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ISSN 1827-8817 80905

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Isolato sul voto agli immigrati: adesso è un presidente dimezzato

di e h c a n cro

Fini, chi è costui? Ora Berlusconi e La Russa “scaricano” Gianfranco

di Ferdinando Adornato

IL PARCHEGGIO DEL PINCIO Infuriano le polemiche sull’ecomostro progettato nel centro di Roma, ma Alemanno non si pronuncia. Vuole dar seguito al progetto di Veltroni o no? È ora di rompere il silenzio

Sindaco, perché taci? Una lettera aperta di Carlo Ripa di Meana al primo cittadino della Capitale

di Franco Insardà stato il leader incontrastato di Alleanza nazionale per oltre un decennio e ieri ha ricevuto un trattamento da dirigente qualunque. Gianfranco Fini ora è al centro di violente polemiche dopo la sua apertura alla proposta del leader del Pd, Walter Veltroni, sul voto agli immigrati. Prima Silvio Berlusconi, poi il reggente di Alleanza nazionale, Ignazio La Russa, hanno precisato la posizione del governo e del partito di Fini. «Il riconoscimento del diritto di voto agli immigrati non è nel nostro programma - ha detto il premier -, il presidente Fini ha espresso un suo parere». E La Russa ha sottolineato: «Non è in questo momento una priorità per Alleanza nazionale», precisando che si tratta della «posizione comune di tutto il partito. La priorità è la lotta all’immigrazione clandestina. La posizione di Fini - ha spiegato La Russa - è la posizione del presidente della Camera». Le parole di Fini avevano subito fatto entrare in allarme la Lega dalla quale era arrivato un secco: «Non se ne parla neppure». Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha frenato in maniera netta: «La Lega conferma la contrarietà netta al voto agli immigrati. Non credo che questa iniziativa andrà avanti. Non è nel programma di governo».

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se gu e a p ag in a 2 3

alle pagine 2 e 3 Rush finale con i sindacati

Contro il martirio dei cristiani

Alitalia di fronte allo scoglio esuberi

D’Alema aderisce alla fiaccolata del 10 settembre

di Vincenzo Bacarani

di Francesco Capozza

di Errico Novi

di FIlippo Maria Battaglia

Rush finale per Alitalia. Ieri i sindacati hanno incontrato il ministro Sacconi per discutere il piano della Nuova Compagnia Aerea. «Siamo pronti a dire di no», dice Epifani.

L’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha aderito alla fiaccolata contro il martirio dei cristiani in India organizzata da liberal e dall’Udc per il prossmo 10 settembre a Montecitorio.

La grande partita di Mediobanca si avvia alla fine: sembra in vista un accordo fra Geronzi e Alessandro Profumo per la gestione dell’istituto. Piazzetta Cuccia si sbilancia e entra nell’area di governo?

Lo storico Piero Melograni risponde al ministro Sandro Bondi che, provocatoriamente, aveva invitato la scuola a riscoprire Gramsci. «Quel che interessa ancora è la sua esperienza umana».

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VENERDÌ 5 SETTEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

Melograni risponde a Bondi

Accordo in vista per i grandi della finanza

Il metodo Geronzi e il risiko di Mediobanca

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

169 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Tornare a Gramsci va bene, ma vediamo quale

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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prima pagina

Il parcheggio del Pincio. Una lettera aperta al sindaco di Roma e una risposta a Walter Veltroni

Caro Alemanno, ferma quest’orrore di Carlo Ripa di Meana aro sindaco, pur sapendo che in questi giorni lei si trova in Terra Santa, mi domando – utilizzando questa volta la disponibilità di un interessante quotidiano politico e problematico - perché tardare ancora con la sola decisione necessaria e ragionevole a proposito del parcheggio sul Pincio. Ho la piena intenzione di rispettare la sua missione, senza pretendere risposte alle domande che le rivolgo. Ma queste, se lo vorrà, potranno giungere al suo rientro. Quella su cui si dibatte in questi giorni, come lei saprà, è al momento semplicemente un’ipotesi di lavoro - non è certo un progetto, quel testo colabrodo e incompleto, privo di riscontri, verifiche e completezza di istruttoria - che è stata pomposamente spacciata per progetto ormai esecutivo.

C

loppatoio per i residenti del Tridente.

Diventa, a mio avviso, abbastanza bizzarro che tutto questo non venga formalmente espresso nel momento in cui l’autore politico della proposta parking del Pincio Walter Veltroni - dalle colonne del Corriere della Sera irrora i lettori con una idilliaca descrizione delle mirabilie dei suoi sette anni di guida della città nel contenere e ridurre il traffico e celebrando le opere del suo governo al riguardo. Naturalmente,Veltroni – che è, quando

si abbandona alla riflessione, uno dei più insistenti cultori della necessità della memoria – non si ricorda degli ultimi dati presentati dall’Eurostat (l’Ufficio statistico dell’Unione europea) che, nelle sue recentissime pubblicazioni dedicate alle maggiori città d’Europa, mette Roma al primo posto per perdite di vite umane nel traffico della città. La nostra città è al primo posto anche nella gara per chi si aggiudica i tristi primati di morti e feriti sulle strade, di inquinamento, di ingorghi e mobilità urbana. Quella stes-

all’orizzonte non c’è un nuovo progetto: esiste invece un parcheggio da alcune decine di anni, quello del Gianicolo, vicinissimo e con disponibilità doppie rispetto a quelle previste per l’assurda ipotesi del parking del Pincio. Quello del Gianicolo è collegabile – oltre che in modo pieno e decoroso a piazza di Spagna – alla vicinissima piazza del Popolo. Il parcheggio del Pincio, secondo le ipotesi di Chicco Testa e Veltroni, è irrealizzabile: presenta profili di grave irregolarità amministrativa e non è necessario. Ma non esiste un progetto bis. Al contrario, è pronto un ampliamento del vicinissimo e capiente garage del Ga-

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Analizzando il racconto pubblicato ieri dal Corriere, Veltroni risulta completamente disinformato sulla realtà relativa alla vita vera di questa città. Un esempio lampante di questa disinformazione viene dalle cosiddette zone pedonalizzate, il più delle volte pedonalizzate senza alcun risultato e attraversate giorno e notte da auto, moto e scooter.

Non sembra aver passato neppure mezz’ora in quella che, con un certo gusto del paradosso horror, descrive come «l’area del Pincio e di Villa Borghese, che è stata ed è sacra». Evidentemente non ha il tempo per accertarsi di persona delle condizioni di disgustoso degrado in cui si trova «l’area sacra» di cui parla nel suo articolo e di cui lui stesso ha avuto, fino a pochi mesi fa, la responsabilità diretta come sindaco. O forse non ha mai visto i sedili in pietra rubati – o le basi senza piano di appoggio, i sedili di travertino trafugati senza pianale e le basi smozzicate – le erme rovesciate, i busti decapitati o sfregiati, le fontane asciutte, i prati ridotti a stoppie. E che dire dell’orologio ad acqua nel Viale dei bambini, appena restaurato e fermato subito dopo perchè incompatibile con i lavori del cantiere (con relativo cartello che annuncia la sua ripresa di attività solo a fine opera..). Insomma: sporcizia, degrado e incuria in ogni punto dell’area. Qualcosa di spaventoso, di cui il sindaco uscente non dovrebbe parlare come luogo sacro: per questo e per il suo progetto irresponsabile di sventrare il Pincio per affittare posti auto a caro prezzo e far tornare i soldi nelle casse del Comune, come dice sul Corriere. Dovrebbe

Roma è al primo posto nelle capitali europee per incidenti stradali e ingorghi. Veltroni parla dell’area del Pincio e di Villa Borghese come di un luogo magnifico, dimostrando di non averci mai passato del tempo. Il parcheggio del Pincio maschera soltanto una speculazione edilizia: il sindaco non deve aver paura di fermarlo

Non c’è mai stato un progetto e

rima che il Pincio fosse il Pincio, attorno alla fine dell’anno Mille, era un delizioso giardino. E si favoleggiava che alle sue pendici volteggiassero lamentosi uccelli neri che invocavano la resurrezione di Nerone. Eppure, trascorsi altri mille anni e seppellita fino a prova contraria la dinastia giulio-claudia, i luttuosi presagi che attorniavano la collina sembrano tornati ad aleggiare. Tutto inizia nel luglio del 2004, quando la giunta comunale dell’allora sindaco Walter Veltroni annuncia la costruzione di un parking auto da 726 posti nel cuore del Pincio. Che non sia una metafora cardiaca, è subito chiaro a tutti. L’operazione, gestita dalla Sta, agenzia per la

sa mobilità dove l’automobilista medio può utilizzare a malapena due volte in una giornata la sua vettura, visti i tempi di avanzata nel traffico stesso. Il più delle volte, queste due “corse”sono da casa a lavoro e viceversa.

La scheda. Le disavventure di un progetto nato male e cresciuto peggio

La lunga storia di un ecomostro di Francesco Lo Dico mobilità del Comune di Roma, prevede di ricavare i posti auto da sei piani interrati che dovranno essere scavati smottando la terra della collina. «È un passo fondamentale per la riconquista della parte più bella di Roma che sarà restituita ai suoi legittimi proprietari, i cittadini», annuncia il sindaco Walter Veltroni. E infatti è proprio così, perché la riconquista prevede che i box auto con vista sul Valadier, ospitino le vetture dei residenti del Centro e i possessori del permesso per la Zona a

traffico limitato. Per ciascun garage basta la modica cifra di 40mila euro. Prezzo onesto, considerati i 21 milioni di euro investiti dalla Sta nel progetto. «Sul fronte archeologico sono stati effettuati 15 carotaggi sotto il Pincio senza trovare alcun reperto archeologico – dichiara il presidente della Sta, Chicco Testa –. Siamo ottimisti anche perché si sta lavorando d’intesa con la Sovrintendenza». L’ottimismo, col senno di poi, era forse troppo. L’appalto infatti viene assegnato due anni

dopo. Se lo aggiudica ai primi di agosto di quest’anno, la Sac (Società appalti costruzioni del gruppo Cerasi) per 29 milioni di euro. Ma a complicare tutto ci si mette una villa romana, un pavimento in mosaico del I secolo d.C. e un criptoportico di età imperiale, che inopinatamente riemergono proprio nell’area destinata al maxi-parcheggio. Destino beffardo, quello di fare la storia di Roma in comproprietà con gli altri secoli che l’hanno scritta. Angelo Bottini, sovrintendente per i

Beni Archeologici di Roma, definisce la villa un tesoro che «va preservato e tutelato». Il suo non è un parere vincolante, ma Bottini tiene a precisare che «il parcheggio si faccia a condizione che vengano conservati integralmente i resti archeologici». Il resto è storia recente. Italia Nostra, che ha seguito la vicenda sin dagli esordi, denuncia alla Corte dei Conti e all’Autorità di vigilanza sui Lavori pubblici l’inutilità del parcheggio, alcune irregolarità progettuali e i grandi interessi che gravitano attorno a esso. L’ultima parola spetterà al sindaco Alemanno, ma sul Pincio, la sagoma di Lucio Domizio Enobarbo, in arte Nerone, torna a incombere minacciosa.


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Controcorrente. Visita guidata all’opera di Calatrava

E invece a Venezia c’è un ponte sul futuro di Angelo Crespi l ponte di Calatrava c’è, esiste nella sua tremenda gettatezza (direbbe Heiddeger) tra le due sponde del Canal Grande proprio di fronte a piazzale Roma, dove Venezia già si stacca dalla terra eppure non è ancora la Venezia degli splendidi palazzi storici. Il ponte c’è, e si chiamerà Ponte della Costituzione. Per adesso, però, resta interdetto al passaggio. Massimo Cacciari che della «gettatezza» filosofica è un esperto, ne è turbato. Forse, ha pensato il sindaco filosofo, denominarlo della «Costituzione» avrebbe, almeno dal punto di vista nominalistico, potuto acquietare i toni: costituito è costituito, la sua costituzione risulta dunque perfetta, almeno nel senso etimologico del verbo «perficere».

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Eppure ciò non è bastato. Né basta la chiara bellezza dell’opera che, nonostante i lai di molti critici, risulta piacevole e poco impattante nel paesaggio circostante. La splendida dorsale in acciaio rosso come lo scheletro arcuato di un antico animale e la struttura aerea in vetro, sebbene non propriamente arte allo stato puro, risultano essere frutto di un pensiero che va al di là di un semplice e pedissequo soggiacere alle funzioni di un ponte: cioè traghettare persone da una parte all’altra. Di più a Santiago Calatrava, paradossalmente conosciuto come «l’architetto del movimento», non si poteva chiedere. Il ponte d’altronde, per sua stessa natura, dovrebbe restare fermo. Per questo motivo quei sinistri scricchiolii che indussero la Corte dei Conti ad aprire un’inchiesta (poi chiusa) ancora non hanno smesso di minare il progetto durato 11 anni e costato quasi 20 milioni di euro, rispetto ai 4,7 previsti inizialmente. La cosa buffa è che il ponte scricchiola per davvero: lo scheletro d’acciaio, dicono gli esperti, è una struttura viva, si muove. Il problema semmai è che i margini di tolleranza sulle sponde sono appena di pochi centimetri, così che un sistema costosissimo di monitoraggio dovrà vegliare notte e giorno sulla resistenza dell’arco ribassato che scarica 1500 tonnellate di peso su ogni riva, altrimenti una mattina o l’altra ci ritroveremo in mare le pesanti travi. Adesso però, per mettere la parola fine, mancherebbe solo l’ovovia. Ed è inutile se uno si chiede cosa possa mai servire una ovovia in Laguna. Semplice, serve a rendere superabile quella barriera architettonica che un ponte quasi natural-

mente rappresenta. La buona notizia è che i portatori di handicap impiegheranno solo 17 minuti per attraversare quel breve tratto di Laguna, appena una cinquantina di metri. Pare, secondo i regolamenti e le più ferventi associazioni di volontariato, che il vaporino attrezzato un tempo per far la spola non fosse sufficiente ad eliminare quell’odiosa discriminazione. Il ponte di Calatrava come ormai lo chiamano i Veneziani, o della Costituzione come vorrebbe Cacciari, verrà dunque inaugurato il 18 settembre. Anzi no; la festa a cui avrebbe dovuto presenziare il presidente Giorgio Napolitano è stata rimandata. Costituzione o non Costituzione, il ponte verrà in quella data semplicemente reso transitabile. I tempi – spiega l’assessore veneziano ai Lavori pubblici, Mara Rumiz - non sono stati rispettati perché l’ «ascensore traslante», che è un prototipo, ha avuto bisogno del parere del ministero dei Trasporti. Le cose certo si sono complicate, costi che sono lievitati, cambi di giunte, polemiche varie, perfino gli «ascensori traslanti». Forse neppure una archistar come Calatrava se lo aspettava nel lontano 1997 quando decise di misurarsi con il 435esimo ponte della città. E pensare che il primo ponte edificato sul canal Grande, quello di Rialto, trovò sua definitiva sistemazione in pietra nel 1591, per opera di Antonio da Ponte quando si dice nomen omen - che ci mise appena tre anni per concludere il pur ardimentoso progetto. Ma erano altri tempi: gli architetti in auge si chiamavano Fra Giocondo, Michelangelo, Sansovino, Palladio.

È costato 20 milioni di Euro contro i 4,7 previsti; sono stati necessari 11 anni per costruirlo (8 più di Rialto) e scricchiola. Ma il risultato è bello

invece chiedere solo scusa pronunciando parole di pentimento per quello che non ha fatto e per quello che ha deciso, lasciando poi la patata bollente in mani altrui.

Tornando a lei, caro sindaco, non capisco perché non prenda una posizione in modo chiaro e definitivo. Sarà capito da tutta la città; non si preoccupi del terrorismo infondato sul danno erariale e sulle penali assassine; sappia che in città i romani hanno capito che le motivazioni addotte per ridurre il traffico e liberare il centro dalle auto sono speciose e coprono soltanto una speculazione immobiliare relativa ai posti auto. Questo è quanto. Ogni giorno che passa, la sua esitazione e il suo silenzio mi appaiono sbagliati e in fondo incomprensibili.Tutto ormai attende solo la sua pacata e ponderata conclusione.

In questi giorni, dopo due lustri di dibattiti architettonici, la questione è quindi diventata di natura politica. Cacciari ha detto, forse esagerando, che questa «è l’opera di architettura contemporanea italiana qualitativamente più importante degli ultimi decenni. E invece di approfittare dell’occasione per fare un’azione di marketing, alcuni settori di Venezia, particolarmente intelligenti, hanno fatto in modo che non si inaugurasse». Nella stessa intervista Cacciari ha declinato l’invito alla Festa del Pd di Firenze. Nel Pd e relativi dintorni sono sufficienti Luxuria e Mario Adinolfi per fare marketing territoriale: il primo all’Isola dei famosi, il secondo alla Talpa. Con buona pace dei filosofi impegnati con la gettatezza del nostro esserci.


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poteri

La battaglia per Mediobanca è alla fine: l’Istituto sembra avviato ad entrare nell’orbita del governo. Con spietato disincanto, un anonimo e navigato banchiere racconta il ritorno al passato

La Geronzocrazia Lo scenario

Che bella guerra, in palio c’è il declino di Franco Insardà ediobanca come il Titanic. La nave affonda e l’orchestra suona come se non stesse accadendo nulla. Il capitalismo italiano non c’è più e a Mediobanca si lotta per avere un ruolo predominante. Tra l’altro la stessa Mediobanca non ha più un ruolo. Non rappresenta più, com’era nelle intenzioni di Enrico Cuccia, la stanza di compensazione degli interessi del capitalismo italiano. Sul mercato internazionale non ha peso e in quello interno è comunque marginalizzata perché non è riuscita a diventare una banca commerciale. L’unico suo fiore all’occhiello è Generali, già controllata dai francesi e con un futuro transalpino ormai delineato. Antoine Bernheim,Vincent Bolloré e il franco-tunisino Tarak Ben Ammar sono il gruppo che comanda in Generali nel quale, tramite Mediobanca, sta cercando di inserirsi Cesare Geronzi. Così, dopo che gli spagnoli hanno conquistato Telecom e i francesi Generali, in Italia il capitalismo è praticamente dissolto. Le uniche eccezioni sono Eni, Enel e Finmeccanica dove, però, è forte la presenza dello Stato. In questo scenario quella tra Geronzi e Profumo, quindi, è una vera e propria guerra tra poveri a colpi di interviste e conferenze stampa. Cesare Geronzi vuole rafforzare il suo ruolo, mentre Alessandro Profumo sembra voglia incosciamente vendicarsi di qualcosa. Prima della fusione con Capitalia era considerato un re Mida, ma dopo il matrimonio con Geronzi il banchiere osannato dai santuari economici ha cominciato a essere meno considerato. Profumo ha accusato il colpo e ora alla prima occasione sembra quasi voler riconquistare una verginità perduta. Insomma i due si stanno facendo una lotta per qualcosa che non c’è più: il capitalismo italiano, a dispetto di quanti ancora sventolano bandiere di italianità. Il nostro capitalismo non è stato in grado di opporsi a nulla ed è stato spazzato via. Di fronte a un quadro di questo genere non c’è più niente da difendere. E soprattutto non c’è più in Italia qualcuno che ha la forza e la voglia di impegnarsi.

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di Errico Novi

ROMA. «La verità? È il solito capitalismo straccione all’italiana». Dal punto di vista di un banchiere, di quelli navigati, incapaci di usare le parole per mentire a se stessi, il panorama è questo. Desolato? Semplicemente, il solito panorama. Dominato nel caso specifico da un altro banchiere, Cesare Geronzi, che si è messo in testa un’idea meravigliosa: diventare il nuovo Cuccia. Ci riuscirà, magari, perché in Italia va forte la semplificazione. L’accomodamento che prevede l’elezione di un re e la rinuncia a qualsiasi inderogabile principio sancito solo un attimo prima.

