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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Oggi il supplemento

MOBYDICK SEDICI PAGINE DI ARTI he E CULTURA cronac

Il discorso del Papa agli intellettuali su fede e laicità

di

La cultura dell’Europa e la sua libertà sono nate dalla ricerca di Dio

di Ferdinando Adornato

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orrei parlarvi delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo e in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto? Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato.

V

9 771827 881004

ISSN 1827-8817

di Benedetto XVI

Pasticcio di Stato Ma non era meglio Ma non era meglio vendere ad Air France?

Doveva essere il fiore all’occhiello dei primi cento giorni del governo. Invece, rotta la trattativa con i sindacati, nel futuro di Alitalia c’è solo il fallimento. E i costi li pagheranno i cittadini. alle pagine 2 e 3

segue a pagina 8

La resistibile ascesa di Bossi Jr.

Tensione con gli Stati Uniti

L’Italia è una monarchia ereditaria?

In America latina comincia la guerra degli ambasciatori

di Giancristiano Desiderio

di Benedetta Buttiglione Salazar

di Franco Insardà

È stato Silvio Berlusconi a chiamare il figlio di Umberto Bossi, Renzo, nella stanza dei bottoni. Siamo diventati un paese nel quale il potere si trasmette per via ereditaria?

Ha cominciato il presidente venezuelano Chavez che ha espulso l’ambasciatore Usa. Ha continuato il boliviano Evo Morales che ha accusato gli Usa. Ormai è guerra diplomatica.

«Da parte le faziosità, ricominciamo daccapo: ci vuole una revisione organica di tutto il sistema». Alla Festa dell’Udc a Chianciano, sia De Mita e Adornato che D’Alema e Fioroni lanciano l’allarme.

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SABATO 13

SETTEMBRE

2008 • EURO 1,00 (10,00

L’allarme sulla degenerazione del sistema

Spiritualmente siamo tutti semiti

Dal meeting di Chianciano: democrazia senza partiti?

L’abbraccio del pontefice agli ebrei di Vincenzo Faccioli Pintozzi Incontrando la comunità ebraica di Francia, il Papa ha ricordato che non vi è giustificazione alla persecuzione.

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pagina 4 CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

175 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 13 settembre 2008

La trattativa per la nuova Alitalia è saltata, adesso nel futuro ci sono solo licenziamenti e ridimensionamento

Il caos dopo il fallimento Tabacci: «Un governo debole ha permesso alle banche di curare solo i propri interessi. E ora pagano i cittadini» colloquio con Bruno Tabacci di Susanna Turco

CHIANCIANO TERME (SIENA). «I banchieri hanno ripreso la loro marcia verso il potere con truculenza». Quando, verso la metà del suo discorso, Bruno Tabacci tira in ballo il sancta sanctorum del potere bancario italiano, la platea della festa uddiccina, per la verità un po’ affaticata da un lungo dibattito sulle liberalizzazioni proprio in mezzo all’ora di pranzo, ha un sussulto. «Proprio truculenza?», sembra chiedere. «Sì, truculenza», ribadisce il deputato centrista. «Non dico cose lievi e me ne assumo la responsabilità. E vediamo se i giornali, che sono in gran parte controllati dalle banche, lo scriveranno. Passera e Geronzi operano sul potere come se fossero dei tritasassi. Mi sembrano un po’ scostumati». E giù a spiegare del ruolo multitasking di Corrado Passera in Alitalia, che «pensa di essere il ministro dei Trasporti e pretende di decidere come debbano andare le trattative», ma anche quello di Geronzi, che «sul cambio della governance di Mediobanca e dell’assetto duale ha aperto le ostilità per mettere le mani su Generali». A quel punto la platea si spella le mani. Così, alla fine,Tabacci mette nomi e cognomi a quello che ha indicato come il problema di fondo del nostro Paese: «Si è rotto un equilibrato rapporto tra diritti e doveri. I diritti rasentano le pretese, i doveri si dissolvono via via nell’abbandono, e l’Italia non cresce», dice. E ha in mente non solo i banchieri, ma anche i sindacati, la cordata dei «capitani coraggiosi»,Tremonti e, naturalmente, il «marchese del Grillo» Silvio Berlusconi, che «non governa, regna dentro una logica da monarchia assoluta», «tratta la democrazia come se fosse una società per azioni» e quando è alle strette «alza il cedolino azionario e dice: “Io so’io, e voi…”». Ma è proprio sicuro di voler definire Passera un tritasassi? Basta vedere come ha interpretato il ruolo di advisor: ha fatto l’arbitro, il calciatore, ha tracciato le linee del campo, ha stabilito quel che era valido e quel che non lo era, ha fatto goal. Insomma, ha fatto come il bambino che porta il pallone. Che di soli-

to è anche il più ricco. Descrive un sistema nel quale il potere bancario sovrasta quello politico. Non sono un no-

stalgico dei tempi in cui le banche erano sottoposte alla politica. Però penso che dovrebbero stare al lato. Invece siamo in un sistema bancocentrico. I denari sono nelle loro mani. E costruiscono queste cordate, con le quali anche con un piccolo nucleo di riferimento sono in grado di fare cose notevoli. Prendiamo Geronzi. Prendiamolo. Non è un manager, né un azionista: è la quintessenza della politica politicante nell’ambito del potere economico. Lui mette insieme gli azionisti, li rappresenta e tratta con i manager da una posizione di forza. Intanto, rispondendo al commissario di Alitalia Fantozzi, Benedetto XVI ha assicurato che da tempo prega per loro. Andiamo bene, si confida nelle preghiere del Papa. Intendiamoci, le preghiere servono. Ma chi governa il Paese dovrebbe gestire le cose con serietà. E non l’ha fatto? Oggi paghiamo il conto della

campagna elettorale di Berlusconi, ed è inaccettabile che ci dica che sta salvando Alitalia. Peraltro la cordata di cui si parlava allora era immaginata come alternativa ad Air France, ora invece gli si è costruita una torta ad personam. Le sue perplessità sono note. Ma, come dice Tremonti, un altro acquirente non c’è. Altre offerte non ci sono perché Tremonti non le ha favorite. C’è un’offerta unica, fatta dal finto arbitro. Mentre lei dice che la politica è governata dalle banche, Angeletti sostiene che da Alitalia deve fare un “passo indietro” perché ha già fatto troppi danni. È Angeletti a dover indietreggiare: i sindacati hanno fatto troppe parti in commedia, anche loro sono responsabili del fallimento di Alitalia: e oggi raccolgono quel che hanno seminato. Intanto, il Cai dice che non ci sono condizioni per trattare. Ecco: i capitani non sono più coraggiosi. La vogliono tutta spia-

Altre offerte per la nostra compagnia di bandiera non ce ne sono perché Tremonti non le ha favorite. C’è un’offerta unica, fatta dal finto arbitro. Ma anche i sindacati sono responsabili di questo disastro

nata la strada, vogliono fare il capital gain senza nemmeno rimetterci i soldi. È convinto che venderanno ad Air France? Certo, ai francesi o ai tedeschi, cambia poco. Una azienda regionale come quella che si sta profilando avrà bisogno di in-

ROMA. «Quello del commis-

Per la Cai si apre la prospettiva di comprare senza più vincoli sindacali

sario è un percorso inesorabile che si è messo in moto, e la mia non è una minaccia ma un richiamo ai suoi doveri rispetto alla legge». Nella frase pronunciata ieri in conferenza stampa da Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, ci sono i prodromi di un futuro, quello di Alitalia, che, a meno di improbabili colpi di scena dell’ultimo minuto, si delineerà nei prossimi giorni. A meno che non si realizzi quanto auspicato ieri da Raffaele Bonanni: «Il governo usi l’elasticità propria della politica».

Così Fantozzi è libero di licenziare

Anche se, a sorpresa, è Luigi Angeletti a frenare sull’ipotesi: «Non chiederò nulla al governo». Un porta-

di Alessandro D’Amato voce di Cai ha affermato che «nessun rappresentante parteciperà agli incontri previsti sulla vicenda alitalia considerato, che come già spiegato in precedenza, dopo sette giorni di incontri, non esistono le condizioni per proseguire le trattative stesse». Ma, anche se è stata interrotta la due diligence, l’offerta per rilevare una parte della compagnia non è stata comunque ritirata. Solo che a questo punto dovrà cercare di incontrarsi con tutti gli adempimenti che attendono Augusto Fantozzi. Il quale

ha già precisato, in una lettera dura al Corriere della sera, «che il rispetto dei principi di trasparenza, previsti dalla legge per ogni atto della procedura non può essere inteso nel senso di imporre l’espletamento di formalità - dalla stessa legge espressamente derogate - che sarebbero incompatibili con lo stato della Compagnia, il buon esito della procedura e con il conseguimento degli interessi pubblici che la legge è volta a tutelare». Lunedì, quindi, Fantozzi compierà gli atti necessari per av-

viare le procedure sulla mobilità e sulla disdetta dei contratti. Il che vuol dire un preavviso di licenziamento per i dipendenti e quello di fallimento per la compagnia. Anche se «la vicenda è troppo al di là delle norme giuridiche per poter dare un’interpretazione chiara», dichiarano i giuristi: l’amministrazione straordinaria sta anche nel nuovo decreto Marzano, il commissario quindi è nel pieno diritto di fare quello per cui è stato preposto. Ovvero, vendere pezzi della compagnia in trattativa privata al mi-


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La mossa a sorpresa dei sindacati spiazza il governo

E dal cilindro dei piloti esce il nuovo compratore di Vincenzo Bacarani

ROMA. Arrivati a questo punto, passi pure lo straniero. Piloti e assistenti di volo Alitalia ieri pomeriggio erano sull’orlo di una crisi di nervi dopo l’interruzione della trattativa con Cai (Compagnia aerea italiana). La nuova società ha deciso di non presentarsi agli incontri e le cinque sigle autonome (Anpac, Unione piloti, Avia, Anpav e Sdl) si sono riunite per concordare una strategia comune da sottoporre poi anche all’esame dei confederali Cgil, Cisl, Uil e Ugl con i quali gli autonomi non vogliono rompere. Si è parlato di tutto, nel corso dell’assemblea, anche della possibilità di invitare a scendere in campo una grande compagnia straniera (Lufhtansa o British?) e un’azienda costruttrice di aeromobili, in alternativa alla cordata italiana. Due soggetti di primo piano nel panorama internazionale dell’aviazione civile che si sarebbero detti già disponibili. «E sarebbe un’offerta – ha rivelato un rappresentante sindacale – che il commissario Augusto Fantozzi potrebbe non rifiutare».

serirsi in un grande gruppo. Il governo gli ha fatto il lavoro sporco, mettendo i debiti di Alitalia nelle tasche dei contribuenti e lasciandogli l’asset produttivo: in quattro-cinque anni faranno un capital gain clamoroso. Questa è una cosa che il signor Berlusconi ci pote-

va anche evitare. Non sono per beatificare il mercato, ma farsene un baffo perché tanto paga Pantalone non va bene. Dicono: ma lui ha il 63 per cento dei consensi. Bene: sono in minoranza, ne prendo atto. Ma, devo dire, capisco perché l’Italia non cresca.

glior offerente, fino all’esaurimento. Poi, pagare i creditori e chiudere ogni tipo di contenzioso di tipo legale.

cordo Marco Ponti, professore di economia dei trasporti al Politecnico di Milano: «Non sono così convinto che convenga alla Cai, perché altrimenti credo che non possano usufruire della legge Marzano geneticamente modificata pochi giorni fa. E questo non gli converrebbe, perché rientrerebbero in gioco i creditori privilegiati e non si potrebbe vendere a trattativa privata». E, quindi, cosa succederà? «Che cosa vuole che succeda? Il governo non può permettersi di perdere la faccia dopo essersi impegnato così solennemente in campagna elettorale. Quindi troveranno una soluzione di compromesso, l’ennesima. E a pagare saremo noi cittadini».

C’è anche da dire che una simile situazione, secondo alcuni, “conviene” anche alla Cai. Perché pure senza l’accordo con i sindacati, la procedura può andare avanti lo stesso. E la cordata può impegnarsi all’acquisto degli asset “buoni”di Alitalia senza prima dover firmare un accordo per prendersi i lavoratori. «Certo però – ci dice una fonte vicina alla trattativa – che bisognerà tenere conto della piazza: i dipendenti faranno sentire più forte possibile la propria voce. Insomma, da industriale il problema adesso diventerà squisitamente politico». Non è d’ac-

Si è anche parlato di un intervento concreto da parte di alcune categorie di lavoratori. Piloti e assistenti di volo si dicono disposti a investire, a formare una sorta di piccolo azionariato nella nuova compagnia. «Ci stiamo impegnando con tutte le nostre forze – dice il comandante Massimo Notaro, presidente dell’Unione piloti –. E siamo anche disposti a firmare un contratto che preveda la diminuzione di un quarto dello stipendio che percepiscono i piloti di Air France e Lufthansa. Anche perché con queste compagnie dovremo poi in futuro stringere una sorta di alleanza». Più cauto sulle prospettive future il comandante Fabio Berti, presidente dell’Anpac: «Attendiamo, non possiamo fare altro che attendere». Ma è vera la cifra di mille piloti in esubero? «Purtroppo sì, Dimezzare i piloti (ora sono circa 2100, ndr) vuole dire dimezzare i collegamenti, vuole dire avere una flotta ridotta. Sia ben chiaro che stavolta noi non abbiamo detto no a nessuno. È la Cai che si è alzata e se ne è andata». Insomma, dopo aver visto le“carte”del piano Fenice, lo straniero non sembra più così cattivo. Dice Antonio Di Vietri, presidente dell’Avia, l’associazione degli assistenti di volo: «La nostra organizzazione ha sempre detto che il piano di Air France era sul momento l’unica ipotesi percorribile, da cogliere al volo. Oggi siamo arrivati a questo punto. E speriamo che non sia un punto di non ritorno». E ora? «E ora facciamo tutti un passo indietro, anzi due. Al momento non abbiamo nessuna cordata pronta in alternativa. Auspichiamo che ci sia da parte di tutte le sigle sindacali una posizione ufficiale condivisa». Per Di Vietri, è importante che si tenga conto di un aspetto: «La nostra disponibilità – spiega - è completa. Di fronte a un piano organico e serio il sindacato darà la sua massima disponibilità».

Nel frattempo i ministri Maurizio Sacconi (Welfare) e Altero Matteoli (Infrastrutture e Trasporti), dopo un incontro con i rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, hanno comunicato di aver accolto la richiesta dei sindacati per un intervento fattivo del governo affinché la situazione non precipiti con atti irreversibili del Commissario o della Cai, al fine di dare tempo a tutte le organizzazioni rappresentative dei lavoratori di Alitalia di formulare una eventuale proposta comune. «Solo una posizione comune dei sindacati potrebbe sbloccare la situazione», ha detto Sacconi. Da parte loro, però, i confederali chiedono un più tempestivo impegno dell’esecutivo. Spiega

Sul tavolo della trattativa spunta una cordata internazionale segreta. Stando alle voci, farebbe capo o a British o a Lufthansa. E i dipendenti si dicono perfino disposti a un’autoriduzione del proprio stipendio Roberto Panella, responsabile di Ugl Trasporti: «Questo governo ha costruito un vestito su misura per questa nuova compagnia. E allora si impegni di più. La posizione della Cai è dura, non è stato fatto nessun passo in avanti. Ora deve intervenire il governo. Non vorrei che questa presa di posizione della nuova compagnia fosse indirizzata per portare Alitalia direttamente al fallimento».

Un invito a mantenere la calma giunge dal rappresentante della Fit-Cisl, Claudio Claudiani: «A questo punto – dice – non bisogna più tirare la corda. Siamo di fronte a un quadro devastante. Ci aspettiamo che adesso il governo prenda in mano la situazione e costruisca una proposta che possa mettere d’accordo le controparti». Situazione tutta da definire. Incontri formali e informali sono previsti anche nel corso della notte tra governo e sindacati. Ma le cifre presentate dalla nuova compagnia sono comunque molto allarmanti perché i 3250 esuberi annunciati nei giorni scorsi sono già diventati 5 mila e, se non si ricollocano lavoratori di altri settori, potrebbero arrivare anche a settemila.


