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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Mentre in Georgia i profughi sono 90mila

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Insistiamo: dove sta la vittoria dell’Europa?

di Ferdinando Adornato

LA NIPPO-OPPOSIZIONE Da una parte la scelta bipartisan di Roma senza alcun progetto. Dall’altra la solita campagna ideologica resistenziale dell’allarme fascista. La sinistra, sempre più in confusione, si divide tra due strategie kamikaze

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80815

Giuliano Amato (a sinistra); don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana (a destra)

Gli sbandati (Preferite perdere con la linea di Amato o con quella di Famiglia Cristiana?)

alle pagine 2 e 3 Lo rivela un sondaggio americano

ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come gli altri quotidiani anche liberal non sarà in edicola sabato 16 agosto. L’appuntamento con i lettori è per martedì 19 agosto

Atei in crisi: Dio non è uno sconosciuto

di Enrico Singer omplice il Ferragosto, anche la guerra del Caucaso domani andrà in vacanza per un giorno, almeno sui quotidiani, e questo consentirà ai lettori di dedicarsi a un meritato riposo e a molti politici e commentatori di risparmiare dichiarazioni e analisi che definire consolatorie è il minimo. Noi di Liberal non vogliamo rovinare il clima della festa, ma come si può classificare altrimenti l’affermazione che l’Europa è tornata finalmente protagonista perché ha fermato i carri armati di Putin? È vero che l’Europa politica - l’Unione europea e i governi dei Paesi che ne fanno parte - è avvitata in una crisi economica e istituzionale che ha bisogno anche di una iniezione di fiducia. Ma la credibilità non si restituisce con le bugie. Di quale vittoria della diplomazia europea stiamo parlando? Certo, Nicolas Sarkozy è riuscito a mettere a segno un buon colpo d’immagine con la sua missione-lampo a Mosca e a Tbilisi conclusa con l’accettazione del piano in sei punti per il cessate-il-fuoco e l’impegno per una futura trattativa per definire il destino delle regioni separatiste. Peccato che mentre Sarkozy era ancora in volo tra Parigi e Mosca, il Cremlino aveva già annunciato che «gli obiettivi russi erano stati tutti raggiunti». Il capo dell’Eliseo, e presidente di turno della Ue, insomma, non è stato altro che il notaio di un inevitabile compromesso.

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se gu e a p ag in a 4

L’economia sociale secondo il ministro

Se Giulio Tremonti si illude di fare il Leviatano

Da ieri in Italia il sequel del film

Le Cronache di Narnia in salsa digitale

di Michael Novak

di Carlo Lottieri

di Francesco Ruggeri

Un recente sondaggio del Pew Forum, cui hanno risposto 35mila persone, ha rilevato qualcosa di affascinante riguardo agnostici e atei. Metà dei primi “vive in Dio”, nel senso che lo considera una forza universale.

Contro le speculazioni, per Giulio Tremonti, c’è una sola soluzione: «un giudice vindice a protezione dei più deboli». Cioè introdurre guardiani al mercato a scapito della libertà d’impresa.

Portare sul grande schermo la complicatissima epica di Lewis era impossibile. Eppure negli Stati Uniti il primo film è stato il secondo incasso dell’anno e la saga si è trasformata in un bestseller.

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VENERDÌ 15 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

155 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Una nippo-opposizione che non serve a risolvere i problemi che affligono il Paese

Attali o resistenza, la falsa alternativa di Riccardo Paradisi

ROMA. «Non si può governare Roma senza un’idea universale» ha detto Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio e new entry della Commissione bipartisan per la capitale voluta dal sindaco Gianni Alemanno. Tema che da giorni arroventa le già calde polemiche estive della sinistra italiana. Solo che universale è parola impegnativa, implica una mentalità ecumenica o almeno un dialogo politico e un confronto costruttivo tra attori concorrenti avviato. La realtà, come fanno notare quelli che rovesciano l’aggettivo universale nel più prosaico sostantivo inciucio, è che mentre al Campidoglio si gioca al circolo Pickwick a poche centinaia di metri, a Montecitorio e a Palazzo Madam, il confronto politico mantiene i connotati della rissa quotidiana. Che poi la Commissione Attalì romana non funzioni per ora nemmeno da spinta iniziale di questo processo verso il dialogo – virtuoso per il Paese se lanciato lungo il vettori delle riforme istituzionali – lo dimostra il fatto che nè Veltroni nè Berlusconi abbiano finora speso una parola di sostegno per la Commissione capitolina. Anzi, da parte di Forza Italia c’è una chiara insofferenza: «Non si può continuare ad alimentare l’immagine di un centrodestra senza cultura propria, fatto di sprovveduti, che quando va al governo deve bussare alla porta di un Giuliano Amato per farsi elemosinare qualche consiglio» ha sbottato il capogruppo dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchito.

Ecco, l’unico effetto che finora sembra avere del l’iniziativa sindaco di Roma – anche se è ancora presto per giudicare – è

quello di avere aperto una faglia profonda nel terreno sismico della sinistra italiana con la presidenza di Giuliano Amato nella commissione per il rilancio della capitale. E pazienza che la commissione abbia visto come suoi soggetti promotori oltre anche il presidente della provincia Nicola Zingaretti e il presidente della regione Lazio Piero Marrazzo.

L’ultima in ordine di tempo ad accusare di trasformismo Amato è Linda Lanzillotta ministro ombra Pd della Pubblica amministrazione: «È stato presidente del Consiglio e fino a pochi mesi

Al Pd manca un baricentro che dia stabilità alla sua azione e renda costruttiva la sua opposizione fa ministro dell’Interno di un governo il cui premier era Rutelli». Un trasformista insomma, il dialogo secondo Lanzillotta è un’altra cosa: «Il confronto è

sacrosanto ma in questa operazione non c’è niente di istituzionale e c’è molto di politico». Ma se nel Pd c’è chi su Amato getta la croce c’è anche chi appoggia la sua scelta di collaborare con una giunta di centrodestra. I dalemiani per esempio – carsicamente impegnati in un’autonomo confronto con la maggioranza che molto infastidisce veltroniani e margherita – strizzano l’occhio alla stagione bipartisan che si annuncia a Roma. E così Nicola La Torre, braccio destro di Massimo D’Alema, getta acqua sul fuoco della polemica e parla di una forzatura sul senso di una commissione che ha una valenza tutta romana e sarà positiva se aiuterà a rafforzare l’intesa tra le istituzioni locali. Del resto non è stato Giuliano Amato co-presidente della dalemiana Fondazione Italiani-europei?

Ma fin qui siamo alla scherma. Chi ricorre all’anatema e alla scomunica nei confronti di Amato è invece il cotè dipietrista e girotondino della sinistra italiana. Furio Colombo, ex direttore dell’unità e deputato del

Pd ha detto che se fosse religioso pregherebbe che Amato fosse ricondotto alla ragione. Qui l’accusa ad Amato si fa più radicale, si veste di un contenuto ideologico. Perchè se è vero, come scrive il settimanale dei paolini Famiglia Cristiana che l’Italia vive la vigilia di un nuovo fascismo allora Amato diventerebbe tout court un collaborazionista. Parole grosse, enormità, cresciute nella serra chiusa di una

sinistra che sembra avere perduto il senso della misura. Uno squilibrio quello della sinistra italiana la cui diagnosi più esatta sembra essere la sindrome bipolare, l’oscillare pauroso tra l’apocalittismo antifascista che disegna i tatti sofferti di Paolo Flores D’Arcais e l’entrismo bulimico di chi – magari non è il caso di Amato – preferisce all’opposizione la cooptazione. «È il riflesso di una sinistra molto segnata dalla sconfitta –

Per Paola Binetti e Carlo Casini il fondatore di Sant’Egidio lavorerà per il bene comune. E non solo dei credenti

Andrea Riccardi con Alemanno? Sì dei cattolici di Francesco Rositano

ROMA. Per il mondo cattolico Andrea Riccardi, chiamato dal sindaco di Roma Gianni Alemanno a far parte della commissione bipartisan per lo sviluppo della capitale, è una garanzia. Non solo per i credenti, ma per tutti. Paola Binetti, deputato del Pd, gli riconosce delle doti che a suo avviso lo faranno apprezzare unanimamente: «Riccardi - afferma l’onorevole - conosce benissimo i bisogni reali della città ed è in grado di comunicare con tutte le istanze della società. Da un

lato, infatti, la sua attività di professore universitario gli ha permesso di dialogare con le istanze del mondo della cultura. Mentre il suo lavoro nella Comunità di Sant’Egidio, che ha sempre camminato al fianco dei più deboli, gli permetterà di intercettare le domande che vengono dai più deboli. Sono convinta, infatti, che farà un lavoro orientato a garantire il miglioramento delle condizioni di Roma, senza farsi schiacciare dalle ideologie».

Soddisfatto per la sua nomina anche Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita ed europarlamentare Udc: «Sicuramente dimostrerà attenzione al mondo cattolico ma anche a quella parte di as-

sociazionismo cattolico che, a torto o ragione, viene considerata più vicina agli ex democristiani di sinistra che non a quella di destra. Credo che Riccardi sia un’espressione del mondo cattolico, poi se vogliamo fare una valutazione di tipo politico non possiamo non ammettere che la Comunità di Sant’Egidio non ha uno sguardo particolarmente benevole verso l’attuale maggioranza parlamentare. Quindi, il fatto che Alemanno abbia chiesto a Riccardi di partecipare è un fatto positivo per due ragioni: metterà al servizio la sua esperienza per il bene comune, l’attenzione ai poveri, agli ultimi. Dimostrando di voler lavorare per il bene comune, indifferentemente dalle ideologie».


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Adornato critica la sinistra: «Il dialogo diventa chiacchiera se fatto in sedi non ufficiali»

La doppia sbandata della sinistra colloquio con Ferdinando Adornato a una parte l’allarme son fascisti lanciato da Famiglia Cristiana dall’altra un leader della sinistra che accetta la presidenza di una commissione voluta dal sindaco di Roma Gianni Alemanno di An. Adornato che sta succedendo all’opposizione di sinistra di questo Paese? Amato e Famiglia Cristiana rappresentano due modi opposti di fare opposizione che contengono ognuno una ragione e un torto ma che in fin dei conti sono sbagliate entrambe per motivi speculari. Cioè? Amato ha ragione nel merito e torto nel metodo, Famiglia Cristiana ha ragione nel metodo e torto nel merito. Amato ha ragione nel merito perché dire si a una possibilità offerta a questo Paese di superare la guerra civile e collaborare sui grandi temi è acqua santa per l’Italia. Ha torto nel metodo però perchè questa collaborazione può avere solo due forme. O commissioni bipartisan per grandi riforme istituzionali – e a Roma non mi risulta ci siano istituzioni da riformare – oppure intese vere, politiche, di grosse koalition anche in versione locale. Ma non è questo il caso. E per quanto riguarda Famiglia Cristiana: perché il settimanale dei paolini ha torto nel merito e ragione nel metodo? C’è troppo silenzio nei confronti del governo, troppo conformismo. Io non condivido nulla di Nanni Moretti ma devo dargli ragione quando rileva che dopo 15 anni di accuse ad alzo zero nei confronti di Berlusconi – e moltissime erano fesserie – sia calata una resa totale su questo fronte, con giornali e opinione pubblica appiattita su un registro di passività totale, interrotta solo dalle invettive dipietriste e girotondine. Fa bene dunque Famiglia Cristiana a fare un giornale di vigilanza. Però Famiglia Cristiana ha torto nel merito perché tenere alta la tensione non significa spararle grosse. Si riferisce all’allarme sul fascismo ovviamente. Un fuor d’opera, un’enormità che invece di obbligare la mia attenzione su un fatto oggettivamente grave come le impronte da prendere ai rom la distoglie. Non trova paradossale che il primo tra quelli che hanno in questi mesi paventato un ritorno sotto varie forme del fascismo sia stato proprio Giuliano Amato da ministro degli interni durante il governo Prodi? Non ricordo esattamente la circostanza ma è la dimostrazione di quanto stiamo dicendo e cioè che se il pendolo insegue gli estremi non si ferma mai nella direzione giusta, che è quella dell’equilibrio e

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A sinistra, Giuliano Amato e Gianni Alemanno. Sopra, don Antonio Sciortino. In basso, Andrea Riccardi. Nella fotina a fianco, Ferdinando Adornato dice a liberal Stefano Folli, notista politico del Sole 24 ore – priva di una chiara linea politica e di un baricentro che gli dia stabilità. Non si capisce altrimenti questo nervosismo di fronte alla disponibilità di Amato verso una commissione che ha almeno il merito di far dialogare esponenti dei due schieramenti per un progetto comune».

Insomma la sinistra di opposizione sembra un personaggio in cerca d’autore. Incapace per ora di ritagliarsi un profilo di opposizione repubblicana costruttiva e responsabile. Dopo la breve parentesi della retorica sul dialogo sembra infatti da un lato attratta dal movimentismo dei buoni contro i cattivi, dalla missione di salvare l’italia a mezzo di petizioni popolari, dall’altra da un entrismo così pragmatico da sembrare più predatorio che post-ideologico. «La cosa più divertente in tutto questo – chiosa il politologo bolognese Paolo Pombeni – è che non manca occasione per citare la commissione Attali, che ha prodotto ben poco. Sarebbe meglio rifarsi alla commissione Balladour, che ha lavorato seriamente e prodotto molto. Anche perché in quell’occasione l’aspetto mediatico è stato meno rilevante. Centrali erano le competenze, non certo pretendere che ogni suo componente avesse un cartello con su scritto, a lettere cubitali, ”sono di un’altra parrocchia politica”».

del principio di realtà. È che purtroppo siamo in presenza di una nippo-opposizione, un’opposizione suicida che oscilla tra l’ aggiungi il posto a tavola e lo spirito resistenziale: due estremi che non servono per realizzare uno spirito pubblico critico, maturo, né a costruire un’opposizone che segua un’interesse nazionale e che sia anche produzione di un’alternativa. C’è chi per la commissione capitolina chiama in causa come antecedente la Commisione bicamerale di D’Alema Ma è un paragone improprio: quella, al di la del suo fallimento, era una commissione costituzionale nel merito e nel metodo, una cosa seria. E infatti un’opposizione seria e matura dovrebbe proporre una cosa del genere. Insomma sarà pure ora di dire che non esiste un’immacolata concezione dello spirito bipartisan, sarà pure arrivato il momento di chiedere dove, come, quando ci si deve confrontare e per che cosa. Questi sono i tre interrogativi che vanno posti non ad Alemanno ma a Veltroni e Berlusconi

Beh un libretto è lungo, ma di un paragrafo si può dire qualcosa anche in poche battute: siamo tutti d’accordo mi sembra che l’Italia arranca, soffre nella competizione internazionale e che per avere una speranza di rientrare nel grande gioco globale deve innalzare i suoi livelli di ricerca e competenza professionale. Bene: allora io faccio questa domanda – con l’umiltà di un discepolo, beninteso, non di un maestro come Tremonti: che cosa si fa su questo fronte? Sul fronte della ricerca, dell’istruzione, della conoscenza? Ecco la risposta è sconsolante: non si fa nulla. Dunque? Dunque altro che ridurre le spese del ministero dell’Istruzione e della Ricerca, bisogna dare al Paese un grande piano di riconversione industriale della cultura italiana che metta i nostri ragazzi, da qui a trent’anni, in condizione di competere coi loro coetanei cinesi o indiani. Così si batte la Cina, non con i dazi. E il superamento del monopolio di Stato è conditio sine qua non. Viceversa Tremonti può continuare a parlare di miracoli ma sarebbe come se noi, visto che siamo in un periodo olimpico, continuassimo a saltare col ventrale mentre tutto il mondo salta alla Fosbury. Il monopolio di stato sull’istruzione pubblica resta però un tabù di sinistra Non a caso io ho parlato di un imbarazzo tra perdere con Amato o con Famiglia cristiana. Ma io parlo al governo, non all’opposizione. E non critico solo l’attuale maggioranza ma anche quella di cui ho fatto parte fino al 2006 che non ha fatto quello che andava fatto già da allora. Chiedendo per esempio al Paese una tassa di scopo per rilanciare istruzione e ricerca. Se ci fosse un fronte anche tra maggioranza e opposizione che martellase su questo punto oltre che per la creazione dei luoghi per le riforme bipartisan sarebbe ancora meglio. È una filosofia politica questa che l’Udc vorrebbe l’opposizione facesse propria superando sia lo sconfittismo apocalittico sia l’aggiungi un posto a tavola. A proposito, il mai dire mai di Casini alla proposta di Berlusconi di tornare insieme è un apertura? Il mai dire mai è la colonna sonora della nostra opposizione. Quando noi abbiamo parlato di opposizione repubblicana si intendeva sul merito dei problemi. Noi non siamo ossessionati dalle alleanze. Certo la questione delle alleanze esiste ma la decideremo sui fatti. Al momento opportuno. Intanto ciò che è necessario è incarnare una declinazione di opposizione responsabile, costruttiva, come quella che ho cercato di delineare in questa nostra chiacchierata.

Né l’aggiungi un posto a tavola né l’eterno richiamo resistenziale sono ricette giuste per l’opposizione Insomma si parla di dialogo ma non si dialoga nei luoghi istituzionali deputati a farlo. Dialogo ormai è un mantra vuoto. Faccio un esempio: leggo che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti dialoga con Quadro Curzio, poi con Chiamparino, Errani, D’Alema, Veltroni: bene, parlate, parliamo. L’Udc non si sottrae a dialogare con nessuno. Ma il dialogo senza sedi deputate e ufficiali appunto è chiacchiera. Ripeto: dove, come, quando. Occorrono sedi istituzionali dove non il dialogo ma le riforme per il Paese vadano avanti. E la via per arrivarci quale dovrebbe essere? Che ruolo dovrebbe avere l’opposizione? Io credo che esista una via obbligata a cui si dovrà giungere in un modo o nell’altro: cioè un governo di unità nazionale, ma questa è una prospettiva lontana e forse è prematuro parlarne. Quello che oggi serve è un’opposizione che non sia allo sbando, in grado di rispondere alla battuta che Tremonti faceva ieri sul Corriere della sera: «Mi dicono che non si deve fare un taglio selettivo della spesa mi diano anche il libretto di istruzione». Bene: diamoglielo. E che cosa dovrebbe contenere questo libretto di istruzioni?


