pronunciata è in una delle sue estasi alcoliche, è stato Truman Capote che ha preferito arenarsi su “Preghiere esaudite”, pur di non scrivere la propria. Oggi è vero il contrario. Proprio perché si ha poco o niente da dire, è giusto scrivere e, in tempi di reality, chiunque può farlo, a patto di essere salito, almeno per un po’ sul’autobus affollato della notorietà. Altro che vivere inimitabile, gli eroi del presente vengono dall’ordinary people. E nella nuova ondata di libri (della serie vi dico tutto di me) l’autobiografia è il capolinea della gossip society, la raccolta di vizi e vezzi, hobby e sentimenti che popolano uno star system, grande quanto una vasca per i pesci rossi. C’è la vecchia gloria, la giovane promessa, il gran bollito, il tronista di turno. È un circo, ma a noi va bene. E perciò ci lanceremo golosamente sull’autobiografia di Franco Califano (Senza manette, Mondadori) per scoprire che lui le ”batterie” (in italiano, orge) non le ha mai volute fare, diamine, che il vibratore l’ha usato sempre, l’ha fatto provare “anche alla più impacciata delle donne, e piace” che dovendo scegliere fra travestiti e transessuali preferisce “quelli non operati. Gli operati che senso hanno?”. La cocaina “è stata un’esperienza”, e ha smesso da un pezzo, non fuma neanche più. Gli piace papa Ratzinger che è ”bello rigido, severo e gli ha fatto scattare dentro qualcosa“, ma sta ancora aspettando “di poter entrare in contatto direttamente con Dio”.

Un po’ come Simona Ventura, della quale, anche senza particolare voyeurismo nei suoi confronti, conosciamo le crisi, le storie d’amore, le preoccupazioni, le illusioni, i successi, le fughe romantiche vere o presunte, il seno rifatto (copertina di Vanity Fair) i crucci, i progetti. Si potrebbe anche pensare a una sovraesposizione, alla scelta di un decoroso silenzio, visto che tutto o quasi è stato già detto. Invece no. E si spiega così l’autobiografia Crederci sempre, arrendersi mai (Mondadori), romanzo a lieto fine della ragazzina di Chivasso che ballava davanti allo specchio imitando Raffaella Carrà, e oggi è una delle conduttrici più note e meglio pagate della televisione. C’è l’aborto a diciannove anni, la scalata tenace, il matrimonio favoloso, il divorzio, i pettegolezzi, l’affaire Giorgio Gori, il SuperSimo-pensiero: “Gli applau-

Ora, ammesso che Dio sia un lettore forte, non possiamo immaginare che cosa sceglierebbe, tra Senza manette e Lezioni intime di Valeria Marini (Cairo editore) autobiografia che ha avuto l’onore di ampie citazioni sul Corriere della Sera arricchita da un inserto chiuso dal quale apprendiamo che la signora adora essere bendata, che “una lubrificazione extra non fa mai male”, che rispetto al partouze “è più intrigante lo scambio di coppia”, che il preservativo è meglio “colorato e aromatizzato”. Ora, è ovvio che sparare su Valeria, la Marilyn dei poveri, l’unica italica icona pop (non deve lavorare perché si parli di lei, ma limitarsi ad andare in giro incartata come un cioccolatino) è anche troppo facile. Non è colpa sua, la disegnano così, come Jessica Rabbit. Le fanno dire: “Indossa sempre biancheria di pizzo. Andrebbe riservata per le occasioni speciali, ma proprio per questo ti aiuterà a credere che ogni giorno possa essere una giornata particolare”. Ricorda tanto l’indimenticabile parodia che di lei faceva Sabina Guzzanti: “Sono romantica, cerco ancora il mio principe buzzurro…”. Valeria Marini, però, è famosa come poche. Ha fatto i calendari, ha desiderato un figlio, si è fidanzata con quel bel tipo di Vittorio Cecchi Gori l’hanno svegliata a notte fonda per arrestare lui, ha anche tentato di imparare a recitare ed è entrata negli annali della pubblicità grazie allo lo spot “Videochiamami”, un minireality sul quale si sono espressi autorevoli intellettuali. Vive a puntate, come in una soap.Vive in pubblico.

si del pubblico fanno piacere, non posso certo nasconderlo, ma volete mettere una carezza dei miei bambini?”. Con un abile colpo di scena, la star diventa umana. I personaggi che si muovono nel teatrino del presente, si riscrivono ogni giorno e alimentano un desiderio di notizie-verità ormai insaziabile. Ce n’è per tutti i target.