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festa Udc

Al meeting di Chianciano sia De Mita e Adornato che D’Alema e Fioroni lanciano un allarme sulla degenerazione italiana

Democrazia senza partiti? «Da parte le faziosità, ricominciamo daccapo: ci vuole una revisione organica di tutto il sistema» di Franco Insardà

CHIANCIANO TERME (SIENA). La battaglia sulle preferenze che l’Udc ha lanciato questa estate ieri ha avuto una vera e propria accelerazione. Dal palco della Festa dell’Udc Calogero Mannino, Michele Vietti, Ciriaco De Mita, Massimo D’Alema, Fabrizio Cicchitto, Giuseppe Fioroni, Piero Alberto Capotosti e Ferdinando Adornato ne hanno discusso e si sono confrontati. E da Chianciano il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha accettato il guanto di sfida lanciato ieri da dal presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, che incalzava i centristi ad accettare una soglia di sbarramento per la legge elettorale europea ancora più alta del 5 per cento, fissandola al 7 per cento.

cuperare la democrazia». E Massimo D’Alema, riscuotendo i consensi di un pubblico attento e numeroso, proveniente da tutt’Italia con una forte presenza di calabresi, ha detto: «La proposta del Popolo della libertà per la legge elettorale europea è la goccia che fa traboccare il vaso e la chiusura del cerchio. È la definitiva spoliazione dei cittadini dalla possibilità di scegliere e l’affidamento a ristrettissime oligarchie del controllo dei rappresentanti. È un presidenzialismo di fatto». E sulla proposta dell’Udc l’ex ministro degli Esteri, tra gli

bertà. Il Parlamento deve essere un luogo di confronto libero tra gruppi, non un cda di una società per azioni con quote di maggioranza». Fabrizio Cicchitto ha difeso la posizione della maggioranza ricordando che altri Paesi europei come la Francia, la Germania, la Spagna, il Regno Unito e la Polonia non hanno le preferenze.

Ma De Mita lo ha subito rintuzzato: «Lì i candidati, però, vengono scelti con elezioni che si svolgono nei congressi dei partiti. Così il principio democratico è salvo. Dalla crisi della prima Repubblica abbiamo inventato una nuova legge elettorale e le coalizioni erano funzionali alla vittoria. La politica, però, non deve abbandonarsi agli umori della piazza. I sondaggi sono come le lastre, occorre un buon medico che le sappia interpretare. Noi siamo per il sistema tedesco, non come fatto tecnico, ma per una scelta politica: il bipartitismo non funziona, è estraneo alla storia del nostro Paese ». E Ferdinando Adornato ha posto degli interrogativi: «Può esistere una democrazia senza partiti? In Italia esistono ancora i partiti? C’è un processo, purtroppo, che sta portando alla scomparsa dei partiti e che

Fioroni: «Quando si toglie al cittadino il diritto di scegliere, chi viene scelto risponderà non a chi lo ha eletto, ma a chi lo ha scelto»

«L’Udc accetta la sfida – ha replicato Pier Ferdinando Casini - mettiamo la soglia di sbarramento al 7 per cento, ma come noi accettiamo questa soglia chiediamo al Popolo della libertà di essere d’accordo con noi perché restino le preferenze: sì al 7 per cento e sì alle preferenze». Calogero Mannino ha espresso chiaramente la posizione dell’Unione di Centro: «Siamo di fronte a una deriva populistica. I partiti hanno rinunciato alla rappresentanza, il popolo deve re-

applausi, ha annunciato: «Tutti coloro che credono come me nel modello tedesco devono dare battaglia, perché occorre restituire centralità alla scelta degli elettori che invece, attualmente, dovrebbero districarsi tra le opzioni e le preferenze di parlamentari essenzialmente nominati dai segretari di partito».

Il presidente Capotosti ha evidenziato come la scelta di un sistema elettorale senza preferenze: «Non assicura agli eletti e al Parlamento la massima li-

La proposta: un’iniziativa comune

Cacciari e Chiamparino ai centristi: «A colpi di spot ci rubano la sicurezza» di Errico Novi

non è riuscita a cambiare le istituzione, i partiti, la giustizia e l’unità d’Italia. Siamo al leaderismo senza partiti». Giuseppe Fioroni è ritornato sul concetto: «Quando si toglie al cittadino – ha detto – il diritto di scegliere, chi viene scelto ri-

CHIANCIANO TERME (SIENA). Vannino sere l’appuntamento della festa per preChiti si preoccupa della forma: «Noi non possiamo fare come la maggioranza, che affronta i nodi della sicurezza a colpi di propaganda. Schiera i soldati per le strade e poi taglia di 3-4 milioni i fondi per assumere poliziotti». Massimo Cacciari spiega che non si tratta di buona educazione, ma di drammatica sostanza: «Loro fanno spot che funzionano, e intanto lasciano i sindaci a secco. Irretiscono la gente e poi ci costringono ad abbassare dell’uno per cento le spese di personale. Il che significa non poter assumere altri vigili. Hanno giocato con questi equivoci tutti gli ultimi governi, nono solo l’attuale. Quando si parla del potere dei sindaci mi viene voglia di mettere mano alla pistola». Il sindaco di Venezia è una furia. E piace alla platea di Chianciano, alla gente dell’Udc che non vuole enunciazioni in politichese ma risposte credibili. E così si capovolge tutto. «Legalità e accoglienza: un’altra idea di sicurezza» dovrebbe es-

sentare soluzioni alternative a quelle offerte dall’esecutivo in questi primi quattro mesi. La franchezza di Cacciari e di Sergio Chiamparino rigira il discorso e affronta il vero pericolo: grazie all’illusionismo mediatico la maggioranza può permettersi di risparmiare, forse è il caso che anche l’opposizione metta in campo qualche spot altrimenti toglieranno soldi anche per le fondine degli agenti. Siamo tutti ingannati, spiega il sindacoprofessore, ma a volte è una colpa anche non saper rispondere agli inganni. «Vi faccio l’esempio del villaggio per i sinti che il mio Comune ha individuato a Mestre. Doveva essere realizzato con fondi dello Stato che non sono mai arrivati, se ne parlava già a fine anni Novanta. Siamo stati costretti a finanziare a livello locale un progetto già approvato, e perciò i cittadini si sono comprensibilmente incazzati. Non solo copriamo le falle ma incassiamo anche l’impopolarità». È un gioco sadico. «Vorremmo destinare risor-


festa Udc

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L’Assemblea raccoglie il suggerimento di Casini IL PROGRAMMA DI OGGI E DI DOMANI ••• Appuntamento centrale della giornata di oggi sarà l’intervista al leader Udc Pier Ferdinando Casini da parte di Enrico Mentana: ore 17.30, Area Bruco. Al mattino, alle 9.30 nell’Area Bianca, incontro con i segretari comunali, provinciali e regionali dell’Udc. Alle 10 in Area Bruco si parlerà delle sfide rappresentate dall’istruzione. Intervengono il ministro Maria Stella Gelmini e la collega ombra del Pd, Mariapia Garavaglia, concluderà Beniamino Borcca dell’Udc. Alle 11,30 nell’Area Bianca, la festa prosegue con un dibattito sull’energia. Intervengono il sottosegretario allo Sviluppo Economico Alfredo Urso, Ermete Realacci, ministro ombra del Pd e, tra gli altri, Aldo Forte, responsabile energia per l’Udc. Alle 16 nell’Area Bruco, il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta e il deputato Udc Bruno Tabacci affornteranno la questione nodale dell’ammodernamento dello Stato. La giornata conclusiva di domenica sarà scandita tre appuntamenti: la Santa Messa (ore 9), il dibattito su una nuova politica fiscale a favore delle famiglie (ore 10, Area Bruco) e l’intervista conclusiva a Lorenzo Cesa, segretario nazionale Udc (ore 11.30, Area Bruco) •••

sponderà non a chi lo ha eletto, ma a chi lo ha scelto». Fabrizio Cicchitto nella sua replica ha laconicamente concluso: «Ritengo che sulle preferenze c’è un evidente dissenso tra noi del Pdl e gli altri». Gli altri, invece ha chiaramente espresso l’e-

se all’integrazione, all’installazione delle telecamere, ma da Roma non ci viene mai consentito di tenere fuori questi soldi dal patto di stabilità interno. E come facciamo? Abbiamo bisogno di risorse e non di poteri che esistono solo sulla carta». Ancora giù applausi. E l’inganno continua. Chiede ancora Chiti ai sindaci suoi compagni di partito: «È vero che con il nuovo pacchetto approvato da questo governo il vecchio patto per la sicurezza siglato da Prodi e Amato con i Comuni è venuto meno?». Certo che sì, risponde il torinese Chiamparino: «I soldi li abbiamo messi noi: 6 milioni la mia amministrazione, 2 la Regione Piemonte e un milione la Provincia. Siamo riusciti a piazzare telecamere nei punti più critici, a sostituire gazzelle e pantere con qualche Alfa 159. Da Roma erano attese 200 nuove unità tra poliziotti, carabinieri e finanzieri. Ne è arrivata la metà, che è servita a stento a rimpiazzare quelli andati in pensione». Ma il vero dramma, dice Chiamparino,

sigenza di mettere da parte la faziosità, di ricominciare a dialogare per riformare il sistema. La battaglia è soltanto iniziata, ma a Chianciano sono iniziate le prove tecniche di una nuova coalizione democratica in stile tedesco.

si compirà se e quando enterà in vigore il federalismo fiscale appena battezzato dal Consiglio dei ministri: «I Comuni sono gli unici che non sanno di che morte moriranno. Ci è stata sottratta l’Ici, che era la risorsa principale. Non sono previste alternative, ci dicono che potremo sommare tasse e tariffe rimanenti in un’unica imposta. E cosa cambia? E’ il gioco delle tre carte, una presa in giro». Come resistere? Con proposte forti e credibili che, dice il sindaco di Torino, «Udc e Pd doverebbero presentare insieme, altrimenti saremo travolti dall’illusione mediatica del governo. Diamoci una svegliata, perché loro sono bravi». Tanto da dare l’impressione che la sicurezza sia cresciuta nonostante tagli a carabinieri e poliziotti. Come può andare a finire? Lo dice Tassone dopo avere ascoltato l’analisi degli ospiti pd: «O la politica si riappropria veramente della sicurezza o, ve lo dice un calabrese, saranno altre forze, altri poteri che avranno la meglio».

Presto il congresso dei giovani Udc CHIANCIANO TERME (SIENA). «Alle amministrative di aprile mi auguro di vedervi tutti eletti. Abbiamo bisogno di voi per tutte le battaglie che dobbiamo affrontare. Vedere tanti giovani è uno stimolo per ognuno di noi». Il segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha voluto testimoniare con la sua presenza all’Assemblea nazionale dei giovani di ieri l’interesse che il partito ha per il suo movimento giovanile. Le parole di Benedetto XVI sull’impegno a far nascere in politica una nuova generazione è stato il filo conduttore dell’intervento del segretario. «Il messaggio del Papa deve essere un richiamo a ogni cristiano - ha detto Cesa - una vera e propria presa di coscienza per difendere i valori cristiani. La politica è l’essenza della società, nelle amministrazioni locali si decide della vita dei cittadini, la difesa della famiglia si fa nei comuni e i giovani sono essenziali per raggiungere questo obiettivo». Cesa ha annunciato alla foltissima platea di giovani Udc, tra i quali molti rappresentati dei circoli liberal di Umbria, Toscana e Campania, che il 28 novembre ci sarà un incontro a Loreto con mille esponenti del mondo cattolico e nei prossimi mesi saranno organizzati dei corsi di formazione sulla Dottrina sociale della Chiesa e sull’amministrazione locale. «I giovani dell’Udc devono farsi trovare pronti - ha concluso Cesa - all’appuntamento elettorale, ma prima devono celebrare il congresso». E il messaggio di Lorenzo Cesa è stato subito recepito dai giovani che per tre ore hanno discusso, si sono confrontati e hanno raccontato le loro esperienze nelle regioni. Un movimento giovanile con 50mila iscritti che rappresentano circa il 20 per cento del partito, ma che è da troppo tempo commissariato. A reggere le sorti del movimento ci sono sei commissari nazionali (Filippo Cirolli della Sicilia, Massimiliano Tovo della Liguria, Vittorio Sepe della Campania, Marco Regni dell’Umbria, Piersante Morandini del Lazio e Giuseppe Delfino del Piemonte). Da luglio c’è anche il responsabile nazionale delle politiche giovanili, Matteo Tarolli che ha sottolineato: «Il mio compito è quello di gestire la transizione del movimento giovanile con il massimo coinvolgimento e la formazione della nuova classe dirigente». Molti dei partecipanti all’Assemblea pur apprezzando il lavoro svolto dai commissari nazionali hanno evidenziato l’esigenza di avere dei riferimenti nazionali e un invito a rappresentare il nuovo e a non appiattirsi sulle posizioni del partito: «Il movimento giovanile - ha detto Gio-

vanni D’Antonio, commissario regionale della Campania - dovrebbe essere portatore di idee e di nuovi progetti». Molti hanno anche lamentato l’inesperienza amministrativa: «Sono assessore comunale di Sutri, in provincia di Viterbo - ha detto Felice Casini, commissario regionale del Lazio - ma pago lo scotto della mia poca competenza». Altri si sono soffermati invece sulla loro identità e sulla differenza con i movimenti giovanili degli altri partiti. «Non dobbiamo farci prendere dalla paura - ha detto il siciliano Marco Emanuele - i giovani di Pd e Pdl sono alla ricerca di un’omogeneità, noi abbiamo una nostra identità che va difesa». Maria Provvidenza Silvano di Ascoli, una delle poche segretarie elette, ha voluto rendere partecipe l’Assemblea della difficile situazione delle Marche, ma ha avuto rassicurazioni da parte di Matteo Taralli e degli altri commissari. I tanti commissari regionali che si sono avvicendati hanno posto l’accento anche su un’altra questione: quella del rinnovo generazionale. Tutti hanno auspicato di non ritrovarsi ancora alla guida del movimento giovanile, ma che ci siano altri giovani, attivi sul territorio, pronti a impegnarsi. «Il nostro è un lavoro faticoso - ha detto Stefano Barone, commissario romano e uno dei leader di Unicentro, l’organizzazione che raccoglie gli universitari di centristi, diventata una realtà negli atenei italiani - ma non sono ancora riuscito a trovare ragazzi disposti a sostituirmi». La Costituente di Centro è stato un altro argomento che sta molto a cuore ai giovani. Per Sergio Adamo di Bari: «Dobbiamo farci trovare pronti a questo appuntamento aggregando le tante realtà giovanili presenti: dal movimento della Liberats, ai circoli liberal, ai Papaboys. In questo modo potremo incidere anche sulle decisioni del partito». Al vicepresidente dell’Anci, Fabio Di Lorenzi, è toccato concludere l’Assemblea che ha riportato all’attenzione dei giovani dell’Udc la battaglia sulle preferenze nella quale il partito è impegnato. «Speriamo di riuscirci - ha detto Di Lorenzi - perché le preferenze sono la soluzione virtuosa per una selezione dal basso, ma in caso contrario sarebbe opportuno pensare alle primarie, per poter garantire il ricambio che deve inevitabilmente passare per il movimento giovanile forte. E il congresso deve essere un punto di partenza». L’Assemblea nazionale dei giovani dell’Udc ha deciso: congresso a breve. Come ha suggerito il segretario. (fra.ins.)

Cesa rilancia l’invito del Papa a far crescere una nuova generazione di politici cristiani


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politica

La confessione di un ”pentito” a «L’Espresso» chiama in causa il sottosegretario del Pdl Nicola Cosentino

Nuovo scandalo nella pattumiera di Francesco Capozza

d i a r i o ROMA. «Posso dire che la società Eco4 era controllata dall’onorevole Nicola Cosentino. Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, in un incontro avvenuto a casa di quest’ultimo a Casal di Principe. Ricordo che l’onorevole Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio (Orsi ndr) m’informò del suo contenuto». Questa la pesante accusa rivolta dall’imprenditore campano Gaetano Vassallo al sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino e riportata ieri in un servizio di Gianluca Di Feo ed Emiliano Fittipaldi su L’Espresso.

Un’accusa molto grave, evidentemente. Ma la questione è piuttosto contorta. Da un lato perché ad essere accusato è uno degli uomini più forti della compagine governativa berlusconiana (poco noto in effetti, ma vera e propria macchina elettorale in Campania), dall’altro perché a seguito della pubblicazione dell’inchiesta sulle confessioni di Vassallo le abitazioni dei due giornalisti del settimanale diretto da Daniela Hamaui sono state perquisite dalla Guardia di Finanza, così come pure la stessa sede de L’Espresso. Nel reportage, Di Feo e Fittipaldi riportano vari brani delle confessioni del faccendiere campano ed in diverse di queste compaiono rivelazioni riguardanti l’attuale vice di Tremonti. Stando a quanto afferma Gaetano Vassallo lui stesso avrebbe «sponsorizzato in due

occasioni la campagna elettorale di Cosentino offrendogli cene presso il ristorante di mio fratello, cene costose con centinaia di invitati. L’ho sostenuto nel 2001 e incontrato spesso dopo l’elezione in Parlamento». Perché questo interesse a finanziare il parlamentare campano? E perché, dopo le fastose cene elettorali, offrirgli copiose tangenti?