La storia è semplice. Ruota intorno a un’ambizione, quella del presidente del cds di Mediobanca, e a una velleità, quella di Alessandro Profumo. L’amministratore delegato di Unicredit pretende una cosa semplice, banale: che il tradimento della governance duale non avvenga con modi inurbani. Otterrà il risultato, come raccontiamo in un altro servizio di questa pagina, ma sarà una magra consolazione per chi aveva creduto in un sistema finanziario più maturo. «Certo, è in gioco una questione di potere effettiva, riconoscibile. Geronzi si è reso conto che l’assetto duale è limitante, per lui. E ha intrapreso la strada del ritorno al passato per avere un controllo più diretto, soprattutto sulle partecipazioni azionarie. E in

particolare su Generali. Il fatto è che in Italia una cosa del genere è consentita, è considerata normale», fa notare il nostro osservatore privilegiato. Il punto è che tutto avviene nel solito contesto di coperture reciproche, di oligarchia feudale. «In altri Paesi come la Germania c’è un rapporto di potere persino sbilanciato, con la rappresentanza sindacale ben presente nella governance. Da noi il duale è stato introdotto da poco e si vuole già tornare indietro, perché non consente quella semplificazione del potere che ben asseconda i peggiori vizi del sistema».

Geronzi padrone di tutto? A questo punto, con l’accordo ormai definito tra il presidente del consiglio di sorveglianza e l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, la poltrona di vicepresidente delle Generali è di fatto già del banchiere romano. «Comunque Profumo è stato coraggioso ed è riuscito a ottenere che fosse tutelato il ruolo dell’attuale consiglio di gestione. Nagel insomma resta in una posizione di rispetto, dunque la tenacia dell’a. d. di Unicredit non è stata vana. Più di così», dice il banchiere che parla a condizione di restare anonimo, «sarebbe stato difficile ottenere, considerato che Mediobanca è da sempre la lavanderia del capitalismo italiano». Non è una definizione nobilitante. «È lì che si lavano i panni sporchi. E d’altronde il senso

«Draghi è stato troppo timido, ha vinto il nostro solito capitalismo straccione. Premier e ministro dell’Economia si sono lasciati sedurre»

dell’ambizione di Geronzi è nella frase di Cuccia sulle azioni che ‘non si contano, si pesano’. Quelle di Mediobanca pesano tanto da fare in effetti di Geronzi il nuovo dominus del nostro sistema finanziario. Ma si tratta pur sempre di un sistema con molti punti deboli».

Tanto che la vicenda può essere considerata anche una sconfitta per il governatore di Bankitalia. «Mario Draghi ha cercato di condurre la sua moral suasion», dice il nostro interlocutore, «ma ha il limite di muoversi in modo troppo felpato. D’altronde è in fatale conflitto d’interessi, considerato il suo curriculum nel campo delle banche d’affari… Certo è che Draghi avrebbe voluto modificare la governance di molti altri istituti. Deve assistere alla retromarcia di quello più importante». Nel confronto con Unicredit, Geronzi ha fatto pesare anche il sostegno di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Ma erano sponsorizzazioni reali o millan-

Tarallucci, vino e il silenzio di Profumo ROMA. «Non ci può dire nemmeno se in Italia le azioni si contano o si pesano?». Evidentemente no. È un fulmine silenzioso, Alessandro Profumo, mentre percorre a passo svelto via dell’Umiltà per andare all’incontro con la stampa estera a Roma. Un incontro chiuso ai giornalisti italiani e “off the record”, fanno sapere dalla direzione: nessuno scriverà una parola. E anche quando esce, l’a.d. di Unicredit ha la bocca cucita: accetta di farsi fotografare sotto le insegne dell’associazione, ma l’unica considerazione che gli esce dalla bocca è sul bel tempo di Roma, «altro che a Milano, da dove sono partito stamattina ed era tutto grigio». Poi via, infila subito con ampie falcate la

strada che lo riporta all’automobile accompagnato dal responsabile comunicazione del gruppo.

Intanto il fronte di Mediobanca è ricco di novità. Alla fine, salvo sorprese, sembra sia stato trovato un accordo sulla governance che porterà ad archiviare il duale e riportare lo statuto al sistema precedente. Lo scrive il Sole 24 Ore, secondo cui i due officianti della trattativa, Cesare Geronzi e Alberto Nagel, stanno trovando un’intesa sulla governance. Che dovrebbe funzionare così: gli attuali cinque membri del consiglio di gestione entreranno tutti nel nuovo board unico, mentre per Nagel viene

sancito il ruolo di capo-azienda (e quindi la gestione manageriale della stessa). L’articolo riporta anche un passaggio del verbale della riunione del comitato governance del 15 luglio in cui c’e il via libera del presidente di Unicredit, Dieter Rampl, all’abbandono del duale: una posizione che Unicredit aveva poi rivisto con il passare del tempo, e ciò aveva creato alcuni dissapori tra la presidenza e Piazza Cordusio. Ora bisogna vedere come si formerà il comitato esecutivo. Due sono le ipotesi sul tavolo: quella di parità assoluta tra manager e rappresentanti degli azionisti, oppure quella della maggioranza qualificata dei primi sui secondi, allo sco-


poteri

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I disegni dell’asse Geronzi-Berlusconi-Tremonti

Cuccia addio, ora Mediobanca viaggia sul carro del vincitore di Giancarlo Galli ome sembrano lontani i tempi in cui i maggiori banchieri italiani, da Giovanni Bazzoli a Corrado Passera ad Alessandro Profumo, s’erano messi in democraticissima coda ai gazebo del nascente Partito democratico! Ora nel mondo del banking, a dettar legge, c’è un uomo solo al comando o quasi: il settantenne Cesare Geronzi, berlusconiano di antica data, ben saldo al vertice di Mediobanca, la nostra più significativa istituzione finanziaria. Occupa la poltrona che fu di Enrico Cuccia e per un breve periodo del delfino (defenestrato) Vincenzo Maranghi. Quando Cesare Geronzi s’installò nel santuario, eravamo ancora in Era Prodi, e lo gnomo afflitto da problemi giudiziari, tuttora pendenti, si mosse con estrema prudenza. Per Mediobanca venne escogitata una struttura definita duale: Consiglio di vigilanza e Comitato di gestione affidato a brillanti manager, Renato Pagliaro ed Alberto Nagel. Il dominus ha cambiato idea: vuole tornare alle origini centralizzando il potere. A cosa attribuire il ripensamento? Tradotto in soldini e senza lasciarsi depistare dal quotidiano groviglio di analisi: al mutamento dello scenario politico. Col governo Berlusconi in stato di grazia (assurdo negarlo), Geronzi s’è posto l’obiettivo di trasformare Mediobanca in un «pilastro del sistema». Trovando nel superministro Giulio Tremonti (del quale, ricambiato, non cessa di tessere lodi), un validissimo e interessato sostegno.

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tate? Il banchiere interpellato da liberal non ha dubbi: «Il sostegno del governo c’è stato eccome. Il presidente del cds di Mediobanca ha crediti con tutti, non si spiegherebbe altrimenti come riesca a ottenere simili successi nonostante le sue pendenze giudiziarie».

Ma adesso cosa succede? Che l’onda lunga berlusconiana si alza, imprevedibilmente, anche sugli equilibri dell’establishment finanziario? Scenario impensabile solo fino a pochi mesi fa. Ma secondo il nostro banchiere non bisogna confondere i piani: «Non c’è un monocolore. Non è proprio così. Profumo resta in piedi ed è pur sempre uno che ha fatto due ore di fila per votare Prodi alle primarie. Passera e Intesa San Paolo sono di sinistra. Certo, Geronzi ha un grande ascendente sul premier e sul ministro dell’Economia. Ma la geografia parla chiaro. E non si può dire che il coinvolgimento in una operazione come quella di Alitalia possa mutare la po di garantire il massimo dell’indipendenza possibile all’istituzione.

Ma soprattutto nel nuovo accordo sembra esserci quello che più interessa a Geronzi: la delega sulle partecipazioni strategiche. Ovvero, Telecom, Rizzoli Corriere della Sera e Generali, il “tesoretto” di Piazzetta Cuccia. Soprattutto, quel posto di vicepresidente del Leone di Trieste che Geronzi brama e che adesso, con l’appoggio di Bolloré, Ligresti e Caltagirone potrebbe diventare realtà. Difficile, all’interno della governance, adesso trovare un posto per Renato Pagliaro, il direttore generale che ha a tutt’oggi la delega a queste partecipazioni. E bisognerà anche vedere che posizione prenderà in tutto questo Mario Draghi, il governatore della Banca d’Italia.

connotazione politica di Intesa o di altri. Colaninno ne è al vertice eppure non smette di dichiarare una fede politica non esattamente di centrodestra».

Peggio così: è una forma di consociativismo del potere finanziario. In queste condizioni non è immaginabile che il sistema possa guadagnare in termini di dinamismo, e dunque di forza. È appunto una soluzione all’italiana. Ma il nostro banchiere tiene a ribadire che «non si può parlare di monoblocco politicamente collocato a destra. È una situazione più articolata. Non per questo la si può considerare rassicurante. Come non si può essere rassicurati dall’esito dell’avventura Alitalia: un’operazione di disperati in cui vengono socializzate le perdite». L’accomodamento su Mediobanca è cosa fatta, i passaggi formali verranno realizzati la settimana prossima. In Italia si risolve tutto secondo il solito canovaccio. Geronzi lo sapeva dall’inizio. In più sembra che le spinte di Geronzi per portare Piazzetta Cuccia all’interno dell’affare Alitalia siano finalmente giunte a termine: un pranzo tra Geronzi e Giovanni Bazoli la prossima settimana potrebbe sancire l’ingresso di Mediobanca nella compagine che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe salvare la compagnia di bandiera. Musica per le orecchie del presidente, che in privato aveva fatto sapere di non gradire ruolo e posizione solitaria di Intesa San Paolo nell’affare. Messa così, sembra davvero che il banchiere romano e quello genovese abbiano trovato una soluzione di compromesso (di certo più favorevole alle richieste di Geronzi rispetto a quello che sembrava qualche giorno fa). L’assemblea del 18 settembre sarà il redde rationem.

manager a privilegiare la buona gestione, gli interessi dell’azionariato, il dominus la continuità con il governo. Gli esiti dello scontro concedono scarso spazio ai dubbi: vincerà Geronzi, e quindi risalendo la trafila,Tremonti e Berlusconi. Qualche manager avendo già le valigie al piede.

L’estremo baluardo al dilagare del geronzismo è rappresentato dall’amministratore delegato dell’Unicredit, il coriaceo Alessandro Profumo.Va difendendo con le unghie e con i denti, forte del rango di primo azionista di Mediobanca, la totale autonomia dell’Istituto; eppure giorno dopo giorno, è abbandonato da tutti o quasi i possibili alleati. Nell’establishment, piaccia o meno, si è infatti scatenata la corsa a saltare sul carro dei vincitori. Emblematico ed illuminante ciò che avviene con Alitalia. Durante la campagna elettorale che ha preceduto le elezioni di aprile, Berlusconi si vantava di avere un asso nella manica per salvare dal fallimento la compagnia: una cordata di imprenditori. Veltroni, il Pd, le sinistre ironizzavano, sfidando il Cavaliere a mostrare le carte. Con qualche buon motivo, conoscendo la storica ambiguità dei nostri ceti padronali. Senonché l’esito delle urne li ha stanati. E che sorpresa! Roberto Colaninno, che pur continua a professarsi di “sinistra” (col figlio Matteo eletto nelle liste del Pd), è il presidente della Cai, Compagnia aerea italiana, alias Alitalia bis, mentre a dozzine si precipitano a versare oboli miliardari per partecipare all’Operazione Fenice. Dai Ligresti ai Benetton ai Tronchetti Provera sino alla confindustriale Emma Marcegaglia. I ben informati sostengono che a spingere la fiumana sia la moral suasion del suggeritore Cesare Geronzi. Puntare sul cavallo vincente… Senza dimenticare la posizione di quell’eccellente banchiere (cresciuto alla scuola di Carlo De Benedetti) che è Corrado Passera. È stato lui a rendere fattibile, mobilitando Banca Intesa Sanpaolo, l’acrobatico salvataggio di Alitalia, non esitando a pagare il prezzo del distacco dal presidente Giovanni Bazzoli, prodiano doc non pentito (onore alla coerenza!), ora ripiegato nella natia Brescia a riflettere sulla controversa natura, etica o speculativa?, di Banche & Finanza. Ciliegine: l’ex ministro prodiano Augusto Fantozzi piloterà la“bad Alitalia”, i rami secchi della compagnia. Non stupisca: Giuliano Amato, già socialista craxiano, sembra aver gradito la proposta di Gianni Alemanno ad entrare in un “progetto Roma”. Tutti agli ordini del Cavaliere, dunque. Con quali contropartite?

In pochi mesi è cambiato tutto, sono lontani i tempi in cui il gotha della finanza faceva la fila ai gazebo del Pd

Mediobanca, nella progettualità geronziana, dovrebbe mutare pelle. Da «salotto buono» e stanza di compensazione dei vari poteri finanziari e industriali fiera della propria assoluta indipendenza dalla politica voluta dal fondatore Enrico Cuccia, a longa manus governativa. In altri termini: muoversi lungo direttrici di investimento, di raccolta del risparmio nel quadro di «superiori direttive». Geronzi, insomma, allievo prediletto del colbertista Tremonti. Per chi non ricordasse: Colbert ministro delle Finanze di Luigi XIV, Re Sole, fu colui che plasmò nel Seicento il centralismo francese. Interrogativo: sarà vantaggioso per l’Italia un Sistema Mediobanca politicamente sbilanciato? A prescindere dalla caratura di Mediobanca con partecipazione-chiave nelle Assicurazioni Generali, nel RizzoliCorriere della Sera, in Telecom, ha destato impressione nell’establishment il braccio di ferro ingaggiato fra il presidente Geronzi ed i suoi manager. Oggetto del contendere, inconfessabile (ci mancherebbe!): i


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politica

Dall’“Osservatore Romano“ a “Famiglia Cristiana“: una vivacità che si fa sentire

Vaticano e stampa cattolica: davvero c’è aria di rivoluzione? di Susanna Turco

ROMA. In principio - vale a dire un mese fa - fu l’aleggiare del fascismo, o quanto meno del sospetto di un suo ritorno. Adesso, su tutt’altro piano dal punto di vista sostanziale ma anche anche editoriale, è il quesito dei quesiti: la fine della vita. In questo scorcio di estate declinante, due pilastri della stampa cattolica come Famiglia Cristiana e Osservatore romano si sono trovati, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, a testimoniare una vivacità della stampa cattolica alla quale probabilmente non si era abituati. Non fino a questo punto, almeno. Si tratta, è naturale, di piani ben diversi, perché come spiega tra gli altri la parlamentare centrista Luisa Santolini, «un conto è il settimanale dei Paolini, che è libero di scrivere quel che vuole, ma non è “la” voce dei cattolici, un altro conto è l’organo della Santa Sede». Ben diversa è stata peraltro la reazione del Vaticano, che in un caso, quello dell’editoriale di Famiglia cristiana sul «sospetto che in Italia stia rinascendo il fascismo sotto altre forme», si è completamente dissociato dalla linea del settimanale; nell’altro - quello dell’articolo in cui Lucetta Scaraffia ha messo in dubbio l’attualità del ”rapporto di Harvard” - ha puntualizzato che la posizione ufficiale sulla definizione di morte celebrale non muta.

C’è chi mette in relazione questa maggiore vivacità con l’uscita di scena del cardinale Camillo Ruini, ossia dell’uomo che ancora pochi mesi fa in televisione spiegava come non gli dispiacessero gli attacchi («meglio essere criticati che irrilevanti»), con una fase più «timida» in cui la Chiesa - per dir-

la con le parole del cardinale Angelo Bagnasco - ha ben presente il problema di non farsi «ricacciare in sacrestia». Per l’ex presidente del Forum delle Famiglie Luisa Santolini, invece, tutto è cominciato molto prima: «C’è un risveglio della stampa cattolica che parte dai tempi della legge sulla fecondazione assistita e della batta-

ne». Un buon segno, comunque, dice.

Sta di fatto che sinora, tolti forse gli editoriali di Famiglia cristiana (che raramente sono arrivati però a suscitare il livello di polemiche di questa estate), una tale pluralità di atteggiamenti non si era manifestata. Ma i cattolici non vedono

Magister: «Con l’articolo della Scaraffia, il giornale diretto da Vian ha aperto il dibattito su un tema di cui nella Chiesa si discuteva, ma non pubblicamente. Un nervo scoperto, insomma» glia referendaria. Dopo essere stati per tanto tempo assenti dalla “pancia“ della gente, da qualche anno i giornali cattolici si occupano di leggere la realtà alla luce della dottrina sociale della Chiesa, ma anche della cronaca e delle questioni che stanno a cuore alle perso-

motivi di preoccupazione. Anzi, se ne rallegrano. «È il segno della grande libertà intellettuale di tutti noi», dice la parlamentare del Pd Paola Binetti: «Ci sono tante opinioni nel mondo cattolico, come ci sono ovunque si sia abituati a interrogarsi sul senso delle cose».

Santolini rincara: «Grazie a Dio tutta la stampa cattolica, Osservatore compreso, dà un segnale di libertà e autonomia. È un segnale di vitalità e serietà, positivo visto che spesso ci accusano di essere soldatini all’ordine del cardinale di turno, questo dice che non è vero». Insomma, taglia corto Savino Pezzotta: «Il mondo cattolico non è un monolite, la Santa Sede è intervenuta soltanto per dissipare degli equivoci sorti intorno all’articolo della Scaraffia, per ribadire un principio. Ma che poi si apra un dibattito su un tema del genere, anche con posizioni differenziate, mi pare di una grande onestà intellettuale».

Tutto bene, insomma. Di certo, segno dei tempi che cambiano è un direttore come Giovanni Maria Vian, che ha serenamente ribadito di «aver aperto un dibattito importante, e

non il primo». Il suo predecessore all’Osservatore romano, Mario Agnes l’avrebbe pubblicato un articolo come quello della Scaraffia? «Non lo so, non credo: comunque, da questo punto di vista non c’è niente da preoccuparsi», spiega Santolini «Non mi pare che ci siano rivoluzioni in atto. Questo no».

Non di rivoluzioni, ma certamente di «nuovo corso», parla invece il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister. Che mette il dito su un contrasto di impotra stazione l’Osservatore e l’Avvenire: «La vivacità del quotidiano diretto da Vian contrasta con l’incredibile appannamento del quotidiano della Cei, che sull’argomento della morte cerebrale non ha scritto quasi nulla, a parte due miseri box asettici senza un intervento nel merito. Timido, si direbbe. Questo vuol dire che l’Osservatore ha introdotto un nuovo corso, nel quale non si vuole minimizzare il peso del giornale, anche nell’affrontare argomenti controversi all’interno della Chiesa stessa. Perché è certo che l’articolo della Scaraffia ha toccato un nervo scoperto, uno di quelli che si preferisce non toccare». Nelle interviste di questi giorni, la storica ha in effetti ribadito che in Vaticano molti la pensano come lei. Di chi parla? «Uno dei libri recensiti nel suo articolo, Finis Vitae, è stato letto dalle gerarchie vaticane e si sa che diversi importanti dirigenti l’hanno apprezzato. Robert Steiman, uno degli autori, è tra i più stimati da Ratzinger. Peraltro quel libro, nel quale si mette in dubbio la definizione della morte come morte celebrale, raccoglie alcune delle relazioni di un convegno organizzato nel febbraio del 2005 dalla Pontificia Accademia delle scienze e dedicato appunto ai segni della morte. Atti che non sono però mai stati pubblicati ufficialmente». Perciò? «L’Osservatore ha aperto il dibattito su un tema di cui si discuteva nella Chiesa, ma non in modo pubblico. E le autorità ecclesiastiche preferivano la linea adottata negli ultimi anni: essere d’accordo con il protocollo di Harvard».


economia

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Fra mille difficoltà, comincia la trattativa con i sindacati. Sacconi: «Ma ormai i tempi sono strettissimi»

Alitalia davanti allo scoglio esuberi di Vincenzo Bacarani

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Nomadi: l’Ue assolve l’Italia Le misure adottate dall’Italia per fare fronte all’emergenza dei campi nomadi illegali non sono risultate discriminatorie e quindi sono in linea con il diritto comunitario. Questo in sintesi il giudizio espresso dalla Commissione Europea dopo l’analisi condotta sul rapporto sul censimento dei campi nomadi inviato da Roma a Bruxelles il 1 agosto scorso. Soddisfatto del via libera il ministro dell’Interno Roberto Maroni (nella foto), certo di essere stato scagionato in questo modo «da tutte le accuse e le offese ricevute». E soddisfatto si dichiara anche il ministro per le Politiche Europee, Andrea Ronchi: «Finalmente da Bruxelles è arrivato il riconoscimento per il lavoro compiuto dall’esecutivo per far fronte all’emergenza dei campi nomadi illegali. Credo che qualcuno dovrebbe chiedere scusa al governo italiano».

