La scommessa di Geronzi contro Profumo e i suoi
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ISSN 1827-8817 80802
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Dove porta la guerra di potere su Mediobanca
di Ferdinando Adornato
di Francesco Pacifico
LE PAGELLE DEL GOVERNO Mentre la manovra finanziaria conclude il suo iter alla Camera, sette tra i più autorevoli economisti italiani danno i voti a Berlusconi e Tremonti. Contenuti, metodi, visione: entrambi sono rimandati a settembre alle pagine 2, 3, 4 e 5
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a dir poco ambiziosa l’agenda di Cesare Geronzi per il prossimo autunno. Intanto dare un’altra, decisiva, lezione ai manager ribelli Alberto Nagel e Renato Pagliaro (gente che «pensa che la propria importanza in azienda sia proporzionale al livello non certo risibile del proprio stipendio»). Eppoi spiegare a Giovanni Perissinotto come si tengono i rapporti con azionisti per evitare a Trieste un nuovo caso Algebris. Ma soprattutto si deve riportare Telecom alla redditività, spingere Rcs a focalizzare meglio il suo business e sciogliere i nodi della governance di Generali («Due amministratori sono troppi», ed inutile dire quale dei due deve lasciare). Dalle colonne del Sole 24Ore parla e pontifica come un azionista di minoranza Cesare Geronzi, e non come il presidente di Mediobanca, della cassaforte dell’argenteria finanziaria italiana. Ma forse per minacciare una guerra totale, rimettere al proprio posto amici e nemici, mostrare le armate a disposizioni per replicare agli attacchi, un altro linguaggio non avrebbe fatto comprendere l’autunno caldo che ci aspetta. A meno che non si torni a fare business come un tempo. Alla base del proclama di Geronzi c’è un assunto troppo semplice, e che il capitalismo italiano, tutto incroci e debiti, sembra aver dimenticato: le partecipazioni industriali devono innanzitutto fruttare.
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se gu e a p ag in a 6
Il killer di Sadat visto come un eroe I sindacati chiedono aiuto al governo
Un film riaccende l’odio tra Il Cairo e Teheran
A fermare l’Aprea ci pensi Brunetta
di Antonio Picasso
di Giuliano Cazzola
Nuovi attriti si mettono di traverso fra Il Cairo e Teheran: un documentario uscito in questi giorni in Iran sull’omicidio del Presidente egiziano Sadat rischia di degenerare in una vera crisi politica.
Sindacati in rivolta chiedono aiuto al governo per contrastare una singolare iniziativa di riforma scolastica presentata da Valentina Aprea, presidente della commissione Cultura della Camera.
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SABATO 2 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
Riforma elettorale: colloquio con Enrico Letta
L’attore nelle sale con ”Invincible”
«Sulle preferenze sosteniamo l’Udc»
L’infingardo truffatore Tim Roth
di Francesco Capozza
di Piergiorgio Buschi
«Sono assolutamente a favore delle preferenze». Così a liberal l’ex sottosegrtario alla presidenza del Consiglio Enrico Letta, che ha aggiunto: «Costituiscono lo strumento più efficace per restituire valore ai Parlamenti».
E’ uscito in questi giorni in Italia ”Invincible”, pellicola che vede Tim Roth vestire i panni di un impresario esperto di magia, che cerca di convincere Hitler a istituire un ministero delle Scienze occulte.
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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Ieri dopo il Cdm e a Napoli
Ma il Cavaliere insiste sul “tutto va bene“ di Franco Insardà itorna il sette in condotta e liberal con l’aiuto di sette autorevoli economisti dà i voti al governo Berlusconi. Mentre l’inflazione cresce e le famiglie sono sempre più in difficoltà, il premier va avanti imperterrito a colpi di spot per convincere gli italiani che la sua azione politica non conosce ostacoli. Che ce la farà. Anche ieri, dopo il voto di fiducia sul decreto della manovra economica, Silvio Berlusconi ha fatto sfoggio del suo solito ottimismo: «Crediamo che in questa Finanziaria, in cui si cercheranno di ridurre gli sprechi e i privilegi, ci siano i numeri che ci consentiranno di sopportare e superare bene anche questa grave crisi». E quasi a voler fugare le critiche di questi giorni per la norma sui precari, il taglio degli assegni sociali e la riduzione dei fondi per le Forze dell’ordine, si è detto convinto che «alla ripresa dei lavori, in autunno, il governo e il Paese non si troveranno a fronteggiare una situazione difficile. C’è in giro tanta voglia di fare, ho avuto anche rapporti con sindacati molto responsabili. Dobbiamo essere coscienti che c’è una inflazione in aumento per una crisi globale. Ma l’Italia ha tutte le possibilità, se tutti ci impegnamo, agendo con concretezza come hanno fatto questo governo e questa maggioranza, per guardare al futuro con ottimismo». Quell’ottimismo che non si respira tra le opposizioni. Sempre ieri il segretario del Pd, Walter Veltroni, dopo l’incontro con il “dialogante”presidente del Senato, Renato Schifani è stato laconico: «Per parte nostra in Parlamento si può realizzare l’auspicio del presidente Napolitano sulle riforme.Vedremo ad ottobre che clima si crea. Ma se la linea è data dalle parole del presidente del Consiglio, è molto difficile, anche solo immaginare una qualsiasi forma di dialogo e collaborazione».
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Insomma dall’8 maggio a oggi il governo guidato da Silvio Berlusconi è riuscito sicuramente a comunicare un’efficienza che però non corrisponde del tutto alla realtà. Non è un caso che il premier sia sempre più spesso a Napoli e vada giustamente fiero del risultato ottenuto per l’emergenza rifiuti. Ieri, al termine di un incontro con 300 amministratori campani, ha promesso che il termovalorizzatore di Acerra sarà pronto entro gennaio 2009 e ha concluso annunciando: «Affiggeremo dei manifesti, a spese della presidenza del Consiglio, con la scritta ”Napoli è la mia città”». Ma la gestione della vicenda Alitalia sta diventando, giorno dopo giorno, un boomerang che rischia di travolgere la gioiosa macchina promozionale del governo nonostante anche in questo caso il premier cerchi di gettare acqua sul fuoco: «Stiamo lavorando proficuamente sulla vicenda. Ci sono i soci, c’è il piano industriale, ci sono i capitali, Credo che riusciremo ad avere una nuova compagnia di bandiera che un Paese come l’Italia deve assolutamente avere». Ma per tutti: dal premier ai sette economisti che abbiamo interpellato l’esame è rimandato in autunno. E con una sinistra radicale fuori dal Parlamento, la piazza può rivelarsi un’incognita decisiva. A quel punto gli spot potrebbero non bastare.
Diamo la pagella alla politica economica del governo
BERLUSCONI E TREMONTI RIMANDATI A SETTEMBRE Enrico Cisnetto, Carlo Secchi, Giacomo Vaciago, Luigi Paganetto, Gianfranco Polillo, Carlo Lottieri Stefano Fassina: sette economisti italiani danno i voti ai primi cento giorni del governo. La media dei loro giudizi (5+) consiglia di passare l’estate a studiare, in attesa dell’autunno, quando tutti i nodi verranno al pettine...
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2 agosto 2008 • pagina 3
L’unica reale novità è stata l’anticipazione della Finanziaria
Opere pubbliche, scuola, sanità: sulle vere emergenze non si fa niente
di Enrico Cisnetto
di Giacomo Vaciago
presidente di Società Aperta
professore di Politica economica Cattolica di Milano
l Governo non raggiunge la sufficienza sui contenuti: se ci sono gli scatti in avanti di alcuni ministri-star come Scajola (sul nucleare), Brunetta (riordino della P.A.) e Sacconi (riforma del welfare della contrattazione), rimangono altre questioni sul tavolo (in primis, lo stesso dossier Alitalia) che non sono gestite come lo slancio alla“ghe pensi mi” che la campagna elettorale poteva far sperare. In generale è chiara, nell’operato dei primi tre mesi, una predilezione per l’effetto annuncio, con le sue conseguenze di miracolismo: come i rifiuti che – per conseguenza stessa della presenza fisica berlusconiana – scompaiono da Napoli (e soprattutto dai media), così questo “wishful thinking” si cerca di imporlo a tutta la linea di governo, in particolar modo in economia. Ecco così le trovate tremontiane, culminate nella Robin Tax e nella proposta avanzata in sede europea di zavorrare i derivati per frenare il boom delle materie prime.Trovate, appunto: che occupano molte prime pagine di giornali, dopodiché, il nulla. Molto fumo e poco arrosto, insomma, sul fronte dei contenuti.Voto: 5
e emergenze da risolvere sono moltissime. E riguardano, in particolare: opere pubbliche, scuola e sanità. Sono trascorsi ormai i fatidici cento giorni dall’insediamento dell’attuale esecutivo, eppure in tutti questi campi non si capisce ancora cosa verrà realizzato. L’unica cosa certa è un taglio enorme di spesa pubblica, che rischia di finire fuori controllo. L’obiettivo di rimettere in sesto i conti pubblici è assolutamente condivisibile, ma mi domando se la strada sia quella dei tagli indiscriminati. Perché, al contrario, non si valuta caso per caso quale sia la soluzione più opportuna? Ad esempio, prendiamo le università: non credo siano tutte inefficienti. Il voto è secco: inesistente. Quindi: zero.
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CONTENUTI: 5 Per quanto riguarda il metodo, il Berlusconi IV la sufficienza la spunta, magari anche un sei e mezzo. Soprattutto per la manovra economica, che ha unito Dpef e Finanziaria, anticipando e triennalizzando quest’ultima. Una novità che rappresenta certamente un segnale positivo, così come positivo è anche “l’ancoraggio” di Tremonti ai pilastri di Maastricht. Il suo autodefinirsi seguace di Padoa-Schioppa come custode dei patti europei ci piace soprattutto perché la scelta europeista per questo esecutivo non era affatto scontata. Se fosse per solo questo, il Governo si meriterebbe persino un 8 tondo. Però, a tirare giù il voto c’è la incontinente verbosità del premier – pessima in queste ultime ore su Alitalia, che rischia di complicare la situazione – e un diffuso dilettantismo, che si nota in Parlamento (d’altra parte, aver messo in lista“nani e ballerine”prima o poi si paga). Se poi si aggiunge la nota sul registro che occorre senz’altro scrivere per il ricorso forsennato alla fiducia, ecco perché sul metodo – e siamo generosi –non andiamo oltre il sei.
METODO : 6 Sulla visione strategica – cioè la cosa più importante - il re è nudo. E non parliamo tanto di Berlusconi, che dopo soli tre mesi ha già dichiarato conclusa la sua luna di miele col Paese, e si è nuovamente rinchiuso nel suo fortino, tutto concentrato sulla risoluzione dei suoi privatissimi fatti (mentre qualcuno sperava in una svolta da statista). Parliamo dell’intero esecutivo, e in particolare del superministro Tremonti: che, pur col buono che si è detto soprattutto sul metodo, dimostra di non avere una mission precisa. Nella manovra triennale non vi è traccia, infatti, di un ingrediente fondamentale: le politiche per la crescita economica. Politiche di cui il Paese ha disperato bisogno, per uscire dalla stagnazione ormai certificata da tutti: Bankitalia, Istat, Ue, Ocse. Un Paese che cede sul fronte dei redditi, con un potere d’acquisto in coda a tutte le classifiche, e con una crescita dello zero virgola qualcosa che ci accompagnerà non solo per tutto il 2008 ma anche per il 2009, dove si pensa possa andare? Serviva un nuovo “piano Marshall”. Per adesso, come si dice: “non pervenuto”. Unico giudizio possibile, dunque: zero. 0
Molti passi in avanti per tornare a competere nella globalizzazione di Carlo Secchi
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professore di Politica economica Bocconi di Milano
ento giorni non sono sicuramente un periodo di tempo sufficiente per valutare l’efficacia della politica economica di un esecutivo, soprattutto se si considera la difficoltà dell’attuale situazione, caratterizzata da una serie di elementi sfavorevoli: caro-petrolio, inflazione in aumento, crescita dei beni di prima necessità. Per porre fine a queste problematiche ci vorrà certamente del tempo, ma dal punto di vista dei contenuti la manovra economica del governo Berlusconi prevede una grande novità. Ed è questa: finalmente si è fatto ordine al grande marasma burocratico, mettendo a segno una serie di provvedimenti di smaltimento e alleggerimento della burocrazia. Senza contare al lavoro che si è fatto sulle scadenze dei termini e semplificazione del quadro normativo. Queste non sono misure accessorie, ma hanno contenuto strategico e sono necessarie per rilanciare l’Italia e metterla a livello degli altri paesi. Certamente, anche se il tempo è stato esiguo, all’indirizzo del ministro sono arrivate diverse critiche sul suo operato. Quelle più pesanti riguardano un ritorno a politiche di tipo keynesiano che, dicono, farebbero tornare l’Italia indietro di cinquant’anni. Non sono mancate, poi, accuse fondate sul fatto che si sta puntando su una politica che cerca di contenere la globalizzazione attraverso misure colbertiste e di eccessivo protezionismo. Sono accuse assolutamente semplicistiche e non tengono conto della realtà. Il giudizio è discreto: sette.
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CONTENUTIC : 7ONTENUTI:
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Un’altra cosa che vorrei sottolineare riguarda il metodo con cui il ministro dell’Economia e il suo staff hanno affrontato la manovra economica, improntandola in tempi assolutamente anticipati rispetto a quelli soliti. E dimostrando di voler intervenire concretamente sulle principali criticità che affliggono il Paese. Su questa voce il governo si merita un bel sette e mezzo.
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Quanto agli obiettivi di lungo periodo penso che la forza di un governo si misuri dalla sua capacità di fare quei passi preparatori che permettono ad una nazione, in questo caso all’Italia, di competere alla pari con gli altri paesi dell’Europa e del mondo. Su questo piano, nonostante il tempo a disposizione sia stato poco, si sono fatti diversi passi in avanti. Anche qui il giudizio è discreto.
CONTENUTI: 0 Quanto al metodo devo fare questa amara constatazione. Il governo risolve i problemi e fa funzionare il Paese oppure fa le leggi? Perché la mia sensazione è che l’esecutivo attuale si sia sostituito al Parlamento: fa le norme, le porta alla Camere ed esse approvano. A questo punto, mi domando: cosa ci sta a fare la Camera? Finora, infatti, non ho mai visto tanti provvedimenti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale come in questi cento giorni. Paradossalmente si sono prodotte tante di quelle leggi che non c’è più nessuno in grado di farle rispettare. È un governo o no? Il problema è che l’esecutivo si è fatto prendere dalla mania di realizzare provvedimenti. Mentre il problema è farle rispettare. Proviamo a fare un paragone con gli altri paesi, pensiamo agli Stati Uniti o all’Inghilterra: in questi luoghi il governo è il vertice dell’amministrazione politica. E quindi si occupa diella visione stgrategica del Paese: garantisce la funzionalità ed evita che si verifichino momenti di particolare criticità. Da noi invece accade il contrario. Abbiamo assistito ad una serie di scandali, come per esempio quelli che si sono verificati all’ospedale di Santa Rita a Milano. Perché non si mettono in atto le ispezioni prima che i problemi succedano? Quando cominciamo? Ancora una volta il voto è secco: inesistente. Quindi: zero.
METODO : 0 Terzo punto: quello dell’orizzonte della politica di governo. Il programma elettorale era centrato sull’ipotesi di tagliare la spesa pubblica corrente per potersi così meritare una riduzione di tasse e quindi viaggiare a vele spiegate verso lo sviluppo. Il problema è che non c’è euro di spesa pubblica che non sia reddito per chi lo riceve. Di conseguenza: sono tutti in piazza a protestare. Il problema è che anche i tagli vanno pianificati all’interno di un obiettivo di lungo periodo. La ristrutturazione, d’altra parte, richiede una sapiente opera amministrativa: i miracoli non avvengono senza che nessuno faccia in modo che si verifichino. Abbiamo bisogno di uno scatto in avanti: finora ci siamo arenati alla fase 1, quella normativa.Ma siamo in assenza della fase 2: fatte le norme bisogna vedere cosa accade dopo. Purtroppo, devo ripetermi nella valutazione: zero.
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«Se gli riesce il pareggio sarà come Quintino Sella» di Gianfranco Polillo economista ed ex capo del dipartimento di Affari economici di Palazzo Chigi i può dire tutto il male possibile di Giulio Tremonti, ma un merito gli va riconosciuto. Se le cose andranno come devono andare avrà realizzato un obiettivo ’storico’: il pareggio di bilancio nel 2011. Non sorprenda l’aggettivazione. La Repubblica italiana non ha mai potuto conseguire questo risultato. Quando fu varata la Costituzione, il deficit era pari al 4,8 per cento. Poi la “Ricostruzione” ed il grande “miracolo economico”. Eppure, nemmeno allora, fu possibile risanare le finanze pubbliche. Il deficit, agli inizi degli anni ’60, rimase incollato all’1,8 per cento. E non ci fu nulla da fare: perché con l’esaurirsi dell’età dell’oro tutto divenne più difficile. Ed il susseguirsi delle crisi impedirono ogni possibile intervento, fino al default sfiorato degli anni ’90. Sessant’anni, nella storia di un
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Paese, sono tanti. Circoscrivano l’orizzonte temporale di tre generazioni. Se il pareggio sarà conseguito, nessuno potrà impedire all’attuale ministro del tesoro di essere ricordato, come lo è ancora Quintino Sella, come il grande risanatore della finanza repubblicana. L’intelligenza di Giulio Tremonti è stata quella di aver compreso l’importanza della posta in gioco e di essersi comportato di conseguenza, anche a costo di sacrificare qualche cosa. Se dovessimo esprimere un giudizio sul suo operato, esso, pur incrociando le dita, non può che essere di gran lunga positivo. Il giudizio è molto positivo: nove.
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Si poteva fare, utilizzando strumenti diversi? Questo è l’interrogativo che resta sullo sfondo. Qualche forzatura, c’é
stata nella ristrettezza dei tempi. Un Parlamento costretto all’aut aut del prendere o lasciare. Il maxiemendamnto seguito dal voto di fiducia. Le proteste dell’opposizione. Cose in parte vere ed in parte scontate. Le prime forzature regolamentari risalgono al 1996. Tremonti si è limitato a seguire una prassi codificata. Le stesse accuse che gli sono state rivolte sulla eccessiva disinvoltura con cui ha innovato nella gestione del bilancio non tengono alla prova dei fatti. Tommaso Padoa Schioppa con il famoso comma 507 dell’articolo 1 della sua prima legge finanziaria aveva fatto di peggio. Giudizio, comunque, sospeso. Finora è prevalsa l’emergenza che, come la notte, rende i gatti tutti bigi. Dal settembre prossimo si dovrà cominciare a discutere di riforme delle procedure di bilancio. Ed allora vedremo qual è
la farina vera nel sacco dei tecnici dell’economia. Date le premesse non posso che dare un ”non classificato”.