Valeria Marini in ”Lezioni intime”, con tanto di inserto chiuso, svela particolari piccanti delle relazioni importanti della sua vita

Patty Pravo (Bla, bla, bla, Mondadori) si rivela nei “Pensieri di passaggio”: amorosamente raccolti come gli aforismi di Karl Kraus: “Il talento è un dono, il successo un lavoro”. “La gente viene comprata, viene giocata, viene promessa e trasmessa”.“La morte è un passaggio della vita”. La Ragazza del Piper, Nostra Signora della Canzone, la bionda impossibile che ha compuito sessant’anni in aprile, la matta che non ha voluto recitare in “Casanova” e nel “Giardino dei Finzi-Contini, e ha detto no a Fellini e De Sica, è approdata alla spiritualità del Maestro Paramahansa Yogananda (cioè “beatitudine per mezzo

dell’unione divina”): ”Ognuno di noi si porta dentro il punto di partenza, che è uguale per tutti ed è la Luce, quella che vorremmo raggiungere, il punto a cui ritornare”. Non è tanto originale, l’ha già fatto (e detto) Richard Gere. Almeno lei, però, ha rappresentato una stagione irripetibile e sognante, capelli cotonati e occhi bistrati, una stagione straordinaria che non sapevamo di vivere. Che non può tornare, ma può essere ridisegnata, magari aggiustandola un po’. E che appare mitica, di fronte al dilagare dell’instant story.

L’autobiografia non è più un genere conclusivo, il bilancio di una vita, del senso che riusciamo a darle, è la foto di un attimo, un flash di celebrità effimera regalato dalla fortuna o dal dolore, un nome che sarà archiviato appena il sentimento che la ispirava è stato consumato, divorato. La sfortunata moglie di Cosimo Mele, autrice di un instant l’estate scorsa, chi la ricorda più? E Tonina Pantani (Era mio figlio, Mondadori) avrà avuto le risposte che cercava? Quante settimane vivranno in libreria le storie di chi ha avuto il cancro, invocato l’eutanasia, rischiato la vita, rivendicato la propria omosessualità? Franco Grillini (Ecce Omo, Rizzoli), storico segretario e presidente di Arcigay è abbastanza famoso e spiritoso da suscitare curiosità. Ed è tanto sincero, quanto ingenuo nel raccontare la sua storia d’amore piena di superlativi per Valerio,“un ragazzo bellissimo dagli occhi verdissimi, una bellissima testa, una bellissima intelligenza. E un amore straordinario e grandissimo, finito troppo presto, finito troppo in fretta, non per mia volontà. Valerio è stato, in assoluto, il primo uomo con il quale avrei potuto sposarmi”. Daniele Scalise (Lettera di un padre omosessuale alla figlia, Rizzoli), invece, descrive con attenta sobrietà il suo percorso, dalla coscienza della diversità al coming out, ma chi cerca particolari piccanti resta deluso. E il finale è quasi un manifesto: “Quando rivendichiamo il diritto al matrimonio, rivendichiamo uguaglianza per i nostri sentimenti di amore”. E’ possibile che il mondo gay, causa anatemi sociali, riesca, più di quello etero,


