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L’Europa ha un solo mezzo per reagire al ricatto di Putin
e di h c a n o cr
La Georgia deve entrare subito nella Nato
di Ferdinando Adornato
di Enrico Singer
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80814
FISCO E OLIMPIADI L’Italia si chiede se è giusta la richiesta di moratoria dei nostri atleti sui loro premi. Arrivano le prime risposte di maggioranza e governo, ma non tutti sono d’accordo
Detassarli? alle pagine 2
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Federica Pellegrini, medaglia d’oro nei 200 stile libero
Sanguinoso attentato a Tripoli
a realpolitik, che non a caso è nata in Europa, lascia prevedere che il percorso per l’ingresso della Georgia nella Nato diventerà più tortuoso ora che le truppe russe sono schierate in armi nelle regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, ammesso che si ritireranno davvero e in tempi brevi dagli avamposti che hanno conquistato in territorio georgiano. Nel Consiglio atlantico del prossimo dicembre il tema del via libera all’adesione di Tbilisi al Membership action plan - che è l’anticamera della partecipazione piena - rimane all’ordine del giorno, ma nessuno è pronto a scommettere un euro sul ”sì” all’unanimità di tutti i Paesi membri che è richiesto dalle regole dell’alleanza. È proprio sulla realpolitik di tante capitali europee che punta Vladimir Putin. Il vero padrone del Cremlino sa che il gas e il petrolio della Russia sono armi ancora più potenti dei tank che ha inviato contro i georgiani. Ma se la politica estera dell’Europa si riduce al mero calcolo di una partita doppia di import e di export, il conto finale sarà sempre in perdita. Qualche volta - è questa è la volta giusta - bisogna avere anche il coraggio di segnali forti. La Georgia deve entrare nella Nato. Se la decisione fosse già stata presa in aprile nel vertice di Bucarest, la guerra del Caucaso probabilmente non ci sarebbe stata.
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se gu e a p ag in a 4
Le alternative per la tutela della vita
In Libano Regole certe contro scoppia la giurisprudenza la bomba etnica della morte
Di scena a Pesaro la sfortunata opera di Rossini
Ermione, l’eterno fiasco
Il caso di ”C’era una volta in America”
L’indimenticabile cinematografia dedicata al cibo
di Antonio Picasso
di Assuntina Morresi
di Jacopo Pellegrini
di Francesco Ruggeri
Tripoli torna a essere l’epicentro degli scontri in Libano. La bomba esplosa ieri ha lasciato 18 morti, più di 30 feriti ed è l’ultimo episodio di una efferata catena di violenze.
Testamento biologico? No. Meglio un intervento normativo urgente per impedire che le sentenze dei tribunali lascino morire di fame e sete persone deboli, non più in grado di intendere e di volere.
Torna in scena all’Opera Festival di Pesaro, fino al 21 agosto prossimo, Ermione, l’opera di Gioachino Rossini che nel corso del tempo ebbe assai poco successo e rarissime repliche.
Impossibile dimenticare il cinema dedicato al cibo. Tornando indietro al 1984, Sergio Leone si congedava per sempre dalla regia consegnandoci l’opera testamentaria “C’era una volta in America”.
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nell’inserto liberal estate
GIOVEDÌ 14 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
154 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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La maggioranza risponde di sì alle richieste degli atleti di Pechino, ma a denti stretti. A loro avviso sarebbe giusto, infatti, diminuire la pressione fiscale. Ma per ogni cittadino e non solo per gli sportivi
Più oro per loro o per tutti? di Francesco Capozza e Francesco Rositano l caso è già in Parlamento dal 24 luglio, da quando Luciano Rossi - deputato Pdl e presidente della Federazione italiana tiro a volo - ha depositato la sua proposta di legge. Ma ora che diversi azzurri hanno reso grande l’Italia a Pechino, portando a casa diverse medaglie olimpiche, sono stati gli
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loro lamentele», aggiungendo che «sono cittadini normali e quindi, come tutti, devono pagare le imposte».
coccolare i propri atleti, in special modo coloro che portano vittorie e quindi gioie alla propria nazione. Ecco perché potremmo anche decidere di accogliere la richiesta della Vezzali che mi sembra anche legittima. Tuttavia mi chiedo quale sarebbe la reazione dei tennisti, dei calciatori, degli imprenditori e anche dei ricercatori che portano anche loro, con i loro risultati sportivi o intellettuali, lustro al paese al pari dei campioni olimpici».
si porta al collo, la medaglia per un traguardo raggiunto dopo tanto lavoro e tanti sacrifici. Io sarei per non tassare gli atleti olimpici e paraolimpici, come ha detto il presidente del Coni Gianni Petrucci, perché danno lustro all’Italia e non hanno guadagni come le altre categorie di sportivi. È chiaro che questa è materia su cui bisogna necessariamente avere il placet di Tremonti, anche se in proposito c’è una proposta dal parlamentare del Pdl Luciano Rossi, presidente della Federazione Italiana tiro a volo, che andrebbe valutata attentamente». Una proposta, quella di Rossi che, se approvata, riguarderebbe solo gli atleti olimpici e paraolimpici.
Meno duro, Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl al Senato, che però accoglie l’appello degli atleti con riserva: «La loro richiesta - afferma - è senz’altro giusta, ma fatta con la medaMAURIZIO glia ancora appesa GASPARRI al collo mi sembra La richiesta è una caduta di stile. giusta, ma fatta con la medaglia Appena vinta una ancora appesa al medaglia olimpica, Favorevole anche il ministro collo mi sembra per di più d’oro, fare per l’Attuazione del Programuna caduta di una richiesta del ge- ma, Gianfranco Rotondi, che stile. E anche nere mi sembra un consapevole dei meccanismi di veemente, tanto po’troppo veemente, governo, rinvia, però, tutto alla da raffreddare a tal punto da far decisione ultima del ministro l’entusiasmo di raffreddare l’entu- dell’Economia Giulio Tremonti. un accanito tifoso siasmo di chi, come «Innanzitutto - ha affermato il come me me, è un accanito ministro - penso che il premio spettatore e tifoso unico che rimane è quello che atleti stessi a sollevare la que- degli azzurro. Pertanto penso stione. «Non ci tassate, non sia- che nella sostanza la richiesta GIANFRANCO mo calciatori, il fisco è ingiu- fatta dalla Vezzali è in fondo ROTONDI Isabella Bartolini, sto», ha affermato infatti Valen- condivisibile, anche se mi verL’unico premio tina Vezzali, che a Pechino si è rebbe da criticarne il metodo e membro della Comche rimane guadagnata la medaglia d’oro le tempistiche con cui essa è missioni Affari coè quello che al fioretto. «Spero che il Parla- stata formulata». Una certa stituzionali della Casi porta al collo. mento defascalizzi i premi prudenza giunge anche da Itamera, propone due Comunque sarei olimpici, lo Stato ce ne toglie la lo Bocchino, deputato Pdl e soluzioni comuque per non tassare metà», ha aggiunto Francesco membro della Commissione vantaggiose per gli gli atleti. Anche D’Aniello, medaglia d’argento Affari Costituzionali, che si sofatleti: «O si alzano i se su questa nel Double Trap di tiro a volo. ferma su una riflessione di tipo premi o si abbassamateria serve il Agli occhi di molti, però, i loro più generale. «È vero che gli no le tasse». Poi, placet del ministro sembrano stipendi di latta. So- sportivi con i loro risultati conmessi da parte i panGiulio Tremonti prattutto se paragonati con tribuiscono a dar lustro al Paeni da parlamentare e quelli dei calciatori. Un esem- se. Quindi mi sembra giusto indossati quelli da pio su tutti: Ronaldinho, il cui ingaggio è di 17 milioni di euro La conquista di un primo posto vale 140 mila euro, 75 per l’argento e 50 per il bronzo all’anno. Una cifra talmente alta che alla Vezzali non basterebbe tutta la carriera per reggere il confronto. Anche perché - a sentire gli atleti - a causa ultima a salire sul podio a dare lustro al va nei forzieri del fisco. Tuttavia, sono più di delle tasse i premi della camioBelpaese è Federica Pellegrini, con la quelli che intascano i campioni francesi, nessa di fioretto e dell’argento conquista di un oro nel nuoto e un record tedeschi e americani, i quali rispettivamente al tiro al volo si assottiglano mondiale nei 200 stile libero. Un primo posto incassano 50 mila, 15 mila e 25 mila euro. In ancora di più, raggiungendo rida brividi che per il Coni vale 140 mila euro. altri Paesi, come l’Ungheria, dove l’oro vale spettivamente la soglia dei Premio che per la ventinovesima edizione dei 60 mila euro, la Croazia, 30 mila e la Polonia, giochi olimpici è stato aumentato di 10 mila eu- 55 mila, i premi non vengono toccati. Gli az70mila e 35mila euro. ro per ogni categoria, portando l’argento a 75 zurri, quindi, non ci stanno e poco importa se Dai politici di maggioranza mila e il bronzo a 50 mila euro. Un bel mallop- le loro cifre premio sono tra le più alte. E a po, ma con una beffa finale. Il premio, seppur sostegno della loro tesi va incontro un precel’appello degli atleti è stata acolimpionico, resta un’entrata e il fisco, indiffer- dente, quello del dopo mondiale di calcio colta con una certa benevolenente alle glorie dello sport e ai primati, 2006, quando gli azzurri campioni del mondo za. Quasi tutti - tra parlamenvinsero la battaglia per i bonus: premio sì, ma provvede alla tassazione. tari, sottosegretari e ministri, Così i premi del Comitato olimpico arrivano al netto, senza un solo euro al ministero delinfatti, interpellati da liberal dimezzati nelle tasche dei campioni italiani l’Economia. Il dibattito per l’estate è aperto. Il hanno riconosciuto il valore dopo essere passati dall’erario. Come dire, no tax day di Pechino per gli atleti dello sport delle imprese degli sportivi: “portano oro alla Patria” e questa se ne man- italiano è una via da seguire? In autunno «sono ambasciatori d’Italia, ci gia la metà. Alla Pellegrini, alla Vezzali, a quando sarà discusso il progetto di legge relfanno grandi all’estero». Ma Tagliarol o alla Quintavalle, dei 140 mila euro ativo alla detassazione dei premi sportivi non è mancato neppure chi, lordi, ricavati per la conquista di un primo avremo una prima risposta. Per il momento come il sottosegretario agli Inposto, ne vanno solo 70 mila. La metà. Il resto basta aspettare. terni, Francesco Nitto Palma, ha giudicato «irrispettose le
Premi dimezzati dalla scure del fisco
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donna e tifosa, aggiunge: «Gioisco per la meravigliosa vittoria della Pellegrini. Mi sembra che le donne in que-
ITALO BOCCHINO Gli sportivi contribuiscono a dar lustro al Paese. Mi chiedo, però, quale sarebbe la reazione di imprenditori, ricercatori e intellettuali che con il loro lavoro fanno altrettanto
ste olimpiadi ci stiano dando davvero delle grandi soddisfazioni. Senza entrare troppo nel merito della defiscalizzazione dei premi, è vero che in Italia c’è una pressione fiscale ai limiti del sopportabile e, se come dice la nostra campionessa i premi vengono tassati per quasi il 50 % non si può che pensare al modo di affrontare il tema». Controcorrente rispetto all’apertura degli altri colleghi di partito, invece, il sottosegretario alle Comuncazioni Paolo Romani: «Francamente non so come funziona negli altri Paesi, ma in Italia mi risulta che tutte le vincite, perfino quelle alla lotteria, siano tassate. Forse il carico fiscale sui premi olimpici è elevato, ma non pagare le tasse mi sembrerebbe bizzarro e non ne capirei il motivo. Credo che la vincita in denaro non sia molto bassa e poi, non possiamo non considerare l’aumento di prestigio».
Sulla stessa linea di Romani anche il sottosegretario agli Interni, Francesco Nitto Palma il quale giudica eccessiva la presa di posizione degli atleti. «Personalmente - sostiene credo che il lamentarsi di un prelievo fiscale sia fuori luogo e irrispettoso nei confronti dei cittadini normali che pagano regolarmente le tasse. Queste lamentele sono incomprensibili a fronte della gioia di vincere una medaglia olimpica e di diventare un eroe per il Paese che si ha l’onore di rappresentare. Se ne avessi le capacità e me ne fosse data la possibilità, vincerei una medaglia per l’Italia anche gratis».
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Il sottosegretario Giorgetti pronto ad aprire alle richieste della Vezzali e degli altri
«Bisogna tagliare le tasse e basta» colloquio con Alberto Giorgetti Sottosegretario Alberto Giorgetti, il governo è pronto per rispondere all’appello della Vezzali e della Pellegrini? Veramente il ministro Tremonti non si è ancora pronunciato e poi dobbiamo fare tutte le valutazioni tecniche. Parlo per me, ma di fronte agli importi ridotti per l’Erario – credo 300-400mila euro a stare larghi – non vedo grandi problemi di budget. Tremonti però ripete che non ha soldi tagliare le tasse. Ma non è così. Il governo ha ripetuto che un alleggerimento deve avvenire con il federalismo fiscale. Lasciando risorse in periferia, i cittadini potrebbero avere forti benefici per esempio sulle tariffe dei
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Alleggeriremo la pressione fiscale con il federalismo. L’intervento per gli atleti ha costi limitati
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servizi. Sono anch’io d’accordo che l’impegno del governo deve essere tagliare le tasse, punto. Comunque gli olimpionici possono stare tranquilli? Non so quanto verrano elargiti loro i premi per le le vittorie. Di conseguenza c’è il problema della retroattività: se questi sgravi non vengono dati immediatamente, al prossimo Consiglio dei ministri di fine agosto, la cosa diventa complessa. Come vi muoverete? Il ministro non l’ho ancora sentito, ma ho parlato con l’altro sottosegretario all’Economia Casero, che è della mia idea. So che il presidente del Coni Petrucci vuole porre seriamente la questione al governo. C’è poi il disegno di legge dell’onorevole Luciano Rossi, vediamo se si può fare qualcosa in Finan-
ziaria per dare un segnale. Scusi il populismo, perché aiutare gli atleti e non i salariati? Perché queste medaglie danno un formidabile ritorno in termine sociale: sono un incentivo maggiore allo sport non professionista, hanno un effetto civico positivo, spingono i bambini all’attività sportiva. E lo sport, si sa, è uno strumento per risparmiare sulla spesa sanitaria. Più in generale, non sarebbe il caso di agevolare meglio dal punto di vista fiscale le attività dello sport dilettantesco? Siamo consapevoli che da questo punto di vista si può fare di più, però non farei una separazione tra professionisti e non. I primi ci permettono, anche in termini di entrare e di scommesse, di tenere i conti in sicurezza per tutto il sistema. E questo non impedisce azioni in termini di defiscalizzazione per i nostri olimpionici. Allora cosa manca ancora per farla? È il ministro che conosce i conti. Ma se ci fosse un adesione bipartisan alla proposta di legge presentata in Parlamento… Francesco Pacifico
Per Vincenzo Visco i guadagni provenienti dalle attività sportive sono reddito
«Se fossi ministro risponderei picche» colloquio con Vincenzo Visco
Dall’alto: Salvatore Sanzo, Tatiana Guderzo, Giovanni Pellielo, Federica Pellegrini, Valentina Vezzali, Margherita Granbassi, Francesco D’Aniello, Davide Rebellin, il trio dell’arco Di Buò-Galiazzo-Nespoli, Matteo Tagliarol, Giulia Quintavalle
Professor Visco, i vincitori di medaglie a Pechino chiedono di non pagare tasse sui loro premi. Meglio vincere, ma se non ricordo male nello spirito olimpico l’importante è partecipare, non certo guadagnarci. Per loro sarebbe un’altra vittoria. Ognuno, preso dall’entusiasmo, può chiedere una norma in relazione all’eccezionalità della situazione. Ma dal punto di vista logico e scientifico i guadagni collegati ad attività sportive sono reddito, un aumento della capacità contributiva. E vanno tassati come tali. Poi si può discutere se, visto che provengono da un’attività con una durata limitata della vita, si possa applicare un’aliquota marginale. Che cosa avrebbe scelto da ministro? Pur ispirato da buonismo olimpico, difficilmente avrei chiesto al Parlamento una norma ad hoc con la gente che non arriva a fine mese e con la situazione economica che c’è. La Vezzali dice che lei non guadagna come i calciatori. Appunto. Alle Olimpiadi ci sono sportivi miliardari e poveri. Chi fa il tiro al piattello, a parità di impegno, dovrà fare sempre i conti con meno pubblico e guadagni. Allora chi detassare: lui o i calciatori? E il precedente con Valentino Rossi? Era un’azione che non riguardava soltanto gli atleti, ma anche gente dello spetta-
colo, ricchi signori che avevano spostato la residenza in altri Paesi. Abbiamo sanzionato anche grandi aziende. Perché gli accertamenti, al di là dei quattrini che si recuperano, servono a fare deterrenza. Lo sport non gode di grandi agevolazioni. A livello dilettantistico ci sono, le introdussi io una decina di anni fa, ma qualcosa in più andrebbe fatto. Però è molto difficile muoversi in questo campo: scoprimmo che gli sgravi sulle sponsorizzazioni nascondevano frodi spaventose. Galliani lamenta che il calcio italiano paga di più di inglesi o spagnoli. Non è questione di tasse, ma di organizzazione dello sport, di diritti tv, merchandising o stadi di proprietà. Da noi i calciatori sono lavoratori dipendenti e devono pagare i contributi sociali. Altrove sono autonomi, per la pensione sono cavoli loro. Il ministro dell’Economia dice che non ci sono soldi per tagliare le tasse, ma poi si chiede uno sconto per gli atleti? Le entrate, nonostante il crollo dell’Iva,
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indicano una ripresa data soprattutto dalla lotta all’evasione. Pare ci siano in cassa qualcosa come 8 miliardi, e se non ci sarà un crollo generale Tremonti deve fare quello che prevedeva il governo Prodi: sgravi per le famiglie con figli, stabilizzare gli aiuti ai pensionati, aumentare le detrazioni sul lavoro dipendente. Invece si è tagliata l’Ici, la stessa sciocchezza in parte fatta da noi. Gli olimpionici non chiedono cose diversa dagli altri italiani. Il problema è che il fisco è tornato il luogo della discrezionalità. Sono stati eliminati la tracciabilità sui professionisti, l’elenco clienti e fornitori, quindi la possibilità di incrociare i dati, o il meccanismo per il quale non si potevano girare gli assegni. Il governo dice soltanto facciamo il federalismo fiscale. Ma rispetto a noi guarda agli interessi del proprio elettorato con la scusa che l’evasione fiscale è di massa. (f.p.)