Federalismo, ecco la bozza Calderoli

ROMA. Sono 3.250 gli esuberi sicuri di Alitalia previsti nel piano Fenice. Ma ci sono altri 1.310 lavoratori (settori cargo e manutenzione) per cui è prevista una dislocazione esterna all’azienda ancora da definire. Per i sindacati, si tratta di un riaggiustamento delle cifre che erano circolate in base a voci giornalistiche, ma che comunque non tolgono tutte le preoccupazioni. «La cifra presa così – ha spiegatp Tonino Muscolo, coordinatore nazionale dell’Ugl Trasporti – è inferiore rispetto a quelle uscite nei giorni scorsi, però…». Però? «Il punto interrogativo – ha sottolineato il rappresentante Ugl – riguarda i lavori che vengono esternalizzati. Ma a chi? Questo finora non ci è stato detto e questo continua a essere fonte di preoccupazione». Uno dei rebus principali riguarda il settore cargo. Escluso drasticamente dal piano industriale, è stato ripescato in extremis dal governo. Insomma, una situazione ancora poco chiara e non bene definita nei dettagli più interessanti. Sul lungo raggio, ad esempio, non sono state fornite indicazioni precise di investimento, ma soltanto rassicurazioni. Nei prossimi giorni probabilmente verranno approfonditi i vari problemi. Comunque la prima tappa del confronto no-stop tra governo, commissario e sindacati su Alitalia è cominciata con buona volontà ma anche confusione, e con un duello a distanza Roma-Milano. L’unica cosa certa è la volontà di chiudere il negoziato entro giovedì, peraltro su forte pressione del commissario Augusto Fantozzi. Non sarà un’operazione facile perché le proposte sul tavolo sono molteplici. Il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha proposto ai sindacati l’istituzione di tre commissioni sul piano di salvataggio di Alitalia: una sul piano industriale, una sul contratto collettivo e una sugli ammortizzatori sociali. Gli esuberi, in un primo momento quantificati in 5 mila e forse più, scenderebbero sotto questa soglia e i sindacati auspicano che ci si fermi a quota 4.500. Il piano Fenice è stato illustrato dall’amministratore delegato di Cai (Compagnia aerea italiana) Rocco Sabelli. Un piano che prevede un obiettivo di fatturato a 4,8 miliardi di euro. Il capitale iniziale «sarà almeno di un miliardo» ha affermato, e si punta a un ritorno al pareggio operativo «in due anni». La flotta della nuova Alitalia -

il cui valore sarà di 4,2 miliardi di euro - sarà costituita da 137 aerei nel 2009, per arrivare a 158 nel 2013 e nell’arco di 4-5 anni è previsto anche il completo rinnovamento con 60 nuovi aerei. La quota del mercato domestico della nuova compagnia, assieme ad Air One, passerà dal 30 al 55% e saranno 65 le destinazioni raggiunte fra voli nazionale e internazionali. Quattro le nuove basi in Italia (Napoli, Catania,Venezia e Torino) mentre lo scalo di Linate sarà dedicato esclusivamente alla tratta Roma-Milano. Resteranno fuori dal perimetro della nuova Alitalia il cargo e la manutenzione pesante, mentre rimane da valutare se rientreranno l’amministrazione, il call center e l’information technology». Ma il ministro Sacconi ha voluto complicare la faccenda affermando che l’attività di cargo probabilmente proseguirà. Un po’ disorientati sono apparsi i sindacati. «Spero che si usi l’intelligenza – ha detto a liberal il presidente dell’Unione piloti, Massimo Notaro – e non gli ormoni». Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, ha continuato a mantenere un atteggiamento di discreta ostilità («le premesse per un accordo – ha detto – non sono buone»). Più ottimisti i suoi colleghi Raffaele Bonanni (Cisl) e Luigi Angeletti (Uil), anche se hanno ammesso che «trattare in queste condizioni non è facile» e che comunque «nessuno è pentito che la precedente trattativa con Air France non sia andata a buon fine».

Il leader della Cgil Epifani ha mantenuto un atteggiamento di discreta ostilità: «Le premesse per un accordo non sono buone»

A scaldare il clima della trattativa ci hanno pensato il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, che ha dichiarato la volontà di far parte della cordata per «tutelare» gli interessi della regione e della zona di Fiumicino, il presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, anch’egli pronto a entrare , come ente Provincia, nella scalata alla Fenice. Atteggiamenti che hanno provocato alcune reazioni. La più dura quella del ministro allo Sviluppo economico Claudio Scajola che riferendosi in particolare a Marrazzo e alla Regione Lazio ha detto che «l’impresa la devono fare coloro che per vocazione e per mestiere fanno questa scelta, cioè gli imprenditori. E’ meglio che ognuno faccia il suo mestiere». La guerra LazioLombardia è solo agli inizi e sarà nuovamente oggetto di discussioni e polemiche. Anche perché finora il piano industriale che è stato illustrato non ha fugato tutti i dubbi sui ruoli dei due maggiori scali italiani.

La bozza sul federalismo fiscale è stata presentata ieri mattina dal ministro per la Semplificazione normativa, Roberto Calderoli, ai rappresentanti dell’Upi e dell’Anci. Nei suoi 22 articoli presenta alcune novità, come la razionalizzazione dell’imposizione fiscale relativa agli autoveicoli e alle accise sulla benzina e gasolio, con l’obiettivo di «riconoscere un’adeguata autonomia impositiva alle province». Nello stesso articolo, prevista anche «la razionalizzazione dell’imposizione fiscale immobiliare, compresa quella sui trasferimenti della proprietà e di altri diritti reali», per riconoscere autonomia ai Comuni e alle città’ metropolitane. I fondi serviranno anche per la realizzazione di opere pubbliche e «finanziare oneri derivanti da eventi particolari quali flussi turistici e mobilita’ urbana». Anche le Regioni potranno «istituire nuovi tributi comunali e provinciali e delle città metropolitane nel proprio territorio, specificando gli ambiti di autonomia riconosciuti agli enti locali».

Berlusconi: «Napoli è rimasta pulita» «Napoli è rimasta pulita». Lo ha detto ieri il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi durante una conferenza stampa a palazzo Salerno. «Tutto procede secondo programma e da qui in avanti ci sarà l’apertura di discariche in modo da garantire lo smaltimento dei rifiuti anche in futuro». Berlusconi ha anche confermato l’apertura di nuove discariche e ha riferito che è aumentata la raccolta differenziata. «Ora - ha detto - dobbiamo continuare così, ringrazio per l’aiuto la Protezione civile e l’Esercito». Per quanto riguarda poi la questione dell’inceneritore di Napoli, il premier ha assicurato che «a giorni partirà l’appalto per il termovalorizzatore».

L’Udc presenta ”C’entro in festa” ”La festa della libertà di parola”. L’Udc ha voluto battezzare in questo modo la festa che il partito terrà a Chianciano dall’11 al 14 settembre prossimi. «Qui - ha assicurato Rocco Buttiglione nel corso della conferenza stampa di presentazione della manifestazione ascolterete la verità che altrove non sentirete», perché «noi vogliamo costruire l’altra politica, quella della ragionevolezza». «Per questo il partito - ha quindi sottolineato il segretario Lorenzo Cesa - organizza una festa all’insegna del dialogo».

Scuola, Gelmini: «Più tempo pieno» «Non verrà meno il tempo pieno, anzi riusciremo ad aumentare lo spazio ad esso riservato». Lo ha affermato ieri il ministro dell’Istruzione Gelmini, che ha spiegato: «Il governo si rende conto che nelle famiglie ci sono difficoltà economiche e che la maggior parte delle mamme lavora». Con l’introduzione del maestro unico «non solo manterremo il tempo pieno ma riusciremo a migliorare il servizio estendendolo a un numero maggiore di classi. Anche per questo il governo non ha ridotto gli insegnanti di sostegno né intende farlo».


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mondo

In visita nella capitale russa, Frattini sonda Lavrov sulla possibilità di aprire un’inchiesta internazionale sui fatti dell’Ossezia. E spinge l’Italia in campo umanitario

Ora l’Onu in Georgia di Vincenzo Faccioli Pintozzi n’inchiesta internazionale su quanto accaduto durante la crisi in Ossezia del Sud e l’ingresso di aiuto umanitari in Ossezia. Un modo sicuro per definire chi ha avuto torto e chi ha commesso quelle atrocità che Mosca e Tbilisi si rimbalzano da giorni. E il pieno ritiro russo dal territorio georgiano entro l’8 settembre. Sono le richieste con cui Franco Frattini, ministro degli Esteri italiano, si è presentato alla porta del suo collega russo, Sergei Lavrov. Che ha risposto positivamente quanto meno alla seconda. Visto con Mosca sullo sfondo, il nostro ministro degli Esteri sembra aver acquisito più coraggio di quello dimostrato nei giorni scorsi a Tbilisi. Pur riconoscendo sempre la supremazia russa anche in questioni di carattere internazionale – il riferimento testuale è alla disponibilità di Mosca al pieno accesso dell’aiuto umanitario in Ossezia del Sud e Abkhazia, che finora non è stato consentito – l’Italia «premerà per una piena apertura alle missioni di soccorso». «Il nostro Paese – ha aggiunto Frattini - è molto impegnato in questo campo. Per un Paese come il nostro, che non riconosce l’autonomia di Ossezia del Sud e Abkhazia, è un pò strano sentirsi dire che deve trattare con i suoi presidenti. Vorremmo garantito che, per l’aiuto umanitario, non ci fossero limiti di spazio. E questo è anche un interesse della Federazione russa. Se dicono che in Ossezia c’è stata una grande devastazione, tolgono a loro stessi un argomento non facendo entrare gli aiuti umanitari».

U

Sulla questione della crisi con la Georgia, Frattini ha sottolineato di apprezzare la decisione di Mosca di rimettersi al giudizio delle Nazioni Unite, come espresso dal Cremlino due giorni fa. Una risoluzione del Palazzo di vetro sulla crisi russo-georgiana, ha spiegato ai cronisti il ministro degli Esteri, «aprirebbe la strada anche a un ombrello Onu, che permetterebbe alle missioni umanitarie già previste di essere arricchite da un contingente delle Nazio-

ni Unite. Ritengo che Russia e Stati Uniti siano egualmente favorevoli a questo tipo di soluzione». Naturalmente, ha aggiunto con inconsueta sicurezza, «bisognerà trovare il modo di affermare il principio dell’integrità territoriale della Georgia, che non fa parte del piano di pace Ue ma che, è chiaro, per l’Europa non è un principio

ne: la contemporaneità tra il ritiro delle truppe russe, anche quelle stabilite in modo non permanente, e il dispiegamento della missione internazionale. L’accordo in sei punti firmato durante la crisi d’agosto, infatti, stabilisce che nelle more del dispiegamento della missione internazionale la Russia possa adottare misure temporanee di

Secondo il ministro degli Esteri, l’Italia premerà per una piena apertura alle missioni di soccorso, al momento bloccate. Sì alla risoluzione Onu sulla crisi georgiana e all’invio di truppe passato in cavalleria». A livello tecnico, per raggiungere lo scopo «ci si può richiamare alle quattro precedenti risoluzioni delle Nazioni Unite che contemplano questo principio». Il dispiegamento delle forze internazionali sul territorio georgiano, ha aggiunto Frattini, è legato a un altro tema di riflessio-

sicurezza. Per il rappresentante italiano, «dipende da noi accelerare il dispiegamento, favorendo un ritiro immediato delle truppe russe».Verrebbe da dire che dipende da Mosca, ma tant’è. Per il leader della nostra diplomazia, è fondamentale poi che il Cremlino rispetti il piano Sarkozy. Devono essere effet-

tuate, da parte russa, «azioni concrete e tangibili che dimostrino la volontà di riparare alla crisi». Le stesse azioni richieste ieri dalle autorità georgiane che, da parte loro, si sono impegnate con Roma a rinunciare all’uso della forza. La speranza è che Lavrov faccia lo stesso.

Frattini è poi rientrato in serata sul suolo italiano, da dove ripartirà oggi per Avignone: qui ha in agenda un incontro informale con i ministri degli Esteri di buona parte dell’Unione, a cui riferirà quanto avvenuto oggi per decidere una strategia comune in vista dell’invio delle forze di polizia civile in Ossezia. Questa missione dovrebbe essere varata dal prossimo Consiglio d’Europa, in programma a Bruxelles il prossimo 15 settembre, che dovrà anche decidere a chi affidarne il comando. E, arrivati a questo punto, forse l’Italia è veramente il candidato ideale.

Caschi blu dell’Onu A lato la cerimonia in memoria delle vittime di Beslan

Putin non può fare lo zar nel Caucaso, però l’Europa deve considerare tutti gli aspetti di questa crisi

Ma Mosca è indispensabile contro il terrorismo di Alessandro Forlani on l’ingresso dell’esercito russo in Georgia, si è riproposta in modo prepotente all’attenzione della comunità mondiale quella tentazione imperialistica della superpotenza euroasiatica che ciclicamente riemerge nel corso della storia. Secondo alcuni osservatori, la deplorevole aggressione sarebbe indicativa di una sindrome di accerchiamento, unita all’esigenza di riequilibrio dei rapporti di forza rispetto ad Usa e Ue – militarmente collegati attraverso l’Alleanza Atlantica – e all’intento di conservare la forza negoziale indotta dalla posizione di supremazia energetica che la Russia riveste in Europa. Eppure, bisogna anche evidenziare – senza nulla togliere alla ferma condanna per un’inaccettabile violazione della sovranità di uno stato indipendente – alcune evoluzioni geopolitiche di questi ultimi anni i cui effetti sono stati forse sottovalutati dall’Occidente.

C

Il dichiarato intento americano di collocare le basi antimissilistiche in una Polonia gratificata con la fornitura di missili Patriot – con una gittata in grado di colpire il territorio russo -, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, unilateralmente dichiarato dal governo di Pristina, la ventilata adesione alla Nato di Ucraina e Georgia, dopo quella già avvenuta, nonostante la ferma opposizione di Mosca, delle tre repubbliche baltiche, avrebbero ingenerato nei russi la sensazione di una sostanziale erosione della propria influenza nell’area che per decenni è rimasta soggetta all’egemonia sovietica (e prima zarista). A que-

ste circostanze si aggiungono le condizioni di frustrazione in cui versano le comunità di connazionali che vivono negli stati ex sovietici ora divenuti indipendenti. Una difficoltà che ha investito anche la Georgia, una volta proclamata l’indipendenza. In Ossezia del sud e in Abkhazia gran parte della popolazione si sente etnicamente affine a quella russa ed estranea alla Georgia.

In questi anni, nella comunità delle nazioni occidentali si era consolidata l’illusoria aspettativa di una decisa evoluzione democratica della Federazione e di un suo intento distensivo – se non addirittura accondiscendente - nei confronti degli antichi avversari della Nato. Le ombre suscitate dal pugno duro usato in Cecenia, dalla discussa sentenza a carico dell’oligarca non allineato Khodorkovski, l’assassinio della Politovskaja e altri episodi oscuri e sospetti che investono il tema del dissenso politico avrebbero dovuto mettere da tempo in guardia l’Occidente. Ma in questi ultimi anni la preoccupazione generale era concentrata sul fondamentalismo islamico, sul terrorismo e infine sulle minaccie provenienti da Teheran. Con il riconoscimento dell’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del sud il quadro si complica sensibilmente. Alla ferma condanna occorre affiancare saggezza e prudenza. La Russia è un partner essenziale per la lotta al terrorismo e per la soluzione dei conflitti nel Medio Oriente (basti pensare alla sua presenza nel Quartetto e ai suoi rapporti con l’Iran) e in Afghanistan. La stessa questione energetica consiglia ai leaders dei maggiori paesi Ue di mantenere aperti i canali di


mondo

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Lo denuncia Susanna Dudiyeva, presidente del comitato delle vittime

«Il mondo intero ha dimenticato Beslan» Q di Marta Allevato

uel giorno ho visto l’inferno materializzarsi davanti a me e il terrore che mi ha lasciato nel cuore non mi abbandonerà mai. Lo shock è ancora vivo, anche perché il governo continua a nasconderci la verità. Susanna Dudiyeva, presidente del comitato “Madri di Beslan”, ha la voce spezzata al telefono: ha appena finito di piangere. Susanna è una mamma che si maledice soltanto per aver portato in classe il suo Zaur il primo giorno di scuola. Susanna ha come colpa, quella di vivere a Beslan. I primi tre giorni di settembre li ha passati a commemorare la strage di innocenti che le ha strappato il suo piccolo, appena 12enne. È lo stesso triste rituale da quattro anni: ma di anno in anno «l’attenzione è minore». Le autorità si defilano, i media sono distratti, e il dolore dei superstiti all’attentato più grave della storia russa non trova pace.

Tre settembre, ore 13.05, scuola numero 1 di Beslan. Da quando quel giorno, nella scuola elementare ostaggio di un commando ceceno, deflagra il primo ordigno, tutti gli anni nella cittadina dell’Ossezia del nord i familiari delle piccole vittime rinnovano il ricordo della carneficina. È successo anche ieri: una processione di centinaia di persone porta garofani rossi, giocattoli e candele tra le macerie della palestra della scuola numero 1. Dove dall’1 al 3 settembre, 1.200 tra insegnanti, genitori e bambini sono rimasti prigionieri di terroristi che chiedevano a Mosca il ritiro delle sue truppe dalla Cecenia. Si osserva un minuto di silenzio in tutta la Repubblica e per tutto il giorno Beslan rimane in silenzio. Nessuno tiene discorsi pubblici. Solo il vescovo ortodosso di Stavropol e Vladikavkaz, Feofan, celebra una panichida (commemorazione funebre) nel cortile della scuola e legge ad uno ad uno i nomi di chi è morto: 334, di cui 186 bambini. Poi vengono liberati in cielo 334 palloncini bianchi. A distanza di tempo, numerose famiglie aspettano ancora i propri cari “scomparsi” quel giorno. Per settimane le autorità hanno continuato a depositare davanti alle case di Beslan macabre buste di plastica nere con dentro i resti delle vittime da identificare. Non tutti, però, hanno trovato qualcosa. «A Beslan non si è mai smesso di piangere – racconta Susanna – perché ancora non abbiamo capito cosa è successo». Sulle responsabilità della strage vi sono molti aspetti da chiarire, anche se formalmente il caso è chiuso. Mosca attribuisce l’attacco al ceceno Shamil Basaiev, che in seguito rivendica l’attentato. L’operazione potrebbe essere stata finanziata da un emissario di Al Qaeda in Cecenia. Basaiev viene ucciso nel 2006. L’inchiesta ufficiale condanna all’ergastolo solo un imputato, il ceceno N. Kulaev, scaricando sulla poli-

zia locale corrotta le colpe dell’ingresso in Ossezia di terroristi e armi. Gli agenti, però, sono tornati presto in libertà. Nessuna delle autorità è stata processata. Per le “Madri di Beslan” è l’amministrazione Putin, all’epoca a capo del Cremlino, la responsabile del drammatico epilogo. La tesi sostenuta dal Comitato e da testimoni oculari è che le forze di sicurezza hanno iniziato per prime ad usare lanciafiamme e carri armati contro i terroristi asserragliati, causando il massacro. Dei ribelli presenti quel giorno a Beslan, ancora non si conosce il numero esatto.