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Condoleezza Rice incontra Nicolas Sarkozy: tra Usa e Ue la sintonia è solo di facciata

Ma dov’è la vittoria? Continua la ”propaganda” europea per nascondere il successo di Putin di Enrico Singer segue dalla prima Sostenere che l’Europa è tornata grande perché a Nicolas Sarkozy è toccato in sorte il ruolo di mediatore è quantomeno esagerato. Ed è ancor più avventato se si guarda alla sostanza dei sei punti dell’accordo di tregua che non accennano nemmeno al principio - pur basilare nei rapporti internazionali - della intangibilità dei confini riconosciuti dalle Nazioni Unite. Non è un caso che il presidente francese rifiuti, come ha dichiarato, di «abbandonarsi al gioco delle responsabilità», ma questa prudente e apparantemente saggia - posizione non fa altro che confermare la reale dimensione del suo intervento. Che è senz’altro la dimostrazione dell’abilità del capo dell’Eliseo nello sfruttare le sperimentate capacità della diplomazia-lampo di Parigi.

Con un pensiero ben fisso nella mente, come si capisce leggendo i giornali francesi di questi giorni: riproporre la Francia come locomotiva dell’Europa anche per far dimenticare che proprio il ”no” al referendum della Costituzione europea nel 2005 ha scatenato un terremoto dal quale l’Unione non si è ancora risollevata. La tesi della vittoria dell’Europa porta con sé alcuni corollari altrettanto consolatori quanto falsi. Il primo è quello della ritrovata armonia tra i Ventisette. Favorita, anche questa, dalle vacanze estive che hanno alleggerito le tensioni spostandole dalle riuinioni d’emergenza a Bruxelles alle

più confortevoli telefonate dai luoghi di villeggiatura. Regalando, tra l’altro, a Nicolas Sarkozy anche l’occasione di incontrare a tu per tu ieri nella fortezza di Bregançon il segretario di Stato, Condoleezza Rice, in viaggio per Tbilisi. Protagonismi a parte, non si può sottovalutare il fatto che, tre giorni fa, mentre Sarkozy portava il piano concordato con Mosca a Mikhail Saakhasvili, ad attendere in piazza il presidente georgiano c’erano i presidenti di quattro Paesi della Ue - la Polonia e le tre Repubbliche baltiche - in compagnia di Viktor Yushenko, il presidente dell’Ucraina che potrebbe essere il possimo

Nuova sfida della Russia: «Siamo pronti a riconoscere l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia», dice Medvedev

Istanbul ’99 potrebbe essere la base del negoziato

L’ombra dei Balcani sul futuro del Caucaso Condoleezza Rice con Nicolas Sarkozy. In alto: tank russi in Georgia e (a destra) Yulia Timoshenko, premier ucraino

di Angelita La Spada

obiettivo di Mosca nella sua strategia di riaffermazione dell’antico potere imperiale. In realtà, il conflitto del Caucaso ha ulteriormente diviso il fronte interno della Ue tra quelle che vengono comunemente definite la ”vecchia” e la ”nuova”Europa. Una spaccatura che si è registrata anche nella Nato che, nel vertice del 2 e 3 aprile scorso, non riuscì a trovare l’unanimità sull’ingresso della Georgia e dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica che, con ogni probabilità, non sarà raggiunta nemmeno nel Consiglio atlantico del prossimo dicembre. Quattro mesi fa il capofila dei contrari fu la Germania, primo cliente europeo del gas russo, e non a caso il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmaier, ha già ripetuto ai suoi colleghi che «isolare adesso la Russia non sarebbe intelligente». Anche questa è un’af-

fermazione saggia e condivisibile: ma il problema non è quello di isolare Putin, quanto quello di fargli capire che esistono delle regole da rispettare per essere rispettati. È il messaggio che Condoleezza Rice ha rilanciato nell’incontro con Sarkozy. Ma è innegabile che anche la Casa Bianca ha i suoi problemi. Il mandato presidenziale di George W. Bush è vicino alla conclusione e di questo, naturalmente, approfitta Putin. Che ieri ha fatto passare, attraverso il suo reg-

essata la guerra di movimento, che si lascia alle spalle una guerriglia nei territori occupati tra i soldati di Mosca e le truppe georgiane, il Caucaso meridionale si conferma una regione sgretolata, che ha bisogno di un’iniziativa pragmatica di stabilità, una sorta di catalizzatore necessario per avviare un processo di democratizzazione, per lo sviluppo economico e la sicurezza, e per un loro mutuo rafforzamento. Sulle ceneri della vittoria russa le future sorti dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia – l’altra regione secessionista della Georgia – verranno discusse al tavolo delle trattative negoziali. Nel frattempo, non si può non interrogarsi su futuri sviluppi e possibili risoluzioni. Ma quali? E come? Passando in rassegna le ipotetiche opzioni in gioco, facciamo un salto indietro di quasi un decennio, quando al summit di Istanbul del 1999 dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, il presidente turco Suleyman Demirel avanzò la proposta di un patto di stabilità per il Caucaso che presentava parecchie analogie con il Patto di stabilità per l’Europa Sud-Orientale, ratificato a Sarajevo nel luglio di quello stesso anno. Questo accordo di base fu sostanzialmente concepito come la prima organica strategia della comunità internazionale per la prevenzione dei conflitti. E non solo. Il Patto partì dal presupposto di considerare i Balcani una regione e di creare un nuovo spazio geopolitico. Ma eventus docet. Così pure gli errori. E oggi, alla luce delle lezioni offerte dalla recente storia dei paesi della ex-Jugoslavia, non andrebbe scartata l’idea di sviluppare un’iniziativa di stabilità per il Caucaso meridionale. Molteplici sono le similitudini tra le due regioni: entrambe presentano pressoché le medesime dimensioni, sono in preda a conflitti endemici e sono sommerse dalle difficoltà della transizione post-comunista. Da non tralasciare, comunque, impor-

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La Russia non pagherà per quello che ha fatto e a soffrire sarà Kiev

gente Dmitri Medvedev, l’ennesino segnale di sfida. Medvedev ha incontrato a Mosca i presidenti delle autoproclamate Repubbliche indipendenti dell’Ossezia del Sud, Eduard Kokoity, e dell’Abkhazia, Sergei Bagapsh, e ha annunciato che la Russia è pronta a riconoscere la secessione «se i loro popoli lo chiederanno». La crisi, insomma, non è per nulla archiviata. Anche perché le notizie che arrivano dal terreno sono allarmanti. Gli esperti della Commissione eu-

ropea hanno calcolato che i profughi in Georgia sono almeno 90mila e che 150mila persone potrebbero fuggire dal Paese se il conflitto continuerà. Problematico e incerto è anche il ritiro degli oltre diecimila soldati spediti da Putin in territorio georgiano. Gli stessi responsabili militari di Mosca hanno ammesso che a Gori - la città natale di Stalin e a Poti - principale porto georgiano - ci sono ancora militari russi «per cooperare con la polizia locale».

tanti differenze. Il possibile accesso all’Ue ha costituito per i Paesi balcanici un deterrente alle situazioni di conflitto. Non è così per gli stati caucasici, privi di questa prospettiva. Nondimeno, però, Bruxelles, in veste di partner chiave, dovrebbe aiutare la Georgia( ma anche Armenia e Azerbaijan) ad intraprendere le riforme politiche ed economiche, nonché a promuovere un’ulteriore cooperazione regionale. In tale ottica, un patto di stabilità per la regione caucasica potrebbe incentivare l’istituzione di nuove iniziative di cooperazione inter-governative, commerciali e della società civile.

L’effetto domino dell’indipendenza del Kosovo ha innescato l’inizio del processo di scongelamento dei cosiddetti conflitti congelati del Caucaso, ricorrendo all’uso della forza o attraverso il potere relativo. Laddove uno Stato è forte ne potrebbe conseguire l’autonomia; se debole o se i separatisti sono appoggiati da un vicino potente, la soluzione potrebbe essere l’indipendenza. Il presidente azero Ilham Aliyev, ad esempio, ha minacciato di riconquistare il Nagorno-Karabakh e potrebbe avere più successo della sua controparte georgiana, dal momento che la Russia non ha interessi diretti nella zona. L’Armenia è debole e isolata e l’Azerbaijan può contare su un esercito ben equipaggiato e addestrato, e come Mosca può disporre di ingenti ricavi dalle esportazioni energetiche. I Paesi caucasici, a differenza di quelli balcanici, hanno vissuto per due decenni sotto un solo Stato: l’Unione Sovietica. Parlavano la stessa lingua, hanno condiviso il medesimo destino e non avevano confini a dividerli. Dobbiamo augurarci che la formula della democrazia, della stabilità e del benessere non renda il Caucaso meridionale un luogo in balia dell’illusione, dove il sogno di evitare la guerra, di fatto, ha sparso i semi di un prossimo conflitto.

Il prossimo obiettivo sarà l’Ucraina ribelle di Leon Aron on l’accettazione russa della tregua mediata dalla Francia, le ostilità georgiane potrebbero essere terminate. Ma l’eco di questa guerra potrebbe avere un riverbero in quella parte di mondo per molti altri anni a venire. Senza dar peso a chi l’ha iniziata e a chi (apparentemente) ha cercato di“proteggere dei cittadini”, la guerra russa in Georgia conferma alcuni punti cruciali e discussi sul regime di Mosca che l’Occidente deve, a questo punto, prendere in considerazione. La cosa più importante è rappresentata dal ruolo di Vladimir Putin. Non è stato soltanto il comandante in capo ed il portavoce del Cremlino (ruoli costituzionalmente attribuiti al presidente Medvedev). I media russi hanno infatti modificato la loro impostazione per sottolineare la preminenza del primo ministro, che dovrebbe invece lavorare per il presidente. Putin è volato dall’apertura delle Olimpiadi di Pechino (unico primo ministro non eletto in mezzo ai capi di Stato), direttamente alla capitale dell’Ossezia settentrionale per guidare la guerra. La televisione lo ha mostrato mentre parlava con i leader militari e civili del posto, istruiva Medvedev su cosa fare, parlava con i rifugiati dell’Ossezia meridionale e visitava i feriti in ospedale. Ovviamente, anche mentre rigettava con rabbia le accuse degli Stati Uniti. Sono in vista grossi problemi e gli Usa, chiunque sarà il prossimo presidente, dovranno essere pronti. Dunque, il “primo ministro”Putin ha confermato alla Russia ed al mondo quello che molti avevano sospettato: le elezioni sono state una vergogna, così come la divisione dei poteri previsti dalla Costituzione. Tutti i discorsi di Medvedev sullo stato di diritto, sulla libertà di parola e sulla lotta alla corruzione appaiono oggi veramente poco credibili, così come l’uomo che li ha pronunciati. Partendo dal presupposto che esistano nella leadership russa dei liberali e degli intransigenti, si nota come la distinzione sia nulla nel momento in cui si deve decidere di fare una guerra. E quindi, l’incursione della Georgia rappresenta un colossale passo indietro per le già deboli forze della democrazia in Russia. Diversi regimi autoritari si sono accon-

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tentati di riempire la loro agenda interna, senza indulgere in ambizioni di politica estera.

Né sotto gli zar né con i soviet, invece, la Russia è rientrata in questo novero. L’autoritarismo russo si è sempre sposato con la guerra, la conquista, la vittoria e la sconfitta. Molto tempo prima di questo conflitto, il putinismo ha pervaso la politica e l’opinione pubblica russa con elementi di autoritarismo. Fra questi vi sono: un intenso, personale sistema di potere in cui domina il leader, e non le istituzioni democratiche; la propaganda intrisa di nostalgia; la convinzione di vivere in uno Stato circondato da nemici ad ogni lato; la paranoia delle spie; la definizione dell’opposizione politica come tradimento. Nonostante tutto questo, però, fino alla scorsa settimana Mosca non ha cercato di cambiare le regole del gioco o i suoi partner: ha denunciato i regimi pro-occidentali del Baltico, della Georgia e dell’Ucraina, ma non ha mai cercato di punirli o di sovvertirli con la forza. Ora questa linea è stata superata. La Russia non se ne andrà da questo conflitto senza aver danneggiato in maniera sostanziale, e probabilmente fatale, l’abilità georgiana di condurre politiche indipendenti all’interno e specialmente all’esterno della nazione. Se la stessa Russia ha invertito il tradizionale ruolo dell’autoritarismo bellico e, come sembra, non pagherà un prezzo internazionale alto per quello che ha fatto, la prossima vittima non è difficile da individuare. È la giovane, occidentale democrazia dell’Ucraina, dove vivono milioni di persone di etnia russa. Infatti, negli ultimi mesi una propaganda sempre più forte è echeggiata per Mosca: non si devono lasciare le basi del Mar Nero. Anzi, si deve reclamare dall’Ucraina l’intera penisola di Crimea. D’altra parte, nell’incontro Nato che si è svolto in Romania ad aprile, Putin ha detto a Bush: «George, l’Ucraina non è neanche un vero Stato».

La propaganda imperialista di Putin riecheggia per Mosca: si deve pretendere la restituzione della Crimea. Ad ogni costo

Direttore del Centro studi per la Russia American Enterprise Institute


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società

Secondo il Pew Forum sale il numero di chi si interroga sulla fede

Atei in crisi: Dio non è uno sconosciuto di Michael Novak n recente sondaggio del Pew Forum, cui hanno risposto 35mila persone, ha rilevato qualcosa di affascinante riguardo agnostici e atei. Metà dei primi, sorprendentemente, “vive in Dio”, nel senso che lo considera una forza universale, una fonte primordiale, interiore, e il 21% di chi si dichiara ateo è in qualche modo credente. Secondo il rapporto dell’istituto di sondaggio la visione di coloro che rifiutano la religione è quella di un Dio conce-

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pito come una sorta di persona, nel senso ebraico/cristiano del termine; uno che discerne, comprende, sceglie e decide. E’questo dunque il motivo per cui atei e agnostici provano gusto nell’esistenza del male? Perché ritengono che questa smentisca l’esistenza di un Dio buono e giusto? Supponiamo allora che non ci sia alcun Dio; il male continuerebbe ad esistere. Gli atei ritengono forse che l’ateismo e il male siano adatti l’uno all’altro? Il fatto che un bambino possa essere picchiato e disperato in qualche modo è un argomento convincente per l’ateismo?

Christopher Hitchens ha sostenuto che prima di oggi l’umanità ha sofferto millenni di malattie, cataclismi, massacri e carestie senza alcun intervento divino, e che, se un essere umano avesse deliberatamente deciso di porre centinaia di milioni di suoi simili in un analogo stato di pericolo, sarebbe stato considerato un mostro. Ne consegue che se Dio ha voluto questa lunga, triste e sofferta storia, egli, nella sua onniscienza e onnipotenza, è un mostro anche peggiore. Ma le cose ci appaiono davvero migliori se pensiamo che la sofferta evoluzione umana sia stata un percorso predeterminato? La visione del mondo degli atei è oggettivamente più triste di quella degli ebrei e dei cristiani, perché riten-

gue questi umanisti laici da quelli ebrei e cristiani? Gli uni e gli altri hanno trovato un grande significato nel loro lavoro, e hanno anche combattuto per molto tempo sotto la bandiera della compassione (un sentimento che disgustava Nietzsche), piantata per primi dall’ebraismo e dal cristianesimo. Sotto questo vessillo, San Tommaso D’Aquino postulò l’impressionante idea che questo mondo, per es-

Il Creatore non era un utopista: il suo proposito non era quello di creare un mondo confortevole. Il mondo comporta dure prove, lungo i quali il filo dorato della storia è la libertà gono che soffrire sotto il peso del male sia privo di senso, e lo stesso vale per ogni sforzo contro la malvagità. Tutto, nel mondo ateo, inizia e finisce per caso, e pochi di loro sembrano rigorosamente onesti come Friedrich Nietzsche, il quale riteneva che se Dio è morto è sperabile pensare che la ragione da sola sia in grado di conferire senso alla vita, ma la ragione è stata messa da parte dal caso. Ci sono, naturalmente, dei “laici santi” come l’eroico dottor Rieux, la cui storia è narrata da Camus ne La peste. Molti atei oggi lavorano duramente negli ospedali, nelle cliniche e nei laboratori, tentando di attenuare le sofferenze che gli umani continuano a patire a causa di terribili malattie, incidenti automobilistici, cataclismi naturali e problemi psicologici, mentre altri lavorano per lenire i disturbi psichici, quindi non pochi atei praticano una forma di santità.

E certamente, come Camus ha puntualizzato, questi laici santi somigliano molto a quelli ebrei e cristiani che nel corso dei secoli si sono preoccupati di alleviare le sofferenze, di portare cure e comodità e di rendere questo mondo un po’ più buono, sincero, giusto e sensato. A parte la mancanza di sinagoghe e chiese, si chiedeva Camus, che cosa distin-

sere buono, abbia bisogno dell’esistenza del male, che non è una cosa, un oggetto fisico. S. Tommaso rifiutava categoricamente la filosofia orientale che divideva il mondo in Bene e Male e li considerava equivalenti, egualmente sostanziali, attivi e potenti. Non è così.Tutto ciò che il Bene più grande ha creato è impregnato di sé, ma il mondo, nella sua totalità, per essere buono, deve essere popolato dalle creature più belle e più simili a Dio, creature capaci di intuizione e scelta, qualità che richiedono libertà mentale e volontà.

Solo a questa perfezione naturale può essere adattato il concetto di “immagine di Dio”. Il Dio ebraico offre ad ogni uomo e donna la sua amicizia, li tratta come esseri liberi e non come schiavi, ma tale libertà richiede che Dio crei un mondo nel quale l’essere umano possa scegliere deliberatamente di abbandonare il bene. Questo è ciò che S. Tommaso definiva colpa: una deviazione ponderata e voluta dal bene, un’assenza, una carenza. Thomas Jefferson scrisse che “il Dio che ci ha dato la vita ci ha dato anche la libertà”, e gli esponenti dell’illuminismo angloamericano credevano che nella guerra tra americani e inglesi del 1776, sebbene entrambi onorassero lo stesso Dio, il Dio della li-

bertà avrebbe favorito coloro che combattevano per essa, e non contro di lei.