società

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ni anagrafiche, dal titolo Più dei sogni miei (Mondadori), centoquaranta pagine per quattordici euro. Siamo obbligati a sapere qualcosa di lei perché Federico Moccia l’ha scelta come protagonista del film tratto dal bestseller Scusa ma ti chiamo amore, dove c’è la liceale che si innamora di Raoul Bova, nonostante la differenza d’età. D’accordo che è molto contenta e un pochino miracolata, ma una delle rivelazioni più serie che la ragazza è in grado di fare è questa: “Non so cucinare. Fosse per me camperei con carpaccio di manzo e parmigiano”. Poi apprendiamo che il suo fidanzato, Teo, le ha proposto: “Vieni a vivere con me”. E lei, tenerina, ha pensato: “Si decolla davvero, solo stando fermi, accanto a chi si ama”. Violini. Dissolvenza. Michela Quattrociocche non è un’eccezione. Nel suo libro, una delle comparse cita come ultima, entusiasmante lettura, l’autobiografia di Kakà. C’è chi ha nella hit Costantino Vitagliano e Fabrizio Corona con le sue prigioni.

Dopo Simona Ventura, Patty Pravo, Franco Califano, Nicola Vaporidis ora i fan attendono l’autobiografia della coppia dell’anno: Briatore-Gregoraci a produrre grandi passioni. Va bene tutto, perché, in questi anni banali, c’è fame di storie. La vita di Marco Baldini, socio di Fiorello a Viva Radio Due (Il giocatore, (Baldini Castoldi Dalai), la caduta e l’ascesa, le scommesse vinte (poche) e quelle perdute (molte) con un provvidenziale happy end diventeranno un film. Come le vicende, peraltro notevolmente avventurose, di Filippo la Mantia, fotografo di cronaca nera, prima

di diventare chef della Roma-bene (il libro, neanche tanto romanzato è Maqueda). Ma non basta ancora. Così viene reclutata anche Michela Quattrociocche, che ha vent’anni e può raccontare giusto qualche aneddoto sulla sua prof. di italiano (“Guardi Quattrociocche, che deve avvitarsi bene la testa al collo. La distrazione può esserle fatale”), ma ha già pubblicato un volumetto, breve, per ragio-

E, visto che il mercato gradisce c’è tutto un lavorio per produrre opere che raccontino al popolo le memorabili gesta di Melita (ex Grande Fratello, inviata di Lucignolo) di Ilary Blasi e Cristina Chiabotto che insomma, è stata anche miss Italia (e allora perché non Paola Barale? Perché non Anna Falchi, ex Lady Finanza?). Per quanto Remo Bassetti, eclettico notaio, fondatore e direttore della rivista Giudizio Universale si esprima chiaramente “contro il target”, (il saggio è pubblicato da Bollati Boringhieri), contro libri che “mettono in circolazione le idee che già circolano” e parlano di persone delle quali già si parla anche troppo, il chiacchiericcio è destinato ad aumentare. Il prossimo colpo editoriale sarebbe un’autobiografia in coppia, autori Briatore-Gregoraci. Non è uno scherzo, qualcuno ci stia già lavorando. Ricordiamo, non certo per scoraggiare l’operazione, che l’unico precedente analogo (Albano Carrisi e Romina Power) non ha avuto un gran lieto fine.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

La cronaca nera influenzerà la meta delle vostre ferie? LO AMMETTO: GLI ULTIMI BRUTALI OMICIDI MI INDUCONO A SCEGLIERE METE TRANQUILLE

MAI LASCIARSI INFLUENZARE DA NOTIZIE TRAGICHE, IL RISCHIO POI È QUELLO DI NON FARE PIÙ NULLA

Quanto influiscono le tragedie all’estero sulla meta delle mie vacanze? Beh parecchio, direi. E dovrebbe essere così per tutti. O almeno me lo auguro. E’ vero, le rapine, i rapimenti, gli omicidi accadono per statistica, com’è ovvio, in tutti i Paesi del mondo. Ma andarsela proprio a cercare in luoghi più esposti a rischio, proprio no. Non dico che prima di prenotare una vacanza bisogna informarsi sui morti ammazzati in questa o quella località durante i mesi precedenti, sarebbe assurdo, impossibile e pure un po’paranoico. Ma francamente scegliere adesso, ad esempio, di andare a Yoret de Mar (dove ha perso la vita la povera padovana Federica Squarise, in vacanza con un’amica) oppure ad Antigua (dove invece è stata torturata e uccisa la sposa inglese in luna di miele), sarebbe proprio da dissennati. E a nulla credo valga il principio del ”per la legge dei numeri...”. Meglio scegliere una tranquilla località di villeggiatura, dove comunque può sempre accadere qualunque cosa, ma almeno non si potrà mai dire: ”Quello là però se l’è proprio andata a cercare...”. Grazie, cordialità.