Dopo anni di lotta Susanna è stremata: «Condanno lo Stato e voglio vedere puniti tutti quelli che hanno permesso la stage», urlava coraggiosa nel 2005 al processo contro Kulaev. E rivolgendosi all’imputato in aula: «Siamo pronte a perdonarti, ma dicci la verità sui mandanti di tutto questo». Poi l’anno scorso Taimuraz Chedzhemov, l’avvocato che segue le battaglie delle “Madri di Beslan”, annuncia di avere ritirato le accuse mosse contro alcuni ufficiali russi, dopo aver ricevuto minacce di morte. Nel 2006 era stata messa a tacere un’altra voce che aveva denunciato le colpe del governo nel massacro della scuola numero 1: quella di Anna Politkovskaya, la giornalista della Novaya Gazeta freddata nella sua abitazione a Mosca. Allora anche la voce di Susanna si affievolisce. Il conflitto scoppiato l’8 agosto scorso nella vicina Ossezia del Sud tra Georgia e Russia ha riportato i riflettori della stampa internazionale su questa martoriata zona del Caucaso. Susanna ha seguito fin dall’inizio gli sviluppi dell’ultimo conflitto dietro l’angolo. Ha visto i profughi “cugini” arrivare a Vladikavkaz dopo il bombardamento georgiano. E i blindati russi percorrere le valli verso Tskhinvali, la capitale della repubblica separatista di fatto in mano a Mosca. «Non voglio parlare di politica – taglia corto – alla politica non interessa della gente. Lo si vede anche in questa occasione. Il presidente Saakashvili ha attaccato i suoi cittadini. Ancora una volta innocenti uccisi». E poi si lascia andare ad un rimprovero carico di interrogativi: «Che differenza c’è tra i bambini di Tskhinvali e quelli di Beslan? Perché (il premier) Putin e (il capo di Stato) Medvedev si sono precipitati a visitare i superstiti poche ore dopo l’aggressione georgiana, mentre a Beslan ci hanno abbandonati a noi stessi? Putin ha concesso a noi mamme un’udienza solo dopo più di un anno dalla strage». «Al cimitero monumentale di Beslan – racconta il dottor Leonid Roshal, mediatore umanitario durante i giorni dell’assedio – si respira la stessa atmosfera sospesa che c’è solo a Hiroshima: ti si blocca il respiro, la voce non esce».

L’anniversario della strage (334 morti di cui 186 bambini) passa sotto silenzio. Ne parlava solo la Politkovskaya, che accusava Mosca del massacro

dialogo. Ribadendo la ferma deplorazione della violazione della sovranità e integrità di uno stato indipendente, è necessario affrontare i nodi a lungo trascurati e culminati nella crisi: lo staus delle minoranze russe nelle repubbliche ex sovietiche, i rapporti tra questi e la superpotenza frontaliera – preso atto del sostanziale fallimento della Csi – il destino del Consiglio Nato-Russia, l’opportunità della scelta delle postazioni missilistiche in Polonia e Repubblica Ceca, l’iniziativa di Saakashvilj contro i secessionisti osseti, da molti ritenuta eccessiva ed avventata. La conferenza sull’area caucasica che sarà ospitata dal nostro paese in autunno potrà costituire la sede adeguata per trovare risposte e soluzioni in grado di esorcizzare lo spettro di una nuova guerra fredda che avrebbe effetti disastrosi.


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mondo

Tre elezioni, due scioglimenti parlamentari, tre partiti fuori legge e una nuova Costituzione

Thailandia in piazza. È il caos di Francesco Cannatà

d i a r i o a tre anni la Thailandia si trova immersa in una crisi da cui non si riesce a vedere nessuna via d’uscita. Dal 2005 si è votato tre volte. Il Parlamento è stato sciolto due volte e tre partiti sono stati messi fuori legge. Nel frattempo vi è stato un colpo di Stato ed è stata varata una nuova Costituzione. Agli occhi dell’opinione pubblica gli attori in gioco sono quasi tutti screditati. Un certo prestigio è goduto solo dall’asse monarchico-militare che ogni volta che sente avvicinarsi la fine del potere reagisce con il golpe. Da maggio 2008 il caos sociale e politico nel Paese asiatico è aumentato, coinvolgendo piazza, esercito e Parlamento. Se fino a giovedì scorso si poteva credere che il governo sarebbe riuscito a superare indenne la cri-

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bra coincidere con quello auspicato dal primo ministro. Domenica la risposta violenta della polizia ha esteso anche in una parte delle istituzioni il movimento di solidarietà verso i manifestanti. Questo fatto non modificava però la sostanziale situazione di stallo nell’attuale “guerra colorata”thailandes: governo rosso opposizione gialla. Se la piazza è in mano ai manifestanti, in Parlamento la coalizione pentapartito di governo, Alleanza democratica contro la dittatura, Daad, ha la maggioranza dei due terzi dei seggi e gode di rapporti di forza apparentemente inattaccabili. Domenica sera dopo un incontro con il sovrano, Samak ha dichiarato di non volersi dimettere, ma di non pensare nemmeno allo stato di emergenza. L’allontanamento del capo della

polo solo il 30 percento dei parlamentari, mentre il resto dovrebbe essere determinato attraverso altri procedimenti, ha sorpreso i simpatizzanti dell’opposizione. Secondo quanto scrive Veera Prateepchikul, capo redattore del Bangkok Post, difficilmente però il primo ministro, al quale da una settimana i manifestanti non permettono l’accesso agli uffici, trarrà profitto dalle difficoltà del Pad.

Una parte della popolazione, la maggioranza formata da contadini poveri, ritiene normale la corruzione politica e la accetta pur di riceverne in cambio prebende. Era questo il rapporto instaurato con l’ex premier Thaskin Shinnawatra. La classe media cittadina, la minoranza, vorrebbe invece uno Stato meno corrotto. Per

d e l

g i o r n o

Siria: piano di pace per Israele Bachar al-Assad avrebbe consegnato all’intermediario turco un catalogo con un progetto complessivo di pace con Israele, mentre il percorso contrario avrebbe permesso al soldato israeliano Shalit di ricevere una lettera. I contenuti del documento di pace non sono noti comunque si tratta di sei punti nei quali Damasco prende posizione riguardo il ritiro di Gerusalemme dalle alture del Golan, questa è stata l’unica ammissione di Assad fatta al margine di un vertice con il presidente francese Sarkozy, il capo del governo turco Erdogan e l’emiro del Qatar Scheich Hamad bin Khalifa. Dagli ambienti di governo israeliani si fa capire di voler preparare un nuovo tour di colloqui indiretti e si mette l’accento sul serio interesse di Gerusalemme a un accordo di pace.

Zimbabwe: Mugabe: «Formerò governo» Il presidente dello Zimbabwe Mugabe si appresta a formare il nuovo esecutivo di Harare anche senza la firma del leader dell’opposizione per una condivisione dei poteri. Stando a quanto riportato dal quotidiano sgovernativo ”Herald,” Robert Mugabe ha affermato che «di sicuro formeremo un governo» anche se il leader dell’Mdc, Morgan Tsvangirai, non firmerà l’accordo.

Colombia: no all’arresto di Uribe La Corte suprema colombiana ha annullato una sentenza del Tribunale di Sincelejo che ordinava l’arresto per tre giorni di Alvaro Uribe presidente della repubblica colombiana. I tre giudici che hanno firmato l’insolito ordine di cattura del capo dello Stato lo consideravano colpevole di non aver garantito l’applicazione della norma per l’adeguamento degli stipendi dei dipendenti pubblici. La Corte ha stabilito «l’improponibilità» di una sentenza di tutela del 28 febbraio riguardante 148 dipendenti del settore giudiziario.

Gran Bretagna: economia ferma

si, il giorno dopo l’allargamento dei disordini oltre la capitale, metteva in evidenza l’impotenza dell’esecutivo. Venerdì scorso una presa di posizione delle forze armate ha contribuito a rendere più scomoda la posizione del primo ministro Samak Sudaravej. Il capo di Stato maggiore dell’esercito, generale Anupong Paochinda, invitando l’esecutivo al dialogo, ha fatto capire che la strada della repressione violenta dei manifestanti è sbarrata. Samak ha respinto l’esortazione dei generali.

Anche se nella dichiarazione militare non sembrano esserci intenzioni di putsch, da venerdì l’esercito ha di fatto steso il suo mantello protettivo sull’Alleanza popolare per la democrazia, Pad, la forza politica alla testa della protesta di piazza guidata anche essa da un militare. Il generale in pensione Chamlong Srimuang. Ad ogni modo è chiaro che l’esercito intende seguire la crisi politica in corso svolgendo un ruolo che non sem-

Da maggio il disordine politico del Paese asiatico è aumentato, coinvolgendo piazza, esercito e Parlamento polizia di Bangkok, Asawin Kwanmuang, fautore della linea morbida, indicava però il contrario. Infatti da martedì il Paese è nella morsa, finora solo potenziale, dello stato d’eccezione. Nelle ultime ore Samak è sembrato in grado di gestire meglio la crisi. Le manifestazioni del Pad non raccolgono più centinaia di migliaia di persone, mentre le azioni illegali dell’Alleanza le stanno facendo perdere il consenso accumulato negli ultimi mesi. Alla strategia pacifica posto, il “movimento” ha sostituto gruppi armati di bastoni che compiono azioni, come l’occupazione dell’aeroporto, dichiaratamente illegali. Anche la proposta politica di far votare dal po-

raggiungere questo nobile scopo servirebbero però deputati più onesti e un sistema giudiziario indipendente. Due fattori al momento inesistenti. Ieri, dopo le sorprendenti dimissioni del ministro degli Esteri Tej Bunnag, il premier in un discorso radiofonico alla nazione si è detto pronto ad indire un referendum con cui l’opinione pubblica nazionale dovrebbe indicare al Paese come uscire dalla crisi. «In attesa del voto, i manifestanti possono continuare a dimostrare» ha detto il primo ministro ammettendo la propria impotenza. Dato che per indire il referendum occorre una legge speciale del Senato, è facile credere che la paralisi di Bangkok non finirà presto. A meno che l’esercito non decida di fare di nuovo piazza pulita. Comunque vada, prospettive buie per Samak. Anche nel caso in cui il premier riuscisse a salvarsi dalle proteste popolari, il suo partito è a rischio scioglimento. L’accusa? Corruzione e compravendita di voti. Un passato che in Thailandia non sembra voler passare.

La Banca centrale di Londra ha annunciato che per la prima volta da 16 anni l’economia inglese è in recessione. Secondo le autorità monetarie inglesi la recessione potrebbe essere più dura di quella del 1970. Nel secondo trimestre del 2008 in Gran Bretagna non vi è stata crescita. Lo scossone attuale è dovuto soprattutto alle ripercussioni nel Regno Unito della bolla speculativa immobiliare Usa. In agosto l’inflazione ha raggiunto il 4,4 percento. I prezzi degli immobili sono in rapido calo mentre quelli di energia e alimentari continuano a crescere.Anche settembre è contrassegnato dalla crisi. La sterlina rispetto alla moneta europea è scesa a 1,22 euro. Valore mai raggiunto dall’introduzione della valuta continentale dieci anni fa.

Cile: morti e senzatetto dopo un uragano Una delle più violente tempeste da decenni, si è abbattuta sul Paese andino causando vittime e sfollati soprattutto nella sua zona meridionale. Se i morti accertati sono finora 4 i senza tetto sono già più di 1500. Strade bloccate, campagne devastate, energia elettrica saltata e danni notevoli. Secondo i media di Santiago, nella regione compresa tra 400 e 800 chilometri a sud della capitale, le proprietà di 23mila persone sono state colpite. A causa delle forti piogge, molti fiumi sono straripati. Il governo del presidente Michelle Bachelet ha dichiarato lo stato di emergenza promettendo rapidi aiuti alle zone colpite.

Romania: disputa frontaliera con l’Ucraina La corte internazionale dell’Aja ha accettato in prima audizione il punto di vista romeno nello scontro giuridico per l’appartenza della piccola isola, Sulina, del Mar Nero. Nella piccola striscia di territorio dovrebbero trovarsi giacimenti di gas e petrolio.


mondo egli anni ’70 fu la cosidetta “diplomazia del ping pong” a permettere lo storico riavvicinamento tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. Sarà ora una diplomazia del calcio a permettere un’altrettanto storico riavvicinamento tra Turchia e Armenia? È in agenda per sabato a Erevan Armenia-Turchia, partita eliminatoria per il prossimo Mondiale. E il presidente armeno Serge Sarkissian per l’occasione ha invitato il collega turco Abdullah Gül a vedere il match: cosa che Gül ha accettato. Sembra un’inezia, maTurchia e Armenia non hanno relazioni diplomatiche. A lungo considerati un’”etnia fedelissima” tra quelle suddite dell’Impero Ottomano, gli armeni furono contagiati a cavallo tra XIX e XX secolo da una violenta ondata di nazionalismo, cui i turchi risposero con un irrigidimento nazionalista altrettanto violento. Sarebbe ozioso stabilire se venne prima il terrorismo armeno o la repressione turca, materia d’altronde su cui gli storici continuano ad accapigliarsi. Dopo l’avvisaglia dei 300mila armeni periti nei massacri del 1894-96 e degli altri 30mila di quello del 1909, fatto è che nella Prima Guerra Mondiale vi fu un vero e proprio genocidio: l’Armenia moderna parla di un milione e mezzo di vittime; Arnold Toynbee di 600mila; la maggior parte degli storici moderni di almeno mezzo milione; e la stessa Turchia ammette 300mila vittime. Rifiuta però l’etichetta di genocidio, inquadrando piuttosto il tutto nel più generale carnaio della Grande Guerra.

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Il presidente turco, Abdullah Gul, visita insieme ad alcuni politici di Ankara la piccola cittadina di Ani, considerata la capitale dell’Armenia medioevale. La Turchia non ha rapporti diplomatici con l’Armenia: i confini comuni sono stati chiusi nel 1993

N

Poi, quando lo sfasciarsi dell’impero zarista fece rinascere un’Armenia indipendente, l’esercito ottomano la invase, imponendole una pace cartaginese. In capo a qualche mese fu l’Impero Ottomano a dover capitolare di fronte agli Alleati, che ristabilirono i confini armeni, aggiungendovi anche territori ex-ottomani. Ma la nuova Turchia di Kemal Atatürk si accordò sotto banco con la nuova Russia sovietica per un attacco congiunto che si concluse con una nuova spartizione, e con la riannessione dell’Armenia exrussa all’Urss. Con l’aiuto dei servizi segreti sovietici ma anche della Diaspora armena in Occidente, tra 1975 e 1991 ci fu un’offensiva di gruppi terroristici armeni contro la Turchia, a base soprattutto di agguati a diplomatici e bombe alle ambasciate. Venne in seguito la nuova indipendenza dell’Armenia dall’Urss, sullo sfondo di una guerra contro il turcofono Azerbaigian per il territorio del Nagorno Karabakh, che portò la Turchia a chiudere le frontiere,

sinato da un nazonalista, il viceministro degli Esteri armeno Arman Kirakosian ha potuto venire a partecipare ai funerali, su invito espresso di Gül. D’altra parte lo stesso governo armeno ha preso le distanze dagli oltranzisti che vogliono il ritorno ai confini stabiliti col Trattato di Sèvres del 1920, assicurando che non ha rivendicazioni irredentiste. E la minoranza armena in Turchia alle ultime elezioni ha votato in massa per il partito di Gül, come del resto anche altre minoranze. Il governo turco ha pure proposto una commissione mista di storici per dirimere le questioni in sospeso, ma l’Armenia ha per il momento rifiutato.

Sabato il presidente Gul va a Eravan. È la prima volta in assoluto

Turchia e Armenia Il viaggio del disgelo di Maurizio Stefanini strangolando l’economia del Paese e costringendolo a una spinosa alleanza con l’Iran. Da ultimo è montata dagli anni ’90 la polemica sul genocidio armeno e le condizioni delle minoranze in Turchia, tra le leggi con

zioni imposte alla stessa Turchia per l’ingresso nell’Unione Europea, e che hanno portato a una crescente apertura. Curiosamente, è stato proprio il Partito islamista di Recep Tayyip Erdogan e Abdullah Gül che, do-

Fra i due popoli c’è da un secolo una guerra delle cifre. Per l’Armenia, i turchi hanno ucciso un milione e mezzo di armeni durante la Prima guerra mondiale. La Turchia ne ammette 300mila cui un Paese come la Francia ha addirittura equiparato la negazione dell’olocausto armeno a un reato; le leggi “sulla memoria” approvate da vari altri Paesi; l’ira della Turchia; le condi-

po essere arrivato al potere, ha iniziato a distendere le relazioni. Anche per polemica con quella casta militare kamalista per cui la questione armena era un tabù allo stesso modo della

laicità. D’altronde, era proprio il classico romanzo di Franz Werfel sul genocidio, I quaranta giorni del Mussa Dagh, ad accreditare l’immagine secondo cui erano stati i nazionalisti occidentalizzanti a volere la pulizia etnica dell’Anatolia, in contrapposizione alle vedute tolleranti degli islamici tradizionalisti: una visione forse un po’ semplicista, ma che Erdogan e Gül hanno trovato comodo rispolverare. Comunque dal 2002 è ripreso un dialogo tripartito Turchia-Armenia-Azerbaigian. C’è stata un’apertura dello spazio aereo turco, sia pure limitata. E quando il 19 gennaio 2007 il giornalista armeno turco Hrant Dink è stato assas-

Di mezzo, ovviamente, c’è anche la questione del Nagorno Karabakh, che è in questo momento uno Stato di fatto riconosciuto solo da altre tre entità al mondo: la Repubblica della Transistria, creata dalla minoranza russofona in Moldavia, e le Repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud, staccatasi dalla Georgia, e nell’occhio del ciclone per le ultime vicende. Insomma, quattro entità nelle stesse condizioni di illegalità internazionale: come d’altronde quella Repubblica Turca di Cipro del Nord che è Ankara l’unica a riconoscere. Il risultato concreto è che l’Armenia, per il suo passato e per il ruolo della sua Diaspora considerata spesso superficialmente come un avamposto dell’Occidente e della cristianità, è in realtà in pessimi rapporti con l’altro avamposto cristiano-occidentale della Georgia, e si trova a costituire una sorta di “empia alleanza” a tre con la Russia e con l’Iran degli ayatollah. Una situazione non agevole, da cui Sarkissian vorrebbe uscire il più presto possibile, anche se l’opposizione gli sta ora dando del “traditore”. Ma anche Gül è ansioso di liberarsi di certi pesi del passato, anche se deve fare i conti con pesanti remore interne: all’opposto della legge francese, per il codice penale turco si può finire invece dentro se il genocidio armeno lo si afferma. Dal suo sito internet il Presidente turco esprime dunque speranza che la visita sia l’opportunità per “rimuovere gli ostacoli che impediscono l’avvicinamento dei due popoli che compartono una storia comune” e per “creare un nuovo clima di fiducia”.


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ignor presidente, signori delegati, amici cittadini: sono onorata di essere stata considerata per la nomination a vicepresidente degli Stati Uniti. Accetto questa chiamata per aiutare il nostro candidato alla presidenza a servire e difendere l’America. Accetto la sfida di questa dura battaglia elettorale, contro avversari sicuri di sé, in un momento cruciale per la nostra nazione. Accetto il privilegio di servire un uomo che è passato attraverso missioni assai più importanti e si è trovato di fronte sfide assai più gravose - e che sa come si vincono questo tipo di battaglie - il prossimo presidente degli Stati Uniti, John McCain. È trascorso appena un anno da quando tutti gli esperti di Washington hanno messo la parola fine alla sua candidatur perché si era rifiutato di essere evasivo nel proprio impegno per la sicurezza del paese che ama. Con la loro solita tracotanza, ci hanno detto che tutto era perduto, che non c’era speranza per un candidato che aveva affermato di preferire la propria sconfitta elettorale ad una sconfitta della propria nazione in guerra. Ma i sondaggisti e i commentatori hanno sottovalutato soltanto una cosa quando hanno decretato la sua disfatta. Hanno sottovalutato il calibro di quest’uomo, la determinazione, la risolutezza e il coraggio cristallino del senatore John McCain. Gli elettori, invece, queste cose le conoscevano. Forse perché capiscono che c’è un tempo per la politica e un tempo per la leadership, un tempo per le campagne elettorali e un tempo per pensare alle necessità del paese.