Un mondo in cui la libertà possa fiorire deve essere un mondo di leggi, regole e occasioni, ma anche un mondo di imprevisti, casi, fortuna, sorpresa e suspance. Il finale di una storia dipende dal fatto che il mondo non sia il mero risultato di una somma numerica, di una logica ferrea e di inflessibile aritmetica, ma anche di grande fede e di “moltitudini prospere e rumorose”. Anche la luce “superiore”delle scienze avanzate (così astratte e lontane dalla corporeità) deve essere, in un mondo libero, costituita non solo dall’aritmetica, dalla geometria e dal ragionamento deduttivo, e perfino la matematica pura richiede un mondo reso intelligibile dalla statistica e dal caso. In un mondo simile non ci può essere libertà umana senza la possibilità di allontanarsi dal bene. Varie forme di rifiuto e di irresponsabilità, ed anche la resa della ragione alla spontaneità e alla passione, devono avere qualche buona probabilità di entrare in gioco. “Se gli uomini fossero angeli” queste eventualità potrebbero non esistere, ma gli uomini non sono angeli: dunque una repubblica libera, costruita per gli uomini così come sono, deve essere pensata per quelli che talvolta peccano. Come osservò S. Tommaso, se riflettiamo sul mondo impariamo che senza il male la virtù non potrebbe toccare gli apici di nobiltà, compassione e amore che qualche volta effettivamente raggiunge. Il Creatore non era un utopista, e il suo proposito non era quello di creare un mondo confortevole e privo di dolore solo per il piacere umano, anzi. Il mondo così com’è comporta tempi di dure prove e grandi dolori, lungo i quali il filo dorato della storia è la libertà, e questa, alla fine, è la storia dell’ebraismo e del cristianesimo della quale mi sento parte.


politica

15 agosto 2008 • pagina 7

La ricetta del ministro dell’Economia tra maggiori poteri alle authority e rinnovato interventismo pubblico

Tremonti s’illude di fare il Leviatano di Carlo Lottieri he uno statalista di sinistra come Jean-Paul Fitoussi figuri tra i consiglieri di Giulio Tremonti non stupisce. Il populismo non è necessariamente di destra, come attesta il peronismo argentino né è una sorpresa che il ministro sia a proprio agio tra chi esalta il ruolo della politica e, in fin dei conti, l’azione di un Grande Timoniere chiamato a salvarci dall’egoismo dei capitalisti.

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Tremonti ha illustrato di nuovo le proprie tesi in un’intervista al Corriere della Sera, sostenendo come i governi abbiano sconfitto la cospirazione di chi faceva salire i prezzi per ricavare enormi profitti. Il mutare dei valori delle commodities non sarebbe effetto delle interazioni di un mercato che vede muoversi masse impressionanti di risorse, ma il risultato di qualche decisione assunta dai grandi della terra. Evocando gli speculatori, il professore non fa nomi e quindi la sua accusa lascia il lettore un po’ perplesso. Tanto più che egli non rinuncia a espressioni come la seguente: «Nel giro di sei mesi il prezzo (del petrolio, ndr) è salito vertiginosamente e poi precipitato. È la prova che dietro c’era la speculazione». Ma non si comprende perché mai il crescere di un prezzo e poi il suo decrescere dimostrino l’esistenza di una cospirazione “mercatista” ai danni delle massaie. Dopo aver pure difeso l’azione in Ossezia dei cingolati di Santa Madre Russia, Tremonti ha usato accenti “putiniani” nel rivendicare il ruolo del Potere: contro chi compra e vende titoli, e contro i demoni di un capitalismo che vorrebbe indebolire lo Stato sociale. Dalla conversazione emerge però un mondo davvero troppo semplice, facile, da affidarsi a quei bravi ragazzi che decidono di fare politica e che certo sanno condurci verso una buona vita. Se mancano le case, le costruisca il governo. Se i prezzi salgono, basta un’autorità che li fa scendere. Se al Sud mancano risorse per investimenti, si può sempre creare una banca. Di fronte a un problema, basta un politico. Se Bankitalia disponesse ancora di una moneta, Tremonti avrebbe di sicuro una sua risposta pure per la povertà: stampare un po’ di lire. L’importante è che i governanti facciano, legiferino, organizzino, e poco importa se non hanno le informazioni necessarie né gli incentivi giusti. Tremonti vanta seri studi di diritto tributario, ma questo non garantisce che sia in grado di comprendere la complessità di un gioco sociale nel quale – per esempio – i prezzi emergenti dagli scambi giocano un ruolo fondamentale nell’aiutarci a compiere le nostre scelte. Per il ministro i prezzi sono un po’ come le aliquote di un’imposta: che il governo può alterare a proprio piacere. A ben guardare, però, nemmeno le tasse sono più (e per fortuna!) sotto la piena sovranità degli Stati. I governanti avrebbero infatti tutto l’interesse ad aumentare la tassazione, e non a caso la maggioranza al potere – che pure ha vinto le elezioni promettendo «meno imposte» – fatica a ridurre il prelievo. Solo che in un’economia globalizzata chi alza le tasse vede assottigliarsi la base imponibile e questo comporta una ri-

duzione del controllo sull’economia. Per fortuna che c’è il mercato globale, il quale fa sì che quelle di Tremonti siano nostalgie di un Novecento keynesiano e anticapitalista che – almeno in quelle forme – non tornerà più. Per giunta cresce la consapevolezza che si deve liberalizzare. Tutti gli anni l’americana Heritage Foundation dà i voti ai differenti Paesi, premiando chi ha scelto di ridurre il peso dello Stato. L’indice è soltanto una fotografia e non c’è perfetta corrispondenza tra gli incentivi al mercato e alti livelli di sviluppo. Nel 1995, per esempio, il reddito pro capite dell’Irlanda era inferiore a quello italiano (17.957 dollari contro 21.161), anche se le scelte politiche liberali compiute a Dublino piazzavano la “tigre celtica” al ventesimo posto nel ranking della Heritage, mentre l’Italia era solo quarantaduesima. Negli anni successivi, però, l’Irlan-

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Roma, Cutrufo critica Veltroni su turismo La flessione delle presenze turistiche registrate nella Capitale è come causa un nome e cognome: Walter Veltroni. A puntare il dito sulle scelte comminate dall’ex sindaco della Capitale in materia di iniziative legate al turismo e l’attuale vice sindaco con delega al turismo, Mauro Cutrufo. «Concordo con la Garavaglia quando sostiene che la crisi congiunturale dell’economia non spiega da sola il calo dei turisti a Roma di questi primi sette mesi del 2008. Come lei stessa sostiene, infatti, i tour operator hanno bisogno di 12 mesi di anticipo per il calendario degli eventi, per proporre le loro offerte. Perciò come ho più volte ribadito, ciò che nel turismo vediamo oggi in verità è accaduto 12 mesi fa, quando la Giunta Veltroni imperava».

Ferragosto: 9 milioni in viaggio Bollino rosso sulle strade italiane in vista del Ferragosto. Nel weekend gli italiani in viaggio saranno circa nove milioni. Cinque di questi partiranno soltanto per il ponte, i restanti rimarranno invece in vacanza fino alla fine di agosto. Le mete preferite saranno, per il mare, la costa ligure e quella adriatica, per la montagna il Trentino Alto Adige e la Val d’Aosta. Le città straniere più gettonate sono invece Parigi, Londra e Barcellona. Per il mare all’estero, le mete preferite sono invece Croazia, Caraibi e Mar Rosso. Secondo i dati diffusi dall’Osservatorio di Milano, in Italia il traffico più intenso è previsto per giovedì sera, in vista delle gite fuoriporta per il Ferragosto.

Il Paperone della Borsa è Benetton

La vocazione keynesiana del titolare di via XX settembre crolla di fronte ai successi di quei Paesi cresciuti puntando tutto su concorrenza e liberalizzazioni da si è sempre migliorata, collocandosi perfino terza nel 2001 e mantendendo sostanzialmente tale posizione nelle annate successive. Nei medesimi anni l’Italia si è collocata a livelli molto bassi: tra il sessantesimo e l’ottantesimo posto. Conseguenza è che nel 2006 gli irlandesi “liberisti”hanno registrato un prodotto interno pro capite di 40.716 dollari contro i soli 28.866 dollari degli italiani “statalisti”.

Queste sono semplici evidenze empiriche e non dimostrano nulla. Ma diventano perfettamente comprensibili alla luce di una riflessione teorica sul rapporto tra liberalizzazioni e crescita. Per questo molti Paesi vanno tirando conseguenze rilevanti da ciò. Anni fa sembrava che avesse le idee chiare anche chi si schierava a fianco delle partite Iva, ma poi le cose sono cambiate. Non è però detto che Tremonti (di fronte ai guasti che lo statalismo sta predisponendo) muti ancora linguaggio e compia scelte differenti. A condizione che non dia retta a Fitoussi.

Chi si è arricchito di più, dal 1990 a oggi, nella Borsa italiana? Un’analisi di Milano Finanza premia i Benetton, Del Vecchio, Bulgari, Caltagirone, Rocca e i Nattino. Più deludenti Agnelli, Ligresti, Berlusconi e De Benedetti, tutti battuti (o quasi) dall’inflazione. Un’analisi delle classifiche dei “paperoni“ di Borsa degli ultimi 18 anni pubblicata dal settimanale Milano Finanza, mostra come è variata la ricchezza personale dei grandi nomi della finanza e dell’economia. E si fanno molte scoperte interessanti. Per esempio, gli Agnelli sono stati largamente battuti dall’inflazione. E anche Berlusconi non vale molto di più di quando, nel 1996, ha quotato Mediaset. Mentre invece i Rocca, Del Vecchio e Benetton fanno faville.

Bologna: la Destra striglia la giunta Li hanno costruiti in ritardo, inaugurati, ma mai utilizzati. Sono i dieci alloggi per disabili di via Bovi Campeggi, nuovi di zecca e completamente attrezzati. Peccato che siano vuoti. Nessuno li ha ancora occupati, nonostante perfino il prato e gli alberi vengano curati da un giardiniere. La denuncia è della Destra di Francesco Storace, sempre più attiva anche a Bologna. Eppure la storia di questi appartamenti collocati su due piani si perde nel tempo. Nel 2002 la giunta comunale, come da delibera, approva la realizzazione della struttura, interamente dedicata «a persone affette da invalidità motoria».

Immigrazione, La Russa: i controlli ci sono Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, dopo aver personalmente partecipato, a bordo di un velivolo Atlantic dell’Aeronautica Militare, a un volo di ricognizione nell’area sud dello Stretto di Sicilia, ha manifestato il proprio apprezzamento per le capacità operative espresse dagli equipaggi misti della Marina e dell’Aeronautica Militare per il loro costante e prolungato sforzo sostenuto quotidianamente, unitamente alle unità navali della Marina, per controllare e monitorare i flussi migratori. Lo riferisce una nota del ministero della Difesa. La Russa, nell’occasione, ha voluto simbolicamente ringraziare i militari di tutte le Forze Armate.


pagina 8 • 15 agosto 2008

il caso A destra la manifestazione di solidarietà nei confronti di Eluana Englaro. Numerosissime persone continuano a portare bottiglie d’acqua nel Duomo di Milano per la ragazza in stato vegetativo da sedici anni. In basso monsignor Negri, vescovo di San MarinoMontefeltro

Testamento biologico. Viaggio nel mondo cattolico/5. Parla monsignor Luigi Negri

«Io mi schiero con Pessina» colloquio con monsignor Luigi Negri di Francesco Rositano

ROMA. «Noi cattolici siamo perfettamente convinti che la vita di un uomo non sia nemmeno sua. Di conseguenza un credente non potrebbe mai accettare che una persona, anche se lo lasciasse per iscritto, ad un certo punto chiedesse di essere lasciato morire». Monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino Montefeltro, boccia il testamento biologico, giudicandolo come il frutto di una cultura tecno-scientifica basata sul principio di disponilità della vita. E condivide la scelta del professor Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’università Cattolica, che si è dimesso dall’associazione Scienza e Vita dopo che i due presidenti avevano rilasciato dichiarazioni interpretate nella direzione di una loro disponibilità a dibattere sull’introduzione in Italia del “testamento biologico”. «Ha fatto bene Pessina - afferma il presule - anche perché stando alla ricostruzione dei giornali, il direttivo ha preso una posizione aperturista nei confronti di questo strumento giuridico senza una consultazione adeguata di tutti i membri dell’esecutivo». Insomma l’ecclesiastico non ha dubbi: i cattolici non possono scendere a compromessi su una questione antropologica così decisiva. «Come cristiano e come vescovo - continua monsignor Negri -serve ribadire che la vita se non è disponibile a nes-

sun altro che non sia Dio non è disponibile nemmeno all’uomo che non l’ha creata ma ricevuta. Siamo consapevoli che una posizione del genere renderà particolarmente impervio il dibattito, ma noi non possiamo certo cedere». Eccellenza, a suo avviso in Italia c’è bisogno di una legge sul testamento biologico? «Credo che più che il testamento biologico in una società fortemente laicizzata come la nostra sicuramente urge una regolamentazione di tutti i problemi bioetici. E questo però il punto: deve es-

cietà. E che renderà particolarmente impervio il dibattito, ma noi non possiamo certo cedere. Ma perché è d’accordo con Pessina? Sono d’accordo con lui perché il direttivo ha preso una posizione aperturista senza una consultazione adeguata di tutti i membri dell’esecutivo. Per cui, se è avvenuto così, Pessina ha avuto cento buone ragioni che l’hanno spinto ad andarsene: se ci sono statuti e delle norme bisogna rispettarle. Inoltre Scienza e Vita apriva alla possibilità di adottare il testamento biologico. E le varie propo-

Ha fatto bene Adriano Pessina a prendere le distanze da ”Scienza e Vita”. Per i cattolici infatti è inconcepibile che una persona venga lasciata morire perché lo aveva messo per iscritto

sere trovata una posizione il più possibile condivisa fra identità. Ciascuna delle quali ha una propria cultura. Ora quello per cui condivido la posizione de professor Adriano Pessina è che noi dobbiamo dare il nostro contributo ma non dimenticando e riducendo i valori dell’antropologia cristiana, di quella che il grande Giovanni Paolo II definiva cultura della vita. Infatti, quando si dice che la vita è indisponibile a tutti meno che a Dio si dice una cosa particolarmente difficile da far comprendere alla so-

ste, a cominciare dal nefasto Veronesi in giù, sono regolamentazioni, o poco o tanto, di eutanasia. Attualmente, a suo avviso qual è l’orientamento generale riguardo queste tematiche? Adesso c’è una soluzione di tipo tecnoscientifico per cui la vita è a disposizione della scienza ratificata dalla magistratura. Adesso è la magistratura la vera fonte del pericolo della democrazia in Italia, perché interviene su tutto e su tutti senza un minimo di sindacabililtà.

Qual è invece il suo giudizio sull’accanimento terapeutico? Sull’accanimento terapeutico la Chiesa non deve prendere lezioni da nessun laico, dal momento che ha sempre tracciato esattamente il confine tra l’accanimento terapeutico e le cure che sono necessarie al mantenimento essenziale della vita. Anche per lei, come per il resto del mondo cattolico, il testamento biologico è l’avamposto dell’eutanasia? Il punto è più semplice. Se a 16 ani dicessi: «lasciatemi morire», per il cattolico non ha nessun significato; per il laico ne avrà e potrebbe averne, ma esattamente su questi punti si costruisce il confronto. Non si può fare il testamento biologico perché questo strumento giuridico ha per contenuto la vita e quest’ultima non è in mio possesso. Sarà brutale, ma la fede dice così. Quanto al rapporto medico-paziente, cosa ne pensa? Il problema è che si costituisca una comunione di persone: non ci sono solo il medico e il paziente. O addirittura il fatto che il medico è l’organo del paziente che egli ha il compito di accudire. Ma per realizzare un convivenza bisogna avere delle motivazioni ma non sono legate allo scenario tecnologico, ma etiche e culturali.


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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

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agosto 1769

In quella Corsica che da tre mesi è stata ceduta ai francesi

Oggi (forse) ad Ajaccio nasce Napoleone Bonaparte di Pier Mario Fasanotti ata e luogo ufficiali di nascita: Ajaccio, 15 agosto 1769. Napoleone Bonaparte quindi nacque in una terra, la Corsica, che tre mesi prima era stata ceduta alla Francia. Napoleone nasce francese, dunque. Ma sui natali dell’imperatore, e sulla sua vera nazionalità, ci sono sempre stati tanti dubbi. Quando Bonaparte sposò Giuseppina Tascher de la Pagerie, l’atto di matrimonio redatto a Parigi nel 1796, dice chiaramente che lo sposo, era nato il 5 febbraio 1768 e specifica che aveva 28 anni. Lo sposo artatamente invecchiato e la sposa opportunamente ringiovanita di 5 anni per poter dire di avere anche lei 28 anni: queste false date di nascita sul registro matrimoniale, pur civile, furono uno dei cavilli cui si attaccò in seguito il piccolo còrso per “l’annullamento” dell’unione in vista del matrimonio con Maria Luisa d’Asburgo. A posteriori non avevano considerato che la Corsica, in quel periodo, era ancora italiana (dominio di Genova) e non francese. Sta di fatto che Napoleone imparerà il francese tardi. A scuola, ad Ajaccio, non gli insegnavano la lingua di Moliére e di Voltaire. Il vero idioma che parlava in casa era l’italiano, anche se il più delle volte si esprimeva in dialetto còrso. E còrso di indole e di tradizione si riterrà sempre a tal punto che talvolta si lascerà sfuggire una frase come questa: «Voialtri francesi…». Lo studio dedicatogli dello storico Ippolito Taine (francese) comincia così: «Manifestamente questo non è un francese, né un uomo del XVIII secolo; appartiene a un’altra razza e a un’altra età. Alla prima occhiata si distingue in lui lo straniero, l’italiano. Italiano di nascita e di sangue». Un profilo calcatamente razzista, senza dubbio. Un altro studioso, Louis Madelin, è dello stesso avviso: «Napoleone, italiano puro sangue. È il discendente non degenere della Roma an-

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SCRITTORI E LUOGHI

tica». Ringraziamo per quel “non degenere”, in ogni caso l’analisi abbonda di retorica. I Buonaparte, e non Bonaparte come Napoleone si firmò per la prima volta sul registro matrimoniale imponendo da allora il “cambio” del cognome, erano un’antica e nobile famiglia della Toscana. Uno degli antenati, vissuto nell’undicesimo secolo, aveva preso parte alla Prima Crociata. Alcuni Buonaparte vivevano a Firenze, altri si trasferirono a Treviso. Verso la metà del Tredicesimo secolo il patrizio fiorentino Guglielmo Buonaparte, che militava nella parte ghibellina e combattè contro i Guelfi, fu mandato in esilio. Si sistemò a Sarzana, cittadina che apparteneva alla Repubblica di Genova. continua a PAGINA II

