QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Quarant’anni fa l’invasione sovietica della Cecoslovacchia
he di c a n o r c
Cominciò a Praga la maledizione della sinistra italiana di Renzo Foa intervento militare sovietico, che cancellò nella notte tra il 20 e il 21 agosto il “nuovo corso” cecoslovacco, fu uno dei grandi drammi che il mondo visse nel 1968. Per una parte della sinistra fu forse il principale trauma di quell’anno. In molti sentimmo caderci direttamente addosso quei carri armati che stazionavano minacciosi a Piazza Venceslao, con il compito di stroncare un autentico quanto vano e, come poi capimmo, del tutto illusorio tentativo di riformare il comunismo. E provammo, con il passar dei giorni, una sensazione di sconfitta aggiunta ad un senso di impotenza. Dopo quarant’anni questa è l’immagine che mi resta da allora - come ho detto - proprio di un dramma che potemmo vivere in diretta grazie ad un’informazione televisiva intensa, continua e attiva (il Sessantotto ci dette anche questa novità) e che ci fece assistere al primo “strappo” che il Pci - il partito che fino a pochi anni prima era stato di Palmiro Togliatti e che era allora guidato da Luigi Longo - compì con l’Urss. Uno “strappo” che allora sembrò fortissimo e che, rivisto oggi, appare invece carico di doppiezze, di indecisioni, ancora prigioniero del vecchio rapporto di ferro con Mosca e di una logica di campo, del campo del totalitarismo.
L’
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80820
di Ferdinando Adornato
UNA GIORNATA DI TERRORE In Algeria 40 morti, poliziotti. In Pakistan altri 20, civili. In Afghanistan muoiono 10 soldati francesi. Il terrorismo all’attacco mentre la crisi georgiana non accenna a diminuire e i rapporti tra Nato e Russia tornano a un punto critico
Il mondo in fiamme alle pagine 2 e 3
s eg ue a pa gi na 20
La corsa verso la Casa Bianca
Un Paese stanco in cerca del futuro
Parla Gianfranco Rotondi
In Italia si può ancora avere fiducia?
«Così il Pdl è troppo di destra»
di Aldo G. Ricci
di Francesco Capozza
di Carlo Lottieri
di Alfonso Piscitelli
In un dibattito sullo stato di salute del nostro Paese, e uno degli intervenuti, definendo gli italiani del terzo millennio, ha parlato di «un popolo etnicamente stanco».
Non è la prima volta che Gianfranco Rotondi, ministro per l’Attuazione del Programma del governo Berlusconi, invita Pier Ferdinando Casini e l’Udc ad entrare nel Pdl e nel governo.
Le discussioni ferragostane in merito all’ipotesi di abolizione dell’Ici sono rappresentative della situazione che sta attraversando la “lunga marcia” verso un ripensamento delle istituzioni.
Le elezioni presidenziali del 2008 non saranno una partita a scacchi: il bianco contro il nero. Non sarà un candidato afro-americano e la sua contrapposizione a un esponente della Old America.
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MERCOLEDÌ 20 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00
Lo strano federalismo del governo Berlusconi
Usa 2008: Obama appeso agli ispanici
Con la bozza Calderoli, più tasse per tutti
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
157 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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In Afghanistan uccisi dieci soldati francesi. Sessanta morti in attentati in Algeria e Pakistan
La giornata del terrore La Nato dice stop alla Russia che risponde attaccando gli Usa di Enrico Singer ieci soldati francesi uccisi dai talebani in Afghanistan. Quaranta reclute della polizia algerina massacrate in un attentato in Cabilia. Venti persone fatte a pezzi da una bomba in un ospedale di Dera Ismail Khan, in Pakistan. La contabilità del terrore, ieri, ha stabilito uno dei suoi record più sanguinosi. Proprio mentre a Bruxelles i ministri degli Esteri dei Paesi della Nato si sono divisi sulla risposta da dare all’invasione russa della Georgia, tutte le televisioni hanno rovesciato nelle case le immagini di un mondo in fiamme. Forse è esagerato immaginare che esista una regia unica che riesce a muovere contemporaneamente terrorismo islamico e truppe russe. Ma sarebbe ingenuo fare finta di non vedere i segnali che partono da avvenimenti che appaiono, soltanto in apparenza, lontani.
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Il primo è che la nuova scalata di violenze arriva alla fine del mandato presidenziale di George W. Bush. A dimostrazione che i terroristi ai quali il capo della Casa Bianca aveva dichiarato guerra dopo la distruzione delle Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001, cercano di approfittare adesso dell’incertezza politica che si reIl ministro degli Esteri Frattini è rientrato dalle Maldive per partecipare al vertice Nato di Bruxelles
spira a Washington per rilanciare la loro sfida. Con un’aggravante: questa volta anche Vladimir Putin - che sette anni fa aderì all’appello della lotta comune al terrore - sta cercando di sfruttare la vigilia dello scontro presidenziale americano per realizzare le ambizioni di potenza del Cremlino e riproporre la teoria della ”sovra-
nità limitata” di brezneviana memoria. Il clima da Guerra Fredda che ritorna, a quarant’anni esatti dall’intervento sovietico che soffocò la primavera di Praga nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, favorisce oggettivamente il terrorismo anti-occidentale che, in una logica di scontro, punta a isolare gli Usa in Africa come
in Estremo Oriente. Il secondo elemento allarmante di questo scenario è la debolezza dell’Europa. Nicolas Sarkozy, che nella crisi georgiana si era propo-
Talebani e miliziani islamici rilanciano la loro sfida sfruttando la fase d’incertezza politica alla vigilia delle presidenziali americane. Putin in Georgia approfitta delle divisioni tra Bush e gli alleati europei
Roma sarà nella missione Osce
Così l’Italia ha cercato di salvare capra e cavoli di Vincenzo Faccioli Pintozzi
l governo italiano è soddisfatto dei risultati raggiunti ieri dalla riunione Nato, perché lascia aperta la porta all’amico Vladimir ma nel contempo gli ricorda che il ritiro delle truppe russe indebitamente presenti sul territorio georgiano è la prima condizione. Per che cosa, non lo si capisce. Lo ha detto il ministro italiano degli Esteri, Franco Frattini, nel corso della conferenza stampa con cui ha commentato la sua presenza al vertice del Patto atlantico riunito a Bruxelles per deliberare sulla crisi scatenata dall’invasione della Georgia. Ovviamente, il titolare della Farnesina non ha usato i termini confidenziali di cui il suo capo di governo detiene i diritti d’autore, ma il senso è lo stesso. Si
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sto come l’uomo della trattativa tra Mosca e Tbilisi, ieri sera è partito per Kabul a rendere omaggio ai soldati francesi caduti nell’agguato nel distretto di Sarubi, a una cinquantina di chilometri a est della capitale afghana. Nel giro di pochi giorni Sarkozy ha dovuto smettere i panni del grande mediatore per riprendere quelli del presidente di un Paese colpito e di nuovo in prima linea. Non è davvero un caso che il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, nella riunione della Nato a Bruxelles, è passato dalla parte di chi è «deluso» dal comportamento di Putin e non ha paura di dirlo per salvaguardare i rifornimenti di gas. La delusione di Parigi è moltiplicata dal fatto che la promessa del ritiro dei soldati russi dalla Georgia era stata fatta personalmente a Sarkozy che vede messo in discussione anche il suo ruolo di notaio di un accordo che Mosca ha finora ignorato.
Se la Francia ha, almeno in parte, modificato il suo atteggiamento nei confronti di Mosca, il vertice straordinario della Nato sulla crisi georgiana ha confermato le divisioni tra gli altri Paesi membri che sono lo specchio della debolezza europea. Al di là delle dichiarazioni di principio - «non possiamo tratta di quel tira e molla che caratterizza oramai da anni la nostra politica estera, con poca anima e ideali confusi, e che sempre più spesso viene ignorato o deriso nel corso di questi incontri internazionali.
A fronte della soddisfazione italiana, infatti, non si può non guardare alla posizione del Segretario generale della Nato - Jaap de Hoop Scheffer – che ai giornalisti ha preferito ricordare l’ultima frase del documento pubblicato alla conclusione dell’incontro: «Con la Russia non può più essere business as usual, e questo vertice lo dimostra. Cambieranno i nostri rapporti con Mosca». Né si può passare sopra alle dichiarazioni del Segretario di Stato americano, Condoleezza
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I feriti dell’attacco alla scuola di polizia algerina A fianco: i primi rilevamenti sul luogo dell’attacco In basso: militari in Afghanistan. Nella pagina a fianco: carri armati russi in Georgia Un uomo osserva le rovine causate dall’attentato in Pakistan
Rice, che sottolinea: «Non sono gli Stati Uniti che vogliono isolare la Russia, ma è Mosca che si sta isolando invadendo e bombardando i suoi piccoli vicini. Da questa riunione esce un segnale molto chiaro, e cioè che la Nato non ha intenzione di permettere che venga tracciata una nuova linea divisoria all’interno dell’Europa». D’altra parte, nessuno poteva aspettarsi un atteggiamento più incisivo da parte del nostro ministro degli Esteri che, reduce da una missione alle Maldive, ha semplicemente esteso quella che sta divenendo la nostra vera veste internazionale: quella del mediatore povero, che cerca di fare il servo a due padroni sempre più ingombranti. Se infatti il corrispettivo francese di Frattini, Bernard Kouchner, si dice “molto de-
luso” per il mancato ritiro russo dall’Ossezia e invoca un’azione più incisiva da parte del Consiglio europeo, il nostro si limita ad annunciare con un certo compiacimento la presenza a Roma della Rice per il prossimo 5 settembre.
Mentre Kouchner annuncia un colloquio serale fra Sarkozy e Medvedev “dai toni appropriati”, Berlusconi telefona dalla Sardegna all’amico “per parlare di Ossezia”. Eppure, Roma alza orgogliosa il nostro tricolore nel raduno Nato quando Frattini annuncia che invierà cinque carabinieri (o forse funzionari civili) in Georgia, come rappresentanti dell’Italia nel corso della missione Osce che «partendo da venti, arriverà progressivamente al numero di cento osservatori». Mo-
fare come se nulla fosse successo» - la contromisura concreta è la creazione di una ”commissione Nato-Georgia” che dovrebbe facilitare i rapporti con Tbilisi. Ma che appare poca cosa sulla strada dell’adesione all’alleanza chiesta della Georgia. Soprattutto se si considera che un’analoga commissione esiste da undici anni con l’Ucraina e non ha prodotto alcuna accelerazione del processo d’integrazione di Kiev nel Patto atlantico. Un risultato che il rappresentante permanente russo presso la Nato, Dmitri Rogosin, ha commentato così: «Gli Usa possono fare finta di avere imposto il loro punto di vista, ma noi constatiamo che non hanno raggiunto alcun risultato». Mosca, insomma, continua a giocare su una doppia debolezza: quella degli Stati Uniti alla vigilia delle elezioni presidenziali e quella dell’Europa divisa tra la voglia di una riposta forte e la paura di irritare Putin. La differenza tra le due debolezze, però, è che quella americana finirà il giorno dopo l’elezione del nuovo presidente, mentre la soluzione di quella europea dipende da molte altre variabili. La divisione tra la ”vecchia” e la ”nuova” Europa non è soltanto una formula. Il ”sì”della Polonia all’installazione dei missili americani è un fatto. E questa contrapposizione interna è anche la pietra tombale sul progetto dell’Europa della Difesa che, pure, un vertice della Ue, nel 1999, aveva ufficialmente tenuto a battesimo. Con tanto di Stato maggiore europeo, battaglione di pronto intervento e comitato di collegamento con la Nato. Della Pesd (la politica europea di sicurezza e difesa), ormai nessuno parla più. A conferma dei limiti dell’Unione così come è oggi.
sca permettendo, naturalmente. Fra gli addetti ai lavori che partecipavano ieri alla riunione del Patto atlantico era evidente la spaccatura presente fra i membri Nato: da una parte la Vecchia Europa, convinta della necessità di mediare con l’orso russo, e dall’altra i reduci della cortina di ferro e gli Stati Uniti, strenui assertori della linea dura ad ogni costo. L’Italia decide una volta di più per la via di mezzo, una soluzione “ma-anchista” di stampo veltroniano che salva capra e cavoli. Probabilmente, questa è dettata dal pragmatismo e dalla volontà di non offendere quel Putin che si incanta davanti ai paesaggi di Villa Certosa. Ma che forse non basta per tenerci dentro al G8 ancora per molto.
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Usa e Ue cercano nuovi leader e non fermano i terroristi
Mai l’Occidente era stato così debole di Andrea Margelletti una giornata di sangue, quella che ci consegna la fine di agosto. Algeria, Afghanistan e Pakistan sono i tre fronti di quella che pare essere un’offensiva devastante del mondo del terrore. In Algeria oltre 40 morti causati, molto probabilmente, da al Qaeda nel Maghreb islamico (una nuova organizzazione, una sorta di ombrello di tutti i gruppi salafiti del Nord Africa). In Afghanistan, la guerriglia che combatte il governo di Hamid Karzai pare sempre più forte: talebani e non hanno aperto oramai una terribile offensiva contro le truppe Nato. Che pare essere sempre più confusa e in grado di fornire solo risposte militari e sempre meno politiche. In Pakistan già si vedono i primi frutti dell’allontanamento del generale Musharraf. Il vuoto di effettivo potere che si è venuto a creare potrebbe avere conseguenze disastrose per l’intera regione. Nonostante questi tre scenari certamente non rassicuranti quello che più preoccupa è in realtà l’Occidente e in particolare gli Stati Uniti. La fallimentare politica dei teocons che ha portato al disastro iracheno mostra oramai pienamente le corde. Nei quasi otto anni dell’amministrazione Bush non si è riusciti a creare un’efficace road map di stabilità nell’esplosivo bacino mediorientale. Non solo i rapporti con la Russia di Putin sono ai minimi storici ed il potere dell’“impero” americano in Asia è fortemente eroso dalla politica espansionista cinese e da un Giappone sempre meno timido e più protagonista. Come nel caso dell’amministrazione Clinton, si cercherà molto probabilmente un colpo a sorpresa che possa, se non riabilitare, per lo meno rendere meno deficitaria una leadership con molti chiaroscuri. Clinton tentò la carta della pacificazione definitiva tra israeliani e palestinesi, Bush cerca in ogni modo di catturare o eliminare bin Laden. L’uomo che ha segnato la sua presidenza.
È
Fra pochi mesi vivremo le emozioni delle elezioni statunitensi ma già ora possiamo trarre almeno un paio di conclusioni. Obama, che tanto piace a questa sponda dell’Oceano, si presenta come l’uomo del new deal. Ha capacità oratorie, idee innovative e rappresenta certamente la novità nello scenario politico statunitense. D’altro canto, non sembra avere grande dimestichezza con la politica estera. Inoltre, non avendo esperienze militari o del suo apparato industriale, potrebbe avere non poche difficoltà ad affrontare le sfide di cui sopra. Il repubblicano McCain ha indiscutibilmente una maggiore esperienza in molti settori, in particolare in quello militare. Appare però opaco, più in grado di attrarre chi ha paura del futuro piuttosto che tracciare una coraggiosa linea in avanti. Ma in un’epoca di incertezze, il disastro dei mutui e delle banche ha sensibilmente minato le certezze del cittadino americano: probabilmente lui potrebbe rappresentare una risposta rassicurante. L’Europa vive l’ennesimo momento di grigiore. La recente crisi nel Caucaso ha mostrato come sia stato Sarkozy (e non l’Ue) il vero protagonista. Mentre la Gran Bretagna è alla ricerca di un nuovo leader in grado di rinverdire i fasti di Tony Blair, la Germania sta ancora decidendo se le conviene continuare ad essere il gigante economico ma nano politico dal dopoguerra ad oggi o se invece è pronta ad assumersi il ruolo e lo spazio che gli compete. La Francia, dopo molti anni, sta tornando ad essere l’interlocutore continentale privilegiato di Washington. Un ruolo che Parigi apprezza, ben sapendo che l’Europa non potrà che seguirla. Sistemati i rifiuti, il federalismo fiscale e la sicurezza nelle città, forse saremo pronti anche noi ad essere più protagonisti e a giocare un ruolo meno da comprimari.
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politica
Con la bozza Calderoli le imposte saranno decise ancora da Roma. Regioni e Comuni non verranno responsabilizzati, la spesa crescerà. Ma che federalismo è?
Più tasse per tutti di Carlo Lottieri e discussioni ferragostane in merito all’ipotesi di abolizione dell’Ici sono rappresentative della situazione che sta attraversando la “lunga marcia” verso un ripensamento delle istituzioni. Scegliendo di sfidare l’opinione pubblica e anche i propri alleati richiedendo un ritorno dell’Ici, Umberto Bossi ha lasciato intendere che su tante cose la Lega è disposta a discutere, ma certo non può accettare dilazioni sulla riforma in senso autonomistico del sistema fiscale.
L
smo fiscale temporaneamente “corretto” per il Sud e le Regioni a statuto speciale (a causa dei trasferimenti perequativi), è chiaro che ci si sta orientando verso un ordinamento centralista forse un po’ attenuato negli effetti, ma che continua a vedere gli enti dipendere dalle decisioni di Roma.
È significativo, per esempio, come Calderoli esprima l’intenzione di ripartire competenze e fonti di entrate tra i diversi enti locali: «Per il Comune la casa, per la Provincia le auto e i trasporti, e per la Regione tutti i
cendo. Alle Province dovrebbe invece andare il bollo-auto, mentre le Regioni disporrebbero di un complicato sistema di trasferimenti, compartecipazioni e tributi propri. È in questo intrico di entrate proprie ed entrate derivate che può trovare spazio l’idea di valorizzare gli enti locali migliori (magari individuando costi “standard” per questo o quel servizio), ma tutto questo non ha nulla a che vedere con un vero federalismo. La stessa idea di decidere a priori dove gli amministratori locali dovranno reperire i pro-
D’altra parte, se anche dopo questa legislatura (come successo nel quinquennio 20012006) i leghisti non dovessero ottenere tale “rivoluzione”, il prezzo elettorale che finirebbero per pagare sarebbe alto. Il confronto, però, mostra pure come ben poca chiarezza vi sia in merito ai contenuti. Oggi come oggi la “bozza Calderoli” è un po’ un testo esoterico che il ministro va limando nella sua lunga estate di lavoro, ricca di incontri con alleati e avversari ma soprattutto con rappresentanti di Regioni e Comuni. E se non bastasse, le indicazioni provenienti in merito alle linee programmatiche della riforma lasciano qualche perplessità. Prendiamo, per esempio, il tema della spesa storica e la necessità di superare un meccanismo di attribuzione delle risorse che ha finito per avvantaggiare gli enti locali che hanno operato peggio: moltiplicando i dipendenti e sprecando i soldi dei cittadini. Un ordine federale deve per forza di cose andare oltre tutto ciò, ma quando si evoca una “logica della premialità” (che valorizzi i comportamenti degli enti più virtuosi) si è ben lontani dall’immaginare che ogni ente si finanzi da sé, salvi i trasferimenti a quelli bisognosi di aiuto. Questo è il punto. Invece che immaginare un federalismo fiscale compiuto per il CentroNord (Comuni e Regioni che decidono quali tasse imporre e in quale misura) e un federali-
Per non ridurre le risorse disponibili il governo è pronto a concedere alla periferia di aumentare i livelli di pressione fiscale. Senza tagliare gli sprechi servizi alla persona». L’intenzione è quindi di ripensare l’Ici, che è lungi dall’essere stata abolita, e di accorpare in questo tributo di competenza comunale ogni altro onere che oggi grava sugli immobili: Invim, tassa di registro,Tarsu, imposta di bollo sugli affitti, imposta sui passi carrai, e via di-
pri soldi non è per niente coerente con le dichiarazioni dei riformatori. Dovrebbero essere Comuni e Regioni a decidere se gravare sulla casa (sul patrimonio) o invece sul reddito. Il rischio che si sta correndo è quindi quello di perdere un’occasione storica. Oggi sarebbe possibile impostare in maniera
Peggiorerà la qualità dei servizi, si salveranno i fannulloni
ederalismo significa più tasse. La cosa potrà sembrare paradossale perché si è sempre pensato alla riforma del federalismo fiscale come un modo per realizzare la riforma tributaria, ma se si guardano le cose senza cedere alla propaganda si capirà che si sta andando verso un’ulteriore crescita, peraltro irrazionale, delle tasse. Non a caso i sindaci chiedono di avere un chiaro potere imponibile e sulla stessa linea si muovono le Regioni che hanno un piccolissimo problema in più: gli altissimi costi della spesa. A meno che non si stia pensando di tagliare in modo drastico gli organici di regioni come Sicilia e Campania, bisognerà comunque trovare quei soldi
Da uno Stato unito e malato a tante piccole Repubbliche inefficienti di Giancristiano Desiderio
F
davvero federale e competitiva la finanza pubblica, dando ampia libertà alla periferia di fissare proprie imposte e proprie aliquote, salvo gli aiuti da garantire al Mezzogiorno e alle regioni a statuto speciale. Un sistema nel quale ognuno si finanziasse da sé, scatenerebbe una corsa non ad alzare le imposte ma ad abbassarle, sfruttando e incentivando la mobilità di imprese e capitali. E in questo modo favorirebbe pure una razionalizzazione dell’apparato pubblico.