S

Il nostro candidato alla presidenza ha una biografia esemplare per il suo coraggio. E persone di questo tipo sono davvero difficili da incontrare. È un uomo che ha vestito l’uniforme del suo paese per 22 anni e che si è rifiutato di perdere la sua fiducia nelle nostre truppe in Iraq, che hanno ormai la vittoria a portata di mano. Come madre di uno di questi soltati, lui è esatamente il tipo di uomo che vo-

usa 2008 Il discorso di investitura della candidata repubblicana alla vicepresidenza

IO, MAMMA D’AM di Sarah Palin le loro famiglie. Prima di diventare governatore dell’Alaska, sono stato sindaco della mia città. E visto che i nostri avversari sembrano voler sminuire questa esperienza, fatemi spiegare loro quello che comporta questo lavoro. Credo che un sindaco di una piccola città sia una specie di “community organizer”, solo che ha responsabilità vere. Posso aggiungere che nelle piccole città non sappiamo

Ci sono politici che non parlano in un modo a Scranton e in un altro a San Francisco

glio come commader-in-chief (...). Uno scrittore ha osservato: «Cresciamo brava gente nelle nostre piccole città, con onestà, sincerità e dignità». Io so che era proprio questo tipo di persone che aveva in mente quando lodava Harry Truman. Quando correvo per la carica di consigliere cittadino, non avevo bisogno di focus group e profili elettorali, perché conoscevo quegli elettori e conoscevo anche

che farcene di un candidato prodigo di complimenti per i lavoratori quando sta parlando con loro e che poi parla di come essi siano “morbosamente attaccati”alla loro religione e alle loro armi quando queste persone non stanno ascoltando.Tendiamo a preferire candidati che non parlano in un modo a Scranton e in un altro modo a San Francisco. Per quanto riguarda John McCain, potete stare sicuri

che è lo stesso uomo, chiunque lo stia ascoltando. Io non sono un membro dell’establishment politico permanente. E ho imparato in fretta, in questi ultimi giorni, che se non sei un membro dell’elite di Washington, solo per questo motivo qualcuno nei media non ti considera come un candidato qualificato. Ma ecco una piccola notizia per tutti questi giornalisti e commentatori: io non sto andando a Washington per inseguire la loro magnanimità: io sto andando a Washington per servire i cittadini di questa nazione. Gli americani si aspettano che noi andiamo a Washington per le ragioni giuste e non per mescolarci alle persone giuste. La politica non è soltanto un gioco di partiti che si scontrano e interessi che competono tra loro. La ragione giusta per fare politica è quella di sfidare lo status quo, servire il bene comune e lasciare questa nazione in uno stato migliore rispetto a quello in cui l’abbiamo trovata.

Nessuno si aspetta di poter essere d’accordo su tutto. Ma tutti si aspettano che riusciamo a governare con integrità, buona volontà e idee chiare, con un cuore da servitori della nazione. Io prometto a

tutti gli americani che porterò questo spirito con me come vicepresidente degli Stati Uniti. Questo è stato lo spirito che mi ha portato all’ufficio di governatore, quando ho attaccato il vecchio modo di fare politica in Alaska, quando mi sono opposta agli interessi speciali dei lobbisti, delle grandi compagnie petrolifere e al good-ol’ boys network. Riforme improvvise e incessanti non si adattano bene agli interessi radicati. Ecco perché le riforme sono così difficili da ottenere. Ma con il sostegno dei cittadini dell’Alaska, abbiamo cambiato la dinamica delle cose. E in poco tempo abbiamo riportato il governo del nostro stato dalla parte dei cittadini. (...) Sono arrivata all’ufficio del governatore promettendo di controllare la spesa, se necessario anche utilizzando mio potere di veto in difesa dell’interesse pubblico. Come capo dell’esecutivo, vi posso assicurare che questro metodo funziona. Il nostro budget statale è sotto controllo. Abbiamo un surplus di bilancio. E abbiamo protetto i contribuenti ponendo il veto su spese inutili di quasi mezzo miliardo di dollari. Ho sospeso la tassa statale sui carburanti, spingendo per la fine degli abusi nella spesa pubblica. Ho

detto al Congresso «grazie, ma no» a quel “Ponte verso il Nulla”. Se il nostro stato volesse un ponte, ce lo costruiremmo da soli.

Quando il prezzo del petrolio e del gas è salito vertiginosamente, riempiendo le casse della tesoreria di stato, ho restituito una larga parte degli introiti a chi ne aveva diritto: i cittadini dell’Alaska. E nonostante una fiera opposizione da parte dei loggisti delle compagnie petrolifere, a cui piaceva che le cose rimanessero com’erano, ho spezzato il loro monopolio sull’energia e sulle risorse. Come governatore, ho insistito sulla competizione e sull’imparzialità per interrompere il loro controllo sul nostro stato, per restituirlo ai cittadini. Ho combattuto per avviare il più grande progetto privato sulle infrastrutture in tutta la storia del Nord America. E quando abbiamo raggiunto questo accordo, abbiamo costruito una pipeline di gas naturale da quasi 40 milioni di dollari, per aiutare a condurre l’America verso l’indipendenza energetica. Questa pipeline, quando l’ultima sezione è stata costruita e le sue valvole aperte, condurrà l’America un passo avanti verso l’indipendenza da potenze straniere


usa 2008

MERICA AMERICA che non hanno a cuore i nostri stessi interessi. La posta in gioco per la nostra nazione non potrebbe essere più alta. Quando un uragano colpisce il Golfo del Messico, questo paese dovrebbe non essere così dipendente dal petrolio importato da essere costretto a ritirarlo dalle proprie riserve strategiche. E le famiglie non possono gettare ancora di più i loro soldi nell’acquisto del gas e del petrolio per riscaldamento. Con la Russia ansiosa di controllare una pipeline vitale nel Caucaso, dividendo e minacciando i nostri alleati europei utilizzando l’energia come un’arma. Non possiamo essere alla mercè di fornitori stranieri. Per combattere la minaccia che l’Iran potrebbe rappresentare se bloccasse un quinto delle forniture energetiche mondiali, o se i terroristi colpissero l’impianto di Abqauiq in Arabia Saudita, o se il Venezuela chiudesse del tutto i propri rifornimenti, noi americani abbiamo bisogno di produrre una quantità maggiore del nostro petrolio e del nostro gas. E fatevelo dire da una ragazza che conosce bene i pendii del nord dell’Alaska: abbiamo sia molto petrolio che molto gas.

I nostri avversari ci dicono e ci ripetono che nuove trivellazioni

non risolveranno i problemi energetici dell’America, come se noi non lo sapessimo già. Ma il fatto che questo non sia in grado di risolvere tutti i nostri problemi non è una buona scusa per non fare niente. Dal prossimo gennaio, l’amministrazione McCain-Palin metterà a punto nuovi gasdotti, costruirà nuove centrali nucleari, creerà posti di lavoro con il carbone pulito, e si spingerà in avanti sull’energia solare, eolica, geotermica e sulle altre fonti alternative. Abbiamo bisogno di risorse energetiche, prodotte dall’ingegnosità americana e dai lavoratori americani. Ho notato uno schema ricorrente nelle parole dei nostri avversari. Forse l’avete notato anche voi. Abbiamo ascoltato tutti questi discorsi teatrali di fronte a seguaci devoti. E c’è molto da ammirare del nostro avversario. Ma sentendolo parlare, è facile dimenticarsi che si tratta di un uomo che ha scritto due libri di memorie, ma non una singola importante legge o riforma. Si tratta di un uomo capace di pronunciare un intero discorso sulle guerre che l’America sta combattendo, senza mai usare la parola“vittoria”, a meno che non si riferisse alla sua campagna elettorale. Ma quando la nebbia della retorica si è diradata, quando il rug-

5 settembre 2008 • pagina 13

gito della folla si è allontanato, quando le luci dello stadio si sono spente, quando le colonne greche in polistirene espanso sono tornate negli studi televisivi da cui provengono... quale sarebbe, esattamente, il piano del nostro avversario? Cosa sta cercando veramente di ottenere, dopo che avrà finito di dividere le acque e guarire il pianeta? La risposta è: aumentare il peso del governo, prendere una quantità maggiore del vostro denaro, darvi più ordini da Washington e ridurre la forza dell’America in un mondo pericoloso. L’America ha bisogno di più energia... il nostro avversario è contrario a produrla. La vittoria in Iraq è a portata di mano... lui si vuole ritirare. Gli stati terroristi cercano di dotarsi in fretta di armi nucleari... lui vuole incontrare i loro capi senza pregiudizi e condizioni. Al Qaeda complotta ancora per infliggere ferite catastrofiche all’America… lui è preoccupato perché qualcuno possa leggergli i loro diritti. Il go-

tasse sui salari, aumentare le tasse sui profitti da investimento, aumentare le tasse sul business, aumentare le tasse di successione e aumentare l’imposizione fiscale sui cittadini americani di centinaia di miliardi di dollari. Mia sorella Heather e suo marito hanno appena costruito una stazione di servizio che hanno aperto al pubblico, come milioni di altri americani che gestiscono piccole attività. Come potranno stare meglio con le tasse che crescono? O forse state cercando di conservare il vostro posto di lavoro in una fabbrica del Michigan o dell’Ohio, o di creare posti di lavoro con il carbone pulito in Pennsylvania o in West Virginia, o di mantenere la piccola fattoria di famiglia proprio qui in Minnesota. Come potrete stare meglio se il nostro avversario caricherà l’economia americana di un pesante fardello fiscale? In politica, ci sono candidati che utilizzano il cambiamento per promuovere la propria carriera politica. E ci sono quelli, come John McCain, che utilizzano la propria carriera per promuovere il cambiamento. Sono quelli il cui nome appare in calce alle leggi e alle riforme, non soltanto sulle spillette e sugli striscioni, o sui sigilli presidenziali fatti in casa. Tra i politici, c’è chi utilizza comizi commoventi per eccitare l’idealismo delle folle. E poi ci sono quelli, come John McCain, che fanno grandi cose. Ci sono quelli capaci di fare qualcosa di più che parlare, quelli sui cui abbiamo sempre potuto contare nella difesa dell’America. Il record legislativo e riformatore del senatore McCain ci aiuta a spiegare perché così tanti lobbyisti, interessi particolari e comodi

C’è chi usa il cambiamento per la carriera e chi la carriera per il cambiamento

verno è troppo grande... lui vuole aumentare il suo peso. Il Congresso spende troppo... lui vuole spendere ancorà di più. Le tasse sono troppo alte... lui vuole aumentarle.

Gli aumenti delle tasse sono scritti chiaramente nel suo programma economico. Fatemi essere precisa. Il candidato democratico alla presidenza vuole aumentare le tasse sul reddito, aumentare le

presidenti di commissione del Congresso abbiano combattuto contro la prospettiva di una presidenza McCain, dalle primarie del 2000 ad oggi. Il nostro candidato non corre con il gregge di Washington. Questo è un uomo che è lì per servire il suo paese, non solo il suo partito. Un leader che non cerca la battaglia, ma che non ha paura di essa. Harry Reid, il leader della maggioranza nell’attuale Se-

nato dei nullafacenti, non molto tempo fa ha riassunto i propri sentimenti a proposito del nostro candidato. Ha detto, letteralmente: «Non sopporto John McCain». Signori e signore, forse nessun riconoscimento che ascolteremo in questa settimana può essere una prova migliore del fatto che abbiamo scelto l’uomo giusto. E c’è un’altra ragione per prendere il maverick del Senato e metterlo alla Casa Bianca. Miei amici cittadini, la presidenza degli Stati Uniti non dovrebbe essere un “viaggio alla scoperta di se stessi”. Questo mondo pieno di minacce e pericoli non è solo una comunità e non ha solo bisogno di un organizzatore. E sebbene sia il senatore Obama che il senatore Biden stiano ultimamente chiacchierando su quanto “combattano per noi”, cerchiamo di affrontare la questione in maniera diretta.

C’è un solo uomo, in questa elezione, che ha davvero combattuto per noi, in posti dove la vittoria significa sopravvivenza e la sconfitta significa morte. Quest’uomo è John McCain. È una strada lunga quello che va dalla paura, il dolore e lo squallore di una cella ad Hanoi fino all’Ufficio Ovale. Ma il senatore McCain, se eletto presidente, avrà compiuto proprio questo viaggio. Il viaggio di un uomo onesto e onorevole, il tipo di persona di cui si trova il nome dei cimiteri di guerra delle piccole città del nostro paese, soltanto che lui è riuscito ad essere tra quelli che sono tornati a casa. Nel ruolo di responsabilità più potente del mondo, porterebbe la compassione che proviene dall’essere stato almeno una volta senza alcun potere, la saggezza che arriva insieme alla prigionia, dalla grazia di Dio, quella sicurezza speciale di chi ha visto il male e ha visto come si sconfigge il male. Un suo compagno di prigionia, un uomo chiamato Tom Moe di Lancaster, Ohio, si ricorda di aver guardato attraverso un piccolo foro nella porta nella sua cella quando il capitano di corvetta John McCain veniva portato via dalle guardie nel corridoio, giorno dopo giorno. Quando McCain veniva trascinato indietro dopo le torture – dice la storia - si girava verso la cella di Moe e gli lanciava un ghigno, con il pollice all’insù. Come per dire: «Ce la faremo ad andarcene». Miei cari americani, questo è il tipo di uomo di cui abbiamo bisogno per i prossimi quattro anni. Per una stagione, un talentuoso oratore può ispirarci. Per tutta una vita, John McCain ci ha ispirato con le sue gesta. Se il carattere è la misura di queste elezioni, e la speranza è il tema, e il cambiamento è la meta che condividiamo, allora vi chiedo di unirvi alla nostra causa per aiutare l’America ad eleggere un grande uomo come prossimo presidente degli Stati Uniti. Grazie, e possa Dio benedire l’America.


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nessuno tocchi abele

Vietata nella regione dell’Orissa una manifestazione contro i cristiani perché avrebbe potuto provocare nuove vittime: è il primo atto formale del premier Manmohan Singh

Il premier indiano si sveglia Anche D’Alema aderisce alla fiaccolata di Francesco Capozza

ROMA. Qualcosa in India comincia a muoversi: le voci che in queste settimane si sono levate - forti - contro il massacro di cristiani hanno cominciato ad avere i primi risultati. Anche a livello ufficiali. Il Primo ministro indiano, Manmohan Singh, ha promesso di usare la forza per mettere fine all’ondata di violenze anticristiane «che ormai ha fatto 16 morti e 13.000 sfollati». Il dato è stato contestato dal portavoce della Conferenza episco-

autorità dello stato hanno annunciato che non permetteranno a un leader indu di estrema destra di organizzare una marcia funeraria domenica prossima in memoria dell’uomo ucciso: naturalmente anche le autorità hanno capito - forse anche sotto la pressione degli occidentali - che quella avrebbe potuto essere un’occasione per scatenare nuove volenze contro i cristiani. La presa di posizione del governo centrale indiano arri-

Il leader ha spiegato che «deve essere presa ogni misura possibile per ripristinare la normalità, per fornire protezione a tutte le comunità e assicurare alla giustizia i responsabili» pale indiana, monsignor Babu, che parla di oltre 20 vittime e 50.000 sfollati. Senza contare le conversioni forzate, da parte di fanatici indu, denunciate nei giorni scorsi sempre dalla Chiesa indiana. Comunque, per il governo indiano si tratta di un primo passo importante: in una lettera ai Missionari della Carità di Madre Teresa, il premier indiano ha assicurato che Nuova Delhi ha «reso disponibili tutte le forze richieste dallo stato di Orissa», la zona in cui sono avvenute le violenze.

Singh ha precisato di aver detto al Primo ministro dello Stato Navin Patnaik che «deve essere presa ogni misura possibile per ripristinare la normalità, per fornire protezione a tutte le comunità e assicurare alla giustizia i responsabili». Circa 200 persone sono state arrestate in relazione alle violenze. Il governo dell’Orissa ha fatto sapere che vieterà agli estremisti indu di entrare nelle zone dove sono scoppiate le prime violenze anticristiane dopo l’omicidio di un noto leader indu da parte di sconosciuti armati. Inoltre, le

va nel giorno in cui madre Firmala, la Superiora generale delle missionarie della carità – congregazione fondata dalla beata Madre Teresa di Calcutta - ha rivolto dai microfoni di radio Vaticana un accorato appello a «deporre odio e violenza e a ri-

Le nuove adesioni al meeting del 10 settembre

conoscersi fratelli e sorelle in nome della nostra stessa umanità».

Contestando i numeri forniti dal governo indiano, il portavoce della conferenza episcopale indiana ha annunciato che domani sarà celebrata in tutto in territorio nazionale indiano, compreso lo stato dell’Orissa, una giornata di preghiera e di raccoglimento come gesto solidale nei confronti dei cristiani perseguitati e uccisi. Ma di certo monsinor Babu non nasconde una certa preoccupazione per eventuali ritorsioni. In una nota ha detto: «Temiamo che in Orissa - pur essendo l’iniziativa del tutto pacifica e non violenta, centrata sulla dimensione spirituale - si possano generare ulteriori tensioni, con possibili reazioni dei gruppi estremisti, non ancora del tutto sotto controllo. Per questo abbiamo chiesto al Governo di prendere maggiori precauzioni e di assicurare la protezione dei cittadini cristiani».

Aderisco convintamene alla manifestazione pacifica organizzata da liberal il 10 settembre, unendomi al coro di protesta nei confronti delle persecuzioni e delle efferate uccisioni dei cristiani in India. Massimo D’Alema ex ministro degli Esteri

Quanto sta accadendo in questi giorni in India a danno dei cristiani è per me motivo di grande preoccupazione e di profondo dolore. Personalmente ho sempre creduto nel diritto di cronaca e nella necessità di sapere quello che accade all’estero e nel diritto dei cittadini di sapere. Mi rammarico, invece, del fatto che rispetto alle persecuzioni e all’assassinio di numerosi cristiani in India, ci sia un generale silenzio politico e mediatico. La manifestazione organiz-

zata da Liberal è invece una delle poche occasioni in cui questi tragici fatti vengono denunciati. Aderisco pertanto con profonda convinzione alla fiaccolata che si terrà il 10 settembre in piazza Montecitorio. Maria Giovanna Maglie giornalista e assessore alla cultura della Provincia di Trapani


nessuno tocchi abele

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La proposta di monsignor Elio Sgreccia

«Ora un Osservatorio per i martiri cristiani» colloquio con monsignor Elio Sgreccia di Francesco Rositano

Qui sopra e a sinistra, due immagini di profughi cristiani, in India che cercano rifugio nelle missioni cristiane. Secondo la Conferenza episcopale indiana, sarebbero 50.000, ormai, gli sfollati

Purtroppo per impegni precedentemente assunti non potrò essere presente alla fiaccolata del 10 settembre, ma sottoscrivo volentieri l’appello di liberal. Quello che sta avvenendo in India è molto grave. Una democrazia che vuole essere tale deve saper tutelare la libertà religiosa come quella politica. Questo in India non sta avvenendo. Servono iniziative diplomatiche e forti moniti da parte dell’opinione pubblica. L’iniziativa di liberal va in questa direzione e per questo ritengo giusto e utile questo appello. Anna Finocchiaro presidente gruppo Pd senato

Accolgo con grande entusiasmo la notizia della manifestazione organizzata da liberal e dall’Udc. Quanto sta accadendo in India a danno dei cristiani mi ha lasciato scioccata ma ancor più mi lascia drammaticamente preoccupata la totale assenza di iniziative politiche e d’opinione rispetto a questi fatti. L’iniziativa di Ferdinando

Adornato è pertanto encomiabile e mi vedrà presente senza nessun dubbio in piazza Montecitorio. Maria Burani Procaccini già ex presidente della commissione bicamerale per l’Infanzia L’iniziativa di Ferdinando Adornato e di liberal è un’ottima occasione per far sentire la voce di quanti -indipendentemente dalla casacca politica- credono che gli episodi che stanno avvenendo in India a danno dei cristiani vadano condannati. Aderisco con grande convinzione alla fiaccolata di solidarietà e mercoledì prossimo 10 settembre sarò in piazza Montecitorio. La mia, come quella di tutti i firmatari dell’appello di Adornato, è una sola voce, ma tutti insieme, quasi a formare un coro, credo che possiamo stimolare il governo italiano affinché spinga per una risoluzione internazionale. Italo Bocchino vice presidente deputati PdL