METODO: N.C. Sbaglieremmo, comunque, se pensassimo che tutto questo è il frutto di una mente solo empirica. Dietro quelle scelte c’è una visione che può essere più o meno condivisa. Non è facile esprimere un giudizio. Le curiosità intellettuali, che sono tipiche di Tremonti, lo hanno portato spesso a sostenere tesi innovative. Ma un dato non va sottovalutato. Negli anni ’70, in un famoso comitato centrale di quello che fu una volta il Pci, Enrico Berlinguer parlò del “mutamento irreversibile nei rapporti di forza tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati”. Una svolta epocale destinata a cambiare la geopolitica del mondo. Sono le as-
sonanze che si ritrovano nelle ultime prese di posizioni di Giulio Tremonti. Anche qui la valutazione è più che positiva: otto.
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«No a Robin Hood, sì a interventi strutturali» di Stefano Fassina Consigliere economico governo ombra l governo tutto concentrato a mettere a punto la famosa Robin tax e la social card (dal sapore unicamente demagogico) si è dimenticato di due nodi strategici decisivi: l’aumento della produttività e la tutela dei potere d’acquisto dei redditi da lavoro e pensione. Non sono due sviste da poco conto. Soprattutto se consideriamo gli ultimi dati Istat sull’inflazione, che nel mese di luglio ha superato la soglia del 4%. Ma non è l’unico dato negativo. Pensiamo ad esempio all’impennata dei beni alimentari di prima necessità che sono aumentati del 25%. A pagarne le conseguenze sono le fasce della classe media che – a fronte degli attuali rincari e con uno reddito medio di 2.500 euro – non può certamente dirsi tranquilla. Questi settori della popolazione sono penalizzati da un altro deficit: Inoltre non esiste una diminuzione delle tasse sui redditi da lavoro che, quindi, soffrono terribilmente. Non posso dare più di tre.
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Sui contenuti, il governo ha commesso un grave errore: quello di sottrarre al Parlamento la possibilità di analizzare e discutere i provvedimenti che riguardano l’economia del Paese. E questo non è un bene per la qualità della manovra. Pensiamo all’emendamento fatto proprio dall’esecutivo sui precari, dove poi è stata fatta marcia indietro. È solo un caso, se ne potrebbero fare altri. L’errore comunque è sempre lo stesso: il governo ha soffocato la possibilità di intervento del Parlamento. Questo è certamente un errore di metodo, ma l’effetto finale è stato quello di influenzare negativamente tutte le norme che finora sono state approvate. Anche qui siamo molto al di sotto della sufficienza: tre.
strada per risolvere i problemi strutturali del Paese. L’Italia avrebbe bisogno di affrontare, come ho già segnalato, i due nodi della produttività e del potere d’acquisto. Ecco la ricetta. Invece di sprecare risorse sugli straordinari che non hanno nulla a che vedere con la produttività consiglierei di detassare le retribuzioni contrattate al secondo livello contrattuale: quelle legate alla produttività. Misure che sarebbero utili a rilanciare il Paese su questo livello. D’altra parte è proprio questa voce quella decisiva per la crescita. E non possiamo mancare la sfida di incrementarla. Poi rimane il grosso tema della pressione fi-
scale. Le persone ”strozzate” dalle tasse non sono solo quelli con redditi bassi, ma anche quelli con una retribuzione medio-bassa. Se si alleggerissero queste categorie si riuscirebbe ad innescare la crescita dell’economia che è un aspetto rilevante anche per il risanamento della finanza pubblica. La situazione, stando allo studio di autorevoli agenzie di rating come la Standard & Poor’s, è allarmante: tra qualche mese in Italia ci sarà una minore crescita e probabilmente un fallimento rispetto all’obiettivo di indebitamento. Perché con questa manovra manchiamo anche quel barlume di crescita che ci è rimasto, mettendo in discussione anche gli obiettivi che riguardano la finanza pubblica. Sarò ridondante ma non posso che dare ”tre”.
METODO: 3 Infine, non posso non segnalare un errore strategico di fondo: il governo ha continuato a fare interventi demagogici – come la Robin Tax o la social card –, ma si è dimenticato di mettere a punto quei provvedimenti che indicano la
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«Sulla gara tecnologica ci giochiamo il futuro» di Luigi Paganetto professore di Economia Internazionale a Tor Vergata ra le misure annunciate in campagna elettorale c’era quella della detassazione degli straordinari e dei guadagni di produttività. Sulla prima si è tenuto fede alla parola data, sulla seconda misura si deve ancora lavorare. Eppure sarebbe davvero importante riuscire a metterla a segno. E soprattutto estenderle anche al settore pubblico. Il ministro Renato Brunetta, infatti, fa bene a puntare sull’efficienza dei dipendenti dell’amministrazione dello Stato, ma non si deve esitare neppure un attimo a riconoscere i loro meriti, quando ce li anno. E questo non tanto per gonfiare la loro busta paga a fine mese ma perché con il loro lavoro contribuiscono realmente a incrementare l’efficienza di tutto il sistema paese. Se fossi il governo quindi punterei sul rilancio della produttività che è, tra l’altro, uno dei punti deboli del nostro paese. Il risultato complessivo è sette.
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CONTECNO UN TIT :7 ENUTI:
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Quanto al metodo, il governo ha adot-
tato una misura a mio avviso assolutamente positiva: quella di aver anticipato la legge Finanziaria. Una misura che non ha un valore di calendario ma ha l’effetto di poter dare più tempestività agli indirizzi che, infatti, sono tanto più utili quanto più vengono fatti anticipatamente. Una modalitò positiva di affrontare le problematiche che ha mostrato anche riguardo alla gestione dell’emergenza rifiuti in Campania. Quest’ultima, infatti, non è solo un tema di igienico-sanitario, ma riguarda il funzionamento complessivo della vita urbana. Il governo, pertanto, mettendola in cima alla lista delle esigenze del Paese ha dimostrato di avere una chiarezza sulla gerarchia delle priorità. Tra i limiti della politica economica segnalerei una scarsa attenzione agli investimenti nel settore della ricerca. Pensiamo al settore energetico: è fondamentale per lo sviluppo del Paese e per sancire gli scatti in avanti che noi effettivamente possiamo fare. È fondamentale per reggere la sfida dei tempi e il confronto con gli altri paesi: d’Europa e del mondo. An-
cora una volta il giudizio è discreto.
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Quanto alla visione, il ministro fa bene a parlare dei limiti della globalizzazione, ma è anche vero che questi limiti sono conosciuti e si tratta di trovare una serie di iniziative che diano risposte a problemi che riguardano gli scambi internazionali. Poi, il fallimento degli accordi del Wtoi non può non spingerci a impegnarci sull’innovazione che può nascere dalla sfida al cambiamento climatico. Anche lì bisogna agire in un modo tale che l’innovazio-
ne produca anche in questo settore una ricaduta positiva per l’industria. Ci troviamo, infatti, di fronte alla possibilità di una seconda rivoluzione industriale che nasce dalle tecnologie che sono messe in atto per l’ambiente e per l’energia. Abbiamo già degli esempi positivi cui guardare in questo campo: la Germania e la Gran Bretagna che stanno molto lavorando per creare competitività industriale. La sfida è interessante e si svolge tutta sul piano della tecnologia. Riguarda tutta l’Europa, quindi noi non possiamo sottrarci. Qui il ”profitto” più scarso: sufficiente. Quindi: sei.
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«Giulio non è Keynes. Ora abbassi le tasse» di Carlo Lottieri Direttore del Dipartimento Teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni a cosa peggiore in assoluto in questi cento giorni è che mentre in Italia c’è una richiesta generale di abbassamento della tassazione, di fatto, il ministero dell’Economia ha continuato a resistere. Giulio Tremonti, infatti, sembra più interessato a migliorare il quadro dei conti pubblici. Obiettivo accompagnato sacrosanto però da una convinzione che personalmente non condivido: non bisogna toccare le aliquote della tassazione. E questo è assolutamente negativo. Anche perché è in assoluta controtendenza rispetto alle richieste che arrivano dal mondo dei sindacati e dai partiti di sinistra. Inoltre, fino ad oggi, ci sono altri temi sui quali l’esecutivo non è riuscito a trovare risposte soddisfacenti, commettendo una serie di errori strategici. Pensiamo al caso
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Alitalia, un caso disastroso di spreco di denaro pubblico. Oppure al capitolo ”privatizzazioni” Ripeto: stare attenti allo stato di salute dei conti pubblici è un bene, ma non è detto che per ottenere questo obbiettivo sia necessario tenere alte le aliquote. Lo dimostrano le esperienze di altri paesi che sono riusciti a mantenere inalterate le entrate fiscali, innescando un meccanismo virtuoso per l’economia. Quale vantaggio avrebbe, infatti, l’Italia ad avere i conti a posto al pari di una crescita zero? Inoltre, rimanendo sempre sui contenuti della politica economica, mi sento di segnalare un altro errore del ministro Tremonti: quello di aver puntato su politiche improntate a logiche keynesiane. Un esempio su tutte: la Banca del Sud. Proseguendo su questa strada si rischia di far tornare l’Italia in-
dietro di cinquant’anni.
CONTENUTI: 5,5 Resta poi da fare la riflessione sul metodo. Un capitolo delicato, che valuterei volta per volta, caso per caso. Ad esempio come si regolerà il governo con il problema dei 5.000 esuberi di Alitalia? Quanto
colpirà le tasche dei cittadini per evitare il peggio e in qualche modo accontentare le richieste dei sindacati? Certamente non avrei dubbi ad affermare che finora il metodo adottato è stato negativo: si è fatto del problema di un’azienda un problema strategico che ha valore assoluto e riguarda il Paese. Ripeto è un problema di metodo: se si adotta una logica che in questo caso è quella di mantenere l’italianità dell’azienda e la sua sopravvivenza sul mercato, poi non possiamo lamentare il fatto che il governo è debole di fronte alle rivendicazioni sindacali. E, per ora, non ci sono dubbi: il governo è molto debole di fronte ai sindacati.
METODO: 6 Infine, qual è la visione del mi-
nistro Tremonti? Una visione che privilegia il ritorno della politica sull’economia. le prove sono evidenti: Banca del Sud, la gestione dei mercati internazionali, il protezionismo.Mi permetterei solo di aggiungere una valutazione: di tutto abbiamo bisogno tranne che di misure keynesiane.
VISIONE : 4 M ED I A : 5+
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La scommessa di Geronzi contro Profumo e i suoi deciderà il futuro degli assetti di potere
La guerra di Mediobanca di Francesco Pacifico segue dalla prima Purtroppo la necessità di blindare il controllo dei pochi gioielli rimasti e la volontà di salvaguardare nicchie di rendita sui mercati hanno generato patti di sindacati troppo eterogenei. Che non danno la forza ai manager per lanciare piani innovativi per rivoluzionare il business. Anche a costo di allungare il tempo di ritorno dell’investimento. È quanto è successo – con risultati diversi – con Telecom, Rcs o Generali. E quanto sta succedendo in Mediobanca. Vedendo la minusvalenza dei soci di Telco in Telecom – poco più 5 miliardi in meno di due anni – è difficile contraddire l’assunto del banchiere di Marino. Si potrebbe al massimo discutere del pulpito – non ha avallato anche il nostro l’eccessivo esborso pagato da Telco per le azioni di Tronchetti Provera? – ma sarebbe scomodare la memoria e lo stile di Enrico Cuccia: si distoglierebbe l’attenzione dagli avvenimenti.
Se l’imperativo è scrostare il sistema, la cancellazione del duale in Mediobanca prende in questa chiave quasi una forma messianica: è stato o non è stato questo sistema di governance il prezzo pagato da Profumo (ora accusato di essere passato dall’altra parte) per la fusione tra Unicredit e Capitalia? È stato o non è stato la moneta di scambio con la quale la struttura di piazzetta Cuccia si è garantita l’autonomia
Mediobanca la generazione dei Nagel e dei Pagliaro è cresciuta durante il crepuscolo di Enrico Cuccia, quando era chiaro che – con l’ingresso dell’Italia in una finanza globalizzata – non sarebbe stata più concesso il monopolio nelle partite industriali. Per loro è una merchant bank, che potrà anche avventurarsi in altri campi (la felice esperienza di retail con CheBanca!), ma alla fine bisogna guardare soltanto agli utili. E nel 2008 saranno superiori a quel miliardo circa raggiunto nel 2007.
Cesare Geronzi è di idea diversa. Farà anche ricorso alla mozione degli affetti – «Mediobanca è stata sempre al centro del sistema, non può emarginarsi» – ma in realtà quello che non gli va giù di Nagel e di Pagliaro è il loro attendismo. Sembra dire, Geronzi, che i due non si sono presi neppure la briga di leggere le carte di Alitalia, tra l’altro storico cliente della casa. Avranno sì fatto i soldi, ma quasi in regime di monopolio, visto che soltanto ora IntesaSanpaolo – e guarda caso con la Magliana – porta un po’ di concorrenza. Eppoi sulle acquisizioni, con il dollaro ai minimi, piazzetta Cuccia è stata ferma. «Io credo», ecco il messaggio, «che si debba avere un po’ più di coraggio». Serve più coraggio per Mediobanca come per le partecipate più importanti: bisogna tornare a macinare utile. Perché – ed è questo l’asso nella manica – lo vogliono i grandi soci fran-
Cesare Geronzi A sinistra Giovanni Bazoli A destra Alessandro Profumo
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Eluana: sì del Senato a conflitto attribuzione Il Senato ha approvato ieri per alzata di mano la mozione della maggioranza che solleva il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato per il caso di Eluana Englaro. Hanno votato a favore Pdl, Lega e Mpa. Non ha partecipato al voto il Pd. Ha votato contro l’Idv. In dissenso dal proprio gruppo hanno votato contro i Radicali Donatella Poretti, Marco Perduca, Giuseppe Saro e Antonio Paravia del Pdl. Intanto la procura generale di Milano ha presentato ricorso contro l’ordinanza della Corte d’Appello che ha dato il via libera alla sospensione dei trattamenti terapeutici della donna in coma da 16 anni. Con la richiesta anche della sospensione dell’esecuzione del provvedimento. Una decisione che impedisce quindi alla famiglia Englaro di procedere alla interruzione dell’alimentazione e della idratazione di Eluana.
Bologna: Rotondi commemora la strage «È un fatto positivo che il governo abbia deciso di essere presente domani alla commemorazione della strage del 2 Agosto, confermando la presenza del ministro Gianfranco Rotondi». Lo ha dichiarato il segretario del Pd di Bologna, Andrea De Maria, che ha aggiunto: «Auspico che cessino finalmente tutte le polemiche e le contestazioni e che le istituzioni e tutte le forze politiche si presentino unite per stringersi intorno alle famiglie delle vittime». Si sono dunque stemperate le polemiche sulla commemorazione della strage del 2 Agosto ’80, che vedrà oggi a Bologna, in rappresentanza del Governo il ministro per l’attuazione del programma Gianfranco Rotondi, in sostituzione del ministro della giustizia Angelino Alfano.
Rai: Rimosso Saccà, Del Noce a RaiFiction Il cda della Rai ha approvato il trasferimento di Agostino Saccà dalla direzione di RaiFiction alla direzione commerciale. Con quattro voti a favore e uno contrario il Cda ha approvato la proposta del direttore generale Claudio Cappon. Nuovo direttore di Rai Fiction diventa così Fabrizio Del Noce: il Consiglio di amministrazione di Viale Mazzini ha votato la proposta di Cappon con 6 favorevoli, Angelo Maria Petroni contrario, Giovanna Bianchi Clerici astenuta.
Pd: governo riveda tagli a editoria
Un peso maggiore ai soci per spingere i manager «ad avere più coraggio» in cambio dello sbarco di alieni come Silvio Berlusconi o della presidenza Geronzi? Sul duale il banchiere di Marino, come riporta Ferruccio De Bortoli sul Sole di ieri, «lamenta equivoci e fraintendimenti fra i rappresentanti degli azionisti, ridotti nel consiglio di sorveglianza al mero ruolo di sindaci». Accusa Nagel e Pagliaro di avere «una sorta di diritto di veto esercitabile sugli azionisti». Ora credere che Nagel e Pagliaro mangino con i piedi sul tavolo, non sappiano fiutare un business quando c’è, è difficile. Più probabile che dietro i loro veti – pochi finora in verità – ci sia una diversa concezione della casa. In
cesi della merchant bank che si attendono ritorni maggiori soprattutto da Generali. Lo vuole Giovanni Bazoli, perché per Intesa la joint venture tra Ca’ de Sass e il Leone è fondamentale. Lo vuole il governo, Tremonti suo «vero punto di forza», che non possono permettersi pezzi del capitalismo italiano portati all’estero. Che questi sponsor siano sufficienti per mettere nell’angolo Nagel e Pagliaro (anche se appoggiati da Alessandro Profumo, accusato di amnesie), è una certezza. Che questo fronte politico basti a Geronzi per diventare immortale, resta una scommessa.
La manovra economica aggraverà la crisi dell’editoria. Ne è convinto il democratico Enzo Carra. Con il provvedimento economico del governo, dice il deputato di centrosinistra, «i contributi all’editoria passeranno nel 2009 da 414 milioni a 300, una cifra notevolmente inferiore a quella necessaria, che lo stesso Dipartimento per l’editoria di Palazzo Chigi ha stimato in circa 550 milioni di euro».