Penso che il modo più intelligente di programmare una vacanza sia quello di non lasciarsi mai influenzare dalle brutte notizie che possono arrivare proprio dalla meta scelta. Seguendo infatti il principio contrario si rischierebbe di trovarsi nella triste condizione di non poter più far nulla. Sarebbe a dir poco assurdo se paradossalmente adesso più nessuno (ancor più assurdo più nessun italiano o nessun’italiana) volesse andare in villeggiatura in Spagna per via del delitto Squarise. Così come sarebbe assurdo se in Italia non arrivassero più turisti inglesi o comunque stranieri dopo la morte della giovane studentessa Meredith, violentata e ammazzata barbaramente a Perugia. Dando retta insomma ai timori e alle paure che possa accadere qualcosa di simile anhe a noi, non dovremmo più uscire di casa, non dovremmo più muoverci. Non dovremmo più far nulla insomma. Invece occorre non farsi troppo trascinare dalle emozioni, anche se forti e negative, e continuare piuttosto a vivere con la massima serenità ogni avventura. Ma questa è proprio una lezione di vita, più che un consiglio di viaggio.

Rita Iacovone - Palermo

LA DOMANDA DI DOMANI

Kajal per uomo: gadget trendy o da Drag Queen? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Andrea Bartolini - Firenze

TUTTO È SCRITTO NEL NOSTRO DESTINO, A NULLA SERVE SCAPPARE DALLE OCCASIONI Se ti tocca, ti tocca. Non c’è niente da fare. Quindi, tanto vale godersi le vacanze, sempre e comunque. Nella vita ho imparato a essere piuttosto fatalista, credo infatti che (al di là di piccoli e insignificanti incidenti che possono capitare) quando avvengono fatti importanti e davvero gravi, come ad esempio la morte, a maggior ragione se avviene per omicidio, vuol dire che ”il” momento era arrivato. Altrimenti dal cielo non lo avrebbero permesso. Il che non vuol dire non prender mai le dovute precauzioni e proteggersi da possibili pericoli, ma significa solamente vivere con più leggerezza gli avvenimenti e le occasioni che si possono presentare. Poi, accada anche quel che è scritto che deve accadere. Nel bene come nel male.

BARI, CITTÀ PONTE D’ORIENTE Il 19 dicembre è una data molto importante per Bari ed è motivo di orgoglio per tutti i cittadini baresi ciò che sta per accadere. In quella data, nel capoluogo pugliese dovrebbero incontrarsi il nostro Papa Benedetto XVI e il Patriarca della Chiesa ortodossa Alessio II. La città levantina potrebbe, quindi, entrare nella storia, poiché un incontro fra i due rappresentanti non avviene da secoli e cioè da quando ci fu lo Scisma d’Oriente, nonostante diversi tentativi di incontro che fallirono. Grande merito per questa iniziativa va al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che ha sempre sostenuto la posizione di difendere “il diritto di pregare nelle chiese che spetta agli immigrati ortodossi che arrivano in Italia”. Lo ha ribadito nel recente incontro ufficiale tenutosi a Mosca fra il nostro Presidente, il presidente della Federazione russa, Dmitri Medvedev e Vladimir Putin, nuovo primo ministro. In secondo luogo,

COCCHI DI MAMMA Isabella, una bionda labrador del giardino zoologico ad est di Caney, Kansas, ha adottato tre cuccioli di tigre bianchi che erano stati abbandonati dalla loro mamma, lo scorso 30 luglio. I cuccioli sono nati appena cinque giorni fa, domenica 27 luglio

THIS IS THE SUMMER OF LOVE TRA BERLUSCONI E DI PIETRO?