Viceversa, questo coraggio manca. Sembra che la preoccupazione prima delle componenti che più premono verso il cambiamento non stia nel dare libertà d’azione agli enti locali, ma nel garantire loro consistenti risorse anche dopo la trasformazione federale: anche provenienti da una tassazione nazionale o comunque decisa e definita in ogni dettaglio dalla legislazione ordinaria. Quando il ministro Giulio Tremonti ha affermato che il federalismo è un metodo per ridurre la pressione fiscale, ha detto una cosa giustissima. Un ordi-
necessari per pagare impiegati, burocrati, dirigenti. Non si vuole tagliare? Bene, allora da qualche parte i soldi dovranno uscire. Da dove? Prima di tutto dalle tasche dei contribuenti.
L’idea di Bossi di reintrodurre l’Ici è qualcosa di più di una sparata di Ferragosto. Riguarda direttamente il potere che il primo degli enti locali – il municipio – chiede di avere e di esercitare: tassare gli immobili. Calderoli, che l’ironia della sorte ha voluto che fosse designato come ministro della Semplificazione, dice che si devono accorpare tutte le tasse che ancora gravano su case e seconde case e terze case. E dice, il Semplificatore: «Significa che un sindaco, al posto di ricevere i soldi dallo Stato, potrà imporre con flessibilità tri-
ne federale che metta in competizione sistemi tributari differenti obbliga quanti chiedono soldi alla gente a fare i conti con i concorrenti, e in tal modo spinge verso il basso la tassazione. Non a caso in Europa è proprio la Svizzera federale, con i suoi 26 cantoni e semicantoni, il Paese che meno tassa i propri cittadini. Ma perché tutto questo funzio-
buti propri». Appunto, più tasse. Ma siccome tutto è più semplice in nome del principio «meglio pagare al comune che è vicino piuttosto che allo Stato che è lontano», il Calderoli aggiunge: «Se i comuni sfondano il budget ci saranno le sanzioni, che scatteranno in modo automatico per evitare le polemiche. Nell’ordine: messa in mora, blocco delle assunzioni, blocco della spesa per le funzioni non fondamentali, aumento automatico delle tasse». Qui si balla e canta sul Titanic. Il dibattito sul federalismo è inesistente. Da anni, ormai, la parola “federalismo” è diventata una parola magica. Tutti o quasi tutti sono d’accordo, ma se appena appena si approfondisce ci si rende conto che nessuno sa realmente cosa sia.
politica
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Tabacci: «Il ritorno dell’Ici? Se non è zuppa è pan bagnato»
«Lo chiamano federalismo, ma non sanno cos’è» colloquio con Bruno Tabacci di Susanna Turco
ni davvero è indispensabile che la federazione sia tale: che non sia Roma, per restare sul tema, a stabilire se i Comuni devono tassare gli immobili e non i redditi. E se alla fine si stabilisce che i Comuni dovranno colpire i patrimoni, è bene che questa voce non sia una parte minoritaria di un bilancio fatto per lo più di trasferimenti e che ai sindaci sia
Gli stessi “saggi” sono molto poco sapienti e parlano e sparlano di tagli, poteri, tasse, fondi come se stessero parlando del vestito di Arlecchino, mentre in mano hanno nientemeno che l’assetto statale della nazione. Roba da far tremare le vene ai polsi anche a Quintino Sella, ma Calderoli fischia e canta e ci dice che «sta scrivendo la storia d’Italia».
Il federalismo è un dogma. Non si discute. Si deve fare e basta perché altrimenti la Lega manda a quel paese il governo e siamo nuovamente punto e daccapo. E siccome le coalizioni non sono capaci di avere maggioranze coese per governi stabili in grado di tagliare la spesa e riformare il fisco noi mandiamo a gambe all’aria Stato e nazione? Questo,
lasciata la totale libertà di fissare aliquote differenti e tributi davvero propri.
Nel dibattito sul tema, insomma, è mancata la minima comprensione del fatto che federalismo è essenzialmente concorrenza e responsabilizzazione, e che le sue virtù vengono meno se non c’è un’autentica competizione tra i diversi enti. purtroppo, sta accadendo. E, a parte un fondo sul Corriere della Sera, nessuno dice niente. Il federalismo pasticciato per accontentare Bossi e il suo elettorato – che, peraltro, vuole solo meno tasse e migliori servizi – ci porterà più tributi, più poteri, più confusione, meno sicurezza, meno responsabilità, meno controllo. Il federalismo, come lo si sta cucinando, non è un dimagrimento dello Stato ma una sua esportazione in periferia. Invece di avere uno Stato centrale avremo tanti Stati di periferia nelle mani della peggiore classe amministrativa e politica d’Europa. Da uno Stato centrale malato non può nascere uno Stato federale sano.
ROMA. «Cacciari ha detto che sul ritorno dell’Ici il governo non sa di cosa parla? Lui è sempre molto preciso: un linguaggio che mi piace molto. Confermo: non sanno di cosa parlano». Gira che ti rigira, tra federalismo fiscale, proclami, baite e compleanni, l’unica cosa che Bruno Tabacci è disposto a riconoscere al governo è una certa agilità mediatica. «Meglio del 2001 nella comunicazione. Per il resto non c’è niente. Adesso loro devono lanciare parole d’ordine, partorire un topolino di federalismo fiscale e dire che nel contempo è la riforma storica del Paese. Ma è chiaro che il governo va avanti a corrente alternata, un disegno strategico non c’è». Il vicepresidente della commissione Bilancio non perde tempo nel tracciare il legame tra la polemica sul presunto ritorno dell’Ici e la ripresa autunnale. «Se si ritiene che il federalismo fiscale sia la priorità», dice, «si dovrebbe attendere la capacità politica di coinvolgere pienamente il Parlamento. Ma il governo non è in grado di fare una operazione di tale respiro blindando la sua maggioranza. E di questo problema si è fatto carico il ministro Bossi, mettendo in discussione il taglio dell’Ici». Ossia quel che si era deciso nel primo consiglio dei ministri del governo in carica. Un’operazione senza senso. La Lega ha affrontato con superficialità questo passaggio, spinta da Berlusconi a confermare i suoi impegni elettorali. Bossi ha capito in ritardo che così facendo si tagliava l’albero che il federalismo voleva fare crescere. L’Ici poteva restare e su quello si poteva costruire quella reimpostazione di questa imposta sui valori immobiliari di cui parla adesso Calderoli. Morale? Questa vicenda conferma quello che è questa maggioranza: un misto preoccupante tra la superficialità dell’azione di governo in cui campeggiano i proclami della Lega, il cinismo di Tremonti e la professionalità elettorale di Berlusconi, insuperabile nel formulare promesse legate non all’interesse generale ma alla cassetta elettorale. Al compleanno del ministro dell’Economia il Senatùr ha lanciato l’ultimatum su federalismo: «via libera o useremo mezzi sbrigativi». Bossi pensa certamente a una iniziativa di movimento, ma è una mossa semplicemente furba, gli serve per alzare il prezzo nei confronti di Berlusconi: non ha nessuna inten-
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zione di aprire una questione politica reale. In pratica, la Lega vuol continuare ad affiggere i suoi manifesti mentre sta al governo del Paese. Così, ad esempio, si finisce a dire che il problema dell’immigrazione si risolve con le impronte ai rom: è chiaro che non sta in piedi, per un Paese che ha due milioni e mezzo di immigrati extracomunitari che lavorano in nero, ma non importa. Blaterano contro l’immigrazione clandestina, ma la sfruttano in maniera cinica e senza remore. E così è sul federalismo fiscale: che altro non è che l’impressione che viene data, a una parte del Paese, che dalla riforma possono derivare dei vantaggi. Ma i vantaggi ci possono essere se c’è un taglio reale della spesa improduttiva, che c’è al sud ma anche al nord. Tremonti ripete che sarà una riforma a costo zero. La convince? Quello che stanno ipotizzando costerà molto, perché si immagina che le regioni del nord debbano avere un vantaggio considerevole e nel contempo quelle del sud conservare i loro privilegi di solidarietà. Non c’è nessun chiarimento sul punto. Non è che si introduce una regola rigorosa, precisa, e fondata anche su una base statistica adeguata, per esempio quale è la media dell’evoluzione dei Pil regionali degli ultimi dieci anni, quale è il capitale fisso sociale che si è accumulato nel tempo, come si affronta il nodo di un terzo dell’economia che è in nero e così via. Non ritiene che il federalismo fiscale sarebbe un bene per l’Italia? Preferirei si usasse l’espressione “responsabilità fiscale”, come premessa dell’autonomia amministrativa del territorio, ma certo sarebbe comunque una grande occasione per l’ ammodernamento del nostro Paese. Purtroppo, il dibattito che lo precede è così povero che non andrà molto lontano. E’ un po’ come cambiare la Costituzione dalla baita di Lorenzago. E duole constatare che i protagonisti sono gli stessi: sono passati a Ponte di Legno ma la sostanza non cambia. Fra l’altro, adesso sono pure tornati a Lorenzago. Nella stessa baita. Immagino che a Tremonti abbiano portato anche qualche aereoplanino di Alitalia. Baita a parte? Bisogna rompere il federalismo delle furbizie che ha appesantito in maniera insopportabile la spesa pubblica, sempre più lontana nella sua qualità dagli interessi dei cittadini. Bossi ha fiutato il rischio e cerca correre ai ripari, ma per il momento se non è zuppa è pan bagnato. Siamo così lontani da rigore e serieta necessari che non si può non essere preoccupati del futuro. In questi mesi il governo ha sbandierato il federalismo ma ha contestualmente accentuato il centralismo. D’altro canto loro anima non è liberista o meritocratica: sono degli statalisti di ritorno.
Ha ragione Cacciari. Questa vicenda conferma che la maggioranza è un misto inquietante di superficialità, cinismo ed elettoralismo
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politica Istruzione, giustizia, sicurezza e lavoro: ecco i mali più gravi
ecentemente, in una trasmissione radiofonica, mi è capitato di cogliere al volo un’espressione che mi ha profondamente colpito. Era un dibattito sullo stato di salute del nostro Paese, e uno degli intervenuti, definendo gli italiani del terzo millennio, ha parlato di “un popolo etnicamente stanco”. Mi è sembrata una definizione drammaticamente calzante, che si presta, naturalmente, ad essere decodificata in molti modi. Etnicamente stanco è un popolo che non investe sul suo futuro, a cominciare, naturalmente, dal primo investimento di qualsiasi popolo, vale a dire la creazione di nuove generazioni alle quali affidare il testimone della continuità del sistema-paese.
R
Creare nuove generazioni vuol dire anzitutto incrementare la natalità, che vede l’Italia quale fanalino di coda nel contesto europeo, un contesto che è già ampiamente in ritardo rispetto ad altri paesi assimilabili al vecchio continente per tradizioni e cultura. Incrementare la natalità non richiede soltanto agevolazioni fiscali alle giovani coppie, più asili nido e incrementi dell’edilizia popolare, tutti interventi necessari e per lo più ancora allo stato di buone intenzioni. Nei paesi avanzati, il tasso di natalità rappresenta piuttosto uno degli indici più significativi dello stato d’animo di un popolo, della sua fiducia nel futuro, della sua voglia di conservare e veder continuare le proprie tradizioni, il proprio lavoro, le proprie radici storiche. L’indice di natalità è quindi il termometro (non il solo, ma uno dei più sensibili) dell’ottimismo o del pessimismo di un popolo, della sua disposizione a operare in una prospettiva in cui la parola ‘futuro’ ha una valenza positiva, di miglioramento, di progetti da realizzare, di fini da raggiungere, e non piuttosto quella di un orizzonte oscuro, in cui si prospetta soltanto la possibilità di un peggioramento delle proprie condizioni e si punta tutto sulla salvezza individuale e sulla soddisfazione edonistica. Ma creare nuove generazioni non significa soltanto incrementare le nascite. Significa anche formare i cittadini del futuro e questo aspetto, che può suonare retorico, ma è solo la precondizione dello stare insieme in una comunità, organizzata secondo leggi e sostenuta da valori condivisi, chiama in causa anzitutto il doloroso capitolo della scuola, vera cartina di tornasole della volontà di intervenire alla radice sulle tendenze al declino di un Paese. È noto che i
L’Italia è un Paese stanco Si può ancora avere fiducia? di Aldo G. Ricci
raffronti internazionali vedono gli studenti italiani agli ultimi posti sul piano europeo, ma a mio giudizio questi raffronti non rendono conto appieno dello stato di salute del settore dell’istruzione. Basta avere contatti con gli studenti di tutti i livelli, fatte salve le nicchie di eccellenza, che non mancano mai, per cogliere un senso di distacco profondo da quanto viene loro, nei casi migliori, insegnato; un senso di inutilità in cui si sono perse le stesse radici dell’istruzione, la sua ragion d’essere più profonda, il suo rapporto con un mondo esterno che sembra muoversi in tutt’altra dire-
discorso andrebbe argomentato e dettagliato, ma qui basta procedere in estrema sintesi, sufficiente a comunicare la sostanza del problema, che si presenta nella generalizzata prevalenza, nella società come nella scuola, che della società naturalmente non è altro che lo specchio, delle spinte distruttive e negative su quelle costruttive e positive.
Due esempi di autolesionismo spicciolo su simboli significativi della salute nazionale ce li ha forniti la cronaca dell’ultimo periodo: Bossi che irride all’Inno di Mameli e il sindaco di un
sorridente con cui viene ripreso sui media. L’autolesionismo sostanziale è altro e talmente radicato che ormai ci conviviamo con indifferenza, anche se i suoi effetti agiscono in profondità nella coscienza collettiva. Dello stato della scuola si è detto e l’indifferenza sostanziale che circonda il suo degrado è uno dei sintomi dell’epidemia da cui è affetto il Paese. Ma altrettanto potrebbe dirsi per la giustizia. Milioni di processi civili e penali pendenti sono un segno di grave affezione in uno dei settori più sensibili della vita associata di una comunità. Così come l’insicurezza diffusa
Di fronte a un declino apparentemente irreversibile, la prima riforma è restituire la voglia di futuro ai cittadini. Una sfida che chiama in causa non solo la classe politica in tutte le sue componenti ma anche la collettività nel suo insieme zione, veloce ed estraneo. La scuola è un parcheggio o un pedaggio da pagare alle leggi e alle convenzioni, mai o quasi una opportunità e un valore. Al massimo un tramite per il lavoro, dove poi, nella maggior parte dei casi, fatte salve le solite eccellenze, si dovrà ricominciare da zero. Siamo lontani anni luce dalle radici occidentali, e quindi greche, dell’educazione, da quella paideia che poneva a suo compito la formazione di un’umanità modellata su comportamenti e valori superiori. Il
comune siciliano che si fa riprendere mentre scalpella la targa di una piazza dedicata a Garibaldi. Due angoli d’Italia agli antipodi per geografia, cultura e tradizioni, dove si compiono però due gesti diversi ma di significato convergente: colpire con azioni da avanspettacolo radici della nostra identità. Folklore, si dirà, di rapido consumo e presto dimenticato, il tempo di uno starnuto. E nessuno potrà negarlo. Ma folklore distruttivo, che colpisce per il suo stesso prodursi e per l’eco
con cui è vissuto il fenomeno dell’immigrazione, che peraltro non supera il tasso di altri paesi vicini e affini. È una insicurezza che deriva da un senso di fragilità delle fondamenta su cui poggia l’Italia: un equilibrio precario in cui sembra che il sopraggiungere di un qualsiasi fattore esterno possa metterne in pericolo la sopravvivenza. L’europeismo scettico e retorico prevalente è la risposta di chi si aggrappa a una boa per non affogare. Al di là della congiuntura inter-
nazionale, e a differenza di quanto si potrebbe pensare, economia e lavoro non sono variabili indipendenti da quanto sopra si è in sintesi accennato. Investimenti e produttività sono strettamente legati alla fiducia collettiva, così come ad essa, o piuttosto alla sua assenza, è legata la diffusione delle forme contrattuali precarie e provvisorie di cui la cronaca politica continua a trattare. La precarietà non nasce solo da salari più bassi e facilità di licenziamento. La precarietà discende anche dalla sfiducia, da investimenti a breve, dalla mancanza di iniziative di lunga prospettiva e di progetti proiettati verso il futuro. Insomma, e per concludere, la principale malattia da cui mi sembra afflitto il Paese è la mancanza di fiducia nel suo futuro, l’assenza di quella spinta vitale che è indispensabile per il funzionamento di una collettività: non solo per una sua stentata sopravvivenza, ma soprattutto per la sua crescita, perché in un mondo globalizzato e in rapida trasformazione, sopravvivere non è sufficiente e, alla lunga, non è possibile.
La prima e cruciale riforma è quindi quella di restituire la fiducia al Paese: una espressione solo apparentemente vaga, che diventa concretissima se si riprendono le fila dei punti critici sopra accennati (istruzione, giustizia, sicurezza, lavoro) e i molti altri che potrebbero essere aggiunti. È una riforma che chiama in causa non solo la classe politica in tutte le sue componenti, le diverse classi dirigenti e tutti i settori produttivi; ma chiama in causa anche la collettività nel suo insieme, che avverte in maniera confusa i rischi di un declino apparentemente irreversibile. Proprio questa sensazione diffusa di pericolo può rappresentare un punto di partenza per una inversione di tendenza, perché ogni segnale concreto in questo senso troverebbe un’opinione pubblica pronta a coglierlo, nonostante la stanchezza e lo scetticismo diffusi. La domanda in questa direzione, insomma, è evidente a tutti e le recenti elezioni ne sono state una conferma, anche se non rappresentano da sole la soluzione del problema. Ora servono risposte: tante, concrete, inequivocabili. Tali da ricomporre progressivamente un tessuto politico, civile e sociale lacerato, e restituire al Paese quella coscienza di sé e quella fiducia nelle proprie possibilità che sole possono consentirgli di affrontare le sfide di un futuro per cui nessuno ha ricette già sperimentate.
politica
20 agosto 2008 • pagina 7
Il ministro per l’Attuazione del Programma continua a corteggiare Casini: «Berlusconi ha bisogno dei moderati»
Rotondi: «Così il Pdl è troppo di destra» colloquio con Gianfranco Rotondi di Francesco Capozza
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Benzina: i prezzi potrebbero diminuire I prezzi dei carburanti sono diminuiti nelle ultime settimane, agevolati dalla discesa delle quotazioni petrolifere, ma le cifre indicano che ci sarebbe spazio per un ulteriore taglio, nell’ordine di 8 centesimi di euro al litro. Se il barile si è deprezzato di oltre il 20% rispetto ai record di metà luglio che fecero impennare anche i listini nei distributori, la benzina è scesa solo del 5% ed il gasolio del 6,4%.