Una decina di anni fa introdussi delle agevolazioni per i dilettanti, ma scoprimmo frodi spaventose
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Bush avverte Putin: Mosca deve rispettare la sovranità territoriale georgiana Gli europei hanno una sola strada per reagire al ricatto della Russia nel Caucaso
Ora la Georgia nella Nato di Enrico Singer segue dalla prima Il 2 aprile George Bush era arrivato a Bucarest, per il summit più imponente mai tenuto dalla Nato, deciso a ottenere l’assenso degli alleati all’ingresso della Georgia e dell’Ucraina richiesto da Tbilisi e da Kiev. Ma il suo desiderio si scontrò con l’opposizione di Angela Merkel - la Germania dipende al cento per cento dal gas russo - alla quale si sono accodati anche la Francia di Sarkozy, l’Italia (erano gli ultimi giorni del governo Prodi) e quasi tutti i Paesi della ”vecchia Europa”. Con Bush si erano schierate, invece, le tre Repubbliche baltiche ex sovietiche oltre alla Polonia e alla Romania che hanno fatto parte del Patto di Varsavia, l’alleanza guidata dall’Urss e ormai disciolta. La stessa divisione che si è vista l’altra sera lungo il viale Rustaveli, di fronte al Parlamento georgiano, dove al fianco del presidente Mikhail Saakashvili c’erano il presidente polacco Lech Kaczynski, quello ucraino Viktor Yushenko e i leader di Lettonia, Estonia e Lituania.
Bush, ieri, ha usato toni molto fermi sulla guerra nel Caucaso. Ha detto che gli Stati Uniti «sono dalla parte del governo georgiano democraticamente eletto», che Mosca «deve mantenere la parola data, porre fine al conflitto e rispettare la sovranità territoriale della Georgia» perché soltanto così «potrà cominciare a ricucire lo strappo nelle relazioni con gli Stati Uniti». Bush ha anche annunciato che navi e aerei delle forze armate americane sono in viaggio per la Georgia con aiuti umanitari e che il segretario di Stato, Condoleezza Rice, andrà a Tbilisi a testimoniare la solidarietà degli Usa e farà anche tappa a Parigi per consultarsi con Sarkozy nella sua veste di presidente di turno della Ue. In sostanza Washington cerca di costruire una linea comune con l’Europa per far capire a Putin che «sta mettendo a rischio la possibilità d’integrarsi nelle organizzazioni internazionali». Trovare un’intesa sull’ingresso della Georgia (e dell’Ucraina) nella Nato sarebbe un buon inizio.
I presidenti di Polonia, Repubbliche baltiche e Ucraina volano da Mikhail Saakashvili
Due Europe a Tbilisi di Ilaria Ierep a crisi scoppiata in Georgia sembra essere giunta a un primo traguardo. Almeno dal punto di vista militare. La situazione, tuttavia, resta tesa anche dopo l’accordo in sei punti mediato dalla presidenza francese dell’Unione europea con Mosca e accettato da Tbilisi. Soprattutto rimane ancora molta confusione e non cessano di rimbalzare le accuse reciproche sul ritiro o meno delle truppe. In mezzo a tanti punti interrogativi, si delineano anche alcune certezze. La prima è che con il suo massiccio intervento militare, la Russia ha dimostrato il suo status di potenza. Si tratta di una condizione che Mosca stava cercando di far
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emergere già da molto tempo ormai, ma che forse soltanto ora è stata colta appieno, sia dal Paese caucasico, che resta parte del suo ”giardino di casa”, sia dalla comunità internazionale e, in particolare, dall’Occidente. La seconda considerazione riguarda l’Europa e il ruolo che sta tentando di giocare nell’intricata questione. E dietro il sipario del delicato processo di mediazione messo in piedi da Nicolas Sarkozy, si cela un palcoscenico non omogeneo e fragile. Celebrato da alcuni come un trionfo della mediazione europea, l’accordo sul cessate il fuoco tra Mosca e Tbilisi appare più come il prodotto di un calcolo strategico russo che della capacità diplomatica di Parigi o di Bruxelles. Al limite, quello che merita un plauso è l’abilità personale del capo dell’Eliseo. Sarkozy sta finemente sfruttando la sua posizione di presidente di turno dell’Unione, per costruire una nuova politica estera “creativa”. Tutta francese. Ma a parte questo, in realtà, la crisi in Georgia ha messo in luce i problemi e i limiti dell’Europa, particolarmente il sogno di un’Unione Europea forte in grado di giocare un ruolo chiave sulla scena mondiale. Nei rapporti bilaterali con la Federazione russa, la situazione contingente vede la Ue navigare in cattive acque. Non
va dimenticato che all’ordine del giorno c’è anche il negoziato globale per ridefinire il quadro della cooperazione strategica, ossia gli approvigionamenti energetici, che ora rischia di subire dei rallentamenti. Inoltre, una buona parte dei Paesi della Ue non vedono di buon occhio l’ingresso della Georgia e dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica. Il nodo, però, non tarderà ad arrivare al pettine. Infatti è previsto per dicembre il prossimo summit della Nato in cui la questio-
e cambiando. Le priorotà sono invertite. Il movimento dei Paesi ex sovietici, ora tutti membri dell’Europa politica, considerano il fattore sicurezza come l’elemento principale da salvaguardare. Ecco che quindi sono molto più preoccupati di proteggersi dalle presunte mire espansionistiche di Mosca che delle possibili ripercussioni economiche negative che uno strappo con l’ex padrone potrebbe comportare. Un esempio di questa situazione l’ha of-
Il capo dell’Eliseo è riuscito a dimostrare la sua abilità personale, ma la costruzione di un’Unione europea capace di giocare un ruolo chiave sulla scena internazionale resta un sogno che si allontana tra le polemiche ne sarà rimessa sul tavolo. L’Europa quindi si rivela divisa al suo interno sulla politica da seguire nei confronti del gigante russo. La reazione europea alla crisi in Ossezia del Sud ha in qualche modo evocato i soliti stereotipi di un’Europa ricca, ma burocratica, timorosa e profondamente divisa tra le vecchie potenze dell’Ovest e gli impazienti nuovi membri dell’Est. I fronti che si vanno a delineare sono essenzialmente questi. Da una parte, c’è la visione più moderata della ”vecchia Europa”, dall’altra la posizione più ferma degli ex Paesi appartenenti al Patto di Varsavia. Questa è la chiave di lettura per capire come la Ue si stia evolvendo
ferto la cronaca di queste ultime ore. L’altra sera, in occasione della sua missione di solidarietà in Georgia compiuta insieme ai suoi omologhi di Ucraina, Lettonia, Lituania, ed Estonia, il presidente polacco, Lech Kaczynski, davanti a diverse decine di migliaia di georgiani che protestavano in piazza a Tbilisi contro l’intervento armato russo nel loro Paese, ha affermato che «il tempo della dominazione russa è passato». Stiamo assistendo alla nascita di un allineamento anti-russo che, in termini concreti, si traduce in ulteriore linfa al progetto di scudo anti-missilistico che vede la Polonia in prima linea, geografica e diplomatica, nelle trattative con gli Stati Uniti.
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Fondamentale un ritorno alla credibilità dell’America
Ma Washington deve cambiare strada di Michael Rubin entre i carri armati russi entrano in Georgia, la politica estera si sposta al centro del dibattito per le prossime elezioni presidenziali. Il senatore Obama, presunto candidato democratico, promette dei cambiamenti. Una retorica di questo tipo si appella ad un elettorato esasperato dal presidente Bush, dalle guerre in Iraq ed Afghanistan e dall’alto prezzo dell’energia. E’ironico notare come, nel combinare il cambiamento con la ruffianeria, Obama replichi gli errori di Bush. Non è stata la guerra in Iraq a tagliare la credibilità statunitense: sono stati i cambiamenti repentini di politica estera. Il 24 giugno 2002, durante una serie di attacchi suicidi in Palestina, Bush si è guadagnato l’applauso delle vittime del terrorismo quando ha dichiarato: «La pace richiede una nuova leadership palestinese, noncompromessa con i terroristi. Soltanto così può nascere uno Stato palestinese». Il cambiamento è stato repentino. In un anno, Bush ha abbandonato questa linea e, per guadagnarsi una platea palestinese, ha promesso la loro indipendenza nonostante dei razzi colpissero in quelle ore le città israeliane. Oggi, Washington è il maggior benefattore dei Territori palestinesi, e permette ad Hamas e Fatah di spendere di più in razzi. Il cambiamento può essere un ottimo slogan, ma riportare in auge la credibilità degli Usa ha bisogno di consistenza. Durante il discorso che inaugurava la sua seconda presidenza, Bush ha detto: «Tutti coloro che vivono nella tirannia ora sappiano: non ignoreremo la vostra oppressione». Ha applaudito mentre i libanesi si ribellavano ai siriani ma, nella sua prima visita a Beirut, la Rice ha abbracciato i governanti imposti da Damasco. Il 6 giugno 2007, Bush si è definito “un dissidente” ad una conferenza a Praga, ed ha incaricato i diplomatici di risolvere i problemi di ogni dissidente incontrato. Ad un anno di distanza, nessuno di loro ha avuto una singola notizia dalla Casa Bianca. L’11 giugno del 2008, dopo la sua storica visita in Usa, il ministro degli Esteri libico Shalqam si è vantato del fatto che Bush non ha mai chiesto il rilascio del più noto dissidente locale. Bush ha detto ad ognuno quello che voleva sentirsi dire. Gli applausi hanno vinto sui principi. Dopo aver promesso al
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Anche le parole del premier polacco, Donald Tusk, sembrano confermare appunto questo scenario: «La guerra in Georgia dimostra che lo scudo è necessario». Il resto dell’Europa usa toni decisamente più cauti. In cima alle preoccupazioni soprattutto di Francia, Germania e Italia c’è l’aspetto economico. Quella che va evitata è una qualsiasi flessione nelle relazioni con la Russia che possa mettere in pericolo la buona disponiibilità del Cremlino a rifornire di energia le capitali occidentali. L’arma principale che l’Europa ha nelle trattative con il regime di Mosca sembra essere quella del soft power. Così Sarkozy, il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e gli altri leader che hanno sviluppato buone relazioni con Vladimir Putin, possono presentarsi su posizioni alternative a Washington. L’Ue ha ancora un politica estera piuttosto debole. Tuttavia, nella situzione attuale, gli europei partono almeno da una posizione migliore per avere un qualche tipo di ruolo di mediazione con Mosca, dato che gli americani si sono ovviamente posti decisamente dalla parte dei georgiani. Il merito che questa volta può essere riconosciuto all’Ue è quello di avere agito subito. Per i risultati occorrerà aspettare. Lo scenario più probabile è che, nel lungo periodo, quanto accadrà nel Caucaso continuerà a deciderlo principalmente Mosca. *Analista Ce.S.I.
Giovani georgiani manifestano a Bruxelles: chiedono che «l’Europa si svegli» e che il loro Paese possa entrare subito nella Nato. Sotto, il presidente Bush e (a fianco) Barack Obama e John McCain
Giappone che «non sarebbe stato accettato nulla di meno che il completo, verificabile ed irreversibile smantellamento del programma nucleare nordcoreano», Bush ha sorpreso Tokyo con un patto che ha permesso a Pyongyang di tenere le sue bombe. Il cambio presidenziale sul nucleare iraniano ha colto di sorpresa Israele e molti Stati arabi moderati. I discorsi di Bush possono conquistare gli applausi, ma il mondo sa che non descrivono più la nostra politica.
Obama si comporta come Bush. Davanti alla Commissione Usa-Israele per gli Affari pubblici, Obama ha strappato degli applausi entusiasti quando ha detto: «Gerusalemme sarà la capitale indivisa di Israele». Meno di tre mesi dopo, ha detto ad alcuni palestinesi (altri applausi) che «era benvenuta la divisione della Città Santa». Ha promesso più volte un ritiro in 16 mesi delle truppe Usa dall’Iraq anche se più volte i suoi aiutanti hanno dichiarato che saranno le condizioni locali a determinare il ritiro. Ad alcuni, Obama promette che parlerà in qualunque momento con l’Iran; davanti ad altri, stigmatizza le dichiarazioni di Ahmadinejad sulla cancellazione di Israele e le definisce “punti da risolvere” prima di qualunque contatto. Sempre per ottenere un applauso. Bush e Obama sacrificano consistenza e credibilità all’affermazione personale. Il costo di stabilire una politica seria e sensata può essere alto. Uno studio del National Intelligence Estimate dimostra che l’Iran ha interrotto il suo progetto nucleare nel 2003, subito dopo la caduta di Saddam, perché Bush aveva dimostrato quanto fosse serio nel suo intento. Dopo il cambio dello scorso mese, l’atteggiamento iraniano è cambiato. Un generale della Guardia rivoluzionaria ha definito gli Usa «sconfitti e umiliati». La consistenza è una virtù, anche quando è impopolare. Il senatore McCain, presunto candidato repubblicano, ha appoggiato la surge in Iraq molto tempo prima di Bush, non soltanto perché 30mila soldati in più avrebbero permesso agli Usa di fare quello che non era stato possibile fare, ma soprattutto perché questa avrebbe dimostrato ai terroristi – che dall’11 settembre definiscono gli Usa una tigre di carta – che siamo ancora in grado di essere forti.Vi sono molti dubbi anche sull’atteggiamento russo: molto difficilmente Mosca avrebbe invaso un alleato di Washington, se fosse stata sicura di una risposta forte del nostro Paese. Sia Bush che Obama implorano adulazione. Il cambiamento non basta per ridare al nostro Paese la sua credibilità. Ricercatore American Enterprise Institute
Il prossimo presidente dovrà essere uomo di consistenza, che non pensa agli applausi
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mondo
Dopo il sanguinoso attentato di Tripoli, preoccupazione nel Paese per l’aumento delle rivalità tribali
Libano, scoppia la bomba etnica di Antonio Picasso
d i a r i o ripoli torna a essere l’epicentro degli scontri in Libano. La bomba esplosa ieri, che ha lasciato sul terreno 18 morti e più di 30 feriti, è l’ultimo episodio di una catena di violenze che vede la cittadina protagonista. Sunniti, sciiti, alawiti, ma anche gruppi palestinesi tra i più intransigenti e l’esercito libanese – 7 delle 18 vittime erano appunto soldati – continuano a confrontarsi proprio in questa parte settentrionale del Paese. Lo scenario rappresenta al meglio le nevrosi etniche del Libano. Gli odi interreligiosi e la rivalità etniche si stanno frammentando in una lotta fra gruppi, tribù e clan sempre più piccoli. E questo non fa che accentuare le difficoltà di normalizzazione del Paese. La firma di quest’ultimo attentato non è ancora chiara. Del resto, i responsabili possono essere soltanto due: alawiti o palestinesi. Entrambe le realtà sono in aperto contrasto con il debole governo Siniora. Quest’ultimo, certo di essere il solo bersaglio dello scontro, ha diramato una nota che tende a intorbidire le acque. Parlare genericamente di “atto terroristico”– parole riprese dal Presidente Suleiman in questi giorni in visita ufficiale a Damasco – evita a Beirut di esporsi ad accuse troppo compromettenti. Il fatto che i sospetti cadano sugli alawiti è dovuto alla loro persistente azione di disturbo effettuata negli ultimi due mesi. La comunità alawita, meno di 100mila unità sui circa 4 milioni totali dei libanesi – ma presenti anche in Siria, dove è al potere grazie al clan degli Assad – è una minoranza che molti classificano come una diramazione scismatica dello sciismo. In realtà il loro sincretismo religioso li porta a essere più come una realtà tribale autonoma, che una diramazione religiosa. Gli alawiti sono gli unici a non aver rispettato il cessate il fuoco imposto con gli accordi di Doha a fine maggio.Tra giugno e luglio, hanno continuato a confrontarsi con le milizie sunnite e con alcuni reparti dell’Esercito. Il bilancio, fino a ieri, era di circa 15 morti e un centinaio di feriti totali. Con 7 soldati caduti in un solo attentato, si è raggiunto il climax della violenza.
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Resta da chiedersi il perché. Di fronte a una timida ma effettiva stabilizzazione della politica nazionale, le altre forze, religiose e partitiche, hanno deciso di mettere in aspettativa le loro singole milizie e di intraprendere un cammino essenzialmente politico. Nel nuovo governo, Hezbollah, Amal e Aoun si sono accaparrati alcuni ministeri
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Talebani uccidono tre cooperanti I talebani hanno rivendicato l’uccisione delle tre operatrici umanitarie straniere e del loro autista perpetrata ieri nella Provincia orientale afghana di Logar, pochi chilometri a sud di Kabul. La morte dei quattro addetti è stata confermata anche dall’Ong per la quale lavoravano, l’Irc. Questo è un ente fondato negli Stati Uniti fra gli anni ’30 e ’40, con sedi anche a Bruxelles, Ginevra e Londra, e operante in numerosi Paesi in via di sviluppo. Secondo lo stesso Irc, le donne erano una cittadina canadese, una connazionale originaria della Gran Bretagna e una statunitense nativa di Trinidad; il collega era di nazionalità afghana. Il loro fuoristrada faceva parte di un mini-convoglio comprendente un secondo veicolo; provenienti da Gardez, capoluogo della turbolenta provincia limitrofa di Paktia, i quattro stavano percorrendo una strada nei pressi della localita’ di Pul-i-Alam, diretti verso la capitale, quando sono stati assaliti da un gruppo di ignoti aggressori, che li hanno crivellati di proiettili dopo aver loro sbarrato il transito con un’auto posta di traverso sulla carreggiata. Gli assassini avrebbero sfondato i vetri dei finestrini, e sparato alle vittime a bruciapelo. Sui rottami sono stati contati i fori di almeno una decina di pallottole. La polizia libanese effettua i rilievi nella zona dell’esplosione chiave, il diritto di veto su qualsiasi decisione e il riconoscimento del “diritto di resistenza” contro Israele. Si tratta di una capacità di controllo politico che permette alla coalizione di preparare la strada per le elezioni parlamentari del prossimo anno ed eventualmente vincerle. Tuttavia, questa ambizione è realizzabile non più facendo ricordo alle armi, bensì con il dialogo e il confronto pacifico.