Scuola: sì a esami di riparazione e divise Gli esami di riparazione a settembre e le divise scolastiche. Queste due delle novità che gli studenti troveranno al ritorno dalle vacanze. Il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che ha visto approvare ieri dal Cdm il suo disegno di legge per la reintroduzione del 7 in condotta, fa il punto sulla questione dei crediti e dell’esame di settembre: «Devono rimanere i crediti formativi, perché non vogliamo gravare sulle famiglie. Semplicemente andremo a spostare l’inizio dell’anno scolastico per fare in modo che le scuole possano organizzare meglio il recupero scolastico, e poi ci sarà a settembre un esame con cui verrà valutato lo studente». Quanto alla questione delle divise, «la competenza è delle autonomie scolastiche, ma sappiamo che molti dirigenti stanno pensando alla introduzione della divisa che è un elemento di ordine ma anche di uguaglianza tra i ragazzi».
politica ROMA. Pier Ferdinando Casini lo aveva preannunciato lo scorso fine settima - al Seminario della Fondazione Liberal di Todi - che l’Udc avrebbe depositato in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare per reintrodurre le preferenze nelle elezioni alla Camera e al Senato. Detto, fatto: ieri mattina una delegazione di parlamentari dell’Unione di Centro si è presentata in Cassazione e ha mantenuto la promessa, così come si accinge a «lavorare tutta l’estate, anche sulle spiag-
ge, per raccogliere le firme che consentiranno a questa proposta di arrivare in Parlamento». Allo stesso modo il ministro Roberto Calderoli aveva detto che in tempi brevi il ddl suo e di Umberto Bossi sulla modifica del sistema elettorale per le elezioni Europee sarebbe giunto al vaglio del Cdm e da questo licenziato. Così è stato. La proposta, fatta propria dal governo, ha iniziato ieri il suo percorso ufficiale che prevede, dopo la pausa estiva, l’esame dei due rami del Parlamento. Il ddl si compone di sei articoli. Tra le principali novità c’è l’adozione della soglia di sbarramento al 4 per cento che costituisce una sorta di mediazione tra il 5% ipotizzato dal premier e il 3 per cento proposto dal Pd. Il Pd, appunto. Abbiamo chiesto a Enrico Letta quale sia la posizione del partito di Largo del Nazareno sulla questione delle preferenze. «Parlo prima a titolo personale - ci risponde l’ex sottosegrtario alla presidenza del Consiglio sono assolutamente a favore delle preferenze. Credo con convinzione che esse costituiscano lo strumento più efficace per restituire peso e valore ai Parlamenti e per renderli più li-
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Riforma elettorale: parla l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
«Sulle preferenze sosteniamo l’iniziativa dell’Udc» colloquio con Enrico Letta di Francesco Capozza
beri. Questo rafforza la democrazia e la qualifica. Così come qualifica il sistema dei partiti, perché parlamentari liberi, scelti direttamente dagli elettori e non nominati per cooptazione, garantiscono apertura e confronto e contribuiscono alla
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licata quale quella che stiamo attraversando. Non possiamo permettere che si affermi, come per inerzia del dibattito pubblico, l’idea che per entrare in Parlamento non sia necessario sottoporsi al giudizio diretto degli elettori. Una democrazia che funziona non può fare a meno di ruotare intorno al circolo virtuoso tra potere, responsabilità e sanzione. Senza le preferenze il fattore “sanzione” viene meno. E tutto il meccanismo evidentemente ne risente. Dal Pdl voci autorevoli hanno a più riprese detto che la legge elettorale in vigore, il cosiddetto “porcellum”è effettivamente efficace quando la maggioranza degli elettori si esprime in modo netto e chiaro su chi vuole che governi il paese, e le ultime elezioni ne sarebbero state un valido esempio. Dichiarazioni irricevibili? Sì, irricevibili. In primo luogo perché esiste un nesso diretto tra questa legge elettorale e l’obietti-
Parlamentari liberi, scelti direttamente dagli elettori e non nominati per cooptazione, garantiscono apertura e confronto e contribuiscono alla crescita del dibattito crescita complessiva del dibattito interno. Peraltro, tutto il Pd si è pronunciato espressamente a favore delle preferenze ufficializzando la propria proposta per la riforma della legge elettorale per le europee». L’Udc ha presentato in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare per reintrodurre le preferenze nei sistemi elettorali di Camera e Senato. Se la proposta arrivasse in Parlamento, quale sarà il vostro atteggiamento? Di sostegno esplicito. Lo ribadisco: il tema delle preferenze è centrale in una fase politica de-
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vo, pur plausibile, della governabilità. L’esperienza della scorsa legislatura, interrotta anzitempo, lo conferma. Irricevibili poi per una mera constatazione della realtà: il “porcellum” ha abbassato il livello della democrazia italiana e ha finito per subordinare totalmente il Parlamento al governo. Facciamo attenzione su questo passaggio: è vero che il Paese ha bisogno di una politica che decida ma non è alterando gli equilibri tra due poteri dello Stato - il legislativo e l’esecutivo - che si raggiunge l’intento. L’obiettivo deve essere un altro: decidere sì,
ma sempre e comunque nell’interesse generale. Il Pd, è inutile negarlo, raccoglie varie voci autorevoli ma, al contempo, spesso in disaccordo. Una di queste, Massimo D’Alema, tre giorni fa è uscita dal coro incontrando il Presidente della Camera Fini e discutendo con lui di riforme. Un nuovo asse che spariglia le carte? Ma no, non cediamo alla tentazione di vedere dietrologie ovunque. D’Alema e Fini sono personalità assolutamente di primo piano che possono, eccome, parlare di una questione fondamentale per il futuro del Paese come quella delle riforme istituzionali. La mia idea – da sempre – è che più ci si parla meglio è. È un modo per capire le rispettive posizioni, identificare possibili punti di convergenza, elevare il confronto. Le posizioni assunte aprioristicamente e il muro contro muro non giovano a nessuno. Tanto meno al Paese. Veltroni ha davvero chiuso al dialogo o possiamo aspettarci un coupe de teatre? Credo che in queste settimane si sia creato prima e alimentato poi un fraintendimento sulla parola “dialogo”. Veltroni ha giustamente constatato come i primi passi del governo su alcuni terreni minati, come quello della giustizia, siano stati assolutamente unilaterali e chiusi alle osservazioni e alle proposte dell’opposizione. Parliamo però delle attività in qualche modo ordinarie. Sulle riforme il discorso è evidentemente diverso. Ritengo che mai più si debba giungere a riforme costituzionali approvate a colpi di maggioranza. Lo ha fatto il centrodestra nel 2001, l’ha fatto il centrosinistra nel 2004. In entrambi i casi si è trattato di un errore. Un errore di cui far tesoro e da non ripetere.
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mondo
Un documentario sull’assasinio dell’ex presidente egiziano Sadat presenta il suo killer come un eroe
Si riapre lo scontro tra il Cairo e Teheran di Antonio Picasso
d i a r i o uovi attriti si stanno mettendo di traverso nelle relazioni diplomatiche fra l’Egitto e l’Iran, interrotte da trent’anni e che solo recentemente sembrava potessero rinascere. Il documentario uscito in questi giorni nelle sale cinematografiche iraniane, dal titolo “Assassinio del faraone”– sull’omicidio del Presidente egiziano, Anwar Sadat, nel 1981 – rischia di degenerare in una vera crisi politica. Tra i due Paesi non è mai corso buon sangue. Lo strappo più grave si era raggiunto nel 1979, quando proprio Sadat accolse il deposto scià, Reza Pahlevi II, in fuga dalla rivoluzione degli ayatollah. Tuttavia, il 2008 si era aperto con la possibilità che Egitto e Iran potessero tornare a confrontarsi. Oggi la pellicola incriminata sta smontando queste ipotesi. L’altro giorno il presidente Mubarak ha incontrato un diplomatico iraniano, oggi a riposo e che vive al Cairo, per ricevere delucidazioni sul caso. Che nasce da un’ora di documentario, prodotto dal “Comitato per onorare i martiri dell’insurrezione islamica”, in cui l’attentatore di Sadat, Khaled alIslambuli, viene celebrato come un eroe che uccide il traditore della causa islamica. Agli occhi iraniani, sono molte le colpe che giustificherebbero la morte dell’ex-Presidente egiziano. Fu Sadat a firmare gli accordi di Camp David con Israele, nel 1978, che decretarono la pace tra l’Egitto e il “nemico sionista”. E, sempre dietro suo invito, il decaduto scià si rifugiò proprio al Cairo, lì vi morì e in una sua moschea fu sepolto nel 1980. L’“Assassinio del faraone”attualizza il confronto millenario tra i due popoli che vantano due tra le storie più antiche di tutta l’umanità: quella egizia e quella persiana. A questo si aggiunge l’altrettanto antica inimicizia che scuote da sempre l’Islam tra sunniti – praticamente la maggioranza assoluta in Egitto – e gli sciiti, i quali vedono nel sempre più forte Iran una rivalsa per tutte le sofferenze patite da secoli. Al passato, alle tradizioni e alla cultura, si aggiunge poi una politica estera che ciascuno dei due Paesi ha orientato in
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modo diametralmente opposto rispetto all’altro. Perché le crescenti ambizioni espansionistiche iraniane appaiono finalizzate a sparigliare i già precari equilibri del Medio Oriente e, contestualmente, a contrastare la forza più che affermata del governo del Cairo. Quest’ultimo, infatti, sebbene stia attraversando una fase di impasse – dovuta anche alla crescita dell’Arabia Saudita, suo altro competitor – vanta un indiscusso ruolo da primadonna sul palcoscenico internazionale. Obiettivo che sta cercando di raggiungere Teheran, con tutti i
Medio Oriente. Ed è vero che il governo egiziano e quello iraniano si erano timidamente riavvicinati quest’inverno. Ma gli impedimenti erano sopraggiunti ben prima dell’uscita dell’“Assassinio del faraone”.
Durante l’ultimo incontro tra Mubarak e Bush, avvenuto a metà maggio a Sharm el-Sheick, entrambi si erano trovati concordi sulla necessità di contenere la potenziale influenza che l’Iran vanterebbe sulle correnti di opposizione interne ai singoli Paesi della regione, Egitto compreso. In questo ca-
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Pakistan: scontri nel nord, 70 morti Sono almeno 70 le vittime dei violenti combattimenti scoppiati negli ultimi quattro giorni nella valle dello Swat, regione tribale nel nord del Pakistan. Secondo un portavoce dell’esercito di Islamabad, le forze di sicurezza hanno ucciso almeno 45 militanti islamici durante un’operazione militare. In separati incidenti avvenuti nella regione di Ucharai Sar, 300 chilometri ad ovest di Islamabad, sono morti altri 5 soldati e 18 civili, tra cui donne e bambini. Gli scontri sono iniziati martedì in seguito all’uccisione di tre agenti dell’intelligence pakistana da parte di un gruppo di ribelli filo-talebani. E, nel corso di un secondo attacco, sono stati sequestrati uomini delle forze paramilitari pachistane. Una duplice azione che ha fatto vacillare il già fragile accordo di tregua sottoscritto lo scorso maggio tra clan tribali e autorità di Islamabad.
Pechino 2008, 34mila soldati in più Per il tranquillo svolgimento delle prossime Olimpiadi, il governo cinese ha stanziato 34mila soldati, 125 aerei e navi da guerra sia a Pechino che nel resto del Paese. Tian Yixiang, direttore del Centro di sicurezza per i Giochi, ha sottolineato che l’esercito cinese e’ capace di fronteggiare qualsiasi attacco terroristico. Le principali minacce ai Giochi, secondo Tian, vengono dalla regione occidentale del Xinjiang (che ospiterebbe terroristi islamici), dal movimento separatista del Tibet, da quello spirituale del Falun Gong e dai gruppi stranieri che si battono per la democrazia nel paese. Misure rafforzate soprattutto nella capitale: la Cina ha messo a punto un sistema radar, attrezzature per prevenire gli attacchi chimici e missili terra-aria. Il governo ha inoltre imposto una serie di pesantissime restrizioni per l’accesso alle zone “calde” dei Giochi, che saranno presidiate a vista dalle forze anti-terrorismo.
Tokyo, nuovo governo
Mubarak chiede spiegazioni a Teheran. Divampa l’antico odio fra sunniti d’Egitto e sciiti d’Iran mezzi possibili. E non vanno dimenticate le relazioni internazionali di ciascuno. L’Egitto è il più affidabile alleato arabo dell’Occidente, soprattutto degli Stati Uniti. L’Iran appare evidentemente l’esatto contrario. Quello di Mubarak, poi, è un regime laico, capace di contenere l’ingerenza dell’establishment religioso nazionale.
A Teheran, al contrario, a governare è una ristretta casta ecclesiastica, che cerca di imporre al Paese uno stile di vita strettamente osservante e ultra-conservatore. Per tutto questo il discusso film non va visto come un fulmine a ciel sereno, bensì come l’ennesima conferma della complessità che caratterizza i rapporti bilaterali tra tutti i Paesi del
so, la mente corre dritta verso Hamas, con cui Il Cairo ha aperto una lunga trattativa, come mediatore con Israele da una parte, in merito a Gaza, e con Fatah dall’altra, per risolvere il contenzioso interno all’Anp. Una trattativa, però, che a Teheran – dove l’impegno militare di Hamas è più che stimato – potrebbe non piacere. In quest’ottica il film ha il sapore di una provocazione iraniana contro l’impegno diplomatico dell’Egitto perché si giunga a una soluzione del processo di pace. Infine, una curiosità interessante. L’assassino di Sadat era membro del gruppo militante egiziano, di confessione sunnita, “alGama al-Islamiya”. Lo stesso al quale aveva aderito un giovane medico cairota, Ayman al-Zawahiri, oggi “numero 2” di al-Qaeda. Una nota, quest’ultima, che ribadisce l’ambiguità che intercorre fra Teheran e l’organizzazione terroristica. Analista Ce.S.I. Centro Studi Internazionali
Il primo ministro giapponese Yasuo Fukuda ha completato il profondo rimpasto di governo, varando di fatto il Fukuda Bis. Lo ha reso noto il portavoce dell’esecutivo, Nobutaka Machimura, che, nonostante le previsioni della vigilia, ha conservato la carica. Nel corso di una lunga conferenza stampa, il premier ha presentato un vero e proprio azzeramento del governo uscente che vantava 15 dei 17 ministri ereditato da Fukuda dal dimissionario governo di Shinzo Abe, a settembre scorso: escono, a sopresa, politici di peso come Akira Amari (Economia, commercio e industria), Fukushiro Nukaga (Finanze) e Kunio Hatoyama (Giustizia). Su 17 ministri, soltanto quattro sono stati confermati. Il nuovo ministro della Giustizia ha annunciato che il governo manterrà in vigore la pena di morte, nonostante la sua nomina sia dovuta alle polemiche internazionali sul suo predecessore, Kunio Hatoyama. Questi era stato soprannominato dalla stampa “spettro della morte” e “boia” per aver autorizzato in meno di un anno di servizio un numero record di esecuzioni capitali.
Leader fiammingo: francofoni ”immigrati” È polemica in Belgio per le ultime dichiarazioni del presidente del Partito di centrodestra fiammingo al governo N-Va, Bart De Wever, secondo cui nelle Fiandre non esiste una minoranza francofona ma solo degli immigrati che devono adattarsi. Parlando all’emittente belga La Premiere, il leader fiammingo ha sottolineato: «È una cosa che chiediamo ai marocchini, ai turchi. Non diciamo loro: siete numerosi e quindi l’arabo diventerà una lingua ufficiale. È una follia».Yves Leterme, alleato del premier belga, ha aggiunto: «In nessun posto al mondo si accetta questa logica, ma rifiuto di farmi definire intollerante».
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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
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agosto 216 a.c.