BOICOTTIAMO LE OLIMPIADI DELLA MORTE E DELLA CENSURA

Egregio direttore, dopo un po’ di scaramucce e guerricciole, e dopo l’approvazione del lodo Alfano, qualcuno dice che sboccerà un grande amore tra due giovani. Lui ha un sacco di soldi, è un imprenditore di successo e ora fa il premier. Lui, sì proprio un lui, suvvia siate moderni, non può sempre trattarsi di una lei, è un maschiaccio dominante, che va subito al sodo e ha il pallino delle retate e delle manette. Hanno idee talmente diverse e, per molti aspetti, opposte che finiranno per innamorarsi e nessuno avrà il coragggio di separarli. Del resto trattasi di una forma ipercollaudata, o no? Summer of love tra Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro? Grato dell’attenzione.

Mancano appena otto giorni all’inizio dei famigerati giochi di Pechino 2008. Appartengo a quella (spero cospicua) categoria di persone che non guarderanno le Olimpiadi in televisione e faranno il possibile per sensibilizzare amici, parenti e quant’altro a fare altrettanto. Trovo francamente deprecabile l’assegnazione dei giochi alla Cina, dove la dittatura continua nella sua esecrabile opera di morte e di censura, dove i diritti umani vengono da anni e anni calpestati tutti i giorni, sotto gli occhi di tutto il mondo. Possibile che gli interessi economici, politici e commerciali spingano il mondo, nella sua quasi totalità, a chiudere gli occhi e far finta di niente?

dai circoli liberal Angelina Forti - Pescara

in aggiunta al comportamento del Presidente che ha “innescato” un processo di dialogo, c’è da registrare il dono della Chiesa Russa, da parte della città di Bari alla città di Mosca. Come è noto ai cittadini baresi, questa chiesa è localizzata presso il quartiere Carrassi del capoluogo ed è meta religiosa di numerosi uomini e donne praticanti fede ortodossa. Terzo elemento aggregativo che riguarda la città barese è costituito dal fatto che la Basilica di San Nicola custodisce le spoglie del suo grande santo taumaturgo. San Nicola è un santo molto venerato in Russia e molti pellegrini russi vengono a pregare nella Basilica a Lui dedicata. Le ossa del santo sono qui custodite e si racconta che la mattina dell’8 maggio 1087, un barone con 62 marinai, provenienti da Bari, approdò nel piccolo porto della città di Mira, nella attuale Turchia, prelevarono le ossa del Santo da una chiesa della cittadina e le portarono a Bari.

Pierpaolo Vezzani

Susy Ragno - Napoli

Come detto sopra, il 19 dicembre 2008 la chiesa russa sarà consegnata ai fedeli russi e questo evento potrebbe avvenire alla presenza dei due Pontefici. Non è scelta a caso la data del 19 dicembre; infatti è, in Russia, il giorno di San Nicola. Francesco Facchini CIRCOLO LIBERAL LEVANTE BARI

ATTIVAZIONI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio

800.91.05.29


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog SEGUE DALLA PRIMA

Un libro nient’affatto «meridionalistico» Caro Ottieri, ho letto il tuo diario-racconto ”Parole per vivere”.Vedo il tuo libro molto e sicuramente al di là di tanta letteratura realista e neo-realista, specie di tutta quella con propositi sociali e, in particolare, umanistico-aziendali. Può avere un’importanza europea per la novità dell’argomento che tratta.Va molto più a fondo degli altri, e anzi scopre una zona di rapporti e di episodi non conosciuti nella vita del lavoro industriale e del popolo. Perciò non è «meridionalistico» nel senso che mi dà fastidio: la sua materia riguarda in generale i rapporti umani che si intrecciano ed esplodono intorno alle collaborazioni e alle lotte del lavoro. E’ un libro che dovrà avere successo in Italia e all’estero, per la verità che dice, e a me dispiace molto che tu ti sia già impegnato con un altro editore per la sua pubblicazione, ma ti faccio i migliori auguri insieme a lui. Molto cordialmente, tuo Elio Vittorini a Ottiero Ottieri