Giustizia: Cicchitto apprezza l’Udc «Indipendentemente dal dibattito che si sta sviluppando sulla collocazione dell’Udc, va accolto positivamente l’impegno del partito di Casini sulla riforma della giustizia e sono certamente significative le singole questioni indicate da Lorenzo Cesa, in vista del convegno promosso per il 2-3 settembre dall’Udc». Lo ha affermato Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl. «È un fatto molto importante che ci sia nel Paese e nel Parlamento un’opposizione garantista in un contesto dove è presente un partito forcaiolo come quello di Di Pietro, che esercita una forte influenza sul Pd, partito garantista a tratti: quando ad essere colpiti dalla giustizia sono esponenti del Pd è garantista mentre per il resto è fermo sulla linea giustizialista sviluppata a partire dal ’92- ’94». on è la prima volta che Gianfranco Rotondi, ministro per l’Attuazione del Programma del governo Berlusconi, invita Pier Ferdinando Casini e i suoi compagni dell’Udc ad entrare nel Pdl e nel governo. Lo aveva già fatto recentemente in un’intervista ai quotidiani del grupo Monti-Riffesser ”Resto del Carlino, Nazione, Giorno”. «I tempi che hanno portato ad una divisione con l’Udc sono cambiati aveva detto - e ci sono formidabili condizioni per ricomporre lo strappo. È tempo di creare in Italia una nuova unità dei cattolici che si può realizzare solo in questa metà del campo perché non c’e’ dubbio che i valori fondanti del Pdl sono gli stessi della Costituente di Centro e dell’Udc». Un invito al quale aveva risposto lo stesso Casini, frenando però sull’idea di un avvicinamento di breve periodo: «Le divisioni politiche che ci avevano allontanato dal Pdl non sono per niente superate. Se avessimo voluto privilegiare le poltrone ci saremmo già seduti a suo tempo, non quattro mesi dopo».Anche se non aveva chiuso del tutto le porte, aggiungendo: «In politica, mai dire mai». Parole che lo stesso Rotondi aveva letto in una direzione positiva: «Casini tiene aperto il dialogo e di più per ora non si può chiedere». Eppure a liberal, Rotondi riparte all’attacco ed esplicita le ragioni dell’apertura ai centristi. «È Silvio Berlusconi - afferma il leader della Democrazia cristiana per le Autonomie - a volere una forte com-
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ponente democratico cristiana nella maggioranza che sostiene il suo esecutivo per bilanciare l’ala conservatrice rappresentata da An. Se fosse per le intendenze penso che noi staremmo fuori dal gioco». Ministro, pensa davvero che l’Udc possa decidere di confluire nel Pdl? Un Pdl credibile deve avere un’area Dc forte quanto la destra. Se con noi dovesse venire l’Udc ci riusciremmo subito, altrimenti il processo sarà più lungo e non so quanto convenga né agli uni né
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È il premier a desiderare una forte componente democratico cristiana nella maggioranza per bilanciare l’ala conservatrice rappresentata da Alleanza nazionale
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agli altri. L’Udc si sta incamminando verso una costituente che replica una suggestione che dura da quindici anni. Il Patto per l’Italia, il Ppi, Democrazia europea, Cdu, Udr, Udeur, Rinnovamento italiano di Dini, tutte sigle che hanno tentato di ricostituire la democrazia cristiana non riuscendoci. Il governo attuale ha invece un picco di consenso mai visto in precedenza e una forza politica che ne è il perno che raccoglie da sola il 40% dei consensi.
Casini ha risposto al suo appello già il giorno seguente dicendo “mai dire mai”, un’apertura? Buona la risposta di Pier Ferdinando Casini. Non c’è stato un no per riflesso condizionato ma un ragionamento sensato e fondato su argomentazioni politiche di spessore. Io, tuttavia, non mi propongo come paciere tra Berlusconi e Casini che tra loro sono legati da amicizia più antica che la mia con loro. Pongo un problema politico, il mio non è centrismo ma un franco consiglio all’Udc: vengano con noi non per essere dei servitori, ma per dare battaglia in funzione di un nuovo popolarismo. Come sono i rapporti tra la Democrazia cristiana per le autonomie e il Pdl? Il mio rapporto personale con Berlusconi è ottimo. Quello con il Pdl è un po’ più difficile, del resto questa differenza di vedute è anche un punto di forza del partito. Il problema che io pongo è un altro: che cos’è il Pdl? Io ritengo che debba essere la versione italiana del Ppe, in cui convivono aree più marcatamente conservatrici con aree più dichiaratamente democristiane. La Russa dice che il Ppe non è la Dc europea, e ha ragione. Io non voglio ricreare la Dc, ma un partito che raccolga i consensi, ma anche le eterogeneità quei due terzi del Paese che si dichiara non di sinistra. In quest’ottica vedo possibile un grande partito in cui possono convivere tranquillamente i valori di An con quelli dell’Udc o della DcA.
Pirati della strada: governo annuncia la stretta Velocità eccessiva, telefonino incollato all’orecchio, passeggeri senza cinture: il governo alza la guardia sul rispetto del codice della strada e, per arginare incidenti e morti stradali, annuncia maggiori controlli, sanzioni più severe, esami più difficili per patente e recupero punti. Un deciso giro di vite insomma, a 6 anni di distanza dall’ introduzione della patente a punti, con la riforma del codice della strada - afferma il sottosegretario ai Trasporti Bartolomeo Giachino - che partirà da settembre sotto la guida del ministero delle Infrastrutture. A far scattare il campanello d’allarme, un rallentamento della curva di diminuzione degli incidenti e delle mortalità negli ultimi anni ma soprattutto, una recrudescenza della mortalità legata alle due ruote, in particolare nei week end, una curva in controtendenza rispetto al resto d’Europa: le morti tra i centauri sono arrivati a coprire il 40% del totale sulla strada dal venerdì alla domenica.
Trento: la Lega dice no alla moschea La Lega Nord del Trentino ha avviato l’iter burocratico per ottenere l’ammissibilità di un referendum comunale a Trento per chiedere ai cittadini di esprimersi in merito alla costruzione di una moschea in città. Il partito, che ha dichiarato da tempo la sua contrarietà al progetto, ha costituito la settimana scorsa un apposito comitato ”contro la moschea” e ieri i vertici leghisti trentini, tra cui l’onorevole Maurizio Fugatti, hanno incontrato il segretario generale del Comune di Trento, per sottoporgli le ipotesi di quesito referendario, da passare poi al comitato dei garanti.
Delitto di Perugia: le mosse della difesa I genitori di Amanda Knox non hanno dubbi: «Quelle prove non reggono. Amanda è innocente e lo dimostreremo». Così hanno speso quanto avevano da parte per assoldare i migliori esperti in materie giuridiche e tentare il ”tutto per tutto” per dimostrare l’innocenza della figlia, accusata di aver un ruolo attivo nella morte di Meredith Kercher, uccisa a Perugia la notte del 2 novembre dello scorso anno.
pagina 8 • 20 agosto 2008
mondo
Il ruolo decisivo degli elettori di lingua spagnola nella campagna elettorale per la Casa Bianca
Obama appeso agli ispanici di Alfonso Piscitelli e elezioni presidenziali del 2008 non saranno una partita a scacchi: il bianco contro il nero. Sbagliano quei media che enfatizzano oltre misura la novità di un candidato afro-americano e la sua contrapposizione a un esponente della Old America, bianca anglosassone e protestante. Considerando che Obama e Mc Cain sono ormai appaiati nei sondaggi e che nessuno dei due sembra poter aspirare ad una vittoria schiacciante, torna alla ribalta prepotentemente il fattore ispanico. Conquistare l’elettorato ispano-americano resta una priorità fondamentale per gli aspiranti comandanti in capo. Ovviamente i “chicanos”negli Usa sono milioni; pensare che votino tutti allo stesso modo è paranoico: tuttavia intuire verso quale sponda si orienterà la maggioranza degli ispano-americani è buon modo per capire chi otterrà più consensi in generale.
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Il Partito Democratico è tradizionalmente più attento alle minoranze etniche, a coloro che dall’estero arrivano inseguendo il sogno americano.Tuttavia nel corso degli anni un feeling particolare si è instaurato tra gli ispanici e il partito repubblicano. Quelli arrivati da Cuba, Nicaragua, Venezuela conoscono troppo bene le delizie del socialismo realizzato per non diffidare di quel tanto di retorica sinistrorsa che alligna nel partito democratico. Il sentimento religioso, l’attaccamento ai valori tradizionali delle famiglie ispaniche sembra trovare corrispondenza maggiore negli ideali del Grand Old Party. Ultimamente è circolata voce di una possibile conversione di George Bush al cattolicesimo: una voce infondata che tuttavia rende bene l’idea di quella forte integrazione che si è creata negli stati del Sud come il Texas e la Florida tra ispanoamericani e dinastie politico-finanziarie di estrazione anglo-sassone protestante. In Italia quando si parla di America Latina la mente vola ancora agli idoli infranti del ’68: il Che, che andò a morire tra le montagne boliviane, abbandonato dagli stessi contadini del luogo, diffidenti verso le sue fumisterie. Il furbo Fidel che ha gestito per decenni il marketing della Revolucion, facendo di Cuba la grande base del narcotraffico e del turismo sessuale. Ultimamente Hugo Chavez, visionario quanto basta per assurgere in certi ambienti politicamente retrò al rango di Grande Illuminato. Ma in America tutto questo è ormai passato remoto. La ricetta liberista yankee conquista e convince sempre di più il Sud America; il flusso demografico segue invece la direzione opposta da Sud verso Nord. Milioni di chicanos - americani di lingua spagnola, di religione cattolica, con
Barack Obama (nella foto in un comizio nel New Mexico) affascina i rampolli delle famiglie sofisticate della East Coast, ma suscita sostanziale indifferenza in chi proviene dagli altopiani del Messico, della Bolivia e del Cile abbondante tracce di sangue amerindio nelle vene - già oggi vivono negli Usa, prevalentemente stanziati in California, Arizona, New Mexico,Texas. In quei vasti territori sui quali un tempo si estendeva la dominazione spagnola e che in seguito furono conquistati dagli anglosassoni nella fase ascendente della loro storia. Considerati complessivamente sono oggi 40 milioni di abitanti: il 14 per cento della popolazione Usa, le proiezioni demografiche li attestano intorno
“la metà più uno”della popolazione. Anche in Arizona e ovviamente in Florida l’ispanizzazione avanza. L’ondata non riguarda solo gli stati della frontiera. New York, posto a ridosso del Canada, all’estremo settentrione degli Usa nel corso degli ultimi anni si è sempre più caricata di accenti e di colori ispanici. In molte strade vige ormai il bilinguismo: spagnolo e inglese nelle vetrine dei negozi. E i ragazzi, i chicos parlano lo spanglish: uno slang con la
Oggi sono 40 milioni di abitanti: il 14 per cento dell’intera popolazione statunitense. Ma secondo le proiezioni demografiche nel 2060 cresceranno fino a raggiungere il 30 per cento al 30 per cento per il 2060. Due ispanici su tre sono messicani: il generale Antonio Lopez de Santa Anna, sfortunato protagonista della guerra mexo-americana del 1846 (che segnò l’annessione del Texas agli Usa), avrebbe di che essere soddisfatto. Le ferree dinamiche della demografia ancora una volta impongono alla storia le proprie leggi. In California all’ultimo censimento gli ispanici risultano essere dieci milioni su trentacinque. In Texas oltre sei milioni su ventidue. Nello stato meno popoloso del New Mexico, già oggi i chicanos sono
facile struttura grammaticale dell’inglese, infarcito di parole ed espressioni spagnole. “Hasta la vista, baby” diceva Schwarzenegger nei panni trucidi del robot Terminator. Una espressione che potrebbe tornagli utile anche oggi, come Governatore della California. L’ascesa sociale (e non solo demografica) degli ispanici ha cambiato molte cose nell’immaginario collettivo. Nei classici western il messicano era corpulento, sporco e cattivo. Faceva di solito la fine dell’orso. Oggi a rappresentare la hispanidad sono i volti attraenti di Antonio
Banderas, Jennifer Lopez, Ricky Martin. La prima a intuire il cambiamento… di paradigma fu Madonna. Dopo aver fatto la ragazzina dark-punk nelle prime canzoni di successo, tutto a un tratto apparve vestita da provocante Señora mexicana nella clip de “La isla bonita”.
Si dice che Obama non abbia molto appeal sull’elettorato ispanico. La favola bella del figlio del Kenya asceso ai massimi vertici della società americana (dopo essersi scrollato di dosso l’imbarazzante retaggio islamico…) affascina i rampolli delle famiglie sofisticate della East Coast, ma suscita sostanziale indifferenza in chi proviene dagli altopiani del Messico, della Bolivia, del Cile e porta con sé il fardello della povertà, più che del senso di colpa storico. Tuttavia anche McCain ha una strada in salita da percorrere nel conquistare i suffragi degli ispanici. Le recenti polemiche sull’immigrazione, le tensioni alla frontiera, certe reazioni viscerali che salgono dalla pancia dell’elettorato repubblicano rischiano di alzare il muro della diffidenza. I sondaggi degli scorsi mesi dicevano che la candidata preferita degli ispano-americani era Hillary Clinton. Un dato che certo suscita dispiacere sia in John Mc Cain che in Barack Obama Hussein…
A
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
c c a d d e
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agosto 1991
Dopo settant’anni crolla “l’impero del male”
L’Urss non esiste più golpe contro Gorbaciov di Pier Mario Fasanotti
opo settant’anni è crollato. Fine di quello che molti chiamarono l’impero del male e altri, secondo convinzioni ideologiche inossidabili, il contraddittorio ma pur sempre formidabile tentativo di costruire il socialismo. L’Urss il 20 luglio 1991, diventò altra cosa. Anzi: altre cose, visto che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si frantumò e nacquero entità politiche nuove. Tutto è avvenuto sotto i colpi della crisi del bipolarismo e (soprattutto) della decadenza economica. Accanto a queste cause generali, occorre ovviamente accostare il crescente affermarsi delle identità nazionali che con il ripristino delle libertà civili formarono una potentissima miscela centrifuga. Il 20 agosto più di centomila persone si radunarono davanti al parlamento sovietico e protestarono contro il colpo di stato che depose l’allora presidente Michail Gorbaciov. L’Urss si presentava come una “Unione” di quindici repubbliche fondamentalmente sovrane che avevano rinunciato a quote della propria sovranità in favore della federazione. Quattordici di queste erano nazionali, mentre la Rsfsr (la Russia) si presentava a sua volta federativa dal momento che aggregava diverse “nazioni” e territori “autonomi”, ossia privi di una vera sovranità popolare. In un certo senso si può dire che la Russia era “il socio di maggioranza” della Federazione. Tanto è vero che si sfiorava l’identificazione con la stessa Urss grazie a un processo di centralismo. Chi diceva Urss (anche all’estero) intendeva dire Russia. E viceversa. Anno 1990: Michail Gorbaciov deve vedersela con un clima completamente cambiato. Tutte le Repubbliche, Russia compresa, hanno appena dichiarato il ripristino della loro sovranità. continua a PAGINA II
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SCRITTORI E LUOGHI
I VIGLIACCHI DELLA STORIA
I SENTIMENTI DELL’ARTE
L’arroganza secondo Antonello da Messina
Fontamara di Silone di Alfonso Francia
di Olga Melasecchi
Pierre Laval di Mauro Canali
a pagina IV
a pagina VI
a pagina VII pagina I - liberal estate - 20 agosto 2008
Boris Eltsin con alle spalle un monumento dedicato a Lenin
to «nei limiti a essa assegnati dalle Repubbliche federate». È un rovesciamento delle parti, politicamente assai azzardato. orbaciov è alla ricerca di un consenso più ampio possibile. Se fino a ora ha trattato direttamente con i vertici (i Soviet supremi) delle Repubbliche, ora decide di sondare con un referendum la volontà dei cittadini. Un approccio diretto verso il popolo. Il quesito proposto è il seguente: «Ritenete necessaria la conservazione dell’Urss come federazione rinnovata di Repubbliche uguali e sovrane dove siano garantiti appieno i diritti e la libertà dell’uomo quale che sia la sua origine etnica?». Il referendum ha luogo il 27 marzo 1991, ma solo in nove Repubbliche. Lituania, Lettonia, Estonia, Moldavia, Georgia e Armenia si rifiutano di andare alle urne. I risultati sono comunque contradditori. Gli elettori hanno partecipato per l’80 per cento: il 76,4 vota a favore del mantenimento dell’Urss e il 21,7 contro. In Russia la quota dei favorevoli è del 71,3 per cento e in Ucraina è del 70,2.
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segue da PAGINA I Tre di esse addirittura, quelle baltiche, l’indipendenza. La Lituania considera la propria indipendenza come «irrevocabile». Il Caucaso e l’Asia centrale sono percorsi da feroci conflitti etnici. Il rigurgito nazionalista preoccupa ovviamente Gorbaciov. L’inventore della Perestrojka l’aveva bellamente sottovalutato ed era arrivato all’amara conclusione che lo status quo istituzionale era praticamente indifendibile. Il 24 novembre presenta un “Progetto di unione” con l’intenzione di aumentare in modo considerevole i poteri e le competenze delle Repubbliche federate. Le regioni baltiche, ossia Lituania, Estonia ed Estonia, non lo ritengono sufficiente. Addirittura si rifiutano di prenderlo in considerazione e di discuterlo. Un uguale comportamento viene assunto dalla Moldavia. Segnali di disgregazione più che chiari. Nello stesso tempo il progetto mette in allarme i comunisti conservatori. Gorbaciov vede aprirsi due “fronti”, dunque.