Stesso discorso per la Siria. Il viaggio di Suleiman a Damasco ha lo scopo di avviare ufficialmente le relazioni diplomatiche tra i due governi. Anche in questo caso, per
L’attacco ha lasciato sul terreno 18 morti e circa 30 feriti, tutti civili. E’ l’ultimo episodio di una catena di violenze che vede la cittadina protagonista quanto alawita sia lo stesso presidente siriano Assad, non si può pensare che da quella parte giunga l’intenzione di sparigliare ulteriormente le carte. Sulla base di questi assunti, una conclusione può essere che né Hezbollah né la Siria possono permettersi di sporcarsi le mani con il sangue dei soldati libanesi. Di conseguenza, è possibile pensare che preferiscano demandare l’utilizzo della violenza a una minoranza come quella alawita, la quale è sì filo-sciita e legata con i
suoi fratelli maggiori in Siria, ma formalmente resta distaccata da entrambi. Una teoria tutta da dimostrare. E la reticenza di Beirut nell’attribuzione della paternità dell’attentato lascia supporre che nessuno voglia esporsi a simili accuse. Quel riferimento all’“atto terroristico”, espresso nella nota del governo, pare voler alleggerire gli alawiti da una responsabilità tanto scomoda in questo momento. Suleiman preferisce evitare frizioni con un Paese con cui sta cercando di ricostruire un rapporto.
C’è una seconda ipotesi. Tripoli è il centro urbano più vicino al campo profughi di Nahr el-Bared, noto per gli scontri che le Laf hanno dovuto affrontare con il gruppo palestinese filo-qaedista di Fatah alIslam, in estate 2007. A giugno altri due attentati, sempre contro i militari, erano stati rivendicati proprio da queste milizie. Non si può escludere, quindi, che anche la bomba di ieri mattina abbia questa matrice. Alawiti o palestinesi che siano, quel che è da sottolineare è come l’attentato di ieri si inserisca nel processo di cambiamento della tipologia di scontri che si susseguono in Libano. In un Paese dove le 18 confessioni religiose non riescono a convivere, adesso si sta insinuando anche la rivalità tribale. Non più minoranze coalizzate pro o contro il governo, ma sotto-gruppi e sotto-etnie che, frammentando lo scontro, rendono ancora più difficile la pacificazione generale. Analista Ce.S.I.
Dalai Lama: Tibet ancora sotto attacco Il Dalai Lama, massima guida spirituale e capo temporale del buddismo tibetano, ha attaccato la Cina affermando che Pechino non sta rispettando la tregua olimpica. Il senatore socialista Robert Badinter, al termine di una riunione a porte chiuse con il Dalai Lama al Senato di Parigi (a cui hanno preso parte una trentina di deputati francesi dei gruppi parlamentari per il Tibet) ha dichiarato: «Gli abbiamo chiesto se Pechino rispetta la tregua, e la sua risposta è stata chiara: no. Mentre si tengono i Giochi olimpici, l’oppressione e la repressione del popolo tibetano prosegue». Il premio Nobel per la pace, ha aggiunto il socialista Blanco, «ci ha informati di una repressione terribile che non cessa malgrado la tregua olimpica. Dallo scorso 10 marzo ci sono stati degli arresti, delle esecuzioni e un imponente rafforzamento della presenza militare cinese, con la costruzione di nuove caserme». Il Dalai Lama, nel corso della sua audizione tenuta in una sala del Senato francese, ha inoltre evocato il pericolo di una ”colonizzazione accelerata”, parlando di circa un milione di cinesi che si apprestano a stabilirsi in territorio tibetano allo scopo di ”annacquare” la popolazione locale.
Germania, arresti per la strage in gelateria La polizia tedesca ha arrestato due persone sospettate di essere coinvolte nella strage di due giorni fa in una gelateria italiana nei pressi di Francoforte, costata la vita a due uomini e una donna. Ne ha dato notizia l’ufficio del procuratore. I due uomini vittime della sparatoria sono due curdi turchi, che erano soliti frequentare il caffè De Rocco nella zona pedonale di Ruesselsheim, a sudovest di Francoforte, mentre la donna, che gestiva un negozio vicino, si trovava nel bar per caso ed è morta tra le braccia del marito. Una quarta persona, un uomo, è rimasta gravemente ferita ed è piantonata dalla polizia in ospedale. Secondo la televisione n-tv, le vittime della sparatoria sarebbero state disarmate, ma altre testimonianze parlano di una lite durante la quale erano stati estratti dei coltelli prima dell’arrivo dei killer. Al momento la polizia non conferma le notizie secondo cui il delitto potrebbe essere collegato a un regolamento di conti tra bande dedite al traffico di droga o alle scommesse clandestine.
il caso l dibattito in corso all’interno del mondo cattolico sull’opportunità o meno di una legge sul fine vita non è fra chi è a favore e chi invece contrario ad una norma sul testamento biologico (su questo punto l’opinione, se svincolata dalla situazione che si è prodotta negli ultimi mesi, sarebbe unanimemente contraria). Piuttosto la discussione è fra chi ha preso coscienza dell’impatto della sentenza della Corte di Cassazione dello scorso ottobre sul caso di Eluana Englaro, e chi invece ancora non si è reso pienamente conto del peso e degli effetti di quel pronunciamento nella giurisprudenza italiana. Un confronto, testo alla mano, non potrebbe che vedere tutti concordi sulla necessità di superare quella sentenza, che introduce nei fatti in Italia una novità assoluta, e cioè la possibilità di dedurre dagli stili di vita di una persona non più in grado di esprimersi, il suo eventuale consenso alla sospensione di trattamenti vitali.La sentenza della Cassazione non riguarda quindi il testamento biologico, bensì il modo di interpretare il consenso informato.
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La Corte di Appello di Milano, consentendo a Beppino Englaro, padre e tutore di Eluana, di sospendere la nutrizione artificiale a sua figlia lasciandola morire di fame e di sete, ha semplicemente applicato la sentenza della Cassazione, che lo scorso ottobre, quando fu emessa, suscitò le preoccupazioni di esperti giuristi come Francesco D’Agostino ed Alberto Gambino, di commentatori come Eugenia Roccella e medici come Gianluigi Gigli, ma che nel complesso passò abbastanza inosservata, probabilmente sottovalutata nei suoi possibili effetti. Per superare questa sentenza non è certo sufficiente chiamare in causa il codice deontologico dei medici, come asseriscono alcuni: basti pensare a Mario Riccio, il medico che ha ”staccato la spina” a Piergiorgio Welby, per il quale l’ordine dei medici di Cremona non ha pronunciato neppure un richiamo formale, decidendo l’archiviazione del procedimento disciplinare a suo carico perché nel suo comportamento non si era ravvisata alcuna violazione del codice deontologico. A maggior ragione non servirebbe a niente ribadire il divieto dell’eutanasia: paradossalmente, altre sentenze di questo genere potrebbero essere emesse anche con una legge imperniata sul divieto dell’eutanasia. Questa sentenza è infatti l’esito di una vastissima giurisprudenza sul consenso informato e sull’articolo 32 della Costituzione, riguardante la legittimità del rifiuto delle cure da parte del paziente. Per esempio nel testo della Cassazione si può leggere che «il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale». Il consenso informato, è riconosciuto «un vero e proprio di-
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Testamento biologico. Viaggio nel mondo cattolico/4. Il giudizio di Assuntina Morresi
«Mi mette paura questa giurisprudenza della morte» di Assuntina Morresi
A sinistra Eluana Englaro, in stato vegetativo da sedici anni. In alto il padre Beppino, che si è battuto per l’interruzione del trattamento di nutrizione e idratazione
È urgente un intervento normativo per impedire che le sentenze dei tribunali lascino morire di fame e sete persone deboli non più in grado di intendere e di volere ritto fondamentale del cittadino europeo», e viene ricordato da un precedente pronunciamento che «in presenza di una determinazione autentica e genuina dell’interessato nel senso del rifiuto della cura, il medico non può che fermarsi, ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte».
Dunque senza consenso informato al trattamento sanitario, un paziente, secondo queste interpretazioni, può essere lasciato morire. E inoltre: «Ma - accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza - c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato come il
nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta Costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta». Questa sentenza della Cassazione, quindi - che ricordiamo essere definitiva - ribadisce la possibilità di rifiutare ogni tipo di trattamento, anche salvavita, da parte del paziente, indipendentemente dal fatto che sia o meno accanimento terapeutico, e specifica anche che «non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino naso gastrico costituiscono un trattamento sanitario». Tutto questo, e cioè il diritto del paziente di esprimere il proprio consenso o meno a qualsiasi tipo di trattamento sanitario, diventa in questa sentenza la possibilità di desumere tale rifiuto non solo da un consenso scritto e informato del paziente, ma anche da una sua volontà presunta, e ricostruita a posteriori in base a testimonianze: è una giurisprudenza già esistente, già in atto, tan-
to che se Eluana morisse di fame e di sete per la sospensione della nutrizione artificiale, suo padre non sarebbe perseguito penalmente.
È quindi necessario un intervento legislativo che entri nel merito di queste problematiche, e cioè del consenso informato, delle modalità con cui deve essere sottoscritto dai pazienti, di se e come devono essere considerate le volontà eventualmente espresse in precedenza da chi non è più capace di intendere e di volere. Solo in questo modo è possibile tentare di stabilire una tutela dei più deboli, delle persone non più in grado di esprimere in piena consapevolezza il proprio consenso o dissenso ai trattamenti sanitari. In tutto questo le parole hanno certamente un peso: più volte Francesco D’Agostino ha contestato l’uso del termine ”testamento biologico”, ritenendo più opportuno utilizzare l’espressione ‘dichiarazioni anticipate di trattamento’, per evidenziarne la differenza con i testamenti che regolano il patrimonio. Ma, come ha recentemente dichiarato il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Rino Fisichella, «testamento biologico è un’espressione di per sé vuota, bisogna capire cosa significa e di quali contenuti viene riempita».
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politica
Nonostante i maxi ordini annunciati nei mesi scorsi la casa madre Eads deve fare i conti con debiti per 715 milioni di euro
L’A380 non fa decollare Airbus di Alessandro Alviani
BERLINO. La cerimonia di fine luglio ad Amburgo e le centinaia di dipendenti festanti per la consegna del primo dei 58 Airbus 380 a Emirates sono un ricordo già lontano. E stride ancor di più lo slogan della compagnia araba che campeggia sui giornali tedeschi: «Non appena abbiamo visto gli ambiziosi disegni di questo nuovo aereo, abbiamo capito che sarebbe stato il futuro dell’aviazione». Per il gigante dei cieli, e di riflesso per il consorzio europeo dell’aerospazio, il presente sembra meno scintillante dell’equipaggiamento scelto da Emirates con tanto di doccia in classe economica. Ed è una realtà di cavi srotolati ancora a mano, sistemi informatici differenti tra gli stabilimenti sparsi in giro per l’Europa e di un fardello da 715 milioni di euro caricato sulle spalle della casa-madre Eads nel
re seguito per i primi 25 modelli dell’A380. La svolta è arriverà soltanto con la seconda consegna, quella della produzione in serie, che dovrebbe partire non prima della metà del 2009, con l’assemblaggio del 26esimo A380. Sempre che la tabella di marcia non venga rivista ancora una volta. Al momento il piano messo a punto da Enders parla di 12 consegne per quest’anno e di 21 per il prossimo. Ritmi che dovranno essere necessariamente aumentati per riuscire a centrare i primi profitti e iniziare poi pian piano a ricucire il buco scavato nel bilancio di Eads dai ritardi accumulati. Ne è consapevole lo stesso Enders, che intende passare nel giro di due anni dalla media attuale di un solo A380 montato e consegnato al mese a 3-4 al mese. In ogni caso, ha ammesso il manager, ci vorranno ancora “alcuni anni” prima che Airbus riesca a incassare dei profitti col progetto A380.
I problemi sono atavici e consistono in un modello di produzione caotico e costoso. Così si temono nuovi tagli e ritardi
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Frattini resta alle Maldive, Idv all’attacco Il ministro degli Esteri non interrompe la vacanza alle Maldive per tornare a seguire in prima persona la crisi del Caucaso. E in Italia è subito polemica. Dopo la punzecchiatura arrivata da alcuni organi di informazione, è l’Italia dei valori ad andare all’attacco di Franco Frattini. Che contesta all’ex commissario Ue la decisione di farsi rappresentare, al Consiglio straordinario dei ministri della Ue, dal suo sottosegretario Vincenzo Scotti. «Pessima figura. Con tutto il rispetto per il sottosegretario Scotti - ha dichiarato la deputata dipietrista Silvana Mura -, con l’assenza del ministro Frattini, rimasto a crogiolarsi al sole, il governo Italiano ha fatto una pessima figura internazionale dimostrando scarsa credibilità».
Famiglia Cristiana critica il governo Il settimanale Famiglia Cristiana torna all’attacco sulla politica del governo in materia di sicurezza, augurandosi che «non sia vero il sospetto che in Italia stia rinascendo il fascismo sotto altre forme». La rivista dei Paolini, che lunedì scorso aveva attaccato l’esecutivo per la «finta emergenza sicurezza», replica anche alle dure critiche che gli sono arrivate dopo quell’articolo dagli esponenti della maggioranza: «Non siamo cattocomunisti». Nell’editoriale che uscirà nel prossimo numero il settimanale attacca il loquacissimo Gasparri e altri politici (Rotondi, Bertolini, Quagliariello) «senza argomenti». La frase che conclude l’articolo racchiude l’invito a farla finita con le critiche: «E ora basta».
Elezioni in Abruzzo, il 30 novembre la data Ormai è una certezza alla quale manca solo il crisma dell’ufficialità. Si svolgeranno il 30 novembre prossimo le elezioni regionali anticipate alle quali l’Abruzzo è dovuto ricorrere dopo la bufera giudiziaria per presunte tangenti nella sanità che ha decapitato la Giunta regionale. Tutto ciò a meno di clamorosi eventi. L’altro eri c’è stata la convergenza politica nel primo passaggio che lo Statuto regionale impone al presidente vicario, Enrico Paolini. Nell’incontro con il presidente del Consiglio regionale, Marino Roselli, Paolini ha proposto la data del 30 novembre; il capo dell’Assemblea regionale, nonostante un buon numero di consiglieri gli avessero manifestato una serie di perplessità e la necessità di un rinvio alla primavera del 2009, ha aderito alla istanza posta in maniera perentoria.
Abi: ultimi giorni per ”svegliare” i conti primo semestre dell’anno per via dei ritardi accumulati. Il presidente della società, il tedesco Thomas Enders, ha ammesso che i problemi dell’A380, gli stessi che due anni fa hanno gettato Airbus nel caos, non sono ancora risolti. «Lo saranno», ha dichiarato, «soltanto quando avremo raggiunto una produzione in serie stabile». Frase che alza il velo sulle condizioni in cui l’azienda si trova a lavorare, dopo gli annunci trionfalistici delle scorse settimane quando sono stati annunciati per Aiburs ordini complessivi raddoppiati nel primo semestre e per Eads un utile netto schizzato del 332 per cento in sei mesi. Alla base della crisi, costata già il lavoro a un migliaio di dipendenti, c’è il fatto che gli A380 restano un prodotto semi-artigianale. I 500 chilometri di cavi necessari per far alzare e tenere in volo il più grande aereo del mondo vengono posati a mano. Infatti 2mila tecnici tedeschi sono stati spediti da Amburgo a Tolosa per aiutare i colleghi francesi a sbrogliare la matassa di fili. Senza contare che il differente equipaggiamento chiesto da ogni compagnia acquirente complica a dismisura il montaggio finale. Gli ingegneri in Germania e Francia, poi, utilizzano software diversi. Per non parlare poi dei dissidi tra le due sponde del Reno non appena si inizia a discutere della cessione di uno stabilimento o del taglio dei posti di lavoro. L’attuale e caotico modello organizzativo continuerà a esse-
Quanti, resta incerto. All’inizio l’asticella delle vendite necessarie per coprire gli enormi costi di sviluppo e centrare un utile era posta a 420 superjumbo. Oggi alcuni esperti parlano di 470. Da qualche tempo la società ha rinunciato a indicare cifre precise.Tanto più che, tra ordini certi e dichiarazioni di acquisto, si arriva per il momento soltanto a 202. Come se non bastasse, Airbus si trova ad operare in un contesto tutt’altro che agevole. L’esplosione dei costi del Kerosene sta costringendo sempre più compagnie a rivedere i propri progetti e rischia così di peggiorare la situazione degli ordini. Mentre Enders si dice fiducioso («Al momento non c’è motivo per cambiare i nostri piani di produzione»), arrivano le prime rinunce, come quella di United Airlines, che sembra intenzionata a tagliare un ordine per 42 Airbus A319 e A320.
Ad avvelenare il clima c’è poi l’inchiesta della magistratura francese per i sospetti episodi di insider trading in Eads nel 2006, che ha iniziato a colpire non soltanto ex manager, come avvenuto finora, ma anche dirigenti in carica. E intanto all’orizzonte si staglia il prossimo programma di risparmi per Eads. In autunno, ha annunciato la casa-madre di Airbus, verrà presentato un nuovo piano di tagli da un miliardo di euro, che entrerà in vigore dal 2011.
Mancano pochi giorni per ”svegliare” i conti rimasti inattivi per oltre 10 anni: in una nota l’Abi ricorda la scadenza del 16 agosto, termine entro il quale i titolari dei conti dormienti possono reclamare la titolarità del proprio conto presso la banca. Per farlo basterà contattare l’istituto, richiedere un estratto conto o un blocchetto di assegni. Nessun problema per chi dimentica la scadenza di agosto: le banche avranno ancora 4 mesi di tempo per devolvere le somme al Fondo; il termine definitivo scatta quindi il 16 dicembre. Inoltre, almeno un mese prima del versamento al Fondo, le banche pubblicheranno online e nelle filiali l’elenco di tutti i conti dormienti. Chi salterà anche la scadenza di dicembre avrà altri 10 anni di tempo per reclamare i propri risparmi anche dopo che la somma sarà versata al Fondo ministeriale.
Commissione Amato, Storace non ci sarà «Il giornale della Margherita, del Pd o di chissà chi, Europa insomma, inventa una mia presenza nella commissione Amato. Non è possibile per due motivi: non ne faranno giustamente parte i consiglieri comunali, ormai destinati al rango di fannulloni; e poi ho votato Alemanno e non Rutelli. In Campidoglio pare sia colpa grave…». È quanto dichiara Francesco Storace, segretario nazionale de la Destra.