In una Puglia assolata il dramma della Roma repubblicana
Canne: trionfo di Annibale battute le legioni romane di Pier Mario Fasanotti n una Puglia assolatissima e quasi desertica il 2 agosto del 216 avanti Cristo la Roma repubblicana ha rischiato di vedere capovolto il proprio destino. Canne, un piccolo borgo in cima a una modesta collina, ha dato il nome a una delle più famose battaglie della storia, elevata poi a modello di perfezione strategica da von Clausewitz. Il quale non poté che elogiare l’intuito e il calcolo di Annibale, il nordafricano che sognava di dominare il Mediterraneo e quindi l’intera Europa.Vinse, certo, ma non seppe successivamente spezzare una volta per tutte l’orgoglio romano, che era rintuzzato dall’odio per lo straniero invasore. Come annotano giustamente i migliori storici, Roma non coltivava alcun sentimento razziale. Non contavano il colore della pelle, l’idioma o altro. Si trattava soltanto di difendere la propria civiltà dall’assalto dei barbari. E “barbari”, termine coniato dai greci, erano semplicemente gli “altri”. Gli altri che minacciavano. Dopo ripetute vittorie sulle legioni di Roma e dopo lo scoppiare di un’enorme confusione politica nella capitale di quello che sarebbe diventato un grande impero, Annibale aspettava di combattere dove voleva lui. In Puglia, nelle vicinanze dell’Aufidio, che oggi si chiama Ofanto: un torrente“rapidus”(impetuoso) secondo Orazio. Sole cocente, caldo asfissiante in quella pianura“tutta secca ed abbruciata”(secondo lo storico Livio). Situazione climatica aggravata dal vento Volturno, così chiamato perché soffiava dalle cime del monte Vulture, sui contrafforti della Lucania, in direzione del mare. Annibale e i suoi ufficiali avevano il morale alto dopo le vittorie di Trebbia e del Trasimeno. Scommetteva molto sulla cavalleria dei Numidi, agile, svelta, anche se era preoccupato dall’aumento del numero dei legionari che stavano raggiungendo la piana. Roma, come dicevamo, era dilaniata da contrasti politici. continua a PAGINA II
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SCRITTORI E LUOGHI
I VIGLIACCHI DELLA STORIA
I SENTIMENTI DELL’ARTE
La Cina di Goffredo Parise
Il furore di Abel Ferrara
di Filippo Maria Battaglia
di Francesco Ruggeri
Fabrizio Maramaldo di Aldo G. Ricci
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a pagina VI
a pagina VII p a g i n a I - liberal estate - 2 agosto 2008
A lato: un elmo da guerra Sotto: un’immagine di Cartagine e la pianta della battaglia di Canne A destra: arazzo con la scena di guerra dalle “Storie di Annibale” di Francesco Demignot
lio era molto chiacchierato per via della spartizione del bottino dopo la guerra in Illiria. Un’inchiesta l’aveva scagionato, ma le voci diffamanti erano continuate.Tra i due consoli - e questo fu la cosa peggiore - non correva buon sangue. Dovevano alternare il comando militare, giorno dopo giorno, e la scarsa sintonia di obiettivi strategici non era la migliore premessa. Publio Scipione, che era stato il primo avversario di Annibale? Era tornato in Spagna dove assieme al fratello sconfisse a più riprese i cartaginesi a Tarragona. A Roma giunse una buona notizia: la città di Segunto, prima roccaforte urbana di Annibale contro i romani, cadde. Infine una flotta fenicia che cercava di contrastare il passo ai romani venne annientata alle foci dell’Ebro. Annibale aveva lo svantaggio di non poter comunicare con Cartagine e la Spagna, né via mare, né via terra. Lo scontro tra le due armate era vicino e ineludibile. Molti romani tuttavia pensavano che soltanto una guerra di logoramento, e non una grande battaglia, avrebbe salvato l’Urbe e i suoi possedimenti.Tanto più che Annibale non avrebbe sopportato a lungo la distanza da Cartagine. E poi c’era il problema dei rifornimenti, come in tutti i conflitti. In ogni caso a Roma pareva vincere il partito dell’intervento. C’erano in gioco il coraggio dei romani e la lunga sequenza delle vittorie su molte popolazioni. E poi, perchè rimandare vista la superiorità numerica raggiunta? Annibale poteva contare su 40mila uomini, i romani su 90mila. Più del doppio, quindi. Ma il rovescio della medaglia consisteva nel fatto che i manipoli romani erano stati gonfiati a dismisura, col rischio - rivelatosi poi più che fondato - di rendere queste unità di combattimento meno mobili di prima. La “pesantezza”non giova mai allo
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segue da PAGINA I Pareva non ci fosse un generale con esperienza e carisma tali da invertire le sorti della guerra con il comandante fenicio e i suoi elefanti. Quinto Fabio Massimo detto il temporeggiatore aveva lasciato perplessa l’opinione pubblica, anche se obiettivamente gli veniva riconosciuto il merito di aver tenuto lontano dall’Urbe il signore di Cartagine. Ma gli equilibri, militari e politici, erano precari e pareva che il filo dell’intesa si dovesse spezzare da un momento all’altro. opo la parentesi della dittatura Fabiana- motivata dallo stato di emergenza- nel marzo del 216 avvennero le elezioni per i successori dei consoli Servilio e Regolo, che già in novembre dell’anno prima si erano recati in Pu-
glia coi soldati. Durante l’inverno non era capitato nulla, per fortuna. Secondo la legge i due conso-
accettò. E fu teatro di schermaglie tra i rappresentanti dei due partiti, quello popolare e quello aristocratico. In una cosa soltanto patrizi e plebei si trovavano d’accordo: non c’era più tempo per indugi. I senatori si convinsero che la cosa migliore era quella di aumentare l’esercito da quattro ad almeno otto legioni. Era una mobilitazione mai avvenuta prima. Si affrontava quindi il rischio di armare reclute (i“tirones”) non così bene addestrate al combattimento.Tuttavia nessuno si oppose all’idea di
Il cartaginese scommetteva molto sulla cavalleria dei Numidi, agile, svelta, anche se era preoccupato dall’aumento del numero dei legionari che stavano raggiungendo la piana
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li dovevano essere presenti a Roma, ma vista la situazione inviarono emissari. Il Senato, malgrado si contravvenisse alle norme,
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schierare in campo il doppio di forze rispetto a quelle di Annibale. La superiorità numerica dava una certa tranquillità. Quel che invece non rasserenava gli animi era la scelta dei due consoli che avrebbero contenuto l’onda d’urto cartaginese. Uno stratega d’alto livello non c’era. Ma un nome continuava a circolare: Caio Terenzio Varrone, molto più facondo che non guerriero per la verità, ma in grado, sia pure di estrazione patrizia, di placare gli umori popolari. Tra cinque candidati,Varrone fu subito eletto. Dopo alcuni giorni di dibattiti, calunnie e proteste da ambedue le parti, la scelta del secondo console cadde su Lucio Paolo Emilio, un interventista, legato alle famiglie urbane degli Scipioni, degli Emilii e dei Claudii. Eletto sì, ma non con grande entusiasmo visto che Paolo Emi-
scontro diretto. Ogni legione aveva da 200 a 300 cavalieri, per un totale di seimila uomini. Il nemico ne aveva 10 mila e fino ad allora aveva vinto con la schiacciante supremazia della cavalleria leggera.Varrone già esultava, a tal punto da dichiarare, con estrema imprudenza, che “la guerra sarebbe finita il giorno stesso in cui avesse visto il nemico”. Era una gara, tra lui e Paolo Emilio, a spararla più grossa. i avvicinava il giorno fatale. Annibale s’impadronì di Canne, situata a sessanta metri d’altezza, da cui avrebbe osservato la disposizione dell’esercito romano per trarre spunti e conclusioni. Ovviamente l’uno e l’altro schieramento si misero a saccheggiare paesi e a svuotare granai, per avere i rifornimenti necessari. Capitava che ci fossero scaramucce tra romani e cartaginesi sulle rive dell’Ofanto, dove riempivano otri acqua. Il fiume segnò il confine della zona del conflitto. I romani si disposero, la sera del primo agosto, sulla riva sinistra. Paolo Emilio pensava che in quella maniera la cavalleria di Annibale sarebbe stata avvantaggiata. Ma non c’era più tempo per cambiare le cose: i soldati fremevano. Non a torto osserva Polibio che “quando una decisione è presa, la maggior tortura è quella di ritardarne l’esecuzione”. E così fu. Quel giorno toccava a Varrone impartire i comandi.Via all’attraversamento del fiume. Operazione facile, visto che il fondale era basso. I romani alla fine si trovarono con il mare alle spalle, il fiume alla loro destra. Annibale, grande stratega qual era, notò che le centurie nemiche erano più ammassate del solito. Quella compattezza indicava la volontà di Varrone e Paolo Emilio di avanzare come un ariete e sfondare la linea fenicia, al centro. I romani - e questo fu il grande errore - erano troppo vicini gli uni agli altri, quindi avevano poca libertà di manovra. Ed ecco l’impareggiabile intuizione dell’africano: schierare il suo esercito davanti a quello romano, sulla stessa linea, ma con una variante. Invece di un fronte disteso, a schiere parallele, Annibale lo volle convesso. La parte centrale era protesa avanti. Una mezzaluna crescente. O un arco da cui fare scoccare la freccia. Varrone sventolò una tunica rossa: era il segnale di battaglia. Annibale, con Canne alle spalle, aveva piazzato la cavalleria pesante (composta da spagnoli e galli) dalla parte del fiume, mentre sulla destra aspettava l’ordine quella numida, al comando di Maarbale. Galli e spagnoli (con le tuniche corte alla maniera romana) furono mandati deliberatamente al massacro. Era quello
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o stesso giorno... nel 1998
E Pantani sbucò da quella curva come un raggio di sole di Pier Mario Fasanotti «Attaccò sul Galibier, uno dei colli mitici del Tour, le mani sotto il quindici in tiro. Guardò in faccia Ulrich, provò ad aspettare Leblanc e poi allungò verso la vetta immensa nelle nuvole di quella giornata piovosa che sarà impossibile dimenticare». Il 2 agosto 1998 Marco Pantani vince il Tour de France. Sulla testa, ha ancora l’alloro del Giro d’Italia conquistato poche settimane prima. La doppietta lo fa entrare di diritto nella storia del ciclismo mondiale. Decisiva, la tappa di Les-DeuxAlpes. Il ciclista di Cesena è in deficit di cinque minuti rispetto al rivale teutonico Jan Ulrich. Ma a metà corsa inizia a piovere a dirotto. Pantani morde i freni, inanella pedalate su pedalate, ogni metro più veloci: «sul volto del tedesco comparve il panico e i minuti cominciarono a volare come i petali. In cima al Galibier erano già 2 e 30 secondi, ai piedi delle Deux Alpes erano 5». Il “pirata” si trasforma in saetta e arriva al traguardo nove minuti prima dell’antagonista. Un momento topico, ricordato così dalla madre Tonia nel libro Era mio figlio pubblicato da Mondadori: «L’Italia si fermò, la Francia era già ferma.
il prezzo da pagare e Annibale lo riteneva necessario al suo disegno strategico. I romani avanza-
rono mentre i Galli cedettero, per ritrovarsi quindi nell’imbuto cartaginese. Sempre Polibio raccon-
Sbucò da quell’ultima curva come un raggio di sole. Il cielo dietro era nero come la pece. Fu facile per l’autofocus degli zoom di tutto il mondo agganciarlo e seguirlo pedalata dopo pedalata fino al traguardo… Pedalò fin sulla riga. Poi si alzò. Soffiò via la fatica. Allargo le braccia a forma di croce e chiuse gli occhi». L’apogeo sportivo di Pantani è al suo zenit. Piovono contratti, richieste di sponsor, soldi a palate. Arrivano tiggì di mezza Europa, si girano documentari e speciali televisivi, si pensa persino a un film. Alessandro Del Piero, in un’intervista rilasciata alla “Gazzetta dello Sport”, dichiara candidamente: vorrei essere come lui. Ma la direzione del vento è destinata a cambiare. Il momento magico dura il tempo di un battito di ciglia. L’epilogo arriva il 24 febbraio 2004, in un anonimo residence di Rimini. Il corpo del “pirata” è ritrovato senza vita. A stroncarlo, un arresto cardiocircolatorio, causato da un’overdose di cocaina. Per molti, però, non è così. Tra tutti, il giornalista dell’Equipe Philippe Brunel, ma soprattutto la madre del ciclista, che ancora oggi continua a ripetere: «Marco l’hanno
ta:“Accanendosi sui Galli, i romani s’erano lasciati accerchiare dai cartaginesi. Il risultato fu precisamente quello che Annibale aveva voluto”. Il fronte fenicio cedette anche a l l ’ ava n z at a della cavalleria romana che consentì alle legioni di incunearsi in quel varco. All’indietreggiare dei Galli, i romani però si trovarono subito fiancheggiati dai nemici. La tecnica dell’arco risultò vincente, anche se per una questione di attimi. La cavalleria pesante cartaginese in poco tempo travolse i reparti di Paolo Emilio. Molti giovani esponenti della nobiltà romana perirono. Lo stesso console venne ferito. Dall’altro lato del fiume
L’intuizione dell’africano: schierare il suo esercito davanti a quello romano, sulla stessa linea, ma con una variante. Invece di un fronte disteso, a schiere parallele, Annibale lo volle convesso. La parte centrale era protesa avanti. Una mezzaluna crescente. O un arco da cui fare scoccare la freccia
Il “pirata” si trasforma in saetta e vince il Tour de France soffiando la maglia gialla all’antagonista, Jan Ulrich. La madre Tonia nel libro “Era mio figlio” racconta: «L’Italia si fermò, la Francia era già ferma…»
ammazzato. Aveva due ematomi sul collo a forma di triangolo. Aveva un livido sullo zigomo. Io l’ho visto. Aveva un graffio sul sopracciglio e uno per tutta la lunghezza della fronte. Mi ha detto il magistrato che gli hanno trovato vicino alla bocca una palla bianca. Io gli chiesi se era cocaina e lui mi rispose che era mollica di pane indurita. Io dico che è servita a mettergliela in bocca. Prima gli hanno buttato dentro la droga e poi gli hanno tappato la bocca. Marco l’hanno ammazzato perché lui voleva parlare». La disperazione e il dolore materno fanno aggio su tutto il resto. Rimane solo lo spazio di un piccolo mistero e l’impresa dell’unico ciclista capace di riportare i due pedali nostrani a fasti sportivi che non si scorgevano dai tempi di Coppi e Bartali.
i velocissimi cavalieri numidi si scagliarono contro le formazioni italiche che avevano il difetto di muoversi lentamente perché appesantite dalle armature e perché i loro cavalli non avevano la destrezza di quelli nordafricani. e truppe di Annibale si scatenarono, in mezzo a una nube di polvere, sorprendendo da dietro i romani, che avevano per di più il sole sugli occhi. Scrive Livio: “I cartaginesi diedero via libera ai vinti solo quando furono stanchi di uccidere”. Le perdite: solo cinquemila morti cartaginesi, in maggioranza Galli, 49mila (oltre a 28mila tra prigionieri e feriti) romani. Il console Varrone, chiamato ormai “il millantatore”, si rifugiò a Venosa. Al suo seguito il misero drappello di settanta cavalieri. Canne, come notarono gli esperti, fu “la battaglia di un solo giorno”. Iniziò all’alba e terminò al tramonto. Annibale, perdente sulla carta, creò una strabiliante vittoria sul nulla. I cartaginesi festeggiarono a lungo, ovviamente. E a questo punto l’interrogativo mai del tutto risolto: perché il condottiero punico non approfittò della confusione e del-
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lo sconcerto di Roma e non mosse verso la capitale? Il generale numida Maarbale, come riferisce Catone, entrò nella tenda di Annibale ed esclamò: “Mandami avanti con i miei uomini e i miei destrieri.Tra cinque giorni ti preparerò la cena in Campidoglio”. Il generalissimo fenicio rispose gelidamente: “Gli dei non accordano tutti i loro doni a un solo uomo.Tu sai conquistare le vittorie, ma non sai sfruttarle”.In effetti le truppe di Annibale non erano abbastanza numerose da poter reggere un lungo assedio a Roma, dotata di una forte cinta muraria. Gli mancavano anche le macchine in legno per tentare un assalto alle protezioni dell’Urbe. Dopo avere ricevuto di persona i tributi e l’atto di sottomissione dei Lucani e dei Bruzi, Annibale partì per i monti sanniti. In quelle ore aveva un solo desiderio: installarsi a Capua. I famosi ozi di Capua, come si disse. Quella raffinata e ricca città, nei suoi progetti, avrebbe dovuto sostituire Roma. Si sbagliava: l’orgoglio e la perizia militare della città eterna risorsero e Capua fu ridotta a un paesello. Sorte peggiore capitò a Cartagine, come si sa.
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SCRITTORI E LUOGHI
Il visionario viaggio
IN CINA con Parise
Gli occhi dello scrittore su Shangai, Pechino e Canton
Studenti sulla piazza Tian An Men Nella pagina accanto: sopra Hong Lei “Chinese Landscape Liu Garden”
di Filippo Maria Battaglia
Sotto: operaie in un’azienda di abbigliamento
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olti fatti, poche interpretazioni, pochissima sociologia. Ecco perché la Cina di Goffredo Parise, nonostante rechi data 1966, non soffre affatto di vecchiaia e di conformismo. Risultando al contrario una preziosa e per niente usurata cartina di tornasole per comprendere meglio i vecchi tic del “Celeste Impero”. Il primo esempio arriva da Shanghai, a cui l’autore dei Sillabari scrosta subito di dosso l’immagine atavica e demodè incollata a uso e consumo degli occidentali. Precisando che «non è una città cinese, ma un meteorite di città inglese, belga, francese (un poco anche americana), insomma nordeuropea, staccatosi improvvisamente da quei nebbiosi territori e proiettato verso l’Asia fino alla sua estrema costa orientale. Con un centro commerciale senza commerci fatto di edifici tipo Wall Street, ma invecchiati, invecchiati, invecchiati, invecchiati, forse di più di Wall Street che pure è la decrepitudine dello stile novecento».