E cerca di placare gli “ortodossi”affidando ad alcuni esponenti di questa ala dura le cariche di vice-presidente dell’Urss, di presidente del Governo, di ministro dell’Interno e di direttore del Kgb (l’allora ancora potentissimo servizio segreto). Sono intanto neutralizzati alcu-
Il Partito Comunista viene messo fuori legge. L’inventore della Perestrojka rientra a Mosca 72 ore dopo l’inizio del colpo di stato. Ma è stranito e dà la netta impressione di essere definitivamente fuori dai giochi ni scontri nelle regioni baltiche e Gorbaciov è convinto di aver sedato i vecchi comunisti. Presenta allora un secondo “Progetto di unione”, più avanzato ancora del precedente. In esso si legge che l’Urss dovrà esercitare il potere federale soltan-
pagina II - liberal estate - 20 agosto 2008
La sorpresa viene però dalle due maggiori città dell’immenso paese: Mosca e Leningrado che approvano con solo il 50 per cento, l’ucraina Kyev con un misero 44. Sono le provincie musulmane a superare percentuali del 90 per cento. Ecco l’interpretazione di Gorbaciov: il risultato della consultazione è indubbiamente un incoraggiamento, ma anche come un invito a riservare nella nuova Unione una porzione di sovranità molto marcata. Almeno un terzo dei contenuti della nuova carta ha qualcosa di rivoluzionario. Scompare il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.Vanno definitivamente in soffitta parole come “socialista” e “sovietico”. Si profila l’ipotesi di una “Confederazione di Stati sovrani”: sarebbero loro, dalla periferia dell’ex impero, a suggerire le linee guida al nucleo centrale dell’impero. I Soviet supremi di dodici Repubbliche approvano il 17 giugno ciò che la volontà popolare ha decretato nelle cabine elettorali. Anche stavolta Lituania, Lettonia, Estonia si defilano, mentre Georgia, Moldavia e Armenia approvano. Il 19 agosto i comunisti conservatori approfittano dell’assenza di Gorbaciov dalla capitale e formano un comitato di emergenza.Vi partecipano tutti coloro che il leader aveva nominato ai più alti vertici dello stato. Sono golpisti. E decisi, anche se frettolosi e politicamente ingenui in quanto non comprendo-
no un elemento storico fondamentale: l’era del socialismo autoritario è finito. E poi non hanno nemmeno messo in conto la resistenza che Boris Eltsin e i suoi seguaci sono in grado di utilizzare per sbarrare la strada agli ortodossi rossi verso Mosca. Anche in Ucraina, Moldavia e nei paesi baltici l’idea del golpe viene rigettata. E con molto vigore. Da un lato ci sono mobilitazioni popolari, dall’altro ci sono dichiarazioni di condanna da parte dei parlamenti e dei governi. L’azione dei golpisti viene definita “illegale” da Eltsin. Dalla sua parte ci sono le forze armate. Dopo la manifestazione del 20 agosto, due giorni dopo le forze conservatrici si sfaldano definitivamente. allito il golpe è fallita anche l’Urss. Questa è l’equazione politica che fa riflettere il mondo intero. Il Partito Comunista viene messo fuori legge. Gorbaciov rientra a Mosca 72 ore dopo l’inizio del golpe. È stranito, dà la netta impressione di essere definitivamente fuori dai giochi, di non aver il minimo controllo del paese. Ha l’aspetto e il comportamento di un estraneo. È Eltsin che comanda e lo capiscono tutti, anche se il sanguigno Boris ha in mano solo la Russia. E le Repubbliche, pur grate al nuovo signore di Mosca, temono però che la Russia assuma una posizione estremamente dominante. Russia come
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La Piazza Rossa con la chiesa di San Basilio sullo sfondo, a destra il Mausoleo di Lenin e la Torre dell’Orologio dove si trova la principale porta d’ingresso della cittadella racchiusa dalle mura del Cremlino
o stesso giorno... nel 1885
A Marradi nel fiorentino nasce Dino Campana di Filippo Maria Battaglia
Urss. E tutte dichiarano la propria indipendenza, a eccezione della Casachia che punta a una qualche forma di federazione. La Lituania è all’avanguardia: si stacca dall’Urss in modo nettissimo. Al seguito: Lettonia, Estonia, Armenia e Georgia. Gorbaciov non si da per vinto e, in modo segreto, tenta di evitare la fine dell’esperienza unitaria. Il 5 settembre convince il Congresso sovietico dei deputati del popolo ad approvare un nuovo assetto del vertice: un Consiglio di Stato formato dai presidenti delle Repubbliche, un Comitato economico “interrepubblicano”, un nuovo Soviet supremo bicamerale con il compito di gestire la transizione. Ma la mediazione e la prudenza del “trapasso” di Gorbaciov è superata dagli eventi. Ormai siamo al confronto tra due velocità di processi politici. Il 6 settembre il Nuovo Consiglio riconosce l’indipendenza della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia, ma non opera con gli stessi criteri dinanzi alla Georgia che l’indipendenza l’aveva chiesta in modo perentorio e chiassoso. Gorbaciov non molla e prepara un quarto progetto, per salvare il salvabile: una Confederazione che viene definita non solo “a maglie larghe” ma addirittura “a geometria variabile: ogni Repubblica superstite stabilirà la forma della propria associazione. Il 17 ottobre è pronto un trattato economico da porre come base indispensabile per il
Quasi un Carneade in vita, un feticcio letterario post-mortem. Come del resto la sua vita, l’opera di Dino Campana non ha mai trovato un tranquillo assestamento. Misconosciuto, esaltato e infine nuovamente dimenticato, il poeta dei Canti Orfici nasce a Marradi, nel fiorentino, alle 14,30 del 20 agosto 1885. Suo padre, Giovanni, fa il maestro elementare, la madre, Francesca («Fanny») Luty è - stando alle severe parole del poeta - «un’Emma Bovary senza il coraggio dell’adulterio». Il primo trauma è datato 1888, quando nasce Manlio, il cocco della famiglia. Scrive Giovanna Diletti Campana: «Dino passò in seconda, o per meglio dire in terza linea. Ninni (Manlio), sempre Ninni, solo Ninni». A quindici anni, gli sono diagnosticati i primi disturbi nervosi. Dopo avere ottenuto il diploma, le prova un po’ tutte: alla fine, è ammesso all’Accademia militare di Modena. Passa da una facoltà all’altra ma la situazione familiare si esaspera, così Dino a un certo punto fugge su un treno diretto a Milano. Di lì in avanti, è una continua evasione: dal padre, che lo vuole internare, e dalle autorità del comune di Marradi, decise a fare lo stesso. Del 1912 è l’incontro con il fu-
varo della nuova Confederazione. L’Ucraina, che è la seconda Repubblica dell’Urss per vastità e popolazione, dice no. Ormai è incamminata verso un destino proprio. Quindi no al trattato. Gli ucraini contagiano i moldavi, i georgiani e gli azerbaigiani. Il 22 novembre il parlamento russo trasferisce alla banca di Russia tutte le basi materiali e tecniche della banda di Stato Sovietica. È un ulteriore escamotage per conservare il fantasma dell’unità dell’impero sovietico. Se la politica e le leggi avevano mostrato drammaticamente i propri limiti, la manovra si sposta sul terreno economico, l’ultima arma, e non certo la meno importante. Il 15 novembre il quarto trattato è pronto. Solo sette Repubbliche lo siglano. l primo dicembre il popolo ucraino approva con il 90,34 dei voti favorevoli l’indipendenza assoluta dello stato di Kiev e di Leopoli. Eltsin accetta definitivamente la realtà: l’Urss è finita per sempre, quindi coglie l’occasione per liberarsi defintivamente di Gorbaciov, il mediatore testardo e fallimentare.
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Suo padre, Giovanni, fa il maestro elementare, la madre, Francesca («Fanny») Luty è, stando alle severe parole del poeta, «un’Emma Bovary senza il coraggio dell’adulterio»
turismo, con Lacerba e con Prezzolini. Quest’ultimo non lo apprezza (anni dopo scriverà: «Mi tenne lontano da lui un certo suo modo di fare (che più tardi prese forma precisa di follia) e anche la convinzione, che non mi perito di confessare, che i suoi meriti poetici fossero allora e siano ora esagerati») e non lo apprezzano neppure Soffici e Marinetti. Papini, dal canto suo è lapidario: «Dino Campana resterà, credo, nella storia della nostra poesia del Novecento ma, passate le smanie della moda, in un cantuccio assai più appartato di quello che vorrebbero assegnargli gli afficionados dei nostri giorni». Nel frattempo, scrive e pubblica i Canti Orfici (1914) e conosce Sibilla Aleramo (1916): è l’inizio di un amore piuttosto tumultuoso, di recente raccontato anche sul grande schermo. Gli unici che sembrano interessarsi a lui sono Emilio Cecchi e Giovanni Boine. Quest’ultimo, in Plausi e Botte scrive: «è qui infatti una poesia allucinata non sai di che fatta, che se ti ci chiudi entri in un’atmosfera d’ansia, sei a balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove per disperazioni d’irrealtà. Non so che febbri si divori le im-
Boris si accorda segretamente con il leader ucraino Kravcuk e con quello bielorusso Suskevic.
vo storico. Nei dintorni di Minsk i tre leader slavi dichiarano: «Noi, le Repubbliche della Russia, della Bielorussa e dell’Ucraina, in quanto Stati fondatori e cofirmatari del trattato dell’Unione del 1922, stabiliamo che l’Urss ha cessato di esistere quale soggetto della legge internazionale e come realtà geopolitica». I tre stati decidono di formare un’associazione prima di ogni centro politico: la Comunità di Stati Indipendenti (Csi). L’Urss è un guscio vuoto, un nome del passato. E Gorbaciov è messo all’angolo. La Csi gestisce la transizione economico-amministrativa dall’Urss ai singoli Stati. I vincoli sono tuttavia non facili da spez-
Adesso è Eltsin che comanda e lo capiscono tutti, anche se il sanguigno Boris ha in mano solo la Russia. Le altre ex Repubbliche sovietiche, pur grate al nuovo signore della capitale moscovita, temono che Mosca assuma una posizione dominante. Intanto Gorbaciov non si da per vinto e, in modo segreto, tenta di evitare la fine dell’esperienza unitaria Trovano un accordo sotto l’ombrello delle rispettive libertà nazionali, della comune tradizione slava e dell’opposizione al comunismo. C’è un atto formale che assume un grande rilie-
magini e le accavalli; che cosa si dica, precisamente non vedi; i fantasmi lampeggiano e fuggono, il luogo ove sei si tramuta; - sei nella Pampa, sei fra le stelle, un diretto in corsa ti porta, la turbolenza dei vénti ti strappa. Ma insomma una strapotenza bizzarra di lirica via ti solleva fuori di te in dimenticanza del mondo per morbosità fosforescenti». Conclude solenne: «Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, questo che di elementare e ingenuo che la coltura ha lasciato in lui e nel suo stile non l’ha cancellato, è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò Te deum». Trasferito al cronicario di Castel Pulci, in Badia a Settimo, morirà alle undici e tre quarti dell’1 marzo 1932, dopo essersi ammalato di una malattia ancora oggi misteriosa.
zare. L’obiettivo più pratico è quello di tenere sotto controllo le armi nucleari, di promuovere la cooperazione economica (c’è il rischio crisi profonda) e di onorare gli impegni internazionali un tempo sottoscritti dalla vecchia Urss. La situazione procede con colpi e contraccolpi. Il 21 novembre 1993 scoppia in Russia una grave crisi politica. Eltsin viene deposto dal parlamento, che è in mano dei nazionalisti e dei comunisti, ma il 4 dicembre ricorre all’artiglieria. I membri della Csi appoggiano Boris. Nel 1994 esplode il bubbone della Cecenia, che preoccupa alla pari della vittoria dei partiti comunisti in varie Repubbliche. Eltsin invade l’ostile Cecenia che ha chiari disegni secessionisti. Tra mille difficoltà si arriva poi al dominio del nuovo “zar” Putin. La neo Russia cambia pelle, costumi, agisce in modo spregiudicato sulla scena politica internazionale. All’interno del paese c’è la corsa all’arricchimento, ma anche l’allargamento del potere mafioso, in commistione con quello affaristico.
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SCRITTORI E LUOGHI
L’Italia rurale
DI FONTAMARA raccontata da Silone Il libro è ambientato in un villaggio di contadini situato nella Marsica, in Abruzzo di Alfonso Francia La piazzetta del paese e la scalinata a sinistra che porta alla chiesa della SS.Trinità
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ontamara è un paese che, con il suo nome, rende superflua ogni descrizione. Una fonte amara parla di scarsità d’acqua, del lavoro difficile della terra, delle zolle che si spaccano sotto il sole, della povertà a cui i suoi abitanti sono condannati. Un posto con questo nome lo si immagina subito, e infatti Silone sembra voler liquidare la presentazione di questo mucchietto di case appese a un monte arido con pochi accenni sbrigativi sistemati nella prefazione.Tanto sa bene che la geografia di questo misero borgo sarà svelata dalla ripetitività dei gesti dei fontamaresi, dal loro girare sempre per gli stessi vicoli stretti e bui, tutti diretti nell’unica piazzetta. Fontamara è un villaggio di contadini situato nella Marsica, sopra il prosciugato lago del Fucino, all’interno di una valle, a mezza costa tra le colline e le coste dell’Appennino. Mettendosi a qualche centinaio di me-
tri di distanza, Silone lo vede facilmente “disposto sul fianco della montagna grigia brulla e arida come su una gradinata”. Distingue “un centinaio di casucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento e dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti di tegole e rottami d’ogni sorta”. Si tratta di abitazioni in pietra, ma sembrano fatte di paglia tanto sono fragili alle intemperie e agli elementi; vento, acqua e fuoco sono una minaccia continua e le case portano i segni dei continui attacchi della natura, che sembra avere intenzione di cancellare Fontamara dal fianco del monte che la ospita. Avvicinandosi un po’, la realtà si mostra ancora più brutta e meschina. Si scopre che sarebbe improprio persino parlare di case, perché i ripari di questi contadini sono “catapecchie le quali non hanno che un’apertura che serve da porta, da fi-
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Nel paese c’è un’unica via, che attraversa l’abitato e finisce nella piazzetta della chiesa, e una serie di vicoli così stretti da impedire che due uomini camminino affiancati nestra e da camino”. Si tratta in realtà di grotte con una sola parete in muratura, unico segno tangibile di progresso rispetto agli uomini che vivevano da quelle parti migliaia di anni fa. Fontamara infatti il tempo si succede sempre uguale; non ci sono cambiamenti, il figlio vive la stessa vita del padre e vede le stesse cose, lo stesso paese sempre uguale a se stesso. Se ogni casa ha una sola apertura, è ovvio che abbia un solo ambiente, nel quale le persone appartenenti a una famiglia “abitano, mangiano, dormono, procreano”, tal-
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volta dividendo il pavimento di terra battuta con asini, galline e capre. Ma sarebbe giusto affermare che spesso si mangia fuori casa; la ciotola con un poco di minestra viene consumata tenendola in equilibrio sulle ginocchia, seduti sull’uscio perché dentro non c’è spazio per tutti. Anche il gradino di una scala può andar bene come sedile, perché una famiglia composta da sei o sette persone non può permettersi altrettante sedie. Per fare le sedie servono paglia, legna e tempo. La prima può servire alle bestie, la seconda è necessaria per scaldarsi duran-
te le gelate invernali e il tempo non basta mai, perché la terra richiede tanto lavoro e non ammette distrazioni. Esistono ancora case del genere nei paesini dell’Appennino abbandonati dai suoi antichi abitanti; ora vengono rimesse a nuovo e usate come appartamentini da villeggiatura un poco snob, soprattutto da turisti stranieri orfani dell’Italia rurale e stracciona. Citate queste casupole, la topografia di Fontamara si esaurisce in poco altro. C’è un’unica via che attraversa l’intero abitato e finisce nella piazzetta della chiesa, e una serie di vicoli tanto stretti da impedire non solo il passaggio dei carri, ma anche di due uomini che camminino affiancati. Gli inverni nelle campagne dell’entroterra abruzzese sono così freddi che sarebbe un delitto disperdere ogni briciola di calore. Così le povere case sono ammassate le une accanto alle
Il vecchio palazzo signorile e la piccola chiesa sono gli unici due edifici costruiti in muratura in tutto il paese dove la vita si svolge interamente in strada
Il lavoro nei campi a Fontamara. Sotto la targa affissa sulla casa natìa dello scrittore e un vicoletto del paese. Accanto uno sgabello costruito dai poveri contadini. Il legno per le sedie era un lusso che non potevano permettersi
altre, come un gregge che tenta di scaldarsi nella notte fredda. In Abruzzo sono molti i paesi costruiti con questo criterio. Capita spesso di inoltrarsi per stradine che seguono traiettorie incomprensibili, e per quanto la contrada sia piccola la prima volta che la si visita si riesce sempre a perdersi. Le case e gli usci tutti uguali non permettono di orientarsi, ci si trova a guardare perplessi tra le pietre mal tagliate, che ospitano qualche piccolo uccello o più spesso intrichi di ragnatele. Le strade così strette e labirintiche non permettono alla luce di filtrare, ma questo ai contadini non interessa: loro a casa ci tornano solo per dormire. I raggi servono loro esclusivamente perché facciano crescere il raccolto; troppo sole fiacca le forze e rende evidente la miseria vergognosa nella quale sono costretti a vivere, la povertà estrema di tutto ciò che li circonda. E d’altra parte il sole
non sembra curarsi molto di illuminare Fontamara; nei paesi affossati tra un monte e l’altro il sole spesso sparisce tra i costoni di roccia già nel primo pomeriggio, nell’indifferenza generale. olo due costruzioni meriterebbero di essere accarezzate dalla luce del giorno; il vecchio palazzo signorile, ormai in rovina e buono giusto per i giochi dei ragazzi, e la chiesa, che Silone farà deturpare dalle squadracce in camicia nera. Questi sono gli unici due edifici costruiti interamente in muratura in tutto il paese, progettati appositamente e non ricavati dalle viscere della terra come le case dei fontamaresi e le tane delle bestie. Gli abitanti del paese, che l’autore chiama con affetto e rispetto “i cafoni”, sono tanto orgogliosi della loro chiesa, con il campanile alto, le vetrate sul davanti, e il quadro dell’Eucarestia raffigu-
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rante Gesù che tiene in mano una pagnottella di pane bianco, che passano tutto il poco tempo non dedicato al lavoro nei campi nella piazzetta antistante. Quella chiesetta, per certi versi banale e modesta, è l’unico esempio di bellezza che i fontamaresi abbiano sotto gli occhi, soprattutto l’unico che sentano come un loro patrimonio. Lì davanti consumano i loro pasti, lì si riuniscono per chiacchierare e discutere, al massimo per permettersi una partita a carte. Tutto in strada, perché edifici pubblici non ce ne sono, a parte la cantina di Marietta, che vende il loro vino, “asprigno come se fosse fatto di limoni”. Non esiste municipio, non esistono circoli, botteghe e drogherie. C’è tanta povertà da non permettere la nascita di mestieri: l’unico lavoro esistente è quello del bracciante. La miseria è tale che in questo paese l’unica compagnia alla solitudine delle case è quel-
la chiesa vuota (i cafoni non hanno abbastanza soldi per permettersi di mantenere un prete, quindi della messa si deve fare a meno, tranne che nelle occasioni solenni). Non c’è che una vera strada dunque, eppure questa minuscola manciata di abitazioni è quasi tutto ciò che questi cafoni vedono nella loro vita. Se viaggiare è un lusso che possono permettersi solo i ricchi e “i cittadini”, anche decidere di visitare Avezzano, distante una manciata di chilometri, è un capriccio irrealizzabile. Andare e tornare a piedi richiede una giornata intera, giornata che potrebbe essere impiegata lavorando, e anche solo una mattinata di lavoro fa la differenza tra l’avere qualcosa in tavola la sera e l’essere costretti a digiunare. Ecco perché la misera contrada di Fontamara è tutto ciò che queste persone possono conoscere in fatto di costruzioni, tetti, stradine e chiese. osì il narratore, che racconta di aver vissuto a Fontamara tutta la sua infanzia e adolescenza, ricorda “per vent’anni il solito cielo, circoscritto dall’anfiteatro delle montagne che serrano il Feudo come una barriera senza uscita; per vent’anni la solita terra, la solita pioggia, il solito vento”. L’unico allontanamento possibile è la processione che si fa ogni mattina prima dell’alba, per andare a lavorare nei
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campi. Allora i cafoni possono vedere il loro paese da una certa distanza, possono rendersi conto della sua piccolezza rispetto alla montagna, che ne sopporta la presenza come loro si rassegnano ai pidocchi che dimorano sotto i loro vestiti; resta davanti ai loro occhi la via “che dal piano porta a Fontamara facendo larghi giri sul dorso della collina, deserta e silenziosa”. Prende loro in questi casi un vago senso di commozione, non paragonabile però a quello nutrito verso la loro vera dimora, la terra che lavorano. Una terra mediocre, brulla e sassosa, poco produttiva e soprattutto scoscesa, perché si estende lungo i pendii di monti e colline. Scrive Silone: “Dalle nostre parti, tra la terra e il contadino, è una storia dura e seria, è come marito e moglie. È una specie di sacramento. Non basta comprarla, perché una terra sia tua. Diventa tua con gli anni, con la fatica, col sudore, con le lacrime, con i sospiri”. Il senso di appartenenza tra il cafone e il suo paese non è neanche lontanamente paragonabile a quello che lo avvince alla sua terra. È un legame totale e continuo. Se potesse, il cafone sui suoi campi resterebbe anche a dormire. D’altra parte cosa può offrire il paese? Non il senso di intimità con la propria famiglia dopo una dura giornata di fatica, perché le case sono così piccole e buie da non poterci consumare neanche i pasti; sono buone solo per dormire. Non la semplice bellezza delle sue vie, perché tutto è cadente e in rovina, incapace di sviluppare il senso del bello. Non il conforto della chiesa, priva di parroco e quindi triste come se fosse stata abbandonata da Dio. Tanto vale restare nei campi, e che il paese possa restare deserto. C’è però qualcosa che tiene legati il paese e i piccoli appezzamenti di terra circostanti: è quella fonte che indirettamente dà il titolo al libro. All’entrata del villaggio sgorga miseramente sotto forma di polla d’acqua, simile a una pozzanghera. All’uscita, al termine di un passaggio sotterraneo, diventa però un ruscello, che serve a irrigare le terre sassose dei paesani. Fontamara finisce qui, senza che ce ne sia accorti.