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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
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Gli ottomani decapitano chi non abiura
Strage a Otranto Uccisi ottocento cristiani di Pier Mario Fasanotti
a lugubre ombra della mezzaluna si estese sulla Puglia nell’agosto del 1480. Il giorno 14 per la smania vandalica e il rigore islamico dei soldati ottomani furono freddamente decapitati ottocento cristiani di Otranto, rei di non aver voluto abbandonare la propria religione. La cittadina fu presa d’assalto da uno dei più abili generali dell’impero di Maometto II, Gedik Ahmed Pascià, da poco elevato alla carica di “sancak bey” di Valona, ossia governatore del “sangiaccato” (parte di una provincia) albanese. Dalle coste adriatiche partì la flotta che avrebbe fatto scempio di chiese e abitazioni. Maometto II era stato categorico: «Fate della casa di Dio la stalla dei suoi cavalli». Migliaia di uomini con i vessilli verdi s’imbarcarono a Valona diretti a Brindisi. Due circostanze evitarono a questa città la distruzione: le correnti marine in quei giorni poco favorevoli e la notizia che le fortificazioni brindisine avrebbero potuto reggere per diverse settimane. I musulmani andarono più a sud, spingendosi fino a Otranto. Ahmed Pascià non incontrò particolari resistenze. L’onda d’urto degli ottomani era spaventosa. Non si hanno dati certi, ma si calcola che le navi potevano essere da 70 a 200, e i soldati da 18mila a 100mila. La guarnigione posta a difesa di Otranto per ordine del re di Napoli, Ferdinando I d’Aragona, dopo qualche scontro fu costretta a cedere. Il borgo cadde in mano turca, i militari italiani ripiegarono nella cittadella, ossia nel Castello di Otranto. Ahmed Pascià mandò emissari per chiedere e ottenere la resa immediata. Ebbe un rifiuto. Accadde il peggio, che era anche il prevedibile: la Cittadella, sprovvista com’era di cannoni, nel giro di due settimane fu espugnata. Gli invasori erano avvantaggiati dal possedere una potentissima artiglieria e la disperata resistenza dei pugliesi, guidata da Don Alfonso duca di Calabria continua a PAGINA II
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SCRITTORI E LUOGHI
I VIGLIACCHI DELLA STORIA
I SENTIMENTI DELL’ARTE
L’Edimburgo di Irvine Welsh
La gola secondo Sergio Leone
di Alfonso Francia
di Francesco Ruggeri
Ferdinando IV di Virgilio Ilari
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a pagina VII pagina I - liberal estate - 14 agosto 2008
Dal mosaico della Cattedrale di Otranto, sopra: Sansone sul dorso di un leone al quale sta spaccando la mascella; a lato trombettieri annuncianti ai cittadini la tremenda notizia segue da PAGINA I (da cui dipendeva da città), si infranse contro la supremazia dei nemici. Il sovrano di Napoli aveva inviato a Otranto duemila militari, al comando di Francesco Zurlo (che morì nei primi scontri) e di Giovanni Antonio Falcioni. Non bastò. Anche perché pare che molti dei difensori, vista la situazione, se la dettero a gambe durante la notte. opo poche ore dalla disfatta, i turchi compirono il massacro. I morti furono in totale 12mila. A quell’epoca Otranto, uno dei centri più importanti del Salento, contava all’incirca 20 mila abitanti. Ahmed Pascià aveva intimato alla popolazione di ribellarsi al suo re e di abiurare alla fede cristiana. Dopo aver ricevuto il rifiuto, dette il via libera ai suoi uomini. Per violenze, saccheggi, brutalità e uccisioni. Fu una delle più spaventose carneficine del secolo. Le donne e i bambini vennero ridotti in schiavitù. Molti sacerdoti e un certo numero di civili si rifugiarono nella Cattedrale. Ci fu lo sterminio. L’arcivescovo Stefano Pendinelli e il conte Francesco Largo, comandante della guarnigione affrontarono una fi-
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ne abominevole: i loro corpi furono segati. I turchi fecero entrare i cavalli nella chiesa, secondo gli ordini di Maometto II. Per spregio. Intanto Ahmed Pascià e i suoi uomini occuparono il Colle della Minerva, un’altura il cui nome derivava dall’esistenza, in epoca romana, di un tempio dedicato alla dea. Da lì il generale turco poteva vedere il macabro risultato della vittoria: Otranto era sta-
centro dell’accampamento ottomano fu piazzato un grosso masso. Doveva essere usato come ceppo. Il primo degli ottocento pugliesi a essere decapitato fu un certo Antonio Primaldo. Narrano le cronache mischiate a leggende che il suo corpo, privo della testa, si alzò e rimase in piedi dinanzi al generale Ahmed. I soldati cercarono di abbatterlo, addirittura scaraventandogli contro un bue. E a questo punto entriamo nell’evocazione fantastica: la prima vittima rimase eretta fino alla morte degli ultimi suoi concittadini. Quel che sembra appurato storicamente è che il boia ott o m a n o, t a l e Berlabei, stupito dall’uomo che non voleva morire, cadde in ginocchio e si convertì all’istante, e pubblicamente, alla religione cristiana. Abiurare alla fede islamica significa, per gli islamici, la morte certa. Anzi la più spaventosa. Berlabei fu impalato. Era questa la sorte che spettava ai traditori di Allah. Ancora og-
L’ombra della mezzaluna si è estesa sulla Puglia. La cittadina è stata presa d’assalto da uno dei più abili generali di Maometto, Gedik Ahmed Pascià, da poco elevato alla carica di governatore ta ridotta a cumuli di macerie. Ogni tanto si udiva un boato: erano decine di edifici che crollavano. Gli otrantini superstiti furono fatti salire sul colle. Ahmed Pascià ripetè la minaccia: o rinnegate la vostra religione o sarete massacrati. Un altro rifiuto. Al
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gi sul Colle della Minerva è visibile il palo del supplizio. Poco distante c’è la cappella che ha conservato per secoli il masso che fu tinto di sangue da ottocento martiri. Da qualche anno il cimelio luttuoso è stato posto sotto l’altare del Sacrario dei Martiri, nella cattedrale di Otranto. Altri resti sono nel Duomo di Napoli. hmed Pascià continuò nella sua impresa. Compì una manovra diversiva per disorientare il comandante aragonese Alfonso di Calabria attaccando dal mare, con settanta navi, la cittadina di Vieste, nel Gargano. I turchi incendiarono poi la chiesa di Santa Maria di Merino, che conservava una Madonna lignea (scolpita in tiglio), oggetto di venerazione in tutto il territorio. Altre scorrerie nelle provincia di Lecce,Taranto e Brindisi. Ahmed Pascià vinceva, ma aveva un problema: i rifornimenti, che erano scarsi in una regione povera come il Salento. In più c’era la crescente pressione delle forze aragonesi finanziate dalle banche fiorentine e appoggiate da Papa Sisto IV, che annunciò una crociata contro i turchi. La presenza dei soldati della Mezzaluna aveva comunque sparso terrore nel sud dell’Italia per un lungo e
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interminabile anno. Ad aggravare la situazione circolavano voci secondo cui lo stesso pontefice era intenzionato ad abbandonare Roma. Le mire di Maometto II erano, secondo alcuni, dirette proprio verso l’ex capitale del mondo e sede del Cattolicesimo. Nel maggio del 1481 le truppe cristiane si disposero attorno a Otranto dopo aver portato in quel territorio formidabili macchine da guerra ideate da Ciro Ciri, ingegnere del Duca d’Urbino, e dal francese Pietro D’Orfeo. L’assedio era strettissimo, sia per terra sia per mare. Ahmed Pascià aveva lasciato a Otranto una guarnigione abbastanza ridotta. Il 4 maggio la situazione cambiò improvvisamente col risultato che Otranto fu riconquistata: a soli 52 anni morì il grande sultano Maometto II, detto anche il Conquistatore. Ovviamente la notizia fu accolta con sollievo da tutti gli schieramenti cristiani, che prevedevano anni di confusione a Costantinopoli. Nell’ex capitale dell’impero romano d’Oriente scoppiò una guerra civile che vide contrapposti i due figli di Maometto, i fratellastri Cem e Bayazid, che godeva dell’appoggio dei potentissimi giannizzeri. Ahmed Pascià sapeva fiutare il vento politico e appoggiò Bayazid, che in
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o stesso giorno... nel 1415
A Ceuta la vittoria di Enrico il Navigatore di Filippo Maria Battaglia
effetti divenne padrone dell’impero ottomano. Mentre stava per salpare di nuovo verso le coste italiane, Ahmed venne richiamato a Costantinopoli, arrestato e imprigionato. Bayazid non si fidava di lui, e l’anno successivo lo fece assassinare in un carcere di Adrianopoli. a scomparsa di Maometto II impresse una battuta di arresto ai sogni di conquista dei turchi. Il Grande Sultano aveva sottomesso tutti i territori dei Balcani (a eccezione della Dalmazia veneziana e della Croazia ungherese), dell’intera Anatolia, della Grecia, di Rodi e delle isole ioniche. La sua ambizione era quella di impadronirsi del Mediterraneo, fino a raggiungere Roma. Lo scopo: fondare l’impero ottomano sulle macerie del precedente impero bizantino. I turchi ebbero fortuna in Puglia perché il sovrano aragonese sottovalutava l’importanza strategica di quelle terre. Ma fortuna ancora maggiore derivava dai conflitti politici tra i vari sovrani e signori italiani. Uno contro l’altro, uno alleato dell’altro, a seconda dei periodi e delle convenienze. E questo era un grande vantaggio per una potenza monolitica come quella ottomana. Il fatto che i turchi minacciassero da vicino Venezia non dispiaceva né al re di Napoli né al duca di Milano, mentre i francesi guardavano di buon occhio la distruzione dei presidi genovesi d’oltremare a opera dei turchi. E ancora: il “bai-
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Un improvvisato geografo, un buon combattente, un pessimo politico. Non è un caso che Enrico di Aviz sia noto alla storia come Enrico il Navigatore. Quinto figlio del re Giovanni I del Portogallo, viene ancora oggi ricordato per due ragioni: le scoperte di inesplorati territori e la battaglia di Ceuta, sulla costa del Mar Mediterraneo, vicino alla stretto di Gibilterra. Obiettivo: la cacciata dei musulmani e il consolidamento della cultura cristiana, ma anche l’ampliamento dei traffici commerciali del settentrione africano. La città capitola il 14 agosto del 1415. E il merito della vittoria va proprio a Enrico, nominato per l’occasione duca di Viseu. Ma il principe non è solo un ottimo combattente. Dopo il conferimento della Croce dell’Ordine di Cristo, chiede e ottiene il finanziamento di numerose spedizioni. Ai suoi uomini, nel 1427, si deve la scoperta delle prime isole Azzorre. Grazie al suo appoggio, poi, già nel XV secolo l’Africa non è più una chimera: per la prima volta le imbarcazioni portoghesi si spingono fino al Rio do Oro e alla Penisola di Capobianco. E poi ancora Capo Verde, la Guinea, il deserto del Sahara per decine e decine di escursioni che tocche-
lo” (ambasciatore) veneziano a Costantinopoli, Andrea Gritti, fu incaricato di far sapere al Sultano che egli avrebbe potuto impadronirsi della Puglia perché quei territori appartenevano di diritto al territorio di Bisanzio. E infine: tra Maometto II e la Firenze di Lorenzo il Magnifico correva da tempo una certa cordialità. Le città si scambiavano artisti. Il sultano fece poi un dono molto gradito al signore mediceo: spedì a Firenze Bernardo Bandini, uno di quelli che parteciparono, il 26 aprile 1478, alla Congiura dei Pazzi. Lorenzo infine coniò medaglie commemorative che descrivevano le vittorie ottomane in Asia. er alcuni storici, si deve leggere il massacro di Otranto con la lente politica italiana, considerandolo il frutto di meschine consorterie e alleanze variabili. Non va poi dimenticato che il Papa scomunicò il Magnifico per il fatto che durante la repressione a seguito della congiura dei Pazzi furono giustiziati alcuni membri del clero. Roma lavorò contro Firenze al fianco del re di Napoli, del duca Federico di Montefeltro e della città di Siena. Poi ci fu
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Il quintogenito di re Giovanni I del Portogallo fece numerose spedizioni. A lui si deve la scoperta, nel 1427, delle isole Azzorre. Come mecenate promosse la nascita della cattedra di astronomia nell’Università di Coimbra
ranno il continente africano così come quello asiatico. Per mettere a punto il suo piano, Enrico si allea con diversi regnanti, muove guerra all’impero ottomano, si stabilisce nel porto di Sagres, nell’estremo lembo sudoccidentale dell’Europa. Da lì, intercetta informazioni sui movimenti delle imbarcazioni. Ma la sua fama si deve anche al mecenatismo: è lui che promuove la nascita della cattedra di Astronomia nell’Università di Coimbra. Nella sua Vila do Infante fonda un centro scientifico nel quale riunisce astronomi e cartogtrafi. Oggetto di studio, tra l’altro, il perfezionamento dell’astrolabio e del nocturlabio, oltre all’analisi delle correnti e dei venti oceanici. Gli studiosi fanno quasi tutti capo alla scienza e alla dottrina araba, a quel tempo ineguagliabile. E molti di quei risultati sono utilizzati quasi subito dai marinai delle flotte. Tra tutti, le tavole di declinazione, utili a fissare nell’oceano i paralleli e i meridiani di rotta. L’ascesa di Enrico è dunque fulminante. Eppure, il suo declino è ormai alla porte. È lui infatti a volere a tutti i costi la conquista di Tangeri, nel 1437: una vittoria di Pirro, che dura lo spazio di un lampo e
un patto di pace tra Firenze e Napoli, nel marzo del 1480. Ma una situazione così fluida non fece
porzione di mare, così da assicurare i rifornimenti e mettere a repentaglio quelli che coinvolgevano direttamente Venezia e Genova. Era strategico mettere in forse il flusso di grano che proveniva dalla Crimea. I turchi che sbarcavano nell’Italia del sud fecero comunque scattare il riflesso condizionato della guerra contro gli infedeli. E infatti così fu: i napoletano-pontifici si ritirarono dalla Toscana meridionale, il Papa siglò la pace con Firenze, Venezia e il sovrano di Francia accantonarono le ostilità verso gli aragonesi. Prima di ogni altra cosa valevano la “defensio crucis” e la “liberatio Eropae”. Nell’Occidente cristiano la caduta di Costantinopoli nel 1453 aveva posto fine a una civiltà
La flotta è partita dalle coste adriatiche. A migliaia gli uomini con i vessilli verdi si sono imbarcati a Valona (sulla costa albanese) diretti a Brindisi. Le correnti marine hanno però deviato la rotta spingendo i musulmani più a sud fino a Otranto. La guarnigione italiana ha ceduto quasi subito che favorire il sogno di conquista di Maometto II. Pur sapendo che l’assalto alle coste pugliesi avrebbe accelerato la coesione delle forze cristiane sotto il vessillo, o il pretesto, di una nuova crociata, il Sultano agì ugualmente. Al suo impero interessava il controllo di una gran
che costa all’esercito portoghese migliaia di vite umane. Non solo: il principe accetta di lasciare in prigionia il fratello Fernando, ostaggio del sultano del Marocco. Di lì in avanti, la sorte del quintogenito di re Giovanni, è in caduta libera. Gradualmente, gli saranno interdette molte delle libertà e dei poteri fino ad allora esercitati. Passerà gli ultimi anni a occuparsi della sola amministrazione interna prima di morire a Capo de Sagre nel 1460. Certo è che nella memoria portoghese il suo nome è ancora presente: nel 1994 il conio di Lisbona ha dato ordine di stampare il suo viso e il suo nome sui biglietti di banca da 10.000 escudos.
millenaria e aveva generato in Europa una scia di sentimenti apocalittici. Numerose furono le profezie che associavano la caduta in mano islamica della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e addirittura alla “fine dei tempi”. Maometto II era prefigurato come il dragone rosso dell’Apocalisse. Sui fatti di Otranto circolarono, come abbiamo accennato, alcune leggende. Una di queste riguarda il conte di Conversano, Giulio Antonio Acquaviva, luogotenente del re di Napoli. Era un abilissimo spadaccino, ma venne decapitato dai turchi con un colpo di scimitarra. In base alla leggenda Giulio Antonio divenne “il cavaliere senza testa” che aveva continuato a combattere, seminando morte e sgomento tra i nemici. Sarebbe infine giunto al castello di Sternatia: il cavallo si fermò e il conte stramazzò al suolo. È rimasta la suggestione di uno spettro che vaga nelle notti di agosto. Un fantasma che ispirò lo scrittore inglese Horace Walpole nel primo “romanzo gotico” intitolato appunto “Il castello di Otranto”.