Una metropoli piena di vecchi alberghi e di astute spie, scenario ideale – sembra suggerire Parise con la solita visionarietà – di un giallo di finanza internazionale ambientato a giorni nostri. Ma, al tempo stesso, una città irreale, così come irreale potrebbe essere un agglomerato «tutto pagode sulle coste della Normandia». E la sensazione si aggrava quando lo scrittore, complice la consulenza di uno psichiatra cinese, affonda il dito sulle rarissime manie dei cinesi: «qui non si applica l’analisi perché le nevrosi sono quasi sconosciute. Esse sono appannaggio della borghesia, non di un popolo di contadini analfabeti fino all’altro giorno» recita laconico l’uomo in camice bianco. Più suggestiva, la descrizione della capitale, Pechino, «una città posta ai confini di una sterminata pianura, secca, arida, battuta dal vento che arriva a folate violente dai deserti della Mongolia interna e porta con sé nubi di polvere gialla, dura e sottile che
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“Il Palazzo d’Estate è l’imperatrice madre Tzu-si con la sua faccia quadrata e crudele, le sue manine dalle unghie lunghissime come spilli d’oro e i suoi radi capelli, la sua mitomania piccolo borghese e i suoi occhi stretti e strabici da visionari” penetra dappertutto. È una città insieme geometrica e labirintica: un quadrato dentro un altro quadrato che contiene a sua volta un quadrato e così via». Lì, la geometria fa coppia con l’anonimato persino nelle pitture e nelle decorazioni: «mostrano sempre la stessa mano, che sono in realtà migliaia di mani di artigiani anonimi che con migliaia di pennellini hanno ritratto milioni di minuscoli personaggi che si aggirano dentro quegli stessi cortili, quegli stessi padiglioni a
pagoda, quegli stessi corridoi e logge: sono figure di mandarini, di dignitari di corte, di donnine sorridenti ed estatiche sullo sfondo di un laghetto, di un ponticello, di un salice piangente». Ne deriva la percezione di «un’intollerabile noia che può dare il capogiro», ma al contempo «una eccitazione tutta intellettuale e metafisica». Molto diverse, invece, sono «le case dove i cinesi vivono». «La visione non è certamente allegra, anche se, bisogna dirlo subito,
mai miserabile. Queste piccole case cadenti che sono poi quelle di cento, duecento anni fa, attaccata una all’altra, formate di così pochi metri quadrati (una, due stanzette al massimo) sotto le cui pareti annerite dal fumo del fornello si intravedono vere stuoie, le povere suppellettili, i poveri mobili che non vanno oltre una cassa, un armadietto, due o tre sgabelli, anche perché non c’è posto dove farli stare, sono povere, sì povere, eppure mai miserabili. Non mostrano cioè quei caratteri di fatalità e di irremediabilità che saltano agli occhi, per esempio, in India». In periferia, «sorgono invece casamenti palazzi a più piani in tutto simili a quelli che sorgono, mettiamo, a Milano. Anche qui lo spazio è rigorosamente sfruttato e un appartamento di quattro stanze, cucina e gabinetto (non ho visto bagni se non negli alberghi) è comune a due famiglie, cioè a un numero di persone che varia da dieci a quindici. I problemi della
Nella Cina comunista, chi viaggia non può spostarsi da un paese all’altro senza un’autorizzazione firmata dalla polizia; non può prenotare una stanza d’albergo, non può acquistare un biglietto per uno spettacolo teatrale, non può prendere un aereo
coabitazione non esistono, in primo luogo perché il cinese, come ho spiegato, ha animo e abitudini secolari di collettività, in secondo luogo perché avere un tetto è già moltissimo rispetto a non averlo affatto». Ma Pechino è anche «la Grande Muraglia, le tombe Ming, il Palazzo d’Estate». La prima è «una gobba gigantesca, storta, rognosa, dolorosa, obesa e così brutalmente e ottusamente fisica da far pensare con tristezza imponente e incomprensiva quanto è
brutta, a volte, la crosta terrestre». Ed è popolata – sorpresa da cinesi in gita: «migliaia lungo il percorso interno, due file di cui non si scorgono le estremità, né di destra, né di sinistra». Per Parise, è un fatto assodato che «gli imperatori cinesi fossero degli snob». E infatti, dopo l’edificazione delle tombe Ming e del Palazzo d’Estate, «lo snobismo è diventato metafisica». Proprio quest’ultimo monumento, eretto su indicazione dell’imperatrice madre Tzu-si, è la felice
Il vero tempio della Cina di Mao è la fabbrica. Lo stipendio di un lavoratore è pari a 250 chili di riso. La scuola è una baracca in muratura con il pavimento in terra battuta. La donna è lieve come una farfalla. L’amore è silenzioso e riservato
eccezione rispetto alla rigida regola dell’anonimato, che contamina anche l’arte. Per intendersi, basta dare uno sguardo d’insieme, quasi corrivo, allo spettacolo che gli si para davanti: «un grande lago, pieno di isolette collegate tra di loro con ponti e ponticelli a forma di semicerchio come la lettera ?, che affondano in pigra inutilità nel bambù e nei salici piangenti; pagode e pagodine, un lungolago su cui corre una interminabile loggia dalle travi minuziosamente dipinte; una residenza imperiale fatta di bassi padiglioni, i cui nomi, essendo la vecchia, vecchissima, girano sempre intorno alla parola longevità. Nei padiglioni, una serie di bric à brac occidentali con cui gli ambasciatori europei tentavano di divertirla: un trenino a vapore, una nave coi camioncini che sparano, una bambola che cammina e, un tempo, molte creme latte rigenerante, pomate e pomatine di bellezza». na identificazione, quella con l’imperatrice-madre, che a Parise appare sin da subito chiarissima: il Palazzo d’Estate è lei, «è la sua faccia quadrata e crudele, le sue manine dalle unghie lunghissime come spilli d’oro, i suoi radi capelli (era mezza calva e se una cameriera spazzolandole i quattro peli ne lasciava uno nel pettine perdeva la testa un minuto dopo) la sua mitomania piccolo borghese, la sua stupidità, la sua cocciutaggine, i suoi occhi stretti e strabici da visionari». Ma il monumento è anche il prototipo della “cineseria”, e lo scrittore vicentino, questo, non glielo riesce proprio a perdonare: «un programma espressivo di realtà bizzarra e stravolta», «l’ultimo, leggero, gentile e scemo respiro di morte di un grande impero». Più oleografica, come ammette
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del resto lo stesso scrittore, la descrizione di Canton, la più grande città costiera del Sud della Cina. Non si fa fatica a capire che il Nostro ne resti deluso: «è un’immagine insieme tradizionale e convenzionale della Cina, l’immagine esotica ma familiare delle fotografie e delle diapositive a colori che riempiono il mondo. Ma come tutte le immagini entrate nella convenzione essa si identifica con quella convenzione e perde di colpo ogni significato». Resta la visita al vero tempio della Cina di Mao: la fabbrica. «Quello che mi colpisce, come in ogni altro luogo di lavoro che ho visitato fino a questo momento, è che le persone che incontro sono sempre membro di partito, poi che le frasi sono uguali, alla lettera. I termini di confronto sono sempre: prima della liberazione, dopo la liberazione; nella vecchia società, nella nuova società. E molte altre che sembrano uscire, e infatti escono, da un libro stampato». Il mercato si fa così ostaggio della pianificazione, e quando il funzionario dice che fino a qualche mese prima la fabbrica produceva motori per pompe anziché camion, scrive di una «contraddizione tecnica nelle spiegazioni che però coincide con la coerenza ideologica». «Lo stipendio di un lavoratore medio equivale a duecentocinquanta chili di riso. Questo stipendio e quello della moglie o di altri membri della famiglia che lavorano sono quasi interamente assorbiti dalla spese per il cibo, per il vestiario e per poche altre cose». A pochi metri dalla fabbrica, ecco la scuola: «una baracca in muratura, lunga e col pavimento in terra battuta. È divisa in quattro classi e i ragazzi, che guardo dalla finestra, fanno finta di niente ma muoiono dalla curiosità… Chiedo che cosa stiano insegnando in quella classe: come si leggono le opere di Mao. Nella seconda: come si combatte l’egoismo. Nella terza: metodi di coltivazione della soia. Nella quarta: letture e commento delle opere di Mao». Per quanto si sforzi, la Cina comunista non ha bandito del tut-
to il turismo. «Chi viaggia in Cina, non è ospite del governo, è ospite (pagante) del “China Travel Service”», l’unica agenzia turistica cinese. Chi viaggia non può spostarsi da un paese all’altro senza un’autorizzazione firmata dalla polizia; non può prenotare una stanza d’albergo, non può acquistare un biglietto per uno spettacolo teatrale, non può prendere un aereo. «Le catene di questa prigionia non sono soltanto la lingua cinese, ma anche la totale burocratizzazione della propria persona e infine un senso di estraneità quasi biologica che al viaggiatore appare molto più profondo e misterioso di quanto cultura, leggi, usi e costumi e perfino ideologia politica possano tentare di chiarire e superare». «l’universo donna»? Parise stavolta cede al solito cliché occidentale e descrive le cinesi come «vestite tutte uguali», «di uno stile così alto, così naturale, così antico e ineffabile da avvicinarsi a quell’unicum nell’entomologia femminile che fu Marylin Monroe. Altre, meno belle, sempre nel senso che si dà in Occidente alla bellezza femminile, e tuttavia, nell’apparizione, nei movimenti, nello sguardo, insomma nel disporsi dinamicamente nello spazio, ispirate e lievi come farfalle». Una Cina silenziosa, quasi religiosa, che in tema di amore si disvela però pudicissima. «L’amore è un sentimento silenzioso: si prova ma non si dice», gli confida un contadino ventiduenne di Kiangsu. L’anonimato delle decorazioni diventa così anche il refrain delle relazioni: al posto dell’“amore romantico”, spazio dunque alla «statica razionalistica». Un feticcio intraducibile, un modo come un altro per dire che per i cinesi – allora come ora – l’eros è proprietà assoluta. Una sorta di territorio inesplorabile e assai riservato e, al contempo, il vero diaframma che separa il “Celeste Impero”dall’Occidente.
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Bibliografia Goffredo Parise, Opere, Voll. I-II, Meridiani Mondadori, pp. LXVI-2846, euro 110
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I VIGLIACCHI DELLA STORIA Il meglio di sé lo dà al servizio di Federico II Gonzaga, marchese di Mantova, che gli apre le porte della corte spagnola. Poi passa al servizio dell’imperatore diventando uno dei pilastri del sistema militare asburgico in Italia. Partecipa al sacco di Roma e all’assedio della Repubblica di Firenze ile, tu uccidi un uomo morto!” Questa frase è scolpita nella memoria collettiva come altre frasi che hanno fatto la storia: “Tutto è perduto fuorché l’onore e la vita che sono salvi”; “Obbedisco”; “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. E così via. Frasi nelle orecchie di tutti o quasi, anche se non tutti sono poi in grado di decodificarne i significati e collocare esattamente nello spazio e nel tempo i differenti protagonisti. Ma la prima frase è diventata in qualche modo l’archetipo della vigliaccheria, o della viltà, per dirla con termine più colto, e quindi il suo destinatario appartiene di diritto a questa galleria. Anzi in qualche modo può rivendicare il privilegio, si fa per dire, di aprire la sfilata dei vili per antonomasia. Curiosa sorte quella del destinatario delle ultime parole famose che sarebbero state pronunciate da Francesco Ferrucci prima di spirare finito per mano di Fabrizio Maramaldo. Curiosa sorte perché quest’ultimo, stando alla storia documentata, parrebbe essere stato uomo e condottiero di tutt’altra pasta rispetto a quella che la sorte e i media gli hanno attribuito, al punto che il suo nome,“maramaldo”, è diventato addirittura sinonimo di vile, traditore, pugnalatore alle spalle e quant’altro. Un onore che pochi possono vantare: “nomina sunt consequentia rerum”, con quel che segue, come affermavano i romani, che di queste cose se ne intendevano. Anche se a volte, come sembrerebbe essere accaduto, almeno in parte, nel caso in questione, più che di fatti, di cose concrete (rerum), si tratterebbe di leggende, costruzioni letterarie, miti, insomma. A conferma dell’affermazione
Maramaldo
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L’infame assassino di Francesco Ferrucci (che otto anni prima aveva già pugnalato la moglie) di Aldo G. Ricci
Nel borgo di Gavinana si consuma l’assassinio del valoroso commissario che durante l’assedio di Volterra non esita a dileggiare il comandante. Catturato dagli imperiali, il prigioniero, nonostante sia inerme, viene colpito a morte
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che chiude un famoso film di John Ford (“L’uomo che uccise Liberty Valance”), secondo cui il mito a volte prevale sulla realtà. Andiamo per ordine. Chi era anzitutto Fabrizio Maramaldo, al quale certamente si adatta il celebre interrogativo di donabbondiana memoria: “Carneade, chi era costui?” Nobile napoletano nato all’incirca nel 1494, esordisce sulla scena pubblica con un delitto (e questo è un precedente che pesa a favore della sua trista fama successiva), per aver ucciso con il pugnale la prima moglie nel 1522, in quanto “sforzato dal honor suo”, formula che chiama in causa esplicitamente un tradimento muliebre. L’omicidio lo costringe all’esilio e dà inizio a una lunga carriera militare costellata di successi, promozioni, titoli onorifici, pre-
bende e quant’altro. Il meglio di sé il nostro lo dà al servizio di Federico II Gonzaga, marchese di Mantova, che gli apre le porte della corte spagnola. La sua fama riceve nuovo lustro dal duello con un famoso spadaccino come il conte Giovanni Tommaso Carafa, che Maramaldo uccide dopo aver ricevuto un insulto. Passa poi direttamente al servizio dell’imperatore arrivando al grado di colonnello delle milizia napoletane e diventando uno dei pilastri del sistema militare asburgico in Italia. Il suo reggimento (oltre 3000 unità) era famoso per essere uno dei corpi di élite dello scacchiere italiano. Al comando delle sue truppe partecipa al sacco di Roma del 1527 e prosegue poi per Napoli, dove sfugge a una congiura giudiziaria che lo voleva in trattati-
ve segrete con il nemico. Nel 1530 si dirige verso la Toscana per unirsi alle truppe imperiali che assediano la repubblica di Firenze per costringerla ad accettare il ritorno dei Medici. Lo scontro comincia, tra maggio e giugno, con l’assedio di Volterra, che resiste però impavidamente sotto la guida del commissario Francesco Ferrucci (un civile quindi, non un soldato di carriera), che dalle torri della cittadina non esita a dileggiare proprio il colonnello Maramaldo. Le truppe repubblicane sopravvissute all’assedio si muovono poi verso Firenze per prendere tra due fuochi gli assedianti imperiali, ma vengono intercettate da Maramaldo e Alfonso d’Avalos presso il borgo di Gavinana il 3 agosto e duramente sconfitte. Francesco Ferrucci viene ferito, catturato dagli imperiali e portato alla presenza di Maramaldo, il quale, furibondo per essere stato schernito e tenuto in scacco da un civile, non esita, dopo che Ferrucci gli ha risposto per le rime, a colpirlo mortalmente per poi farlo finire dai suoi uomini. Sconfitta la repubblica fiorentina, la carriera militare di Maramaldo prosegue brillantemente fino al 1538, anno in cui torna a Napoli e partecipa alla vita pubblica come personaggio influente fino alla morte, avvenuta nel 1552. Ma torniamo all’evento cruciale, al delitto di Gavinana, dove Maramaldo, già noto per il carattere facile all’ira condotta fino alle estreme conseguenze, come abbiamo visto, uccide di sua mano un valoroso prigioniero ferito come Francesco Ferrucci. Un atto riprovevole senza dubbio, indegno di un militare abile come era il nostro; ma un atto non del tutto infrequente in tempi in cui il sangue era all’ordine del giorno. Non a caso la storiografia non gli aveva dato particolare peso fino al Risorgimento, quando si comincia a pensare all’Unità e all’identità nazionale, e del delitto di Gavinana si impadroniscono personaggi del calibro di Massimo d’Azeglio e Francesco Domenico Guerrazzi, che fanno di Ferrucci un eroe, antesignano degli ideali patri, e di Fabrizio Maramaldo il simbolo del vile traditore al servizio dello straniero. Forzature della retorica patriottica? Forse. Ma tra Maramaldo e Ferrucci, io ancora oggi scelgo senza esitazione il secondo.
I SENTIMENTI DELL’ ARTE inema omologato, ordinario, asettico e indolore? In giro ce n’è a bizzeffe. Quando in sala arriva qualcos’altro, non si fa in tempo a capacitarsene che qualcuno ha già gridato allo scandalo. Il diverso fa paura. Ma c’è diverso e diverso. Perché quello della provocazione è un esercizio salutare, ma bisogna saperlo fare. E quando lo scandalo puzza lontano un miglio di marketing, conviene starne alla larga. Piccola premessa per inquadrare un cineasta dolorosamente scandaloso. Un uomo di cinema rabbioso e sincero come quasi nessun altro in circolazione. Parafrasando lo Zarathustra di Nietzsche, cinema per tutti e per nessuno. Parliamo di Abel Ferrara. Per tutti, perché è a tutti che si rivolge e si dà. Per nessuno, perchè sopportarne la carica morale/etica è roba per pochi. La rabbia dunque, o meglio l’ira. Non è semplice portarla sul grande schermo. Ci vuole del fegato, soprattutto poi se la si focalizza come sentimento (anzi, come sentire) incaricato di attraversare il film in lungo e in largo. Il cinema ci ha spesso raccontato di scoppi d’ira improvvisi o magari di personaggi rabbiosi incapaci di redimersi. Quello che si vede ne “Il cattivo tenente”è difficilmente narrabile. Il film di Ferrara arrivò in sala nel 1992, da quel momento la sua fama d’artista maledetto è schizzata alle stelle. Ma sono arrivati anche i guai con la censura, con l’opinione pubblica e con quello che viene generalmente indicato come senso del pudore. Ci sono cose che il cinema non deve mostrare. Ferrara le mostra bellamente, senza fare una piega. Ci sono cose che il cinema non può raccontare. Ma Ferrara incolla l’occhio alla macchina da presa e comincia a macinare frame di pellicola come un ossesso. “Il cattivo tenente”racconta una parabola lisergica dai toni meravigliosamente evangelici dedicata all’ira. Quella sfogata contro gli uomini, contro Dio e contro se stessi. Una rabbia al cubo: sorda, cieca, incapace di contenersi, di misurarsi, di pianificare anche solo per una frazione di secondo atti e parole. Ma anche un’ira in grado di trasformarsi in qualcos’altro. Perché Ferrara è il più autenticamente cattolico fra i registi sulla piazza. Il protagonista è un tenente della polizia di NewYork livida come non mai. Visto al di fuori sembra un poliziotto come tanti altri, ma non lo è assolutamente. Dentro è marcio, corrot-
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IL FURORE Il film “Il cattivo tenente“ di Abel Ferrara
Il più perverso dei peccatori di Francesco Ruggeri
Una luce trasforma la sua rabbia bestiale in pianto interrotto, infinito. Più lungo della vita, più forte della morte vissuta ogni giorno
Il protagonista: Harvey Keitel
to, ossessionato e schiavizzato da ogni forma di dipendenza. Sniffa sulle foto di famiglia dopo aver partecipato alla comunione della figlia, scommette su tutto quello che può bruciando i risparmi e accumulando debiti con gente poco raccomandabile. Come se non bastasse, beve come una spugna e si buca tutte le volte che può. Non proprio uno stinco di san-
to insomma che nelle mani di Ferrara diventa il più raccapricciante dei peccatori, irriconciliato con se stesso e con il mondo. Annebbiato, il più delle volte, ma sempre pronto a sfogarsi con la moglie e a estorcere denaro e droga agli spacciatori che dovrebbe catturare. Un cane rabbioso avvolto da una spirale autodistruttiva che non conosce freno. Il punto di non ritorno l’ha imboccato già da parecchio, quello di rottura ancora no. E il suo mondo drogato e perverso cade in pezzi quando viene incaricato di indagare sullo stupro di una suora. Perché rottura? Ma perché si reca in canonica per parlare con la donna violentata e rimane allibito di fronte alle intenzioni della suora. La quale, invece di denunciare i suoi violentatori, li perdona. Un altro mondo è possibile. Un altro modo di vivere pure. Blackout. Nero, profondo, totale. Quando si scende così in basso e si gratta il fondo, non si può che risalire. Il cattivo tenente lo fa. A modo suo. E comincia a vedere nell’agghiacciante caso affidatogli un barlume di speranza. Una redenzione? Forse. Ma non è semplice. Da
Il protagonista, interpretato da Keitel, è il più raccapricciante dei cattivi, irriconciliato con se stesso e con il mondo. Però non ha ancora imboccato il punto di rottura
qualche parte però deve ricominciare. E lo fa davanti al crocefisso. Ferrara prova a filmare l’infilmabile. Il cattivo tenente entra in chiesa, si inginocchia e comincia a piangere. E poi a singhiozzare e poi ancora a rivolgere direttamente a Dio tutta la sua rabbia, tutto il suo dolore, tutta la sua piccolezza. Improvvisamente Gesù gli si materializza davanti. Il costato insanguinato, la corona di spine che gli martoriano il capo e le braccia tese. Il tenente gli cade ai piedi, prova a toccarlo, invoca un contatto, una grazia, forse un miracolo. Una luce. E trasforma la sua ira bestiale in pianto ininterrotto, vorace, infinito. Più lungo della vita, più forte della morte vissuta ogni giorno. Pasolini diceva che chi torna dall’Inferno, ne ha parecchie da raccontare. Ferrara c’è stato.“Il cattivo tenente” è il suo viaggio di ritorno.