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I VIGLIACCHI DELLA STORIA Nella prima metà degli anni trenta, fu un primo attore della scena politica internazionale tanto da guadagnarsi nel 1931 la copertina di “Time” come uomo dell’anno. La sua azione politica condizionò in maniera decisiva gli eventi che condussero alla Seconda Guerra Mondiale ierre Laval veniva fucilato a Fresnes il 15 ottobre 1945. Accusato di alto tradimento, la conclusione del suo processo venne ritenuta dai suoi difensori così scontata da indurli, in segno di protesta, a rifiutarsi di seguirne le ultime fasi. Di sicuro gli odii per Laval si presentavano così universalmente diffusi, i capi d’accusa talmente evidenti e la sua azione, durante il governo di Vichy, così odiosamente colpevole da far apparire il processo una pura formalità e il verdetto emesso ancora prima della sua conclusione. Laval era stato, tra i politici della Terza Repubblica, quello forse di più lunga navigazione. Protagonista assoluto della politica francese tra le due guerre, era stato in particolare, nella prima metà degli anni trenta, un prim’attore della scena politica internazionale tanto da guadagnarsi nel 1931 la copertina di Time come uomo dell’anno. La sua azione politica condizionò in maniera decisiva gli eventi che condussero alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Ministro degli affari Esteri in diversi governi, si trovò a ricoprire tale carica tra la crisi del fallito Anschluss del 1934, tentato da Hitler ai danni dell’Austria, e la crisi etiopica del 19351936. In quel periodo egli operò da protagonista assoluto. Come ministro degli Esteri venne a Roma, nel gennaio 1935, a incontrare Mussolini, e, affidandosi alla
Pierre Laval
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Il leader francese che giocò su tre tavoli Roma, Londra e Berlino di Mauro Canali
Come ministro degli Affari esteri venne a Roma nel ‘35 a incontrare Mussolini diplomazia della ‘strizzatina d’occhio’, di cui era maestro, sembra che mentre ufficialmente si accordava con il dittatore italiano per una penetrazione economica e pacifica dell’Etiopia da parte italiana, sottobanco lo autorizzasse all’aggressione militare. Sicché, quando, all’apertura delle ostilità da parte italiana, la Francia si accordò con l’Inghilterra nell’applicare le sanzioni contro l’Italia, Mussolini poté gridare al tradimento ricordando a Laval, nel frattempo divenuto capo del governo, le garanzie che,
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a suo dire, gli avrebbe fornito verbalmente negli incontri romani. Naturalmente Laval negò tutto, e il contenuto dei colloqui Mussolini-Laval del gennaio 1935 rimane ancora un mistero.Tuttavia Laval qualcosa sulla coscienza doveva pur averla se si dette un gran daffare per giungere a una soluzione della crisi etiopica che salvasse la faccia a Mussolini. Qualche anno dopo, in effetti, il capo del fascismo riconobbe il grosso sostegno alla sua avventura etiopica fornito dall’atteggiamento ambiguo assunto da Laval nel corso della crisi. Pur accodandosi all’Inghilterra nella richiesta delle sanzioni contro l’Italia, il politico francese si era infatti battuto per escludere il petrolio dalle materie prime da sottoporre all’embargo e per non far sbarrare il canale di Suez al transito del naviglio italiano. Operando poi tra ambiguità e tacite complicità collaborò alla definizione
di quell’accordo Laval-Hoare, che, abortito ancora prima di vedere la luce, provocò la fine della prima fase della sua carriera politica, indotto alle dimissioni il 22 gennaio 1936 sia dal rapido sfaldamento della sua maggioranza in Parlamento sia dal clima politico nuovo, con l’annunciato arrivo della breve stagione dei ‘Fronti popolari’, che egli, da politico navigato, non aveva tardato a fiutare. Di lì a poco – maggio 1936 – vi sarebbe stato infatti il primo governo di Leon Blum, risultato del cartello delle sinistre francesi costituito dopo anni di loro lacerazioni e divisioni. Laval si dette all’imprenditoria giornalistica accumulando una grande fortuna e un esteso potere mediatico. La seconda e ultima fase della carriera politica di Laval, quella più cupa, che sarebbe per lui terminata davanti al plotone di esecuzione, prendeva l’avvio con la disfatta francese del giugno-lu-
glio 1940 e con la costituzione del governo collaborazionista di Philippe Petain. Già il 2 settembre 1939, all’inizio della guerra, Laval aveva manifestato tendenze ‘capitolarde’: con una mozione presentata alla commissione degli affari Esteri, aveva infatti cercato di far trionfare la soluzione dell’uscita della Francia dall’alleanza con l’Inghilterra per un accordo separato con la Germania, che avrebbe rappresentato una vera e propria resa. Per nulla scoraggiato dal fallimento della sua manovra, era tornato alla carica questa volta consigliando il governo di compiere approcci verso Mussolini. Sostenitore di un accordo con le due potenze dell’Asse, affiancò il governo armistiziale di Petain sin dalla sua costituzione il 16 giugno 1940, entrandone a far parte il 23 giugno 1940 con la carica di vice-presidente del Consiglio. Sostenuto da Petain scalò abilmente nel giro di pochi mesi le più alte cariche governative, giungendo a farsi nominare successore dello stesso Petain. Con l’ausilio dell’ambasciatore tedesco distaccato da Hitler presso il governo di Vichy, Otto Abetz, Laval fu la mente dell’incontro di Montoire tra Petain e Hitler del 22 ottobre 1940 che rappresentò il momento ufficiale dell’avvio della politica ‘collaborazionista’ del governo francese con il regime nazista. La sua rapida ascesa finì per suscitare le gelosie di Petain e degli stessi ambienti politici collaborazionisti, i quali costrinsero Laval a lasciare il governo. Laval fece anche qualche giorno di carcere ma venne presto liberato grazie all’intervento del suo amico Abetz, che lo fece trasferire a Parigi, dove ebbe modo di stringere legami ancora più stretti col nazismo. Il 15 aprile 1942 Petain lo richiamò a Vichy nominandolo capo del governo, e pochi mesi dopo gli delegò tutti i poteri. Ciano nel suo diario commentava essersi trattato del risultato di un “lungo lavorio tedesco, del quale siamo stati costantemente tenuti all’oscuro”, per concludere poi che “Laval non rappresenta la Francia e se i tedeschi credono, attraverso lui, arrivare a prendere il cuore dei francesi, sbagliano ancora una volta e di grosso”. In effetti Laval era ormai un fantoccio in mano a Hitler, e la sua sudditanza all’occupante nazista si presentava così evidente da indurlo a cercare di spiegare ai francesi, alla radio, il 22 giugno del 1942, le sue posizioni così ultracollaborazioniste, e cioè che egli sosteneva la vittoria nazista perché solo essa avrebbe impedito al bolscevismo di dilagare in tutta l’Europa. La collaborazione Laval-Hitler si tradusse inevitabilmente in una complicità assoluta con tutte le nefandezze di cui andava macchiandosi il regime nazista.
I SENTIMENTI DELL’ ARTE el Museo Civico di Palazzo Madama a Torino è conservato uno dei ritratti più stupefacenti della storia dell’arte, il Ritratto d’ignoto di Antonio di Giovanni de Antonio più noto come Antonello da Messina (1430 circa–1479). Su una tavoletta di noce, spessa pochi millimetri che misura appena 37,4 x 29,5 centimetri, Antonello dipinse a olio nel 1476 il volto di questo misterioso personaggio come si legge nel cartellino bianco sul bordo del parapetto in primo piano: “1476 Antonellus messaneus pinxit”. Non abbiamo altre informazioni sul misterioso personaggio così come anonimi sono tutti gli altri ritratti noti dipinti dal pittore siciliano. Raffigurato a mezzo busto, leggermente volto di tre quarti verso sinistra lo sconosciuto è vestito in modo sobrio ma elegante, con un abito rosso, forse un mantello a pieghe, sotto si intravede il colletto di una camicia bianca, indossa un copricapo nero con code. Nessun segno distintivo che possa favorirne l’identificazione, l’unica nota è data dal colore del mantello, rosso scarlatto, il colore più prezioso nella tintura delle stoffe; si presume così che si tratti di un personaggio appartenente alla ricca borghesia forse un mercante. È stato anche ipotizzato possa trattarsi dell’autoritratto dell’artista, all’età di quarantasei anni circa, ma sembra strano che abbia firmato l’opera senza specificare trattarsi della sua effigie. Il formato ridotto e la leggerezza della tavola sono propri dei dipinti commissionati per essere portati in viaggio, forse, nel caso di un ritratto, come ricordo o come dono. La nostra fantasia tuttavia si sbizzarrisce nell’osservare la fisionomia di quest’uomo misterioso, l’immagine stessa dell’arroganza, definita da Federico Zeri “spregiudicato piglio di intraprendenza bancaria o mercantile”. Dipinto con estrema cura fin nei minimi dettagli, come Antonello aveva appreso in gioventù dai maestri fiamminghi presenti alla corte d’Angiò a Napoli, abbiamo di fronte un volto che ci guarda con aria di sfida e con grande tracotanza. La bocca serrata in un impercettibile ironico sorriso di chi è sicuro di sé, il naso regolare con la punta arrotondata, gli occhi piccoli e con le palpebre appena abbassate di chi guarda con sospetto e alterigia, il sopracciglio ribelle e altezzoso, la fronte larga segnata da sottili rughe. È difficile staccare lo sguardo da quegli occhi e vorremmo proprio saperne di più. Dalla scarna biografia del più grande pittore del Rinascimento dell’Italia meridionale, si presume che in quell’anno fosse tornato da Venezia nel-
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L’ARROGANZA Il quadro: “Ritratto di ignoto” di Antonello da Messina
Il potere visto di tre quarti di Olga Melasecchi
Antonello si fosse recato qualche anno prima per approfondire la ricerca sulle straordinarie tecniche pittoriche fiamminghe. Fu proprio il pittore siciliano a introdurre infatti l’uso della tecnica a olio sperimentata dai pittori fiamminghi e in particolare da Jean Van Eyck (morto nel 1441) autore di alcuni mirabili ritratti e al quale il nostro artista si è ispirato. Fondo scuro, precisione dei dettagli, posizione di tre quarti, vivacità e grande espressione degli occhi, penetrazione dello sguardo, queste le caratteristiche dello stile fiammingo, al quale Antonello aggiunse la maggiore volumetria dei corpi e un senso geometrico delle forme assorbite dalla coeva pittura di Piero della Francesca. Un recente restauro sul dipinto ha rivelato inoltre che la sua struttura pittorica è molto più complessa di quanto si pensi, l’artista ha lavorato in modo molto dettagliato per ottenere fantastici effetti di ombreggiatura sulle pieghe del bellissimo mantello rosso attraverso un complesso gioco di sovrapposizioni di pigmenti e lacche. Un altro dettaglio rivelato dall’indagine è relativo al piccolo fermaglio che chiude il colletto del
L’artista siciliano introduce l’uso della tecnica a olio sperimentata dai pittori fiamminghi e in particolare da Jean Van Eyck
la sua Messina dove sarebbe morto per tubercolosi tre anni più tardi. Si tratterebbe pertanto di un siciliano che ha voluto mostrare di sé e lasciare ai posteri un’immagine che intimorisce e scoraggia. Carico di onore e di potere avrebbe così deciso di farsi ritrarre dall’illustre concittadino, la cui fama era ormai sparsa in tutta Italia, e forse anche nelle Fiandre dove sembra
Il colore del mantello, rosso scarlatto, il più prezioso nella tintura delle stoffe fa pensare a un personaggio appartenente alla ricca borghesia forse un mercante
mantello e che Antonello da Messina avrebbe aggiunto dopo aver completato la pittura del vestito. Il mistero di questo ritratto è dato anche dall’assoluto silenzio delle fonti, da imputare anche al terribile terremoto di Messina del 1908, al punto che il piccolo dipinto è rimasto sconosciuto fino al 1841, quando viene segnalato nella galleria fiorentina del marchese Pier Francesco Rinuccini. Alla morte di questi, la quadreria, che possedeva oltre settecento opere, fu venduta all’asta, ma in quel momento il ritratto di Antonello era già passato a Milano come dote di Marianna Rinuccini, andata in sposa al marchese Giorgio Teodoro Trivulzio nel 1831. Il trasferimento a Torino, nel 1935, è stato il frutto di una lunga e laboriosa trattativa intrapresa dall’allora direttore del Museo Civico,Vittorio Viale, per l’acquisto dell’intera collezione Trivulzio.
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Cruciverba d’agosto
“In parti uguali”
di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI
1) Roccia magmatica • 8) Riassume la filosofia di Cartesio • 21) Foci • 22) Romanzo di Salgari • 23) La ...... filmdi Ricky Tognazzi • 24) Un ...... chiamato Desiderio di Tennessee Williams • 25) ...... France • 26) ...... d’Oro, onorificenza • 27) Il suo numero atomico è 90 • 28) Pittore come il Doganiere Rousseau o come Ligabue • 29) ...... che di tornar sia poscia esperto (Purgatorio, I) • 30) Il 4 vert. in tedesco • 31) Iniz di Giacomo Debenedetti • 32) Nostro Signore • 33) Schietta • 34) Gardner, attrice • 35) Romanzo di Nabokov • 36) Ille mi ...... esse deo videtur... (Catullo) • 37) Scrisse il romanzo Moscardino (1922) • 39) Misere abitazioni • 41) ...il terzo già chinava in giuso l’...... (Purg. IX) • 42) Un Paolo del teatro • 43) Iniz. di Renato Serra • 44) Re dei Lapiti, figlio di Issione, sposo di Ippodamia • 45) Prelievi di sangue • 48) Nota • 49) Un giallo • 51) In parti uguali • 52) Goffredo, compositore nato a Zagarolo • 54) Liquore • 55) Sifilide • 56) ...così per non aver ...... né forame (Inferno, XXVII) • 57) Catena montuosa della Grecia in cui trovansi le Termopili • 58) Banja ......, in Bornia, sul fiume Vrbas • 59) Nota musicale • 60) ...bisogna ...... lieve al periglioso varco (Petrarca) • 61) Signorotto abissino • 62) Anna, vincitrice di un Festival di San Remo • 63) Dialogo della ...... e della Morte, Operetta Morale di Leopardi • 64) Strofa • 67) Boccanegra di Verdi • 69) Affluente del fiume Paraguay • 70) Città dell’India, a sud di Jaipur • 71) ...... non nuoce • 72) Scrisse il romanzo Malone muore • 75) Demostene e Cicerone • 76) Romanzo di Vitaliano Brancati • 77) ...... Agrippa
L’Almanacco
VERTICALI
1) Celebre calciatore inglese e titolo del film sulla sua storia • 2) Antico recipiente spesso a forma di uccello o pesce • 3) Oh, cavallina, cavallina ...... (Pascoli) • 4) Orecchio in latino • 5) ...sempre acquistando dal ...... mancino (Inf. XXVI) • 6) ...... tirannia si vive e stato franco (Inf. XXVII) • 7) La vocale “blu” e la “rossa” in Rimbaud • 8) Santo protettore di Ancona • 9) Nome di cinque re di Norvegia • 10) Iniz. di Menotti, fondatore del Festival dei Due Mondi • 11) Fu tramutata in giovenca • 12) Intreccio • 13) Vescovo di Cordoba, presidente del Concilio di Nicea (325) • 14) Il 4 vert. in inglese • 15) Iniz. dell’attore Ruggeri • 16) L’almanacco dei nobili • 17) ...i lieti ...... tornaro in tristi lutti (Inf. XIII) • 18) ...... ailes de géant l’empêchent de marcher (Baudelaire, L’albatros) • 19) “Il bosco degli urogalli” di Mario Rigoni Stern • 20) Piet..., pittore olandese • 24) Malata di un male ereditario • 28) ...... mia, per te non torna / primavera (Leopardi) • 29) All’...... niente di nuovo di E. M. Remarque • 30) Vi nacque Isaak Babel’ nel 1894 • 33) Jean, protagonista del film Ruy Blas (1947) • 34) Esclamazione • 35) Uno degli Stati Uniti • 36) ...su la marina dove il ...... discende (Inf. V) • 37) Troppo lunghi • 38) ...là nell’avello dell’...... (Don Carlos di Verdi) • 39) Il bismuto • 40) Una chiesa cristiana monofisista • 41) L’allodola dei poeti arcaici • 42) Città natale di Galileo (sigla) • 44) La città dei Vespri (sigla) • 46) Il Pievano celebre per le sue Facezie • 47) La città del Palio (sigla) • 50) La città natale dell’Ariosto (sigla) • 53) Is, ...... id • 54) Leroux, romanziere fr., “padre” di Routelabille • 56) Charles, interprete del film Vite vendute • 57) Precsio in inglese • 59) John, autore di Chiedi alla polvere • 61) Ruota in francese • 62) “...... Theatre” gruppo statunitense d’avanguardia fondato nel 1963 da Chaikin • 63) Sommosse • 64) David, regista di Breve incontro • 65) Indumento delle indiane • 66) Eresiarca condannato a Nicea (sec. IV) • 68) Scrisse l’Orlando innamorato (iniz.) • 69) Vilmos ...... Novak, pittore ungherese (1894-1941) • 70) Follett, scrittore inglese • 71) In ...... ad attenderlo. romanzo del 59 vert. • 73) Iniz. di Lanzi • 74) Pone fine all’incontro • 75) Marca di autocarri
Hanno detto di… 40 anni
D&R
I quarant’anni sono quell’età in cui ci si sente finalmente giovani. Ma è troppo tardi. Pablo Picasso
Quando sono nate le assicurazioni? Il contratto di assicurazione in senso moderno si affermò tra i secoli XIII e XIV in Italia, diffondendosi successivamente in altri Paesi europei, quando lo sviluppo dei traffici marittimi determinò per i mercanti l’esigenza di garantire i rischi del trasporto contro le insidie del mare e gli atti di pirateria. Il primo codice in materia venne ordinato a Genova dal doge Gabriele Adorno nel 1369. Tuttavia, tracce di vincoli contrattuali si trovano già presso i Romani e nell’Alto Medioevo quando, in caso di un pericolo comune, mercanti e artigiani si obbligavano ad aiutarsi reciprocamente. I dissesti e le insolvenze, legati al crescente sviluppo dei traffici, imposero l’avvento
LA POESIA IN COLLINA Quand’è fiorito il mare da noi e tutto l’azzurro e il vento e l’odore salino
dell’assicuratore specializzato. E soltanto tra il ‘600 e il ‘700 si formò la grande impresa assicurativa, tipica del mondo contemporaneo.