Stando ai contenuti del j’accuse vassalliano, l’avvocato, poi parlamentare e sottosegretario, di Casal di Principe sarebbe stato molto legato al clan dei casalesi e, per fare i loro interessi, molto addentro al problema dello smaltimento dei rifiuti nel casertano. Quando il Vassallo, dopo aver cospicuamente sostenuto l’avventura politica di Cosentino, si presenta a chiedere un intervento dell’onorevole per rientrare nel grande gioco della spazzatura, gli viene riferito che gli assetti criminali sono cambiati. Il parlamentare lo riceve a casa e gli comunica che può offrirgli solo una soluzione alternativa: «Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte dai casalesi che avevano deciso di realizzare il termovalorizzatore a Santa Maria La Fossa. Egli, pertanto, aveva dovuto seguire tale linea ed avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell’affare e, di conseguenza, tenere fuori anche me». Se queste accuse fossero comprovate dalla magistratura, si aprirebbe un vero caso politico perché sarebbe evidente la grande difficoltà per il governo di difendere un suo membro indagato per collusione con la camorra e per di più “con le mani in pasta” nella delicatissima questione dell’immondizia campana. Fino ad oggi la miracolosa ripulitura di Napoli e dintorni è stato uno dei fiori all’occhiello dei primi 100 giorni del quarto esecutivo guidato dal Cavaliere, se si accertasse che uno dei suoi fedelissimi è colluso con lo scandalo che quell’immondizia ha causato, sarebbe un vero pugno nello stomaco per il premier. Intanto, prima del caso politico, è scoppiato quello editoriale. Ieri mattina, all’alba, su disposizione della procura di Napoli, una quindicina di finanzieri ha effettuato perquisizioni presso la redazione de L’Espresso e le abitazioni dei giornalisti Gianluca De Feo ed Emiliano Fittipaldi ai quali sono stati sottratti documenti e computer. Secondo quanto si legge in una nota dell’ufficio stampa del settimanale «la redazione de L’Espresso esprime grande preoccupazione per l’intervento della Guardia di Finanza» e il Comitato di redazione lamenta che «ancora una volta l’esercizio del diritto di cronaca è oggetto di atti intimidatori che respingiamo fortemente. Non possiamo fare a meno di notare – si legge ancora nella nota - che un simile dispiegamento di forze dell’ordine avviene in seguito ai riferimenti contenuti nell’inchiesta sul presunto ruolo nello scandalo dei rifiuti di un sottosegretario del governo». Da parte nostra crediamo certamente nel diritto di cronaca, ma non possiamo che credere nell’innocenza di chiunque finché la magistratura non ne abbia accertato la colpevolezza. Rispetto alle accuse formulate dal Vassallo e alle sue confessioni, va almeno ricordato che costui, negli ultimi 20 anni, è stato arrestato 3 volte.

Dopo la pubblicazione dell’articolo, perquisiti i giornalisti e la redazione del settimanale

d e l

g i o r n o

Pincio, niente più parcheggio Il parcheggio del Pincio non si farà. Lo ha deciso la giunta capitolina con una memoria, presentata alla stampa dal sindaco Gianni Alemanno (nella foto) insieme al ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi. Come soluzione alternativa, il Campidoglio prospetta la costruzione di un terzo piano nel parcheggio del Galoppatoio, con circa 700 posti auto in più. Una soluzione definita «meno impattante e più conveniente in termini di costi complessivi».

Rimborso Ici, Maroni pensa una norma ad hoc Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sta pensando ad una norma a hoc, se sarà necessario, per il rimborso dell’Ici ai comuni. È lo stesso Maroni ad annunciarlo durante il convegno nazionale promosso dall’Anci. «Gli esperti mi dicono - ha spiegato il ministro che servirà una legge. Casualmente, nei prossimi giorni, presenterò un decreto legge per altre cose, se sarà necessario, ci infilerò una norma sul rimborso dell’Ici». Maroni ha sottolineato che la questione «è quella dei trasferimenti erariali dell’Ici e le scadenze sono vicine». «È sacrosanto chiedere al governo che dica una parola certa e in tempo utile per mettere i comuni in condizione di far fare quello che la legge richiede di fare».

Giustizia, Di Pietro attacca Violante «Ma da che parte sta Violante, verrebbe da dire, alla luce di alcune sue recenti esternazioni in materia di giustizia?». Dal proprio blog Antonio Di Pietro (nella foto), leader dell’Italia dei valori, va diritto al punto dopo le recenti iniziative in tema di riforma della giustizia di Luciano Violante. «Tutti gli riconosciamo grande competenza, esperienza e buona fede. Ma proprio per queste ragioni sono perplesso di fronte ad alcune sue proposte di questi giorni». Ieri, racconta Di Pietro, «è tornato sul tema con una lettera di suo pugno, e perciò non smentibile, in cui testualmente ha asserito che …il Pm deve operare dopo aver acquisito una notizia di reato e la polizia deve operare invece per accertare se sia stato commesso un reato dandone notizia al Pm. Insomma, secondo l’ultimo Violante, bisogna fare una riforma che impedisca al procuratore della Repubblica di acquisire autonomamente le notizie di reato».

L’ultimo interrogatorio di Angelini Si è concluso intorno alle 13.30 di ieri l’incidente probatorio al tribunale di Pescara dove è stato protagonista Vincenzo Maria Angelini, il re della sanità privata abruzzese che con le sue dichiarazioni, relative al pagamento di presunte tangenti, ha decapitato la giunta regionale abruzzese. Prima di entrare nell’aula Angelini ha affermato che «in questi anni, come credo stia emergendo, sono stato massaggiato lungamente per vendere». L’imprenditore spiega di essersi trovato «a dover bere o affogare e invece di affogare, ho scelto di bere e mi sono tenuto tutto».

Il Times critica il ddl Carfagna Il ddl del ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna (nella foto), ha suscitato ilarità e curiosità dei principali quotidiani esteri. In primis, a criticare la nuova legge contro la prostituzione, è stato il Times di Londra che ha attaccato duramente il ministro Carfagna per aver condannato le donne che vendono il loro corpo. Il quotidiano inglese, per sottolineare il paradosso, ha ricordato l’esperienza della Carfagna, il suo sexy calendario e le intercettazioni «erotiche» tra lei e Berlusconi sostenendo che «la signora ha usato il suo corpo per arrivare dove è arrivata, facendo calendari». Diversa la posizione del Daily Mail che loda il nuovo ddl del governo italiano.


politica

13 settembre 2008 • pagina 7

Il caso Bossi jr. e la cooptazione familiare dei leader

L’Italia? È diventata una monarchia ereditaria di Giancristiano Desiderio così Maroni, Calderoli e Castelli, i tre pretendenti al trono padano, sono serviti a dovere. Dopo Bossi c’è Bossi: Renzo. Il capo dei capi, il Cavaliere, lo ha battezzato personalmente: «Umberto, porta anche tuo figlio, dài». Umberto non se l’è fatto dire due volte e si è presentato al vertice sul federalismo con il figlio ventenne al seguito. Il federalismo fiscale è diventato federalismo familiare (c’è chi dice che Umberto vorrebbe la moglie insegnante al posto della Gelmini, così per diritto matrimoniale). Resta il mistero dei misteri: come è possibile che la Lega, cioè il partito che passa per essere il più moderno, leggero, democratico tra i partiti di nuova generazione, adotti la regola delle regole che nulla ha a che vedere con la democrazia: il sangue? Ma è un mistero buffo, un segreto di Pulcinella. Se sei figlio di Bossi hai diritto a guidare la Lega, se sei figlio di nessuno ti attacchi.

E

La verità è molto più semplice di mille raffinate interpretazioni. La verità è che la Lega, passata alla storia come il partito che ha castigato e negato i vecchi simboli della partitocrazia e del celebre pentapartito, è in realtà il partito che non ha mai negato i vizi della esecranda Prima Repubblica, ma li ha invece portati fino alle estreme conseguenze. Lo stesso federalismo ne è una dimostrazione. La successione familiare da papà Umberto a figlio Renzo è in linea con questa elementare regola partitocratrico-familistica: prima gli interessi di casa nostra, poi tutto il resto. La Lega non è mai stata la via di uscita dal manicomio primorepubblicano, ma la più coerente degenerazione della stessa malattia partitocratrica. Renzo non è un’eccezione, ma la regola.

Qui sopra, Renzo Bossi con il papà e con Roberto Calderoli. Sopra, Sivlio Berlusconi con il figlio Piersilvio Il ragazzo, con quella faccia da quindicenne che ha, vorrebbe pensare e fare altre cose, c’è da giurarci. Ma i casi della vita del padre e i casi della politica da condominio del nostro tempo lo hanno tirato dentro e deve occuparsi anzitempo nientemeno che di “affari di Stato” senza Stato. Dovrà imparare presto a recitare, perché questa è la regola numero uno: grandi valori, parole roboanti, ma sempre la mano sul portafogli. Come diceva nel suo splendido libro Italiani il grande Luigi Barzini jr., la politica italiana è una messa in scena. Ora, i leghisti sono italiani al quadrato: in loro i vizi sopravanzano le virtù. Bossi calca la scena da oltre vent’anni in nome del federalismo, della secessione, dell’indipendenza, della padania, della devolution, del federalismo fiscale. Renzo ancora non c’era e già papà Umberto pensava a lui. È tempo, ora, che Renzo

È stato Berlusconi a chiamare Renzo nella stanza dei bottoni, forse in attesa di precettare anche PIersilvio...

faccia la sua parte e impari a recitare bene in pubblico e a coltivare in privato gli interessi di bottega in omaggio al principio dei vizi privati e delle finte pubbliche virtù. Bisogna portare avanti l’azienda di famiglia: la Lega. Tutto è normale e nessuno dice nulla perché nessuno può dire nulla.

Perché tutti hanno paura della voce roca e grossa del Capo? Macché. Semplicemente, nessuno può dire nulla perché tutti nuotano nella stessa acqua, tutti si riconoscono nel partitoche-è-una-grande-famiglia. Leo Longanesi riassumeva bene la filosofia italica: «Sulla bandiera a strisce c’è scritto:

Il Federalismo benedetto La Lega ha celebrato ieri la dodicesima “Festa nazionale dei popoli padani” partendo dalla sorgente del Po, sul Monviso. Bossi ha esultato con la ”sacra ampolla”in mano gettando l’acqua sui militanti del Carroccio. All’indomani del via libera preliminare del Consiglio dei ministri al testo di disegno di legge delega sul federalismo fiscale, il senatùr ha parlato del provvedimento come di un «miracolo, come lo è l’acqua del Po. Siamo partiti piccoli come un ruscello per diventare sempre più grandi. Questa sarà la volta buona perchè lo Stato non ha più una lira», ha detto Bossi. Accompagnato a Pian del Re dal ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli, la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, il capogruppo alla Camera Roberto Cota e l’europarlamentare Mario Borghezio, Bossi ha ricordato gli esordi del Carroccio: «Eravamo in pochi all’inizio ma la libertà è inarrestabile e diventa un fiume». Poi ha ripercorso i punti salienti del federalismo fiscale. E ha ripreso i trascorsi “simbolici” della Lega: «Ci ha aiutato questo rigagnolo d’acqua, di cui tutti siamo figli, un rigagnolo che poi diventa un grande fiume» perchè siamo «abituati a realizzare i sogni».

tengo famiglia». La bandiera leghista è il federalismo e lì c’è scritto: tengo famiglia. Tutto torna.

Finiremo con l’affogare nel lavandino di casa. La partitocrazia ha insegnato a negare lo Stato e affermare il partito, la Lega a negare il partito e affermare la famiglia. Invece di andare avanti si torna indietro. Dallo Stato nazionale ai regionalismi fino alla tribù. La politica italiana semplicemente non sa cosa sia un’istituzione. Il leader politico si è trasformato in capo famiglia e in proprietario. Come c’è il capitalismo familiare così c’è il partitismo familistico. Persino la Realpolitik o il realismo politico è scomparso: perché anche il realismo, come ci dice Machiavelli, per essere ha bisogno di una patria da difendere e promuovere con realistica forza. Ma la patria è stata sostituita dalla padania. Renzo ne sarà il suo leader. A meno che, illazione maliziosa, l’invito a Bossi jr. nella stanza dei bottoni sia stata fatta dal Cavaliere per giustificare, fra poco, la chiamata di Berlusconi jr...


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il discorso

Il rapporto fra la Parola, la Ragione e il bisogno di Spiritualità, ecco il tema dell’atteso intervento del pontefice in Francia

Intellettuali, uscite dal sonno La cultura dell’Europa e la sua libertà sono nate dalla ricerca di Dio di Benedetto XVI segue dalla prima La loro motivazione era molto elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq : nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi.

Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola.

Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola. Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio

In primo piano, l’arrivo di Benedetto XVI nell’areoporto di Parigi, dov’è stato accolto dal presidente francese Nicolas Sarkozy. In basso a sinistra, l’esterno della cattedrale di Notre-Dame dove il Papa ha presieduto i Vespri. Nella pagina a lato, una bandiera europea

La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui, specialmente nel Libro dei Salmi

Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lec-

tio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21). E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente

delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio.

Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si so-


il discorso

13 settembre 2008 • pagina 9

Il Papa abbraccia la comunità ebraica di Francia

«La laicità non contrasta con la fede» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a religione ha una funzione insostituibile nella formazione delle coscienze. Lo ha detto ieri Benedetto XVI al suo arrivo nella capitale francese, prima tappa del pellegrinaggio papale al santuario mariano di Lourdes che celebra quest’anno il 150° anniversario della prima apparizione della Vergine. È stata un’accoglienza calorosa e fuori dal cerimoniale, quella che il presidente della Repubblica francese ha riservato al Papa. Sarkozy ha infatti atteso il pontefice all’aeroporto di Orly e non all’Eliseo, dove comunque il corteo si è rivolto per i primi discorsi ufficiali. Una volta arrivati nella sede del potere francese, Benedetto XVI e Sarkò hanno conversato a porte chiuse per circa 20 minuti. Nel ringraziare l’ospite per la visita, il presidente francese ha sottolineato «l’onore per il governo francese, ma soprattutto per la mia famiglia e per la Francia. In una Repubblica laica come la mia – ha aggiunto - tutti i francesi sono sensibili alla sua visita, che è considerata un evento eccezionale». Nel suo discorso ufficiale, il presidente di turno dell’Unione europeo ha elogiato la “laicità positiva”, espressione di cui detiene i diritti d’autore, definendola “un invito al dialogo e alla tolleranza, che necessita di una reciprocità”. Fortissima poi la rivendicazione delle «radici cristiane della Francia, che non ci impediscono di fare del tutto perché i nostri compatrioti musulmani possano vivere la loro religione sullo stesso piano degli altri. La diversità va intesa come ricchezza». Per il Papa – che ha ascoltato con evidente piacere il discorso – la laicità positiva deve comprendere in senso positivo i rapporti tra fede e politica e tra Chiesa e Stato: «In questo momento storico - ha detto Benedetto XVI - in cui le

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culture s’incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza della laicità è divenuta necessaria».

Il pontefice ha infine invitato Sarkozy - nella sua veste di presidente di turno dell’Unione Europea a continuare a far svolgere alla Francia, il suo ruolo storico di riconciliazione: «Di fronte al pericolo del riemergere di vecchie diffidenze, tensioni e contrapposizioni tra nazioni - ha detto il Papa - di cui oggi siamo preoccupati testimoni, la Francia è chiamata ad aiutare l’Europa a costruire la pace dentro i suoi confini e nel mondo intero». Prima di giungere al College des Bernardines, dove ha incontrato circa 700 intellettuali (fra cui Max Gallo, Daniel Pennac,Yasmina Khadra e un vecchio compagno d’armi di Che Guevara), Benedetto XVI ha incontrato una piccola delegazione della comunità ebraica. Nel gruppo era presente anche il gran Rabbino di Francia, Joseph Sitruk, e il suo successore, Gilles Bernheim (in carica dal prossimo 1° gennaio, che alcuni descrivono come un ultra-ortodosso sul piano religioso ma con una posizione politicamente più liberale). A questi, il pontefice ha ricordato che «l’antisemitismo non ha alcuna giustificazione teologica» e che, con le stesse parole usate da Pio XI, i cattolici sono «spiritualmente semiti» Inoltre, il Papa ha reso «un commosso omaggio a coloro che sono morti ingiustamente nella persecuzione contro gli ebrei, e a coloro che si sono adoperati perché i nomi delle vittime restassero presenti nel ricordo: Dio non dimentica».

Spiritualmente siamo semiti: Dio non dimentica chi si è adoperato per salvare la memoria

no conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229). In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era

affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess.VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine”– in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche

cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantaro con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io.

Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la

sua dignità. Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testasegue a pagina 10


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mento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture”che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioé Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria...” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica. Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità.

Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciòdeve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agi-

re di Dio nel mondo. Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera ucci-

La Bibbia non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo millenni de, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito ... c’è libertà”(2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggetti-

vità, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale.

Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione. Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’“ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava


il discorso

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nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo atteggiamento è veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi”(3, 15) (Logos deve diventare apo-logia, la Parola deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciòla risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti. Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago.Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tri-

bunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non dei annuncia ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve eserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà.Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio. La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dei era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui.

Una cultura meramente positivista che rimuovesse la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della Ragione

unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente del lavoro (cfr cap.48).

ma, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione. Siamo partiti dall’osservazione che,

Questa tensione tra legame e libertà ha determinato il monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale

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Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17). Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità supre-

Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.


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Si riapre il dibattito sulla morte cerebrale: basta questo criterio per stabilire la fine di un’esistenza e autorizzare l’espianto di organi? articolo di Lucetta Scaraffia, docente di Storia Contemporanea alla Sapienza di Roma, del 3 settembre scorso, sull’Osservatore Romano, ha posto interrogativi sul rapporto del 1968 dell’Harvard Medical School: un comitato ad hoc, composto da tredici membri, indicò nella fine delle attività celebrali, e non più in quelle cardio-respiratorie, il criterio di riferimento per accertare la morte umana, rendendo quindi possibili i trapianti d’organo.

L’

La definizione di morte venne cambiata in quasi tutti gli Stati americani e, successivamente, anche in tutti gli altri paesi (solo il Giappone resistette fino al 1999). La morte cerebrale fu accolta nelle leggi e nella pratica medica della maggior parte degli Stati. Ri-

na con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente». Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, fu Pio XII, nel 1957, ad affermare: «Spetta al medico [...] dare una definizione chiara e precisa della morte e del momento della morte». Nel 1985, la Pontificia Accademia delle Scienze adottò una “Dichiarazione sui criteri oggettivi della morte”, che conteneva la “Definizione della morte”: «Una persona è morta quando ha subito una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di coordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo. La morte sopravviene quando: a) le funzioni spontanee del cuore e della respira-

TRAPIANTI SÌ, MA Per la Chiesa cattolica non sono donabili gonadi ed encefalo, sede della personalità prendendo le posizioni espresse in due libri – uno di Paolo Becchi Morte cerebrale e trapianto di organi, del 2008, l’altro di Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life?, del 2005 – la Scaraffia, tra l’altro, ha sostenuto: «Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l’idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale è mantenuto in vita, comporta una identificazione della perso-

zione sono definitivamente cessate, oppure b) si è accertata la cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale. Dal dibattito è risultato che la morte cerebrale è il vero criterio della morte poiché l’arresto definitivo delle funzioni cardio-respiratorie conduce molto rapidamente alla morte cerebrale. Il gruppo ha dunque analizzato i diversi metodi clinici e strumentali che permettono di constatare questo arresto irreversibile delle funzioni cerebrali. Per essere certi, mediante un elettroencefalogramma, che il cervello è diventato piatto, ossia che non presenta più attività elettrica, è necessario che l’esame venga effettuato almeno due volte a distanza di sei ore». Nel 1995 il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, nella “Carta degli Operatori sanitari”, affermò: «Perché una persona sia considerata cadavere è sufficiente

di Ernesto Capocci l’accertamento della morte cerebrale del donatore, che consiste nella cessazione irreversibile di ogni funzione cerebrale. Quando la morte cerebrale totale è constatata con certezza, cioè dopo le dovute verifiche, è lecito procedere al prelievo degli organi, come anche surrogare artificialmente delle funzioni organiche per conservare vitali gli organi in vista di un trapianto». Giovanni Paolo II intervenne più volte su questo tema. Il 29 agosto del 2000, durante un discorso al 18° Congresso Internazionale della Società dei Trapianti, che si svolgeva a Roma, dopo aver richiamato un passo dell’Evangelium Vitae («merita un particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza» n. 86), il Papa sottolineò: «la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica», come criterio di accertamento della morte, «se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta conce-

zione antropologica». Nel 2005 – ribadendolo nel 2006 - l’Accademia Pontificia delle Scienze ha deliberato una dichiarazione favorevole ai criteri di Harvard. Il Magistero della Chiesa, si è espresso sulla donazione di organi da vivente (è lecita solo con consenso e se tutela l’integrità fisica del donatore) e da cadavere: in questo caso si affida a quel che la scienza medica indica come criterio di morte: la morte cerebrale totale. Per la Chiesa, non tutti gli organi sono eticamente donabili. Dal trapianto vanno esclusi l’encefalo e le gonadi, che assicurano rispettivamente l’identità personale e procreativa della persona.

Inoltre, è da ricordare quanto afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica su questo tema: «Il trapianto di organi è conforme alla legge morale se i danni e i rischi fisici e psichici in cui incorre il donatore sono proporzionati al bene che si cerca per il destinatario. La donazione di organi dopo la morte è un atto nobile e meritorio ed è da incoraggiare come manifestazione di generosa soli-

darietà. Non è moralmente accettabile se il donatore o i suoi aventi diritto non vi hanno dato il loro esplicito consenso».

«È inoltre moralmente inammissibile provocare direttamente la mutilazione invalidante o la morte di un essere umano, sia pure per ritardare il decesso di altre persone» (numero 2296). Sono sessantamila, secondo le stime del Parlamento europeo, le persone che in Europa sono in attesa vitale di un trapianto d’organo. Dieci di queste muoiono ogni giorno per mancanza di organi da trapiantare, denuncia una risoluzione del parlamento europeo dell’aprile di quest’anno. Il problema della mancanza di donatori nel mondo favorisce l’incremento di un truce traffico, quello di organi umani espiantati da donatori di molti paesi poveri che ricevono, per questo, una ricompensa. Accade. È sempre la risoluzione del parlamento europeo a sottolinearlo. Come s’intende, il problema è drammatico. Riguarda la vita e la morte. Della vita e della morte e della definizione del criterio di morte.


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L’opinione del presidente emerito del Comitato di bioetica

Come stabilire quando la vita finisce colloquio con Francesco D’Agostino di Alfonso Piscitelli ors tua vita mea” recitava il cinico detto latino. La moderna pratica dei trapianti sembra aver dato un crisma scientifico e medico alla constatazione antica di come la salvezza di una vita umana possa richiedere il sacrificio di un’altra. Sacrificio magari inconsapevole, ma pur sempre legato – in virtù del caso – alla sopravvivenza di un altro individuo mai conosciuto. La chiesa cattolica interpreta la donazione di organi come forma estrema di “carità”. Coloro che seminano dubbi sulla pratica dei trapianti spostano l’attenzione su quella sottile zona grigia in cui l’organismo è non vivo/non morto.Ora, da parte cattolica, si invocano nuove evidenze scientifiche che sembrerebbero invalidare il confine della morte cerebrale come criterio certo di discernimento tra la vita e la morte. Il “rapporto di Harvard”che nel 1968 fissava nella morte cerebrale il punto di non ritorno di una individualità vivente sarebbe dunque da ripensare. Abbiamo discusso col professor Francesco D’Agostino, presidente emerito del Comitato Nazionale per la Bioetica, ordinario di filosofia del diritto alla Università di Roma – Tor Vergata di questo argomento spinoso, cercando di cogliere il filo che collega acquisizioni scientifiche certe e valutazioni etiche. Professore, ci sono nuove evidenze scientifiche che spingono a riconsiderare quanto affermato dal rapporto di Harvard del 1968? Il dibattito scientifico in materia non si è mai assopito, del resto è proprio della scienza rimettere continuamente in discussione le sue leggi, le sue scoperte. Ma si deve onestamente riconoscere che solo una piccola parte di scienziati oggi nutre dubbi sul concetto di “morte cerebrale”. Però, questa minoranza ha avanzato obiezioni significative? Francamente, le “nuove evidenze scientifiche”da alcuni di loro esibite non sono generalmente apparse convincenti. Quanto detto non implica naturalmente che non si debba continuare a lavorare per affinare le tecniche di accertamento della morte cerebrale: in materia è legittimo pretendere dalla scienza continui i suoi passi in avanti. Hans Jonas avanzava il dubbio che certe definizioni scientifiche concernenti la morte di un individuo avessero carattere utilitaristico. Fossero cioè concepite per facilitare la pratica dei trapianti. Non c’è il rischio che le attuali procedure favoriscano anche in Occidente procedure troppo sbrigative nella liquidazione dei soggetti ”donatori di organi”? La diagnosi di morte cerebrale è infinitamente più complessa e sofisticata di quella tradizionale incentrata sul principio di morte cardiaca. Solo nei casi in cui si prospetta la possibilità che un defunto possa divenire donatore di organi ha un senso il ricorso a tale tipo di diagnosi. Avanzare dubbi come fa il filosofo Jonas è lecito, tuttavia è pur vero che proprio l’avvento della trapiantologia ha contribuito a incentivare le diagnosi neurologiche per diagnosticare in maniera ottimale e incontrovertibile la morte del cervello. Ha scritto la Scaraffia: si rischia di confondere la morte corticale (coma) con la morte cerebrale. Tale confusione rischierebbe di dare per morte persone che invece sono semplicemente in coma. Esiste questa tragica possibilità?

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ETICI La situazione in Italia La legge del 29 dicembre 1993, n. 578 riguarda l’accertamento della morte. «La morte – dice l’art.1 – si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo». Il DPR 22 agosto 1994 n. 582 definisce le “modalità per l’accertamento e la certificazione di morte”. La normativa più recente sui trapianti d’organo è la legge del primo aprile 1999, integrata dalla legge del 16 dicembre 1999 sul trapianto parziale di fegato (trapianto da vivente) e dal decreto legge del 2000 in materia di prelievi e trapianti di organi e tessuti. Per quanto riguarda i tessuti, possono essere trapiantati: cornea, cute, arterie, valvole cardiache, vene, ossa, muscoli, tendini, membrana amniotica. Gli organi che è possibile trapiantare sono: cuore, fegato, intestino, pancreas, polmoni, reni. Inoltre, è possibile trapiantare le cellule, ma solo quelle staminali emopoietiche. In base ai dati del Centro Nazionale Trapianti dal 1992 al 2007, in Italia sono stati effettuati 25mila trapianti. Dei 3.043 trapianti effettuati in Italia nel 2007, 1.585 hanno riguardato il rene, 1.041 il fegato, 311 il cuore, 112 il polmone, 19 il pancreas, 58 il rene + il pancreas, 2 l’intestino. Alla data del 31 dicembre 2007, erano 9.779 pazienti in lista d’attesa (6.897 per il rene, 1.482 per il fegato, 853 per il cuore, 255 per il pancreas, 294 per il polmone). Il tempo d’attesa è stimato in 3,02 anni per il rene (con una mortalità dell’1,31); 1,83 anni per il fegato (mortalità 7,46 per cento; 2,47 anni per il cuore (mortalità 7,75 per cento); 2,90 per il pancreas (mortalità 1,74 per cento); 2,12 anni per il polmone (mortalità 14, per cento).

Una simile confusione è impossibile, per chi abbia minime conoscenze neurologiche. L’espressione morte corticale (peraltro caduta in disuso) fa riferimento alla necrotizzazione completa della corteccia cerebrale, cioè solo di una parte, anche se la più“nobile”, del cervello. Con l’espressione morte cerebrale si indica invece la distruzione di tutte le cellule del cervello, corteccia cerebrale e tronco. La differenza è essenziale: lesioni corticali anche gravissime consentono (se il tronco cerebrale funziona) la sopravvivenza “vegetativa” del malato, in stato quindi di perdita di coscienza, mentre la totale distruzione delle cellule del cervello comporta la morte dell’individuo, cioè l’assoluta impossibilità per l’organismo di funzionare appunto come organismo, cioè come un insieme integrato di organi e di funzioni. E le famose eccezioni alla regola…persone date per morte che si ridestano dalla condizione diagnosticata di morte corticale? In alcuni, anche se rarissimi, casi, pazienti in “morte corticale”riescono a uscire dallo stato vegetativo e a riacquistare capacità di comunicazione. Non è invece possibile, per definizione, “rianimare” un paziente in morte cerebrale. In quei casi in cui si è sostenuto che questo fosse avvenuto, è stato semplice rilevare che non di morte cerebrale si trattava, ma di “morte corticale”. Si sostiene anche la tesi che la morte cerebrale non implichi la morte definitiva della persona. Ma in tal modo non si rischia di considerare come vita una semplice condizione vegetativo-incosciente? Non è lo stesso rischio che corre la Chiesa quando si oppone alla cessazione delle terapie per persone in coma irreversibile? La Chiesa e tutti coloro, anche non credenti, che difendono la vita dei pazienti in stato vegetativo persistente non lo fanno perché hanno una visione riduttiva della vita personale, ma per la semplice ragione che la difesa della vita umana, sana o malata, giovane o anziana, cosciente o incosciente, è un principio costitutivo della medicina e della civiltà occidentale. Peraltro, diverrebbe ben difficile, se si giustificasse la soppressione di pazienti in stato vegetativo, con l’argomento della perdita di coscienza, garantire le cure adeguate a pazienti neurologici, ad es. i malati di Alzheimer, per i quali la compromissione della lucidità mentale è totale e allo stato attuale delle nostre conoscenze del tutto irreversibile. La “morte cerebrale”rimane allora un confine certo tra semplice “incoscienza”e conclusione definitiva della vita individuale? Nella medicina e comunque nel contesto bioetico nel quale ci siamo posti, la vita (umana, animale e vegetale) nelle sue manifestazioni“superiori”va intesa come la dinamica biologica che dà una struttura unitaria e integrata a un organismo e la fine della vita come il venir meno di questa dinamica. Non abbiamo alcuna prova che dopo la definitiva distruzione del cervello possa sopravvivere l’organismo: per qualche tempo mantengono vitalità i suoi singoli organi (cuore, fegato, reni, intestini, cioè tutti quegli organi che possono essere espiantati e trapiantati), ma l’organismo in quanto tale è assolutamente morto, cioè ha perso definitivamente la possibilità di funzionare come un “tutto”. I critici della teoria della morte cerebrale non hanno fino ad ora portato prove scientifiche adeguate sostenere la loro tesi. Ove ciò avvenisse se ne dovrebbe prendere seriamente atto e accettarne le conseguenze.


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mondo

Aperto ieri il primo procedimento contro il generale che resse la Polonia durante il dominio comunista

Jaruzelski alla sbarra,processo alla Storia di Federigo Argentieri

d i a r i o n bel film inglese del 1986, To Kill a Priest, (diretto dalla regista polacca Agnieszka Holland e molto poco noto in Italia) raccontava la storia dell’uccisione di padre Jerzy Popieluszko (interpretato da Cristopher Lambert) da parte degli uomini dei servizi polacchi. Il delitto era avvenuto due anni prima, nel 1984, ed era stato incoraggiato in modo non ufficiale dalle autorità, ossia indirettamente dallo stesso Jaruzelski, per eliminare dalla scena uno scomodissimo personaggio, che continuava a mantenere alta la bandiera di Solidarnosc come se il colpo di Stato del 1981 non fosse mai avvenuto e che infondeva speranze nella popolazione avvilita dalla sconfitta e dal grigiore del tardo brezhnevismo. A prima vista, il film prendeva nettamente le parti del sacerdote, dipinto come una specie di angelo in terra, ma dopo una certa riflessione lo spettatore iniziava ad interrogarsi anche sulle ragioni dell’assassino, interpretato dall’eccellente Ed Harris. Anche se le goffaggini da lui commesse – c’era un testimone oculare – avevano costretto Jaruzelski a ordinare un processo regolare, con inevitabile condanna, egli protestava contro il suo abbandono da parte delle autorità e rivendicava con orgoglio la propria fede comunista, denunciando al tempo stesso la natura sovversiva e illegale dell’azione di Popieluszko e l’ingerenza della Chiesa nella vita politica polacca e suscitando quasi un moto di simpatia. La notizia del processo al generale Jaruzelski porta inevitabilmente a ripensare a quel film. Molti, in Polonia e fuori, si chiedono che senso abbia portare in tribunale un uomo di 85 anni del quale moltissimi pensano che abbia fatto solo il suo dovere e che abbia saputo abilmente evitare mali molto maggiori, tipo un’invasione sovietica. Non era questa l’opinione di Papa Wojtyla e degli stessi Geremek e Michnik, ossia la Polonia cattolica e quella laica che avevano appoggiato Solidarnosc? Lo stesso Walesa probabilmente è poco convinto dell’utilità di questo processo. Chi lo vuole, allora, e per quale motivo? Per rispondere è necessario ricordare che, per quanto “male minore”, il colpo del dicembre 1981 fece comunque diverse centinaia di vittime, cui non è stata mai resa giustizia. Pertanto il processo è perfettamente legittimo, come lo fu quello ad Egon Krenz per le vittime del muro di Berlino. Altro discorso è se vi sarà una condanna, oppure no. È ragionevole confidare nel fatto che esistano e continueranno ad esistere tutte le garanzie del caso, dal carattere pubblico e aperto ai media al diritto ad

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d e l

g i o r n o

Zimbabwe: accordo tra Mugabe e Tsvangirai Svolta storica ad Harare. Dopo mesi di dure trattative, il capo dello Stato dello Zimbabwe Robert Mugabe e il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai sono usciti dal vicolo cieco del negoziato ad oltranza. Secondo l’accordo raggiunto, Tsvangirai guiderà il governo e avrà il controllo della polizia. A Mugabe spetterà invece il comando delle forze armate e la direzione di un consiglio di Stato nuovo di zecca. Entro 18 mesi dovrebbe vedere la luce anche una nuova Costituzione che, se confermata dal referendum popolare, spianerà la strada a nuove elezioni. Secondo il presidente sudafricano, Thabo Mbeki che ha mediato le trattative, l’accordo verrà sottoscritto lunedì.