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Cruciverba d’agosto
“Per voce e pianoforte, di solito”
di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI 1) Città dell’Eritrea, teatro di due importanti battaglie • 8) Ara ....... • 13) Abdel Nasser, presidente egiziano • 18) Ivan (18551935) naturalista e botanico russo (ã=ci) • 20)v Vano • 21) States • 23) Ufficio (adattamento dal francese come in polit.....) • 24) Fiume della Birmania (variante) • 26) “Ultimo tango a ” film parodico con Franchi e Ingrassia • 28) Miranda, attrice • 29) La nave su cui all’inizio è imbarcato il protagonista di Lord Jim di Conrad • 30) Bevanda alcolica • 32) Iniz. del criminologo Lombroso • 33) Idi ...... Dada, dittatore dell’Uganda • 34) “L’amaro del generaleYen” film di Frak Capra (1933) • 35) “La ...... d’ombra” di Joseph Conrad • 36) Stupidaggini • 39) Scollacciato • 40) Interamente • 42) “L’..... del lupo” film di Ingmar Bergman • 43) “Un cappello ........ di pioggia” film di Fred Zinneman (1957) • 45) Novantanove • 46) ... la notte ch’io passai con tanta ....... (Inferno I) • 47) Mario, attore • 50) Antico dio italico dei frutti poi identificato con Bacco • 52) Gadda • 53) Sopra le spalle con l’ali aperte gli giaceva un ....... (Inferno XXV) • 55) Parade • 56) Sozzi • 58) “Tombe degli .....miei! (Lucia di Lammermoor) • 60) Epiteto di Poseidone “scuotitore della terra” • 63) “Ethan” romanzo di Edith Wharton • 64) Ovo • 65) Marcello, esponente della Destra cattolica • 67) ....... lupo! • 68) Heflin, attore americano (Quel treno per Yuma, 1957) • 69) Schiavo degli spartani • 70) American Medical Association • 71) Antico nome di Palestrina • 74) “Il ........” di Marco Polo • 76) Schiele, pittore austriaco • 77) Venus and ......., poemetto di Shakespeare • 78) Giulietta e ......... • 80) Guidare • 82) Città del Congo, già Paulis • 83) Dolorosi • 84) Luis, Nobel per la fisica 1968 (USA)
VERTICALI 1) Desiderata • 2) Musicò I Masnadieri • 3) Varietà di giallo • 4) “........ Bo” di Palazzeschi • 5) Tu a Berlino • 6) Opera lirica di Richard Strauss • 7) Poeta greco noto per i suoi Canti di guerra • 8) Ben dovrebb’esser la tua man più ...... / se state fissim’anime di serpi (Inferno, XIII) • 9) Il capolavoro di U. Giordano • 10) Il dottor, personaggio del Falstaff di Verdi • 11) ....... hoc signo • 12) Parte di un trattato (abbr.) • 13) Opera di Rossini • 14) In dosi uguali • 15) La prende chi spara • 16) Quest’....... opaco del male (Pascoli) • 17) Opera di Donizetti • 19) Romanzo di Emile Zola • 22) Fiume dell’Ucraina • 25) Mozart • 27) E nessuno era stato a vincer ........... (Inferno XXVII) • 29) “Le parole sono .........” di Carlo Levi • 31) Manoscritto • 35) Per voce e pianoforte, di solito • 36) “......... Diavolo” opéra-comique di D.F. Auber • 37) Col pugno gli percosse l’........ croia (Inferno XXX) • 38) Mistero, indovinello (variante) • 41) Provincia toscana • 42) Antica lingua della Provenza • 44) ....... sommerso, raccolta di versi di S. Quasimodo (1932) • 47) Richiesta di soccorso • 48) Questo • 49) As You Like Xx di Shakespeare • 51) Provincia della Sicilia • 52) Romanzi di ....... e Spada • 54) Rivoltella americana • 56) ........ della sorte! • 57) Blasco autore di Sangue e arena • 59) Giaggiolo • 61) Enrico ....... di Pirandello • 62) Terza lettera dell’alfabeto greco • 63) Fiasco • 66) Oh Re de’ miei verd’.........! (Carducci) • 69) Secondo • 70) Schiava di Sara e madre di Ismaele, primogenito di Abramo • 72) Irlanda sulle targhe • 73) Sorella e moglie di Zeus • 75) Duilio, campione di pugilato • 76) Or non è più quel tempo e quell’........ (Carducci) • 79) Marca di autocarri • 81) Oggetti Volanti
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L’Almanacco Hanno detto di… gior nalismo
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Un tempo il giornalismo toglieva uomini alle lettere; oggi, il che è più grave, ne dà. Achille Campanile
Cosa s on o i g ar g o yle? Il gargoyle, corrispettivo inglese del termine italiano doccione, è quella creatura mostruosa di pietra che si sporge dalla sommità delle cattedrali gotiche, in folta e minacciosa compagnia dei suoi simili. La leggenda vuole che i gargoyle possano animarsi per difendere la loro chiesa allorché qualche malintenzionato vi si avvicini, ma in realtà essi svolgono di norma una mansione assai più umile: servono infatti a dirigere il deflusso dell’acqua piovana dalle grondaie fino al suolo, impedendo che la facciata e le pareti della cattedrale siano bagnate di continuo e dunque si logorino.
LA POESIA LA CICAL A Appare volontà quel che fu caso,? un eterno momento,? ma l’occhio il naso suggellò veloce? e la bocca nel vento? ambigua errò per voce? che sempre può parlare.?? Questo il ritratto e questo è il mare,? un rudere che striscia? nel suo vecchio calore.??
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Ha i minuti contati? la morte che perde? e moltiplica i piedi.? Nel sole che vedi? è il sole che langue,? il formicaio del sangue.
“Dinnanzi a me sen va piangendo”
LA SOLUZIONE DI IERI 1
Così dall’ombra mosse? una piccola biscia? fuggendo il suo colore.? Apparvero le fosse? dei morti, il grigioverde? dei topi e dei soldati.??
L’or igine di… aureola L’aureola cominciò ad apparire nell’iconografia cristiana verso il IV secolo d.C. come simbolo di beatitudine e di gloria celeste. Era però già ampiamente presente nelle raffigurazioni dell’arte egizia, greca e romana, in particolare come attributo delle divinità della luce. rappresentazioni cristiane, era riservata soltanto alla figura di Gesù ed era, a volte, attraversata dalla croce. L’aureola senza croce, invece, indica un santo canonizzato, mentre se consta in linee a forma di raggi denota uno dei beati non canonizzati. Variante dell’aureola è la mandorla, che racchiude l’intera persona ed è riservata alla Vergine e alla figura di Dio e appare sempre nelle scene che esaltano la natura divina di Cristo. a cura di Maria Pia Franco
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Paradossi sindacali: Epifani, Bonanni e Angeletti scrivono al governo per bloccare l’iniziativa di riforma scolastica
A fermare l’Aprea ci pensi Brunetta di Giuliano Cazzola ileggiamo la Costituzione. La legge fondamentale della Repubblica all’articolo 67 recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Nel successivo articolo 71 è scritto che «L’iniziativa delle leggi appartiene al governo, a ciascun membro delle camere ed agli organi ed enti ai quali è conferita da legge costituzionale». Sostenuta e confortata da siffatto pedigree normativo, Valentina Aprea, presidente della commissione Cultura della camera (già sottosegretario all’Istruzione in diverse compagini governative) ha pensato bene di presentare un progetto di legge recante: «Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti».
con il Cavaliere? Oppure raggiunge il premier nelle stupenda villa sarda, facendosi ricevere da lui in una pausa tra i colloqui con Putin e Mubarak, magari passando in rassegna la collezione dei cactus? No. La presidente porta - lo scorso 3 luglio - il progetto in VII Commissione e lo discute con i suoi colleghi, di maggioranza e di minoranza, anch’essi titolari dell’iniziativa legislativa.
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È da tre legislature - come ricorda la relazione - che il Parlamento pone all’ordine del giorno questa riforma senza riuscire a portarla a termine, mentre è a tutti evidente la crisi degli organi collegiali della scuola istituiti negli anni settanta. Quanto al personale insegnante, la relazione fa notare che non si tratta di soggetti perfettamente fungibili ad ogni tra-
Quand’ecco che - una ventina di giorni dopo - viene a conoscenza di una vibrante lettera di protesta sottoscritta dai segretari generali delle confederazioni e delle federazioni di categoria, inviata nell’ordine a Berlusconi, a Letta, e ai ministri Brunetta e Gelmini. Di questa missiva segnaliamo solo una ”chicca” dell’argomentare dei dirigenti sindacali (che spiega per altro il ricorso piccato a tante personalità importanti dell’esecutivo). «Non è ovviamente in discussione - scrivono i «sei dell’AveMaria» - l’autonomia del Parlamento, è tuttavia necessario chiarire se e fino a che punto la proposta di legsformazione strutturale, normativa ed organizzativa della scuola e che si rende pertanto necessaria una rivisitazione della disciplina del reclutamento e di quella sullo stato giuridi-
co «in coerenza con il nuovo paradigma organizzativo e didattico (flessibilità) delle scuole». Tutto ciò premesso, che cosa fa l’onorevole Aprea? Si reca forse ad Arcore per parlarne
È la prima volta che i segretari generali chiedono aiuto all’esecutivo per marginalizzare un progetto scomodo ma coraggioso in contrapposizione, come sostengono loro, con la linea di Palazzo Chigi
Autogoverno delle istituzioni scolastiche e rivoluzione dello stato giuridico dei docenti sono i pilastri della proposta di legge
Una lettera per conservare lo status di una scuola da cambiare
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uando i sindacati chiedono aiuto al governo sperando che questo vada in loro soccorso. Potrebbe sembrare un racconto di fantasindacato. Ma non è così. È invece il paradosso di un apparato sindacale conservatore, intimorito da una riforma scolastica scomoda ma coraggiosa. Il tutto è avvenuto la scorsa settimana, esattamente il 23 luglio, quando una lettera - sottoscritta dai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, insieme alle federazioni di categoria e indirizzata al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, al sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta, al ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta e al ministro dell’Istruzione, Mariastella Gemini - sollecita il governo a fermare il progetto di legge promosso dall’onorevole del Pdl, Valentina Aprea, attualmente presidente della commissione Cultura della Camera. L’iniziativa parlamentare
voluta dall’Aprea dovrebbe avviare l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché la riforma dello stato giuridico dei docenti. Qui di seguito i passaggi fondamentali della lettera. «...Con il testo in discussione si interviene su materie demandate alla contrattazione, riducendone ruolo e titolarità, come d’altra parte si afferma nella relazione di accompagnamento, eliminando aspetti essenziali di rappresentanza e di tutela dei lavoratori proprio delle organizzazioni sindacali. Il provvedimento modifica sedi e funzioni degli organismi di rappresentanza dei lavoratori oggi definiti, in sede negoziale con le Rsu...». «...Va considerato che è in corso un confronto con il ministero della funzione Pubblica anche sui temi che riguardano la con-
trattazione che va in tutt’altra direzione da quella perseguita dal progetto richiamato, si cita, ad esempio, la riduzione delle aree di contrattazione, presente nel provvedimento del ministro Renato Brunetta, mentre nel proposta in questione vengono aumentate (area Docenti; e area ATA)....». «...Non è, ovviamente, in discussione, l’autonomia del parlamento, è tuttavia necessario chiarire se e fino a che punto la proposta di legge in questione rifletta indirizzi e scelte di politica del governo; infatti la proposta di legge risulta in contraddizione con aspetti proposti dal ministro della funzione Pubblica, e con le dichiarazioni programmatiche del ministro dell’Istruzione, che sembravano escludere, fra l’altro, ogni atto o intervento sul terreno proprio della contrattazione». Firmato: Epifani, Bonanni, Angeletti, Panini, Scrina e Di Menna.
ge in questione rifletta indirizzi e scelte di politica del governo» dal momento che «la proposta di legge risulta in contraddizione con aspetti proposti dal ministro della Funzione pubblica e con dichiarazioni programmatiche del ministro dell’Istruzione, che sembravano escludere, tra l’altro, ogni atto o intervento sul terreno proprio della contrattazione». In sostanza, a sentire i sindacalisti il governo dovrebbe richiamare all’ordine l’onorevole Aprea, per fermare la quale non ci si fa scrupolo di richiedere persino l’aiuto del ”perfido”Brunetta. A noi tutto ciò ricorda un film profetico di Federico Fellini Prova d’orchestra - dove il grande regista denunciava con tanto anticipo - i guasti di un sindacalismo invadente ed impiccione. Interpellato dal povero direttore della sgangherata orchestra, il sindacalista rispondeva tronfio ed arrogante, con accento romanesco: « Er sindacato so io».
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i può parlar male di Sessantotto (perbacco!), che fino a poco tempo fa era protetto, e venerato, più di Garibaldi. Persino il ministro Sacconi (che è socialista, e si occupa di lavoro: due requisiti adatti a considerarlo una vestale del mito) ha proposto di “abrogarlo”. Per non parlare di Marcello Veneziani che ha suggerito – in un libro monografico – di “rovesciare il ’68”. La stessa idea ce l’ha (ce l’ha sempre avuta) Renato Besana, giornalista e scrittore di vaglia, che individua nel Sessantotto la frattura fra l’Italia del “miracolo” (non soltanto economico, ma anche culturale e sociale) che produceva e sorrideva e la stagione successiva, amara, triste e persino disperata.«La patria cominciò a morire allora, in una lunga agonia che si trascinò per un decennio. La bufera, che aveva attraversato l’oceano, sconvolse l’Europa. Marx-Mao-Marcuse. Gli altri paesi, a cominciare dalla Francia seppero riaversi.
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Noi no. L’incontro tra culture radicali e cattolicesimo progressista, che del sessantottismo costituì il detonatore, ne determinò la permanenza. Ancora non ce ne siamo liberati del tutto». Besana ha raccolto i suoi pensieri sulla decadenza italiana in un pamphlet che si racconta già nel titolo – Sconcerto italiano– e nel sottotitolo, Diario di un paese impossibile (Solfanelli editore, 110 pagine, 9 euro). È una specie di sfogo, un’esplosione di rabbia per le tante occasioni perse. Viene in
letture
In un libro di Renato Besana la genesi della depressione italiana
Perché ci fa male il nostro Paese di Massimo Tosti mente (anche nel titolo: “sconcerto” ha la stessa etimologia di “concerto”, e ne rappresenta l’esatto opposto: la disarmonia in luogo dell’armonia, il disordine al posto dell’ordine) la “Prova d’orchestra” girata da Federico Fellini nel 1979, quando la confusione (e la disarmonia) regnava sovrana. I danni – secondo Besana – si estesero un po’ in tutti i campi: «Negli anni Settanta
ra fermato. Il pessimismo di Besana non conosce incertezze. Lo Zingarelli definisce così lo sconcerto: «Mancanza o cessazione di armonia, tranquillità, benessere. Turbamento, sconvolgimento». È esattamente il quadro che dipinge Befsana, non risparmiando nessuno. Se la prende con i politici (notabili e portaborse) denunciandone «la boria, la retorica bolsa, l’imbecillità sac-
A pagare il conto della cialtroneria delle classi dirigenti alla fine sono sempre professioni e categorie mentre la grande industria ha licenziato e delocalizzato piagnucolando aiuti governativi esporre il tricolore era considerato una provocazione di stampo fascista, con tutto quel che ne seguiva. Perfino la lingua italiana, nel tritacarne sessantottista, cominciò a contorcersi nelle misure in cui, nei discorsi da portare avanti, nel livello a monte». Tutto è partito di lì. Ma il processo di dissoluzione non si è anco-
cente, il servilismo sposato all’avidità»; con gli intellettuali (anche quelli “più riveriti”) che «sono quasi sempre maggiordomi zelanti, pronti alle battaglie più aspre, beninteso a favore di chi comanda»; con i magistrati invadenti; con i partiti e la cultura di sinistra che ha regolarmente denunciato ipotetici golpe di de-
stra, ma ha firmato i veri colpi di Stato (fra i quali Besana include gli eventuali brogli nel referendum monarchia-repubblica), le rivolte del 1960 che rovesciarono il governo Tambroni, le ribellioni sessantottine, il ribaltone provocato dalle inchieste di Mani pulite e il disarcionamento di Berlusconi con l’avviso di garanzia consegnatogli a Napoli nel 1994; i grandi industriali, assistiti dal Palazzo più che dalla genialità imprenditoriale e dalla competitività. E poi – neanche a dirlo – i sindacati che per troppi anni hanno badato più a far politica che a difendere i reali interessi dei loro iscritti. Ma Besana non risparmia critiche e frecciate neppure alla destra, “semplicemente evaporata”: “«In anni ormai lontani era nera, ma l’ultima volta che l’hanno intravista si stava interessando di quote rosa. A furia di schiarirsi, è diventata trasparente; ormai altro non le rimane che l’antifascismo». Ce n’è davvero per tutti gli unici a pagare il conto sono alla
fine gli esponenti della classe media: i professionisti e le piccole imprese. «Professioni e categorie, per secolare consuetudine, hanno fornito a chi ne facesse parte il quadro di riferimento che uno Stato come il nostro, avido e cialtrone, non è mai riuscito a garantire»: hanno prodotto, «e continuano a produrre, benessere e decoro», mentre la grande industria «ha licenziato, delocalizzato e piagnucolato aiuti governativi». Besana ricorda quanto De Gasperi temesse quello che aveva definito il “quarto partito”, e cioè ”i poteri forti della finanza e della grande industria” che – da un certo momento in poi si sono alleati con la sinistra, se non addirittura con i no global.
La lettura del pamphlet (sia pure ravvivata da dall’ironia corrosiva) non funziona davvero come antidepressivo. È, anzi, una esplicita induzione al suicidio. Besana l’ha scritto prima delle ultime elezioni che hanno riportato il centrodestra (e Berlusconi) al potere. Ma da libero pensatore quale è, neppure questo l’avrà consolato: la sua sfiducia non conosce attenuanti. Non riguarda questo o quello. Riguarda tutti noi. Riguarda l’Italia, “un paese impossibile”. Come riteneva – sette secoli prima di Besana (che non dovrebbe incupirsi per il paragone) – un poeta che deve le sue fortune a Benigni, quando imprecava contro la «Serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!».
cinema
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L’attore preferito di Quentin Tarantino arriva nelle sale italiane con ”Invincible”, ultima fatica di Werner Herzog
Quell’infingardo truffatore di Tim Roth di Piergiorgio Buschi elle sale cinematografiche italiane è arrivato in questi giorni un vero e proprio fiore nel deserto, una pellicola dell’onirico regista tedesco Werner Herzog, in passato maestro di cerionia di film di grande fascino e profondità quali Nosferatu principe delle tenebre e Fitzcarraldo, entrambi con protagonista l’alter ego del cineasta, Klaus Kinski.