L’origine di… “Parigi val bene una messa” L’espressione significa “vale la pena sacrificarsi per ottenere uno scopo alto” e risale alla fine del ‘500 quando la Francia era devastata da una terribile guerra civile. Il conflitto è conosciuto come la guerra dei “tre Enrichi”: Enrico di Navarra alla guida degli Ugonotti che erano di religione protestante; Enrico di Guisa con la Santa Lega che era cattolica; Enrico III che era il re di Francia. a cura di Maria Pia Franco
ci portavano l’estate nel respiro e sensazioni e giovani mimose e le bocche dei sorrisi e la freschezza grida lontane spume, allora con mille parole, col gesto spezzato come in uno specchio rotto, sulle labbra le tue dita e la luce hanno sospeso un bacio, e poi l’hanno lasciato libero, e le foglie, e tutto il viale dei pini odorava di quei luoghi DI
PIER LUIGI BACCHINI
LA SOLUZIONE DI IERI
“più vittima dei peccati altrui che peccatore”
BILANCIO AL 31 dicembre 2007 Bilancio redatto in forma abbreviata ai sensi dell'art. 2435 - bis
OCCIDENTE S.P.A. Sede legale: Via della Panetteria, n. 10 - 00187 Roma Capitale Sociale: € 2.315.000 i.v. Iscritta nella Sez. Ord. R.I. di Roma al nr. 09200821008 - REA di Roma nr. 1147283 Pubblicato ai sensi dell'articolo 1, comma 33, del D.L. 23 ottobre 1996 n. 545, convertito in Legge 23 dicembre 1996 n. 650 e dell'art. 9 della delibera dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 129/02/CONS
STATO PATRIMONIALE ATTIVO
31-12-2007
31-12-2006
-
1.736.250
A) CREDITI VERSO SOCI PER VERSAMENTI ANCORA DOVUTI
PASSIVO A) PATRIMONIO NETTO
B) IMMOBILIZZAZIONI
I - Capitale
I - IMMOBILIZZAZIONI IMMATERIALI
VII - Altre riserve
- ammortamenti
8.000
8.000
- svalutazioni
-1.600
-
6.400
8.000
Totale immobilizzazioni immateriali (I)
VIII - Utile (perdite) a nuovo IX - Utili (perdite) dell'esercizio Totale Patrimonio netto (A)
III- IMMOBILIZZAZIONI FINANZIARIE - svalutazioni
31-12-2007 31-12-2006
2.315.000
2.315.000
-1
-
-8.233
-
-29.258
-8.233
2.277.508
2.306.767
D) DEBITI 2.094.520
-
- entro 12 mesi
49.086
17.028
Totale immobilizzazioni finanziarie (III)
2.094.520
-
- oltre 12 mesi
-
-
Totale immobilizzazioni (B)
2.100.920
8.000
Totale debiti (D)
49.086
17.028
- entro 12 mesi
32.487
1.465
Totale crediti (II)
32.487
1.465
IV - DISPONIBILITA' LIQUIDE
193.187
578.080
Totale attivo circolante (C)
225.674
579.545
-
-
2.326.594
2.323.795
TOTALE PASSIVO
2.326.594
2.323.795
C) ATTIVO CIRCOLANTE II - CREDITI
D) RATEI E RISCONTI ATTIVI TOTALE ATTIVO
CONTO ECONOMICO 31-12-2007
31-12-2006
A) VALORE DELLA PRODUZIONE 1) ricavi delle vendite e delle prestazioni Totale valore della produzione (A)
Totale costi del personale (9)
-
-
16) altri proventi finanziari:
-
-
17) interessi ed altri oneri finanziari Totale proventi ed oneri finanziari (C) (16-17)
52.650
9.066
52.650
9.066
Totale ammortamenti (10) 14) oneri diversi di gestione Totale costi della produzione (B) Differenza tra valore e costi della produzione (A-B)
26.553
893
514
40
26.039
853
1
1
4
-
-3
1
-29.258
-8.233
-29.258
-8.233
E) PROVENTI E ONERI STRAORDINARI 20) Proventi - varie
10) ammortamenti e svalutazioni: a) ammortamento delle immobilizzazioni immateriali
31-12-2006
C) PROVENTI E ONERI FINANZIARI
B) COSTI DELLA PRODUZIONE: 7) per servizi
31-12-2007
1.600
-
1.600
-
1.044
21
55.294
9.087
-55.294
-9.087
21) Oneri - varie Totale delle partite straordinarie (E) (20-21) Risultato prima delle imposte (A-B+-C+-D+-E) 26) UTILE (perdita) dell'esercizio
ELENCO DELLE TESTATE/EMITTENTI IN CONCESSIONE PUBBLICITARIA PER L'ANNO 2007 EDITORE EDIZIONI DE L'INDIPENDENTE S.R.L.
TESTATA/EMITTENTE CRONACHE DI LIBERAL
pagina 18 • 20 agosto 2008
società
Le ville e i castelli più prestigiosi acquistate dai magnati a suon di milioni di euro e dollari
La Costa Azzurra in mano ai russi di Angelo Crespi inalmente comprendiamo davvero il significato del verbo “stagliare”. La nave di Abramovich si staglia davanti all’orizzonte, ferma spesso nella baia di St Jean è “soltanto” 112 metri di bellissimo scafo blu notte, munito di due tender da 20 metri e di un elicottero. L’altra sera, il marchingegno si è alzato e dopo un volo di 100 metri si è docilmente posato nel giardino di villa Basf, ha caricato un ospite ed è ripianato a bordo, immaginiamo per un aperitivo di charme. Un tempo anche l’armatore più snob si sarebbe limitato a far la spola col tender. Così non è più. Quest’estate 2008 è l’estate degli eccessi in Cote D’Azur.Tutti i giornali francesi ne scrivono e di rimando pure quelli italiani non fanno che alimentare il mito di questo breve tratto di mare tra Mentone e St Tropez. Già oltre, nel profondo Var, e più a sud in Camargue c’è posto per tutti compresi i turisti fai da te col camper. Ma qui no: in questi pochi chilometri di roccia esposta al mistral, si concentrano tutti i lussi dei miliardari del mondo.
F
Celebrites. È la parola d’ordine. Star e magnati si sono scannati a suon di dollari ed euro per acquistare un buen ritiro affacciato sulla baia des Fourmis di Beaulieu. Giù al porto tra i navigli “normali”, comunque di persone assai benestanti, non si fa altro che parlare dei passaggi di proprietà della Leopolda. Così affettuosamente è chiamata la villa fatta costruire ad inizio Novecento da re Leopoldo di Belgio, una sorta di benefattore per questi paesini un tempo di poveri pescatori che lo ricordano amabilmente con una statua a mezzo busto. Perfino lo zoo di Cap Ferrat sorge su un antico giardino Leopoldino. Leopoldo volle la sua villa magniloquente, simil palladiana, con un parco di 10 ettari a terrazze, raro in zone così scoscese, che deve essere mantenuto da 50 solerti giardinieri. La magione fu di Gianni Agnelli. Fino a pochi giorni fa di proprietà della vedova del banchiere Edmond Safra. Oggi è stata comperata da Mikhail Prokorov, il magnate russo del nichel, per la stravolgente cifra, dicono i beni informati, di 496 milioni di euro. La vedova Safra, una signora settantenne alquanto cotonata, dopo aver detto di no a Bill Gates e a Roman Abramovich, pare abbia accettato l’offerta sostenendo che prima o poi bisogna separarsi dai beni materiali. Poco sotto la Leopolda, si erge la Leopoldina, dal 1924 della famiglia Marnier-Lapostolo, quelli per intenderci del Grand Marnier: un palazzotto con un
Villa Leopolda fu fatta costruire da re Leopoldo di Belgio, fu di Gianni Agnelli. Era di proprietà della vedova del banchiere Edmond Safra. È stata comperata da Mikhail Prokorov, il magnate russo del nichel, per 496 milioni di euro giardino botanico con 16mila specie di piante rare ed esotiche. A fianco, altra splendida residenza di Paul Allen, il numero 2 di Microsoft. Non distante, sopra l’insenatura delle Fosset, la regina del rock Tina Turner abita un “villino” detto Anna Fleur. Sulla sponda opposta del promontorio, direttamente sulla spiaggia d’Eze risiede Bono degli U2, proprio a fianco di Julian Lenon.
Tornando indietro a Cap Ferrat, vicino al faro piccolo c’è villa Basf, un edificio che di notte viene illuminato di un pacchiano rosso violento. A Nizza c’è Elton John, a Cap d’Antibes il sopraccitato Abramovich che ha investito appena 20 milioni di euro per un piccolo castello appartenuto alla duchessa di Windsor nonché l’oligarca russo in esilio Boris Berezovski, oltre Cannes c’è Pierre Cardin, più all’interno a Valbonne Mel Gibson, a Le Colle-sur-Lup Michael Schumacher e Rod Stewart, a Saint-Paulde-Vence l’attore Roger Moore e il filosofo Bernard-Henri Lévy, non lontano da Saint-Tropez dimorano Johnny Deep e Vanessa Paradis. Poco distante su un promontorio c’è il nido d’amore della coppia presidenziale Carla Brunì-Sarkozy. Gli ultimi arrivati sono Brad Pitt e Angelina Jolie, che si è limitata ad affittare una residenza con appena 400 ettari di parco dove si producono ortaggi e vini. Qui, con apice il promontorio tutto anse e golfi di Cap Ferrat e il porticciolo di Saint-Jean, trova sublime e definitiva rappresentazione il “magnatismo”russo. I magnati hanno comprato tutto quanto si poteva comprare. Hanno acquistato le di-
more dell’Aga Khan e della dinastia Quandt, titolari del marchio Bmw, le ville di antiche famiglie europee, di nobili inglesi e di notabili della Mittleeuropa. Il prezzo a metro, sempre che si possa quantificare a metro dimore di questo tipo, si aggira sui 30mila euro, ed è la cifra più alta al mondo, almeno secondo il Wealth Report del 2007. Le leggende dei loro sprechi, diventati ricchi di colpo dopo le avventurose privatizzazioni postcomunismo, sono moltissime. Chiunque attovagliato alla Table du Cap di SaintJean ha qualcosa da raccontare. Di russi piombati in Costa Azzurra con valigette zeppe di milioni di euro, pronti a rilevare qualsiasi bene immobile a portata di mano, purché assolutamente non a buon prezzo. Di russi in gruppo all’Avenu 21 di Montecarlo alle prese con vari magnum di Dom Perignogn da 10mila euro cadauno.
Prendono elicotteri, vanno e vengono dalle navi, scorazzano su Bentley cabrio, pasteggiano con champagne e crostacei
Di russi che prendono elicotteri e vanno e vengono da navi e navigli, e poi scorrazzano sulle piccole stradine con l’immancabile Bentley cabrio. Memorabile il matrimonio del miliardario russo, Andrei Melnichenko e di una ex miss Serbia, icon tanto di cappella ortodossa moscovita trasportata e poi ricostruita nel giardino della sua villa a Cap-d’Antibes. L’altro giorno al Paloma una delle spiagge più esclusive di Saint-Jean, due giovanotti russi si sono presentati con due giovanotte russe, munite di cappellino di circonferenza 1 metro e 20 da diva Hollywood anni Cinquanta, che per un attimo anche lo sciabordio delle onde è stato attutito dal silenzio generato. Poi hanno sbevacchia-
to champagne rosè e sgranocchiato crostacei suggendo mitili in modo così annoiato da far rimpiangere il comunismo. Come ha sintetizzato con la solita maestria, Massimo Gramellini, qualche settimana fa nella sua rubrichetta su La Stampa, i cosacchi sono sbarcati sulle spiagge dell’Europa occidentale, con nugoli di figli incazzosi, cellulari d’oro a forma di aragosta, voci baritonali, e per fortuna sono l’ultima generazione allevata nelle scuole del regime sovietico.
E gli italiani? I pochi italiani sopravvissuti alla russificazione, rimpiangono gli anni d’oro, quando Gianni Agnelli dettava legge, sfrecciava con la Barchetta, si tuffava nudo dagli scogli. Gli anni delle dinastie italiane che s’arroccavano a Cap Ferrat spinti dalle vicinanze del casinò di Beaulieu dentro il quale sfumavano patrimoni ed eredità, di quando gli industrialotti lombardi, i Borghi, i Mantero, invitavano a cena, e Liuba Rizzoli era famosa per le splendide serate a tema. Oggi gli unici vip nostrani menzionati sono i Dolce&Gabbana che tengono villa a Cap Martin, ma così vicina alla frontiera italiana che per un soffio non sembra Bordighiera. Il 26 luglio 2007, il settimanale Le Point titolava in prima pagina“Spécial Riches”, il numero del 31 luglio 2008, bissa con “Maisons de Stars”. È noto, nessuno come i francesi sa vendere il proprio prodotto, con quel pizzico di giusto sciovinismo che a noi italiani manca. Vuoi mettere bere uno Chablis piuttosto che un Furore, mangiare una bouiullabaisse piuttosto che un caciucco, le moules alla provenzale piuttosto che l’impepata di cozze. E quando leggiamo del nostro presidente Napolitano a Stromboli, o di Romano Prodi a Marettimo, ci viene tristezza e rimpiangiamo le ospitate di Berlusconi in Sardegna con Putin e Bush. Ma perché, ci chiediamo arrivando a Mentone, la Liguria non è la Costa Azzurra? Perché di là ostriche e di qui focacce. Perché di là anche il sole sembra più bello quando riflette sui vetri dei castelli e qui da noi piove a Camogli. La Spagna ci supera in Pil e vittorie sportive, la Francia ci annichilisce con le star. Eppure in Italia le scogliere a strapiombo, i golfi, gli isolotti, ci sono e di impareggiabile bellezza, il sole e il caldo tropicale, l’acqua smeraldo, perfino i pesci. Qui invece, in questo tratto di Francia, non si respira aria di crisi. Nessuno si preoccupa del caro petrolio, del caro vita, della quarta settimana, della crisi dei vacanzieri.Via un ricco se ne fa avanti un altro.
cultura ieve è il rumore dei passi che seguono il cammino del maestro giapponese, “la strada che gli dei mi hanno indicato”. Nel 1689, il poeta Matsu Basho partì per l’entroterra del Giappone. Nel suo diario, “Lo stretto sentiero dell’Oku” descrisse una pista, sul Passo Natagiri, ancora percorsa dai suoi devoti. “Ogni giorno è un viaggio, e il viaggio è la dimora”, scrisse Matsuo Basho oltre 300 anni fa nelle prime righe del suo capolavoro “Oku no Hosomichi” (“Lo stretto sentiero dell’Oku”, il termine Oku indicava le province nordorientali del Giappone). Con queste parole in mente, lo scrittore Howard Norman si prepara a seguire le orme del venerabile poeta, lungo il suo stretto sentiero: lo stesso viaggio di duemila chilometri attraverso il Giappone che egli intraprese nel 1689. Tanti giapponesi sanno almeno una poesia di Basho a memoria. E migliaia di persone ancora vanno in pellegrinaggio sul suo luogo di nascita e sulla sua tomba e ripercorrono tratti del suo itinerario. A distanza di tre secoli,“Lo Stretto sentiero”, tradotto in molte lingue, parla ancora ai lettori di tutto il mondo. Viviamo in un’epoca di tumulti e di incertezze e non è difficile identificarsi con il sottile disagio che tormentava Basho. Qualunque ne fosse l’origine – il poeta ebbe una vita turbolenta in un Giappone in pieno mutamento – la malinconia è l’elemento dominante di gran parte dei suoi scritti e, alla fine, fu uno dei fattori che lo spinsero a mettersi in viaggio.
20 agosto 2008 • pagina 19
L
Non sappiamo molto dei primi anni della vita di Basho che nasce nel 1644 nella città di Ueno, sorta intorno al castello eretto nel 1611 da Todo Takatori, il signore della provincia di Iga, a circa 30 chilometri da Kyoto, l’antica capitale. Il luogo era sinistramente famoso a causa dei ninja, spie al servizio del governo, protette e controllate dai Todo, esperte in arti marziali, tecniche e trucchi per carpire i segreti dei circa 300 daimyo (grandi nomi), i feudatari che dominavano nelle 74 province in cui era diviso il Giappone. Suo padre, un samurai di rango inferiore, doveva guadagnarsi da vivere insegnando a scrivere ai bambini. Quasi tutti i fratelli e le sorelle di Basho diventarono contadini. Lui invece si appassionò alla letteratura, forse grazie al figlio del signore locale, al cui servizio lavorava. Imparò l’arte della poesia da Kigin, un importante poeta di
Il poeta giapponese Matsuo Basho passò la vita viaggiando
Sulle orme di un fantasma cercando la bellezza di Rossella Fabiani Kyoto, e da subito studiò i principi del taoismo e la poesia cinese da cui continuò ad essere influenzato per tutta la vita. Dopo la morte del suo maestro, Basho iniziò a soggiornare a Kyoto dove praticò lo haikai, una forma poetica composta di versi concatenati. Ai tempi di Basho, la prima strofa dello haikai si stava evolvendo in un linguaggio poetico autonomo: lo haiku, un componimento di tre versi brevi e non rimati che cerca di catturare l’essenza della natura. Basho pubblicò i suoi primi
murai. Frequentata da artigiani, commercianti e contadini, Edo era una città giovane e vivace con una popolazione in rapida crescita, fiorenti commerci e molte opportunità per un letterato. In poco tempo, il poeta riunì intorno a sé un gruppo di studenti e di ammiratori che divenne noto come la Scuola di Basho. Nel 1680 uno dei suoi allievi gli costruì una casetta accanto al fiume Sumida e, poco tempo dopo, un altro studente gli donò un albero di basho (una specie di banano). Da allora il poeta co-
Oltre tre secoli fa, il maestro della poesia haiku partì per l’entroterra del Giappone seguendo una pista sul Passo Natagiri ancora oggi percorsa dai suoi devoti haiku sotto diversi nomi: con ogni probabilità ne cambiò una ventina, ognuno dei quali aveva per lui un significato personale. Uno era “Tosei”,“Pesca verde”, un omaggio al poeta cinese Li Po “Pruno bianco”.
Quasi trentenne, Basho lasciò Ueno per raggiungere Edo. La città, che sarebbe diventata l’odierna Tokyio, (Capitale dell’Est) contava a quei tempi quasi 500mila abitanti. Era dominata dal castello degli shogun Tokugawa, dai palazzi dei daimyo circondati da vasti giardini, dalle dimore dei sa-
minciò a firmarsi con il nome che noi conosciamo. Oppresso da dubbi spirituali, è in questo periodo che Basho intraprese lo studio del Buddismo zen. Nel 1684 Basho viaggiò per alcuni mesi nella zona a ovest di Edu: nasce, così, il suo primo racconto di viaggio, il “Diario di uno scheletro esposto alle intemperie”. Ai suoi tempi si viaggiava a piedi, dormendo in alloggi di fortuna. Basho si rimise in viaggio nel 1687 e nel 1688, raccontando i suoi nuovi itinerari nel “Diario di Kashima” e nel “Piccolo manoscritto della bisaccia”. Erano haibun,
In alto il sentiero del Maestro. A destra il diario del viaggio. In basso dipinto ”Basho e un daino”, conservato alla Merced Library dell’Università della California
una forma di componimento misto (haiku e prosa) che Basho innovò profondamente, portandolo ai vertici della raffinatezza. I diari poetici di viaggio e la vita povera e austera che conduceva aggiunsero lustro alla sua reputazione. Eppure all’età di 44 anni, Basho confidò agli amici di sentire su di sé tutto il peso del mondo.