ROMA. «Per agire bisogna conoscere». Ecco perché monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia della Vita, chiede la costituzione di un Osservatorio per la libertà religiosa dei cristiani. «Un organismo - afferma - del quale dovrebbero far parte diversi esponenti di questa confessione: ortodossi, protestanti». Anche perché - come aggiunge l’arcivescovo - ci sono delle aree del mondo in cui i cristiani stanno letteralmente scomparendo: ad esempio quelli dell’Eritrea. Una situazione grave cui la politica deve certamente far fronte con le carte che ha a disposizione. Pure attraverso iniziative di carattere pubblico come la fiaccolata organizzata dal liberal cui monsignor Sgreccia dà la sua adesione. Eccellenza, dà il suo consenso alla fiaccolata del 10 settembre? Aderisco certamente perché condivido il giudizio dato in partenza: in varie parti del mondo c’è una stretta di libertà, una circoscrizione di libertà che a volte arriva fino al sangue nei confronti dei cristiani. Ci sono, infatti, zone del mondo dove questo fatto avviene abitualmente, quotidianamente in maniera strisciante senza che l’opinione pubblica ne sia portata a conoscenza. A quali paesi si riferisce? All’islamizzazione di certe zone vicine al Darfur, Eritrea compresa. I cristiani eritrei sono in questo momento nella fase della scomparsa: stanno fuggendo dove possono. Di cosa c’è bisogno? Di un Osservatorio. Dovremmo arrivare a creare un Osservatorio di questo genere perché ci sono di crimini che riguardano anche intere popolazioni di cui si è completamente ignari. Quindi non solo di crimini singoli che più facilmente si possono nascondere - pensiamo a quelli che avvengono nel bosco, per strada o per mano di gente mascherata - ma episodi terribili che vengono coperti da interessi economici. Non se ne parla e quindi in questo modo non arrivano all’orecchio di chi

magari non può far niente ma almeno può pregare. Come dovrebbe essere composto questo Osservatorio? Ne dovrebbero far parte personalità di diverse confessioni religiose cristiane: insomma dobbiamo denunciare anche l’uccisione di un protestante o di un fratello ortodosso. Bisognerebbe creare un organismo che porti a conoscenza della stampa i fatti prima di tutti. Perché ci sono molte zone in ombra, scure. Secondo Lei cosa dovrebbe fare la politica? Bisogna partire da quello che diceva il grande Giovanni Paolo II, cioè che la libertà religiosa è la

Aderisco alla fiaccolata perché ci sono diversi paesi dove vengono perpetrati crimini senza che l’opinione pubblica ne sia a conoscenza

prima. E quindi se viene mortificata questa le altre poi cadono in successione. Il primo atto politico è quello di lasciare lo spazio alla persona e creare le condizioni affinché uno possa essere se stesso. Prima ancora di dire cosa faccio oppure cosa do, bisogna creare lo spazio affinché la persona possa ricevere quello di cui ha bisogno. È un atto politico questo: il primo atto politico. E la Chiesa, invece, cosa dovrebbe fare in più rispetto a quello che già fa? Certamente può sempre migliorare. Sia dal punto di vista di stile che dal punto di vista che da quello che riguarda l’illuminazione delle coscienze per una pacificazione, per una convivenza pacifica. Ma prima bisogna conoscere, bisogna sapere cosa accade, cosa succede nel mondo. Ecco l’urgenza di un Osservatorio, di un organismo che monitori tutti i crimini che vengono perpetrati nel globo.


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letture

Mises in America: un liberale europeo a confronto con il mondo libertario

Apologia del capitalismo di Jörg Guido Hülsmann on l’avvio del suo celebre seminario presso la New York University, Mises riuscì a godere per la prima volta nella sua vita di una rete davvero congeniale di studenti e sostenitori. Era sempre stato uno studioso rispettato, ma pochi dei suoi lettori apprezzavano davvero il radicale anti-statalismo delle sue teorie. Questo era vero in particolare per i neo-liberali, che si gloriavano delle posizioni pragmatiche e del buon senso nel voler incaricare il governo di creare la competizione. Questi uomini accusavano Mises di argomentazioni logiche esagerate nella battaglia intellettuale per la libertà. Se questa fosse stata una critica valida, allora Mises sarebbe stato sicuramente colpevole. Come ha affermato uno storico, ha combattuto «col massimo rigore logico, che persino i suoi amici trovavano a volte eccessivo». Un amico di questo genere era Henry C. Simons, professore di economia a Chicago, il quale elogiò Mises come «il più grande professore vivente di economia» e «il più ostinato liberale vecchio stile o Manchesteriano del suo tempo». Ma purtroppo, aggiunse, «egli è forse il peggior nemico della sua stessa causa liberale».

C

In alto: Ludwig von Mises. In basso, la sede del Mises Institute ad Auburn (Alabama). Il Mises Institute è un’organizzazione accademica di orientamento libertario

Le cose erano del tutto diverse nella cerchia dei suoi nuovi amici. Molte delle nuove persone che arrivarono a Mises attraverso il suo seminario alla Nyu e la Fee erano persino più liberali di lui. Improvvisamente, fu Mises a rappresentare, in diverse occasioni, la posizione più statalista nel suo seminario. Libertarian americani come Leonard Read e R.C. Hoiles ponevano grande enfasi sulla definizione della libertà politica in termini di nonaggressione. Dopo la pubblicazione di Human Action, ad esempio, Hoiles criticò Mises in una corrispondenza privata per aver affermato che l’educazione pubblica «può funzionare molto bene» in Paesi monolingua, se limitata alla lettura, alla scrittura e all’aritmetica. Hoiles la interpretò come una concessione non necessaria. L’istruzione pubblica, anche se limitata al caso in discussione, era ingiustificabile: «(…) il fatto che alcune persone che non volevano che i loro figli ottenessero un’istruzione o che non avevano figli, fossero costrette a pagare dimostrava che la maggioranza aveva un diritto a costringere la minoranza a pagare per qualcosa che la maggioranza voleva. Se questo non è il peggior tipo di intervento statale, non so cosa significhi intervento. (...) Se lei concede questo, ne-

ga che il nostro governo sia limitato in ciò che ha diritto a fare. Mi sembra che l’intervento dello stato sia pari ad un’aggressione. Comprenda che io non mi oppongo all’uso della forza per fermare qualcuno dall’aggredire qualcun altro, ma il governo non ha diritto ad aggredire per primo. L’unico scopo del governo è

cilmente si poteva raggiungere un accordo. L’unico fattore rilevante era se l’uso iniziale delle forza fosse adatto per il raggiungimento dei fini della persona agente, anche se la sua azione era in qualche modo sbagliata da un punto di vista etico. Una lettera di due frasi che inviò dieci anni dopo ad un corrispondente americano, un editore in Wisconsin, parla chiaro: «Ho letto la vostra stimolante lettera con grande interesse. A mio parere, l’argomentazione principale a favore del capitalismo sta nel fatto che esso ha innalzato lo

memorandum confidenziale in difesa del punto di vista di Mises sulla democrazia contro le critiche di Orval Watts, che aveva contrapposto la “Wisconsin democrazia” e il liberalismo americano. Mises avrebbe anche assaggiato l’ostilità americana verso questo modello di democrazia, in uno scambio epistolare del 1947 con Rose Wilder Lane. Apparentemente, i due si erano incontrati a pranzo con Hoiles ed altri e Lane aveva avuto l’impressione che Mises credesse che essi condividessero lo stesso punto di vista su alcuni punti fondamentali. La Lane ritenne l’incontro non adatto per iniziare una discussione sul tema, ma gli scrisse in seguito: «(...) in quanto americana, sono fondamentalmente avversa alla democrazia e a chiunque invochi o sostenga la democrazia, che costituisce, nella teoria e nella pratica, la base del socialismo. (...) È precisamente la democrazia che sta distruggendo la struttura politica americana, il diritto americano e l’economia americana, come anticipò Madison, e come Macaulay profetizzò avrebbe fatto nel 20esimo secolo. Mises non si preoccupò nemmeno di affrontare il problema, ma osservò che egli non aveva mai discusso con persone che definivano i suoi scritti «robaccia» e «as-

C’era disaccordo fra il pensiero di von Mises e quello di molti libertarian statunitensi sul problema delle relazioni tra il mercato e la democrazia, che favorirebbero le “minoranze di potere“ di impedire alle persone di intervenire in un mercato libero e di impedire alle persone di ricorrere per prime alla forza per costringere qualcuno a pagare per qualcosa che non vuole».

Questa prospettiva era del tutto estranea all’approccio utilitaristico di Mises ai problemi politici. Credeva che la questione del ricorso alla forza fosse politicamente irrilevante, perché diffi-

standard di vita dell’uomo comune in un modo senza precedenti». Un altro, ben più sostanziale punto di disaccordo fra Mises e molti libertarian americani era costituito dal problema della democrazia (specialmente in alcune sue correlazioni col mercato, che tenderebbero, secondo i libertari, a favorire alcune minoranze di potere, ndr). Pochi mesi dopo che la Fee si strutturò, Baldy Harper sentì la necessità di scrivere un


letture surdità», come Lane aveva fatto in una recensione. Si andò avanti per più di due anni, dopo i quali il dibattito riprese in termini più civili, probabilmente a causa dell’amicizia di Lane con Howard Pew. L’obiezione fondamentale di Mises a Lane era che ella lo aveva frainteso. Egli non aveva mai sostenuto un concreto regime di democrazia parlamentare, ma solo messo in evidenza che tutti i sistemi politici dipendono fondamentalmente dall’opinione pubblica. Gli amici americani di Mises erano in disaccordo e i dibattiti e le corrispondenze fra loro rimasero prive di conclusione.Tuttavia, il confronto fra lo studioso austriaco e i suoi lettori e discepoli americani sarebbe stato una forza trainante nello sviluppo della teoria libertaria. Murray Rothbard, studente di Mises, avrebbe alla fine tratto le implicazioni radicali dell’economia misesiana con grande precisione, combinando il criterio della non-aggressione con l’attenzione tipicamente misesiana ai diritti di proprietà. Rothbard creò quindi quella miscela di economia libertaria e di etica giusnaturalista che continua ad attrarre molti intellettuali.

Il nuovo ambiente radicale contrastava duramente con la mentalità dei vecchi colleghi di Mises, che erano liberali secondo gli standard dell’Europa centrale, ma erano interventisti moderati nel contesto americano. Un caso tipico era Fritz Machlup. In una lettera del 1946 a Mises, egli chiese al suo vecchio maestro di approvare il suo modo evasivo di affrontare un pubblico vicino ai sindacati. Egli scrisse: «vorrei un suo consiglio: presto dovrò tenere una conferenza di fronte alla Camera di commercio degli Stati Uniti sulla “determinazione del salario di monopolio come parte del problema generale del monopolio”. La relazione verrà pubblicata e probabilmente otterrà più attenzione di quanta mi interessi. Se il lavoro dovesse essere presentato in un forum scientifico, potrei approfondire la storia delle idee e in particolare Mill e così via. Tuttavia, alla Camera dovrò essere pratico e politico. Non potrò fare altro che dire che i salari di monopolio sono l’unico scopo dei sindacati e che sindacati forti implicano disoccupazione e inflazione e conducono allo stato autoritario. Può un uomo onesto evitare queste affermazioni? Esistono delle alternative? (…) Se è politicamente impensabile mettere fuori legge i sindacati si possono prendere in considerazione limitazioni statali su aumenti dei salari. Non sto pensando, naturalmente, di fissare i salari mediante lo stato, ma ad una generale interdizione all’aumento dei salari». Mises replicò che egli avrebbe detto alla Camera: «Prima di tutto, liberatevi dalle false idee. Studiate l’economia. Poi andate a convincere gli altri». Ed enfatizzò: «Rigetto ogni divieto o limitazione della libertà di associazione. Non le libertà, ma solo la coercizione dovrebbe essere abolita». La corrispondenza fra i due si era già rarefatta e si sarebbe raffreddata ulteriormente. Il disgelo arrivò prima dell’ottantesimo compleanno di Mises, ma la loro amicizia avrebbe raggiunto il punto più basso verso la metà degli anni Sessanta. (Si ringrazia il Mises Institute per i diritti di pubblicazione)

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L’economista austriaco e la critica all’interventismo di Stato

La scuola liberale viennese contro il «socialismo distruttivista» di Tiziano Buzzacchera e la storia è palcoscenico eterno del braccio di ferro fra libertà e potere, la scena novecentesca è quasi interamente dominata dall’eclissi del liberalismo, dalla sua riduzione a residuo corroso da altre teorie e pratiche. La mistica del legno storto dell’umanità da raddrizzare è stata grammatica e ortografia della riflessione politica del secolo appena trascorso, col corollario dello stato onnipresente come strumento di redenzione. Risulta quindi ancora più singolare e affascinante la figura di Ludwig von Mises. Sulla sua opera un nuovo contributo è costituito dalla recente biografia. The last knight of liberalism, di cui è autore Jörg Guido Hülsmann, professore di economia presso l’Università di Angers. Ludwig von Mises nasce a Lemberg, città dell’allora Impero Austro-Ungarico, da una famiglia dell’alta borghesia ebraica, nel 1881. Il mondo imperiale dell’epoca è lacerato fra esigenze di modernizzazione e spinte reazionarie, ma è anche arricchito da una fioritura culturale fuori dal comune, che ha il suo centro a Vienna. La svolta, nella vita intellettuale di Mises, arriva nel 1903, quando legge i Principi fondamentali di economia politica di Menger che mette a testa in giù il problema dell’imputazione: non sono i costi di produzione a determinare i prezzi, ma i prezzi a spiegare l’impiego dei fattori di produzione. Sono i consumatori a dettare legge, mentre gli imprenditori si occupano di soddisfarne i bisogni. Nota Hülsmann che i Principi non mutano immediatamente la preferenza di Mises per l’interventismo, ma radicano in lui l’idea che non sia solo il mercato a dover essere oggetto di uno scrutinio nel campo delle decisioni politiche. Anche l’attività dello Stato finisce sul banco degli imputati. L’evoluzione di Mises verso la difesa del laissez-faire più estremo trova un passaggio importante nella frequentazione del seminario di Eugen von BöhmBawerk, continuatore di Menger e della tradizione austriaca nella formulazione della teoria del capitale. Sotto la guida di Böhm-Bawerk, Mises inizia a scrivere il trattato sulla moneta e si avvicina all’economia classica, mostrandosi sempre più critico verso lo statalismo. Nel 1912 completa la sua prima opera, la Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, che è il tentativo di applicare l’analisi marginalista al problema della determinazione del prezzo della moneta. All’epoca in cui la Teoria viene pubblicata, l’idea che il marginalismo possa essere utile a spiegare la domanda di moneta risulta, per lo più, un’ipotesi, intrappolata nel problema della circolarità: se la domanda di moneta è legata al suo potere d’acquisto di beni e servizi, come si spiega il potere d’acquisto della medesima? L’intuizione risolutiva di Mises emerge nel suo «Teorema della Regressione»: la domanda di medio circolante in un preciso istante, deriva dal fatto che esso aveva, in precedenza, potere d’acquisto. L’apparente regresso all’infinito, in realtà, termina nel momento storico in cui quella che sarà la futura moneta era solo un bene di consumo, cioè all’economia di baratto invece che di scambio. Allo stesso tempo, Mises perfeziona l’analisi di Menger sull’origine storica della moneta, come prodotto spontaneo della società e non come frutto di una volontà di qualche istituzione. Inoltre, nella Teoria appaiono le prime analisi della «Teoria austriaca del ciclo economico» che vede nelle spinte inflattive delle banche centrali la causa del-

S

le depressioni economiche. Gli anni della Prima guerra mondiale rendono ancora più decisa la sua avversione verso lo «Stato onnipotente» e l’esaltazione dello Stato-nazione. Se, per alcuni anni, le nubi del militarismo si diradano, l’Austria è sconvolta da un’altra minaccia. L’ascesa dei socialisti, che Mises sfida ponendo il problema del calcolo economico: senza prezzi – che emergono solo dal libero scambio - che riflettano la scarsità dei mezzi di produzione, l’allocazione razionale delle risorse non è possibile. La vexata quaestio del socialismo non viene più ridotta a quella degli incentivi o a quali beni di consumo dovrebbero essere prodotti. Più semplicemente, il socialismo non può raggiungere il suo obiettivo: rendere più ricca la società rispetto a ciò che si può ottenere mediante l’«anarchia della produzione». Il socialismo si configura quindi come una forma di distruttivismo: la divisione del lavoro regredisce e si atrofizzano quelle istituzioni sociali che si erano sviluppate parallelamente a essa, come la famiglia e la morale. Nel periodo che precede la partenza verso Ginevra, Mises approfondisce le posizioni che andava maturando: delinea un’affilata Critica dell’interventismo, espone i fondamenti del pensiero liberale in Liberalismo e prosegue con successo l’attività di ricerca sul ciclo economico, istituendo l’Austrian institute for business cycle research. L’ultimo trasferimento avviene all’alba della Seconda guerra mondiale, quando Mises e la moglie Margit sono costretti a fuggire negli Stati Uniti, mentre l’Europa è dilaniata dall’ondata nazista. La sezione Mises in America (dalla quale proviene la traduzione che vi proponiamo) è particolarmente interessante perché tratteggia l’incontro di Mises con la rive droite d’oltreoceano e col mondo libertarian, impegnato a respingere il graduale processo di socializzazione degli Stati Uniti, iniziato con Hoover e proseguito col New Deal di Roosevelt. Hülsmann narra con attenzione e vivacità le schermaglie con gli anarchici, la nascita di una nuova generazione di economisti austriaci come George Reisman, Murray Newton Rothbard ed Israel Kirzner, i rapporti difficili coi conservatori e i randiani. Ciò che emerge nell’avventura di Mises in America è la sua peculiare capacità di suscitare interesse per le idee del liberalismo classico, in una cornice politica che remava nella direzione opposta. Nell’arduo compito di tenere la barra ideologica a dritta, hanno giovato proprio quell’intransigenza e quel dogmatismo in difesa del capitalismo. In realtà, si è trattato di semplice coerenza teoretica di fronte alla difesa della libertà individuale che, unita a un’eccezionale integrità intellettuale, ha spinto l’economista di Lemberg a non accettare mai compromessi. Hülsmann cala il sipario sul suo libro con questa considerazione sull’importanza di Mises per il presente: «Mises è un classico, ma oggi è ben più di questo. Un autore classico ha dato all’umanità una formulazione senza tempo di domande essenziali e, a volte, risposte che hanno resistito all’usura del tempo. Queste domande e risposte, però, non sono necessariamente quelle che oggi ci spingono verso o sono importanti per la soluzione dei problemi che affrontiamo. Non è il caso di Mises. Ad oltre trent’anni dalla sua morte, i suoi scritti colpiscono ancora il lettore, l’accademico e il profano». Prosegue dunque l’ austrian revival. E The last knight of liberalism ne è un’eccellente testimonianza.

L’allievo di Böhm-Bawerk elabora le nuove teorie sul ciclo economico e perfeziona il lavoro di Menger sulla moneta


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cinema Nelle sale italiane da stasera l’atteso film ”X-Files: voglio crederci”, interpretato dall’ormai famosa coppia di agenti Mulder-Skully (David Duchovny e Gillian Anderson)

l miglior cinema americano di oggi? Sono in molti a credere che si trovi fra le gonne svolazzanti di Sex and the City, gli inseguimenti al cardiopalma di 24 e i diversivi inventati dalle celeberrime Desperate Housewife. E probabilmente non hanno tutti i torti. Da qualche anno in qua la televisione americana è una fucina instancabile di idee, plot e personaggi che il cinema spesso si sogna. Piccola parentesi per inquadrare da vicino il padre di tutti i serial di successo, il mitico (e forse inarrivabile) X-Files. Nasce nel 1993 dalla diabolica mente di Chris Carter e, prodotto dalla Fox, diventa nel giro di qualche mese un vero caso mediatico. Un successo senza frontiere durato ben nove stagioni e rimbalzato da una parte all’altra del mondo.