MORO E SILONE, SIMBIOSI PERFETTA Avrei qualcosa da aggiungere, o precisare, al buon articolo di Sabina Caronia su Aldo Moro e Ignazio Silone, pubblicato su liberal del 29 luglio, che condivido e apprezzo in tutto e per tutto. Ignazio Silone, di cui ricorre il prossimo 22 agosto il ventennale della scomparsa, dopo essere stato in gioventù un fervente comunista del PdCI e dell’Internazionale e del Comintern, assieme a Gramsci, Secchia e Togliatti, dopo aver conosciuto da vicino, e sperimentato, la vera natura totalitaria, antidemocratica e illiberale dell’intero sistema dell’Unione sovietica, conoscendone personalmente i suoi massimi dirigenti o «nuovi zar», a cominciare da Giuseppe Stalin, si è nel 1931 distaccato (o espulso, dal convegno di Basilea) dalla dottrina e dalla fede comunista, abbracciando insieme con l’ex comunista Angelo Tasca, anch’egli espulso dal partito - l’idea del socialismo umanitario cristiano, intravvedendo in esso, dal loro più che naturale connubio e integrazione, la vera natura del socialismo democratico. Nella seconda metà degli anni Trenta, il campo ester-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

1 agosto

no che più interessa Silone è il mondo cristiano, e il terreno che in questi frangenti più lo cattura non è altro che quello dell’umanesimo cristiano. A questo punto mi vien da ricordare che anche Aldo Moro, ancor giovane di età e prima di scegliere l’impegno e la militanza nella Dc, si era rivolto al segretario del Psi di Bari per chiedere l’iscrizione al partito, che gli fu invece maldestramente rifiutata perché era un credente cristiano.Ecco, è proprio da qui che inizia l’approccio di Moro con la cultura e la nuova fede politica di Ignazio Silone. Quella tra Silone e Moro è stata una simbiosi perfetta che, se avesse potuto essere politicamente messa in pratica avrebbe certamente salvato la vita dell’illustre professore di Maglie (Lecce), in nome di quell’umanesimo cristiano che Silone aveva appreso fin da piccolo da don Orione. «Io - scrisse Silone - ho cercato di spiegare che un’eredità ben più ricca e seria è quella che il cristianesimo ci ha lasciata». Ringrazio per l’ospitalità e porgo cordiali saluti.

Angelo Simonazzi Poviglio (Re)

527 Giustiniano I diventa Imperatore Bizantino

1492 Ferdinando e Isabella cacciano gli Ebrei dalla Spagna 1819 Nasce Herman Melville, scrittore, poeta e critico letterario statunitense 1834 La schiavitù viene abolita nell’Impero Britannico 1865 In Italia esce il primo numero de il Sole, poi diventato il Sole24Ore nel 1965 1902 Gli Stati Uniti acquistano dalla Francia i diritti sul Canale di Panama 1914 La rivista ”Lacerba” pubblica il Manifesto dell’Architettura futurista 1931 A Genova viene varato il Transatlantico Rex, l’unica nave italiana a vincere il Nastro Azzurro 1957 Gli Stati Uniti e il Canada formano il North American Air Defense Command (Norad) 1967 Israele si annette Gerusalemme Est 1990 L’Iraq invade il Kuwait

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

PUNTURE Per Alitalia ci sono ben 5000 esuberi. Ma per le hostess non c’è da preoccuparsi: saranno assunte da Berlusconi.