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SCRITTORI E LUOGHI
Alcol e droghe
EDIMBURGO
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anni ‘80 di Irvine Welsh L’autore di Trainspotting ambienta il suo lavoro più celebre nella capitale scozzese di Alfonso Francia
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ar descrivere una città a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 a un gruppo di tossici scozzesi non deve essere un espediente letterario molto credibile. Così Irvine Welsh, che da una serie di racconti tenuti insieme dallo stesso gruppo di personaggi ha tirato fuori il suo lavoro più celebre,“Trainspotting”, schiva abilmente il compito. Nel suo libro ambientato a Edimburgo non compare neanche un accenno alla capitale, gli spazi emergono dallo sfondo semplicemente seguendo gli spostamenti dei vari Rent, Sick Boy, Spud e Tommy alla ricerca di una dose o di qualche sostanza che possa sostituirla. Case, ospedali, centri di detenzione, pub, parcheggi e discoteche appariranno nella testa del lettore in tutti i loro particolari senza che l’autore abbia avuto bisogno di fare altro che citarli. Sono le reazioni dei personaggi allo squallore nel quale vivono la descrizione migliore. Bisogna chiarire che l’Edimbur-
go che Welsh ci fa visitare non è la stessa che ci proporrebbe uno scozzese orgoglioso delle sue origini. Il castello, i college e Prince Street sono accuratamente evitati; la vita procede altrove, nei quartieri popolari come Leith, dove vive il gruppo di amici che riempie le pagine del libro. La tossicodipendenza limita gli spostamenti a pochi percorsi obbligati, come fanno i criceti nei loro labirinti di cartone e compensato. Se si attraversa uno stadio in cui la dipendenza è forte, per mesi e mesi l’unico tragitto affrontato potrebbe essere quello che separa la propria casa da quella del pusher di fiducia. on esiste altro, a parte quei due o tre chilometri fatti a fatica in autobus, cercando di dissimulare al meglio gli effetti dell’astinenza di fronte ai passeggeri che guardano distratti i negozi e i palazzi bassi in muratura, magari concentrandosi sui colori acidi e vivaci che riempio-
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Case, ospedali, centri di detenzione, pub, parcheggi e discoteche le quinte del racconto. Accuratamente evitati dallo scrittore il castello e i college no le pareti interne del bus. Solo nei periodi di momentaneo allontanamento dalle droghe gli scenari si allargano, e magari capita di poter finire in qualche zona del centro popolata di turisti. Ma la maggior parte del tempo, anche quando si è “puliti”, i ragazzi di Welsh lo trascorrono nella loro Leith, in mezzo all’estrema incoerenza dei casermoni delle case popolari. Enormi palazzoni di cemento alti sette piani giacciono distanziati da distese informi di verde incolto, come ruderi abbandonati nelle campagne. Così l’affollamento degli appartamenti stride duramente con il vuoto dei campi lasciati nell’incuria, nei quali i ragazzini giocano interminabili
partitelle di calcio fino al tramonto, che da quelle parti tarda verso le undici di sera. D’altra parte non c’è molto altro da fare, se non salire su per la tromba delle scale (gli ascensori sono inesistenti o perennemente guasti) e rinchiudersi in un appartamento di qualche decina di metri quadrati a guardare la televisione, tenuta in un salotto che attende disperatamente carta da parati nuova e una ripulita alla moquette strappata. La periferia di Edimburgo è così, dominata dal grigio di palazzi e sempiterni nuvoloni e dal verde inutilmente vivace dei prati bagnati. Per rimediare a questa scarsezza cromatica le persone vestono nelle maniere improba-
bili che fanno inorridire gli italiani in vacanza: tute fosforescenti e maglioni in tinte sgargianti rendono ancora più triste la povertà del contesto, come se lo squallore venisse messo in evidenza per contrasto. È così deprimente questo quartiere di giorno che si prova quasi un senso di sollievo quando ci si accorge che i protagonisti di “Trainspotting” vivono soprattutto di notte, quando la mancanza di luce rende strade e costruzioni così anonime e indistinte da essere innocue, tanto che “non si riesce a distinguere un blocco di palazzi dal cielo sullo sfondo”. arà un po’ per la mancanza di illuminazione artificiale nei vicoli, un po’ per la scarsa lucidità mentale dei narratori, ma Edimburgo di notte resta un buco nero nella mente del lettore, che riesce a definire appena qualche particolare rischiarato dalla luce verdina di un pub in un angolo. Nella notte questi lo-
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La capitale scozzese non ha neppure la metro. È una città con dei complessi d’inferiorità verso la vera capitale, Londra, l’industriale Glasgow e persino Dublino A lato: un fabbricato industriale spesso usato dai giovani per i raduni “dance” A destra: un dj alla consolle in una discoteca di Edimburgo Sotto: una tipica via della capitale scozzese
cali sembrano delle vere oasi nel deserto, perché le loro insegne sono l’unica fonte di luce, e i passanti ne sono attratti come falene. Fa impressione questo altro contrasto tra vuoto e pieno, tra la desolatezza silenziosa delle strade e l’allegria etilica che spinge da ogni parte gli avventori. Si sente un’aria di benessere che puzza di finzione alcolica, sempre sul punto di diventare malessere e poi postumi da sbornia. a non c’è dubbio che chiunque preferirebbe passare qualche ora davanti al bancone di un bar, tra le urla di camerieri e pinte di birra rovesciate sul pavimento eternamente appiccicoso, piuttosto che vagare nelle strade tra i balordi che potrebbero aver bisogno di un portafogli nuovo, dotato di banconote. E se anche le vie sono tranquille, il tappeto di vetri rotti, ubriachi buttati fuori dai locali, resti di sostanze organiche e spazzatura che decorano l’asfal-
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to di Leith sono uno spettacolo che fa pentire di non essere rimasti a casa a guardare l’ennesimo film in cassetta. Ma di centri desolati e semiabbandonati è piena Edimburgo. Parcheggi, stazioni dei treni in disuso e centri commerciali falliti non sono posti dove i personaggi vanno intenzionalmente, ma ci si finisce dentro senza quasi accorgersene. Sono come degli ostacoli da superare per arrivare alla meta, ma a volte l’incuria e lo squallore sono così forti da creare un senso di attrazione. Capita che persino il tossico in cerca di una dose senta il bisogno di fermarsi a osservare la poesia di un edificio di cemento sventrato e lasciato malamente in piedi in mezzo al centro abitato, perché la zona è troppo depressa per trovare qualcuno disposto ad abbattere tutto per costruirci qualcosa di nuovo. Così magari di questi scheletri di ferro e mattoni si fa carico lo Stato, sempre alla ricerca di al-
loggi per nuovi disperati. In questo soffermarsi su zone spersonalizzate, che potrebbero sorgere indifferentemente nella periferia milanese o in quella di Chicago,Welsh tradisce una strana fascinazione per i cosiddetti “non luoghi”, oggi sulla bocca di tutti ma allora non tanto percepiti. Welsh ama mettere uno accanto all’altro pub tradizionali in stile scozzese e negozi moderni e asettici, vecchie rivendite alimentari e ricevitorie per le scommesse costruite in serie. Persino i suoi personaggi, di solito indifferenti verso tutto ciò che non riguarda i problemi di astinenza, si mostrano disgustati per l’accettazione dei nuovi modelli estetici provenienti dagli Usa via Londra, per i pub “che vorrebbero essere all’americana, ma il cui risultato era solo un mucchio di roba ammucchiata in giro per il locale”, per la sparizione dei vecchi quartieri in favore delle nuove favelas scozzesi. A forza di cambiamenti finisce che an-
che il vecchio castello di Edimburgo “diventa un edificio come tutti gli altri. Che differenza c’è tra questo e i grandi magazzini BHS o Virgin Records?”. A Edimburgo tutte le brutture restano alla luce del sole, nulla viene tenuto nascosto nelle sue viscere, a differenza di altre città, linde e presentabili nelle facciate e sporche e squallide nel sottosuolo. La capitale scozzese non ha neppure la metropolitana; non la si può percorrere nervosamente sotto pelle, come si fa a Londra e NewYork, ma solo attraversarla con lentezza in taxi o in autobus, senza neanche gettare un’occhiata fuori dal finestrino. una città che un po’si vergogna di se stessa, che soffre di complessi d’inferiorità nei confronti della vera capitale Londra, dell’industriale Glasgow e persino di Dublino, che la sua indipendenza dagli inglesi l’ha ottenuta. Vero è che Edimburgo è molto cambiata rispetto agli anni in cui ne scrive Welsh; si è parlato di un vero rinascimento culturale ed economico che ha suscitato parecchi commenti e risalite in classifica nel borsino delle città più “in” d’Europa. Però nel 1990 o giù di lì Edimburgo non era al centro di nulla,
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né della finanza, né dello sport, neanche della musica pop, il prodotto britannico per eccellenza (a quei tempi stavano per emergere il fenomeno Manchester e il trip hop di Bristol). A sentire Welsh poi, a Edimburgo l’arte e la letteratura sarebbero assenti. Non è così, ma lui non può rendersene conto perchè tiene lo sguardo fisso solo a quella cultura popolare che ha reso famoso il Regno Unito nel mondo ma non viene mai presa in considerazione in Italia, dove la cultura o è “alta” o non è. Welsh non mette in evidenza neanche quello che gli italiani in vacanza da quelle parti considerano il vero tesoro delle città, gli spazi verdi. Quando si è in giro per le città britanniche è facile rintracciare turisti italiani, li si trova sempre in gran numero mentre bivaccano nei parchi del centro. Da noi le aree cittadine destinate agli alberi sono niente più che dei giardinetti rinsecchiti, seminati a ghiaia per nascondere la mancanza d’erba e rigidamente protetti da inferriate che li fanno sembrare alle gabbie dello zoo. Per noi vedere degli enormi spazi che si stendono a perdita d’occhio nel bel mezzo del traffico appare un miracolo urbanistico, e non possiamo non approfittarne. Ma i ragazzi di “Trainspotting” entrano nei parchi solo per lanciare sassate agli scoiattoli o per approcciare turiste straniere, e non hanno tempo di descriverne le bellezze ai lettori. erò anche il buon Irvine ha un suo orgoglio cittadino. Ci vogliono 240 pagine per fargli tirare fuori una frasetta che esprima un imbarazzato apprezzamento, preceduto da un attacco alla povera Prince Street, “stradaccia orrenda” distrutta dai turisti e dai negozi; “Però quando arrivi alla stazione di Waverley dopo essere stato via per un po’, esci, ti guardi intorno e dici: non c’è male, eh”. Il romanzo si chiude con una partenza in direzione di Londra, durante “una serata lurida e greve, con delle nuvole grosse e gonfie di pioggia”. La stazione dei pullman “sembra un ufficio di collocamento, trasferito all’aperto e cosparso di olio motore”. È l’ultima immagine, un po’ dimessa, di una città che se non altro ha condiviso sinceramente l’affanno e il degrado di Rents e dei suoi amici.
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I VIGLIACCHI DELLA STORIA
Ferdinando IV
Un’esistenza costellata di aneddoti bizzarri. Come quando, a Portici ricevendo i generali alleati, urlò che era ora di pranzo urtato dalle fanfaronate del russo Lascy. O quando, prima della fuga in Sicilia, si preoccupò di recarsi alle reali cacce di Mondragone per abbattare tutta la selvaggina “per non lasciare ai francesi neppure un cinghiale” orse Lina Wertmüller non se n’è resa conto, ma con Ferdinando e Carolina, il film del 1999 sui primi anni del loro matrimonio, ha davvero liquidato – e sotto Ciampi! – due secoli di lacrime risorgimentali sull’“illacrimata sepoltura” dei martiri della Repubblica Partenopea. Perché l’austriaca isterica e il “fetente” che si auto-assolve per “quelle quattro capuzzelle” tagliate nel 1799, alla fine risultano simpatici, e certamente più vicini ai vizi nostri di una Eleonora Fonseca Pimentel. Geniale la scena della tarantella apotropaica di Ferdinando (1751-1825), terrorizzato all’annuncio delle nozze combinate (1768) con la quinta arciduchessa, ultima rimasta all’imperatrice Maria Teresa dopo che le altre due figlie nubili erano morte di vaiolo; e quella della prima notte di nozze, alla quale entrambi si preparano indossando sottopanni opportune cinture di corni anti-iettatura. E ancora la scena finale del film, Re Nasone “morto di paura” dopo aver “visto”, coricato accanto a sé, il cadavere di Maria Carolina (morta in esilio undici anni prima) e averne dedotto “m’è venuta a piglià!”. Nel film compare pure – modellato su Giovanni Sartori (1924) – il marchese Bernardo Tanucci (1698-1783), il sapido toscano che fu primo ministro di Carlo di Borbone (1716-88) e reggente durante la minorità del figlio Ferdinando. “Principoni fortezze e cannoni, principini ville e casini”, soleva dire l’arguto politologo: e non
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La poco regale vita del “fetente che si auto-assolse per quelle quattro capuzzelle” tagliate nel 1799 di Virgilio Ilari
Rimasto vedovo di Carolina d’Austria, si mise a posto con la Chiesa sposando la sua amante, principessa di Partanna. Nel 1816 riunì i due regni di Napoli e Sicilia. Quattro anni dopo, costretto dall’insurrezione militare, promulga la Costituzione di Cadice
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aveva nemmeno bisogno di spiegarlo al re Lazzarone, così diverso dal tetro padre emigrato sul trono spagnolo. Fosse dipeso da lui, mai si sarebbe sognato di varcare il Garigliano per restaurare Pio VI a Roma: su Nelson e il generale Mack la pensava proprio come i suoi lazzari: “Mack,Tac e Pacca / venettero a Napule pe’ fa’ la cacca; / mo’ la puzza e po’ le botte; / simme lesti, Maestà”. Certo gli piacque entrare trionfalmente a Roma alla testa delle truppe il 29 novembre 1798, e l’8 dicembre, dopo le prime batoste, indirizzò un proclama agli abruzzesi, chiamandoli “bravi Sanniti, paesani miei” e promettendo l’imminente arrivo del “re e padre che cimenta la vita, pronto a sacrificarla per conservare ai suoi sudditi gli altari, la roba, l’onore delle donne, il viver libero”. Quasi un Berlusconi: ma due giorni dopo scappò da Roma in carrozza piantando in asso l’Armata e scambiò l’abito con l’aiutante di campo nella speranza che, in ca-
so di cattura, lo linciassero al suo posto. La manifestazione dei lazzari, che inneggiavano al re picchiando alle finestre con la testa impalata del corriere di corte e preteso traditore, terrorizzò perfino Maria Carolina, memore della fine della sorella Maria Antonietta di Francia. Fuggito da Napoli il 21 dicembre, Ferdinando tornò non prima del 23 giugno 1801, restando prudentemente a Palermo ancora nei due anni successivi alla riconquista sanfedista. (L’episodio, immortalato in un quadro di Ettore Cascone, del cadavere di Francesco Caracciolo che riaffiora dalle acque all’arrivo della reale fregata Sirena nel Golfo di Napoli, avvenne il 10 luglio 1799, durante una breve puntata del re, il quale rimase peraltro a bordo, senza mettere piede a terra). Coinvolta suo malgrado nello scontro anglo-francese per il dominio del Mediterraneo, negli anni seguenti Napoli subì una serie di vessazioni e umiliazioni, e alla
fine fu trascinata di nuovo in guerra dalle dissennate iniziative militari anglo-russe. In una vita costellata di aneddoti bizzarri, due, ricordati da Luigi Blanch, riassumono l’atteggiamento del re nella crisi del 1805-06: ricevendo a Portici i generali alleati, urtato dalle fanfaronate del decrepito generale russo Lascy, li congedò bruscamente dichiarando che era“ora di pranzo”. Poche settimane dopo, prima di fuggire nuovamente in Sicilia su un vascello inglese, si preoccupò di recarsi alle reali cacce di Mondragone ad abbattere personalmente tutta la selvaggina, per“non lasciare ai francesi neppure un cinghiale”. Di ritorno a Napoli, la real carrozza s’imbatté presso Capua nel Reggimento Albania che marciava faticosamente in Abruzzo, e il re volle informarsi dove stessero andando. “A combattere, Maestà”, gli rispose il colonnello Candrian.“E contro chi?” incalzò Ferdinando. “Ma, contro i francesi…” balbettò stupefatto il poveruomo. “Dio ve la mandi buona”, lo congedò il sovrano, tirando la tendina del finestrino. Istigato dalla combattiva regina, il 9 marzo 1813 tentò di riprendere il potere, che aveva dovuto cedere al figlio Francesco su pressione del proconsole inglese Lord Bentinck, ma dovette rinunziare di fronte alla durissima reazione del Lord britannico che fece occupare Palermo e perfino circondare la villa reale dalle truppe inglesi. Salvata a stento la corona con l’umiliante convenzione del 29 marzo e l’esilio della regina, la partenza di Bentinck per la Spagna e la crisi parlamentare del 28 luglio, con le dimissioni dei ministri liberali, gli dettero modo di pilotare la formazione di un governo reazionario di soli napoletani, licenziato però in ottobre al ritorno di Bentinck. L’impegno del generale nella campagna del 1814 in Toscana e Liguria, il trasferimento della rappresentanza diplomatica al console A’Court, conquistato dalle ragioni degli ambienti reazionari della corte e il sostegno di Luigi XVIII, gli consentirono finalmente di riassumere il governo e avviare il graduale svuotamento dei poteri del parlamento. Rimasto vedovo, si mise a posto con la Chiesa sposando la sua amante, principessa di Partanna. Accolto trionfalmente a Napoli il 4 giugno 1815 dopo la fuga di Murat, nel 1816 riunì i due regni, fin ad allora autonomi, di Napoli e Sicilia, nel nuovo Regno delle Due Sicilie. Costretto dall’insurrezione militare a promulgare il 13 luglio 1820 la Costituzione di Cadice, e chiamato a renderne conto alla Santa Alleanza, nel gennaio 1821, a Lubiana, richiese l’intervento austriaco che gli permise di restaurare il potere assoluto.
I SENTIMENTI DELL’ ARTE mpossibile dimenticare il cinema dedicato al cibo. Anche perché non ce n’è proprio tantissimo e quello che ci sovviene ha un che di profumato, di invitante, di succulento. Facile dunque carrellare con la memoria sui volti e gli sguardi di chi, irretito dalla tentazione più dolce del mondo, non riesce proprio a dire di no. Magari senza opporre la minima resistenza. Di solito quando si pensa al vizietto di gola raccontato dal cinema, viene in mente il Ferreri de “La grande abbuffata” e i suoi commensali in odore di morte pronti ad avventurarsi nel loro viaggio culinario senza ritorno. In realtà se c’è un film
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In una delle sequenze, il bambino osserva golosamente la vetrina di una pasticceria dove, tra le altre ghiottonerie, è esposto il dolce di panna e cioccolata (anzi, un capolavoro) che pullula di uomini e di donne che non sanno che farsene della tavola imbandita, è questo. Nell’indimenticabile equazione ferreriana il cibo non fa rima con vita, ma va a braccetto con la morte, corteggiandola in tutti i modi e morendo con il viso sprofondato in un budino a forma di seno femminile (la morte di Noiret, di fronte ad Andrea Ferreol). Per la negazione della gola intesa in senso vitalistico e ruspante, un’affermazione piena, selvaggia e rutilante di un desiderio di perdersi nel proprio oggetto proibito del desiderio. Torniamo indietro al 1984, anno capitale per la storia del cinema contemporaneo. Sergio Leone si congedava per sempre dalla regia, consegnandoci “C’era una volta in America”. Opera testamentaria attraversata dal sogno di un’America vista per l’ultima volta con gli occhi del bambino, riflessione accecante e potentissima sui tanti possibili tempi del racconto e infine piccolo, indimenticabile saggio sugli
LA GOLA Il film: “C’era una volta in America” di Sergio Leone
La madeleine di Dominique di Francesco Ruggeri
Due sequenze del film. La vicenda abbraccia un arco di quasi mezzo secolo, diviso in tre momenti: 1922-23, quando i protagonisti sono ragazzini; 1932-33, quando sono diventati una banda di giovani gangster; 1968, quando Noodles (R. De Niro) ritorna a New York
di una pasticceria. Fra le altre ghiottonerie, è esposta una madeleine troppo invitante per fare finta di nulla e tirare dritto. Il pensiero diventa fisso: comprarla subito. Ma non per lui. Attratto da tempo da Peggy (una ragazzetta del suo quartiere), Dominique non ci pensa due volte e corre a portargliela. È un piccolo omaggio, certo, ma che data la scarsità delle sue finanze e la fame che ha, assume ben altro peso. Giunto di fronte alla porta della giovane, bussa. Ad aprirgli è la madre della ragazza che gli dice di aspettare qualche minuto sulle scale. Peggy si sta asciugando i capelli. Saranno pure pochi minuti, ma a Dominique sembra un’eternità. Anche perchè continua ad avere il dolce in mano, pronto per essere mangiato prima che la panna si squagli e il cioccolato cominci a colare. Mai vista al cinema una madeleine tanto invitante. A questo riguardo qualcuno ha parlato di “madeleine proustiana”, splendido oggetto del piacere capace di scatenare scintille e accendere il desiderio. Ma anche in grado di astrarre e di portare avanti e indietro nel tempo. In un racconto pregno di vita, di morte, di scivolamenti temporali impazziti, di uomini e di donne incastrati in vite sbagliate, una piccola, semplice madeleine riesce a bloccare le lancette dell’orologio. A bypassare per un attimo la consecutio del racconto. A incidere nel corpo della storia la golosità struggente di un piccolo uomo che sta per chiudere per sempre la sua brevissima avventura terrena. Poco dopo
Era un piccolo omaggio per Peggy, ma data la scarsità delle sue finanze e la fame che ha il pasticcino assume un altro peso occhi di un bambino che non crescerà mai. Parliamo del meraviglioso Dominique. Ha dieci anni, una famiglia poverissima alle spalle e la consapevolezza che l’unico modo per vivere è quello di tirare a campare. Almeno per uno come lui. Il suo presente? Si traduce nel fortissimo senso di appartenenza alla piccola banda di quartiere capeggiata dall’a-
mico Noodles e dall’intrigante Max. Le sue giornate si trascinano fra le distillerie clandestine di whisky (ci troviamo in pieno Proibizionismo) e le scorribande con gli amici, piccoli furti compresi. Il centro del racconto leoniano? La progressiva, ineluttabile perdita dell’innocenza. Che per certi versi non c’è mai stata e che per altri scalcia dalle retrovie del raccon-
to e si fa avanti quando non te lo aspetti, quando l’hai già data per spacciata. I ragazzi di “C’era una volta in America” nascono già adulti, ma muoiono bambini. Fanno i gangster, ma i loro sguardi tradiscono tutto quello che c’è dietro. In primis paura e desiderio. In una delle sequenze immortali del film, Dominique osserva golosamente la vetrina
infatti, inseguito coi suoi amici da una banda rivale, cadrà a terrà ferito da una pallottola e morirà. Ma la sua piccola soddisfazione se l’è presa. Perché alla fine non ha resistito. E dopo aver atteso invano Peggy, ha ceduto alla tentazione. E si è strafogato il dolce, allontanandosi velocemente dalla casa della ragazza. L’ultima gioia di un condannato a morte.