I

L’esordio al cinema è stato automatico. Nel 1998 esce infatti X-Files: Il Film. In America sbanca il botteghino, in Italia è uno dei maggiori successi dell’anno. Dopo tre anni, la chiusura. Il 25 agosto del 2002 va in onda l’ultima puntata della nona stagione e X-Files chiude i battenti. I fan non ci stanno, chiedono a gran voce un seguito che puntualmente però non arriva. E il tempo della serie sembra definitivamente archiviato. Almeno fino a un anno fa, quando Carter spiazza tutti, annunciando il ritorno in pompa magna dei mitici agenti Mulder (David Duchovny) e Skully (Gillian Anderson). Non si tratta di una nuova stagione della serie, ma di un secondo film per il cinema. Un suicidio commerciale? Apparentemente sì. Ne è scesa d’acqua sotto i ponti da quando la serie impazzava. Ma Carter è stato chiaro: X-Files s’ha da (ri)fare. Risultato: uscito negli Stati Uniti il 25 luglio scorso, il film è stato un flop clamoroso. Appena 20 milioni di dollari in più di un mese di programmazione. Insomma, un tonfo enorme, forse previsto. Ma non è questo che ci interessa. La cosa che salta agli occhi subito è che X-Files: Voglio crederci è un film necessario. E non perché chiuda una volta per tutte i conti con la serie più amata dei Novanta, né perché vi sia nascosto chissà quale chiarimento che la serie non ha mai dato. X-Files è in primis un atto d’amore. E al tempo stesso un vibrante e accorato appello umanistico. Il titolo parla chiaro: X-Files: Voglio crederci. Non è un caso dunque che il leitmotiv strisciante e disperato che si insinua in ogni piega del racconto faccia rima con ricerca inesausta. Di verità, certo, ma anche di fede. Il racconto inizia dagli occhi dell’agente Mulder, ormai lontano dalla scrivania

Da oggi al cinema l’atto II della serie che ha catturato il mondo

”X-Files”: stavolta la verità non è là fuori di Francesco Ruggeri bollente che occupava all’Fbi e distante mille miglia da quei maledettissimi casi paranormali che gli hanno dato filo da torcere.

E’ diventato un uomo tranquillo, quasi normale.Vive nella sua casa di montagna, si è fatto crescere la barba, ma non ha dimenticato nulla del suo pas-

Niente alieni o misteri paranormali da svelare. Ma un film ”intimo” che sa di addio e una feroce disamina del Male che si agita dentro l’uomo

sato. Le ossessioni che lo tormentano sono sempre le stesse, in primis quella legata al ricordo della sorella, rapita tanti anni prima dagli alieni.

Ma lui non si è mai dato per vinto e la scritta sul manifesto che campeggia nella sua stanza parla chiaro: I want to believe. Nonostante lo scetticismo

dei colleghi e del mondo, nonostante la solitudine provata nel vedere cose che tutti gli altri fanno finta di non vedere. Nonostante tutto. E’per questa sua innata e pervicace ostinazione che viene raggiunto nel suo ‘buen retiro’ dalla ex collega (Scully) che cerca di coinvolgerlo in un un nuovo caso. Scottante? Di più. Un’agente federale scomparsa nel nulla. Della donna non si sa più niente da tempo. L’unico elemento in mano agli inquirenti è la testimonianza ‘sensoriale’ di un ex sacerdote (agli arresti domiciliari per pedofilia) che afferma con sicurezza che si tratta di rapimento. In mezzo, forse, ci sono i trafficanti di organi.

Stavolta non ci sono extraterrestri che tengano, misteriosi ufo o verità soprannaturali da inseguire. X-Files: Voglio crederci è uno splendido teorema sulla natura umana. Un’interrogazione profonda e lancinante sul rovello interiore di coscienze in crisi e al tempo stesso una feroce disamina del Male, fuori e dentro l’uomo. Nulla che faccia rima con pessimismo cosmico però. Perché il film è prima di ogni altra cosa un passionale atto di fede. In una delle sequeze più belle, l’ex sacerdote si rivolge a Scully e la incoraggia a non arrendersi mai. Costi quel che costi. Lei ci prova. E trova il coraggio di credere in se stessa e di continuare a curare un suo paziente - un bambino di appena sette anni - dato ormai per spacciato da tutti. Lo stesso vale per Mulder. Si butta a capofitto nelle tenebre e ne esce ancora una volta vincitore. Per lui è una faccenda maledettamente personale. Quello che non è riuscito a fare per la sorella, lo fa per il prossimo. Immerso nella neve e nel sangue disegnato da corpi orrendamente multilati, il film di Carter non è un sequel, né un remake, ma un modo estremamente personale (diremmo ‘intimo’) per congedarsi una volta per tutte dalle sue creature. Dimostrando che non c’è abisso più nero di quello partorito dall’animo.


il caso

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Lo storico Piero Melograni risponde alla «provocazione» del ministro della Cultura Sandro Bondi

«Tornare a Gramsci. Sì, ma quale?» colloquio con Piero Melograni di Filippo Maria Battaglia arole nette, e piuttosto chiare, che vengono dopo alcune prime aperture già fatte da qualche collega di partito. Nei mesi scorsi era stata Maria Stella Gelmini, ministro della Scuola, a citare per la prima volta Antonio Gramsci, sollevando un polverone di polemiche, specie da parte di alcuni intellettuali d’area. Alla Festa democratica, nei giorni scorsi, è stato un ex-pci a sdoganare (e a farlo nuovamente da destra: si tratta di un ex-pci molto atipico) uno dei moloch della sinistra italiana. Sandro Bondi - un trascorso comunista come sindaco di Fivizzano, poi coordinatore di Forza Italia e ora ministro dei Beni Culturali – non ci ha pensato due volte ad ampliare i riferimenti culturali, «che vanno condivisi». E su Antonio Gramsci si è così espresso: «È un uomo, un pensatore, un intellettuale, sul quale tutti devono riflettere: non è stato solo un dirigente o un pensatore del Pci e della sinistra ma un intellettuale che tutti devono conoscere, a partire dagli studenti». Come era prevedibile, la dichiarazione ha fatto il giro dei quotidiani e delle agenzie di stampa, scatenando un’infinità di distinguo e di polemiche, alcune delle quali inaspettate. Per lo storico Piero Melograni, tra i più noti e autorevoli contemporaneisti italiani, non c’è poi così tanto da scandalizzarsi. Anzi, «le parole del ministro possono essere anche condivise: sul caso del politico nato ad Ales è bene che si faccia chiarezza e che si inizino a dire alcune verità, superando anche certi miti e tabù di cui una certa storiografia si è fatta gelosa custode». In che modo? Chiarendo innanzitutto che la posizione di Antonio Gramsci nei confronti del Partito comunista italiano era più che critica, tanto che già aveva avuto alcuni seri problemi durante la sua detenzione. E la sua morte non fa che aggravare i sospetti. A tal proposito, il primo che mi fece venire dubbi su quella fine è stato Palmiro Togliatti, che definì la scomparsa del compagno come misteriosa, anche perché avvenuta quando la sua pena era già stata scontata. In effetti, il padre dello stesso Gramsci, quando ebbe la tragica notizia della morte del figlio, disse subito: «Me l’hanno ammazzato». Nella vicenda sono da considerare anche i ruoli della moglie e della cognata che lo assisteva, entrambe agenti del Kgb. E non è poi da escludere che il fondatore di Ordine Nuovo si possa essere ucciso.

P

Recuperiamo il suo rigore morale e i suoi forti dissidi con Mosca e con il Partito comunista. Ma è arrivato il momento di fare luce sulla sua morte che è ancora avvolta nel mistero

Qui accanto, un manifesto sovietico del 1929 che celebra i cinque anni dalla morte di Lenin. In alto, due classici ritratti di Antonio Gramsci e Stalin: secondo lo storico Piero Melograni c’è ancora molto da studiare a proposito dei dissidi fra i due che - forse finirono per favorire l’isolamento prima e poi la morte del fondatore del Patrito comunista d’Italia. Oltre, naturalmente, alla lunga detenzione nelle carceri fasciste

Una fine drammatica e in parte irrisolta, su cui negli anni si sono annidati pregiudizi di ogni sorta… È vero. Molti degli italiani sono ad esempio convinti che Gramsci sia

morto in prigione. Non è vero: è morto in una delle più agiate cliniche romane. Restano poi i mille dubbi sulle circostanze della sua scomparsa: alcuni sostengono che sia morto in bagno, altri che ci sia stato il famoso volo dalla

finestra. Certo è che sulla sua morte restano troppe ombre. Come è acclarato il fatto che nutriva una nettissima avversione nei confronti di Stalin. E dal punto di vista teorico? Cosa può essere ancora salvato del pensatore Gramsci? Poco, se non pochissimo. La sua politica è stata essbagliata. senzialmente Già la fondazione del Partito Comunista, datata 1921, rappresentò un fallimento perché in realtà la frazione di Livorno era convinta di spostare la maggioranza del Partito Socialista nelle sue posizioni, anche se poi invece si ritrovò a doverne uscire fuori. Per quali motivi, dunque, la sua figura andrebbe riconsiderata? La centralità di Gramsci sta innanzitutto nella sua grandezza come persona. I suoi travagli e le sue vicissitudini umane spiegano molto del comunismo italiano e, in generale, del comunismo reale. E qui basta dare un’occhiata alle Lettere dal carcere. La personalità che ne viene fuori è enormemente più complicata rispetto all’oleografia che la vulgata storica e culturale ha raccontato e continua ancora oggi a raccontare. Dunque è auspicabile una riconsiderazione della sua figura? Certo. Tuttavia, per fare quello che il ministro si propone, occorrerebbero degli insegnanti capaci e preparati, in grado di uscire fuori da questa gabbia retorica per comprendere appieno i drammi di un uomo tormentato da Stalin e, in qualche modo, persino dal Partito Comunista. In questo senso, a suo modo di vedere, la storiografia ha delle colpe? Ovviamente sì. Nell’ultimo mezzo secolo, molti storici, credendo di difendere il Pci, hanno di fatto evitato di affrontare simili problemi, sottovalutandoli o, come è accaduto più spesso, ignorandoli del tutto. Ma così facendo, non ha fatto altro che aggravarne i principali problemi e i più vistosi vizi d’origine. E questo – si badi bene - non è stato solo un errore astratto o puramente accademico, ma è stato soprattutto un errore politico, che in qualche modo ha contribuito ad alcune delle principali sconfitte elettorali del comunismo e del postcomunismo italiano. Se si iniziasse finalmente a fare chiarezza, si scoprirebbe che gran parte dei comunisti - capofila Gramsci, ma anche molti altri - sono state le prime vittime del comunismo reale.


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personaggi

Camaleontica, trasgressiva, sexy, fatale, provocatrice, blasfema. I mille volti della cinquantenne Madonna, aspettando il concerto di domani a Roma

Who’s that ”girl”? di Valentina Gerace

pochi mesi dall’uscita del suo nuovo album Hard Candy (2008), Madonna annuncia lo Sticky & Sweet Tour che è iniziato il 23 Agosto a Cardiff (UK), e si concluderà il 20 settembre a Parigi.

A

L’unico e imperdibile concerto italiano andrà in scena allo Stadio Olimpico di Roma sabato 6 settembre, alle ore 21. Sarà attesa da migliaia di fan che dal 2006 aspettano con ansia di rivedere la regina del pop esibirsi dal vivo in Italia. Non solo un’artista, ma anche una provocatrice. Il simbolo della musica pop-dance americana degli anni ’80 e ’90. Icona pop al femminile, regina dei travestimenti, ha incarnato le ideologie di un’America religiosa, bigotta, consumistica, e lo ha fatto senza pudori, o tabù. Rompendo qualsiasi schema. Un’artista innovativa, ma soprattutto libera, disinibita, la cui sola presenza scenica è arte. Regina della musica dance, ama vivere alle sue condizioni e non accetta compromessi. Nemmeno nei suoi show. E oggi, all’età di 50 anni (compiuti lo scorso 16 agosto) continua a sorprendere. A portare la sua musica in giro per il mondo, a far emozionare i suoi fan con l’energia, il carisma e la verve dei suoi esordi. Nata come cantante e ballerina, si è espressa sotto varie forme, dal teatro al cinema, dalla fotografia alla scrittura. Raggiungendo livelli di celebrità pari a quelli di Marylin Monroe, uno dei suoi modelli più influenti, o ancora Michael Jackson e Prin-

ce. Più che per la sua voce, è diventata famosa per aver creato un personaggio irriverente, moderno, forte, anticonformista. I suoi spettacoli sono uno strumento di potere e di controllo nei confronti dell’uomo, della società, del consumismo. Con le sue esibizioni trasgressive e eccentriche, comunica un’energia quasi mascolina. Una personalità brillante che non si ferma davanti a nulla. Rompendo qualsiasi convenzione. Madonna ha fatto del cambiamento la sua particolarità. Ha reinventato se stessa a ogni disco, apparendo ora bionda, femminile, fragile, ro-

mantica. Ora aggressiva, mascolina, emancipata, irriverente, anche volgare. Per dimostrare come la bellezza non risponda a canoni standardizzati. La bellezza è evoluzione, cambiamento, originalità. I suoi comportamenti stravaganti, anarchici, e i suoi videoclip trasgressivi, che ostentano un desiderio palese di emozioni sessuali e una libertà a volte immorale, hanno provocato e sconvolto i più conservatori e religiosi.

Dopo Confessions On A Dance Floor del 2005, Hard Candy si rivela un altro album all’altezza. 12 brillanti canzoni uptempo, dove Madonna continua la sua incursione nella musica pop-dance, aggiungendo questa volta del beat “urban hip-hop” in collaborazione con partner musicali quali Timbaland, Justin Timberlake, Pharrell Williams dei Neptunes e Nate “Danja”Hills. E con loro al timone il ritmo R & B è assicurato. Provocatorio, aggressivo e pieno di energia, l’album ha già venduto oltre 140.000 copie in Italia, e quasi 700 mila negli Stati Uniti. Numero 1 nelle classifiche in ben 27 Paesi, tra Brasile, Messico, Argenti-

cabile e autobiografica Incredible.

La diva della pop dance non sbaglia mai un colpo. Il suo talento si intravede già da ragazza, quando dopo la morte della

Madonna è al posto giusto nel momento giusto. La sua determinazione e intraprendenza attirano un produttore che le propone di registrare un nastro demo. E’ l’occasione della sua vita. Nel 1983 esce il suo primo album: ”Madonna”, da cui vengono estratti i singoli Everybody, Holiday, Borderline, Lucky star. Madonna è già un mito. Assorbendo le influenze della musica newyorkese del momento, il rap, il punk, crea un suo stile che diventerà inconfondibile.

Nata come cantante e ballerina, si è espressa sotto varie forme, dal teatro al cinema, fino alla scrittura. Raggiungendo livelli di celebrità pari a quelli di Marylin Monroe na, Nuova Zelanda, Australia, Francia. Il disco contiene la futuristica 4 Minutes (con la partecipazione di Justin Timberlake) e Give it to me, dal ritmo audace, esuberante e umoristico («arrestami se ci riesci, altrimenti spogliami»). Singoli al primo posto nelle classifiche mondiali del momento. Si alternano brani di hard-pop un po’ schizofrenico a dance più tradizionale, a pop più lineare. E non poteva mancare il riferimento al sesso, cantato con toni forti, aggressivi, nell’instan-

madre, lascia l’università del Michigan per andare a vivere a New York. Parte con i famosi «35 dollari» in tasca e tanta voglia di emergere. Arrivata nella Grande Mela, inizia a studiare danza alla Alvin Ailey con cui farà delle performance teatrali. Prende parte come corista alla registrazione del brano Born to be alive di Patrick Hernandez. Mentre posa nuda per diversi fotografi per potersi mantenere, riesce a formare vari gruppi come i ”Breackfast Club”, i ”Madonna”, i ”Modern Dance”.

Anche il suo look diventa unico: accessori eccentrici, abiti luccicanti ed estrosi, fasce ai capelli, chili di bracciali, magliette e calze strappate, scarpe colorate, il tutto adornato da crocefissi e altri ”accessori”. Nel 1984, sulla scia del successo, Madonna incide Into the


personaggi

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nel jet set delle major grazie al lancio di artisti del calibro di Alanis Morisette. Nel 1992 con un’astuta mossa pubblicitaria lancia un album Erotica (1992), che racconta tutte le sue fantasie più intime, e pubblica un libro, Sex, interamente scritto di suo pugno e che contiene foto di nudo artistico ai limiti della trasgressione realizzate dal famoso fotografo Steven Meisel. Nel 1994 con l’album Bedtime Stories lascia i panni trasgressivi e al limite dell’erotismo cambiando nuovamente e radicalmente look: indossa una veste più romantica e raffinata. Il 1996 è l’anno che segna una svolta per la carriera cinematografica di Madonna. Il 1998 è la volta di Ray of Light, che mostra una ricerca di tranquillità e una volontà di scavare nella propria interiorità. Nel 2000 Rupert Everett propone a Madonna la realizzazione della cover di un vecchio brano di Don McLean del 1971 American Pie. Detto fatto: il brano diventa un successo mondiale. I suoi tour intanto registrano ovunque il tutto esaurito, incassando cifre colossali. Oltre ad essere una cantante e ballerina di successo, Madonna si è dedicata alla scrittura di libri per bambini. E alla realizzazione di vari film (per l’interpretazione di Eva Peron nel musical a fianco di Antonio Banderas riceve un Golden Globe come miglior attrice protagonista).

groove per il film Cercasi Susan disperatamente. Il brano riscosse tanto successo da essere inserito nel suo secondo album, Like a virgin (1984).

In alto e nella pagina a fianco, alcune immagini dell’ultimo tour europeo di Madonna, che domani si esibirà a Roma. In alto a destra, una foto ai tempi del singolo ”Into the Groove”. Sopra, uno scatto di repertorio dell’artista

E’ l’album della consacrazione. Oltre a vendere oltre 10 milioni di copie, e a diventare il suo primo album numero uno nelle classifiche statunitensi. Contiene Like a virgin, la canzone-scandalo, il simbolo della libertà sessuale delle donne (non mancano riferimenti omosessuali), Materia girl, Dress you up e Angel. Nel 1985 parte per il suo primo tour, che tocca Stati Uniti e Canada: Madonna sfoggia una serie di look che entrano subito a far parte delle nuove tendenze e compare nella rivista Playboy con delle foto nuda in bianco e nero. Esplode la ”Madonnamania”: milioni e milioni di ragazze imitano questo look stravagante e gli atteggiamenti maliziosi e provocanti mostrati dalla star. Nel 1986 incide True blue, suc-

cesso planetario, venduto in oltre 20 milioni di copie in tutto il mondo, vincendo svariati riconoscimenti e lanciando una serie di numeri uno: Live to tell, Papa dont preach, Open your heart, True blue, La isla bonita. Il 1987 è l’anno di Who’s that girl, per cui Madonna diventa la ragazza punk protagonista di questo film. L’anno inizia con l’uscita dell’album contenente la colonna sonora. Il 1989 è l’anno della grande svolta. Nel marzo esce l’album Like a prayer (Express yourself, Cherish, perle della musica dance anche a distanza di decenni). Nuovo album, nuovo look, grande successo, ma tantissime le polemiche causate soprattutto dai suoi atteggiamenti giudi-

cati blasfemi e trasgressivi. Il video trasmesso da Mtv, condannato dal Vaticano, ritrae simboli cattolici come croci bruciate o stigmati. Intanto gira uno spot con la Pepsicola destinato alla visione mondiale. Nello stesso anno le viene conferito il premio come ”Mega artista degli anni ’80”, uno dei premi più importanti e più ambiti della storia della musica contemporanea. Nel 1990 esce la prima raccolta del suoi successi, The Immaculate Collection contenente i due inediti, Rescue me e Justify my love, scritta con Lenny Kravitz, nel cui video interpreta una nuova Marylin, o una postmoderna Brigitte Bardot, erotica e trasgressiva. Il 1992 fonda la Maverick Record che entra

Esaltando la libertà sessuale, ha dimostrato come la donna possa essere sexy ma anche forte, emancipata e innovativa

Le sue performance da maratoneta, le sue ostentazioni sul sesso, le sue meditazioni da buddista, il suo eclettismo musicale che la porta a superare sempre qualsiasi barriera del suono. Sono tutte caratteristiche di un’artista che vuole continuamente stupire, provocare. Una donna che non ha mai avuto paura di esprimere le sue idee, i suoi ideali, anche quando questi risultavano provocatori o contro la morale comune. Coraggiosa, esuberante, estrosa. Ha dato voce agli istinti più reconditi dell’animo umano. Forse arriverà un giorno in cui non potrà più sfoggiare le sue curve, un fisico forte, atletico e provocante. O non esibirà eccentrici look. Ma Madonna resta sempre l’artista che ha esaltato l’istinto, la libertà sessuale, anche quella omosessuale. Ha dimostrato come la donna possa essere sexy ma anche forte, emancipata. Indipendente e innovativa. Non meno dell’uomo. La sua arte è stata un potente strumento di rivendicazione ma anche di seduzione e femminilità. Strumento di libertà artistica.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

La morte cerebrale è o non è un decesso? IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI SCIENTIFICI Il fatto che le ultime ricerche scientifiche abbiano dimostrato che la morte cerebrale non sia condizione sufficiente per decretare il decesso del paziente, dimostra anche e soprattutto che la scienza non possiede il rigore e l’esattezza definitiva che gli pretendono molti fanatici del dato scientifico. Giacchè se la scienza contraddice se stessa, e non è omogenea nelle conclusioni nè duratura nei suoi esiti, ciò significa che è un alfabeto, un sitema linguistico espressivo similare ad altri sistemi linguistici che evolvono nel tempo, e mutano condizioni e conclusioni con il mutare del tempo. Se è vero che il motore dell’esattezza scientifica è il principio di non contraddizione, e la compresenza di due risultati scientifici in contrasto neghi alla stessa pretese di univocità, allora è lecito dedurre che essa sia soggetta all’arbitrio e all’opinione configurandosi quindi come un campo di esplorazione nobile ma frammentario, votato alla perfettibilità e alla continua revisione. E dunque, la varietà di orientamenti di cui essa si intesse non può che portarci a concludere che anche nel caso della scienza si tratti di credere, di sentire, di valutare liberamente senza alcuna costrizione cognitiva. La religione ha quindi, poste queste premes-

LA DOMANDA DI DOMANI

Il ritorno del maestro unico nelle scuole primarie: favorevoli o contrari?

se, lo stesso diritto di cittadinanza filosofica nell’ambito delle vicende umane, perchè poggia anch’essa, tanto quanto la scienza, su assunti indimostrabili, non verificabili, e non ripetibili.