Giancristiano Desiderio

Quando due uomini in affari sono d’accordo, uno dei due è superfluo EZRA POUND

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

Se vincono i protezionisti il mondo è a rischio di Andrea Mancia segue dalla prima E l’argomento imperversa su tutte le prime pagine dei giornali Usa, come su gran parte di quelli europei. Per non parlare della stampa indiana, cinese o australiana. Il timore, diffuso non solo in Occidente, è che il tracollo di Ginevra possa rappresentare quel “punto di non ritorno” di un trend che per mezzo secolo ha portato ad una graduale espansione mondiale del libero commercio e dei liberi mercati. E che oggi sembra puntare pericolosamente verso una deriva protezionista. Questo potrà anche fare piacere a quei colbertisti no-global di casa nostra che individuano nel Wto, braccio armato del “mercatismo”, la causa di tutti i mali economici del pianeta. Ma non può certo rassicurare chi è cosciente della – ormai ampiamente dimostrata – correlazione positiva tra libertà economica e sviluppo. O di chi, molto più semplicemente, si rende conto che il free-trade è il migliore antidoto possibile alle crisi internazionali che premono ai confini del mondo occidentale. Come sa benissimo chi ha sfogliato, almeno una volta, l’Index of Economic Freedom elaborato (da 15 anni) dalla Heritage Foundation in collaborazione con il Wall Street Journal, il grado di libertà economica di un paese è strettamente ed indissolubilmente correlato con il suo tasso di sviluppo e prosperità. I cittadini dei paesi “liberi”guadagnano più del

doppio - a parità di potere d’acquisto - di quelli che vivono in paesi ad economia “mista” e quasi dieci volte di più di quelli che hanno la sfortuna di essere governati dal dirigismo e dalla pianificazione. Se non bastasse, poi, ricordare come le nazioni che fanno affari tra di loro quasi mai si dichiarano guerra, sarà almeno il caso di sottolineare che il grado di correlazione tra la libertà del commercio internazionale e la crescita economica è ancora più evidente. Tutti e cinque paesi con lo sviluppo maggiore dal 1990 ad oggi (Albania, Bosnia, Cina, Irlanda e Vietnam) hanno incrementato il commercio estero con percentuali in doppia cifra. Le nazioni in fondo alla graduatoria del commercio internazionale (Iran e molti paesi africani) sono in stagnazione da anni. «La libertà economica è come il matrimonio – scriveva qualche anno fa il mai troppo rimpianto responsabile degli editoriali del Wall Street Journal, Robert L. Bartley – richiede un impegno serio e molta perseveranza. Putroppo molti paesi scelgono la via delle “mezze misure”che evitano forse problemi a breve scadenza ma che si rivelano disastrose nel lungo periodo». Con il fallimento del Doha Round, molti governi mondiali i sembrano aver imboccato la comoda scorciatoia del protezionismo. Ma, con il ritmo di crescita demografica di colossi come Cina e India, il loro matrimonio con la storia non è destinato a durare.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Le foto che quarant’anni fa fecero il giro del mondo saranno in mostra a Milano fino al 7 settembre

Josef Koudelka, il testimone della primavera di di Angelo Crespi u una lunga primavera, celeberrima e leggendaria, quella che visse Praga nel 1968. Una primavera segnata non solo dal consueto risveglio della vita e della natura, ma anche da quello di una speranza ristoratrice chiamata libertà. Un diritto e un valore non esattamente accessibile a tutti, nella Cecoslovacchia comunista di quarant’anni fa. E quindi un ideale ancora più nobile e agognato, che costò la vita a non pochi giovani, ma che fece presto breccia nella popolazione tutta e addirittura tra i ranghi del monolitico Partito comunista che guidava la nazione da vent’anni. Alexander Dubcek, infatti, leader della corrente riformista che ambiva a mantenere il sistema economico collettivista caro al regime, ma affiancandolo con una maggiore libertà politica, di stampa e di espressione, nel gennaio di quell’anno fu eletto segretario del Partito comunista cecoslovacco, inaugurando quella stagione di “Socialismo dal volto umano” che i media e gli osservatori internazionali presto ribattezzarono “primavera”. Una stagione che durò ben oltre i suoi naturali confini temporali, si diceva, ma che si interruppe bruscamente e senza via di scampo in una calda notte d’agosto, esattamente due mesi dopo l’equinozio che vanamente l’aveva salutata dal calendario.