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Cruciverba d’agosto
“Gli uomini preferiscono le bionde”
di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI
1) Il nome della cantante Schwarzkopf • 10) Scrisse Gli uomini preferiscono le bionde • 19) Blatte • 20) Scrisse Zanna Bianca • 22) Buon senso diplomatico • 23) Quando ....... Picciolin tornò di Francia... (Cecco Angiolieri, sonetto CIII) • 24) Kingsley, uno dei Giovani Arrabbiati inglesi (1927-95) • 25) Uno dei principali centri religiosi del Giappone • 26) Nota • 27) ....... degli Apostoli • 28) Ha scritto Lector in fabula • 29) Miscredente • 30) ....... Conroy, autore del romanzo Il Principe delle Maree • 31) Iniziali del compositore tedesco Telemann (1681-1767) • 32) Colpevoli • 33) Menare il can per l’....... • 34) Gatto di E.T.A. Hoffmann, citato da Rimbaud: Mais ni Renan ni le chat ....... • 35) O ....... petites amoureuses / que je vou hais! (Rimbaud) • 36) Golda, che fu a capo del governo di Israele • 37) Prov. del Veneto • 38) Un verbo che coniuga anche il cavallo, oltre al giocatore di tressette • 40) Vide la moglie farsi di sale e poi si accoppiò con entrambe le figlie • 41) Alice , scrittrice canadese (Le lune di Giove) • 42) Pubblico locale • 43) Vocabolario, dal nome di un lessicografo bergamasco del ‘500 • 45) Fratello di Caino • 47) ....... Alamos • 48) Poesiola di 5 versi (AAbbA) generalmente nonsense o sconcia • 49) Musicò la Wally (iniz.) • 51) “....... fresca aulentissima”, poesia di Ciullo d’Alcamo • 52) Presso la tomba innalzata a ....... Dardanide (Iliade XI, 370-1) • 53) Ritardo nel pagare • 54) Wang, pittore cinese del sec. VIII • 55) Denominazione di vigneto che produce vino pregiato • 56) Sigla obsoleta degli Uffici Postali • 57) J. M. de Queiròs, scrittore portoghese • 58) “Il ....... del rasoio” romanzo di William S. Maugham • 59) “Siete voi qui, ....... Brunetto?” (Inferno, XV) • 60) In guerra con l’Irak dal 1980 al 1988 • 61) La “chiocciola” • 62) Hirobuni ......., modernizzatore del Giappone • 63) ....... Magna • 64) I Galli che fondarono Bologna • 65) Snello, presto • 66) Va all’assalto nel libro d’esordio di Ottiero Ottieri • 69) Dramma di Maxim Gor’kij (1902) • 71) Pedro ....... y Paret, scrittore spagnolo (1745-1824) • 72) Raccolta di voci oscure in calce a un libro
VERTICALI
1) Nome di due storici greci, di Abdera e di Mileto • 2) Lo fanno venire alle ginocchia i noiosi • 3) ....... i capegli (G. Parini, Il Giorno) • 4) ....... Tomé, isola del Golfo di Guinea • 5) Scrisse Piccolo mondo antico (iniz.) • 6) Un ambito Premio Letterario • 7) Re di Atene, padre di Teseo • 8) Notiziario regionale • 9) ....... Fi • 10) Città dell’India, nel Rajastan • 11) Serpente velenoso • 12) L’incognita • 13) Iniziali di Kezich, critico cinematografico • 14) Altrimenti chiamato • 15) Paradise di John Milton • 16) ....... step, Air ....... • 17) Oppure • 18) si fan sentir con li ....... dolenti (Inferno, IX) • 19) Ringo ....... dei Beatles • 21) .......-glicerina • 24) Orride, tetre • 28) La RAI di prima della guerra • 29) Erano i capei d’oro a l’....... sparsi (Petrarca) • 30) Drammaturgo tedesco (191682) famoso per il Marat-Sade – da cui nel 1966 Peter Brook trasse un film con Glenda Jackson • 31) ....... Pampaloni, critico letterario • 33) Pungente, astioso • 34) Granturco • 35) ....... Antonelliana • 36) Andrzej regista polacco (Fortuna da vendere) • 38) “Il Lupo della .......” film (del 1949) con Amedeo Nazzari • 39) Padre del 52 or. • 40) “...ché mal sai lusingar per questa .......” (Inferno, XXXII – parole rivolte a Dante da Bocca degli Abati) • 41) Gatti • 42) Famoso calciatore inglese la cui storia è narrata in un film con John Lynch (1999) • 43) Re dei Persiani • 44) ....... Capponi • 45) Eroe nazionale ungherese • 46) Personaggio comico del Sogno d’una notte d’estate • 48) Personaggio della Cavalleria rusticana • 49) Personaggio dell’Enrico V di Shakespeare • 50) Zeppe • 52) Il sangue degli dèi • 53) Kundera, romanziere ceko (Amori ridicoli, 1964) • 55) dal quale in qua stato gli sono a’ ....... (Inferno, XXVII – a parlare è Guido da Montefeltro, consigliere fraudolento, che allude a Papa Bonifazio VIII) • 57) “L’....... c’est moi!” • 58) “....... di Londra” film con Alberto Sordi • 59) ond’ei levò le ciglia un poco in ....... (Inferno, X) • 60) Stravinskij • 62) Nasce in Engadina e sfocia nel Danubio • 63) Governo Militare Alleato • 64) Un carnet de ......., film di Julien Duvivier (1937) • 65) Aria pesante • 67) Negazione • 68) “....... bel dì vedremo” • 69) Bergamo • 70) Iniz. di Silone
L’Almanacco LA POESIA NOTTURNO
La collina è notturna, nel cielo chiaro. Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena e accompagna quel cielo. Sei come una nube intravista fra i rami. Ti ride negli occhi la stranezza di un cielo che non è il tuo.
La collina di terra e di foglie chiude
Hanno detto di… educazione La buona educazione consiste nel nascondere quanto bene pensiamo di noi stessi e quanto male degli altri. Mark Twain
D&R Perché i treni viaggiano a sinistra? La ferrovia è stata inventata in Inghilterra, dove la circolazione è a sinistra. Per questo le prime ferrovie che si sono diffuse in Europa hanno mantenuto l’impostazione inglese. I primi treni sono nati nelle miniere inglesi, come perfezionamento del rudimentale sistema di trasporto del minerale su carrelli, che correvano sopra guide di legno o di ferro. Secondo altri, invece, i treni viaggiano a sinistra perché
nelle prime locomotive a vapore il posto dei macchinisti era a sinistra, per non essere colpiti dalla pala dei fuochisti mentre spalavano il carbone dal vagone sul quale era caricato il combustibile (tender) alla caldaia della locomotiva. Per consentire quindi ai macchinisti di vedere bene, la segnaletica sui binari era posta sulla sinistra.
L’origine di… pubblicità Sui muri dell’antica Pompei (I sec. d.C.) sono state ritrovate scritte che annunciavano feste, gare sportive e spettacoli. Il primo annuncio a mezzo stampa risale però al 1479 e venne fatto dall’editore inglese W. Caxton per pubblicizzare i propri libri. a cura di Maria Pia Franco
con la massa nera il tuo vivo guardare, la tua bocca ha la piega di un dolce incavo tra le coste lontane. Sembri giocare alla grande collina e al chiarore del cielo: per piacermi ripeti lo sfondo antico e lo rendi più puro.
Ma vivi altrove. Il tuo tenero sangue si è fatto altrove. Le parole che dici non hanno riscontro con la scabra tristezza di questo cielo. Tu non sei che una nube dolcissima, bianca impigliata una notte fra i rami antichi.
DI
CESARE PAVSE
LA SOLUZIONE DI IERI
“Se quel guerrier io fossi...”
il nuovo bimestrale di geostrategia in edicola il terzo numero del 2008 120 pagine per capire il pianeta • Libano, l’incognita Suleiman • Kuli Khan, il Napoleone della Persia • Il mare nostrum secondo Sarkozy Mario Arpino, Heidi Holland, Virgilio Ilari, Carlo Jean, Michele Marchi, Andrea Margelletti, Mario Rino Me, Carlo Musso, Andrea Nativi, Michele Nones, Emanuele Ottolenghi, Daniel Pipes, Luigi Ramponi, Stefano Silvestri, Maurizio Stefanini, Davide Urso
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mostre La solare terra di Toscana raccontata da pittori e scultori
Da Cardi a Burlamacco, pieno d’arte in Versilia di Mario Bernardi Guardi è Umberto Bonetti aeropittore e c’è Umberto Bonetti “carnascialesco” tra gli artisti in Mostra ai Musei Civici di Villa Paolina Bonaparte a Viareggio (Pittura e realtà. 1900-1990. La figurazione a Viareggio nel panorama dell’arte italiana, aperta fino al 20 settembre. Catalogo edito da Caleidoscopio, pp.118, euro 25). Ed è giusto così perché l’artista versiliese (nel 2009 ricorre il centenario della nascita) è uno degli alfieri di quella effervescenza “movimentista”, che nella prima metà del secolo scorso volle esprimersi attraverso una variegata molteplicità di linguaggi. Dove il potente appello innovativo, la tensione polemica “rivoluzionaria”, lo slancio avanguardistico di respiro “europeo” si coniugavano all’amore carnale per le radici marine e terragne, alla vocazione identitaria del “ritorno alla patria”, ai fremiti nazionalpopolari e libertari.
C’
Il che significa Lorenzo Viani e la sua lezione. Magari in un gran tumulto di filiazioni e contrasti, appartenenze e lacerazioni, che talvolta sembrano partorire aspri addii alla casa del “padre”ma che sono invece un attestato di crescita e di conquistata autonomia. Un riconoscimento reso a Lorenzaccio, «Buddha da uccidere».
gnatore e il caricaturista, si occupava di grafica pubblicitaria, di scenografia e di cinema. E amava il Carnevale.
Così, nel ’31 creerà il Burlamacco, la celebre maschera viareggina, l’ultima maschera italiana. Emblema di una festa in cui malinconia beffarda e precario vitalismo si danno la mano. Segni, in fondo, del Novecento,
secolo “breve”e “sterminato”. Colorate ebbrezze di Versilia. Mille facce: solare, selvaggia, vacanziera, povera ma bella, laboriosa e affannata, ricca, oziosa e viziosa, delirante, luttuosa, festosa, bizzarra, umana troppo umana, sovrumana e disumana. Sempre sovraccarica di umori, dunque molteplice e moltiplicata, mare, bosco e marmo. Mille artisti, di casa o “invasori”: Puccini, D’An-
nulla, perché tutto è prezioso, ma c’è chi più ti riempie sguardo e cuore: Galileo Chini, Federico Sartori, Moses Levy, Oreste Paltrinieri, Renato Santini, Alfredo Catarsini. Il Guttuso, carne e sangue, del Bambino dormiente e della Spiaggia, il Marco Dolfi di Emozione e di Cardi, che da nature spezzate, aride, sorprese dalla morte, estrae essenze, arcani emblemi vitali.
Un percorso espositivo lungo quattro secoli, con l’arte che si intreccia alla storia, e col Fiume Regale che «per mezza Toscana si spazia» (Purgatorio, canto XIV), bagnando (il che vale anche da “benedizione”) terre che la natura ha “disegnato” con particolare trasporto amicale. All’arte, dunque, l’arduo compito di “reinventare” questa bellezza, così compiuta nella sua
plice”; il Novecento in cui scenari e figure “tradizionali” sono spesso “visitati” dall’inquietudine esistenziale o dalle violenze della storia: si pensi all’Uomo sul ponte di Lorenzo Viani e a Firenze ferita, rovine della guerra presso il Ponte Vecchio di Giulio Salti. A Camaiore sono di scena - e in mostra - la devozione, l’accoglienza, l’umile sottomissione
Bonetti, Guttuso, Dolfi e Civitali sono solo alcuni degli artisti che tra Viareggio e Camaiore rimarranno in esposizione fino al prossimo ottobre
sobrietà, traducendola in stile, linguaggio, poetica. Il viaggio è tanto lungo, quanto affascinante. Di stazione in stazione: le preziose incisioni seicentesche dedicate alle vedute di Firenze, le acqueforti, i disegni, gli acquerelli dominati da una rigorosa costruzione prospettica; l’Ottocento dei “macchiaioli” dove, con Niccolò Cannicci, Egisto Ferroni, Giovanni Fatto-
alla volontà di Dio (Ecce Ancilla Domini. L’iconografia della Vergine Annunziata in Matteo Civitali scultore, Museo di Arte Sacra, fino al 30 settembre. Catalogo edito da Pacini, pp. 94, 17 tavole a colori, euro 15). Quello dell’Annunciazione è davvero il Dono a chi si dona. La maternità come sublime elezione e come pia offerta di sé perché un imperscrutabile destino di salvezza si compia. L’Annunziata è l’angelico annunzio vòlto a Lei ed è Lei che, piena di grazia, annuncia al mondo il Figlio. Non c’è storia più alta: e anche un miscredente arretra turbato dinnanzi alla Vergine che sarà Madre.
In alto: a destra, La pescaia a San Niccolò di Silvio Polloni; a sinistra, Carolina Tommasi Ferroni di Pietro Annigoni. Sopra: Caffe a Bagni di Lucca di Lorenzo Viani, Cantiere a Viareggio di Moses Levy, Paesaggio d'Arno di Lorenzo Gelati. A lato: San Paolo a Ripa d'Arno di Luigi Gioli Tramonto d'autunno di G. A. Lori
Ma dicevamo del poliedrico Umberto, allievo di Viani e amico di Marinetti. Gran bel tipo. Disegnava le sue “aeroviste” dopo essersele gustate dall’alto, in presa diretta aerea (era lui, naturalmente, a pilotare il velivolo), faceva il dise-
nunzio,Viani, Pea, Ungaretti, Papini, Soffici, Carrà, Montale, Longhi, Longnesi, Malaparte, Maccari, Moravia,Treccani,Tobino… E in mostra, tante “figurazioni”e “trasfigurazioni”, per raccontare un secolo di vita.Ti ci tuffi, ti fai cercatore, non butti via
Da Viareggio a Seravezza, Versilia “profonda”, per la mostra: Terre d’Arno. Nell’arte figurativa dal Seicento al Novecento (Palazzo Mediceo, fino al 12 ottobre. Catalogo edito da Bandecchi & Vivaldi, pp. 230, euro 30).
ri, Telemaco Signorini la rappresentazione della vita e del lavoro sull’Arno si impone come realtà palpitante, insieme alle icone del paesaggio “luogo dell’anima”, dunque spazio di suggestioni “contemplative” propiziate da una natura “com-
Da duemila anni la Chiesa e l’immaginario popolare si interrogano su questo Mistero. E l’arte cerca di rappresentarne la “forma” sublime. Le Annunziate - cinque sculture lignee attribuite allo scultore lucchese Matteo Civitali (1436-1501), per la prima volta esposte insieme “incarnano” questa attesa di Dio. A partire dalla Madonna del Parto di Camaiore, che il recente restauro ci restituisce nel suo assorto silenzio. Così percepibile da chi, guardando, prova ad “ascoltare”.
letture
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La psicologa Silvia Bianconcini ha raccolto una serie di casi tra ignoranza, pregiudizio e diffidenza
Bufale da lettino, nel segno di Freud di Pier Mario Fasanotti
Q
uel che segue è un fatto vero, anche se può apparire incredibile. Un uomo formula questa domanda alla sua psicoterapeuta:«Dottoressa, se io uccido qualcuno inconsciamente, Dio mi perdona? Se per caso, in preda all’ira perché sono stato tradito da mia moglie, la uccido, pur senza volerlo, Dio mi perdona?». Evidentemente alcuni - ma credo siano in realtà molti - usano la parola “inconscio” come sinonimo di “contro la mia volontà”. Lo psicologo, o lo psicoanalista, viene visto o come un cialtrone o come un mago in grado di risolvere tutti i problemi della mente e dell’anima. Sono relativamente pochi coloro che sanno che la psicologia è estranea sia alla scienza esatta sia alla stregoneria, e che quindi ha dei limiti. Permangono comunque pregiudizi, anche in persone di buona tenuta razionale o culturale. Per esempio alcuni hanno la sensazione che trovarsi dinanzi a un analista sia una situazione imbarazzante perché l’esperto sarebbe in grado di “leggerti nel cervello”.