I VIGLIACCHI DELLA STORIA

La Buenos Aires di Borges e Mallea

L’imperatore e la madre Letizia Buonaparte

I SENTIMENTI DELL’ARTE

L’odio secondo Giotto di Olga Melasecchi

di Filippo Maria Battaglia

Anthony Eden di Roberto Festorazzi

a pagina IV

a pagina VI

a pagina VII pagina I - liberal estate - 15 agosto 2008


Sopra a sinistra il monumento dedicato al còrso ad Ajaccio (nel riquadro il busto di Napoleone bambino nel capoluogo corsico), al centro il padre Carlo Buonaparte, a destra il giorno dell’incoronazione. A lato la moglie Maria Luisa d’Asburgo e un giovane Napoleone. Sotto Paolina Borghese e la battaglia di Waterloo nella pagina accanto un drammatico momento della rivoluzione francese la gratuita in Francia, prima in un collegio ecclesiastico ad Autun, poi alla scuola militare di Brienne. apoleone aveva dieci anni quando cominciò a conoscere da vicino e frequentare i compagni di scuola francesi. Però non parlava la loro lingua e furono mesi in imbarazzo.Testardo e puntiglioso qual era, la imparò in un centinaio di giorni, e questo gli consentì di passare poi alla scuola militare. Fu comunque schernito e fatto oggetto di burle anche a causa del suo nome di battesimo, che a quei tempi era praticamente sconosciuto in Francia. Oltretutto lui lo pronunciava alla maniera còrsa: non Napoleone, ma Napojone. Un giorno, parlando con un amico, disse: «Ai tuoi francesi farò tutto il male che potrò». Strane coincidenze della storia: quel coetaneo si chiamava Bourrienne, e sarebbe diventato segretario particolare del padrone di mezza Europa. Napoleone continuava a guardare con tristezza la sua isola occupata dai francesi. Nella sua eccitazione di esule, pensò addirittura al suicidio: «I miei compatrioti in catene baciano tremando la mano che li opprime! Quando la patria non esiste più un buon patriota deve morire». Scrisse questa frase nel suo diario. Nel giugno 1789 inviò una lettera al suo idolo, il generale Paoli che si era trasferito in Inghilterra: «Io nacqui quando la mia patria periva. Trentamila francesi rigettati sulle nostre coste affoganti il trono della libertà con fiotti di sangue: tale fu l’odioso spettacolo che colpì per primo i miei sguardi. Le grida dei morenti, i gemiti degli oppressi, le lagrime della disperazione circondarono la mia culla fin dalla nascita». Molta en-

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segue da PAGINA I I suoi discendenti diventarono sindaci, notai, consiglieri amministrativi della città. L’ultimo Buonaparte che nacque e visse sulla penisola, Francesco, nobile mercenario (balestriere a cavallo) si trasferì in Corsica nel 1490 e poi di nuovo nel 1515 dando vita al ramo corso dei Buonaparte. Da lui discese Carlo, padre di Napoleone. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza a Pisa, ottenne il posto di assessore presso il tribunale di Ajaccio. La madre si chiamava Maria Letizia Ramolino, di limpida origine italiana. Anni più tardi, il futuro imperatore dei francesi dichiarerà: «La mia origine straniera contro la quale si è tentato di gridare in Francia mi è stata preziosa. Essa mi ha fatto considerare come un compatriota da tutti gli italiani e ha grandemente facilitato i miei buoni successi in Italia. Quando si trattò del matrimonio di mia sorella Paolina con il principe Borghese, non vi fu che una voce, a Roma e in Toscana, sia in quella famiglia sia fra i congiunti: “Sta bene” han-

no detto “si fa tra noi, è una delle nostre famiglie». nni dopo, quando il Pontefice manifestò qualche dubbio sull’opportunità di recarsi a

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li. Saremo così vendicati dei Galli». Frase tagliente, che rispecchiava l’esistenza di pregiudizi storici di vecchia data, la divisione profonda tra territori all’interno della medesima Europa, la diffidenza tra le varie etnie che proprio il Bonaparte, come fecero poi gli austriaci Asburgo, tentò di amalgamare nel segno del diritto e della pacificazione. Napoleone ragazzo aveva come idolo il generale Pasquale Paoli. Sapeva delle sue gesta, che avevano contorni leggendari, e le leggeva sui libri. Paoli era il campione delle libertà còrsa. Al comando di migliaia di ribelli, sfidò la potenza di Genova col risultato che la repubblica ligure fu costretta a cedere l’isola alla Francia. Nell’ottobre 1768 Paoli sconfisse i genovesi a Borgo. Si dice anche

Imparerà il francese tardi. A scuola, ad Ajaccio, non gli insegnavano la lingua di Molière e di Voltaire. Il vero idioma che parlava in casa era l’italiano, anche se il più delle volte si esprimeva in dialetto còrso Parigi per incoronare Napoleone, ci fu un contrasto abbastanza acceso tra cardinali italiani e cardinali austriaci. I prelati italiani gli consigliarono vivamente di intraprendere quel viaggio dicendo: «In fin dei conti è una famiglia italiana che noi imponiamo ai barbari per governar-

pagina II - liberal estate - 15 agosto 2008

che tra il generale e il padre di Napoleone, che dell’ufficiale fu aiutante in campo, i rapporti di amicizia fossero molto stretti. Ci fu poi la battaglia indipendistica contro i francesi nel maggio 1769 a Pontenuovo, dove i ribelli furono schiacciati da forze ben superiori. Paoli fu costretto ad abbandonare la terra natale e se ne andò in esilio. Questa vicenda eccitò la fantasia del giovane Bonaparte, rimasto sempre astioso verso gli “oppressori” della sua Corsica. Un sentimento che durerà, tra alti e bassi, fino allo scoppio della Rivoluzione Francese. Se per l’Italia nutriva una certa indifferenza, per Genova un forte risentimento, per la Francia avvertiva un autentico odio.Tutto ciò traspare chiaramente dalle frasi che pronunciò da ragazzo. Il padre Carlo fece buon viso a cattivo gioco e cercò di trarre i maggiori benefici dall’occupazione francese. Grazie all’intercessione del conte Marbeuf, governatore dell’isola, venne eletto nel 1777 deputato della nobiltà corsa agli Stati Generali di Francia. Ottenne poi una borsa di studio per il figlio garantendogli scuo-


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o stesso giorno... nel 1977

La fuga di ferragosto Herbert Kappler scappa dal Celio di Filippo Maria Battaglia

fasi, certamente, ma anche una sincera affezione a un’isola che lui desiderò sempre libera. opo lo scoppio della Rivoluzione, scrisse al cancelliere-capo dell’Assemblea consultiva còrsa, Giudica: «Mentre la Francia rinasce che diverremmo noi, sventurati còrsi? Sempre vili, continueremo a baciare la mano insolente che ci opprime? Continueremo a vedere tutti gli impieghi, che il diritto naturale destinava a noi, occupati da stranieri altrettanto spregevoli pei loro costumi e la loro condotta quanto abbietti per la loro nascita?». A Brienne cercò di imbrigliare l’astio verso i francesi e cercò di approfittare degli insegnamenti. Scarso il profitto in latino e nell’ortografia francese, brillante in storia e in matematica. Sbalordiva i professori con la velocità con cui risolveva i problemi. La sera e nelle ore libere divorava decine e decine di libri di storia e di filosofia politica e sociale.Tra gli autori preferiti: Polibio, Plutarco, Rousseau (“Il contratto sociale” del filosofo ginevrino diventò il suo breviario ideologico). Nel cortile della scuola, riuscì a ritagliarsi uno spazio tutto suo. E chiunque lo disturbasse doveva vedersela con la sua ira. Menava facilmente le mani.Voleva stare in pace, lontano dagli altri. Alcuni docenti si irritarono per la sua lingua tagliente, per la sicurezza e per l’arroganza con cui esprimeva le sue opinioni. Un giorno uno dei professori gli domandò: «Chi siete voi per rispondere così?». E Napoleone: «Un uomo, signore!». Dopo Brienne, dove fu giudicato maturo per il passaggio a Parigi, la Scuola Militare della capitale di Francia. Qui si istruivano i cadetti gentiluomini del re. Napoleone entrò nella grande scuola parigina il 30 ottobre del 1784. Nel suo bagaglio mentale: una grande voglia di affermarsi, un’enorme passione per lo studio, una profonda nostalgia della patria còrsa e l’odio per

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È ferragosto, l’Italia è al mare, l’ufficiale delle SS Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, è «in custodia» all’ospedale militare Celio di Roma. Ha da poco lasciato il carcere di Gaeta dove cinque anni prima ha sposato Anneliese. Stando ai referti medici, le sue condizioni di salute peggiorano di giorno in giorno. Per questo, il ministero della Difesa ha da tempo autorizzato lo spostamento nella struttura militare romana. Per farlo, ha dovuto però modificare la qualifica del criminale: il comandante della Gestapo di Roma non è più un «detenuto» ma un «prigioniero di guerra». Datata 15 agosto, la fuga. Con la moglie, Kappler scappa in Germania e si rifugia a Soltau, dove riceve amici e rilascia diverse interviste. L’evasione è scoperta solo alle 10 di mattina da una suora che presta servizio infermieristico nella struttura romana. È una bomba. Il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti va in tv e afferma: «All’umanità del trattamento che gli abbiamo riservato si è risposto con la fuga. Ai responsabili occorre ora una punizione esemplare». E in effetti l’affaire Kappler fa “saltare” diverse teste politiche e militari, a cominciare dal ministro della Difesa, il diccì Vito Lattanzio. L’Italia chiede subito di estradarlo, la Germania ovest risponde no. La mo-

quella impostagli. Sentimenti rinfocolati dall’atteggiamento sprezzante tenuto dai rampolli della nobiltà francese che guardavano con diffidenza il coetaneo proveniente dalla periferia. Più tardi confesserà: «Ne ho distribuiti di schiaffi in quel tempo!». Sì, perché aveva un carattere forte, anzi aggressivo. E non tollerava d’essere considerato inferiore a nulla e a nessuno. el febbraio 1785 morì suo padre per un cancro allo stomaco, la stessa malattia che marchierà gli ultimi anni della sua vita in esilio. La notizia era dolorosa, ma non drammatica. Napoleone non aveva molta stima per il padre, al quale non aveva mai perdonato di essersi dissociato dal generale Paoli, l’indipendentista. Carlo Buonaparte, agli occhi di Napoleone, era stato troppo arrendevole, aveva accettato l’occupazione e il regime francesi non solo pazientemente, ma diventando poi sostenitore convinto del governo di Parigi. Ma a parte l’intreccio tra lutto e ricordi, Napoleone ebbe dinanzi a sé un problema pratico non indifferente: come aiuta-

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L’ufficiale delle SS, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, era ricoverato al terzo piano del reparto chirurgico dell’ospedale militare di Roma. L’evasione è scoperta da una suora del reparto alle 10 di mattina

tivazione sta nel risvolto formale della legge: dacché il governo italiano lo ha definito prigioniero di guerra, Kappler ha semplicemente esercitato il suo diritto alla fuga, peraltro garantitogli dal suo staus. Ecco come molti anni dopo l’ex ministro Lattanzio commenterà l’evasione, a tutt’oggi mai del tutto chiarita, in un’intervista rilasciata a Enzo Cicchino: «Kappler lasciò l’ospedale del Celio dalla porta principale, su una macchina che la signora Kappler aveva noleggiato, qualche giorno prima, dall’agenzia Hertz di Fiumicino. Abbiamo tutta la documentazione, del momento in cui con una macchina, diversa, una Audi, la signora Kappler, seguita dalla Fiat, entrò nell’autostrada di Roma e si diresse verso il Nord. E quindi i vari passaggi, tutti documentati, stazione per stazione, fino al punto in cui la 131 fuse il motore. La Kappler continuò con l’Audi di cui era in possesso e in cui trasportò di fatto il marito. La scoperta che Kappler non era più nella sua stanza, al terzo piano del reparto chirurgico, al Celio, fu fatta alle ore 10 e qualche minuto della mattina del 15 Agosto ‘77, dalla suora di reparto. La suora avvertì il carabiniere di guardia che si mise in contatto con le autorità superiori. Egli però non riuscì, per la verità, ad avere quella pos-

re la famiglia. I figli di Carlo erano otto, Giuseppe era il maggiore, Napoleone il secondogenito. Poi c’erano: Luciano, Elisa, Lui-

graduatoria su 58 cadetti del suo corso. Il 28 ottobre 1785 lasciò la Scuola Militare di Parigi e venne destinato a un reggimento di stanza nel Delfinato, nella piccola città di Valence (Valenza), sul Rodano. Appena sedicenne meditò su come cavarsela nel mondo. Mise in moto la sua formidabile volontà: in appena tre mesi, lavorando sedici ore al giorno, assimilò tutte le cognizioni tecniche sull’artiglieria che, a quei tempi, primeggiava in Europa. Si privava di quasi tutto. Dormiva poco, mangiava una sola volta al giorno, ignorava le donne arrivando a dire che erano soltanto un guaio per l’uomo. Unico suo svago la lettura. Racconterà: «Quando, a forza di astinenze, avevo ra-

I Buonaparte, e non Bonaparte come Napoleone si firmò per la prima volta sul registro matrimoniale imponendo da allora il “cambio” del cognome, erano un’antica e nobile famiglia della Toscana. Un antenato aveva preso parte alla prima crociata. L’ultimo della famiglia che nacque e visse sulla penisola, Francesco, si trasferì in Corsica dando vita al ramo còrso dei Buonaparte gi, Paolina, Carolina e Girolamo. Il problema esisteva e non era da poco, ma lui lo volle affrontare dopo aver raggiunto il brevetto di sottotenente di artiglieria. Conquistò il 42esimo posto in

sibilità rapida di comunicazione che il caso richiedeva. Io stesso, che ero a Fregene con la mia famiglia, appresi della fuga verso le 11.30. Direi quasi un’ora dopo che era stata scoperta la non più presenza del Kappler, nella sua stanza. Tornai a Roma e convocai subito il comandante generale dell’Arma e il procuratore generale militare, che aprirono le loro indagini e contemporaneamente presi contatti con il ministro degli Interni, perché potesse essere svolta ogni idonea indagine, perché era grande il sospetto, che date le gravissime condizioni dell’ammalato, questo poteva anche non essere andato fuori Roma». L’ufficiale delle SS morirà il 9 febbraio 1978 a Soltau. Con Pietro Caruso, resterà alla storia quale autore di una delle più tragiche pagine della seconda guerra mondiale: il rastrellamento delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine.

cimolato due scudi, m’incamminavo con gioia infantile verso il negozio del libraio. A lungo adocchiavo, prima che la mia borsa mi permettesse di comprare.Tali erano le gioie e gli stravizi della mia gioventù». Nel reggimento non riuscì simpatico. I compagni lo sentivano diverso. Passava il tempo libero col fratello Luigi, che era riuscito a ospitare nella sua stanza per alleviare le fatiche economiche della sua famiglia. Quando giunse la notizia della caduta della Bastiglia, aValence i soldati e gli ufficiali esultarono. Napoleone ebbe sentimenti ambivalenti: da un lato apprezzava i principi ugualitari della Rivoluzione (ben conformi ai testi del suo Rousseau), dall’altro avvertiva una profonda avversione per la massa, la non disciplina, il caos. Sapeva però che la sua Corsica poteva riscattarsi proprio in base ai principi di democrazia. Sognava un futuro di autonomia per l’isola. Ad Ajaccio tornò da tenente colonnello, a soli 22 anni. Capo dei volontari. Cominciò in quei mesi ad assaporare l’ebbrezza del comando. Il primo passo verso una carriera strepitosa.

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SCRITTORI E LUOGHI

Ricordi letterari DA

BUENOS AIRES

con Borges e Mallea Il quartiere di Belgrano: una zona di strade tranquille all’ombra delle jacarande e di piazzette segrete di Filippo Maria Battaglia

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n enorme calderone dove la memoria gioca brutti scherzi. Buenos Aires «non ha una fisionomia comprensibile, né una forma che si possa definire con precisione; cambia man mano che la si percorre da un estremo all’altro. Forse perché c’è troppo, troppo di tutto: grattacieli newyorkesi, balconi parigini, finestre di ferro battuto come a Madrid, marciapiedi come a Damasco e al Cairo, malinconici caffè e strade alberate di periferia i cui nomi sono sempre sulla punta della lingua». Questa, la descrizione della capitale argentina a firma dello scrittore Alberto Manguel. Opinione del resto condivisa da un peso massimo della letteratura contemporanea, Jorge Luis Borges, orgoglioso di essere sempre stato e di voler continuare a stare a Buenos Aires. Accompagnato dall’autore dell’Aleph (per l’occasione ribattezzato il «mio Virgilio») Manguel perlustra gli anfratti della metropoli agrigentina: «una volta mentre passeggiavo con Borges nella zona di Bue-

nos Aires nota come El Bajo, il vecchio cieco mi descrisse gli squallidi bar e gli angoli delle strade illuminate a gas esplorati in gioventù quando ancora vedeva, e che per lui erano una presenza solida come i muri in mattoni e le finestre con le persiane. assando accanto alle alte torri dell’Hotel Sheraton o alle costose boutique che vendono pelletteria ai turisti, Borges descriveva sale buie, dove uomini con giacche nere e attillate e fazzoletti di seta bianca bevevano ginebra, qualcuno sul retro strimpellava alla chitarra una milonga e guapos dalla voce suadente accennavano, di sfuggita e con una punta di nostalgia a quella volta che avevano ucciso un uomo». Una città vecchio stampo, dunque, decisamente diversa da quella che Manguel si appresta a descrivere. Lo spazio di tempo in cui prende le mosse la sua Buenos Aires è poco più di un decennio e coincide con la caduta di Peron e la

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dittatura argentina del ‘68. Scenario preferito dallo scrittore è «il quartiere di Belgrano, dove vive la mia famiglia: una zona di strade tranquille all’ombra delle jacarande e di piazzette segrete che si aprono inaspettate in fondo a esse. Sull’acciottolato fuori dalla mia casa, la mattina presto un cavallo trascinava rumorosamente il carretto del venditore di acqua alla soda che consegnava le cassette di legno con cinque o sei sifoni verdi o blu alla cuoca perché li riponesse nel tinello.Arrivava poi il cianciolo spingendo la sua carriola alla ricerca di vecchi abiti da comprare e poi l’arrotino, che portava in giro le cote con un curioso trabiccolo su ruote, soffiando nell’armonica per annunciare il proprio passaggio. All’angolo c’era una farmacia che emanava sempre un buon profumo di eucalipto, e dall’altra parte una cartoleria che esibiva una serie spettacolare di quaderni e penne, nonché i romanzi d’avventura della serie “Robin Hood” con cui scoprii Ju-