Francesco Di Gregorio Ravenna

LA VITA SE NE VA INSIEME AL CERVELLO Non capisco perché si tenti di riaprire capitoli della letteratura medica ormai abbondantemente vergati e consegnati alle prassi scientifiche e al buon senso. La morte cerebrale è indiscutibilmente la fine di tutto, perchè è noto a tutti che una volta giunto a un livello di crisi funzionale, le dinamiche cerebrali che sorreggono la vita di ciascuno, diventano irreversibilmente compromesse. Quando il cervello non è più in grado di reagire alle sollecitazioni, e dunque non riesce più ad assolvere alle mansioni basilari che sagomano il concetto dell’essere in vita, la morte è certa. Mantenere le funzioni respiratorie attraverso apparati esterni, mantenere il ciclo cardiaco attraverso l’artificiale prosecuzione meccanicistica dell’essere in vita, ha senso solo quando le funzioni cerebrali sono tali da non poterne escludere il ripristino. Doloroso e macabro, il pensiero della morte ci tortura, ma assai più pungente e catastrofico è nutrire la speranza e l’illusione oltre quella soglia chiarissima e oscura allo stesso tempo, si possa tornare indietro e destarsi da un sonno che non ha risveglio.

Morena Miccoli Lecce

ABBIATE RISPETTO DI CHI MUORE Il continuo ping pong tra notizie e poisizioni differenti in merito a questioni cos’ delicate come la vita e la morte, non uccide solo chi deve morire, ma anche chi si trova costretto ad accettare che qualcuno sia morto. Sarebbe ora che qualcuno cercasse di mettere a punto una posizione definitiva, perchè tutte queste nozioni astruse e cavillose inghiottono chi assiste i moribondi in un vortice perverso

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

BIPARTITISMO E DEMONIZZAZIONE «È sbagliato criminalizzare Berlusconi». Viene detto ora da tanti che per anni, su questo, invece hanno basato il “senso del consenso” ovvero la legittimazione a governare come risultato appunto di un’azione di delegittimazione. Risolta così però la questione si ripresenterà prima o poi di nuovo, anche se sotto altra veste. La demonizzazione di Berlusconi infatti non è la malattia, ma la febbre. Nel nostro paese la tendenza è da sempre quella di drammatizzare la lotta politica, e la sopravvivenza della propria parte politica significa la morte di quella concorrente. Nel vorticoso cambio di etichette politiche è rimasta comunque immutata una logica di fondo di scontro tra diverse concezioni della società e non c’è un vero e proprio accordo di base di principi di organizzazione della vita sociale. Anche questa, a mio avviso, è una delle ragioni dell’impossibilità del bipartitismo. In questo l’Italia è diversa dal mondo anglosassone e dai Paesi del nord Europa. In questi paesi, oramai da secoli, ogni movimento politico rico-

Veronica Mantovani Rimini

TRADIZIONE IN FUMO Per gli aborigeni australiani ogni occasione importante è buona per fumare. Non è un vizio, ma un rituale dalle origini antichissime: chi partecipa alla “cerimonia del fumo”, elemento purificatore, fa bruciare delle foglie verdi e si cosparge il corpo con la cenere ottenuta

NESSUNA DISCRIMINAZIONE DEI ROM, SOLO PREGIUDIZI Finalmente chi si appellava all’Unione europea minacciando un terremoto del nono grado della scala razziale, dovrà ammettere che si è trattato soltanto di un polverone. La Commissione europea ha detto che le misure adottate dall’Italia per fare fronte all’emergenza dei campi nomadi illegali non sono discriminatorie e rispettano appieno il diritto comunitario. C’è una bella differenza tra un doveroso censimento di chi vive spesso illegalmente sul nostro territorio, e le accuse di rastrellamento. Sarebbe opportuno che adesso i molti che hanno spergiurato sulle iniziative razziste del ministro Maroni chiedesse scusa e ammettesse quanto meno, se non di essere stato in mala fede, di non avere fatto va-

dai circoli liberal

nosce che l’altro è comunque garante e protettore dei principi base essenziali. Invece quando salì Prodi al posto di Berlusconi, non lavorò per migliorare ciò che fece quest’ultimo, ma fu costretto dai suoi a suon di leggi e referendum, ad annullare le riforme faticosamente realizzate. Ora si sarebbe ben più avanti in tema di riforme istituzionali se ciò non fosse avvenuto. È la differenza tra una guerra politica e una sana competizione per un’alternanza di governo che garantisca continuità e cambiamento. La Costituente di Centro a Todi ha denunciato l’idiozia del bipartitismo in Italia. Ma non ci si può limitare a dire come un notaio che storicamente in Italia sono solo 5 o 6 le realtà politiche significative, una volta depurato il sistema dai partitini piccolissimi. E se invece forzatamente fossero solo due, in virtù ad esempio di una legge elettorale, il bipartitismo si potrebbe fare? Si ignora un paradosso di fondo, e cioè che di fatto in questi ultimi 15 anni il bipartitismo è esistito e ha arrecato enormi danni al Paese: la lotta politica è stata

lutazioni esatte o scevre da pregiudizi ideologici. In quale altra maniera, se non attraverso le impronte digitali, avrebbero potuto essere identificate quelle persone che sono del tutto sprovviste di documenti, e che quindi, in termini di doveri quanto diritti, di fatto non esistono? Chi a luglio aveva calvalcato la tigre europea, perchè invelenito contro il Governo pregiudizialmente indecente, e drammaticamente diverso dalla sinistra perchè operativo, faccia ammenda e si cosparga il capo di cenere. Nessuno da la caccia ai bimbi rom nè c’è alcun intento persecutorio. Si vuole, una volta per tutte e contro il buonismo che ha devastato questo Paese, un po’ di ordine.

Gianluca Carbone Viterbo

fatta infatti da due partiti o parti: o eri con Berlusconi o eri contro Berlusconi. Il tentativo di golpe bianco delle ultime elezioni è stata la volontà di consolidare questa innaturale forma di bipartitismo: prova ne sia che è stata voluta dalle due forze principali, e cioè Pd e Berlusconi. Non ha quindi fallito qualcosa di nuovo ma la sua istituzionalizzazione definitiva. L’appello del voto utile ricordava nel subconscio degli elettori più lo scontro tra la sinistra unita e il centrodestra delle prime elezioni repubblicane che una competizione elettorale presidenziale americana o inglese. Questo per una contraddizione, in quanto storicamente è basata su due schieramenti che per anni non hanno riconosciuto all’altra parte la caratteristica di custodia dei principi condivisi di fondo. Impossibilità del bipartitismo e demonizzazione di Berlusconi sono quindi febbri derivanti da un unico ceppo virale: l’immaturità, in quanto a democrazia, del nostro Paese. Leri Pegolo COORDINATORE CIRCOLO LIBERAL PORDENONE


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Le speranze deluse sono inutili Rinette, ho ricevuto le sue parole e ho spedito immediatamente il mio romanzo. Non ho osato aggiungere alcun commento pensando che il lungo ritardo mi avrebbe fatto mal giudicare. E così, imbarazzato a mandare quel piccolo libro, ne ho fatto un piccolo fuoco. Non le ho scritto, è vero, ma perché spero troppo nelle risposte e le speranze deluse sono inutili. Mi perdoni. Non creda che sia perché la dimentico. È proprio il contrario. Non è gentile da parte sua dirmi questo. Non sono andato là pensando che ci sarebbe stata troppa gente. Quando ci vedremo ho un sacco di cose da raccontarle. Se gliele anticipo non è più divertente. Come vede non sono un tipo molto simpatico. Sono buono tutt’al più a pilotare da orso su una qualche linea e il più lontano possibile. Lascio Parigi domani. Ne ho abbastanza di una città che lascia sempre sperare e non dà mai niente. Antoine de Saint-Exupéry all’amica Rinette

LA FALSA CRISTIANOFOBIA La fobia è una paura patologica nei confronti di elementi o situazioni normalmente, più o meno, ricorrenti nella vita quotidiana. Claustrofobia e aracnofobia ne sono gli esempi topici. L’ostentazione della pratica sessuale tra persone dello stesso sesso, o anche di diverso sesso genera riprovazione che gli estremisti gay chiamano erroneamente omofobia e gli esibizionisti vari sessuofobia. Come quei due fallaci termini così anche ”cristianofobia” è errato perché l’odio verso i cristiani non è patologico, ma ideologico e assolutamente fisiologico per un ateo e materialista coerente.

Matteo Maria Martinoli Milano

LETTERE E CLIENTELE Sono del PdL e spesso scrivo ai quotidiani, compresi quelli di sinistra, le mie considerazioni.Vengo gratificato dalla pubblicazione nella pagina lettere, ma Repubblica e l’Unità non le ritengono interessanti per i loro...clienti. Se i relativi lettori non leggono chi vede le cose in modo diverso, come potranno mai essere vicini ai cittadini di

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

5 settembre

idee diverse? Perché i sordi politici pretendono da altri un udito sopraffino?

L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)

WALTER E LA COSTITUZIONE In risposta alla concessione del diritto di voto agli immigrati proposta da Veltroni, il leader del Pd ignora del tutto il preciso ed inequivocabile dettato costituzionale in materia di voto. Sol che Veltroni si fosse riletta, nella prima parte della Costituzione intestata ai ”Diritti e doveri dei cittadini”, la normativa del Titolo IV, dall’art.48 al 54, ”Rapporti politici”, non avrebbe mai commesso la boutade di proposta parlamentare allorchè la nostra Costituzione dice che ”Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”. La proposta sottende forse la modifica della Costituzione e l’equiparazione degli immigrati (regolari) senza cittadinanza a quelli che sono i veri e propri ”cittadini italiani”?

Angelo Simonazzi Poviglio (Re)

1914 - Prima guerra mondiale: Inizia la Prima battaglia della Marna 1918 - In Russia viene istituzionalizzato il terrore rosso con un decreto firmato da Stalin 1948 - Robert Schuman diventa Primo ministro di Francia 1957 - Viene pubblicato per la prima volta il romanzo Sulla strada (On the Road) di Jack Kerouac 1960 - Cassius Clay vince la medaglia d’oro nel pugilato ai Giochi olimpici di Roma 1972 - Monaco, Germania: un commando di terroristi palestinesi irrompe nel villaggio olimpico, uccide due componenti della squadra olimpica israeliana e ne prende in ostaggio altri nove. 1975 - A Sacramento (California), Lynette ”Squeaky” Fromme, una seguace del serial killer Charles Manson, tenta di assassinare il presidente statunitense Gerald Ford

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

ERRATA CORRIGE L’articolo “Anguissola. Un assassino che si spacciò per un tirannicida” pubblicato nell’inserto liberal estate il 27 agosto scorso è uscito con la firma di Virgilio Ilari anziché di Aldo G. Ricci. Ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori.

PUNTURE Il punto non è se la camorra è nel tifo, bensì chi fa il tifo per la camorra

Giancristiano Desiderio

Nulla rende così amabili come il credersi amati PIERRE C. DE CHAMBLAIN DE MARIVAUX

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

SEGUE DALLA PRIMA

Fini, chi è costui? Silvio e An lo scaricano di Franco Insardà Posizioni ferme sull’argomento anche dal ministro per le Politiche Agricole, Luca Zaia, che ha dichiarato: «Sono assolutamente contrario al voto amministrativo per gli immigrati. Con gli immigrati bisogna parlare di lavoro, di rispetto delle leggi e sicuramente non di voto. Questa è una posizione mia personale. Oggi abbiamo altre priorità che parlare di voto agli immigrati». Quella di Gianfranco Fini è una vicenda davvero singolare. Con Silvio Berlusconi il rapporto non è stato sempre semplice. Quando il Cavaliere, dal predellino in piazza San Babila, lancio il Popolo della libertà Fini non fu d’accordo e lo scrisse in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera. Poi cambiò idea e accettò a nome del suo partito di aderire al progetto del Pdl, rinunciando anche al simbolo. La sua nomina a presidente della Camera fu vista come il tentativo di Berlusconi di eliminare uno dei protagonisti della scena politica, dopo l’allontanamento di Pier Ferdinando Casini e dell’Udc dal centrodestra. Ieri Fini ha avuto un altro segnale forte. Berlusconi ha precisato la posizione anche per non allarmare la Lega. Ovviamente la bagarre politica era inevitabile. Piero Fassino, ministro degli Esteri del governo ombra del Pd ha sottolineato: «Il modo arrogante con cui Berlusconi ha liquidato la disponibilità di Fini a ragionare sul diritto

di voto amministrativo per i cittadini immigrati, è la più chiara conferma di quanto l’obiettivo della fusione in un unico partito di An e Forza Italia sia minato da profonde contraddizioni e, peraltro, conferma quanto Berlusconi sia prigioniero dei settori più chiusi e oltranzisti della Lega». E il responsabile della comunicadell’Udc, zione Francesco Pionati ha aggiunto: «La maggioranza è divisa da una ”polemica razzista. Un immigrato che lavora regolarmente, paga le tasse e rispetta le nostre leggi ha diritto dopo 5 anni a votare alle amministrative e non alle politiche. Questa era, e resta, la proposta dell’Udc, una proposta di buon senso che ricalca quel che avviene in tutti i paesi civili del mondo.Tutto il resto è polemica che divide la maggioranza di centrodestra. Il partito sarà anche unico, ma le opinioni sono diverse». La Russa ha poi tentato di minimizzare sull’accaduto: «Nessuno tenti di speculare. Non c’è nessun contrasto tra la posizione del Pdl e le dichiarazioni di Gianfranco Fini sul voto degli immigrati regolari. Fini parlando da presidente della Camera ha detto quello che molti esponenti del Pdl hanno detto nei giorni scorsi, e cioè se in linea di principio non è scandaloso immaginare in futuro che un immigrato che lavora da anni e non ha mai commesso reati abbia il diritto di voto».

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PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina da Venezia. Proiettato in concorso l’atteso film di Kathryn Bigelow

Al Lido sbarca il cinema sulla guerra in di Alessandro Boschi ella di The Hurt Locker è una Kathryn Bigelow che non ti aspetti: è il ritratto di una unità speciale che, in Iraq, si occupa di disarmare bombe durante le azioni di guerra. È una Bigelow che non ti aspetti perché la regista ci ha da sempre abituato a film intensi senza mai tralasciare anche l’aspetto più spettacolare della messainscena (anche se il nostro preferito resta Il buio si avvicina, declinazione minimalista e contemporanea del genere vampiresco). Aspetto spettacolare che qui viene relegato in secondo piano nonostante l’argomento trattato lasciasse ampio spazio alla realizzazione di scene di forte impatto. Qui viene invece fatta una scelta diversa. Innanzitutto va chiarito che questo film non ha nessun intento pedagogico né vuole spiegare la guerra da un qualsiasi punto di vista. Al contrario di Brian De Palma, che con il suo Redacted aveva realizzato una pellicola a tesi la cui freddezza conferiva al risultato finale una forza spaventosa scaturita proprio dall’impatto emotivo che emanava dalla materia trattata, la regista statunitense cerca di mostrarci i meccanismi che spingono questi soldati, sempre dei volontari, a rischiare in continuazione la propria vita.

Q

La guerra come droga, come suggerisce il film stesso, è in realtà una spiegazione che non spiega, nel senso che ogni soldato finisce con il filtrare tutto con il proprio vissuto. Anche per questo non c’è nessuna scelta ideologica nella pellicola. Come abbiamo già detto la chiave di lettura dei film statunitensi sta spesso tutta nel loro realismo, nel loro tentativo non sempre riuscito di mostrarci le cose come sono, senza suggerire interpretazioni. E la Bigelow è brava nel darci la sensazione che tutto ciò che vedia-

IRAQ

mo, che qualsiasi circostanza che riguardi la guerra è da condannare senza nessuna eccezione. Quelle che vediamo sono tutte vittime, a volte indistinguibili, perché indistinguibile è il dolore che provocano. Parafrasando Don Chi-

tici ci hanno visto potrei considerarmi un genio». Il che significa che quello del critico è un mestiere (?) disgraziato e sottoposto a mille intemperie. Però è un fatto che a volte il dettaglio, il particolare, si presta a interpretazioni opinabili e ognuno può dire la propria senza tema di smentita da parte del regista, Michelangelo Antonioni a parte. Ad esempio su Yuppi Du, interpretato e diretto da Adriano Celentano e presente al Lido in una copia restaurata dallo stesso Clan, è stato detto che è un film, anche, sugli incidenti sul lavoro. Ora, non so se ve lo ricordate il film, ma la scena che dà adito a questa interpretazione è quella che si svolge al porto in cui una cassa casca sopra un operaio amico di Felice Della Pietà, alias Adriano Celentano. Che in effetti muore, anche se tutto sembra più vicino ai cartoni animati che alla realtà. Allora pure La finestra sul cortile è un film sugli incidenti sul lavoro? Insomma, la lettura sociale appare piuttosto forzata, suggerita plausibilmente dal contesto attuale. Però, a questo punto, tutto è lecito. Come dire che Profondo rosso è una storia di ascensori fuori norma e Il Signore degli anelli una barzelletta sui nani. E che magari noi stiamo scrivendo di cinema.

Droga, violenza e cattivi sentimenti: quella della popolare regista è un’opera «sporca» che affronta realisticamente situazioni estreme. Ma senza denunce antimilitariste. Come nella tradizione hollywoodiana sciotte potremmo dire «ognuno se la veda con il proprio dolore». È il dramma interiore che interessa la regista, tanto e forse più dell’incarnazione storica in cui si realizza. La paura diventa la compagna di questi uomini, che con lei parlano e da lei ricevono la forza “chiarificatrice” che impone loro le giuste precedenze. Il risultato è una nuova forma di eroe, che scaturisce dalla quotidianità del morire, dalla banalità stessa del rischio che diventa routine. The Hurt Locker è un film “sporco” così come Retacted era impeccabile, due facce della stessa terribile medaglia. Ma sicuramente non due film contrapposti.

Sulle cose che si vedono nei film e invece nei film non ci sono si potrebbero scrivere libri. Come diceva Michelangelo Antonioni, frase che citiamo ad ogni pie’ sospinto, «se avessi messo nei miei film la metà di quello che i cri-


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