Scrive: “sento le brezze dell’aldilà soffiare sul viso”. E comincia a pensare ad un pellegrinaggio verso i luoghi che voleva vedere prima di morire: luoghi importanti per il loro significato letterario, religioso o militare. Nel maggio del 1689, insieme al suo amico e discepolo Sora, portando con sé soltanto una bisaccia, i materiali per scrivere e gli abiti per cambiarsi, Basho parte ancora una volta come uno hyohakusha,“colui che va senza direzione”. Cammina per cinque mesi, percorrendo quasi duemila chilometri, tra villaggi e montagne, colli e pianure, a nord di Edo e lungo il Mar del Giappone. Da questo viaggio nasce il suo capolavoro,“Lo stretto sentiero”. Il libro è un viaggio spirituale, un percorso buddhista in cui si lascia ogni bene mondano e ci si affida al destino. Il libro è un’intramontabile mappa spirituale. Ancora oggi sulla strada di Basho si trovano paesaggi eterni e antichi luoghi di culto e grazie a loro, un viaggiatore dalla mente aperta può entrare in contatto con il passato senza che nulla di ciò che l’uomo ha costruito nel frattempo possa impedirglielo. Inoltre, la bellezza non sta soltanto in quello che si osserva con attenta compassione, ma anche nella conoscenza di se stessi quando si è soli. Una volta il poeta confidò a un allievo di “intrattenersi” sovente con grandi poeti cinesi e giapponesi del passato e definì uno di questi incontri come “una conversazione tra un fantasma e un futuro fantasma”. Chissà se adesso anche Howard Norman, lungo il suo stretto sentiero, arriverà a vedersi come un futuro fantasma.
pagina 20 • 20 agosto 2008
memorie
40 anni fa l’intervento sovietico. La crisi d’identità della sinistra affonda le sue radici nell’invasione della Cecoslovacchia
La maledizione di Praga di Renzo Foa segue dalla prima u certo un passo in avanti rispetto all’assenso che dodici anni prima era stato dato alla repressione della rivoluzione ungherese. Ma fu un’incompiuta. Quanto ha pesato questa incompiuta nel corso della sinistra italiana – dove il Pci è stato egemone che ha sempre cercato una sua diversità e una sua modernità? Purtroppo è una domanda che occorre ancora porsi di fronte alla difficoltà che il Pd ha oggi di darsi un profilo, di fissare un’identità e soprattutto di trovare delle radici. Forse questa è l’unica domanda che, qui in Italia, ci trascianiamo ancora dall’agosto cecoslovacco di quarant’anni fa.
F
Per il resto non restano interrogativi né misteri. Al punto che sembra un esercizio inutile ricordare fasi e protagonisti dell’ultimo tentativo, prima di quello gorbacioviano, di avviare un’inedita trasformazione democratica di un regime comunista. Inutile perché sappiamo fin troppo bene che quel tentativo era impossibile, se non altro perché una rivoluzione messianica non può cambiare il proprio Dna. Anche dal punto di vista della ricostruzione storica non vi sono più dubbi interpretativi né misteri da svelare. L’intera documentazione è nota da tempo. Addirittura già prima che il 1989 e la fine dell’Urss consentissero l’apertura degli archivi dell’Est, erano stati gli stessi protagonisti cecoslovacchi dell’epoca a pubblicare memorie, diari e perfino i verbali degli incontri che, fino alla trattativa di Mosca che seguì l’occupazione di Praga, scandirono il duro braccio di ferro tra il gruppo dirigente sovietico e la leadership del “nuovo corso”. Un contributo non indifferente a chiarire gli ultimi aspetti con-
troversi, tra cui la speranza nutrita a lungo dai comunisti riformatori che Leonid Breznev non facesse ricorso all’intervento militare, è stato dato dallo stesso Alexander Dubcek, dopo il suo ritorno sulla scena avvenuto con l’intervista che mi concesse e che uscì sull’Unità nel gennaio del 1988.
Insomma ormai si sa tutto su quel passaggio decisivo della storia dell’Europa e del mondo, quando venne definitivamente chiusa la porta al processo di destalinizzazione e riaffermata la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti: a Budapest nel ’56 e a Praga dodici anni dopo ci fu la riaffermazione della logica imperiale allo stesso tempo comunista e russa e ci fu la dimostrazione che l’Occidente non avrebbe rimesso in discussione lo status quo. Tema, quest’ultimo, oggi al centro della discussione e del dibattito di fronte alla crisi georgiana. Pensando ai grandi cambiamenti che ci sono stati, in primo luogo al 1989 e alla fine della logica dei blocchi, ma anche all’affermazione delle cul-
Dopo l’invasione di Praga da parte dell’Armata rossa il Pci esprime il suo dissenso verso Mosca, ma facendolo precedere dalla convinta riaffermazione del «profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani all’Unione Sovietica e al Pcus».
rio dell’intervento a Budapest. Resta però la peculiarità che riguarda l’Italia. Naturalmente si tratta di un passaggio che coinvolge essenzialmente il passato di una sinistra che non c’è più. Comunista era in Cecoslovacchia il regime che una classe dirigente che si chiamava comunista cercò di rinnovare. Comunisti si chiamavano coloro che bloccarono con la forza
Anche alla Bolognina si arrivò tre giorni dopo e non tre giorni prima la caduta del Muro di Berlino. Non c’è da stupirsi del fatto che il Pd, cerchi di inventarsi “radici” artificiali ture dell’interventismo democratico e della globalizzazione della libertà, la distanza da allora non sembra solo di quarant’anni. Stiamo parlando di un altro mondo, completamente diverso, e allora si capisce perché tutto appare così lontano, come nel 2006 era apparso altrettanto lontano l’anniversa-
delle armi quel tentativo di cambiamento. E, anche se fosse stato possibile, anche se il pluralismo avesse potuto essere l’approdo del “nuovo corso”, non ci fu il tempo perché dei non comunisti svolgessero un ruolo. Comunisti erano anche coloro che espressero il loro dissenso. Tutto avvenne all’interno di quel quadro ormai svanito. E la fine dei partiti comunisti e del loro potere ha segnato anche la fine di quella loro componente importante, sempre minoritaria e sempre sconfitta, che è passata alla storia sotto il nome di “comunismo riformatore”, cioè di
quell’esperienza di cui Mikhail Gorbaciov è stato l’ultimo protagonista e di cui il Pc italiano è stato l’elemento di continuità o - se il termine sembra più appropriato – il custode.
Non c’è proprio più nulla di quella sinistra. La stessa “primavera di Praga” fu solo una breve parentesi che l’occupazione militare chiuse per sempre. Allora non scalfì la costruzione imperiale nella quale erano impegnati i successori o, meglio, gli avversari di Krusciov. Ma non spinse neanche le sinistre che c’erano in Europa a cercare un terreno comune. Non solo restò – e in quella circostanza si acuì – la vecchia divisione tra comunisti e socialisti che era stata sancita dalla guerra fredda e che in Italia si era riaperta nel 1956, ma si aggiunsero anche le nuove lacerazioni provocate dalle spinte radicali esplose con il Sessantotto. Non ci furono che conseguenze negative, mentre in Cecoslovacchia l’epurazione di una classe dirigente (in tutto mezzo milione di persone, fra politici, intellettuali, funzionari statali e così via) avvenne senza colpo ferire. Quella sinistra rispuntò, una ventina di anni dopo, con un’altra breve parentesi, quella di Gorbaciov. E fu lo stesso protagonista della “perestrojka”a definire il “nuovo corso”di Dubcek come un’occasione persa e a riabilitarne la carica innovativa. Ma era tardi, tut-
to l’Est aveva cominciato a vacillare, il problema non era più come riformare i regimi comunisti – missione impossibile – ma come abbatterli o poiù semplicemente superarli. Anche se tutto è cambiato, se quei punti di riferimento non ci sono più, resta il fatto che una reazione più forte all’intervento militare sovietico avvenuto nella notte tra il 20 e il 21 agosto del ’68 avrebbe potuto davvero cambiare la storia della sinistra, non solo in Italia, ma probabilmente in tutta l’Europa.
E che il disagio e il turbamento che una parte importante di militanti e dirigenti del Pci visse in quel momento avrebbero potuto avere uno sbocco all’altezza del dramma che si consumò. Che sarebbe stata possibile una vera rottura. Ma, rileggendo le reazioni di allora, è difficile pensare che le prese di distanza che ci furono – parlo del Pci, ma non solo – potessero essere capaci di incidere, di pesare, di condizionare la politica imperiale sovietica, di aiutare i riformatori di Praga. Cioè è difficile sfuggire all’impressione che, non arrivando alle logiche conseguenze, cioè ad un vero “strappo”con Mosca, un partito comunista come quello italiano, che pure si stava misurando con i problemi di una democrazia occidentale, non riuscì a difendere se stesso e la propria peculiarità. Basti ricordare che nella prima
memorie
20 agosto 2008 • pagina 21
Parla l’esponente riformista del Pd Umberto Ranieri
«Anche il Sessantotto voltò le spalle a Dubcek» colloquio con Umberto Ranieri di Riccardo Paradisi
ROMA. «Avremmo dovuto tagliare i ponti già ne- dello sovietico e condussero analisi spietate cir-
reazione ufficiale del Pci, un comunicato del suo ufficio politico, il giudizio di “grave dissenso” che marcava il distacco da Mosca veniva preceduto dalla riaffermazione del «profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani all’Unione Sovietica e al Pcus». Basti ricordare che l’edizione straordinaria dell’Unità, uscita in gran fretta la mattina del 21 agosto, conservava ancora un titolo (certo in posizione secondaria, ma comunque leggibile) che suonava quasi giustificatorio («La stampa sovietica denuncia minacce revansciste di Bonn ai confini con la Cecoslovacchia»). Così come, due giorni dopo, alla Dc che in un comunicato della sua Direzione sottolineava che «il dissenso manifestato dal Pci, che pure esprime disagio rispetto alla fredda logica di potenza dell’Urss, è peraltro in contrasto con il tipo di rapporto che unisce il comunismo italiano all’Unione Sovietica e al Pcus», veniva risposto rinfacciando «collegamenti internazionali di servilismo e di comprensione per la politica imperialista che essi amano e sostengono».
Rileggere l’Unità di allora e le prese di posizione del Pci è istruttivo. Non solo fa sfumare in una cornice di doppiezza la sensazione che allora militanti e dirigenti provarono di aver compiuto una svolta ed una rottura. Ma offre anche un’imma-
gine completa della contraddizione di fondo che ha segnato la storia della componente fondamentale della sinistra italiana del dopoguerra, cioè il Pci, e di cui è tanto discusso: quella di essere stato contemporaneamente parte costitutiva della democrazia italiana e prigioniero di una logica di blocco, che era un blocco allo stesso tempo imperiale ed ideologico. Di quella sinistra non c’è più nulla, si tratta di un capitolo che appartiene al passato. Resta comunque la peculiarità tutta italiana di quello che avvenne nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968: l’occasione che non fu colta, uno “strappo” a metà, una vera e propria “incompiuta”, un altro ritardo accumulato. Non c’è allora da stupirsi della lentezza della metamorfosi compiuta dal Pci con Berlinguer, così come non c’è da stupirsi del fatto che alla Bolognina si arrivò tre giorni dopo e non almeno tre giorni prima la caduta del Muro di Berlino, così come non c’è da stupirsi del fatto che il Pd, nato con almeno vent’anni di ritardo, stenti a trovare un’identità e una cultura, cercando di inventare “radici” diverse se non opposte a quelle consegnategli dalla storia. E tra queste radici – nonostante che quel mondo sia stato cancellato - ci sono anche le ambiguità e le doppiezze che si manifestarono nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968.
gli anni Sessanta, ci provammo durante la primavera di Praga e poi nel 1981, ma ci fermammo sempre sull’orlo del distacco». Sono parole dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano pronunciate nel dicembre del 2003, (era europarlamentare Ds allora) in occasione di un dibattito tenutosi nella sala del Cenacolo di Montecitorio sul rapporto tra Pci e Pcus. Sono parole che tornano a farsi sentire oggi in occasione del quarantesimo anniversario dell’invasione di Praga e delle polemiche interne alla sinistra. In un’intervista al Corriere della Sera di martedì, Armando Cossutta smentiva Massimo D’Alema sull’atteggiamento che la nuova direzione del Pci assunse nei confronti dell’Urss: «Non è vero che dopo Praga divennero antisovietici. Ci fu freddezza, non rottura». Ranieri lei è un esponente del Pd di area liberal e riformista. Quale è la sua posizione, la sua memoria su quel storico passaggio drammatico? ll Pci guardò con favore a quanto stava succedendo nella capitale cecoslovacca e sostenne il nuovo corso praghese. Il partito ritenne addirittura che la primavera di Dubcek fosse la prova della riformabilità del socialismo reale e quindi scommise sul suo successo. Il Pci era convinto che all’interno del mondo del socialismo reale potesse aprirsi una via il socialismo dal volto umano. È evidente che le cose stavano diversamente, perché quei regimi non erano riformabili. Erano regimi dispotici la cui messa in discussione significava aprirsi all’idea di democrazia, libertà, mercato. Un’opzione nemmeno contemplata dai sovietici. Il Pci disse una bugia a se stesso. Non direi questo, no. La cultura politica del Pci riteneva effettivamente possibile che quei regimi si riformassero. Del resto il Pci era portatore dell’idea che il socialismo si sarebbe dovuto costruire senza mettere in discussione la democrazia politica, il pluralismo. Il contrasto con Mosca, che si era venuto evidenziando dopo l’ottavo congresso del Pci, consisteva appunto in questa diversità profonda di vedute. Certo fu un illusione pensare di riformare l’Urss e è chiaro che già subito dopo l’invasione di Praga sarebbe stato necessario compiere una svolta radicale. Ma come si dice...del senno di poi son piene le fosse. Il manifesto rivendica a sè questa intuizione: rompere con l’Urss. Luciana Castellina e Valentino Parlato lo rinfacciano ancora al Pci che li espulse. Si il manifesto così come altri gruppi dell’estrema sinistra italiana presero le distanze dal mo-
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ca la natura del regime moscovita, è vero. E tuttavia la soluzione che individuarono all’Urss era ancora più a sinistra. Guardarono all’esperienza maoista, a quella guevarista consegnandosi a suggestioni esotiche che certo non erano la soluzione all’impasse posta dall’Urss. Invece di tornare a discutere sulle radici del socialismo democratico – chè quella era la soluzione – loro andarono da un’alta parte. Il movimento del Sessantotto snobbò la primavera di Praga. Perchè? La sinistra estrema, ma anche componenti legate al manifesto, guardarono sempre con la puzza sotto il naso alla primavera di Dubcek. Per lo stesso motivo di cui parlavo prima: nella sua ottusa chiusura una parte del movimento studentesco criticava l’Urss non in quanto realtà totalitaria ma perchè sosteneva che l’Urss non era più un’entità rivoluzionaria. Presero così anche loro ad inseguire il mito del Che, di Mao, a conferma che il ’68 culturalmente fu debole e inconsistente. E che il vero 68 è quello dell’altra Europa, il tentativo di Praga e Varsavia di trovare un’altra via al socialismo reale. Eppure anche a fronte dell’invasione di Praga il Pci non ruppe mai con Mosca, non disse mai che il socialismo reale in Russia e nei Paesi satelliti era fallito. L’ho detto prima, la via ideale sarebbe stata questa. Ma adesso parlarne è facile. Il gruppo dirigente che si trovò a dovere affrontare quella situazione assolse tutto sommato a un compito importante e positivo: capì che il futuro del Pci era legato allo sviluppo di una propria originalità, pose le basi per un socialismo non disgiunto dalla democrazia, giunse fino a una soglia che è vero non riuscì a oltrepassare. Non attraversò il Rubicone perchè non era in condizione di farlo culturalmente. Ma non lo fecero nemmeno i più giovani. Il Rubicone lo abbiamo attraversato dopo il novembre dell’89 dopo la caduta del muro di Berlino. Cossutta dice infatti che anche la generazione di D’Alema non divenne antisovietica dopo Praga. Sono polemiche queste in cui a me non piace entrare. Ognuno ha il suo percorso e la sua memoria. Però vorrei dire che Cossutta – ai tempi di Praga autorevole esponente del Pci – si è caratterizzato per una sensibilità del tutto contraddittoria con una prospettiva di evoluzione socialdemocratica del Pci. Non a caso scelse Rifondazione comunista mentre noi abbiamo fatto il Pds.
Il manifesto e il Movimento ruppero con l’Urss è vero. Ma per andare ancora più a sinistra
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opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Gli 007 inglesi aprono ai gay. Cosa ne pensate? NOTIZIE (TOTALMENTE INUTILI) DI MEZZA ESTATE Ecco una notizia di cui, francamente, non si sentiva il bisogno. Siamo alle solite: prima e dopo Ferragosto i giornali si riempiono di notizie totalmente inutili, stampate per riempire gli “spazi bianchi” che campeggiano intorno alle pubblicità.Tutti si lamentano delle scarse vendite di giornali, ma pochi si interrogano sui motivi che portano l’Italia ad essere il fanalino di coda europeo nella distribuzione dei quotidiani. La mia sensazione è che chi si lamenta dello strapotere della televisione nella raccolta pubblicitaria non spenda molto del suo tempo a leggere i giornali italiani. Una volta fare il giornalista era considerato un mestiere d’elite. Adesso ho l’impressione che a questa professione approdino soltanto quelli che hanno fallito in qualche altro mestiere, tanto è il grado di approssimazione e di sciatteria che si riscontra negli articoli che, al giorno d’oggi, qualcuno ha anche il coraggio di stampare in milioni di copie. Poveri alberi...
I TEMPI PASSANO, MA IO PREFERIVO JAMES BOND... Quando ero giovane, gli uomini dei servizi segreti britannici venivano reclutati nelle prestigiose
LA DOMANDA DI DOMANI
Atleti azzurri contro i giudici delle Olimpiadi. Da che parte state? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
università i di Oxford e Cambridge. Come ho letto in un articolo del Corriere della Sera, «bastava accettare un invito a prendere un drink con il professore di storia, trovare le parole giuste per rispondere a qualche domanda ambigua, dare prova, senza essere troppo espliciti, di un certo interessamento. Chi voleva capire capiva, si presentava alle prove di selezione, imboccava la via di una vita pericolosa e clandestina da celare a famiglia ed amici. Oggi Mi5 e Mi6 sono dotati di siti web con tanto di test attitudinali fai-da-te, cercano personale con vistose campagne pubblicitarie e applicano la legge contro la discriminazione. Ben vengano le donne, quindi, le minoranze etniche, i disabili e, ora, i gay». Ora, parliamoci chiaro, io non ho nulla contro gli omosessuali - “scoperti” e non - ma sinceramente preferivo i tempi in cui lo “stereotipo” dell’agente segreto era incarnato da James Bond (meglio Sean Connery di Roger Moore; insignificanti tutti gli altri...), piuttosto che da Platinette o Luxuria. Il direttore degli 007 inglesi - tale Ben Summerskill - si dichiara ottimista. «Credo che tra 10-15 anni dice - il profilo dei reclutamenti assomiglierà molto alla Gran Bretagna moderna. Non escludo che ci possa presto essere un direttore generale dell’Mi5 gay, o una direttrice lesbica». Ma, fatemi capire, il problema è che nella civilità “moderna” gli omosessuali possono finalmente smetterla di nascondersi o che il numero degli omosessuali è in aumento esponenziale? Perché, nel primo caso non ci vedo niente di male. Anzi... Mentre nel secondo caso ci sarebbe di che interrogarsi sul futuro dell’umanità (essere gay sarà pure “divertente”, ma i figli li mettono al mondo uomini e donne). Riguardo al caso specifico degli agenti segreti, poi, sarò anche “fuorviato”dalla caratterizzazione, spesso macchiettistica, che televisione e cinema fanno degli omosessuali, ma sinceramente mi sentirei più a mio agio se i segreti di una nazione fossero riposti nelle mani di persone, come dire, normali.