Il detective Carvalho, creato da Montalban, della capitale argentina conosce solo il tango, i desaparecidos e Maradona lius Verne, Emilio Salgari e la saga di Bomba, il ragazzo della giungla alla perenne ricerca del padre perduto». ncora più densa di amarcord, la rievocazione delle proprie radici: «Belgrano era la mia casa. Il cuore della città, El Centro, era invece il luogo dell’avventura. La scuola che frequentavo stava a un isolato nel cuore politico della città, la plaza de Mayo, dove un secolo e mezzo prima si era formato il primo governo locale, all’inizio delle guerre d’indipendenza dalla Spa-

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gna e da dove, da allora in poi, sarebbero partite quasi tutte le rivolte che hanno insanguinato il paese. Era anche a poca distanza dal mondo degli adulti, fatto di sesso e di pericoli: l’affollato quartiere commerciale di calle Folarida, calle San Martìn con le banche e i sudici bar e gli uffici di cambio, calle Lavalle costellata di cinema per tutti i gusti e avenida de Mayo in stile vecchia Europa, dove nei caffè all’aperto gli anarchici spagnoli esiliati discutevano di letteratura e politica sorseggiando un bicchiere di sherry. Più a nord, oltre l’ampia


Edoardo Mallea descrive gli scivoli delle navi stipati di bestiame e gli abili coltelli dei macellai pronti a soddisfare la voracità del mondo

Due ballerini di tango a destra Plaza de Mayo Sopra: il porto della città e Rio de La Plata Nella pagina accanto: in alto il quartiere Belgrano e il centro storico, sotto a sinistra l’Hotel Sheraton a destra un particolare del palazzo della Borsa in basso un albero di jacaranda con i tipici fiori di colore viola

avenida 9 de Julio e l’obelisco, si può cedere alle infinite lusinghe delle librerie di calle Corrientes, polverose botteghine buie presidiate da arcigni vecchietti». Ma presto incombe la dittatura. Così, anche per Manguel la capitale diventa «una città di assenze: persone care erano scomparse, rapite, torturate, uccise o forzate all’esilio. I luoghi dove gli amici una volta si incontravano erano diventati quelli da cui gli amici erano stati prelevati; gli indirizzi non corrispondevano più; certi angoli, certi caffè, divennero luoghi della memoria. Alcuni semplici cambiamenti dell’architettura... cercano di convincermi che la città è quella che esiste ora, rinnovata, per la quale Borges e tanti altri non sono che ombre. Io però non ci credo». Il mitico detective Pepe Carvalho creato da Manuel Vazuez Montalban, invece, conosce poco la capitale argentina, tanto che a domanda precisa lo «sbirro» afferma di essere venuto a conoscenza solo del tango, dei desaparecidos e di Maradona. Più goliardico il tono dello scrittore Julio Cortàzar, che con nettezza

sentenzia: «L’Argentina è Buenos Aires e il resto è campagna». in Europa? Come vedono la capitale argentina? In Sweet Water and Bitter, Gordon Meyer mette in bocca alla protagonista Jane questa descrizione della città e delle sue botteghe: «Risultò invece essere un grande e disordinato negozio di roba usata. Si verificava ogni sorta di accostamento: curioso, divertente, bizzarro, tragico; una bella chiesa settecentesca gomito a gomito con la sudicia bottega di un sarto, un’oscura, squallida sezione militare, protetta da un soldatino con la faccia a luna piena che imbraccia un mitra; un piccolo “palazzo” (e come altro si potrebbero descrivere quelle fantastiche, splendide residenze dei ricchi che riproducono tutti i tratti dei palazzi europei?) con dietro baracche dal tetto in lamiera ondulata; un’ambasciata che affaccia su una discarica abusiva, maleodorante per le carcasse putrefatte dai cani». Ma Buones Aires non è solo tema preferito dalle ultime generazioni degli scrittori di mezzo mondo. Una suggestiva descrizione del suo centro cittadino la offre ad esempio Cunnighame Graham (corre l’an-

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no 1870): «Proprio all’angolo fra le strade chiamate 25 di maggio e calla de Cangallo, sporgeva l’albergo di Claraz. In quei giorni, molto prima che la città di La Plata spuntasse e scomparisse, prima che la Uniòn Civica fosse nota e quando gli echi della guerra del Paraguay ancora risuonavano nel Rio de la Plata, questo era un nodo trafficato. La vita di Buenos Aires scorreva fuori dalla porta di casa. A soli tre isolati di distanza le due grandi plazas, con i loro palazzi e le caserme, si crogiolavano al sole, o tremavano al vento, a seconda che fischiasse il pampero o il caldo vento del Nord. La Borsa era vicina; il molo a un tiro di schioppo e risalendo la profonda calle de Cangallo, che somigliava più a un canale in secca che a una via di grande transito, si trovavano diversi alberghi importanti. La casa era costruita tutt’intorno a un cortile, con un grande arco su cui si affacciavano stanze del piano rialzato dove Claraz teneva le sue selle, i suoi libri. Il resto dell’edificio era alto non più di un piano, anche se essendo costruito su una sponda del fiume, la vista arrivava finoltre il Rio de la Plata, che a Buones Aires è ampia quasi cinquanta chilometri, tanto

che le case di La Colonia sull’altra sponda, sono visibili solo nei giorni più tersi». a capitale è però anche una città di mare. La parola passa a Edoardo Mallea (1903-1982) e alla sua Città sul fiume immobile: «Sonore navi nere ancorate nel porto di Santa Maria de los Buenos Aires riversavano sulle banchine il raccolto industriale di entrambi gli emisferi, il colore e il rumore di quattro etnie, lo iodio e il sale dei sette mari; e contemporaneamente, pieni zeppi della fauna, flora e dei minerali della nostra terra, alte navi solenni partivano in otto diverse direzioni sull’acqua in mezzo allo stridente saluto delle sirene navali». La parola passa ad Edoardo Mallea (1903-1982) e alla sua Città sul fiume immobile: «Sonore navi nere ancorate nel porto di Santa Maria de los Buenos Aires riversavano sulle banchine il raccolto industriale di entrambi gli emisferi, il colore e il rumore di quattro etnie, lo iodio e il sale dei sette mari; e contemporaneamente, pieni zeppi della fauna, flora e dei minerali della nostra terra, alte navi solenni partivano in otto diverse direzioni sull’acqua in mezzo allo stridente sa-

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luto delle sirene navali. Se da qui si risalisse il riachuelo fino agli stabilimenti del frigorifico, si potrebbero ammirare scivoli stipati di bestiame e gli abili coltelli dei macellai pronti a perpetrare una catastrofe per soddisfare la voracità del mondo intero.Treni orchestranti entravano in città o ne uscivano diretti al verde nord e dalle fabbriche di Avellaneda a Belgrano, la metropoli era abbracciata da un anello di comignoli fumanti». Il porto è però anche luogo di commiati per poeti come Carlos Riga, protagonista di El mal metafisico di Manuel Gàlvez: «alla fine il Cap Ortegal cominciò a muoversi. Da sotto i parasole volavano addii, frasi leggere. Qualcuno mandava baci, tutti sventolavano fazzoletti, finché la nave non si trovò a metà della darsena». Spazio poi a caffè e luoghi di ritrovo, descritti così da Horacio Vàzquez Rial nell’Historia del Triste: «L’atmosfera impenetrabile del caffè, centro di contrattazioni e discordie nella vita di Buenos Aires, la città ai margini e quell’altra, l’avanguardia urbana nelle zone meno ammansite nei dintorni: gli sterminatori di indios che hanno completato con successo le loro azioni aggressive agli ordini di Rosas prima e poi di Roha, hanno disseminato nell’infinito shock delle pampas i primi segni di questa istituzione sociale trascendente nota come la pulperia (un bar con spaccio) battezzata e frequentata da immigranti galiziani che avevano visto un polipo l’ultima volta quando erano partiti per l’America in cerca di fortuna». Un crogiolo di ingredienti, una contraddizione vivente, che anni dopo spingerà Borges a scrivere: «Mi sembra una bugia affermare che Buenos Aires abbia avuto un inizio: io la considero eterna, come l’aria o l’acqua». Bibliografia Manuel Vàzquez Montalbàn, Quintetto di Buenos Aires, traduzione di H. Liria, Feltrinelli, pp.376, euro 9 Jason Wilson, Buenos Aires, prefazione di Alberto Manguel, traduzione di N. Poo, Bruno Mondadori, pp. 263, euro 22 Horacio Vàzquez Rial, Historia del Triste, Plaza e Janes, Barcelona Manuel Galvez, El mal metafisico, Mercatalli, Buenos Aires Edoardo Mallea, La Città sul fiume immobile, Corbaccio Gordon Meyer, Sweet Water and Bitter, Gordon Meyer, Inc, Usa

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I VIGLIACCHI DELLA STORIA La missione romana del giugno ’35 fu un fallimento. Lo statista inglese umiliò Mussolini rivolgendosi al capo di Stato, con atteggiamento snob, come si fa con un portinaio. E l’affronto non fu dimenticato li storici non hanno ancora forse valutato in profondità quali furono le responsabilità personali di Anthony Eden nello scavare un fossato tra Italia e Gran Bretagna, alimentando in Mussolini la tentazione di “farla pagare” alla “perfida Albione”. Eden, nato il 12 giugno 1897 da famiglia aristocratica, nel 1931 entrò nel governo come sottosegretario del ministero degli Esteri con delega per la Lega delle Nazioni. Quattro anni più tardi, la promozione a capo del Foreign Office. Nel febbraio 1938 dovette lasciare l’incarico per contrasti con il premier Neville Chamberlain.Tornato al governo nel settembre 1939, quale segretario di Stato per gli Affari coloniali, alla fine del ‘40 riprese la guida del ministero degli Esteri, succedendo a Lord Halifax. Esponente dell’ala sinistra dei Tories, Eden era legatissimo agli ambienti societari di Ginevra. Ma soprattutto era convinto che si dovesse pagare un pegno alla realpolitik, cedendo alla protervia di Hitler e, contemporaneamente, sbattendo la porta sul muso a Mussolini. Tipico dei vigliacchi: deboli con i forti, forte con i deboli. Il 9 marzo 1935, Hermann Göring annunciò pubblicamente, in aperta violazione del “Trattato di Versailles”, che il Reich disponeva di un’aviazione militare. Il 16 marzo, contravvenendo nuovamente ai dettami della Conferenza di pace del 1919, Hitler decretò la coscrizione obbligatoria allo scopo di creare un esercito di 500mila uomini. Per tutta risposta, Sua Maestà britannica, il 25 e il 26 marzo, mandò in missione da Hitler il suo ministro degli Esteri, Sir John Simon, ed Eden. Non certo per riportare Hitler alla ragione, quanto piuttosto per addivenire a un accordo con il dittatore nazista. Il quale, scioc-

Anthony Eden

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Il pacifondaio che umiliò il Duce ma voleva cedere a Hitler di Roberto Festorazzi

Esponente dell’ala sinistra dei Tories, l’aristocratico politico era legatissimo agli ambienti societari di Ginevra

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cando gli interlocutori, annunciò che la Germania aveva già raggiunto la parità aerea con la Gran Bretagna.Tre mesi più tardi, il 23 giugno, Eden giunse a Roma per offrire a Mussolini una soluzione concordata per l’Etiopia. Ma la proposta era talmente irricevibile, che parve addirittura offensiva al dittatore. Eden garantiva all’Italia il solo possesso della provincia dell’Ogaden; ma anche questa limitatissima concessione veniva controbilanciata da una controfferta parallela che Londra faceva ad Addis Abeba, cedendole la baia britannica di Zeila. Una

soluzione inutilmente provocatoria, che aveva l’effetto pratico di rafforzare il regime di Hailé Selassié.Trattato con freddezza da Mussolini, che invece voleva il possesso di tutti i territori non amarici dell’Etiopia, ossia di quelli conquistati dal Negus, Eden innescò di fatto un congegno a orologeria che, di lì a pochi mesi, avrebbe scatenato l’offensiva italiana in Abissinia. Inutili furono infatti i passi distensivi compiuti in seguito dal successore al Foreign Office di Simon, Samuel Hoare, e dal suo collega francese Pierre Laval per spegnere l’incendio

ormai appiccato. Da una testimonianza inedita molto qualificata apprendiamo oggi quanto grande fu il guasto causato da Eden nella sua missione romana del giugno ‘35. Il conte lombardo Alberto Gandolfi, 85 anni, nipote di Ambrogio Binda, amico e medico personale del Duce, mi ha raccontato che Mussolini si legò al dito l’affronto subito da Eden. Binda abitava a Milano nello stesso palazzo in cui risiedevano Arnaldo Mussolini, fratello del dittatore, e Sandro Giuliani, caporedattore del Popolo d’Italia, e aveva accesso a molte informazioni confidenziali. Rivela il conte Gandolfi: «Giuliani disse a mio nonno che, al termine dei colloqui romani con Eden, Mussolini era indignato. Era rimasto molto male perché lo statista inglese era venuto con l’intenzione di umiliarlo. Diversamente da Churchill, che era un uomo e trattò con Mussolini da pari a pari, Eden era un omuncolo e si era rivolto al Duce con atteggiamento snob, come si fa con un portinaio. Mussolini non era un uomo vendicativo, ma, essendo originario della campagna, era permaloso come quei contadini che ricordano per molto tempo gli sgarbi ricevuti. Il Duce subì l’approccio di Eden come un affronto e non lo dimenticò». Nonostante questo incredibile precedente negativo, e la sua espulsione dal governo, a opera di Chamberlain,Anthony Eden fu “ripescato” da Churchill nel Gabinetto di Guerra. Nel 1951, lo statista con il sigaro gli affidò per la terza volta il Foreign Office, che mantenne per quattro anni. L’anno successivo Eden sposò, in seconde nozze, una nipote del premier, Clarissa Spencer-Churchill. Nell’aprile del 1955, Eden succedette a Churchill come inquilino del numero 10 di Downing Street. Ma gli inglesi si accorsero presto quanto valesse il nuovo primo ministro. Nell’ottobre 1956, l’Egitto nazionalizzò il Canale di Suez, indennizzando Gran Bretagna e Francia. Israele ne approfittò per regolare i conti con il vicino Stato arabo, intervenendo militarmente. Nonostante l’aggressione israeliana fosse stata condannata da Stati Uniti e Onu, Inghilterra e Francia attaccarono a loro volta l’Egitto. Eden, che vedeva nel rais del Cairo, Nasser, il nuovo Mussolini, fu costretto a ritirare il contingente franco-britannico. Le forze Onu occuparono Porto Said. L’esito della crisi di Suez fu catastrofico per il primo ministro, che, travolto dalle critiche, si dimise il 9 gennaio 1957, dopo soli venti mesi di governo. Nel 2004, da un sondaggio condotto tra 139 docenti universitari di scienze politiche, è emerso che Anthony Eden, morto nel 1977, è ritenuto il peggior primo ministro inglese del Ventesimo secolo.


I SENTIMENTI DELL’ ARTE a carriera artistica di T i z i a n o Ve c e l l i o (1477–1576), il genio del rinascimento veneto, è stata lunga e prolifica. Morto all’incredibile età di novantanove anni, Tiziano ha lasciato una produzione pittorica vastissima e di grande importanza per la storia dell’arte. Massimo esponente della corrente naturalistica veneta, Tiziano sperimentò nel corso del tempo anche linguaggi stilistici diversi fra loro, aderendo di volta in volta alle ultime novità provenienti in prevalenza da Firenze e da Roma, senza mai, tuttavia, perdere il suo particolare e personalissimo ductus pittorico. La grande novità appresa dal suo maestro Giorgione e da lui ulteriormente sviluppata, è nell’uso del colore di cui, come un sottile e abile alchimista, carpì il segreto delle infinite potenzialità espressive, non più subalterno al disegno, bensì, con le giuste ombreggiature e contrapposizioni tonali, sufficiente a dare forma e volumetria ai corpi. Il fascino delle opere di Tiziano risiede proprio in quest’uso si potrebbe dire magico del colore, che, a differenza della logica perfezione del disegno, procura grandi emozioni. Possiamo ammirare un ineccepibile e splendido dipinto del Bronzino, il ritrattista di corte dei Medici, signori di Firenze, ma davanti a un quadro di Tiziano si prova un vero godimento, l’occhio percepisce un piacere profondo, che smuove e commuove. Tutta la prima produzione del pittore cadorino, quella appartenente al pieno Rinascimento, è orientata verso questa sperimentazione del colore e nello studio del rapporto tra paesaggio e figura umana, mentre, nel terzo decennio del Cinquecento Tiziano percepisce il nuovo linguaggio della pittura italiana, successivo al sacco di Roma del 1527, e visibile soprattutto negli affreschi della Sistina e in quelli di Giulio Romano nella vicina Mantova. Le opere da lui realizzate intorno a questo periodo appartengono alla fase cosiddetta manieristica, quella in cui l’elemento formale e plastico prevale su quello coloristico, come si può vedere, ad esempio, nell’Incoronazione di Spine, dipinta nel 1542 per Santa Maria delle Grazie a Milano, e soprattutto nelle tele per il soffitto della distrutta chiesa veneziana di S. Spirito in Isola, dal 1656 nella sagrestia di Santa Maria della Salute. I canonici agostiniani di Santo Spirito avevano commissiona-

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L’ODIO

lazzo Tè, ai quali si era ispirato già Vasari nei disegni preparatori, e poi Correggio, Michelangelo e soprattutto opere di tema analogo dipinte poco tempo prima dal Pordenone nel chiostro di Santo Stefano. Il vigore espresso in queste scene e la terribilità della volontà divina sono dunque il risultato di una congiunzione tra il disegno toscoromano e il colore veneto. Tuttavia la concezione dello spazio è assolutamente nuova: nel Caino e Abele lo scorcio ha una visione oltre che dal basso in alto anche da destra verso sinistra espediente che, in un’immagine priva di paesaggio e quindi di fondo, aiuta a dinamizzare e ampliare lo spazio. Il risultato è molto verosimile e il messaggio drammatico arriva diretto all’osservatore: è raffigurato il momento più atroce del delitto quando Caino ha già colpito una volta in testa Abele e con odio feroce sta per colpirlo di nuovo stringendo con tutte le sue forze un grosso bastone nodoso, mentre con il piede sinistro lo trattiene in terra e lo spinge per farlo cadere da un grosso masso. Sul

Il quadro: “Caino e Abele” di Tiziano

Il sopruso dell’uomo di Olga Melasecchi

I colori terragni e le ombre scure usate da Tiziano esprimono le emozioni dei protagonisti pur senza vederne i volti

È raffigurato il momento più atroce del delitto quando Caino sta per colpire di nuovo Abele e lo spinge per farlo cadere da un grosso masso

to per la chiesa e il convento una decorazione pittorica iconograficamente unitaria, incentrata sulla prefigurazione del sacrificio di Cristo. A Tiziano, che aveva sostituto il fiorentino Vasari tornato a Firenze, vennero affidate, oltre alla conclusiva pala d’altare con la Pentecoste, le tre storie bibliche con Caino e Abele, Il sacrificio di Abramo e Davide e Golia. Considerando la collocazione delle tele, al centro di un soffitto, dipinse tre mirabili scene di sottinsù, dimostrando nel contempo una conoscenza approfondita

del disegno anatomico, studiato con metodo scientifico: “...in questa parte si sottoponeva ai modelli fatti di legno, di terra e di cera”, ricordava in proposito il Lomazzo nel 1590, “e da quelli cavava le posture, ma con distanza molto corta e ottusa per il che le figure si rendono più grandi e terribili, e le altre più indietro molto corte, facendo quasi un angolo non solo retto, ma poco men che ottuso”. Le fonti di questi contorcimenti virili sono in primis la Caduta dei giganti dipinta dieci anni prima da Giulio Romano a Pa-

fondo a destra ha relegato l’altare dei sacrifici, causa scatenante dell’odio rabbioso e della gelosia verso il fratello perché Dio Padre aveva apprezzato di più la sua offerta, come è scritto in Genesi 3:24: “Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto”. I colori terragni, le ombre scure, la grossa nuvola nera e minacciosa alle spalle di Caino e i gesti dei personaggi sono sufficienti a esprimere le loro emozioni, l’odio di Caino e la paura e lo stupore dell’indifeso Abele, pur senza vederne i volti. È una scena che suscita ancora piena tutta la nostra indignazione, come sempre davanti a un atto di sopruso di un uomo verso un altro uomo.