Spagna: stop al referendum basco Sconfitta per il presidente basco Ibarretxe. La Corte costituzionale spagnola ha bloccato giovedì il progetto di un contestato referendum con cui si sarebbe dovuto decidere dell’indipendenza dei paesi baschi, L’alto organo di giudizio ha deliberato che una consultazione di questo tipo può essere indetta solo dal governo di Madrid e ad esso devono poter partecipare tutti i cittadini spagnoli. Una beffa per l’esecutivo locale che aveva già deciso la data, 25 ottobre, in cui il Paese basco sarebbe andato alle urne. Era stato il governo centrale spagnolo ad appellarsi alla Corte costituzionale dopo che a luglio le istituzioni di San Sebastian avevano deciso di procedere alla consultazione popolare.

Si possono emettere sentenze a prescindere dal contesto storico in cui si sono svolti gli avvenimenti? una difesa adeguata, eccetera: se così è, il processo potrebbe in realtà essere una formidabile occasione per scavare nelle complessità di quella vicenda e comprendere meglio la natura degli eventi, sia sul piano polacco che su quello internazionale. In particolare, è probabile e auspicabile che Jaruzelski (ammesso che se li ricordi) racconti per filo e per segno la storia dei suoi rapporti con l’Urss, da Brezhnev Suslov ed Andropov, ai generali dell’Armata rossa eccetera, in modo che risulti senza equivoci se e come ci siano stati un male maggiore e uno minore in ballo. Questo permetterà di giungere ad una sentenza equa, che però – con buona pace di “realisti” che lo hanno già assolto – potrebbe anche essere di condanna, perché comunque egli è responsabile della morte di varie centinaia di persone.

Proprio quest’ultimo è il punto centrale della vicenda: si possono emettere giudizi e sentenze a prescindere dal contesto politico e storico in cui si sono svolti gli avvenimenti? Secondo Renzo de Felice, Mussolini accettò di farsi mettere alla testa della Repubblica di Salò per evitare all’Italia di «essere trattata come la Polonia», come aveva minacciato Hitler, ossia di subire rap-

presaglie molto più spaventose di quelle che effettivamente furono commesse. Ciò è molto probabilmente fondato, ma non toglie che Mussolini sia stato considerato responsabile e giustiziato in modo sommario, senza assolutamente tener conto del fatto di essere stato un “male minore”o meno. Era tempo di guerra, è vero, ma le differenze non sono poi così numerose.

Tornando ai “realisti” che hanno già emesso la loro sentenza, magari citando Talleyrand, è importante dare loro una risposta garantista: se ci sono delle vittime c’è stato anche un crimine, dunque deve esserci un processo, naturalmente regolare e pubblico. Se poi il processo si concluderà con un’assoluzione, tanto meglio per Jaruzelski, ma negare la legittimità dell’iniziativa non è una posizione sostenibile. Non lo è neanche quella che dice “ma allora dovrebbero processare tutti i responsabili delle repressioni comuniste ed è impossibile”: in effetti un processo a Bilak non sarebbe male, ma è un affare interno della Slovacchia. Purtroppo la giustizia assoluta non è di questo mondo e molti responsabili di azioni criminose la fanno franca (in Italia quasi tutti), ma questo non vuol dire che quei pochi che vengono colti sul fatto non debbano essere processati. Essendo poi Jaruzelski una persona seria, si può nutrire fiducia che si comporterà con dignità e accetterà il verdetto, affidando magari alla storia un giudizio diverso e più magnanimo da quello del tribunale.

Iran: dure critiche ad Ahmadinejad A circa un anno dalle elezioni presidenziali iraniane un esponente del campo riformista iraniano ha espresso una forte delusioni per i risultati del primo mandato di Ahmadinejad. Dopo le dichiarazioni dello scorso mese della guida della rivoluzione Khamenei, che avevano fornito un’insperato sostegno al capo dello Stato, ora le cifre pubblicate il 5 settembre dalla Banca centrale del Paese a giustificare le critiche dell’opposizione. Soprattutto il livello dell’inflazione, ufficialmente al 27,6 percento, è preoccupante. Per gli analisti infatti si tratta di valutazioni spinte al ribasso. Ad esprimere il disappunto dell’opposizione è stato, martedì scorso, l’ex negoziatore per il nucleare Hassan Rohani, possibile candidato alla presidenza e vicino all’ex presidente Rafsanjani.

Thailandia: rinviato voto su Samak Il parlamento di Bangkok ha spostato il voto che avrebbe dovuto decidere la destituzione del capo del governo Samak Sundaravej, “pizzicato” mentre svolgeva un doppio lavoro. Il rinvio del voto si è reso indispensabile perché il numero dei parlamentari presenti in aula era inferiore a quello minimo previsto dalla Costituzione. Rinviato a mercoledì prossimo, il voto deve decidere il nome del nuovo primo ministro di Bangkok. Ieri sera le proteste di massa dell’opposizione che da oltre due settimane bloccano l’accesso agli edifici governativi hanno marcato un punto a davore. Il partito di Samak ha deciso di non sostenere più il primo ministro.


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Hugo Chàvez fomenta la folla davanti al palazzo presidenziale. L’espulsione dell’ambasciatore statunitense sarebbe una mossa decisa in vista delle prossime elezioni. Evo Morales (foto sotto) ha accusato gli Usa di voler preparare un colpo di Stato militare in Bolivia

Il Venezuela attacca Washington e prova a trascinare con sé i vicini di casa

La guerra dei diplomatici infiamma l’America Latina di Benedetta Buttiglione Salazar ndate all’inferno, yankee de mierda. Non usa mezzi termini il presidente venezuelano Hugo Chávez, che ha espulso giovedì 11 settembre l’ambasciatore americano Patrick Duddy. Si tratta di un segnale di solidarietà nei confronti del presidente della Bolivia Evo Morales, che il giorno prima aveva imposto all’ambasciatore americano Philip Goldberg di lasciare il Paese perché accusato di attentare all’unità dello stato boliviano. Alla base di queste accuse, alcuni colloqui fra il rappresentante di Washington e gli autonomisti boliviani. La retorica – e le espressioni usate – sono degne del miglior Chávez: davanti alla folla che affollava lo spiazzo antistante il palazzo presidenziale di Mirafiori, e con il colorito linguaggio che gli è solito, ha insultato gli americani definendoli “pitiyanquis di merda”, invitandoli ad andarsene cento volte a quel paese (e qui è un eufemismo) perché il popolo venezuelano «è solidale con i fratelli boliviani minacciati dagli imperialisti». E subito si è agganciato anche lui alla teoria della cospirazione e del colpo di Stato che vorrebbe rovesciarlo, organizzato ovviamente dall’impero (americano), dai “pitiyanquis”e dalla stampa. Anzi, Chávez non lo definisce nemmeno colpo di

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Stato, ma usa il termine ben più allusivo di “magnicidio” ed esorta il popolo e le Forze Armate a scendere nelle strade per organizzare la resistenza. Questa volta «non andrà come nel 2002», quando al golpe organizzato contro di lui reagì con il dialogo e la diplomazia:

stato permesso di ispezionarli. Secondo i giornali venezuelani questa è forse la crisi più grave mai intervenuta negli ultimi dieci anni di relazioni tra Venezuela e Stati Uniti, anche se le tensioni tra i due Paesi non sono nuove da quando Chávez è al governo. La relazione non è

La decisione di cacciare l’ambasciatore americano da Caracas nasce «dalla solidarietà con il governo boliviano» che il giorno prima aveva fatto lo stesso. Dura reazione degli Stati Uniti adesso è pronto allo scontro armato ed ha già arrestato diverse persone secondo lui implicate nel complotto. La sua preoccupazione è che gli americani attacchino il Venezuela con aerei militari dipinti con la bandiera venezuelana, così come assai furbamente fecero nel 1961 quando invasero Cuba con aerei statunitensi camuffati da cubani.

Per questo, oltre a cacciare il diplomatico Usa, ha ordinato la restrizione dei voli delle compagnie aeree americane American Airlines, Continental e Delta. Questo perché l’Agenzia di Sicurezza e Trasporto degli Stati Uniti (TSA) ha emesso nei giorni scorsi un comunicato in cui dichiara di non poter garantire la sicurezza degli aeroporti venezuelani, poiché non le è

facile anche in considerazione del fatto che le importazioni americane di greggio venezuelano sono state quest’anno nell’ordine di 40 miliardi di dollari e nel 2007 di 50 miliardi di dollari. E questo nonostante le ripetute minacce del presidente Chávez di sospenderle in qualunque momento. Oggi compreso. Gli americani, dal canto loro, protestano che il Venezuela sia diventato un crocevia importante per il passaggio della cocaina, senza che le autorità locali muovano un dito per impedirlo. Il presidente venezuelano ha affermato che ritirerà subito il proprio ambasciatore a Washington e che non vuol sentire parlare di altri ambasciatori fino a quando non ci sarà un nuovo presidente americano, che rispetterà il Venezuela e tutti i popoli fratelli del-

l’America Latina. Per il momento da Washington non ci sono particolari reazioni. Dopo aver proceduto all’espulsione dell’ambasciatore boliviano, sembra che il governo di Bush non abbia voglia di alzare un polverone per questo avvenimento (peraltro piuttosto grave dal punto di vista diplomatico) ed è verosimile che lascerà al nuovo governo del repubblicano McCain o del democratico Obama questa patata bollente.

Anche in Venezuela manca poco alle elezioni regionali per la precisione 68 giorni - e si è appena aperto il processo sopra il caso della famosa valigetta contenente 800mila dollari destinati a finanziare la campagna elettorale di qualcuno dell’entourage della presidente argentina Cristina Fernandez. Gli Usa accusano il Venezuela di inviare i suoi agenti cospiratori sul territorio americano. È legittimo perciò il dubbio che Chávez stia approfittando di ogni scusa per condurre la sua campagna elettorale in funzione anti-americana. È inoltre probabile che stia già pensando alla possibilità di un’ulteriore rielezione come presidente del Paese, in modo tale da realizzare fino in fondo la rivoluzione boliviana. Un sogno che condivide con il vicino ed amico Morales. Ed è proprio a Morales che ha di-

chiarato di essere pronto ad entrare in Bolivia con il proprio esercito per difenderne l’integrità territoriale e ricacciare indietro i comuni nemici imperialisti. Per fare questo, ha fatto sapere di avere acquistato 24 aerei cinesi da addestramento, perché «abbiamo libertà di farlo, perché siamo un Paese libero» ha dichiarato, aggiungendo di aver finalmente rotto il divieto posto dagli Stati Uniti. Questa nuova situazione incresciosa, unita all’arrivo in Venezuela dei caccia russi per manovre di addestramento e all’attesa della flotta russa nelle acque territoriali venezuelane, farebbe pensare a una rinascita di guerra fredda in un “Caribe caliente” che, sicuramente, a Chávez piacerebbe moltissimo. Il Venezuela, dice, non è più solo nella lotta contro gli imperialisti perchè ormai è alleato dei russi.

Quello che colpisce in tutta questa vicenda è il dilagante anti-americanismo e la quasi sistematica violazione del diritto internazionale pubblico che sembrano avere preso piede in America Latina. Per risolvere eventuali conflitti non si parla più di fare appello ai canali diplomatici, ma anzi, ignorandoli completamente, si parla direttamente di passare ad azioni di forza. Sempre che questo non gli si ritorca contro.


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società

Il secondo uomo più ricco del pianeta entra nel salotto buono dell’editoria Usa

Chi è Slim,e perché scala il NYT di Maurizio Stefanini a un patrimonio stimato tra i 60 e i 68 miliardi di dollari: secondo Forbes il secondo uomo più ricco del pianeta, dopo essere stato per un po’ nel corso dell’estate del 2007 addirittura il primo. Rappresenta con le sue imprese il 5% del Pil messicano. Controlla il 73% di tutto il traffico di telefonia mobile dell’America Latina, con 100 milioni di clienti. Nel 2007 ha scombussolato per un po’ il nostro Paese, quando in cordata con i texani della AT&T ha cercato di acquistare Telecom Italia: peraltro rintuzzato da un fuoco di sbarramento che ha evocato quasi i toni della linea del Piave, salvo poi far finire comunque la società in mani straniere, dello spagnolo César Alierta con la sua Telefónica. Adesso è riuscito a entrare nel salotto buono dell’editoria liberal Usa, con l’acquisto di 9,1 milioni di azioni di classe A della New York Times Company: che sarebbe poi la società che controlla non solo il New York Times ma anche The Boston Globe e International Herald Tribune, oltre a altri 13 giornali, a una radio e a varie decine di portali Internet. Pagate 200 milioni, corrispondono al 6,4% della proprietà, e lo collocano al terzo posto per importanza tra gli editori, dopo la famiglia OchsSulzberger e i fondi Harbinger Capital.

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degli affari e delle professioni. Sono turcos, tanto per fare i primi nomi che vengono a mente, la cantante colombiana Shakira; l’ex-presidente argentino Carlos Saúl Menem; il presidente salvadoregno Tony Saca; il Chief Executive brasiliano di Renault e Nissan Motors Carlos Ghosn; l’attrice messicana Salma Hayek; la soubrette venezuelana Aida Yespica; la modella argentina Yamila Díaz; il portiere della nazionale colombiana Faryd Aly Mondragón.

Ed è un turco anche Carlos Slim Helú: il figlio che all’età non più verde di 52 anni Julián l’immigrato ebbe da una donna messicana, che però era anche lei figlia di libanesi. Se si pensa che il nonno materna José Helú aveva aperto la prima tipografia messicana in caratteri arabi e stampato il giornale della comunità libanese, si può capire come nell’ultimo interesse di Slim per il New York Times vi sia forse un minimo di eredità genetica. L’irresistibile ascesa del piccolo Carlos inizia a 8 anni, quando inizia a lavorare nella

Controlla da solo il 73% della telefonia mobile sudamericana. Le sue industrie rappresentano il 5% del Prodotto interno lordo del Messico. Aveva cercato l’ingresso in Telecom, ma è stato fermato

È Carlos Slim Helú: un nome che sa di yankee e di cowboy quell’incongruo “Slim” che in inglese significherebbe “smilzo”, quando poi lui in realtà ha un fisico a botticella. In realtà suo padre, maronita libanese, si chiamava Youssef Salim. I popoli semiti, sperò, le vocali non le scrivono proprio nei loro alfabeti, e le pronunciano appena a voce. Così quando a 14 anni nel 1902 si presentò all’ufficio di immigrazione messicano il funzionario trascrisse Salin con Slim, e per le iniziali decise pure che Youssef doveva corrispondere a Julián, invece che alla traduzione vera José. Inoltre aggiunse il cognome della madre Haddad, all’uso ispanico. Julián Slim Haddad non era che uno dei milioni e milioni di cristiani libanesi, siriani e palestinesi che da fine ‘800 hanno continuato a venire oltre Oceano: per sfuggire alla pressione della maggioranza islamica, ma più ancora per “fare l’America”, fedeli alle antiche vocazioni imprenditoriali degli avi fenici. Poiché c’era ancora l’Impero Ottomano a quell’epoca e turco era il loro passaporto, turcos li ribattezzarono. E turcos continuano ancora oggi a chiamare i loro discendenti in America Latina, dove sono la crema del mondo

Il palazzo di 8 Avenue, sede della redazione newyorchese del quotidiano, uno dei più quotati al mondo. A lato, la copertina del New York Times del 12 settembre del 2001, sull’attacco qaedista alle Torri Gemelle. In basso, una delle prime copertine del giornale. Nell’altra pagina, Carlos Slim: nonostante la grave crisi del mercato dell’editoria, ha acquisito il 6,4% della società che edita il NYT e altri importanti quotidiani statunitensi. A chi gli ha chiesto lumi sull’acquisto, ha risposto dicendo che si tratta di «un buon affare»

merceria di papà. A 12 già investe in Borsa; a 15 ha 44 azioni nel Banco Nacional; a 25 comincia a acquisire attività. Il tutto, senza mancare di prendersi comunque una laurea in Ingegneria Civile.“Re Mida”lo hanno ribattezzato, per la sua capacità di far risalire subito le quotazioni delle imprese in dissesto che compra. Nel 2006, scalando posizioni a ogni anno, diventa il numero tre nella classifica dei più ricchi del mondo della rivista Forbes. Dal

La flessione del mercato

La crisi della Signora in Grigio

oi italiani diciamo “la Rosa” per indicare la Gazzetta dello Sport e “il Corrierone” per il Corriere della Sera. Per gli americani il New York Times è invece “La Signora in Grigio”: Gray Lady. E nel nomignolo, estesosi dal formato al contenuto, è tutta l’idea di seriosa autorevolezza che è a un tempo la forza e il limite di questo quotidiano, creato nel 1851 da Henry Jarvis Raymond e George Jones: il primo, uno dei fondatori del Partito Repubblicano con Abraham Lincoln; l’altro, un ex-banchiere che aveva deciso di cambiare mestiere. Decollato negli anni ’70 dell’800 grazie alle sue campane contro la corrotta amministrazione democratica della città, dagli anni ’80 abbandonò però la tradizionale posizio-

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ne filo-repubblicana per dichiararsi indipendente, e appoggiare addirittura nel 1884 in Grover Cleveland per la prima volta un candidato democratico alla Presidenza.