F

Una primavera zittita dal fragore dei carri armati, dal fruscio dei paracadutisti e dal rombo degli aerei sovietici (e di tutti gli altri Stati membri del Patto di Varsavia) che, da nord e da oriente, violarono la frontiera boema per portare il loro «aiuto immediato, incluso un aiuto militare, al popolo cecoslovacco», come si legge nella dichiarazione ufficiale riportata dalla Pravda di Mosca il 21 agosto 1968. Che, su diretta indicazione di Breznev e del Soviet supremo, continuò a insistere sulla tesi «dell’aiuto necessario al popolo cecoslovacco» in nome «dell’amicizia indivisibile e la collaborazione» e del fatto che fosse «un comune dovere internazionale la difesa delle conquiste del socialismo», con tanta sfacciataggine da non curarsi nemmeno di non cadere in contraddizione, passando a sostenere che «la situazione in Cecoslovacchia si è aggravata ulteriormente a causa del pericolo che vengano toccati gli interessi vitali dell’Unione Sovietica». Una contraddizione resa definitivamente eclatante ed esplicita dalle parole dello stesso Dubcek, che intervenne in prima persona in diretta nazionale sulle frequenze della radio cecoslovacca per invitare tutti i suoi connazionali «a mantenere la calma e a non opporre resistenza agli eserciti che avanzano poiché ora è impossibile la difesa della nostra frontiera» e per ribadire che tutto ciò che stava accadendo era cominciato come una vera e propria aggressione straniera, «senza che il Presidente della Repubblica, la presidenza dell’Assemblea nazionale, la presidenza del governo, il Primo

Il fotografo immortalò in presa diretta la sofferenza della Capitale cecoslovacca attraverso i volti di protagonisti, luoghi e cose

PRAGA

Segretario del Comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco ne fossero a conoscenza».

Ecco quello che successe in quei giorni, allora, socialismi contro socialismo, eserciti proletari che attaccano un popolo “lavoratore”, compagni invasi dai compagni, bombe fratricide: Praga in fiamme e poi paralizzata dallo choc, dall’incredulità, dalla paura di un nuovo Hitler diverso solo nel segno e nel colore; strade deserte e poi straripanti di manifestanti silenziosi; cingolati in ogni piazza, a ogni incrocio, davanti a ogni palazzo strategico; case sventrate e macchine sfondate dai blindati; volti impauriti, attoniti, e sorrisi tesi, e occhi serrati, e passi svelti per rispettare il coprifuoco o recuperare qualche bagaglio con cui fare la coda alla stazione e andarsene il prima possibile; folle in attesa di notizie, buone o cattive che fossero; qualche accenno di rivolta e qualche tentativo di socializzare con i compagni invasori, presto altrettanto straniti e imbarazzati dall’evidente insensatezza del tutto.

Un paradosso spiegato dai comunicati ufficiali di quei giorni, ma raccontato ancora meglio, e sviscerato in ogni sfumatura e in ogni dettaglio, dalle foto che il trentenne Josef Koudelka scattò in presa diretta toccando tutti gli angoli della sua Capitale, immortalandola in tutta la sua sofferenza e in tutte le sue attese, sublimando i volti di anonimi protagonisti e le scene di massa al tempo stesso, le persone e le case, i luoghi e le cose. Un reportage che subito varcò la frontiera sotto mentite spoglie per essere pubblicato dai principali giornali “liberi” di tutto l’Occidente e trasformarsi nel perfetto biglietto da visita di un grande fotografo in attesa di essere scoperto e celebrato dal mondo intero. Un maestro che oggi, a quarant’anni esatti da quegli eventi che gli cambiarono la vita, è a Milano per la prima grande esposizione dedicata a quei suoi leggendari scatti in bianco e nero. Montati in serie, senza cornici e senza didascalie, nei rigorosi ambienti dello Spazio Forma, in mostra fino al 7 settembre. Perché a parlare siano solo le immagini.


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