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Cruciverba d’agosto

“Lo spaccone del Furioso”

di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI 1) “Fracassa” di ThéophileGautier • 8) Hans, autore di E adesso, pover’uomo? • 15) Il piccolo ...... di Mascagni • 20) Personaggio delle Mille e una notte • 21) Petronio, ...... elegantiarum • 22) che su l’...... e qui me misi in borsa (Inf. XIX – parla un Papa simoniaco) • 23) Garcia Alejandro ...... , capo del governo spagnolo che represse la rivolta popolare nelle Asturie e in Catalogna nel 1934 • 24) Modena • 25) Trave di nave a vela • 26) Abdel Nasser, Presidente d’Egitto • 27) Grande attrice italiana, amata e vilipesa da D’Annunzio • 28) ...... Benelli (La cena delle beffe) • 29) Brian, compositore inglese • 30) Mario, pittore (1885-1961) • 31) Ente Teatrale Italiano • 32) La bestia nera degli ungheresi in rivolta nel 1956 • 35) Film di Akira Kurasawa • 36) Moglie di Osiride • 37) Regione montuosa del Marocco • 38) “...... su un’urna greca” di John Keats • 39) Senza ...... sulla lingua • 40) “...... Mater” • 44) Pedro de ......, poeta barocco cileno: L’Araucano domato (1750-1643) • 45) Viene sfidato dal Cavaliere della Bianca Luna • 50) Città della Nigeria • 51) Morì alla battaglia di Trafalgar • 53) Tagliati corti • 54) ché non è spirto che per l’...... vada (Inferno, XII) • 55) Don ...... dalle brache verdi di Tirso da Molina • 56) Bel ...... di Maupassant • 57) Uncino da pesca • 58) Torpedine • 61) Dea greca che personifica l’Errore • 62) Scrisse Les liaisons dangeureses • 65) ...... Quel, rivista letteraria francese • 66) Scrisse Gordon Pym • 67) Nebula: La Nebulosa del granchio • 68) Teatro ateniese • 69) Inventata da A. Volta • 70) ...... non è guari • 71) Perizia • 74) Clément, poeta che introdusse il 79) or. in Francia (14961544) • 75) Organici, armonici • 77) Scrisse L’uomo che guardava passare i treni • 78) Promesso sposo di Antigone • 79) Fu “inventato” dal poeta Jacopo da Lentini • 80) Filtri magici

L’Almanacco LA POESIA

VERTICALI

1) Scrisse La vita è sogno • 2) Isole fra Alaska e Camciatka • 3) Vi canta Amfortas • 4) Tre Furie infernali che “con ...... verdissime eran cinte” (Inferno,IX) • 5) Parente del sobrino • 6) Dio del Cielo e padre degli dèi della Mesopotamia • 7) nobis cum semel occidit brevis lux / ...... est perpetua una dormienda (Catullo) • 8) “Auri sacra ......!” Maledetta bramosia di oro! (Virgilio) • 9) Odori • 10) Iniz. del poeta Bigiaretti • 11) Città della repubblica Ceka • 12) Le musiche di Nono e Berio • 13) dello ...... Cerbero, che introna (Inferno, VI) • 14) Pacis • 15) Insegnamento elevato e autorevole • 16) Guasto • 17) Succhiò latte di lupa • 18) L’uomo di ......, film di Robert Flaherty (1934) • 19) Strali poetici • 28) Just ...... Stories, Racconti proprio così, di R. Kipling • 30) ...... Carrie, primo romanzo di Th. Dreiser, scritto nel 1900 ma pubblicato nel 1912 • 32) Lo spaccone del Furioso • 33) Venus and ......, poemetto di Shakespeare • 34) Follett, romanziere inglese (Codice Rebecca) • 39) Il partito di Craxi • 41) Succursale abusiva del botteghino • 42) Chiama gli ...... de l’ombre eterne / al rauco suon della tartarea tromba (Gerusalemme liberata) • 43) Fondamentalisti islamici • 46) Commediografo ateniese di cui restano solo 460 frammenti • 47) La città del Pifferaio Magico • 48) Sole • 49) Alfa ......! film di Francesco De Robertis (1942) • 52) Un locale dei film western • 58) Una causa del tifo • 59) Il padre di Mila di Codra • 60) Articolo • 62) “Non viv’egli ancora? / Non fere gli occhi suoi il dolce ......?” (Inferno, X) • 63) Paul, romanziere francese: La force du mal (1896) • 64) Grossa candela • 67) In provincia di Trento • 69) Materia • 71) Ass. Stampa Estera • 72) .....-Bol-Bul, il negretto di Mussino per il Corriere dei Piccoli • 73) Profondi • 76) Iniz. dello scrittore Tabucchi

GABBIANI

Hanno detto di… computer I computer sono incredibilmente veloci, accurati e stupidi. Gli uomini sono incredibilmente lenti, inaccurati e intelligenti. L’insieme dei due costituisce una forza incalcolabile. Albert Einstein

D&R Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace.

Qual è il labirinto più grande d’Italia? Quello di Villa Pisani a Stra, Venezia, nel quale si perse Napoleone nel 1807; si estendeva per ben 6,5 chilometri di sentieri.

all’inizio del secolo, l’inglese Victor Orville durante un soggiorno in carcere a Città del Capo, secondo altri il giornalista americano del World Arthur Wynne. In Italia i cruciverba avrebbero una precisa data di nascita: l’8 febbraio 1925 quando la Domenica del Corriere pubblicò il primo “Indovinello delle parole crociate”. C’era stato però un precedente: il 14 settembre 1890 il giornalista Giuseppe Airoldi aveva pubblicato sul Secolo illustrato un cruciverba (senza quadrati neri), ma non aveva avuto successo.

L’origine di… cruciverba Io son come loro

A inventare le parole crociate come le conosciamo sarebbe stato, secondo alcuni,

a cura di Maria Pia Franco

in perpetuo volo. La vita la sfioro com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch’essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca.

DI

VINCENZO CARDARELLI

LA SOLUZIONE DI IERI

“Gli uomini preferiscono le bionde”


il nuovo bimestrale di geostrategia in edicola il terzo numero del 2008 120 pagine per capire il pianeta • Libano, l’incognita Suleiman • Kuli Khan, il Napoleone della Persia • Il mare nostrum secondo Sarkozy Mario Arpino, Heidi Holland, Virgilio Ilari, Carlo Jean, Michele Marchi, Andrea Margelletti, Mario Rino Me, Carlo Musso, Andrea Nativi, Michele Nones, Emanuele Ottolenghi, Daniel Pipes, Luigi Ramponi, Stefano Silvestri, Maurizio Stefanini, Davide Urso


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letture

Fasti, amori e pulsioni dell’Europa del XVIII secolo nell’ultimo romanzo di Jacques-Pierre Amette

Quel che piace alle signore... di Voltaire di Filippo Maria Battaglia i cantano donne, cavalieri, armi ed amori, ma in questo caso non si tratta di Ariosto e del suo Orlando Furioso. Siamo in terra transalpina, e stavolta a dominare la scena è il philosophe illuminista per eccellenza: François-Marie Arouet, più semplicemente noto come Voltaire. È lui il protagonista del romanzo di Jacques-Pierre Amette (Un’estate da Voltaire, Excelsior 1881, pp. 111, euro 15,50), garbato e sofisticato trompel’oeil che rievoca fasti e pulsioni dell’Europa del XVIII secolo. È il luglio del 1761.

S

Due giovani attrici italiane arrivano a Fernay, residenza del pensatore più vezzeggiato d’Europa. Una si chiama Zanetta Obozzi, proviene da Napoli e ha da poco seppellito il padre. È delicata, minuta, bruna, molto riservata e veste una casacchina color lampone. L’altra fa il nome di Gabriella Capacelli, recita nella “Compagnia degli Italiani” a Parigi, è piuttosto alta e di carnagione luminosa. Voltaire le accoglie entusiasta, fa visitare loro i frutteti, la stalla, la collezione di pittura. Poi, esce di scena e ritorna qualche ora dopo con la pronipote del drammaturgo Pierre Corneille. La giovane donna è «vestita di grigio, un gran naso, magra, le braccia lunghe, con poco seno ma con uno sguardo fiero, intenso. Voltaire le teneva la mano e la abbracciava con gli occhi. Non si capiva se il grande filosofo, con il suo curioso berretto spiegazzato e le calze calate sulle esili gambe fosse pronto per andare a dormire o avesse appena fatto un riposino».

Luglio 1761. Due attrici italiane arrivano a Fernay, residenza del pensatore francese. Conoscono lì il conte di Fleckenstein e per attirarne l’attenzione danno inizio a giochi di doppi sensi, battiti di ciglia e finti mancamenti

L’occasione è buona per provare una piéce che ha già destato scandalo in mezzo continente, ma l’evento offre anche il destro per ospitare il conte di Fleckenstein, diplomatico inviato da «Federico il Grande» per porre fine alla Guerra dei Sette anni. In quei giorni, infatti, «in Prussia, il re girava inquieto tra i suoi granatieri all’interno del castello di Sans-Souci. Aveva appena perso due fortezze: Schweidnitz in Slesia, e Colberg sul Baltico. Le sue truppe si squagliavano al sole. Federico aveva deciso di inviare a Ferney uno dei suoi ufficiali più fedeli, il conte di Fleckenstein, che parlava splendidamente il francese e conosceva ogni cespuglio dei paesi in cui c’era la guerra; in più godeva della fiducia di Voltaire. Era necessario che quest’ultimo, in segreto, intervenisse presso il duca di Choiseul per negoziare la pace. Fu così che un 27 di giugno un certo cavaliere lasciò una fredda caserma di Potsdam. Fleckenstein attraversò la Westfalia: sentieri desolati, lande sabbiose, cupi laghi. Nei villaggi i contadini fuggivano come oche. Presso Olwittz alcuni corsi d’acqua che erano straripati formavano dei laghetti nei quali si stavano putrefacendo i cadaveri di soldati austriaci o francesi. Si temevano le devastazioni del tifo. Le immense foreste davano riparo ai fuggitivi; gli sventurati ringraziavano Dio di averla scampata, mentre i predoni oscillavano al vento come vecchi cenci. I poveracci pregavano e mendicavano.

Fleckenstein pensava tra sé e sé, attraversando quelle campagne devastate: “C’è ancora molto da fare se così tanti disgraziati cadono in ginocchio a implorare il cielo perché si sentono macchiati di crimini che non hanno commesso”. Attraversò dei villaggi, poi le valli divennero pacifiche e verdeggianti, apparve qualche bella tenuta in cui si suonava della musica francese. Infine le colline sveve,

l’aria tiepida, la serenità, freschi ruscelli, giardini ben curati, vigne ben potate, odori soavi, paesi eleganti, torrentelli in armonia con le proprie sponde, persone allegre, la frescura dei boschetti e delle macchie». Dunque, il conte fa rotta nella dimora di Voltaire e incontra le due italiane. Se non è colpo di fulmine ci siamo quasi, quantomeno per ciò che riguarda le belle damine, anch’esse arrivate da poco in quel di Fernay: «Quando scese da cavallo, le nostre due italiane lo osservarono dalla gradinata, ammirate. Lo trovarono disinvolto e pieno di dignità.

Quanto ai pesanti stivali, ai paramenti verdi della divisa, agli enormi speroni, erano tutte cose che rammentavano l’uggia della caserma, la monotonia delle manovre, il suolo dei pifferi e il rullo dei tamburi». Le miti serate invogliano al gioco, al libertinaggio, alle confessioni licenziose. Voltaire discute, si anima, dibatte. Le due donzelle fanno di tutto per incantare il conte, in una trama fittissima di doppi sensi, passeggiate nei boschi, arrossamenti a comando, battiti di ciglia e

Le donzelle fanno di tutto per incantare il conte durante una passeggiata nel bosco, ma solo una riesce a sedurlo «con le sue morbide braccia sinuose e vellutate. Lei lo tiene prigioniero, lui diviene una preda» finti mancamenti. Poi però la convenzione cede il passo alla passione, Gabriella seduce il valoroso conte che «aveva l’impressione di essere rapito, costretto, posseduto, inghiottito, digerito. L’immagine di un ragno gigante gli attraversava la mente. Con le sue morbide braccia sinuose e vellutate, lei lo teneva prigioniero. Lui diventava una preda. “Ama troppo”, pensava, “sragiona”». Il gioco pudico si complica così in un intreccio prima boccaccesco, poi perverso, asfittico, quasi claustrofobico. Nel frattempo, la guerra incalza, perfino la diplomazia scalda i muscoli, e il quadretto - un po’ melò, un po’ edonistico - è costretto prima a incrinarsi, poi a dissolversi. Da Fernay il pendolo della storia si sposta altrove. È il presagio di ciò che avverrà proprio in Francia a fine secolo.


musica cchi languidi, figura snella e scattante, dalle movenze sensuali. Ciuffo alto, scolpito col gel, abiti attillati, eccentrici, dai colori appariscenti. È l’immagine che viene in mente quando si parla di “The King”, il re istrionico e carismatico della musica rock. È stato ormai detto e scritto di tutto sul mito di Elvis Presley. Cantante, musicista, ballerino e attore, soprannominato “Elvis the pelvis” per il suo esuberante stile di esibizione caratterizzato da bruschi ed ammiccanti ondeggiamenti del bacino. È una delle figure più importanti della cultura popolare del Ventesimo secolo. Un’icona pop. E a 31 anni dalla sua scomparsa, avvenuta a soli 42 anni, il 16 agosto del 1977, la sua musica non ha perso nemmeno un grammo del suo fascino. Elvis Presley resta l’eroe incontrastato e senza rivali del rock and roll. Innovativo per aver messo sullo stesso piano diverse influenze musicali, rock and roll, country, r&b, creando un suono e uno stile che non avevano precedenti fino al quel momento. Elvis ha scatenato una trasformazione culturale che ha toccato non solo l’America ma il mondo intero. In questa evoluzione è diventato il primo vero simbolo del rock and roll, elaborando un suono davvero unico, che è diventato quello di una nuova generazione. Bersaglio di feroci critiche da parte di insegnanti, genitori e figure educative degli anni ’50 e ’60 che lo definirono all’epoca «libidinoso», «ribelle» e «pericoloso», Elvis stava sconvolgendo e rivoluzionando il mondo dei giovani e della musica di tutti i tempi. Eppure, tutto sembrava finito la mattina del 16 Agosto 1977, quando Elvis fu trovato senza vita a Graceland, la sua villa a Memphis, in Tennesse (chiamata così in onore della madre Grace). Si parlò di attacco cardiaco, ma il decesso era l’esito di anni di declino, alimentati da pillole antidepressive, barbiturici e droghe varie. Nell’ultimo periodo della sua carriera Elvis era ormai circondato da quella che fu denominata la “Memphis mafia”, una impenetrabile barriera di parenti, amici e guardie del corpo al suo seguito. Non reggeva più il ritmo dei concerti e del successo.

O

Sembrava solo una brutta copia del giovane molleggiato e dal ritmo incontenibile che aveva fatto impazzire il mondo negli anni ’50 e ’60, diventando uno dei giganti della cultura popolare d’America. Era depresso e in sovrappeso. La morte prematura della madre, nel 1958 e il divorzio dalla moglie Priscilla, avvenuto nel 1973, lo avevano fatto cadere in un malessere

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A 31 anni dalla morte, il re del rock&roll continua a far discutere

Elvis, un’icona pop diventata leggenda di Valentina Gerace

che sconfinò nella dipendenza da tranquillanti e anfetamine. Anche la sua musica negli anni ’70 era diventata lo specchio della sua crisi esistenziale. E ogni concerto ne era la prova. La sua morte improvvisa fece crollare nella disperazione milioni di fan. Ma la sua vita ha conosciuto apici di successo mai

Elvis assorbe generi differenti, il country e il rhythm and blues, che lo influenzano anche nel modo di vestire. Nel 1953 entra nella leggendaria Sun Record e per quattro dollari registra un disco con due canzoni My happiness e That’s when your heartaches begins come regalo di compleanno per sua

Priscilla, il ritmo incessante dei concerti, e i grossi problemi di bancarotta dovuti a spese ormai incontrollate, lo portano alla crisi da cui non si riprenderà più. È ormai vittima del suo successo. Il 26 giugno 1977, all’Indiana’s market square arena di Indianapolis, Elvis si esibirà per l’ultima volta. La

Presley ha scatenato una rivoluzione musicale e culturale che ha toccato non solo l’America ma il mondo intero.In questa trasformazione è diventato il primo vero simbolo di una nuova generazione riscontrati da altri artisti prima. Tutto comincia in una casetta di legno di Tupelo, Mississippi, l’8 Gennaio 1935 dove Elvis Aaron nasce. Si accosta alla musica frequentando assiduamente la chiesa locale dove insieme ai genitori intona canti gospel. A soli 10 anni, partecipa alla sua prima gara canora nella consueta fiera annuale di Tupelo, il Mississippi Alabama fair and dairy show vincendo il secondo premio. In occasione del suo dodicesimo compleanno i genitori gli regalano una chitarra con la quale comincia ad imparare i primi accordi blues e a strimpellare i più famosi brani dell’epoca. A causa delle estreme condizioni di povertà della famiglia, nel 1948 i Presley si trasferiscono a Memphis, nel Tennesse, in cerca di una vita più decorosa. Dopo il diploma alla Humes High School, Elvis è costretto a lavorare come commesso, elettricista e camionista, per aiutare la famiglia. Ma non abbandona la passione per la musica, soprattutto, quella nera che negli anni ’50 era trasmessa in una frequenza separata dalla musica bianca.

madre. Seguono Casual love affair e I’ll never stand in your way. Grazie a quest’ultimo pezzo viene notato da Sam Phillip, manager della Sun. Viene affiancato da due musicisti già esperti, Scotty Moore alla chitarra e Bill Black al contrabbasso con i quali formerà la band Blue Moon Boys. Ed è l’inizio del successo. Il trio si esibirà in circa 200 concerti, catapultando Elvis tra le stelle della musica statunitense.