Ma la svolta arriva nel 1896, quando il giornale in cattive acque è comprato dal 38enne Adolph Simon Ochs. Figlio di ebrei immigrati dalla Germania, Ochs aveva lasciato la scuola per iniziare a lavorare come garzone di tipografo a 11 anni, e con i suoi risparmi era riuscito a diventare editore del Chattanooga Times a 19: vero prototipo della leggenda del self made journalist yankee. Una sua trovata vincente fu quella di uno stile il più possibile obiettivo, all’epoca in cui negli Usa imperversava un tipo di giornalismo fa-


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2007 è il numero due, e come si è ricordato per un po’ è stato anche il numero uno. Probabilmente lo sarebbe ancora, se prima non avesse perso la partita italiana, e poi il presidente messicano Felipe Calderón non gli avesse scatenato contro l’anti-trust. Lui comunque, vedovo dal 1999 e padre di sei figli a tre dei quali ha già delegato gran parte del suo impero, è il primo a dire che non gli importa niente di essere «il primo, il ventesimo o il numero 2000» nella classifica dei più ricchi. Anzi, contesta addirittura la classifica. «Io ho sempre le stesse cose che avevo 10 anni fa», dice. «Ma Forbes e Fortune calcolano le imprese ai prezzi di mercato, e questi nel-

l’ultimo decennio sono andati salendo».

Un basso profilo motivato anche da ragioni di prudenza politica, anche se in un Paese dove metà della popolazione vive con meno di 5 dollari al giorno curiosamente i suoi critici più accesi non stanno a sinistra. Anzi, lui ostenta la sua amicizia con politici “progressisti”come gli argentini coniugi argentini Kirchner o Andrés Manuel López Obrador: l’ex-sindaco di Città del Messico sconfitto alle ultime presidenziali. Ma quello è un appoggio che il presidente Calderón, di centro-destra, si è appunto legato al dito, da cui il pricedimento partito contro di lui. Il grande decollo di Slim, infatti, avviene grazie alla privatizzazione con cui il 9 dicembre 1990 il governo di Carlos Salinas de Gortari gli passa il monopolio chiavi in mano, permettendogli di imporre i prezzi a suo piacimento. Solo nel 1997 e per effetto della partenza del Nafta la Telmex si apre alla concorrenza, ma senza che in realtà le sue posizioni siano scalfite, se non in maniera minima. Tuttora in Messico Telmex rappresenta il 91% della telefonia fissa e América Móvil il 77% di quella mobile.

A 12 anni investe in Borsa. A 25 comincia ad acquisire attività, mentre si laurea in ingegneria civile. Lo chiamano Re Mida

zioso all’estremo “All The News That’s Fit To Print” è il motto che dal 1897 campeggia sulla testata: “tutte le notizie che è giusto stampare”. Altra trovata, la drastica riduzione dei prezzi, dai 3 centesimi allora correnti a uno solo. Da cui il paradosso di un giornale allo stesso autorevole ma anche popolare: da 9000 copie al momento dell’acquisto di Ochs fino alle 780.000 degli anni ’20. Non va neanche trascurato il netto impegno dell’ebreo Ochs contro l’antisemitismo, in una città che si avviava a diventare la più popolosa metropoli ebraica del mondo. Sposato alla figlia di un rabbino, Ochs ebbe una figlia di nome Iphigenie che si sposò Arthur Hays Sulzberger, anch’egli giornalista e anch’egli ebreo. Sulzberger divenne editore del gior-

nale nel 1935, alla morte del suocero. Nel 1963 il posto fu preso dalla terza generazione di Arthur Ochs ”Punch” Sulzberger, e nel 1992 dalla quarta Arthur di Ochs Sulzberger Junior.Tuttora gli Ochs Sulzberger detengono il 19% della New York Times Company, che oltre al New York Times possiede anche The Boston Globe, International Herald Tribune, altri 15 quotidiani, 8 periodici, la radio di NewYork Wqxr e 35 siti Internet.

Ultimamente, però, la vecchia Signora in Grigio non è troppo in salute, come dimostra il 33% che le sue azioni hanno perso negli ultimi 12 mesi. Con 1.038.000 copie vendute non è oggi che il terzo quotidiano Usa, dopo le 2.293.000 del coloratissi-

mo Usa Today e i 2.012.000 del conservatore Wall Street Journal. Ai più generali problemi della carta stampata si aggiunge la crisi dell’ideologia liberal, tant’è che per reggere la concorrenza del Wall Street Journal di recente ha iniziato a dare ruoli importanti a personaggio di destra come l’editorialista neocon Bill Kristol o il nuovo direttore della Book Review Sam Tanenhaus. Da ultimo è venuta l’irruzione nella proprietà dei due fondi Harbinger Capital y Firebrand Partners e del messicano Slim, che tra tutti hanno ormai il 30% del pacchetto azionario. È vero però che le azioni classe B, quelle che danno il diritto a nominare i direttori, sono tuttora per lo più saldamente in mano agli eredi di Adolph Simon Ochs. (m.s.)

Negli ultimi tempi, Slim è sbarcato nella Tv su Internet, da cui un recente studio prevede che entro quattro anni ricaverà un fatturato di almeno 4 miliardi di dollari, con una quota del mercato latino-americano pari al 31%. In molti ritengono che proprio in chiave di sviluppo della Tv su Internet vada inquadrata anche la sua incursione in uno dei principali gruppi editoriali del mondo.


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cinema

Così è Valerio Mastandrea, l’attore romano... «malato per la Roma»

Un timido e talentuoso quarantenne autodidatta di Piergiorgio Buschi opo essere stato presentato in anteprima alla sessantacinquesima mostra del cinema di Venezia, è uscito da pochi giorni nelle sale cinematografiUn giorno che Italiane perfetto, il nuovo lavoro del regista di Cuore sacro e Le fate ignoranti Ferzan Opzetek. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Melania Mazzucco, rielaborato in sede di sceneggiatura da Sandro Pietraglia assieme allo stesso Opzetek, narra una storia crudissima, quella di una persona che non riesce ad arrendersi all’idea di aver perso la propria famiglia dopo la separazione dalla moglie, di cui è follemente innamorato e da cui ha avuto due figli. Una frattura che porta l’uomo a cercare in ogni modo un contatto con il proprio passato recente, di cui non riesce a liberarsi, fino a farlo sprofon-

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«Re di Roma», Mastandrea viene scoperto giovanissimo da Maurizio Costanzo, che lo catapulta sul palcoscenico del suo show dopo averne ricevuto una lettera. Nel giro di poco tempo finisce per diventare un ospite fisso della trasmissione dando indirettamente voce a una gioventù ribelle e travagliata da un forte mal d’animo.

Desideroso di mettersi ulteriormente in mostra, combattendo la sua innata timidezza (l’attore si definisce «un pericoloso mix di egocentrismo e pudicizia») decide di intraprendere la carriera di attore come autodidatta, e dopo aver acciuffato alcuni piccoli ruoli grazie alla celebrità televisiva, ottiene una parte di maggior rilievo in Ladri di cinema di Piero Natoli, che lo porta all’attenzione di critica e pubblico. Con il passare degli anni Vale-

rio è diventato il principale catalizzatore delle proposte non solo cinematografiche, ma anche teatrali, di registi e produzioni indipendenti, che reputa «portatori sani di candore», una predilezione per questo tipo di progetti dovuta a suo giudizio al minor legame e all’inferiore condizionamento rispetto ai diktat delle case maggiori, (che vincolano la creatività artistica che invece trova libero sfogo nei contesti sotterranei, nell’ambito dei quali è sicuramente possibile realizzare prodotti di ottima qualità contenendo costi e prezzi). Pur consapevole di non essere dotato di una grande tecnica, supplisce a suo dire a questa carenza attraverso un costante interrogarsi su ciò che è come persona e ciò che porta di sé nel suo lavoro, non amando troppo «stare comodo nelle situazioni né camminare sul vel-

Da pochi giorni è nelle sale cinematografiche con ”Un giorno perfetto”, il nuovo lavoro del regista Ferzan Opzetek. L’artista, che si definisce «un pericoloso mix di egocentrismo e pudicizia», venne scoperto da giovane da Maurizio Costanzo dare nel dolore e nell’ossessione. Una vicenda amara, piena di sofferenza e la cui conclusione è ancora più aspra. Che porta all’attenzione del grande pubblico (ove ce ne fosse bisogno...) una tematica delicata come quella dei drammi e delle violenze familiari. In diverse interviste, il regista ha dichiarato di aver compiuto sin dalla fase di elaborazione del copione, un’operazione di profonda e accurata ricerca per l’individuazione degli interpreti che avrebbero potuto al meglio identificare i personaggi del film, per poter assemblare un cast «perfetto». E’ così che la scelta per il padre dell’ormai disgregato nucleo familiare è caduta su Valerio Mastandrea.

Romano purosangue al punto di essere appellato e soprannominato dai suoi concittadini, alla stregua di un altro idolo della capitale il calciatore Falcao,

luto», facendo invece proprio un modo di recitare che trova carburante in un sano conflitto interiore, nella sfida con i propri limiti e potenzialità che lo ha portato a vestire i panni di personaggi estremamente diversi tra di loro («l’attore deve saper fare tutto e di tutto per evitare il rischio dell’omologazione in un solo tipo») in un costante processo creativo. Che spesso gli spettatori potrebbero non percepire vista la naturalezza con cui interpreta i diversi e continui ruoli , dietro ai quali si cela il suo «anticonformismo umano».

Nello stesso tempo Mastandrea pensa che il mestiere di attore vada vissuto con leggerezza e lievità (cui fanno da contrappunto la riflessività e la consapevolezza con cui va affrontata la vita quotidiana), ma anche con l’intensità di chi deve invitare il pubblico a pensare.

Non è quindi casuale il suo ispirarsi ai grandi registi e attori del dopoguerra e della commedia degli anni Sessanta, che hanno mostrato con un sorriso amaro l’Italia per ciò che era.

Grande amante dello sport, i suoi trascorsi come giocatore di pallacanestro gli hanno fatto maturare l’idea di squadra, il lavorare con sacrificio al servizio di tutti, una visione che ha applicato sin dagli inizi della sua carriera, quando ancora non aveva avuto l’occasione di recitare in un ruolo da protagonista. Per lui il cinema è da subito una «attività collettiva», un momento di forte aggregazione sociale così come lo sono la politica e l’altra sua grande passione (o forse è più corretto definirla «malattia»): la As Roma. Il suo approccio personale è distante anni luce dallo stereotipo dell’attore di successo, avendo fatto suo un basso profilo cui senza dubbio contribuisce il carattere schivo, che lo porta ad essere lontano da atteggiamenti da divo del cinema muto degli anni Trenta (che sono un po’ diventati il marchio di fabbrica di una buona parte degli interpreti dell’intrattenimento di casa nostra, afflitti da una forma virale e perniciosa

In basso, Valerio Mastandrea. In alto, insieme a Ferzan Ozpetek, regista di ”Un giorno perfetto”, e l’attrice Isabella Ferrari, durante la presentazione al Festival di Venezia di presenzialismo ad ogni evento mondano, anche il più insignificante). Questo tenersi spesso ai margini ha consentito all’attore romano di non essere coinvolto nella ormai consolidata tendenza del nostro cinema a creare «stelle», che così come rapidamente nascono altrettanto rapidamente precipitano, una sorta di colossi di argilla che rispecchiano, secondo Mastandrea, una «società dominata dall’esigenza di avere punti di riferimento non fissi ma temporanei».

Nella sua ultima fatica cinematografica,dà il volto e il corpo a un personaggio sgradevole, brutale sia celebralamente che fisicamente, e che lo ha costretto a un processo di astrazione nel tentativo assoluto di non immedesimarvisi, vedendovi in realtà la trasposizione più limpida. Una sorta di contenitore ideale degli istinti più barbari e grotteschi della razza umana. Un ruolo molto complesso che mette in mostra ancora di più le qualità di questo talentuoso quarantenne autodidatta.


falsi miti

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Dorme poco «per non perdere tempo» e usa lo specchio «per fare l’amore». Le confessioni (banali) della Loren de’ noantri

Fenomenologia della Valeriana nazionale di Pier Mario Fasanotti bbondante e burrosa. Apparentemente svanita se non tonta, in realtà furbetta soprattutto nel far credere che qualcosa sa fare oltre a mostrarsi. E’ una donnona di Riace, gran sedere, zigomi che paiono due babà nella vetrina d’una pasticceria di Posillipo, ma senza l’appeal archeologico della Magna Grecia (è nata a Roma nel 1967 ma è legata alla Sardegna dove ha vissuto da ragazzetta). Anche Valeria Marini ha avvertito l’impellente necessità interiore, griffata e salottiera, di scrivere un libro. Su se stessa, ovviamente, visto che questo tema ha una sua banale e ossessiva unicità. Il libro s’intitola Lezioni intime (Cairo editore, 189 pagine, 17 euro), ed è stato scritto con l’immancabile «giornalista free lance di costume», ossia Gianluca Lo Vetro, che, come leggiamo nel risvolto di copertina è stato fulminato da Andy Warhol a tal punto da considerare la Valeriona «una pop art vivente».

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li della Feltrinelli o di un centro commerciale). «Shopping: la vera medicina antidepressiva» (E’ molto “cool”, oggi, citare la depressione. E’ come affermare di avere un’anima tormentata: segue a questo punto quell’espressione che aveva Woody Allen di fronte a una cretinata pronunciata da una donna bella). «Tanga: il gioiello al quale non potrei rinunciare. Come la vera per chi è sposato. Anche se è una “fede” che può indurre all’infedeltà» (Quando sarà avanti negli anni, e scomparirà (forse) la fettuccina infra-natiche, conoscerà la pseudo-depressione? E noi cinici e smemorati magari non ce ne accorgeremo). «Quadri: trovo geniali quelli di Andy Warhol» (Raccomandiamola a Vittorio Sgarbi, sindaco di Salemi). «Notte: sto sveglia. Dormire è tempo perso» (Finalmente capiamo il perché di quella sua aria perennemente assonnata. Ma che farà quando splende la leopardiana luna in cielo?). «Giorno: la domenica perché è il giorno del Signore. E’ l’unico nel quale posso dedicare un po’di tempo a me stessa» (Già, come se negli altri giorni si dimenticasse del suo io. In ogni caso tra lei e il Padreterno, il Sommo è destinato a perdere ai punti). In mezzo al libro c’è un inserto patinato. Chiuso. Che ricorda quelli para-sessuali di Due più, tramontato periodico della Mondadori. Occorre usare le forbici per soddisfare la nostra sconveniente libidine, scatenata dalla scritta “Vietato ai minori”. Ma che delusione. C’è solo la fiera della lingerie, con qualche seno ammiccante. No, aspettate: ci sono anche frasi da kamasutra da hinterland intitolate “Pratiche inventate da Valeria”. «Scavalcamento: gioco di accavallamento e scavalcamento delle gambe». Forse Valeriona ha visto Basic instinct, ma non ha nulla a che fare con Sharon Stone, cui va il primato della malizia perfida in versione cinematografica. «Valeriofilia: il piacere di

”Lezioni intime” è il libro tremendamente lezioso e alla moda con cui Valeria Marini ha deciso di mettersi a nudo insegnando l’arte della seduzione

Lezioso e tremendamente alla moda il suo libro, che ha la pretesa di insegnare qualcosa a proposito della seduzione. Irrobustita, nella sua autostima, da una frase di Franco Zeffirelli, uomo e artista al quale spesso piace parlare indipendentemente dalla profondità di quel che gli esce dalla bocca: «Valeria è l’ultima diva dopo la Loren e la Lollo». Ma guarda un po’, mi suona come una quasi-bestemmia, si vede che sono ignorante in storia del cinema. Lezioso lo scritto autobiografico, dicevo. La Marini è un luogo comune che cammina sui tacchi di una involontaria arroganza mentale. Nella parte finale del libro, che ha una copertina costruita attorno all’immagine della beneamata Marilyn Monroe (quella sì pop art vivente, e destinata a rimanere nella Storia, genuinamente «sciocchina» come disse arthur Miller), ci sono pillole alla paprica destinate a rubrichette del cuore per bruttine stagionate e irriducibili, quelle che volano tra sogni improbabili aspettando il turno dal parrucchiere. Qualche esempio. «Specchio: lo uso soprattutto quando faccio l’amore». (Tanto per credere di essere un uragano di feronomi e per vivisezionare il fuco spossato dalla fatica sessuale). «Ricchezza: quella dell’anima» (Deve aver sbirciato qualche libro di Lucio Anneo Seneca sugli scaffa-

Valeria Marini ha da poco pubblicato un libro-confessione (sopra, la copertina). A sinistra, il regista Franco Zeffirelli, che l’ha definita «ultima diva dopo la Loren e la Lollo». A destra, il coautore di ”Lezioni intime”, il giornalista Gianluca Lo Vetro

tutti quelli che, facendo l’amore con la Marini, scoprono Valeria» (Potenza del tanga, evidentemente. A meno che “Valeria” sia un prodotto dell’anima, una categoria filosofica, un archetipo conturbante ed eterno). Non mancano altre gags, e invitiamo ad annotarle o memorizzarle per far bella figura durante gli happyhours: «Vagina: la principessa sul pisello»; «Viagra: la pillola delle meraviglie»; «Verginità: un patrimonio al quale bisogna dare valore» (Evidentemente parla di altre donne, più virtuosamente cupe).