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Invincible, questo il titolo del lavoro, è incredibilmente rimasto ad ammuffire sugli scaffali dei dstributori per ben sette anni, prima di approdare nelle nostre sale in un periodo non certo generoso a livello di pubblico e di incassi; ambientato durante la seconda guerra mondiale nella Germania investita dall’avvento di Hiltler, il lungo-
metraggio traccia la storia vera di un uomo comune che trasportato dal suo umile villaggio nella scinitllante Berlino dell’epoca, grazie alla sua smisurata forza fisica diviene l’attrazione del momento, preso sotto l’ala protettrice di un impresario ciarlatano, esperto di occultismo, che cerca di coinvolgere il Fuhrer in questa sua passione per la magia fino a indurlo a istituire un vero e proprio ministero delle scienze occulte. Il ruolo di questo infingardo truffatore è ricoperto da Tim Roth. Talora, la celebrità, la messe di premi e perché no, le laute praebendae economiche che investono un qualsiasi altro astro nascente componente la galassia del mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, sono legate a
quel cockctail di abilità e buona sorte che scaturisce dalla scelta che un compositore o un regista fa cadere sui primi (e viceversa); finisce così per instaurarsi un binomio difficilmente scindibile nella memoria degli spettatori e degli addetti ai lavori che porta spesso e volentieri a identificare l’uno con l’altro. Questo teorema trova una delle sue più cristalline dimostrazioni nella coppia Quentin Tarantino/Tim Roth, con il secondo assurto a pieno titolo nel novero degli attori feticcio del regista americano. La maturità personale e artistica emerge nella capacità di non rimanere intrappolati in questa sorta di ”gabbia dorata”,riu-
scendo a non farsi schiacciare dall’ombra del proprio passato né accecati dalla luce della gloria, affrancandosi da questo doppio binario per estrinsecarsi lungo diversificati piani e progetti.
Un’evoluzione da crisalide a farfalla che Tim Roth è riuscito a completare, in modo che il trittico tarantiniano Reservoir Dogs, Pulp Fiction e Four Rooms, non ha rappresentato un limite ma una rampa di lancio. Figlio di un giornalista ebreo e di una pittrice, Roth si è formato artisticamente nella nativa Inghilterra, dedicandosi originariamente alla scultura per poi vi-
Nella pellicola interpreta il ruolo di un impresario ciarlatano esperto di arti magiche, che cerca di convincere a tutti i costi Hitler a istituire un vero e proprio ministero delle Scienze occulte
A sinistra Tim Roth protagonista del film Invincibile del regista Werner Herzog (sopra con l’attore Jouko Ahola). A lato Anna Gourari
rare bruscamente verso la recitazione; la penuria di ruoli offerta dalla madre patria ha portato l’attore ad accelerare il suo percorso verso la mecca del cinema, Hollywood. Contrariamente a molti suoi colleghi, ha impostato il proprio rapporto con lo star system lungo una direttrice di misurato distacco. Pur avendo inanellato un copioso numero di interpretazioni, l’attore non ha mai sofferto di ”bulimia da schermo”,dimostrando di saper centellinare la scelta dei ruoli da incarnare. Nella maggior parte dei film di cui è stato protagonista, Roth ha indossato gli indumenti recitativi di uomini seriosi e duri, talvolta crudeli ai limiti dell’efferatezza, un assetto diametralmente antitetico al Tim uomo e individuo, padre affettuoso e protettivo, marito dolce e accorto. Tra le maggiori aspirazioni professionali di Tim Roth, la volontà di dare una sterzata robusta verso generi cinematografici al polo ooposto a quello che gli è più consono, reimmergendosi nell’acquario della commedia brillante, una palestra in cui si è già in precedenza cimentato sotto la direzione di Woody Allen in Tutti dicono i love you, performance che non lo ha soddisfatto, alimentando in lui la volontà di mettere in cantiere una nuova esperienza nel medesimo contesto. L’Italia ha offerto un enorme contributo nella formazione dell’attore, sia sotto forma di musa ispiratrice, vedendo in alcuni nostri registi quali De sica, Rossellini e Pasolini dei veri e propri maestri, sia per vie traverse, avendogli offerto l’opportunità di lavorare con Giuseppe Tornatore,instaurando col cineasta siciliano un rapporto inizialmente conflittuale, per poi dare vita una profonda e duratura amicizia.
La verve creativa dell’attore britannico non si è fermata al piano recitativo, il suo esordio dietro la macchina da presa (Zona di guerra) è stato brillante, incisivo e celebrato con entusiasmo da critica e pubblico. Tim Roth ultimamente sta lavorando con il suo mentore Tarantino in Inglorious Bastards, pellicola inserita nell’alveo del secondo conflitto mondiale, dando ennesimo riscontro della sua completezza come artigiano della celluloide.
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il racconto
In un arido e sperduto autogrill di Contursi, Riccardo e Jolanda sono alle prese con un guasto alla macchina. Ma una strana ossessione distrae l’uomo dall’avaria. Una storia a luci rosse che lo riporta indietro fino a inizio Novecento…
Scandalo al sole di Andrea Di Consoli roprio mentre pronunciò quel nome – il nome di Krupp; ma non il nome di “Herr Krupp”, ma del figlio, di Friedrich Alfred – un rumore insistente cominciò a turbarlo; proveniva dal motore, o dalla parte di sotto, dove c’erano i misteriosi tubi. Chiese conferma alla moglie: «Lo senti anche tu?». La moglie confermò, ché il rumore era reale – sembrava il rumore di una catena di bicicletta che si rompe in corsa, ma quella non era una bicicletta, era una Clio.
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Erano sull’autostrada, verso Contursi, prima dell’autogrill. «Sarà l’olio?» chiese preoccupato. La moglie alzò le spalle; poi decise, ma senza convinzione: «Andiamo avanti, vediamo se aumenta». Riccardo si persuase e riprese il discorso. «Krupp… ma hai ragione. Cosa mi metto adesso a parlare di Krupp, sotto questo sole». La moglie teneva il figlio in braccio, mezzo addormentato, e gli diede soddisfazione: «No, continua». Riccardo accese una sigaretta e tirò fuori il braccio – esponendo al vento veloce della corsa la tenue brace della sigaretta. «L’industriale era innamorato di Capri. Guarda che i tedeschi sono proprio strani. Dovevi vedere cos’era Roma nel ’44, con i nazisti in ginocchio davanti alle sculture latine. O i tedeschi in Africa, avvinti dai corpi dei giovani, belli e veloci come gazzelle. Alloggiava al Quisisana, Krupp, in una suite di quattro stanze… ». In quel momento il rumore si fece assordante; qualcosa si era rotto, non c’erano più dubbi. Riccardo rallentò e rimase in ascolto di quel rumore misterioso. «Chissà se c’è un’officina, all’autogrill». La moglie disse solo «Proviamo», e Riccardo provò; mise la freccia e raggiunse l’area di servizio – che però era lontana un paio di chilometri, ché da quando stavano rifacendo l’autostrada, il nuovo tracciato aveva tagliato fuori il glorioso autogrill di Contursi. Arrivati che furono davanti all’officina – in uno spiazzo deserto e allucinato di sole – Riccardo scese e salutò due vecchi mecca-
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nici che stavano seduti, con le braccia incrociate, davanti al vuoto garage. «La macchina ha un problema» disse, «fa un brutto rumore». Il vecchio più vecchio fece cenno al vecchio meno vecchio di andare a vedere; e quello si alzò, stanco come Sisifo, e affondò la faccia nel motore, come uno struzzo affonda la testa nella sabbia. Poi gli chiese di far scendere la moglie e il bambino, e di spostare la macchina nel garage. Riccardo fece tutto; poi rimase, con la sua famiglia – senza nessun avvenire – nello spiazzo di Contursi, in balia di due meccanici che avevano perduto, per via dell’isolamento stradale, la nozione del tempo che passa. Dopo qualche minuto, la moglie chiese al vecchio più vecchio se potevano stare dentro, ché fuori faceva troppo caldo; e lui, gentile, la fece accomodare nel suo ufficio – ma tutto era, quello sgabuzzino, fuorché un ufficio, sporco com’era di grasso, di bottiglie vuote, di polverosi calendari con donne nude, e di antiche e inutili fatture buttate a terra. «Potete anche bere, se volete» disse, aprendo un piccolo frigorifero tenuto chiuso con un filo di ferro. Jolanda chiamò Riccardo, che era rimasto nell’officina in attesa di una sentenza, e gli disse di bere anche lui qualcosa – di bere qualcosa da quella bottiglia riempita chissà quante volte, e chissà quante volte entrata nella bocca dei due meccanici.
Non riesco a non pensare a Krupp. Era nato nel 1854 e morì giovane, a 48 anni. Forse si suicidò. Era innamorato di Capri
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Il bambino, intanto, si era impossessato di un martello, e batteva a terra con forza, scotendo l’interiorità petrosa dei due meccanici salernitani, che sapevano, apparentemente, solo guardare spaesati nel motore, e poi fumare sigarette che nessuno più fumava – avevano dita spesse e scure, e bocche gialle di nicotina. Li sentirono parlottare tra di loro: «E’ il semiasse» disse il primo; «Il pistone» disse l’altro; si guardarono, scossero il capo, infine affondarono di nuovo le teste canute nel motore. Riccardo prima tolse il martello dalle mani del figlio – azzittendolo con una chiave inglese;
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poi riprese, seduto alla scrivania sporca, il discorso su Krupp. «Friedrich Albert Krupp era nato nel 1854 e morì giovane, a quarantotto anni. Forse si suicidò». La moglie avrebbe voluto dirgli: «Comprami un gelato», invece rimase zitta, in ascolto, con la schiena appoggiata a un ventilatore che faceva un giro ogni tanto. «Aveva due figli, era sposato, ma il suo grande amore fu Capri. Non solo Capri. Amava i ragazzi giovani. Era omosessuale, Krupp, ecco».
Il figlio, senza che nessuno se ne accorgesse, stava infilando dei chiodi nella presa dell’elettricità; Jolanda urlò di paura, e quel grido distrasse i due luminari del pistone, che infatti entrarono nell’ufficio con la faccia interrogativa. Riccardo minimizzò, disse che il figlio voleva riprendere a martellare. Il vecchio più vecchio dimenticò in fretta l’urlo, e diede la prima sentenza: «Signore, è il semiasse». Riccardo rispose «bene, e adesso?». Il meccanico prese un foglio in mano e fece un calcolo; comunicò il prezzo e, dopo una piccola trattativa, si misero d’accordo. Poi il vecchio parve ripensarci. «Sì, ma il pezzo lo dobbiamo andare a prendere a Eboli». Riccardo ripeté: «Bene», ma poi aggiunse: «E quanto ci vuole?». Il meccanico emise un sospiro fatalista. «Il mio collega adesso parte e va a cercare il pezzo. Tempo un’oretta e sarà di ritorno». Riccardo disse solo: «Va bene». Era passata un’ora, ma il meccanico meno vecchio non tornava. Jolanda, seduta all’ingresso del garage su una sedia di plastica, si buttava acqua tiepida sulla testa – il bambino, invece, sbatteva i piedi nelle piccole pozzanghere di acqua e olio che la madre aveva creato. Riccardo fumava sotto il sole, con la camicia sudata, e guardava il vecchio più vecchio che si lamentava, a bassa voce, di chissà quale disastro; poi si avvicinò alla moglie e riprese il discorso. «Un giorno ti farò vedere via Krupp, e poi la sua grotta. No, guarda, è un po’ di tempo che ci penso, a Krupp. E’ diventata una fissazione. Insomma, per fartela breve, nel 1902 Krupp si ritrovò al centro di uno scandalo sessuale. Insieme al pittore…». Proprio in quel momento spuntò il vecchio meno vecchio con un semiasse sulla spalla – e, così sudato, sembrava davvero Sisifo in cima alla montagna delle penitenze. Riccardo sorrise e lo festeggiò con una pacca sulle spalle. «Era l’ultimo» gli disse Sisifo, «abbiamo rischiato grosso». Riccardo gli offri una sigaretta, e quello, senza ringraziare, l’accese, e poi la lasciò bruciare sulle labbra, senza mai toccarla. Poi i due vecchi alzarono la macchina e si misero a lavorare a muso duro – con l’eterna sigaretta che molestava i loro piccoli occhi antichi. Jolanda non ne poteva più; si faceva un po’ di vento con la gonna – e Riccardo, vedendola così sguaiata sul-
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la sedia di plastica, le disse con divertimento che sembrava di stare in Messico. «Sei una messicana» le disse, «una benzinaia della periferia di Guadalajara». Poi riprese con la fissazione di Krupp. «Il pittore suo amico si chiamava Christian Wilhelm Allers. I due tedeschi si facevano portare giovani ragazzi, con la complicità delle autorità locali. Poi scoppiò lo scandalo, e Krupp morì di crepacuore. Anzi, quasi sicuramente si suicidò». Jolanda commentò solo dicendo che quella storia era un romanzo, anzi, un romanzaccio; Riccardo confermò, e le disse che un giorno o l’altro avrebbe iniziato delle ricerche per ricostruire con precisione i fatti. «Ma che te ne importa?» sbottò di colpo Jolanda; e dopo essersi così sfogata, prese la gomma dell’acqua e iniziò a spruzzarla sul corpo di Riccardo, che rimase impietrito e divertito. «Ma sei pazza?» gridò con le braccia ferme a mezz’aria. Jolanda rideva, e anche il figlioletto rideva felice, soprattutto perché poteva calpestare nuove pozzanghere di acqua nera. A quel punto Riccardo afferrò una bottiglia di acqua e la versò interamente sulla testa di Jolanda.Tutt’e tre ridevano. Il sole era forte, e toglieva di dosso, rapidamente, l’umidità. I due vecchi parlavano tra di loro, e guardavano con indifferenza quella scena scomposta. Ma Riccardo e Jolanda non la fecero finita; anzi, iniziarono a spruzzarsi l’acqua senza remore, urlando e gridando d’improvvisa gioia. «E se c’era il tuo amico Krupp, dovevi vedere come lo combinavo» disse Jolanda, rimasta in reggiseno. Anche il figlio prese in mano la gomma, ma anziché bagnare i genitori, si versò l’acqua addosso; a quel punto, per toglierli la gomma dalle mani, tutt’e due si buttarono addosso a lui, ma caddero a terra, sullo spiazzo bagnato di acqua nera, e risero, urlando di raccapriccio per il grasso nero sulle braccia e sul volto. Il figlio gridava ridendo, senza controllo, «merda, merda», mentre Riccardo e Jolanda cercavano di tappargli la bocca.
Nel 1902 si ritrovò al centro di un traffico scabroso insieme a un suo amico, il pittore Christian Allers. Erano omosessuali
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Infine si calmarono e si lavarono con la gomma – e si asciugarono al sole, in un silenzio di pace. Quando poi scese il crepuscolo, e i rumori lontani dell’autostrada – che sembravano sopiti per sempre – parvero ritornare, il vecchio più vecchio disse che avevano finito. «La macchina è a posto» disse, indicando l’ufficio con il braccio sporco di grasso, «pochi minuti e potete ripartire». Così Riccardo avrebbe potuto lasciare dietro di sé – in uno spiazzo assolato di un’autostrada del Sud – le loro facce disseccate e stanche; e anche la faccia triste di Krupp, un uomo che fu sedotto dal sole abbacinante del Sud, e che per quel Sud di giovani corpi misteriosi pose fine, anzitempo, a una ricca e troppo sfortunata avventura terrena.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Kajal per uomo: gadget trendy o da Drag Queen? NESSUN DUBBIO: IL KAJAL PER UOMO È SOLO UNA ROBA DA DRAG QUEEN Nessun dubbio: il kajal per uomo è solo una roba da Drag Queen. E non si venga a dire che siccome adesso va di moda (ma è davvero così in voga tra i maschietti?) allora facciamolo diventare uso comune, che tanto poi ci si abituerà anche a questo. Si comincia con l’Inghilterra, dove prestissimo, pare, sarà messa in vendita la «Guyliner», e poi si sa come vanno queste cose: inizieremo a vedere maschietti col volto dipinto, a poco a poco, anche nel resto d’Europa. Ma cosa sta succedendo agli uomini? Stanno rotolando sempre più verso il baratro della crisi d’identità, sono diventati più narcisisti delle estetiste e delle loro clienti. Gran brutto sintomo questo. Gran brutto sintomo.
Maurizio Gelli - Lecce
SPERO TANTO CHE MIO FIGLIO NON SI ADEGUI MAI A MODE E TENDENZE DEI GIOVANI D’OGGI Ci manca solo la matita per gli occhi da uomo e i nostri uomini li perdiamo davvero. Da quando è nato mio figlio Pierluigi ho sempre avuto il timore che potesse, prima o poi diventando grande, prima abituarsi e successivamente adeguarsi a questi nuovi
LA DOMANDA DI DOMANI
standard di vita superciciale che oramai impongono non solo alle donne, ma anche agli uomini, di uniformarsi alla bellezza da copertina delle principali riviste trendy e di moda. Continuo ad augurarmi questo non tocchi mai lil lato virile della mia famiglia. Ma credo anche che tutti quei maschietti che oggi subiscono il fascino dell’estetica maschile portata all’eccesso... beh, forse hanno anche ricevuto una educazione discutibile dentro casa.
Agnese De Angelis - Pavia
IN REALTÀ PENSO CHE NON CI SIA NULLA DI MALE NEL VEDERE I MASCHIETTI TRUCCARSI Ma cosa ci sarebbe poi di così sbagliato? Un uomo non ha il diritto di cambiare e migliorare magari il tratto e i lineamenti degli occhi? In quasi tutte le democrazie europee finalmente si è arrivati a sviluppare un livello accettabile di tolleranza e rispetto verso le libertà individuali. Fortunatamente anche l’Inghilterra si sta adattando. E qui in Italia? Naturalmente si grida allo scandalo e a chissà cos’altro. Ho un paio di amici che già da anni si truccano, ma non per questo si sentono (o sono) meno virili. Se anche il mio fidanzato, ad esempio, iniziasse ad aggiustrsi un po’, certo non lo criticherei, anzi. La cura per se stessi, oggi, passa anche per l’estetica, facciamocene una ragione e camminiamo al passo con i tempi. Grazie e a presto.
Rita Melis - Cagliari
UN TEMPO QUESTO NON SAREBBE MAI ACCADUTO: LE DONNE ERANO DONNE, GLI UOMINI... UOMINI
Agosto: grande esodo o vacanze intelligenti? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Tutta colpa della globalizzazione, del progresso, dei media e dei mezzi di comunicazione più in generale. Ma non trovate che si vivrebbe meglio se si tornasse indietro, non di molto, diciamo, di cinquanta, sessant’anni? C’era più ordine, i ruoli tra uomo e donna erano diversi e ben definiti, si badava alla produttività e non a certe frivolezze estetico-maniacali. Gli uomini erano uomini, le donne erano donne. Oggi le donne sono ”femmine”. E i maschietti, cosa diventeranno? Oggi è la matita per gli occhi per ometti, domani chissà quale altra diavoleria.