Nel 1954, Tom Parker, promoter e manager di molte countrystar dell’epoca offre ad Elvis un favoloso contratto con la Rca. È l’epoca dei brani come Heartbreak hotel, I was the one, Blue suede shoes, che faranno sognare il mondo per decenni. Elvis ha meno di 20 anni quando la Rca pubblica il primo Lp dal titolo Elvis Presley diventando l’album pop più venduto di tutti i tempi. Gli anni Settanta sono quelli del look tutto frange e lustrini e dei capelli cotonati. Il successo più grande in quegli anni è Aloha From Hawaii (1973). Il divorzio da

Qui sopra Elvis Presley In alto The King in concerto e nel film It Happened at the World's Fair (Bionde, rosse, brune...)

morte di Presley non ha cancellato il mito. Come per Marylin Monroe e Kennedy, la scomparsa prematura ha innescato non solo una serie di teorie cospirative (non sono pochi gli americani ancora oggi convinti che Elvis sia vivo e nascosto da qualche parte), ma anche un’eredità duratura e redditizia. Ormai Elvis è un marchio planetario. Graceland, la favolosa villa dove viveva, è dagli anni ’80 un museo, un santuario del rock. Dichiarata monumento nazionale è la seconda casa più conosciuta d’America dopo la Casa Bianca. Il mercato dei prodotti di Elvis è ancora florido. Paramount e Warner Home hanno appena lanciato una ventina di film e concerti di Presley. L’ultima raccolta The Tupelo Mississipi Flash (2008) è focalizzata alla fase iniziale di Elvis, quella delle Sun Session e del passaggio alla Rca. Sono quelle canzoni che, più di altre, meritano di essere ricordate. Tutti i frutti, Blue suede shoes, Heartbreak hotel, Love me, I got a woman, I was the one, sono melodie eterne. Come eterno è il ricordo di un ragazzo venuto dalla provincia americana che si è permesso di rivoluzionare il mondo della musica pop, lasciando un segno indelebile nell’Olimpo dell rock.


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cinema

Da ieri in Italia l’attesissimo sequel ”Il principe Caspian”. Lo spettacolo è garantito, anche se grafica e tecnologia hanno soppiantato l’autenticità artigianale del primo episodio

Narnia in salsa digitale di Francesco Ruggeri orniamo indietro di qualche anno. E’il 2005 e la Walden Media (casa di produzione specializzata in film per ragazzi) annuncia l’imminente uscita de Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio. E la notizia rimbalza da un capo all’altro del continente cinema. I tanti cinefili che anni prima salutarono con scetticismo la notizia della traduzione cinematografica de Il signore degli anelli, balzano sulle sedie. Portare sul grande schermo la

T

uno spettacolone da gustare sgranocchiando pop corn e divertendosi con effetti visivi all’ultimo grido. Intendiamoci. Le intenzioni originali di C. S Lewis erano quelle di produrre una serie di racconti diretti espressamente ai più piccoli. E questo rimane il primo strato dell’opera, quello più epidermico. Sotto ce ne sono almeno altri tre. Fra questi il disegno di un travagliato avvicinamento alla religione cattolica, una riflessione in punta di penna sulla dialettica

gna vicino Londra. Fin qui tutto normale. Se non fosse che il normalissimo armadio di casa nasconde una ben diversa realtà. Si tratta infatti del varco d’ingresso per il fantastico mondo di Narnia, un universo fatato, abitato da fauni, centauri e da tutte le creature più bizzarre che vengano in mente. Un pianeta non tutte rose e fiori però. Infatti i quattro ragazzi scopriranno che la terribile Strega Bianca (interpretata dalla brava Tilda Swinton) ha trasformato gran parte della

della prima ora si saranno chiesti almeno cento volte cosa ne sarebbe mai stato degli intrepidi fratelli inglesi.

La risposta è contenuta ne Le cronache di Narnia-Il principe Caspian, uscito ieri nelle nostre sale. La prima cosa che salta agli occhi è che i bambini del film precedente sono diventati ragazzi. E che la rilassatezza sprigionata dalla campagna inglese nel primo film si è trasformata in irrequietezza urbana. L’incipit del film è infatti attraversato dai clacson di una trafficatissima via londinese e subito dopo dalla sterminata rete metropolitana della capitale inglese. I fratelli, sempre uniti, aspettano il vagone che li porterà a scuola, ma i loro visi tradiscono una certa inquietudine. Comprensibilissimo. A Narnia si sentivano utili, anzi, indispensabili. Combattevano con-

Chi ha amato il carattere vagamente naif del precedente film rimarrà parzialmente deluso: qui tutto sa di super kolossal asettico e ritoccato al computer, dove nulla appare mai fuori posto

complicatissima epica di C.S. Lewis (autore del ciclo di Narnia)? Mission impossible. Vuoi per la mole di suggestioni presenti nei testi del grande scrittore irlandese, vuoi per la difficoltà nel gestire un patrimonio tale di allusioni, riferimenti e citazioni che vanno dalla religione, all’esoterismo, passando per la magia. Insomma, attesa alle stelle. Il resto è storia.

Negli Stati Uniti il film diventa il secondo incasso dell’anno e la saga di C.S. Lewis si trasforma nel giro di poco tempo in un bestseller reperibile persino in supermercato. Magie del cinema. Capace di mutare un oggetto misterioso della letteratura moderna in

bene-male e una metafora ben tratteggiata sul potere della tentazione. Ergo, un bel calderone tirato su a fuoco alto.

Il cinema ha privilegiato chiaramente il primo livello. E i professori di letteratura inglese si saranno stracciati le vesti. Ma tant’è. Probabilmente il risultato è stato quello di rimettere in circolo il nome di uno straordinario autore che qui conosciamo poco. Dunque, avanti così. Piccolo ripasso. Nel primo capitolo del film (uscito da noi nel Natale del 2005) si assiste alla vicenda dei Pevensie, quattro fratelli inglesi che alla vigilia della Prima Guerra Mondiale vengono mandati dalla mamma nella loro casa di campa-

vegetazione che regnava prima in un terra desolata abitata da un gelo perenne. Così, grazie all’aiuto del fauno Tumnus, avranno la possibilità di allearsi col mitico Aslan, un leone dai poteri soprannaturali con cui riusciranno a sconfiggere il Male che si è impadronito del luogo. E non è finita. Perché il più grande dei fratelli, Peter, verrà addirittura incoronato re Supremo di Narnia. Il primo capitolo della saga lewisiana terminava col sacrificio del mitico Aslan e la morte della terribile strega dei ghiacci. E poi? Beh, il film ha incassato quasi un miliardo di dollari in tutto il mondo e il sequel è diventato a dir poco necessario. Anche perché gli aficionados


cinema

tro terribili forze del Male, davano del tu a creature spaventose e ricoprivano incarichi da far invidia a chiunque. Nella Londra del dopoguerra (ci troviamo nel 1946) sono uguali a mille altri teenager della loro età. Se non fosse per quei ricordi che continuano ad accendere la speranza di un ritorno nella mitica terra. È quello che accade. All’arrivo del vagone della metropolitana infatti, si schiude un orizzonte da sogno. Una distesa marina, centinaia di metri di spiaggia, atmosfera da sogno. In altre parole, Narnia.

Cosa sarà accaduto mai in assenza dei giovani? Parecchie cose e non tutte propriamente buone. Già perché i poveri abitanti del luogo sono stati in buona parte massacrati dai Telmarini, temibile popolo guerriero capitanato dal feroce Lord Miraz la cui brama di potere non ha confini. La sua salita al potere assoluto, scandita da un’allucinante escalation di morti ammazzati, ha bisogno di un ultimo tassello per compiersi del tutto: eliminare il principe Caspian, legittimo erede al trono. Pane per i denti dei

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Il nuovo capitolo profuma lontano un miglio d’Italia: il ruolo centrale del terribile Lord Miraz è stato assegnato a Sergio Castellitto e quello del suo vice è andato al bravo Pier Francesco Favino fratelli Pevensie che si uniscono allo sfortunato principe per far sì che le cose tornino ala normalità.

Che dire dunque di questo attesissimo secondo capitolo? In primis che negli Stati Uniti ha onorato le attese, portando a casa quasi 150 milioni di dollari. E poi che si tratta di un kolossal che profuma lontano un miglio d’Italia. Normale se si considera che un ruolo centrale come quello del terribile Lord Miraz è stato assegnato al nostro Sergio Castellitto e che quello del suo vice è andato al bravo Pier Francesco Favino, qui alla sua seconda produzione americana dopo essere stato un irriconoscibile Cristoforo Colombo in Notte al museo. Diciamo subito che i due se la cavano egregiamente. Castellitto (per lui è la prima volta in America) inventa un villain diabolico come pochi altri visti di recente, mentre il buon Favino,

agendo nell’ombra, privilegia toni chiaroscurati e sfumature di tutto rispetto. Insomma, un bel duetto che ci inorgoglisce. Veniamo al film. Chi ha amato il carattere coraggiosamente artigianale e vagamente naif del primo episodio rimarrà parzialmente deluso. Perché (e questo era chiaro già prima dell’uscita del film, stando almeno alle parole dei produttori e del regista, Andrew Adamson) qui tutto sa di super kolossal pompato a suon di digitale e computer grafica a go-go. Non che sia un male, però qualcosa dell’autenticità del primo capitolo si è persa per strada. Un esempio: nel fauno interpretato nel primo capitolo da James McAvoy si intravedevano ‘smagliature’ analogiche che avevamo gradito non poco. Qui è tutto perfetto, dalla raffigurazione selvaggia dei centauri, alla movimentazione delle scene di massa. Forse tutto troppo pulito. E asettico.

Ad ogni modo lo spettacolo è garantito. Andrew Adamson gestisce con bella scioltezza una trama piuttosto intricata, si muove abbastanza bene nell’organizzazione della messa in scena e fa i salti mortali per lasciare fuori campo morti ammazzati e teste staccate di netto. Il suo imperativo categorico? Far sì che anche questo secondo capitolo di Narnia possa considerarsi ad ogni effetto un film destinato a tutta la famiglia. Missione compiuta. Passiamo dunque al grande assente del film. Se ne Le Cronache di Narnia c’è un personaggio capace di simboleggiare appieno l’avvincente mix di temi scaturito dalla mente di C. S Lewis, questi è senza dubbio il leone Aslan. Nel film precedente domina la scena, si impone con la sua saggezza e rappresenta il vero faro morale del racconto. In questo sequel invece si fa desiderare. Il suo volto è simboleggiato da un’incisione di pietra nascosta in una grotta, ma lui si vede poco. In compenso viene evocato di continuo dai protagonisti, soprattutto quando c’è da sconfiggere l’incanto tentatorio della Strega dei Ghiacci (ibernata, certo, ma ancora in grado di esercitare il suo fascino oscuro) e ancora di più la sfrenata brama di potere di Lord Miraz. Almeno fin quando non decide di fare capolino in

carne ed ossa nel finale. Ci fermiamo qui per non guastare la sorpresa. Per chiudere dunque, facciamo un piccolo salto nel futuro di quella che sta diventando una vera e propria saga macina miliardi. I produttori (alle prese con lo stesso problema con cui ha combattuto la Warner per Harry Potter) devono far sì che i restanti film della serie siano girati al più presto. I protagonisti d’altronde crescono in fretta, ergo bisogna sveltire al massimo la pre-produzione del terzo capitolo della serie.

Tutto fatto. Da quanto si è letto infatti la produzione ha già messo in cantiere Le Cronache di Narnia: Il viaggio del veliero. Altre indiscrezioni ancora latitano. Per il momento l’unica cosa certa è che la quasi totalità del film verrà girata in Nuova Zelanda, nelle location di Bay of Islands e in quelle offerte dal Distretto di New Plymouth. Altra novità interessante è quella che riguarda il passaggio di testimone alla regia. Andrew Adamson, sempre più impegnato nella sua seconda carriera di produttore, lascerà le briglie del comando ad uno dei veterani del cinema americano attuale, Michael Apted (Gorky Park, Nell, Via dall’incubo). Insomma, un successore di lusso…


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IMMAGINI DAL MONDO

Come festeggiate oggi il giorno di Ferragosto? I METEOROLOGI HANNO ANNUNCIATO PIOGGIA, ORGANIZZO CON AMICI UN TORNEO DI BURRACO

CHIEDETE AI VIP COSA FARANNO OGGI, NOIALTRI POVERI CITTADINI NON FACCIAMO NOTIZIA

Bella domanda. Stando fortunatamente ancora in ferie, avrei voluto trascorrere il giorno di Ferragosto al mare, ma invece, sfortunatamente, al mare proprio non andrò. La «colpa»? Dei meteorologi, che anche quest’anno ci hanno puntualmente anticipato una bruttissima perturbazione che, per l’ennesima volta, rovinerà il 15 agosto. Il maltempo, dicono, interesserà principalmente il centro e il nord dell’Italia. E dove sto trascorrendo secondo voi le vacanze? A Rimini. Cioè in quello che dovrebbe essere il luogo del sole, del mare e del divertimento (soprattutto a Ferragosto) e invece quest’anno si trasformerà nella località del vento, della pioggia e della noia della riviera romagnola. Dunque non andrò al mare. Cosa farò? Data l’obiettiva tristezza, penso che mi dedicherò a un’altra «penosa» attività, che però si intonerà al grigiore della giornata: radunerò familiari e amici e ingaggerò una spietata battaglia a suon di Burraco. Nulla di male insomma a far festa, in caso, il giorno seguente, quando cioè il tempo dovrebbe migliorare. Ferragosto poi cos’è, se non un giorno come un altro?

Poco importa come trascorrerò quel giorno. Comunque il 15 agosto rappresenta per me il mio primo giorno delle tanto agognate ferie. Dunque, qualunque cosa mi capiterà di fare, andrà benone. Dovrei ad ogni modo andare per qualche giorno a Sperlonga (provincia di Latina), anche quest’anno purtroppo non ho i soldi necessari (ma neanche sufficienti) per poter permettermi un viaggio vero e proprio. Mentre tutti i giornali, cartacei e online, ci sbattono in faccia quotidianamente tutte le mète vacanziere di politici, imprenditori e vippettari vari (corredando le notizie con fotografie da capogiro), mentre insomma ogni giorno noialtri poveri esseri umani impegnati a far quadrare i conti per la cosiddetta «terza settimana»... ecco, mentre la maggior parte degli italiani stenta insomma a guadagnarsi i soldi per una vacanza da terzo mondo, chi dovrebbe farci vivere meglio se la spassa chi ai Caraibi, chi in Sardegna, chi ancora alle Maldive. Chiedete a loro cosa faranno e con chi staranno a Ferragosto. Noialtri poveri comuni mortali, temo, non facciamo notizia. Cordialità.

Alfredo Mannelli - Bologna

LA DOMANDA DI DOMANI

Secondo voi ce la farà l’Italia a conquistare più medaglie rispetto ad Atene 2004? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Laura Colasanti - Latina

NON HO NEANCHE UN CENTESIMO DA PARTE, FERRAGOSTO SARÀ UN GIORNO COME UN ALTRO A Ferragosto? Farò esattamente quello che ho fatto fino a oggi e quello che continuerò a fare anche il giorno seguente e il giorno successivo ancora. Metterò in ordine casa, che ho appena preso in affitto a Napoli, e invierò il mio curriculum vitae aggiornato sperando che ad agosto ci sia qualcuno davanti al computer che abbia la cortesia e la disponibilità a leggerlo e, magari, a valutarlo. Ho 36 anni e ancora nessun lavoro. A stento pago l’affitto coi pochi soldi messi nel tempo da parte e coi pochi soldi che, quando possono, mi accreditano sul conto corrente i miei genitori. Vorrei tanto andare al mare e forse, stando vicino al Golfo, un salto riuscirò a farlo. Ma ancora di più mi piacerebbe trovare un lavoro e riuscire finalmente a mantenermi da sola.