Tra le sette regole che elenca «per mantenere il successo», ce n’è una stupenda: «Mantieni sempre un grande senso di autocritica». Immaginate se non l’avesse? E ancora: «Non credere al delirio di onnipotenza» (excusatio non petita… ma noi maligni non traduciamo la nota frase latina). Nella sua brama di citazione, ha riportato all’inizio di un capitolo una frase di Albert Einstein: «Qualcosa di profondamente nascosto deve trovarsi dietro a ogni cosa». Frase che puzza di ironia scientifica, certamente valida in un laboratorio universitario. Valeriona (o Valeriana, visto che dorme poco) si rende conto che tirare in ballo Einstein può essere un boomerang micidiale? No, sicuramente no. Poi ci sono le testimonianze di attori, critici, uomini di spettacoli. Vip, insomma. Piero Chiambretti con la scusa di parlare di lei parla soprattutto di se stesso, com’è sua consuetudine. Comunque ricorda di essersi impressionato dalle «dimensioni stellari di quella diva da Palazzo Borghese, io che mi ritengo un artigiano del tubo catodico». Non male il doppio senso del tubo. Sta di fatto che la modestissima statura (fisica) di Chiambretti condiziona lo show-man a far paragoni tra Himalaya e colline del Monferrato, con la tristezza che ne può seguire. Tra le testimonianze eccellenti viene riportata anche quella del letterato Giuseppe Scaraffia, mente fine: «Valeria Marini è evidentemente un capolavoro vivente e, come tutti i capolavori, è moderna e antica… basta guardare la sua pettinatura, il suo rossetto e lo sguardo languido, per capire che è un’evidente autoironica celebrazione di Jessica Rabbit…». La frase che Scaraffia su tanta carne rubensiana sbattuta sugli occhi è stata pronunciata a Markette, programma di La 7 condotto da Chiambretti.Viene il dubbio che scherzasse, visto il contesto. E forse se ne sono accorti in pochi. Lei, il cartone animato senza coniglio, certamente no.


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arte

Un quadro una storia. «Officina a Porta Romana» è il dipinto con il quale Umberto Boccioni apre la strada al futurismo

Il sogno di una città di Olga Melasecchi hissà se inconsapevoli germi di spirito futurista si erano insinuati nell’animo di Umberto Boccioni bambino, costretto, fin dalla tenera età, ad adattarsi a case e compagni di gioco diversi e sempre nuovi per i continui spostamenti di residenza della famiglia! Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 19 ottobre 1882 – Verona, 16 agosto 1916), uno dei più grandi pittori del Novecento (italiano e non solo) e tra i più attivi protagonisti del movimento futurista, nacque infatti per caso a Reggio Calabria, da genitori di origine romagnola, dal momento che il lavoro di impiegato di prefettura del padre Raffaele lo portava a cambiare spesso città: dalla Calabria a Forlì, poi a Genova nel 1885 e a Padova nel 1888, dieci anni dopo a Catania dove nel 1899 il diciassettenne Boccioni consegue il diploma presso il locale Istituto tecnico.

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Fondamentale sarà l’incontro con Previati, colpito dai valori luministici e allo stesso tempo simbolici insiti nelle sue opere divisioniste: oltrepassando l’esperienza troppo contingente e limitata alla pecezione sensibile dell’impressionismo, Boccioni trova nella frammentazione delle forme nella luce l’attimo e l’eterno, il movimento e la stasi. Il mito della modernità, della macchina e della velocità, te-

«Sento che voglio dipingere il nuovo, il frutto del nostro tempo industriale»: con questo progetto, l’artista aprì la strada al Novecento

mi cari alla poetica futurista, affascinano il giovane Boccioni che già a Parigi aveva trovato ciò che Non si conosce il percorso inteandava cercando, rimanendo fortemente impressionato dalla riore che spinge il futuro artista a realtà metropolitana della capitatrasferirsi a Roma l’anno successile francese, dai tram, dalle staziovo per iscriversi alla Scuola Libera ni del metrò, dalle mille luci dei del Nudo e, contemporaneamente, caffè. Milano, la «locomotiva a lavorare come apprendista carsbuffante della penisola-treno» di tellonista. Nella capitale conosce Marinetti, è la città che più si avviGino Severini e insieme frequentacina al modello parigino, e lì si stano le lezioni di pittura del già afbilisce con la madre e la sorella fermato Giacomo Balla; le sue prinei pressi di Porta Romana, nella me opere note risalgono invece al periferia industriale della città, 1901. Dunque, artisticamente si dove era stato aperto lo Scalo forma a Roma e la sua produzione Merci e dove erano sorti i gasomeprefuturista, precedente cioè al tri cilindrici di Porta Ludo1910, rivela questa sua forvica e le Officine Meccanimazione romana. Non aveche Grondona e C., il magva, tuttavia, ancora messo gior complesso industriaradici, non amava l’atmoUmberto Boccioni nasce a Reggio Calabria nel 1882. le della città. Non è certo sfera provinciale di Roma, L’apprendistato culturale, dopo gli studi, comincia la Milano accademica dominata a quel tempo dal nell’aprile 1906 quando compie il primo viaggio a Padei salotti eleganti, ma crepuscolarismo dannunrigi, e prosegue a Milano, dove si trasferisce nel 1907. la città dei lavoratori, ziano, e riprende a viaggiaQui, dopo l’incontro con i divisionisti e con Filippo la città tecnologica, in re, prima nella splendida e Tommaso Marinetti, scrive, insieme a Carlo Carrà, cui pulsano forti energie stimolante Parigi degli iniLuigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini, il positive: «Sento che voglio zi del XX secolo, dove in«Manifesto dei pittori futuristi» (1910). Benché indipingere il nuovo, il frutto contra Cezanne, Van Gogh fluenzato dal cubismo, cui rimprovera l’eccessiva del nostro tempo industriae Toulouse Lautrec, poi in staticità, Boccioni evita nei suoi dipinti le linee rette e le», afferma Boccioni in Russia, per tornare infine usa solo colori complementari. Tra le sue opere più quegli anni. in Italia nel 1907, passando rilevanti, di ricordiamo «Rissa in galleria» (1910), per Varsavia e Vienna. Do«Stati d’animo n. 1. Gli addii» (1911) e «Forze di una Risale a quel pripo aver soggiornato per strada» (1911), dove la città, quasi organismo vivo, mo periodo milaqualche mese a Padova e a ha peso preponderante rispetto alle presenze umane. nese, precedente Venezia, nell’agosto di Durante la prima guerra mondiale, dopo aver preso la fase di massiquell’anno si stabilisce dele distanze dal futurismo, nel 1916, al culmine della ma aderenza al finitivamente a Milano, fama, muore a causa di una banale caduta da cavalfuturismo città certamente più consolo durante un’esercitazione militare. astratto, una na alle sue inclinazioni serie di dipinmoderniste.

l’artista

ti dedicati a questa realtà urbana, tra i quali forse il più importante è Officine a Porta Romana, del 1909, ora Collezione IntesaBci, Milano. Dipinto che esprime lo spirito nuovo della “città che cambia”, e che anticipa le teorizzazioni di Marinetti contenute nel manifesto tecnico della pit-


arte

tura futurista del 1910 (mentre il manifesto del futurismo è del 1909): «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa, canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta».

La veduta, quasi onirica, è colta in un’ora mattutina, con le ombre lunghe del sole ancora basso ma già potente da esaltare il giallo del campo

13 settembre 2008 • pagina 21

«Noi futuristi - aggiungeva Boccioni - detestiamo il campestre, la pace del bosco, il mormorìo del ruscello. Preferiamo l’uomo stravolto dalla passione e dalla pazzia del genio; i grandi caseggiati popolari, i rumori metallici, il ruggito delle folle. Le piste, le gare atletiche, le corse ci esaltano! Il traguardo è per noi il meraviglioso simbolo della modernità!».

E questa veduta milanese a volo d’uccello, vista probabilmente dalla finestra della casa dell’artista, è davvero un inno alla speranza e alla fiducia nel lavoro dell’uomo. «Si distinguono i bastioni di Porta Ludovica ha evidenziato Andrea Ragusa - dove un grande isolato trapezoidale è occupato dai fabbricati della Stazione Tram per Pavia e attraversato da una roggia. Ai margini del tessuto urbanizzato la scacchiera del Piano Beruto è disegnata su un territorio ancora agricolo, sul quale solo nel 1941

Qui sopra, «Officine a Porta Romana» del 1909, il quadro di Umberto Boccioni che anticipa le tematiche cromatiche e quelle del movimento tipiche del futurismo. A sinistra, in piccolo, due particolari: in alto, «Dinamismo di un ciclista», del 1913; in basso, «Stati d’animo: quelli che vanno» del 1911. Nell’altra pagina: in grande, la più celebra scultura di Boccioni, «Forme uniche nella continuità dello spazio» del 1913; sopra, «Idolo moderno» del 1911. Più a sinistra, Umberto Boccioni

Giuseppe Pagano fisserà una prima presenza con i volumi “a svastica” della sede storica dell’Università». La veduta, che sembra quasi visione onirica, è colta in un’ora mattutina, con le ombre lunghe del sole ancora basso ma già potente da esaltare il giallo del campo di periferia solcato da una lunga strada bianca che taglia diagonalmente la composizione.

Strada che sembra correre verso l’infinito, come un grande raggio di luce che perfora e velocizza la materia, e che imprime all’opera un dinamismo assolutamente nuovo. Lungo questa strada è il corteo dei lavoratori che si recano nelle fabbriche con le ciminiere fumanti, ancora attive alla fine dei turni notturni, perché la produzione non deve fermarsi. Su tutto il paesaggio domina come un «idolo moderno» – e questo sarà anche il titolo di un dipinto di Boccioni del 1911 – un palazzo in costruzione, il caseggiato popolare caro all’artista, motore e simbolo del lavoro dell’uomo.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO

LA DOMANDA DEL GIORNO

Tattoo vietati al Real, che cosa ne pensate? CHIEDERE IL PERMESSO È RIDICOLO La decisione del Real Madrid di obbligare i suoi tesserati a chiedere il permesso alla società per decorare i propri corpi è francamente ridicola. La versione ufficiale recita che si tratta di un’esigenza igienica nel tentativo di scongiurare qualsiasi rischio di infezioni. In realtà però la società non può imporre ai suoi atleti misure limitative che non abbiano a che fare direttamente con il tipo di prestazioni fornite dai dipendenti. Ad esempio, sarebbe comprensibile vietare ai calciatori di farsi crescere le unghie dei piedi o di praticare sport particolari che possono vanificare gli allenamenti specifici per giocare a pallone. In realtà però il provvedimento dei dirigenti del Real Madrid mi sembra eccessivamente limitativo rispetto alla libertà personale. I tatuaggi hanno in fondo un semplice rilievo estetico, e dubito che persone così strapagate si affidino a macellai che lavorano nel lerciume o in condizioni igieniche catastrofiche. Il decalogo stilato sui piercing e i tatuaggi mi sembra un comico ritrovato che ha a modello certe lungaggini ossessive della Russia zarista e iperburocratica. Poi la querelle sulla posizione del tatuaggio che deve essere comunicata e approvata dalla so-

LA DOMANDA DI DOMANI

La Lega annuncia una stretta sulle moschee italiane. Favorevoli o contrari?

cietà è davvero stucchevole. L’inadempiente dovrebbe essere sottoposto a scrupoloso controllo, se sceglie di collocare il disegno in aree private del suo corpo?

Giovanni Lottieri Pavia

SOLO UNA QUESTIONE DI LAMENTELE DEGLI SPONSOR Ho il sospetto che dietro questo giro di vite estetico cosmetico ci siano solamente i biechi interessi di aziende che sponsorizzano i calciatori con magliette, calzettoni, scarpini e quanti altri accessori personalizzati. Credo che l’esistenza di bei tatuaggi sulla pelle di grossi nomi, possa distogliere troppo l’attenzione dalle foto mirate che avvantaggiano gli sponsor. Gli abiti indossati dai big, cioè, in presenza di disegni tribali e quant’altro, oscurerebbero troppo la visibilità del marchio, e perciò si interviene con regolamenti e sofisticherie igienico sanitarie che secondo me nascondono solo brame di speculazione.

Carlo Baldaccini Salerno

CONTRO I TATUAGGI A PRESCINDERE Che si tratti dei calciatori del Real Madrid, o di una brigata di alpini altoatesini poco m’importa. Io sono contro i tatuaggi a prescindere, perché sono solo un tributo modaiolo che tutti i fashion victim si sentono obbligati a pagare. A me disgusta trapanare la pelle con l’inchiostro, e lasciarci il segno indelebile di qualcosa che magari ha solo fascino sociale, ma a noi non dice niente.

Rosanna Barcella Imperia

SOCIETÀ DI CALCIO COME LA GESTAPO I soldi copiosi che le società versano ai calciatori stanno facendo perdere la testa a manager e dirigenti. C’è un controllo ormai ossessivo e insopportabile di ogni aspetto della vita dei giocatori, per pure questioni finanziarie.

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

L’ECCITANTE SOAP DELLE ELEZIONI USA Quanto sta succedendo tra il Colorado ed il Minnesota è sbalorditivo. Non per l’arrivo del uragano Gustav, capace di far saltare la convention dell’elefantino a Minneapolis, bensì per lo straordinario spettacolo della democrazia a stelle e strisce. Per mesi tutta l’America democratica si è mobilitata per scegliere fra un giovane afroamericano di bella presenza ed ottime speranze ed una signora di mezza età dal pedigree invidiabile; e quella repubblicana fra l’attempato eroe del Vietnam e un miliardario mormone. Neppure il genio di Dalton Trumbo o di Truman Capote avrebbero potuto partorire simili sceneggiature. A Denver abbiamo assistito ad un evento messianico, come piace agli americani con tutti gli attori al loro posto pronti a celebrare il figlio di Dio fattosi uomo (Obama); con lui il vecchio profeta gravemente malato (Ted Kennedy), la matrigna (Hillary) e dulcis in fundo lo “spirito santo”, Bill Clinton, il vero “one man show”. C’è stato anche il tempo di assistere all’investitura pubblica

Mario Forestiere Roma

SUONALA ANCORA PAUL La scultura che raffigura Paul McCartney nella piazza di Amburgo dedicata ai Beatles che hanno iniziato la loro carriera proprio nella cittadina tedesca

IL BUON ACCORDO CON GHEDDAFI Seguo la politica estera ed ho letto con piacere l’ articolo firmato dal Direttore il 4/9. Non potendo parlare con Lui davanti ad un buon caffè, gli scrivo. Condivido lo spirito che lo anima. Durante l’ultima crisi internazionale ho visto con piacere che non Frattini al mare, ma Scotti si occupava del caso, ricordandolo buon ministro agli Interni. Propongo poche brevi osservazioni che il mio amico Gianni, che non c’è più, avrebbe potuto fare da intellettuale con mente brillantemente cinica. La politica estera ha tempi lunghi e può variare poco all’alternarsi dei governi e, nel caso italiano non può essere disgiunta dai problemi di approvvigionamento energetico. Il trattato con il levantino califfo Gheddafi, af-

dai circoli liberal

del “vice-president” democratico, Joe Biden, titolare di una tristissima vicenda personale e di una carriera politica non sempre supervincente. Ma il colpo gobbo l’ha fatto il vecchio guerriero conservatore John McCain: mentre il leader del mondo buono ed abbronzato si accingeva a parlare nel gremito stadio dei Denver Broncos, egli, dall’Ohio, annunciava il ticket con una bella signora dell’Alaska, giovane, dinamica, intelligente e con un figlio Down. Tuttavia non si tratta di una novità: già nel 1984 il candidato democratico Walter Mondale volle al suo fianco Geraldine Ferraro. Ronald Reagan che se li pappò in un sol boccone. Oggi i tempi, e soprattutto i candidati, sono cambiati. E forse lo siamo anche noi. L’unico rammarico è che noi italiani non possiamo partecipare al voto. A noi la sorte ha riservato il titanico scontro tra Berlusconi e Veltroni, con la regia di Maurizio Costanzo ed i sottotitoli di Bruno Vespa. Alessandro Doneddu COORDINAMENTO REGIONALE CIRCOLI LIBERAL - SARDEGNA

flitto da problemi di continuità dinastica, è un affare che dura da anni e D’Alema, meno spregiudicato del ”Silvio nostro”, non l’ha concluso per gli alti costi che secondo lui comportava. Vista la nostra posizione, una più incisiva politica mediterranea, in linea con il Trattato di Barcellona, non ci porterebbe che bene per cercare di recuperare lo spazio perduto dal dopo-Craxi e potrebbe servire ad equilibrare meglio la politica europea. Quanto poi alle ”...iniziative destinate a puntellare regimi con i quali la coesistenza deve essere impraticabile...”, siamo scalognati: il nostro gas è in gran parte di provenienza da paesi a dir poco non democratici, ci costa molto economicamente ed ancor più eticamente.