TODI 2008: VERO LUOGO DI CONFRONTO Todi 2008: il seminario è stato un vero luogo di confronto, di dibattito e di elaborazione politica. La dialettica cui si è dato corso ha evidenziato, con inconfutabile chiarezza, l’impossibilità di definire l’attuale sistema italiano come bipartitico. Partito Democratico da una parte e Popolo delle Libertà dall’altra, perpetrano lo sdoganamento del bipartitismo, ancorché né l’uno né l’altro posseggono i requisiti basici per essere definiti partiti. Più che di partiti credo che si debba parlare di due contenitori che, in quanto tali, hanno saputo abilmente intercettare il voto liquido di una società fluida, approfittandosi della profonda fragilità e insicurezza in cui versano le persone che la compongono. I due contenitori hanno prodotto e producono una offerta politica “light”, che non solo si attaglia a perfezione al trend culturale relativista, ma lo legittima fino al punto di istituzionalizzarlo; non sono in grado di proporre una politica forte, in quanto impossibilitati dalle contraddizioni culturali e valoriali presenti al loro interno. La risposta a questi
PIAZZA D’ARTE Queste colorate pietre per lastricati sono la replica di un’opera d’arte del grande pittore russo Vassily Kandinsky e si trovano sul quadrato principale della città bavarese di Weilheim, nella Germania del sud. Kandinsky dipinse l’originale nel 1909
SPIEGATE A VELTRONI COSA SIA L’INFLAZIONE L’inflazione è l’imposta che il governo impone alle fasce più deboli della popolazione, Veltroni dixit. D’accordo, lui è esperto di cinema e non ha studiato economia, ma arrivare a sostenere che un processo inflattivo di tale portata sia causato da un governo in carica da tre mesi è davvero troppo. Cordialità.
Enrico Pagano - Milano
IL GOVERNO BERLUSCONI E LE LEGGI AD PERSONAM Precisa Renato Schifani, presidente del Senato: «L’età pensionabile dei dipendenti del Senato salirà da cinquantatre a sessanta anni». Con tutto dovuto il rispetto posso almeno dire «alla faccia»! A partire da Spadolini, suo predecessore nel 1992, si so-
dai circoli liberal Francesco Coratti - Roma
“non-luoghi”della politica - si è detto - consiste nel dare vita ad un partito realmente popolare, realmente liberale, realmente radicato nella cultura giudaico-cristiana. Se da un lato non sfuggono le difficoltà che si paleseranno nel presentare alle persone una soluzione partitica terza (l’elettore ragiona da quindici anni con categorie binarie), dall’altro non possiamo non lasciarsi entusiasmare da una sfida che si prefigge di rinnovare la politica dal profondo, che rimetta al centro l’uomo: quello integrale con il corpo e l’anima, con il cuore e la coscienza, l’intelletto e la volontà. Se si vorrà evitare che le intenzioni espresse a Todi naufraghino nel mare dell’attendismo e dell’ambiguità, sarà necessario che Udc, Rosa Bianca e i Circoli Liberal incanalino questi propositi in un percorso che trovi un formale, reale e rapido radicamento nel territorio. Sarà opportuno creare degli organismi paritetici regionali (aperti anche ad altre realtà territoriale), che diano vita ad un processo di elaborazione contenutistica e programmatica, tale da affrontare i prossimi appuntamenti elettorali seguendo una linea politica
no succeduti nell’ordine Scognamiglio, Mancino, Pera e Marini. Al Senato, dopo sedici anni, si accorgono solo ora che cinquantatre anni era ed è ancora (infatti la riforma non è operativa) un’età limite scandalosa: un minatore o un lavoratore in turni di notte, con criteri simili, allora dovrebbe avere la pensione prima di venire al mondo! E poi hanno il coraggio di dire che il governo attuale pensa ”solo” a leggi ad personam? Semmai in caso sarà ”anche”, ma è già tanto, se da tangentopoli in poi tutto è rimasto fermo. Sotto quale presidenza, lo chiedo per pura curiosità, scattò il limite di cinquantatre anni? Non certo con Malagodi! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
coesa. Sarà indispensabile aprire il cantiere della Costituente di Centro, non importa quando lo si chiuderà, l’importante è che si dia inizio ai lavori. Sono convinto che così facendo, potremo intercettare l’interesse di tutte quelle persone che, sebbene abituate a ragionare con categorie binarie, riterranno una esperienza appassionante, lavorare per la costruzione di un partito a misura propria, che li possa rendere effettivamente protagonisti. Mauro Cozzari COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL UMBRIA
ATTIVAZIONI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio
800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Adoro la libera e vigorosa atmosfera di Roma Tesoro, sono arrivato a Roma alle 4 circa di questo pomeriggio dopo un volo meraviglioso da Copenaghen via Milano, sopra le Alpi.Volare sulle Alpi è eccitante e spaventoso. Sembra che quei picchi debbano raggiungerti. Per quanto fossimo molto al di sopra, sembravano vivissimi attraverso la luce del sole stranamente luminosa di quel pomeriggio. Ho mangiato in un posto che Napoleone ha fatto costruire per Giuseppina, una massa impressionante di calda pietra marrone. Non so cosa dire di Roma che potrebbe suscitare una grande impressione. Probabilmente ne ho già vista troppa nei film. Mi piace davvero, mi piace la sua atmosfera libera e vigorosa e il fatto che ora, alle 2 di mattina, le strade sono piene di gente che cammina lentamente per andare Dio solo sa dove, e di piccole Fiat che sfrecciano impazzite a velocità spaventosa. Nessuno a Roma si preoccupa di nulla. Il caffè fa semplicemente schifo. Tutto il mio amore a tutti, tuo John Fante alla moglie Joyce
leggi, la maggioranza di centrodestra non corre rischi. Il perché è confermato da cosa scrivono a sinistra! Ci sono solo certezze, mai un dubbio, un’ombra di dubbio su un fatto, un atto, una dichiarazione politica: loro ti danno tutto, l’interpretazione, l’aspetto sociale, i retroscena, i perché ed i ”percome”! Il resto della carta stampata diventa ”monnezza”, non sai che farne. Qualche esempio: Gianfranco Fini e Massimo D’Alema s’incontrano? Veltroni è spiazzato. Strage di Bologna? Chi osa rivedere il processo fa depistaggio. (Per gli smemorati Sofri ebbe in tutto 12 gradi di giudizio, tra annullamenti ecc). L’inflazione alle stelle, pane e pasta sono roba da ricchi. Ma è serio tutto questo o si fa solo il male dell’Italia?
L. C. Guerrieri - Teramo
SUBITO LA VERITÀ SULLA STRAGE DI BOLOGNA A QUALCUNO FA COMODO INGARBUGLIARE LA POLITICA D’Alema, sulla questione Tavaroli, il conto quercia, i depositi all’estero e la relativa firma di Fassino, si esprime chiaramente e si chiede a chi interessi questa falsità. il direttore Belpietro, sul suo settimanale Panorama, con altre argomentazioni sostiene in pratica la stessa cosa. Ora che entrambi scrivono e dicono ciò, inizio a convincermi che esista qualcuno (non mi dicano il solito Berlusconi) interessato ad ingarbugliare la politica italiana. La Cia ed il Kgb a mala pena danno lo stipendio nelle rispettive malandate organizzazioni, la massoneria, sette segrete o altro sono roba da film di buona fattura ma non di più... allora? Cui prodest? A chi giova? Partiamo da qui e risaliamo indietro: chi incontreremo al vertice? Un’idea, come D’Alema, l’ho anch’io, ma coincideranno? Dubito fortemente!
Lettera firmata
A SINISTRA? MAI UN DUBBIO, SOLO INFINITE ”CERTEZZE” La prima pagina dell’Unità del giorno dopo è nel mio Pc ogni sera, dopo la mezzanotte. Ormai vado a dormire contento: si, se la
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
2 agosto 1916 Alle ore 23,00 circa esplode la nave da battaglia Leonardo da Vinci, ancorata nel Mar Piccolo di Taranto 1934 Adolf Hitler assume la carica di capo dello Stato (Führer) 1936 Muore Louis Blériot, aviatore francese 1945 Si chiude la Conferenza di Potsdam 1945 Muore Pietro Mascagni, compositore e direttore d’orchestra italiano 1975 A New Orleans, inaugurazione ufficiale del Superdome, con una partita di football americano tra New Orleans Saints e Houston Oilers 1976 Muore Fritz Lang, regista e sceneggiatore austriaco 1980 Italia: alle ore 10.25 una bomba esplode alla stazione di Bologna: 85 morti 1998 Vince il Tour de France, un italiano. Il suo nome è Marco Pantani 2005 Muore Sandro Bolchi, regista italiano
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
Ma è mai possibile che in Italia esista qualcuno come Francesco Cossiga, che puntualmente rilascia interviste rivelando di conoscere bele tutti i fatti più oscuri della storia italiana? E nessuno mai che gli intimi di parlare. Per favore, fuori la verità sulla strage di Bologna.
Gaia Miani - Roma
PUNTURE L’inflazione sale al 4,1 per cento. Berlusconi: «Serve un drizzone». Quanto costa?
Giancristiano Desiderio
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Per non essere gli straziati martiri del Tempo, ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare CHARLES BAUDELAIRE
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Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di CHI HA INFANGATO LE OLIMPIADI 2008? uanto meno il ministro degli Esteri Frattini ha ricordato a Il Messaggero che di diritti umani in Cina «dovremmo parlare continuamente, in tutte le sedi opportune, non solo ora che le Olimpiadi sono alle porte». «Non politicizzare i Giochi. Lo sport è sport», insiste il ministro, che finge di non accorgersi che se anche non prevederà incontri politici, la sua stessa presenza a Pechino l’8 agosto per la cerimonia inaugurale, nella tribuna riservata alle autorità, ha un valore eminentemente politico. Quando si dice di «non politicizzare i Giochi» ci si preoccupa sempre di un’eventuale politicizzazione di segno critico nei confronti di Pechino, ma mai della politicizzazione di segno opposto, di carattere trionfalistico e nazionalista, a cui con la propria presenza si contribuisce. Il ministro parla di «schizzi di fango gratuiti sui Giochi» ma, ahimé, è così miope da non accorgersi che è il governo cinese ad aver già infangato le Olimpiadi e lo spirito dello sport, con le sue politiche repressive e disumane in Tibet e nel resto della Cina. Una nota di speranza giunge invece da Washington. Il presidente Bush ieri ha incontrato privatamente cinque leader della dissidenza cinese rifugiati negli Stati Uniti: il premio Sakharov Wei Jinsheng, Harry Wu, Rebiya Kadeer, leader degli uiguri, Xiqiu Fu, reduce di Tienanmen, e la scrittrice Sasha Gong. L’incontro è avvenuto tra l’altro durante una visita ufficiale del ministro degli Esteri cinese,Yang Jeehi. Un affronto per Pechino, che li considera oppositori pericolosi per la sicurezza nazionale. I cinque si sono detti soddisfatti del colloquio con il presidente americano. Non approvano la sua decisione di partecipare alla cerimonia di apertura dei Giochi,
ma pare che Bush gli abbia assicurato che approfitterà dell’imminente viaggio per chiarire ancora una volta che «libertà religiosa e diritti umani non possono essere negati a nessuno».
Jim Momo jimmomo.blogspot.com
UNA DESTRA PER SGARBO (...) Quella che si è soliti chiamare “destra italiana” è in realtà uno scherzo di cattivo gusto. E’ solo neofascismo in varia quantità miscelato a democristianume, roba sociale e socialista, spiriti mazziniani e repubblicani, gente anarchica e sovversiva. Lontana dalla classe baronale, povera culturalmente, questa destra per sgarbo è in realtà una sinistra populista ed egualitaria che in cuor suo antipatizza con tutto ciò che dovrebbe contraddistinguere un sano pensiero conservatore. Stile, classe, buone maniere le sono estranee come il gusto per l’autentica libertà. Ciò che è antico e consuetudinario, sconosciuto. In ragione di ciò quei pochi inegualitari che il destino crudele ha voluto diversi dal coro (...) non trovando una casa per il loro conservatorismo sono vissuti da esuli. Chi ha varcato la fatidica porta del missinismo, come Fisichella, è stato dalla canaille messo al bando. Oggi è la Santanchè, a suo modo conservatrice e di destra, ad aver vita difficile, costretta a nuotare controsenso, a pensare qualcosa di destra e ad avere solo un’altra sinistra a cui parlare. In mezzo a tanti cialtroni rossi (che rimangono tali anche quando ci sembrano neri) la sua esigenza di voler rappresentare una destra impossibile è tanto condivisibile quanto ingenua e folle. Questa sua missione che non ha alcuna possibilità di riuscita suscita simpatia, non fosse altro per questo.
Il Falco falcodestro.altervista.org
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PAGINAVENTIQUATTRO Le accuse agli Usa provano la lucidità (e la scontatezza) di Radovan Karadzic
Il boia di Srebrenica nuovo testimonial della banalità del di Giancristiano Desiderio l boia è un poveruomo. Crudele, spietato, disumano. Ma poveruomo. La sua povertà è l’assenza di pensiero. Il boia di Srebrenica non fa eccezione. Lo abbiamo visto uscire dal nulla con la barba bianca e ci è sembrato una figura misteriosa. Lo abbiamo rivisto senza barba, in giacca e cravatta, abbiamo ascoltato le sue parole e ci è apparso in tutta la sua normalità. Un criminale accusato di genocidio, pulizia etnica, sterminio di massa. In una sola parola: annientamento. E si è rivelato in tutta la sua banale normalità. Il male, ancora una volta, è banale. E’il bene che è pieno di senso e mondo. Il male nella sua espressione novecentesca e totalitaria è banale. Perché ci possa essere sterminio di massa e annientamento dell’Altro ci deve essere assenza di pensiero. Quando Hannah Arendt segue a Gerusalemme il processo a Eichmann si trova davanti non un animale, ma un padre di famiglia piccolo-borghese che rappresenta in maniera del tutto normale il nazionalsocialismo nella sua espressione più inquietante: la Arendt nel suo tanto discusso libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme ne farà il simbolo stesso dell’assenza di pensiero e della conseguente normalità dello sterminio di massa. La macchina dello sterminio è fatta così: non vuole il giudizio, ma il calcolo. Non vuole il pensiero, ma l’esecuzione. La pulizia etnica non si pensa, si pianifica. Ogni distinzione tra bene e male - distinzione tipica del giudizio - è già venuta meno. Chi si è deciso per lo sterminio di massa non è al di là del bene e del male, è al di qua del bene e del male. Uno sterminatore di uomini è un essere sempre “banale”. La sua volontà di potenza gli offre l’illusione di essere il padrone del mondo e il signore della storia, quando, invece, proprio allora, lo sterminatore, si rivela come un uomo incapace di essere-nel-mondo. Radovan Karadzic che risponde alle domande che gli vengono rivolte dalla Corte dell’Aja è un uomo lucido che, rispondendo, riesce anche a scherzare con sarcasmo, come quando dice: «Difficile che qualcuno ignori dove mi trovo in questo momento». Lucida è anche la sua strategia di difesa: l’accusa rivolta agli Stati Uniti di aver violato il patto siglato nel 1996 - l’allontanamento dal potere in cambio dell’immunità - e la consegna del suo memoriale ai giudici dell’Aja rappresentano infatti un gesto di sfida, folle ma calcolata. Il “poeta”Karadzic è lucido, ma insensibile. Il mondo, semplicemente, non lo colpisce. La lucidità di Karadzic è la “freddezza
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glaciale del ragionamento”di cui si vantava Hitler o la“irresistibile forza della logica”di cui parlava Stalin. La “logicità” è una corazza che la realtà non scalfisce. Come presidente dell’autoproclamata Repubblica dei serbi di Bosnia, Karadzic ha pianificato il terrore, ordinato stragi, massacrato i musulmani. Lo ha fatto sempre con lucidità. Senza farsi fermare da fatti, accadimenti, realtà. La lucidità del Grande Capo Politico si muove osservando la logica che non sbaglia. Eichmann era un burocrate, ma Hitler fu il Primo Burocrate di Germania, come Stalin fu “l’ingegnere delle anime”dell’Unione sovietica. Un burocrate deve osservare le regole e le regole ci sono perché non ci siano eccezioni. Gli ordini sono ordini, ci sono affinché non si pensi. Il pensiero è fastidioso perché è sempre nuovo. Il pensiero crea problemi perché ha questo brutto vizio (virtù) di iniziare qualcosa di nuovo. Il pensiero introduce un elemento di disturbo nel mondo controllato dalla logica: l’imprevisto.
Come scriveva Hannah Arendt, per compiere un vero genocidio è necessaria l’assenza di pensiero. E questo l’ex presidente della Grande Serbia lo conferma in ogni sua mossa: normale, logica, scontata
La parola lo dice come meglio non si può: è ciò che non si è visto prima. La logicità ideologica mette il mondo sotto controllo fino a renderlo noioso, banale, ripetitivo, isolato, calcolabile. Il pensiero è una li-
MALE bera iniziativa che la logica totalitaria non si può permettere. Il pensiero iniziando qualcosa di nuovo annuncia la “buona novella”, ma la logicità non ne vuole sapere della Buona Novella perché ha già tutto risolto il mondo in se stessa e altro non c’è da fare al mondo che applicare questa logica invincibile. Nulla di più disumano e, al contempo, nulla di più umano, troppo umano.
Che persona a modo questo Karadzic. La belva è normale. La belva è umana. Se Karadzic fosse un malato, se fosse un ossesso, se fosse un essere mezzo uomo e mezzo animale ci sentiremmo più sicuri e rassicurati. Karadzic si presenta a noi, invece, direttamente dal Novecento: il secolo delle idee assassine. La sua volontà di sterminio non è stata un’eccezione del secolo che riteniamo di avere alle spalle e che, invece, si para davanti ai nostri occhi. Karadzic, purtroppo, è normale, logico, scontato. Un prodotto della macelleria del XX secolo. Karadzic si difende e dice: “Avevo un patto con gli Usa”. Ancora una volta ciò che prevale è la normalità di quanto accaduto. L’idea del male non lo sfiora perché il male è impensato.