IL RUOLO FONDAMENTANTALE DELLA SCUOLA E DELLA FAMIGLIA Siamo abituati alle cronache che, spesso, a ragione, ci rappresentano le grandi difficoltà che attraversa la scuola italiana. E non nascondo il sentimento di forte inquietitudine che mi assale anche in quanto padre di una bambina di sei anni e di un bambino di tre. La crisi della famiglia e quella della scuola, dei luoghi di elezione della formazione dei nostri ragazzi e, quindi, delle future generazioni, non può lasciarci indifferenti. La scuola, come è stato ricordato proprio nelle pagine del quotidiano liberal, è un settore strategico, un comparto chiave del sistema, in quanto l’embrione di ogni futuro sviluppo del Paese. Spesso laceranti sono state le diatribe tra scuola di “Stato” e scuola “non di Stato”. Oggi legislativamente parliamo di scuole pubbliche statali e scuole pubbliche non statali. Se le definizioni non sono ossimori il ponte che unisce le scuole è la capacità di formazione; il solco che le deve dividerle è l’incapacità di
ARMISTIZIO Fucili ed elmetti del Battaglione della Guardia Presidenziale appoggiati sulla piazza a Bogotà prima della cerimonia militare di venerdì 15 agosto
PER L’UNITÀ TUTTO QUELLO CHE FA IL GOVERNO È SBAGLIATO
L’ESERCITO IN CITTÀ SOLO PROPAGANDA
Leggere la prima pagina dell’Unità, in internet, è illuminante! Paragonare a un bollettino di guerra le notizie riportate è volerne sminuire la tragicità delle intenzioni. Le uniche note diverse sono gli articoli sulle Olimpiadi. È mai possibile che tutto ciò che non appartiene alla sinistra, al loro programma, alle loro leggi pensate ed approvate con gran fatica, nella passata legislatura, ripeto tutto faccia schifo, sia sbagliato, dannoso, ecc. Datevi una calmata, in fondo le poche cose giuste fatte da voi ed in cui ” sguazzate”, vedi democrazia, appartengono ad idee che non vi riguardano. Non si chiede molto, almeno un grazie per non essere finiti nei sistemi dell’Est.
Utilizzare i militari per la sicurezza nelle città sembra più una misura propagandistica che altro. I luoghi tenuti sotto controllo dall’Esercito, in questo periodo, sono stati popolati più da giornalisti e troupe televisive che da cittadini. Nelle città vuote è chiaramente più facile tenere tutto sotto controllo e dare l’impressione che lo Stato sia presente al fianco dei cittadini. Bisognerà vedere che cosa succederà al rientro dei milioni di vacanzieri italiani, quando le stazioni delle metropolitane saranno frequentate da migliaia di persone e le città riprenderanno i ritmi frenetici di sempre. Allora si potranno fare dei bilanci veri sull’utilizzo dei militari.
L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Teramo)
dai circoli liberal Lettera firmata - Milano
funzionamento. In breve: bisognerebbe favorire le scuole che funzionano bene e far chiudere quelle che non funzionano; consentendo a tutte le famiglie di esercitare la facoltà di libera scelta della scuola dove iscrivere i propri figli. Il principio discriminante dovrebbe essere, esclusivamente, il merito, la capacità e la serietà. Sono d’altronde i valori che le famiglie e la scuola dovrebbero trasmettere ai figli-studenti che, forgiati da questi valori, potrebbero contagiare una società ripiegata in se stessa, che ha perso i punti veri di riferimento, che è succube o, peggio, in attesa di lotterie e “colpi di fortuna” per esercitare un ipotetico riscatto. Una società lacerata da forti tensioni sociali, prepotente e assetata sempre più di diritti, spesso negati, che ha dimenticato i doveri ed il rispetto verso l’Autorità. Ma, come è noto, il rispetto dell’Autorità comporta il necessario riconoscimento dell’autorevolezza. Per avere autorevolezza non c’è bisogno di grandi alchimie. I bambini non amano lunghi discor-
Antonio Pinocci Napoli
si, sono semplici, puri. E’ necessario solo l’esempio dei buoni maestri, un pizzico di coerenza. Insomma, fare ciò che si dice loro di fare secondo la ben nota condizione di reciprocità. I bambini ci osservano ed imitano. Sono lo specchio dei nostri comportamenti e quanto più saremo negligenti, incapaci di trasmettere valori, tanto più le future generazioni saranno lo specchio delle nostre odierne miserie. Ignazio Lagrotta COORDINATORE CIRCOLI LIBERAL REGIONE PUGLIA
APPUNTAMENTI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Fa’ il possibile per volermi bene Mio Bebè, mio piccolo caro Bebè, senza sapere quando ti consegnerò questa lettera, ti sto scrivendo in casa, oggi, domenica, dopo aver finito di sistemare le mie cose per il trasloco di domani. Ho di nuovo il mal di gola, piove, sono lontano da te: e questo è quanto ho per consolarmi oggi, con la prospettiva della grande seccatura del trasloco, forse sotto la pioggia e in questo stato di salute, in una casa dove non c’è anima viva. Non puoi immaginare la nostalgia di te che provo in questa circostanza di malattia, di abbattimento e di tristezza. Conto di vederti domani all’ora indicata – alle 8 di sera o dopo. Vedrò però se mi sarà possibile trovarti a mezzogiorno (anche se mi pare difficile), perché alle 8 chi si sente come mi sento io dovrebbe essere a letto. Ciao, amore. Fa’ il possibile per volermi bene, per sentire le mie sofferenze, per desiderare la mia salute: o almeno, cerca di fingerlo. Molti, molti baci dal tuo, sempre tuo, ma molto abbandonato e desolato Fernando. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz
non lo sono, propone ”sotto voce” la svolta. Ma che cosa porteremmo in dote ai nostri nuovi”compagni”? Finiremmo di perdere la nostra base storica e rimarrebbe solo la componente di estrazione Margherita! Per il Pd operazione a scarso guadagno e per l’Udc la scomparsa. Solo pochi vantaggi a tempo per qualche acrobata senza rete in cerca di nuovi gruppi di potere. Un polo di Centro sarà la nostra forza vincente se saremo capaci di proporre per l’Italia una moderna idea cristianoliberale con prospettiva Ppe. Per una operazione a valenza ”paese”ci si può astenere dalla ricerca di un potere da poco e per pochi. La sala di Todi, la nostra base, l’ha espresso chiaramente con il consenso verso chi auspicava un vero terzo polo. Perdere don Sturzo per guadagnare la Binetti con Famiglia Cristiana? Il suicidio è ”anche peccato”.
Dino Mazzoleni Gualdo Tadino (Pg)
FUOCHI D’ARTIFICIO ALLA FACCIA DELLA MISERIA Sabato sera 16 agosto 2008 – a Padova, Prato della Valle – sono stati “bruciati” la bellezza di oltre 20 quintali di botti, per uno spettacolo pirotecnico durato mezz’ora. Ciò risulta frenesia consumistica effimera, fugace, ripetitiva, spaccatimpani e inflazionata. Quanto dispendio di denaro tolto dalle tasche dei cittadini, in barba a: miseria, scarsità di risorse, fame nel mondo, crisi economica, periferie degradate e indigenti che ”non arrivano a fine mese”! Miseria e fame nel mondo che pingui partitocrati, assistenzialisti, proselitisti e “progressisti” ci ricordano continuamente con le loro lagne e nenie interessate.
Gianfranco Nìbale
L’UDC DOVREBBE EVITARE UN SUICIDIO Una riflessione per chi ha tentazioni veltroniane: durante la campagna elettorale si è toccato con mano, con i voti poi, che ci stavamo svenando su Berlusconi e recuperavamo un pò su Veltroni.Bilancio in perdita per chi è portatore di un pensiero liberale. Ora qualche ex berlusconiano,io
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
20 agosto 479 A.C. - La battaglia di Platea pone fine all’invasione persiana della Grecia, Mardonio viene messo in fuga da Pausania, il comandante spartano dell’esercito greco; 1828 - Prima assoluta de Le Comte Ory di Gioachino Rossini all’Opéra di Parigi 1882 - Debutto dell’Ouverture 1812 di Caikovskij a Mosca 1920 - La prima stazione ra8MK dio commerciale, (WWJ), inizia l’attività a Detroit (Michigan) 1940 - Il rivoluzionario russo in esilio Leon Trotsky, viene ferito a Città del Messico. Morirà il giorno dopo 1975 - La Nasa lancia la sonda planetaria Viking 1 in direzione di Marte 1982 - Una forza multinazionale sbarca a Beirut per supervisionare il ritiro dell’Olp dal Libano 1991 - l’Estonia dichiara l’indipendenza dall’Unione Sovietica 1901 - Nasce il poeta Salvatore Quasimodo († 1968)
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
I TERRORISTI VESTITI DA RELIGIOSI Ho appreso con soddisfazione l’arresto dell’imam di Varese accusato di terrorismo. E non perché sono un integralista cattolico, intollerante delle altre religioni. Ma perché è inconcepibile che si usi la fede come pretesto per organizzare attentati.
Remo Levetti - Rimini
PUNTURE Carla Bruni in campo per gli orsi dei Pirenei. Attenta al lupo.
Giancristiano Desiderio
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Le donne che si ravvedono delle loro follie si pentono del loro amore. BALZAC
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LA ZAMPATA RUSSA COGLIE L’OCCIDENTE IN LETARGO Sconfitta che sfiora l’umiliazione per la Nato e gli Stati Uniti, mentre l’Europa ha ancora una volta dimostrato al suo vicino gigante russo di non esistere, di non saper nemmeno alzare la voce in difesa di suoi evidenti interessi. Vedremo se, come promesso, i russi cominceranno oggi a ritirarsi dalla Georgia. Ieri il ministro della Difesa rendeva noto che la questione doveva essere ancora valutata e la decisione sarebbe stata presa solo «quando la situazione nella regione si sarà stabilizzata». Ma il presidente Medvedev, nel corso di un colloquio telefonico con Sarkozy, presidente di turno della Ue, aveva assicurato che il ritiro sarebbe iniziato oggi a mezzogiorno. Sarkozy non poteva far altro che prenderne atto chiarendo che in caso contrario la Russia sarebbe andata incontro a «gravi conseguenze». Per oltre una settimana i russi hanno fatto il bello e il cattivo tempo in Georgia, prendendosi gioco del piano Ue fatto sottoscrivere dal presidente Sarkozy ad entrambe le parti. Truppe e blindati russi sono rimasti posizionati ben oltre i tempi previsti dall’accordo a circa 45 chilometri da Tbilisi e nella città di Gori, tagliando in due il Paese e impedendo l’accesso ai porti del Mar Nero. Ha quindi ragione Angelo Panebianco a parlare di Europa «irrisa e sbeffeggiata», «complice, più o meno riluttante», del «disegno russo». Ciò che i russi chiamano «misure aggiuntive di sicurezza» non è che la distruzione delle strutture militari georgiane, e qualche volta delle infrastrutture civili, così
da rendere la Georgia ancor più indifesa e soggetta alla prepotenza russa. E oggi leggendo il New York Times si apprende che i russi, un giorno prima che il presidente Medvedev firmasse l’accordo di tregua proposto da Sarkozy, di fatto carta straccia, hanno schierato in Ossezia del Sud basi di lancio per missili a corto raggio SS-21, in grado di raggiungere la maggior parte del territorio georgiano, compresa la capitale Tbilisi. Ciò che gli europei hanno definito «mediazione» e ruolo dell’Europa è in realtà una presa di distanze dagli Stati Uniti che ha indebolito la risposta dell’Occidente, confermando ai russi di poter sfruttare le divisioni occidentali. Inoltre, come osserva oggi Panebianco, l’Unione europea ha dimostrato di ignorare i fondati motivi di preoccupazione per la loro sicurezza dei suoi membri dell’Est. Si dice che «non possiamo isolare la Russia». Una ovvietà. «Ci serve il suo gas, ci serve il suo appoggio nella crisi iraniana, ci serve che essa svolga un ruolo internazionale di cooperazione. Ma non possiamo permettere che essa usi il bastone e la carota con noi senza fare la stessa cosa nei suoi confronti». Tener conto sì delle ”ragioni” della Russia, «ma non al punto di andare contro i nostri interessi vitali». Dagli Stati Uniti invece sono giunti severi moniti nei confronti di Mosca ma a Washington i tempi di reazione sono apparsi comunque troppo lenti e timidi. E, soprattutto, l’amministrazione Bush si è fatta cogliere di sorpresa e nei mesi e anni scorsi ha sottovalutato i piani di Mosca.
Jim Momo jimmomo.blogspot.com
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PAGINAVENTIQUATTRO Istantanee da Pechino. La Fifa polemizza per la poca considerazione ricevuta dal Comitato olimpico
Alle Olimpiadi il Cio batte il nemico di Bruno Cortona
PECHINO. Il torneo di calcio alle Olimpiadi è arrivato alla fine, ma forse alla fine è arrivato anche il rapporto tra il Cio, il Comitato olimpico internazionale e la Fifa, l’organismo che gestisce il pallone in tutto il mondo. C’è un nervosismo strisciante tra le due superpotenze dello sport globale. La prima, il Cio, vive in queste settimane i giorni della propria gloria. E dei propri affari. Un mare di soldi che si muovo sotto l’ombra dei cinque cerchi. Il calcio, col suo business planetario, è visto come un nemico. E come tale viene trattato. Alla vigilia della semifinale di ieri, quella tra Brasile e Argentina, nessuna delle due delegazioni sapeva dove si sarebbe dovuta allenare a Pechino. Un «buco» organizzativo degno dell’ultimo torneo giovanile parrocchiale. La cosa, ovviamente, rende molto nervoso Seep Blatter, ex militare svizzero, capo di una delle holding più potenti e famose del pianeta. Il belga Rogge, che vive la sua gloria grazie all’atletica leggera e al nuoto soprattutto, non fa nulla per incrementare l’importanza del calcio ai Giochi.
CALCIO in Cina. Ma perso nella forma, visto che il tribunale d’appello sportivo, il Tas, ha dato ragione al Barcellona. Uno smacco importante, a livello politico. Insomma, Blatter s’era esposto per fare un favore a Rogge. Ma s’è ritrovato una porta in faccia. Una volta qui a Pechino la Fifa ha scoperto di aver ricevuto in assegnazione un ufficio degno di
Cio. No, non stiamo parlando solo di simpatie personali. Ma di soldi, sponsor, diritti televisivi. Miliardi di euro per il prossimi decenni. Roba da far perdere la testa a molti. Nel caldo di Pechino Blatter ha sibilato ai suoi: «Il calcio vive senza i Giochi, i Giochi hanno bisogno del calcio». Una battuta con una verità: gli stadi più pieni? Quelli del calcio; i biglietti più venduti? Quelli del calcio; l’indotto più conveniente? Quello del calcio? Che ha permesso alle altre sedi dei Giochi – Shangai, Qinhuangdao, Shenyang e Tianjin – di avere soldi, turismo – poco, ma quello dei giornalisti, dei dirigenti, dei giocatori si – attenzione mediatica. Perché oltre al calcio solo la vela a Qingdao e l’equitazione a Hong Kong hanno «giocato» lontano da Pechino.
Blatter, per fare un favore a Rogge, s’era messo contro i grandi club europei obbligandoli a mandare i giocatori under 23. Ma dopo il trattamento ricevuto sicuramente medita una vendetta
Una guerra di posizione. Che alla vigilia di questa Olimpiade aveva vissuto una tregua importante: Blatter, in nome e per conto dei Giochi, s’era scagliato contro l’interesse dei grandi club europei, primo tra tutti il Barcellona, obbligando gli stessi a fornire i giocatori under 23 per questa manifestazione. Un braccio di ferro vinto nella sostanza da Blatter: Leo Messi, il giocatore più forte del mondo in forza al Barcellona, ha giocato
una squadra provinciale; gli accompagnatori delle nazionali non sapevano dove far allenare il Brasile, l’Italia, l’Argentina; i disservizi si sono ripercossi con effetto domino, sugli orari delle conferenze stampa, degli allenamenti, di quel meccanismo oliato e perfetto che invece appartiene a tutte le altre discipline qui a Pechino.
Chi conosce bene il potente e permalosissimo Blatter, sa che questo agosto a Pechino segnerà un confine netto nei rapporti col
E la loro copertura in termini di pubblico e di dirette televisive in tutto il mondo non è stata minimamente paragonabile. Dunque, il calcio dalle uova d’oro, trattato come il Badminton (il volano, ricordate?), non ci sta. Magari qualcuno – gli sponsor soprattutto – faranno fare pace ai due boss dello sport mondiale. Ma per ora la crisi di rapporti ( e non solo) c’è e si vede.
notiziario azzurro Romero, bronzo nella vela Prima medaglia per la vela italiana: è un bronzo e lo conquista Diego Romero, al termine di una regata emozionante, caratterizzata da vento debole e instabile. Romero parte per la Medal race in quinta posizione a tre punti dal podio, con la lotta per l’oro ristretta all’inglese Goodison e lo svedese Myrgreen, che però è staccato dal leader britannico di ben 18 punti. Per perdere l’oro doveva arrivare ultimo, con la vittoria svedese. Appena sceso a terra l’oriundo italiano dichiara: «Per Londra 2012 sarà medaglia d’oro, ve lo prometto». Perde una posizione Alessandra Sensini nell’ultima regata delle tavole a vela: chiude la 10a prova in ottava posizione, mentre la cinese Jin conquista il primo posto e torna in vetta alla graduatoria. Domani la medal race.
Finisce il sogno olimpico della pallavolo femminile
Delusione Cassina, fuori dal podio
Ad Atene fu Cuba a liquidare i propositi azzurri questa volta sono stati gli Stati Uniti a frenare le ambizioni della nazionale italiana femminile di pallavolo. L’Italia come nella partita contro il Brasile fatica in attacco. La tattica Usa mette in difficoltà le azzurre che solo verso metà del set riescono - grazie alla difesa - a effettuare il break che regala il parziale alle italiane. Ma nel secondo set la squadra dell’idolo di casa, Jenny Lang Ping, oro ai Giochi del 1984 con la maglia della Cina, riesce a vincere 25-21. Altra Italia nella terza frazione: le azzurre sono molto più aggressive in battuta e il set finisce 25-19 per le azzurre. Italia ancora irriconoscibile Italia nel quarto set: parte sotto 0-8, completamente nel pallone, con una ricezione inesistente. Finisce 24-18 per gli Usa. L’incubo si compie nel quinto set, quello che assegna la semifinale: gli Stati Uniti partono 5-0, l’Italia è paralizzata. Il ct Barbolini cambia a raffica, ma il quarto di finale è ormai perso.
«Sono io il responsabile del mio quarto posto, oggi ho dato l’80 per cento, se avessi dato il 100 per cento sarei stato sul podio». Igor Cassina accoglie così il delundente quarto posto alla sbarra. Ad Atene, un movimento che porta il suo nome gli aveva regalato l’oro, ma a Pechino Cassina, che era approdato alla finale con il secondo punteggio, ha sbagliato la parte più “facile” del suo esercizio, dopo aver eseguito con sicurezza i salti iniziali più difficili, compreso quello da lui inventato. L’oro è andato al cinese Zou Kai, che ha beffato lo statunitense Jonathan Horton, apparso invece più brillante ed esplosivo. Solo bronzo per il grande favorito, il campione del mondo Hambuechen, che pure era entrato negli otto della finale con il punteggio di partenza più più alto di tutti i concorrenti.