DALLA POLITICA DELLE ALLEANZE A QUELLA DEI PROGRAMMI CONDIVISI In un periodo in cui il dibattito politico all’interno e all’esterno dell’Udc è incentrato sulle future alleanze del partito mi permetto di fare presente che tale questione si rivela secondaria se non si affronta per primo il nodo dei programmi. In altre parole ritengo prematuro e avventato parlare di poltrone e strapuntini se prima non si espongono ai cittadini elettori gli obiettivi che la nuova “Costituente di Centro” intende perseguire. In questo senso, le ormai prossime consultazioni elettorali nella Regione Abruzzo potranno costituire un utile laboratorio per la neonata formazione politica. Dobbiamo infatti riuscire a comunicare agli elettori in maniera semplice e chiara quanto abbiamo ribadito nel seminario di Todi: che il nostro Paese vive un “finto bipartitismo senza partiti”. Il Pdl infatti non è un partito: è un semplice e rudimentale cartello figlio di una precipitosa fusione tra Fi e An, senza una precisa identità, senza strutture di

FIATO SPRECATO Vince chi riesce a creare la bolla di vetro soffiato più grande in soli 6 minuti. Quello che vedete è Keijo Kopra, l’artigiano che ha vinto la tradizionale gara di vetro soffiato della città di Iittala, in Finlandia, grazie a una palla di quasi 54 cm di diametro

TOH, TORNA IL CENTROSINISTRA Ci avevano detto che l’appuntamento del convegno di Todi era da non perdere. Là avremmo gustato sapori vecchi e nuovi per un mix del tutto inedito. Queste erano le aspettative e le promesse. Invece, pare che si voglia dare vita ad una politica mai sperimentata in Italia: il centrosinistra. E tracciata per grandi sfide: l’opposizione a Silvio Berlusconi. Toh, l’idea è sempre quella: valorizzare la ricca tradizione della Dc, del Pci e di una parte del Psi e ripensarla e riproporla in modi diversi e unici. I legami col passato sono ancora forti, le passioni anche, ma la linea prescelta ha un’identità contemporanea. Un sapore nuovo al primo impatto, ci dicono i raffinati degustatori. Un forte legame col vecchio quello che si avverte subito dopo, ci conferma un anonimo inserviente. Il paesaggio s’ac-

dai circoli liberal Greta Gatti - Napoli

partecipazione, con meccanismi di selezione della rappresentanza di tipo oligarchico-padronale. Allo stesso modo il Pd non ha ancora risolto al suo interno alcuni problemi di identità e democrazia. Pertanto l’Udc, in occasione delle Regionali abruzzesi dovrebbe dapprima elaborare un programma ragionevole e condivisibile con al centro il rilancio del tessuto imprenditoriale della Regione e il conseguente sviluppo dell’occupazione giovanile, la promozione delle eccellenze della piccola e media impresa nel resto del Paese e all’estero attraverso una organica politica di internazionalizzazione, il risanamento della sanità regionale attraverso un potenziamento della medicina territoriale e una rimodulazione dell’offerta ospedaliera. Si tratta di una piattaforma programmatica da sviluppare attraverso l’apporto di tutti i settori produttivi della Regione. Andrebbe poi raccolto il consenso di quegli amici che non hanno più una casa politica o che si trovano a disagio nelle loro attuali formazioni partitiche. Il mio pensiero va agli

cende, si stria di rosa. E i nostri animi s’armano di tristezza.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

I SINDACI SARANNO PIÙ BRAVI? Sarà perchè sono stanchi di essere considerati gli ultimi della famiglia politico-amministrativa. Fatto sta che i sindaci (di tutti i colori, anche quelli rossi) si preparano a gustare una storica rivincita. E lo faranno in grande stile, grazie ad un decreto del ministero delll’Interno che conferisce loro più poteri. I primi cittadini potranno agire contro la prostituzione, l’accattonaggio e l’occupazione abusiva di case, anche in via preventiva. A questa giusta responsabilizzazione, che dite, corrisponderà anche una loro migliore selezione e formazione da parte dei partiti? Questa sì che sarebbe una rivoluzione.

Lettera firmata

amici dell’Udeur, a quei cattolici che si sentono estranei ai valori del nuovo Pd, a quei moderati del Pdl che non se la sentono di essere dei semplici “yes man” di decisioni prese ai vertici e persino di coloro che cominciano a provare disagio per la deriva estremista e populista dell’Italia dei Valori. Con l’apporto delle idee, dei trascorsi politici e professionali di questo variegato mondo che si riconosce nei valori del centro moderato, si può arrivare a creare quel “laboratorio Abruzzo” in grado di dare una risposta alla domanda di buon governo e di dare vita a un modello esportabile in altre regioni. E’ questa la rivoluzione moderata che possiamo portare avanti con la “Costituente di Centro”, una rivoluzione che potrebbe fare piazza pulita di tutte quelle coalizioni che si tengono insieme solo per il reciproco interesse alla spartizione dei posti di comando e che vanno in frantumi quando si tratta di affrontare le questioni più serie. Enzo La Civita COORDINATORE CIRCOLI LIBERAL ABRUZZO


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog CONTRO UN’ECCESSIVA DIFFUSIONE DELL’ASTROLOGIA

Caro Max, sogno spesso di volare Caro Max, ti ho sognato ultimamente, ce l’ho spesso questo sogno: prendo un qualsiasi bastoncino oppure spezzo un ramo, lo pianto obliquamente nel terreno, mi ci siedo sopra come le streghe sulla scopa oppure mi ci appoggio, e questo è sufficiente perché io voli lontano a lunghi balzi distesi. Sogno spesso tutto questo, ma questa volta c’eri in qualche modo anche tu, hai osservato o mi hai aspettato, talvolta sembrava di essere ai giardini del Rudolphinum. E ora accadde che io dovessi continuamente danneggiarti o far ricorso a te. Erano cioè solo inezie. Nel complesso, anche di giorno non sto male, almeno per quel che riguarda il polmone. Niente febbre, nessuna difficoltà respiratoria, sempre meno tosse. Lo stomaco invece mi dà fastidio. Quando vai in Svizzera? Saluti cordiali. Franz Kafka a Max Brod

SALVIAMO IL FORLANINI DALLA SOPPRESSIONE Penso fortemente che il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, già sollecitato dai diversi consiglieri comunali, dovrebbe prendere provvedimenti per conservare l’unica struttura funzionante a Roma per la cura delle malattie respiratorie del sud Italia: il Forlanini va restaurato, non soppresso e smembrato nella sua unità funzionale. Purtroppo la stessa triste sorte potrebbe toccare anche all’ospedale S.Giacomo. La Regione Lazio non ha neanche un piano preciso sul destino dei reparti che sarebbero dislocati in vari ospedali e sulla dislocazione degli operari sanitari, ma andrà a solo a sopprimere centinaia di posti letto di una delle maggiori realtà ospedaliere pubbliche romane. Prima di chiudere ospedali, il presidente della Regione, Piero Marrazzo, dovrebbe illustrare come crede di poter recuperare posti letto e servizi, dimenticando che il Forlanini è una struttura sanitaria di qualità internazionale: togliendo una struttura come questa, si danneggia il sistema sanitario senza che ne consegua alcun vantaggio.

Antonio Romiti - Roma

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

15 agosto 1517 Primo legame europeo con la Cina: sette vascelli armati portoghesi, comandati da Fernao Pires de Andrade incontrano degli ufficiali cinesi sull’estuario del Fiume delle perle 1519 Pedro Arias Dávila, detto anche Pedrarias Dàvila, fonda la città di Panama 1769 Nasce ad Ajaccio Napoleone Bonaparte 1812 Nella Plaza Mayor di Madrid viene solennemente proclamata la Costituzione spagnola, promulgata a Cadice il 19 marzo 1877 Thomas Edison effettua la prima registrazione sonora ”Mary Had a Little Lamb” 1949 Nelle prime elezioni democratiche dopo la caduta del nazismo per l’elezione del Bundestag della Germania Federale Tedesca la Cdu è il più forte partito 1969 Primo giorno del Festival di Woodstock che riunirà 400.000 spettatori 1971 Il Presidente statunitense Richard Nixon pone fine alla convertibilità del dollaro statunitense con l’oro

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

Ho letto sul sito astrologianograzie.uai.it un interessante appello contro l’ccessiva diffusione dell’astrologia tramite i media. Sono d’accordo con quanto scritto, e cioè: «Nell’era della comunicazione mediatica, tra le guerre e il terrorismo, le catastrofi ambientali, la politica, l’arte e la cultura, è aberrante creare confusione negli spettatori, mescolando notizie ed informazioni di carattere oggettivo con argomenti che non hanno alcun valore dal punto di vista della verità e della verificabilità. E’ gravemente diseducativo proporre al pubblico una forma di esibizione che premia così esplicitamente la diffusione di falsità. I meteorologi devono saper fare le previsioni del tempo, gli artisti sapersi esibire nel proprio campo. L’astrologo è l’unico che continua ad essere pagato con il nostro denaro pur senza dover dimostrare a nessuno la validità del proprio operato. E’ sufficiente essere dei bravi affabulatori, senza dover rispondere di quel che si afferma». Giusto. Allora come fare?

Marianna D’Alessi - Napoli

PUNTURE Tante polemiche perché il ministro Frattini è alle Maldive e ritornerà alla Farnesina solo il 19 agosto. È o non è il ministro degli Esteri.

Giancristiano Desiderio

Se qualcuno ti dice che sta per prendere una «decisione realistica», capisci subito che sta per fare qualcosa di brutto MARY MCCARTHY

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di LA RECESSIONE SI PUÒ EVITARE Chi scrive considera amico il governo e amici personali parecchi dei suoi ministri, ma proprio per questo segnala con franchezza al premier Berlusconi la necessità di spiegare una sconcertante anomalia: l’Italia è in tendenza recessiva o comunque stagnante per il 2008 e forse per l’intero 2009, ma la politica economica non mostra alcuna reattività di contingenza per minimizzare o attutire la tendenza stessa. In Germania, nel mese scorso, il governo ha discusso una manovra d’emergenza, equivalente a 10 miliardi di euro, per reagire al peggioramento della situazione economica interna. Si sono scontrati stimolazionisti e rigoristi che temevano una perdita di gettito in relazione al requisito di pareggio del bilancio e alla fine Merkel ha risolto la cosa rimandando a settembre la decisione, quando i dati relativi all’intensità della recessione saranno più chiari. In Germania sono rimasti fermi, finora, ma almeno hanno discusso la questione e sono pronti ad intervenire. In Italia manco se ne è parlato, le dichiarazioni del governo trionfanti per il successo ottenuto nel aver blindato i tetti di spesa pubblica. E basta. Appunto, ciò è sconcertante. Lo sconcerto è giustificato, poi, da due dichiarazioni di ambiente governativo, più o meno con il seguente tono: (a) la politica nazionale può fare poco per invertire i trend economici internazionali; (b) le misure varate nel pacchetto finanziario hanno capacità stimolativa. Analizziamole. Una cosa è invertire un trend internazionale e un’altra e attutirne l’impatto negativo sull’economia nazionale. La prima cosa è impossibile, la seconda possibile e doverosa. Per esempio, si forma una task force d’emergenza che valuta i settori più colpiti e individua misure di sostegno. Per dire: turismo in difficoltà, si fa

uno sconto fiscale immediato; crisi dei consumi interni, si riducono i costi sistemici - una quota della tassa sui carburanti, tariffe, ecc. per ridare un po’ di capacità di spesa alle famiglie, si favoriscono i discount nel settore distributivo, ecc. Da un lato la cessione della sovranità monetaria e di bilancio toglie alla nazione la possibilità di grandi manovre reattive sul piano dei tassi e della leva fiscale. Dall’altro resta comunque un ampio spazio di manovra. I vari sconti e sostegni sociali hanno saturato la potenzialità stimolativa del governo? Assolutamente no e il sostenerlo porta al ridicolo. Come mai il governo Berlusconi si è esposto all’accusa di fare poco per attutire l’impatto recessivo? Come mai lascia che il ministro dell’Economia dichiari che per tre anni non si abbasseranno le tasse senza intervenire su un’affermazione che viola l’impegno elettorale (e il buon senso economico)? Evidentemente è passata la dottrina di limare il welfare italiano, senza modificarlo, in modo da raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2011 come richiesto dalla Ue. Ma questa era la dottrina Prodi e il governo Berlusconi si differenzia da essa solo perché non alzerà le tasse. Ma Prodi le ha già alzate criminalmente nel biennio precedente, causa anche della grave crisi dei consumi interni, e il nuovo governo non le abbassa. Sembra una presa in giro. Da un lato non è opportuno rompere il clima di fiducia per questo governo, che sta facendo bene in molti settori, ma dall’altro non possiamo tacerne l’evidente incompetenza sul piano della politica economica, per altro già dimostrata tra il 2001 e 2006. Forse Berlusconi dovrebbe fare in prima persona il ministro dell’Economia e le cose migliorerebbero certamente.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Dall’inizio dei Giochi sono aumentati i controlli

Cinquecentomila agenti in una città sempre più di Bruno Cortona

PECHINO. Una decina di giorni fa Pechino non sembrava proprio una città blindata.A poche ore dal via dei Giochi, con tutti gli allarmi antiterrorismo possibili, i controlli di sicurezza non apparivano così severi. O almeno non apparivano tali per come noi occidentali siamo abituati a concepirli. I 500.000 volontari armati di metal detector contribuivano senza troppi affanni a rendere sicuri i siti olimpici. Poi qualcosa è accaduto. Silenziosamente, ma evidentemente. All’interno delVillaggio Olimpico, l’enorme parco nella zona nord di Pechino, sono comparsi i blindati, riservati di solito, soltanto alle sedi delle ambasciate più a rischio e agli hotel superlusso, sedi delle delegazioni internazionali statunitensi. Nemmeno la presenza di George Bush aveva alzato fino a questo punto il livello di sicurezza. Ma è impossibile capire cosa stia accadendo. Almeno per i cronisti accreditati a questi Giochi.

BLINDATA me molle, si sbracciano e ti allontanano senza troppi complimenti. Ai controlli di sicurezza degli stadi, invece, la situazione è completamente diversa. I volontari lavorano senza sosta, distanti, apparentemente distratti, pochi poliziotti ai varchi. Sembrerebbe una verifica davvero soft, se l’occhio poi non andasse alle zone circostanti. Perché oltre al militare in divisa, impettito sull’attenti sotto l’immancabile ombrellone – o piove o c’è l’umidità, o c’e’un pallido sole è sempre aper-

compagnerà per tutta la vita. Raccontarla, seguirla, tifarla questa vittoria, sembra quasi un modo per non pensare al Tibet, ai diritti civili, a una Cina che secondo le agenzie internazionali dei diritti umani è in cima alla lista nera.Tutto, su questo punto dolente, appare nascosto, dimenticato. Almeno finora.

Gli atleti, per esempio, non hanno mai manifestato o dichiarato qualcosa sull’argomento. Piuttosto la guerra lampo tra Georgia e Russia ha tenuto alto il tasso d’attenzione sulle questioni internazionali. E c’è perfino chi, proprio qui a Pechino, sostenga che questa deriva mediatica non sia casuale, ma studiata nei dettagli dal governo cinese in accordo col Cio. In fondo, quando ci fu l’attentato nella provincia dello Xinijang furono proprio i capi dello sport mondiale, col presidente in testa, il belga Rogge, a garantire sull’organizzazione e sulla sicurezza dei Giochi. Insomma, il legame Cio-governo cinese è blindatissimo: il flusso di denaro per queste Olimpiadi, del resto, è stato enorme ed ha creato anche un indotto notevolissimo. E si sa, quando ci sono di mezzo tanti soldi, le questioni di principio – anche quelle dedicate al signor De Coubertain – passano in secondo piano, se non addirittura scompaiono del tutto.

Girando per i siti olimpici, ma anche per la città, si scopre come spesso la polizia segua passo passo moltissimi cronisti occidentali

Le informazioni ufficiali – filtrate anche dal Comitato olimpico internazionale – parlano di situazione ampiamente sotto controllo. Qualche protesta per l’arresto violento del cronista britannico che aveva filmato l’altro giorno al parco di Haidian la protesta di una decina di manifestanti pro-Tibet, ma nulla di più. Eppure, vagando per Pechino, tra un sito olimpico e l’altro, si capisce che la soglia d’attenzione delle forze dell’ordine cinesi è salita. E si scopre spesso come la polizia in borghese segua passo passo moltissimi cronisti occidentali. Specie quando, magari senza malizia – come capitato a noi – si passa davanti a qualche palazzo governativo e, magari, si sbaglia marciapiede. Scattano tutti co-

to – tutt’intorno c’è un brulicare di strani personaggi in borghese apparentemente privi di una attività evidente. È la polizia che controlla tutto senza darlo a vedere. Ora però, si fa vedere eccome. I blindati blu scuro con i rostri esterni. I mezzi anfibi bianchi e celesti che ostentano le bocche di fuoco, i militari con l’elmetto.

Una condizione evidente che fa a pugni con la serenità di chi, come atleti, dirigenti, giornalisti, è inghiottito dai ritmi frenetici di una Olimpiadi. Dove migliaia di ragazzi e ragazze di tutto il mondo inseguono una vittoria che vale quattro anni di sacrifici e che vale un ricordo che li ac-

notiziario azzurro Tiro a volo, la Cainero vince l’oro

Riscatto dell’Italvolley

Chiara Cainero conquista la prima medaglia d’oro olimpica della storia del tiro al volo femminile, specialità skeet. La friulana si è imposta al termine di di un’emozionante finale decisasi solo dopo uno spareggio con la statunitense Kimberly Rhode e la tedesca Christine Brinker. La Cainero aveva completato le eliminatorie al primo posto con 72 centri, nuovo record olimpico, ma in finale ha avuto un paio di passaggi a vuoto nella seconda pedana che hanno permesso alle sue rivali di agganciarla a quota 93, ma allo shoot-off prima l’americana e poi la tedesca hanno sbagliato uno dei due bersagli mentre la Caniero, salita in pedana concentratissima e nonostante l’acquazzone che stava scendendo sul campo di gara, ha centrato entrambi i piattelli aggiudicandosi l’oro.

L’Italia di Andrea Anastasi ha facilmente battuto per 3-0 il Venezuela nella terza partita della fase a gironi del torneo di pallavolo maschile.Gli azzurri, dopo la deludente sconfitta contro gli Stati Uniti, si sono riportati in corsa per un passaggio ai quarti di finale che potrebbe essere centrato sabato in caso di vittoria contro la Bulgaria. Purtroppo non mancano le brutte notizie: dopo Mirko Corsano e Gigi Mastrangelo, si è infatti infortunato anche Alessandro Fei.

Pellegrini quarta con la staffetta Dopo l’exploit di Federica Pellegrini la staffetta 4x200 stile libero femminile ha sfiorato il bronzo centrando comunque il primato europeo . Alessia Filippi si è qualificata per la finale degli 800 stile libero Delusione, invece, per gli azzurri Facci e Bossini, che si piazzano al settimo e all’ottavo posto nei 200 rana. Fuori dalle finali dei 200 dorso e dei 200 misti Damiano Lestingi e Alessio Boggiatto.

Greco-romana, oro per Andrea Minguzzi Era dalle Olimpiadi di Seul del 1988 che l’Italia non conquistava un oro olimpico nella lotta grecoromana. Allora Vincenzino Maenza vinceva il secondo oro della sua carriera conclusa quattro anni dopo con l’argento di Barcellona. A Pechino Andrea Minguzzi è riuscito nell’impresa portando a sei gli ori italiani. L’atleta italiano ha prima eliminato l’oro e l’argento di Atene ed ha poi superato in finale il temibile ungherese Fodor. Una grande impresa, per un atleta che fino ad oggi non aveva ottenuto risultati straordinari: due terzi posti agli europei 2007 e 2008, mentre ad Atene era arrivato 17° e solo 45° agli ultimi mondiali. Alla premiazione lo svedese Ara Abrahamian ha abbandonato la cerimonia per protesta. Con fare poco sportivo, il campione ha lanciato la medaglia di bronzo sul tappeto di gioco.


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