L’uso di un certo gergo psicoanalitico ormai dilaga. Con pericolosa leggerezza. In tram, al bar, nei salotti le parole “tecniche”- dietro le quali ci sono volumi e volumi di studio - sono diventate di moda. Sempre più spesso si sente suggerire, a qualcuno che ha perso una persona cara, “devi elaborare il lutto”. Oppure, accennando a un amico che attraversa un periodo difficile o più semplicemente soffre di cattivo umore, spunta dal cilindro linguistico la parola “depressione”. Che molti ormai associano, in forma automatica, alla tendenza a uccidere. Ma attenzione: di solito il depresso vero tende a far male a se stesso, non a diventare killer. La psicologa Silvia Bianconcini ha raccolto in un libro divertente e documentato (Psicobufale, Rizzoli, 180 pagine, 15 euro) tutta una serie di casi che evidenziano l’ignoranza, il pregiudizio o la diffidenza verso il “medico dell’anima”. Dicevamo dell’inconscio. Tutti o quasi l’associano a Sigmund Freud. Come se nessuno prima di lui ne avesse parlato. L’autrice di Psicobufale osserva giustamente che basta scorrere Breve storia dell’inconscio di Frank Tallis per scoprire che «già ai tempi di Sant’Agostino si parlava di qualcosa che poteva corrispondere a questo concetto». Come mai, allora, si tira in ballo sempre il medico viennese? «Intanto - spiega Silvia Bianconcini - prima di Freud molti ne parlavano, ma usavano anche altri termini: “pensiero senza
Sopra la copertina del libro Psicobufale. A destra Sigmund Freud, neurologo, psicoanalista e filosofo austriaco. Sotto Il suo celebre divano, ora al Freud Museum di Londra
Molti terapeuti non ”ordinano” ai pazienti di sdraiarsi, mentre il padre della psicanalisi lo utilizzava per non essere fissato dai suoi clienti immagini”,“piccole percezioni”, eccetera. E poi un’altra cosa: forse chi c’era prima di Freud alludeva a un qualcosa che assomigliava molto all’inconscio di Freud ma non era esattamente la stessa cosa». In effetti il vecchio caro Sigmund spiegò che «la nostra mente funziona su due livelli: quello conscio è quello in cui noi siamo consapevoli dei nostri pensieri e sentimenti; il livello inconscio, invece, è quello in cui noi non ne siamo consapevoli». Altra affermazione (vera) di una paziente (vera): «Inconsciamente lui mi manca, o forse mi manca davvero. È un momento difficile». L’autrice del libro trae le sue conclusioni dicendo: «Come se la mancanza inconscia non fosse vera. L’idea che trapela (inconsciamente) è che tutto quello che è inconscio dentro di noi non sia vero, o comunque lo sia molto meno di quel che è conscio».
Altre idee ridicolmente sbagliate riguardano il famoso lettino. Se intimiamo qualcuno a immaginare al luogo dove si pratica la psicoterapia, è inevitabile sen-
tir parlare del lettino. Complici tanti film americani: è il cosiddetto effetto Hollywood. In effetti questa strana chaiselong fa parte dell’arredamento dello studio di molti psicologi. Ma non è un oggetto essenziale e immancabile. Anzi succede, nella realtà, che moltissimi terapeuti non “ordinino”ai loro pazienti di sdraiarsi sul lettino. E anche su questo particolare spunta Freud. Lui lo usava davvero. È curioso oltrechè interessante sapere perché. Freud, dopo aver studiato a Parigi dove aveva appreso tra l’altro la tecnica dell’ipnosi, aprì uno studio a Vienna. Nella sua città, falliti certi tentativi di ipnosi, si chiese se non ci fosse un sistema più “sicuro”per ottenere certi risultati, ossia entrare nel groviglio dell’anima di chi gli stava di fronte. Abbandonata l’ipnosi, cominciò a far parlare liberamente le persone. Di qualsiasi cosa. A ruota libera: pensieri, sogni, fantasie. Ecco l’asse portante della nuova scienza, ossia della psicoanalisi. D’accordo, ma perché il lettino? Se si conosce la biografia di Freud non si può tralasciare il fastidio
che egli provava a essere fissato tutto il giorno dai suoi pazienti. L’invenzione del lettino finisce qui. Rimane il fatto che di solito quando si conversa con una persona, non la si invita a sdraiarsi. Ci sono tuttavia situazioni in cui la posizione sdraiata «si associa a un clima particolarmente rilassato e intimo».
Silvia Bianconcini offre spiegazioni ulteriori sul lettino:«La posizione sdraiata, la limitata libertà di movimento e di campo visivo, la maggiore libertà dell’analista, il non poter vedere l’analista mentre lui può vedere il paziente: tutti questi elementi-assieme al fatto che è il paziente ad aver bisogno dell’analista e non il contrariopossono evocare la situazione tipica dei bambini. Sono i bambini, infatti, ad avere meno libertà di movimento e meno autonomia decisionale rispetto agli adulti. Molti anzi sostengono che sia proprio questa specie di “regressione” allo stadio infantile il vero senso dell’uso del lettino, perché sarebbe grazie a questa regressione che può svolgersi l’analisi. Tanto che qualcuno si spinge a dire che senza il lettino non si può fare una vera psicoanalisi».
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musica
Torna in scena all’Opera Festival di Pesaro, fino al 21 agosto, l’opera di Gioacchino Rossini che nel corso del tempo ebbe assai poco successo e rarissime repliche
Ermione,l’eterno fiasco di Jacopo Pellegrini he un’opera, vuoi letteraria vuoi artistica o musicale, dalla critica e persino dall’autore percepita e giudicata «progressiva», sperimentale, in una parola «interessante», appaia anche risolta sotto il profilo estetico, in una parola «bella», non sempre è detto; anzi, quasi mai. Eccezione luminosissima alla regola, Ermione, ora per la settima volta ripresa in Italia dai tempi della prima (27 marzo 1819) e per la seconda presente nei cartelloni del pesarese Rossini Opera Festival (repliche fino al 21 agosto): di essa «azione tragica in due atti», da Andrea Leone Tottola desunta spesso e volentieri alla lettera dall’Andromaque di Racine (1667), l’artefice stesso della musica, Gioachino Rossini appunto, ebbe a dire in una lettera alla madre: «Temo che il sogetto sia troppo tragico». Intendendo con ciò riferirsi alle aspettative e al gusto del pubblico partenopeo, cui il lavoro era destinato.
C
re dinamiche, facendo deflagrare il suono di certe consonanti (un po’ alla maniera di Cecilia Bartoli, alla quale sembra ispirarsi anche - e non è un’idea brillante - nell’eseguire a singhiozzo le fitte catene di agilità), la Ganassi, pur sempre un mezzosoprano per quanto acuto, domina agevolmente una tessitura anfibia certo, ma in molti passi di pretto stampo sopranile. L’esito maiuscolo sul piano tecnico completa ed esalta un ritratto della principessa spartana cupo introverso e colmo di tristezza anche negli sfoghi d’ira feroce. Instabilità emotiva ed eccessi sentimentali affliggono a tal punto i personaggi centrali che la rete dei loro rapporti può essere schematizzata in un quadrilatero perfetto: Oreste ama Ermione che ama Pirro, suo promesso sposo, a sua volta innamorato di Andromaca, che in Oreste, inviato dei principi greci, ha un nemico acerrimo e spietato, deciso com’è a ucciderle il figlioletto Astianatte. Oltretutto, il quartetto combaciava colle
Non si sbagliava: al Teatro di San Carlo Ermione andò incontro a un fiasco così solenne da cadere nell’oblio fino al 1977. Eppure, di là dall’esibita arditezza formale ed espressiva, o meglio, proprio in virtù di quest’audacia estrema, lo spartito s’impone all’ascolto per la sua prorompente felicità inventiva, per la sua bellezza, infine. A dirla tutta, anche a Pesaro, ventuno anni fa, Ermione fece cilecca; la dirigenza d’allora, ch’è poi la stessa di oggi (Gianfranco Mariotti sovrintendente ad vitam), riversò la colpa sulle celebrità canore convocate per l’occasione: Montserrat Caballè, Marilyn Horne, Rockwell Blake, Chris Merritt. Macché: il cosiddetto star system, a saperlo maneggiare, è una risorsa, anche preziosa.Tant’è vero che oggi, sul palco di quell’ingratissimo spazio che ha nome Adriatic Arena (un palazzetto dello sport riadattato a teatro), udiamo, vediamo e ammiriamo una «cantante di cartello» quale Sonia Ganassi combattere contro la defatigante parte protagonistica (sta in scena per oltre tre quarti del tempo) e uscirne vittoriosa. Mantenendo l’emissione più leggera che d’abitudine, lavorando sulle sfumatu-
Alla prima assoluta, il 27 marzo del 1819, al Teatro di San Carlo di Napoli, il compositore andò incontro a una tale e solenne disfatta che la sua opera cadde nell’oblio addirittura fino al 1977 forze vocali disponibili sulla piazza napoletana: in testa alla locandina la spagnola Isabella Colbran, di lì a qualche anno prima signora Rossini; indi Andromaca, il contralto Rosmunda Pisaroni, al Rof degnamente sostituita da Marianna Pizzolato.
Un dotto musicologo, presente alla generale, riscontrava una qual mancanza di peso nel registro grave: senza dubbio trattasi di voce giovane, ancora in fieri, ma il colore è di vero mezzosoprano scuro, ottima l’impostazione, la pronuncia più chiara che nella Ganassi, tutta foga l’interprete. Non sullo stesso piano i due tenori, pur encomiabili. Nella tessitu-
musica
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e ra grave, da «baritenore», di Pirro, disseminata di acuti raggiunti con salti impervi (prerogativa del fu Andrea Nozzari), Gregory Kunde va incontro a delle difficoltà: rispetto al ricordevole Otello dell’anno passato qui si tratta più di cantare che d’interpretare; tuttavia, l’immagine ch’egli ci trasmette di Pirro, monarca fragile nella sua ostentata fierezza, è da tenere a mente. Oreste, concepito su misura del tenore acuto o «contraltino» Giovanni David, trova in Antonino Siragusa un timbro franco squillante sicuro, una dizione spiccata, ma quel modo di abbordare il registro alto allargando a dismisura il suono non mi pare auspicabile né per gli esiti futuri della sua bella carriera, né per gli orecchi degli astanti.
A Pesaro nell’87 Ermione incespicò non solo sulla protagonista, la Caballè, che più sbagliata non si poteva, e sulla stremata Horne in Andromaca, ma soprattutto sulla messinscena (regia di Roberto De Simone) e sulla bacchetta (Gustav Kuhn, riconvocato quest’anno per Maometto II), del tutto inadeguate. Nella versione attuale il testimone è passato a due cugini primi, gli Abbado Daniele (regista) e Roberto (direttore). Suggestivo l’impianto scenico fisso (di Graziano Gregori), un declivio, che aprendosi mostra le segrete dei prigionieri troiani o i sotterranei in cui s’aggira Ermione all’inizio della scena V, atto II - uno sconvolgente recitativo accompagnato, in cui, nonostante i dinieghi degli esperti, la lezione dell’ultimo Gluck (Ifigenia in Tauride) e dell’ultimo Mozart (Clemenza di Tito) si avverte eccome - con in cima un piano riservato alle tenzoni amorose e all’ufficialità politica; sul fondo un’ampia apertura composta di varie ante e appoggiata sopra un girevole (che gira troppo). I costumi di Carla Teti definiscono con immediatezza posizioni e tensioni reciproche nel contesto della vicenda: divise per i maschi, nero per Ermione, rosso per la di lei confidente Cleone (Irina Samoylova, brava, come bravo è Riccardo Botta, Attalo), color naturale per Andromaca. Con in più, per Pirro, re dell’Epiro (una terra di confine), un che di barbarico nel manto porpora e nella corona con pendenti. Sul fronte registico (collaboratore Boris Stetka) spiccano la cura, inusuale in Daniele Abbado, delle relazioni tra personaggi e alcuni gesti forti (la minaccia armata di Ermione contro Astianatte, sventata da Pirro nel Finale I). Pretestuose invece, certe soluzioni paraespressioniste come il rosso ’segnale di tragedia’ (fondale della scena, effetti luce - di Guido Levi) o le maschere grottesche dei mimi-militari. La musica di Ermione, è vero, sprizza un’energia apparentabile in più occasioni colla violenza (non a caso si tratta di opera relativamente breve, con l’atto II che dura solo 45 minuti) ma, come è improprio liquidare tutto Rossini sotto l’etichetta del «bello ideale» neoclassico (è questo l’indirizzo prevalente della critica da un quarantennio a questa parte), così sarebbe forzare
la realtà dei fatti annetterlo alle plaghe romantiche. Non compostezza marmorea, non indifferenza al pathos, ma un tono tragico perennemente sostenuto, un dramma dove gli individui, per quanto nettamente caratterizzati come nel nostro caso (e non più, come nel Settecento, veicoli di affetti stereotipati), sono al tempo stesso latori di princìpi e sentimenti universali. Roberto Abbado, pur potendo contare su un’orchestra non di tutto riposo (Comunale di Bologna) e su un coro mediocrissimo (da camera di Praga), ha ben colto questo momento di transizione tra due diverse visioni dell’arte (quindi del mondo), sul cui crinale si pone Rossini: facendo leva sulla pervasiva dimensione ritmica (marce inni e pagine con andamento anapestico imperversano in Ermione; tra gli abbelli-
Torna in scena all’Opera Festival di Pesaro, fino al 21 agosto prossimo, la nuova messinscena, diretta da Gianfranco Mariotti, di ”Ermione” (nelle foto, alcuni momenti dell’attuale corpo teatrale), l’opera di Rossini che nel tempo ebbe poco successo
Stessa sorte ebbe nel 1987 a Pesaro, dove ”Ermione” inciampò malamente sulla protagonista, la Caballè, che più sbagliata non si poteva, e sulla messinscena diretta dal regista Roberto De Simone menti, un ruolo essenziale è giuocato dal trillo) e sull’armonia scabra (dissonanze, cadenze evitate, brusche transizioni da una tonalità all’altra) mantiene la tensione alta senza uscire di carreggiata stilistica.
Nei momenti più distesi, concepiti da Rossini non quali fughe dal «dramma» ma come pause necessarie per alleggerire l’oscura angoscia dominante (cori vari di donzelle e cortigiani, la patetica cavatina di Oreste, a tratti quasi duetto con Pilade, un efficientissimo Ferdinand von Bothmer; il duettino tra Pilade e Fenicio Nicola Ulivieri, autorevole nonostante qualche difficoltà in alto), il direttore evidenzia i tratti più incisivi (accompagnamenti di scale veloci o disegni in ostinato). Laddove al contrario, il dramma in azione, il «troppo tragico» del «sogetto» per ripetere le parole del compositore, detta la forma dei pezzi, scompaginando le convenzioni poste alla base del melodramma italiano nell’Ottocento (convenzioni appena instaurate ai tempi di Rossini, pertanto
ancora ricche di virtualità), com’è il caso della Gran Scena di Ermione, dei due duetti Ermione-Oreste, della sezione lenta nel Concertato finale dell’atto I, ma anche di vari anfratti nelle arie di Pirro e Oreste, allora il podio sprigiona fiamme ben temprate o si abbandona a estasi liriche, riflesso entrambe di insanabili manie depressive.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Ha fatto bene Trenitalia a licenziare 8 fannulloni? UN PROVVEDIMENTO PIÙ CHE GIUSTO, SPERO CHE GLI OTTO NON TORNINO AL LAVORO
VA BENE PUNIRE I DIPENDENTI FANNULLONI, MA IN QUESTO CASO BASTAVA UNA SOSPENSIONE
Per avere bene in chiaro il motivo della mia risposta, occorre fare un breve riassuntino della faccenda. Perfette a questo proprosito le prime righe della notizia riportate molto bene dal sito del Corriere della Sera, che lo scorso 12 agosto scriveva all’incirca così: «Otto dipendenti di Trenitalia sono stati licenziati in tronco: uno di loro è stata sorpreso da un superiore mentre timbrava i cartellini degli altri sette colleghi, che in quel momento erano in quel momento in procinto di salire su un treno per tornare a casa in anticipo. È accaduto nell’officina di piazza Giusti, nel quartiere genovese di San Fruttuoso. Il capoufficio, sequestrati i cartellini, aveva riferito l’episodio alla direzione dell’azienda. Dopo circa un mese dalla denuncia, per gli otto lavoratori, cinque operai esperti e tre apprendisti assunti a tempo determinato, è scattato il licenziamento senza preavviso». Orbene, come si può essere in disaccordo con Trenitalia? Credo che lo stesso provvedimento sarebbe stato preso da qualunque altro Ente, pubblico o provato che sia. Io, comunque, avrei senz’altro fatto lo stesso.
Pur riconoscendo che gli otto ferrovieri licenziati da Trenitalia hanno commesso una «leggerezza», la Filt Cgil di Genova ha definito il provvedimento alquanto «sproporzionato» e ha fatto sapere che i licenziamenti sono stati impugnati davanti al Tribunale del lavoro. A ricostruire la vicenda, a mio avviso in modo illuminante, è stato Fabrizio Castellani della Filt Cgil: «Il loro turno iniziava alle 8 e finiva alle 16, ma hanno eseguito una prestazione straordinaria fino alle 18,02 secondo quanto risulta dal verbale della riconsegna dei locomotori riparati. Quindi gli emolumenti sarebbero stati comunque riconosciuti loro fino a quell’ora indipendentemente dalla timbratura del cartellino. Per guadagnare tempo sono andati a lavarsi dando i loro cartellini al collega affinché li timbrasse per tutti. Per una cosa di questo genere il contratto prevede una sanzione che, se applicata con durezza, poteva raggiungere al massimo 5-6 giorni di sospensione. Nessuno avrebbe mai pensato a un licenziamento senza preavviso». Mi auguro che adesso, in vista di una causa, gli otto «fannulloni» possano riavere il lavoro.
Marco Valensise - Milano
LA DOMANDA DI DOMANI
Come trascorrerete la giornata di Ferragosto?
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Amelia Giuliani - Potenza
DA UNA PARTE È LECITO LANCIARE UN SEGNALE, TROPPO SPESSO PERÒ SI TENDE A ESAGERARE Difficile dire «giusto» o «sbagliato» in modo netto. Da una parte la campagna anti-fannulloni lanciata dal ministro Brunetta è stata a mio giudizio un’ottima idea, e in un’Italia come questa credo proprio sia un provvedimento sacrosanto. Dall’altra però, guardando bene il caso specifico di Trenitalia, penso che si tratti di una pena eccessiva. Gli otto dipendenti licenziati, giudicati, appunto, «fannulloni», hanno certamente compiuto una palese e grave leggerezza, ma altrettanto sicuramente punibile con una sospensione dal lavoro e con la privazione dello stipendio per un certo numero di giorni. Ma non certo addirittura con un provvedimento di licenziamento in tronco senza un minimo di preavviso. Che dire, l’Italia decisamente non ha vie di mezzo.