Dino Mazzoleni Gualdo Tadino (Perugia)

APPUNTAMENTI SANTA MARIA DI LEUCA – DOMENICA 14 SETTEMBRE Tavola Rotonda ”Quale agenda politica per il Paese?” – Hotel Terminal – dalle ore 18.30 alle ore 21 Introducono i lavori Mario de Donatis, presidente Identità e dialogo, e Ignazio Lagrotta, coordinatore Circoli liberal Puglia. Intervengono: Paola Binetti, Michele Emiliano, Marco Follini, Francesco Rutelli e Bruno Tabacci. Con la partecipazione del Coordinatore nazionale circoli liberal, onorevole Angelo Sanza.

ATTIVAZIONI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog I BENI COMUNI DEL CAUCASO

Scrivimi subito e dimmi che ti manco Mia unica Caitlin, mio caro tesoro, non è mai stato così inutile e solitario stare lontano da te come questa volta; non c’è niente per cui vivere senza di te, tranne per il tuo ritorno o quando posso venire a Laugharne, perché ti amo più che mai e non vivrò senza il tuo amore e la tua bellezza, tesoro, dunque per piacere scrivimi e dimmi che ti manco anch’io e amami, e pensa che fra poco saremo di nuovo insieme per sempre. Non c’è niente da fare senza di te; è così terribilmente triste tornare nella nostra baracca vuota, stare tutta la notte nel nostro grande letto, ascoltando la pioggia e i nostri topi e gli scricchiolii e gocciolii e allarmi aerei; così triste che potrei morire se non dovessi rivederti e vivere con te per sempre e sempre. Dimmi che mi ami e mi desideri come io amo e desidero te ora e per ogni momento della mia vita e della tua, per sempre. Dylan Thomas a Caitlin MacNamara

IL VERO MALE ASSOLUTO È LA FAZIOSITÀ Ricompare periodicamente, come in un incubo, il fascismo come male assoluto. Cominciò a parlarne Fini, coerentemente, dopo aver qualificato Mussolini, il più grande statista del secolo scorso. Ma se un direttore mite e avveduto come Ezio Mauro arriva ora a scrivere di “bestemmie istituzionali”e di “nuovissima incultura repubblicana, europea, occidentale”, allora la questione deve essere terribilmente seria. A me sembra che il vero male assoluto sia la faziosità, che impedisce di storicizzare i fenomeni politici che si sono susseguiti nel corso del tempo. Una faziosità che preclude l’individuazione delle differenze tra un regime autoritario e uno totalitario. Una faziosità che finge di ignorare che nell’Europa dell’epoca, pervasa dai fascismi, quello nostrano era altro dai due regimi totalitari per eccellenza: quello bolscevico e quello nazionalsocialista. E si faccia caso che il famigerato male assoluto viene invocato, quasi sempre, da chi è stato incrollabilmente antifascista ma mai antitotalitario.

Enrico Pagano Milano

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

Nell’attuale crisi del Caucaso due sono i beni comuni a Occidente (Usa e Ue) e Oriente (Repubbliche ex-sovietiche). Il primo è impedire che prosegua la re-deportazione tramite le silenziose auto-pulizie etniche di tutte quelle popolazioni (in massima parte russe) che da Stalin a Gorbaciov, e ancora ai tempi degli oligarchi eltsiniani, furono ”spostate” tra le Repubbliche seguendo l’antico adagio imperiale del divide et impera. Il secondo bene è controbilanciare l’Opec con un cartello energetico tra Russia, Stati Uniti e rispettivi garden-states. Il primo bene richiede uno status privilegiato garantito alle minoranze in tutta quella che fu la CSI ideata dal Fsb/ex-Kgb di Putin sotto Eltsin. Quanto all’energia Usa, Ue e Russia devono costituire una Opec del Nord per mitigare la posizione di mercato dell’attuale Opec del Sud.

Matteo Maria Martinoli Milano

ACCADDE OGGI

13 settembre 1943 - Chiang Kai-shek viene eletto presidente della Repubblica Cinese 1953 - Nikita Khruscev viene nominato segretario generale dell’Unione Sovietica 1970 - Prima edizione della Maratona di New York 1982 - Ginevra: viene arrestato il venerabile Licio Gelli, Gran Maestro della loggia massonica P2 1987 - Incidente di Goiânia: Un oggetto radioattivo viene rubato da un ospedale abbandonato di Goiânia, in Brasile, contaminando diverse persone nelle settimane successive 1988 - L’uragano Gilbert è il più forte uragano registrato nell’emisfero occidentale (in base alla pressione barometrica) 1990 - Andrei Chikatilo viene accusato dell’omicidio di 53 persone a Rostov, in Russia 1993 - Primo accordo IsraelePalestina. Ai palestinesi viene concesso un auto-governo nella Striscia di Gaza

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

COSTITUZIONE DA RIVEDERE La polemica su Rsi e Resistenza deborda su chi è per la Costituzione e chi no. La Costituzione può essere rispettata ma non condivisa in alcuni suoi articoli. Oppure questo è proibito dalle sacre disposizioni della sinistra?

Leopoldo Chiappini Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)

PUNTURE Dopo “Il papà di Giovanna” sta per arrivare nelle sale l’ultimo successo leghista: “Il figlio di Umberto”.

Giancristiano Desiderio

Chi cerca la verità dell’uomo deve farsi padrone del suo dolore GEORGE BERNANOS

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di TUTTI ASPETTANO CHE ALITALIA PRENDA IL VOLO Mentre c’è una parte del Paese che vorrebbe veder volare gli aerei con la bandiera tricolore dell’Alitalia, ce n’è un’altra che vorrebbe veder volare l’accordo. La trattativa è difficile perché le criticità sono tante. In passato si è pensato che la festa durasse per sempre e che gli aeroplani fossero come i maestri alle elementari. Gli esuberi, gli stipendi, l’orario di lavoro, la flessibilità, i benefit, il piano industriale, i debiti, gli azionisti della vecchia compagnia e poi gli scali, le ambizioni territoriali, i capitali, gli ammortizzatori sociali, la vendita delle singole attività alla nuova Alitalia, i sindacati, la cordata industriale, i politici sono soltanto una ricognizione per difetto delle parti in causa. Ci sono anche gli enti locali, i sindaci di importanti comuni, i presidenti delle regioni, gli interessi delle società che gestiscono gli aeroporti sul territorio nazionale e persino tecnici e personale di terra dei diversi aeroporti italiani. Dietro tutto questo c’è ancora l’interesse del Paese, del suo turismo, del suo ruolo strategico in Europa e nel mondo. L’Italia non è la Svizzera che se è priva della Swissair non se ne accorge nessuno: è un Paese del G7 ed ambisce a giocare il suo ruolo nel contesto internazionale. Si resta allibiti se si pensa che fa scalpore il taglio di 87.000 lavoratori nella scuola, da distribuire in un largo arco di tempo, senza licenziare nessuno, ma solo non sostituendo coloro che vanno in quiescenza e riducendo il ricorso ai supplenti, ed invece si vorrebbe far saltare il piano per il salvataggio di Alitalia lasciando definitamene a

terra 20.000 lavoratori diretti e non si sa quanti ancora nelle attività che al trasporto aereo nazionale sono collegati. Eppure se si va su internet c’è una quantità notevole di bloggers e commentatori che sostengono che il piano Fenice non debba decollare. Sono tutti quelli che vedono nel fallimento di Alitalia l’opportunità per mettere in difficoltà Berlusconi. Non resta che aspettare. Ora è dovere di tutti cercare di smussare le spigolosità di una trattativa complicata dove sono certamente sul tavolo richieste ed offerte legittime da una parte e dall’altra. Nessuno deve pensare, fino a prova del contrario, che manchi il senso della responsabilità delle parti che discutono. Le rinunce sono amare ed è sempre facile giudicarle dal di fuori. Ma anche i cedimenti sono pericolosi se non riescono a centrare l’obiettivo della redditività e della collocazione sul mercato. Gli investimenti accorrono laddove c’è convenienza e scappano dalle imprese che non offrono prospettive, per un elementare principio economico basato sulla ricerca del profitto. Il rilancio va bene se si parte con il piede giusto. Pensare, invece, di andare avanti per prendere tempo e disperdere risorse sarebbe inutile. Se questa Italia intesa come Istituzioni, forze politiche e rappresentanze sociali non è in grado di sollevarsi, di decollare sulle ali di una Compagnia di Bandiera nel segno della responsabilità di tutti, è destinata purtroppo ad altri insuccessi ed ad altre avventure che spero nessuno osi augurarsi.

Vito Schepisi Il libero pensiero

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PAGINAVENTIQUATTRO Cartolina dall’Austria. Da capitale degli intrighi a città-museo per turisti

La decadenza di Vienna chiusa in una

SACHER di Enrico Singer

ntri nella lunga sala del Caffè Sacher e ti aspetti di ritrovare i piccoli tavoli coperti dalle tovaglie candide, le seggiole thonet, i lumi di ottone e cristallo, i dipinti di Anton Faistauer alle pareti ricoperte di velluto e specchi, i giornali inseriti nelle stecche in legno per la lettura, i camerieri rigorosamente vestiti di nero con il grembiule bianco. E, naturalmente, lei, la Sacher torte, quel concentrato di dolcezza al cioccolato, venato di gelatina di albicocche e accompagnato da un denso ricciolo di panna montata senza zucchero: la classica «Sacher torte mit schlag» che si annuncia subito con il suo profumo. Ma, superata la porta monumentale al numero 4 della Philarmonikerstrasse, nel centro storico di Vienna, la realtà non rispetta il ricordo di chi in questa città, e di tanto in tanto anche in questo locale aperto nel 1876 da Eduard Sacher, ha passato una parte della sua gioventù. Soltanto la torta è rimasta quella di sempre. Legata al suo passato da una ricetta inventata nel 1832 da Franz Sacher, il padre di Eduard, che a soli 16 anni già lavorava nelle cucine del principe Clement von Metternich. Tutto il resto è scintillante, opulento, ma sembra il remake in stile hollywoodiano di un vecchio film europeo in bianco e nero.

E

Il grande albergo Sacher, di cui il caffè fa parte, appartiene ormai da decenni alla famiglia Guertler che di alberghi in Austria ne ha tanti. Ed è diventato una specie di multinazionale del dolce con un negozio, aggiunto nell’ultima ristrutturazione che ha tirato a lucido tutto il palazzo, dove si possono acquistare Sacher torte di ogni dimensione, anche miseramente ridotte a pasticcini, e una quantità impressionante di pezzi: dai piatti agli accappatoi, dai saponi al cioccolato agli orsetti di peluche in divisa da camerieri. La tradizione trasformata in souvenir per turisti. Così, inevitabilmente, esci dal Café Sacher con in bocca il gusto del cioccolato, in mano una scatola di le-

gno con la torta da portare a casa e con la sensazione che un pezzo di storia se n’è andato. O, almeno, è diventato altro. Come Vienna, in fondo. Questa città monumentale e austera, piena di tesori d’arte, ma sobria è la meravigliosa testa di un impero che non c’è più, proprio come il Caffè Sacher di una volta. Una testa che appare subito sproporzionata per un Paese che è ridotto a meno di un decimo di quello che era quando gli Asburgo dominavano l’Europa centrale, da Leopoli fino a Milano, e Federico III scriveva nel suo motto che l’Austria era imperator orbi universo. La caduta dell’impero austro-ungarico – ultima incarnazione di uno Stato multietnico e super-nazionale fondato alla fine del 1200, difeso dai turchi tra il 1500 e il

zione più avanzato dell’Occidente sui Paesi dell’Est dell’Europa che, poi, erano stati tutti – dall’Ungheria alla Cecoslovacchia – parte dell’ex impero asburgico. Certo, il ”secondo impero” è stato soltanto virtuale. Ma ha attirato lo stesso a Vienna tutti quelli che volevano sbirciare al di là della Cortina di ferro. Spie, naturalmente. Ma anche giornalisti che da Vienna scoprivano e scrivevano quello che succedeva a Praga, a Budapest, a Varsavia, a Belgrado o a Bucarest. E, soprattutto, diplomatici – anche l’Onu vi realizzò un’intero quartiere che tuttora esiste – e politici di massimo livello. Come Kennedy e Krusciov che qui s’incontrarono nel 1961. O come Breznev e Carter che rinnovarono l’incontro al vertice nel 1979.

Sono gli anni della Vienna capitale degli intrighi, delle spie, della guerra fredda e dei poteri sotterranei, raccontati anche da Graham Greene nel Terzo uomo, che hanno restituito importanza strategica alla capitale dell’impero scomparso. Oltre a un buon giro di affari. Ma da quando il Muro di Berlino è stato abbattuto e tutti i Paesi dell’altro ex impero, quello sovietico, sono entrati nell’Unione europea, per Vienna è cominciata una seconda decadenza. Adesso che anche la Cortina di ferro è caduta e lungo il Ring - l’anello che circonda il centro - ci sono i cartelli che indicano le brevi distanze in chilometri con Budapest o con Praga che si possono raggiungere senza nemmeno più controlli alla frontiera,Vienna è tornata ad essere la testa di qualcosa che non c’è più. Prima ha perso il suo impero, poi ha perso l’impero nemico che l’aveva fatta tornare snodo di mille traffici economici e politici. Ai tavoli del Caffè Sacher non siedono più diplomatici, uomini d’affari e spie. Ci sono i turisti, come ovunque. Ma la torta almeno è rimasta buona come ai tempi della massima fortuna della casa, quando a reggerne le sorti era Anna Sacher, la vedova di Eduard, forse la prima donnamanager del mondo. Ma anche questa, oggi, non è più una novità.

Prima è stata il cuore dell’Impero asburgico, poi il luogo privilegiato per conoscere i segreti dell’Est comunista. Ora è solo un luogo del passato e anche la celebre torta al cioccolato, che ne era il massimo simbolo, sembra solo un gadget 1600 e via via ingrandito – arrivò con la sconfitta nella prima guerra mondiale. Francesco Giuseppe morì nel bel mezzo del conflitto, nel 1916, e il suo successore, Carlo I, non riusì a salvare né le sorti della guerra, né la sua corona. Abdicò nel 1918 e dall’impero dissolto e spezzettato nacque la piccola Repubblica d’Austria. Che, alla vigilia della seconda guerra mondiale, appena vent’anni dopo, fu annessa dalla Germania nazista con quell’anschluss deciso da Hitler che in Austria era nato e che da Vienna era fuggito deluso dal fallimento delle sue giovanili aspirazioni d’artista. Paradossalmente la nuova sconfitta restituì in qualche modo a Vienna lo status di capitale di prima grandezza. Fino al 1955 l’Austria rimase divisa in quattro zone – russa, americana, inglese e francese – e Vienna seguì la stessa sorte come testimonia il monumento al soldato dell’Armata Rossa che chiude ancora la parte bassa dei giardini del castello del Belvedere. Ma una volta finito il controllo delle potenze vincitrici, la città divenne il centro di osserva-


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