TEMPERANZA Renato Brunetta che si presenta in parlamento tronfio con Titti, Di Pietro sposato con Susanna beccato in giro per Roma bocca a bocca con una dolce sconosciuta, sul ministro Carfagna e Berlusoni e delle sue scornate con Veronica poi…, Carla Bruni e Sarkozy, Bush e la Rice. Oltre, se non cambio pianeta, non posso andare, visto che ho iniziato dal più piccolo e ho finito con il Presidente degli Stati Uniti. “Cosa sta succedendo?”. “Affari personali“. “Si è vero, ma sono uomini pubblici”. “D’accordo, ma avrà ognuno diritto comunque di avere la propria vita privata”.“No, ovvero si, ma nel senso che la loro vita privata diventa per forza pubblica”.“Perché ci ficchiamo il naso noi”.“Io? Loro, se solo lo volessero e fossero prudenti, potrebbero evitare questa visibilità”. “Ma tutte le persone celebri prima o poi finiscono in queste situazioni”. “Ma che dici? Non sono mica dei calciatori o delle pop stars? De Gasperi, De Grulle, Tatcher, Regan…”.“Ma va…e allora Clinton?”.“Accidenti!Fregato!”. Sì forse è pro-
ALLUCINAZIONI In una mano il sole e nell’altra una foglia di coca: è così che questo sacerdote peruviano ha celebrato una festa locale a Lima. Antiche leggende raccontano che fu proprio il Sole, insieme alla madre Terra, a creare la pianta di coca per eliminare i sintomi di fame e stanchezza
LE OPPOSIZIONI PRIMA O POI GOVERNERANNO Per quei cari e bravi ragazzi delle opposizioni al governo in carica le cose non vanno come dovrebbero e la luce in fondo al tunnel, dopo l’inconsueta finanziaria blitz presentata dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, appare lontana. Tanto lontana che ci dicono che è meglio abbandonare ogni speranza nel breve periodo. Tale giudizio è espresso da politici che, in larghissima parte, si considerano in ripresa e vicini a governare in prima persona. Un giudizio di un’opposizione in fase pregovernativa o quasi governativa, insomma, più che da governo ombra. I Nostri già sanno e sentono che, in futuro, trionferanno e governeranno. In base ai rumors di palazzo e alle ultime indicazioni degli strategist popo-
dai circoli liberal Giusy Agostini - Roma
prio vero, la vicenda Clinton–Monica Lewinski, bruttina tra l’altro, ha modificato il corso della storia in occidente per quanto riguarda queste cose. Il leader politico non è più un semidio ed in quanto a sentimenti e sesso, ha lo stesso trattamento, gli stessi oneri e onori delle altre celebrità. La televisione forse, ha assorbito nella sfera generica delle “stars dello spettacolo e dello sport” il mondo della politica. Possiamo definire il fenomeno come una volgarizzazione della politica? Oppure il politico oggi, quando arriva a certi livelli di notorietà, ha bisogno di far trasparire che resta ed è un uomo come gli altri e vive gli stessi drammi e le stesse felicità dell’uomo della strada? Oppure oramai si sentono i nuovi monarchi a cui tutto è permesso? Oppure è oramai convinzione comune che l’elettore non è condizionato da questi fatti e sa ben distinguere tra forza di uomo politico e comune debolezza e umanità personale? Oppure è il segno della degenerazione dei costumi? Oppure semplicemente si sentono cosi potenti che se ne fregano? Si potreb-
lari, in futuro, è certo, ma in un futuro remoto. Possibile? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
LA FRANCESCATO A CAPO DEI VERDI Uno stile diretto e deciso e una vita operosa e turbinosa, quella di Grazia Francescato: così la Nostra, insieme al Pecoraro Scanio, ha fatto cadere ai suoi piedi tutti gli elettori ambientalisti che ha voluto. E da questi ha ricevuto, a valanghe, il voto. Ah no, scusate. Questo è un altro film. Anche se non si direbbe al vederla, così spocchiosa, saccente e scontrosa com’è. La poveretta forse non lo sa ancora. Qualcuno bisogna che l’avverta. Chi s’incarica della missione pietosa?
Lettera firmata
be continuare a lungo e senza trovare la verità. Tranne qualcuna. La prima è che se il cambiamento è stato con Clinton, va ricordato che questo è il pasticcio più piccolo che ha combinato e ben altre sono le questioni che ora stiamo pagando ogni giorno, vedi la scarsa determinazione verso il nascente nuovo terrorismo islamico. La seconda è che se vedi passare il tuo titolare in Ferrari diretto alla sua villa di Portofino, ma sei ben pagato, l’azienda va a gonfie vele e quindi ti senti tranquillo di sposarti o di mandare i tuoi figli all’università o di fare un mutuo per acquistare casa, sei anche contento per lui. Diverso se bazzichi da politico da anni con certi livelli di responsabilità e sei corresponsabile in un modo e nell’altro di quello che sta succedendo nel nostro Paese e del suo sofferto declino, dovresti capire che un po’ di misura, di morigeratezza, di moderazione insomma di temperanza aiuterebbe a sopportarti di più. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog GLI ATLETI A PECHINO NON FACCIANO POLITICA
Ho la sensazione di essere in castigo Caro Conte, Le scrivo per lamentarmi un po’. Ho la sensazione di essere stato messo in castigo, o meglio che sia stato messo in castigo il mio ultimo libro. Ho sempre sentito dire all’interno della Casa editrice che Lei fa pubblicità ai libri in proporzione alle recensioni. Contro le moltissime recensioni non ho avuto nemmeno una inserzione pubblicitaria. Mi accorgo che Le sto scrivendo una lettera noiosa. Già che ci sono volevo dirLe anche che circa un mese fa ho scritto al Suo direttore amministrativo per avere il rendiconto di giugno. Non mi ha nemmeno risposto. Spero che mi capirà: è la prima volta che mi è mancata qualsiasi prova di simpatia per il mio lavoro. La samuto molto cordialmente. Suo Luigi Malerba a Valentino Bompiani
MA SERVONO ANCORA IN ITALIA I SINDACATI? Dichiara il ministro della Difesa Ignazio La Russa: «In risposta all’appello del presidente Napolitano per le morti bianche intendo irrobustire il controllo sui cantieri, sempre da parte dei carabinieri, con ispezioni a tappeto ma anche a campione». Rispondono i sindacati: «L’uscita del Ministro è pura propaganda»! E’ mai possibile che, a sentire i sindacati, un governo ed una maggioranza, sostenuti dal 60% del Parlamento, non ne ”azzecchi”mai una? Capisco l’opposizione di sinistra, non saprebbe far altro, ma i ”protettori”degli operai... diamoci una calmata! Solo le loro proposte sono valide e serie? Eppure alle elezioni, indette per il fallimento del loro governo, hanno votato per il PdL molti operai, manovali, muratori, carpentieri, imbianchini, ecc., altrimenti non si sarebbe raggiunta una congrua maggioranza! Vogliamo domandarci allora se serva ancora questa linea sindacale cieca e settoriale o se, da parte degli stessi iscritti, non sia meglio una profonda riflessione e rivoluzione dei quadri?
L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
14 agosto
È vero, gli atleti non devono entrare in polemiche che invadono la politica: lo sport è trasversale. Ma perché allora alcuni sportivi, da Pechino, rilasciano dichiarazioni che hanno giudizi politici? Perche si lasciano influenzare da chi, di un Ministro, riporta particolari detti nel contesto di frasi più articolate? La frase ad esempio del ministro della Gioventù Giorgia Meloni era: «Chiedo agli atleti azzurri e a tutti gli italiani che andranno in Cina, ancora di più ai tifosi, di fare un qualunque gesto e di dire la loro». Perché è stata commentata da alcuni atleti (ad esempio Baldini) e riportata a caratteri cubitali da alcuni giornali, sempre ad esempio l’Unità con la frase «Fermare gli atleti e continuare ad avere rapporti commerciali con la Cina non mi è mai sembrata la soluzione migliore»? Una medaglia d’oro nello sport è il massimo, ma non autorizza a capire fischi per fiaschi! Grazie per l’attenzione e buon lavoro. A presto.
Paolino di Licheppo Teramo
1480 I Turchi conquistano le sponde del Salento con la battaglia di Otranto 1900 Pechino viene occupata da una forza congiunta EuropeoGiapponese-Statunitense, nella campagna per porre fine alla Ribellione dei Boxer in Cina 1941 Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt firmano lo ”statuto atlantico di guerra”, dichiarando gli intenti per il dopoguerra 1945 L’Impero giapponese si arrende a seguito dell’invasione sovietica della Manciuria e della devastazione di Hiroshima e Nagasaki, provocata dalle bombe atomiche statunitensi 1947 Pakistan e India ottengono l’indipendenza dal Regno Unito a mezzanotte 2006 Terminano le ostilità tra Israele e Libano. La tregua voluta dalla Comunità internazionale pone fine a un mese di guerra iniziato con il rapimento da parte dei miliziani Hezbollah di due soldati israeliani e con la violenta reazione di Israele
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
PUNTURE Il Pd ritorna a scuola con la summer school. Sarebbe meglio ritornare alla scuola elementare.
Giancristiano Desiderio
“
Tutte le ambizioni sono giustificate eccetto quelle che si arrampicano su miserie e credulità umana JOSEPH CONRAD
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di HO UNA SOCIETÀ CHE HA SEDE SULLA SPIAGGIA Italiani popolo di emigranti. Oggi lasciare la propria terra è sempre più facile e a volte lo si può fare restando seduti alla propria scrivania, aprendo magari una società offshore in uno dei tanti paradisi fiscali del mondo. Basta una carta di credito e qualche centinaio di euro e tramite internet tutti possono diventare amministratori di società, spesso dai nomi fantasiosi, con sede direttamente sulla spiaggia. I cosiddetti tax heavens garantiscono peraltro parecchi vantaggi. Le holdings offshore sono infatti caratterizzate da un bassissimo livello di imposizione e godono spesso di regimi di esenzione totale da tutte le imposte sui redditi, con modeste imposte annuali a carattere patrimoniale. Il regime impositivo poi è, di solito, strettamente “territoriale”: in altre parole, tanto le persone fisiche, quanto le società residenti sono assoggettate a tassazione solamente per i redditi di fonte nazionale. Per le persone fisiche poi, generalmente, non è prevista la tassazione globale del reddito complessivo: solo alcune categorie di reddito sono considerate tassabili. Non è infine di solito applicata alcuna ritenuta, né sugli interessi pagati ai non residenti, né su quelli pagati ai residenti, siano essi persone fisiche o giuridiche. Ma non sempre ciò che luccica è oro e non sempre emigrare conviene. L’art. 2 del Dpr 917/86, al comma 2 bis dispone infatti che “si considerano residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dall’anagrafe della popolazione residente ed emigrati in Stati o Territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con Decreto
del Ministero delle Finanze da pubblicare in G.u.”. Se dunque un soggetto ha trasferito la propria residenza in un cosiddetto “paradiso fiscale”, si inverte l’onere della prova e sarà comunque considerato fiscalmente residente in Italia, salvo prova contraria (a suo carico). Questo significa che l ”migrante” dovrà dimostrare come il trasferimento sia reale e non avvenuto al solo fine di godere di un trattamento fiscale più favorevole. Il trasferimento fittizio di residenza, del resto, non deve essere analizzato “per comparti stagni”. Chi pianifica un trasferimento fittizio pone in essere, infatti, una serie di “inganni”, proprio allo scopo di attribuire a tale trasferimento una parvenza di veridicità: ad esempio loca un immobile nel Paese di virtuale residenza, intrattiene nello stesso Paese relazioni sociali ed economiche, vi apre conti correnti e società ecc. ecc. Ma anche ai fini penali tali circostanze, rivestendo di veridicità una situazione falsa, avranno una ancora maggiore potenzialità ingannatoria e costituiranno dunque un‘aggravante e non certo un‘attenuante. Le “prove” della effettiva residenza, in realtà dunque non sono altro che gli stessi mezzi fraudolenti, predisposti a tavolino per ingannare l’Amministrazione Finanziaria. Durante la gestione Visco l’Agenzia delle Entrate ha molto pubblicizzato tali tipi di operazioni, in particolare quando il personaggio coinvolto era popolare e quindi assicurava un grande ritorno mediatico. Ma tutti gli altri? E soprattutto, chi sbaglia, paga? E se sì, quanto paga? Ma questo sarà oggetto di prossimi articoli...
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PAGINAVENTIQUATTRO Istantanee da Pechino. Nella capitale cinese, si aggirano solo coreani e giapponesi
Sorpresa alle Olimpiadi: non ci sono di Bruno Cortona
PECHINO. Ma a Pechino, per i Giochi, ci sono i turisti? Di solito, quando le Olimpiadi arrivano in un posto, l’indotto turistico rappresenta una ghiotta fetta dell’affare. Qui, però, la sensazione è che il flusso sia interrotto. Non esistono al momento – ed è comprensibile che sia così – cifre che non siano quelle ufficiali. E allora, come ai vecchi tempi del giornalismo, ci si deve fidare delle sensazioni sul campo, vale a dire guardandosi in giro, percorrendo le strade di questa enorme città. Non ci si può confondere, gli occidentali li riconosci subito. E sono pochi. Concentrati nei grandi alberghi vicino a Piazza Tiananmen o nella zona delle ambasciate, la famosa San Li Tun, dove i locali fanno il verso alla fame di esotico a buon mercato e soprattutto occidentalizzato dei turisti che arrivano a Pechino. Il flusso in questo ore è intenso, ma c’è una prova che smonta qualsiasi dubbio: molti, se non tutti, hanno al collo il prezioso accredito – dirigenti, atleti giornalisti – che qui vale anche da visto. E allora, i turisti veri, dove sono? Vagano spaesati in questa sconfinata città. Fanno fatica a trovare i biglietti delle gare, a parlare inglese con i 500mila volontari che dovrebbero aiutarli nel comprendere dove andare e cosa fare. Sono pochi, è ufficiale: ce lo raccontano tre ragazzi di Ravenna, venuti qui per la passione dello sport. Sono giovani, tutti sotto i trent’anni, e si divertono ad affrontare le difficoltà. L’esperien-
TURISTI za è potente, affascinante. Ci dicono che molti amici hanno mollato la presa su Pechino, quando hanno letto dei problemi di smog e di sicurezza. Già le corrispondenze prima dei Giochi - ci confermano i rappresentanti cinesi di una agenzia di viaggi che lavora con l’Italia - hanno indotto mol-
volta arrivato il conto, molti turisti rifanno il calcolo col cambio, convinti di aver convertirto male la propria valuta con lo yuan. Macchè: cena trionfale nei locali con le stelle di Pechino mai sopra i quaranta euro. E se non si pretende il top delle guide, il prezzo abituale si ferma intorno ai dieci mangiando a volontà. Dunque, venire qui sarebbe un affare. Ma la cattiva stampa sul luogo e le difficoltà burocratiche per il visto, hanno fatto la differenza. Dicono i ben informati che per i cinesi sia stato un flop economico.
Sono pochi, vagano spaesati, fanno fatica a trovare i biglietti delle gare a parlare inglese con i 500mila volontari che dovrebbero aiutarli nel comprendere dove andare e che cosa fare ti a disdire l’avventura turistica olimpica. Un fenomeno solo italiano? Non proprio.
Nella teoria di grandi alberghi selezionati dal Cio, le delegazioni e le loro famiglie, i parenti degli atleti, ma pochissimi turisti. E pensare che, una volta risolta la grana economica del biglietto, la vita pechinese (anche quella più chic), sembra veramente a buon mercato per uno abituato agli standard europei. I taxi costano una sciocchezza rispetto alle distanze di questa città e ai parametri occidentali. Per non parlare dei ristoranti, dove, una
Ma sono chiacchere da bar. Comprendere a fondo l’economia di questo enorme Paese non è possibile per qualche inviato che – magari per la prima volta – passa di qua e pretende di raccontare solo certezze e verità globali. Del resto, battendo i percorsi lontano dai siti olimpici, come il magnifico palazzo d’estate nella zona dei parchi di Haidian, non si vedono pullman e guide che accompagnano turisti. La vera eccezione, per ragioni di vicinanza, la fanno i coreani e i giapponesi. Ma rispetto al flusso mondiale che qualcuno avevano annunciato, sono soltanto una goccia nel mare.
notiziario azzurro Vittoria storica della Pellegrini Federica Pellegrini entra nella storia dello sport italiano, conquistando col tempo di 1’54’’82 la medaglia d’oro nei 200 metri stile libero. La nuotatrice ha migliorato il suo record stabilito in batteria. La Pellegrini soltanto alla fine è riuscita a superare la slovena Isakovic e la cinese Peng che le hanno tenuto testa fino all’ultimo, chiudendo a pochi centesimi di distanza. Grazie a questa vittoria, Federica Pellegrini è diventata la prima nuotatrice azzurra a conquistare una medaglia d’oro alle Olimpiadi. Prosegue la giornata trionfale di Federica Pellegrini. La nuotatrice veneta ha anche guidato le compagne Flavia Zoccari, Alice Carpanese e Renata Spagnolo alla qualificazione per la finale della 4x200 stile libero con il nuovo primato italiano (7’53”38).Tra gli uomini, invece, Chri-
stian Galenda e Filippo Magnini si sono arresi nella semifinale dei 100 stile libero. Magnini è arrivato quarto nella batteria, vinta con il record del mondo dall`australiano Eamon Sullivan. Ma il tempo non è bastato all`azzurro per accedere alla finale, che nel conteggio totale dei tempi è risultato il primo degli esclusi. Non partecipera` alla finale di oggi nemmeno Christian Galenda.
Il Setterosa pareggia con gli Usa Nella seconda giornata il Setterosa ha pareggiato contro gli Stati Uniti con il risultato finale di 9-9 (0-2, 4-2, 2-2, 33). Contro la formazione più accreditata del torneo di Pechino, campione del mondo in carica, le azzurre sono riuscite a mantenere in equilibrio il match. A tre minuti dalla fine, terminata sotto di due reti, l’Italia non si è arresa, dimostrandosi estremamente convinta dei propri mezzi e completando la rimonta con un goal a 20” dalla fine del match. Le azzurre torneranno in acqua domani, venerdì 15 agosto, per l’ultima partita del girone contro la Cina.
Scherma, Sanzo conqusta il bronzo Salvatore Sanzo si riscatta e conquista il bronzo nel fioretto maschile, battendo il cinese Zhu 15 a14. In casa azzurra c’è rimpianto per come lo schermidore pisano si è dovuto arrendere 14-15 con il giapponese Ota e per l’eliminazione di Cassarà (14-15 con lo stesso Zhu): sconfitte maturate all’ultima stoccata, dopo due match che sicuramente erano alla loro portata.
Volley, ragazze già qualificate Le azzurre di Massimo Barbolini hanno ottenuto contro l’Algeria la terza vittoria consecutiva e guadagnato l’accesso ai quarti di finale con due giornate di anticipo. Le prossime due gare con Serbia (il giorno di Ferragosto) e con il Brasile (domenica prossima) serviranno a per disporsi nella griglia della fase ad eliminazione diretta.