QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Uno scontro istituzionale che non può essere sottovalutato
di e h c a n cro
La guerra delle preferenze: è in gioco il futuro della democrazia
LA CAI LASCIA, ALITALIA NEL CAOS
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80919
di Ferdinando Adornato
di Francesco D’Onofrio
Il Cavaliere attacca a muso duro Cgil e piloti, che certo non sono innocenti. Ma è davvero solo loro la colpa? Intanto si parla di un piano B che rimetterebbe in pista la cordata a condizioni di ancor maggiore favore. Sarebbe l’ennesimo, brutto pasticcio
on l’iniziativa del voto di preferenza, assunta formalmente alla Festa dell’Udc a Chianciano, è iniziata una stagione politica caratterizzata – probabilmente non soltanto per l’Udc – dalla ricerca di un concetto fondamentale di democrazia che si ritiene necessario non soltanto per la vita delle elezioni europee ma più in generale per l’intero sistema politico italiano. Non si tratta di fare del voto di preferenza una sorta di tecnicalità costituzionalistica concernente l’elezione dei parlamentari europei spettanti all’Italia, ma del principio stesso della vita democratica del nostro paese nella quale i cittadini sono innanzitutto chiamati ad esercitare la fondamentale facoltà di indicare le proprie preferenze per coloro che sono chiamati a ricoprire la carica di parlamentari. Con questa iniziativa l’Udc rende compiutamente esplicita la propria distinzione radicale da entrambi i cartelli elettorali – Pdl e Pd – che si sono presentati alle elezioni per la conquista della maggioranza parlamentare di governo e non certo per la scelta di deputati e senatori liberi da qualunque mandato vincolante, come molto giustamente si esprime anche la costituzione italiana. s eg ue a p a gi na 23
C
Fallimento
Colaninno Colaninno sisi ritira, ritira, ilil disegno disegno di di Berlusconi Berlusconi in in fumo fumo Ora Ora èè tutto tutto in in mano mano aa Fantozzi Fantozzi (cioè (cioè aa Tremonti) Tremonti) alle pagine 2, 3, 4 e 5 Continua la crisi dei mercati
Tronchetti Provera vicepresidente
Il capitalismo? Ormai è un fantasma
In Mediobanca vince la linea Geronzi
di Gianfranco Polillo
di Alessandro D’Amato
di Francesco Capozza
di Emanuele Ottolenghi
Il problema centrale della crisi dei mercati è nella crescita di un mostro finanziario: quello cosruito e gestito per realizzare profitti fantastici. Ecco la lezione della crisi Lehman.
Mediobanca non ha più due teste e torna alla tradizionale governance. Era quello che voleva Geronzi. Alla vicepresidenza è stato nominato Tronchetti Povera, in arrivo Marina Berlusconi.
«Il venerato Pio XII ha compiuto ogni sforzo per aiutare e difendere gli ebrei perseguitati dai regimi nazista e fascista». Con queste parole Benedetto XVI ha chiuso la polemica su papa Eugenio Pacelli.
Per solo 431 voti Tzipi Livni ha conquistato la leadership del partito Kadima in Israele. L’altro candidato, Mofaz, ha chiesto il riconteggio: si apre una difficile fase di incertezze.
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VENERDÌ 19
SETTEMBRE
2008 • EURO 1,00 (10,00
Livni vince per sole 431 schede
La querelle sul presunto filonazismo
In Israele nasce una leadership troppo debole
Papa Ratzinger duro «Basta accuse a Pio XII»
pagina 7 CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina Confusione ad alta quota
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Dopo il ritiro di Colaninno ecco tutti gli scenari possibili per il futuro della compagnia di bandiera
di Francesco Pacifico
ROMA. Roberto Colaninno e la famosa cordata italiana svanita in 48 ore. Il governo senza alcuna strategia. I sindacati – in primis i piloti – che hanno riconquistato tutto il loro potere di veto, ma che vale zero in un’azienda fantasma. E la legge che prevede l’avvio delle procedure per la liquidazione. Sintetizza la situazione di Alitalia il suo commissario Augusto Fantozzi, non a caso già convocato ieri in serata a Palazzo Chigi: «Finché ci saranno i soldi per farlo si continuerà a volare, poi gli aerei saranno messi a terra». Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha mandato un messaggio netto e duro ai sindacati: «Ora per i lavoratori interessati e per il Paese, si apre la strada
che porta al fallimento di tutte le società del gruppo Alitalia». In realtà l’esecutivo ha già messo in conto un weekend di vertici (dovrebbero essere riconvocate le nove sigle della Magliana) e contatti informali per rilanciare l’intesa con la Cai e per spingere i sindacati a più miti consigli. Ma è difficile che la cordata italiana torni indietro.
Oltre al riottoso no di Cgil, Anpac, Upi, Anpav, Avia e di Sdl, i 18 soci del ragionieri mantovano si sarebbero spaventati per un’impresa più grande di loro. In più avrebbero saputo che la Ue non vedeva di buon occhio le garanzie offerte di una Marzano bis senza obblighi di discontinuità nei contratti dei lavoratori
tra vecchia e nuova azienda, ma che consentiva di cedere soltanto la parte buoni degli asset lasciando allo Stato i debiti. E da qui che bisogna ripartire per capire se è possibile creare in tempi brevi una strategia alternativa ed evitare quello che prevede il commissariamento se non ci sono soldi: la messa a terra dei veicoli (magari sequestrati su richiesta dei debitori) e il decadimento di tutti i contratti di lavoro. La prima mossa di Fantozzi è stata dover confemare la cassa integrazione a rotazione per 831 piloti (per 12 giorni al mese), per 1.383 assistenti di volo (10 giorni) e personale di terra (6 giorni), visto che il vecchio piano Prato prevede la messa a terra di 34
aeromobili. E altrettanti, soprattutto i più vecchi e quelli impegnati sulle rotte più onerose, faranno la stessa fine. L’altra mossa del commissario sarà far partire una valutazione degli asset. Con i sindacati che garantiscono la piena operativa, Fantozzi farà di tutto per salvaguardare l’attività operativa, unica condizione per non far perdere l’unico verso bene di Alitalia: gli slot e i diritti di volo in oltre ottanta Paesi. con meno di cento milioni a disposizione, lo può fare soltanto facendo quadrare il rapporto tra liquidità di cassa (per lo più gli introiti dei biglietti) e costi operativi. Così già adesso si starebbe lavorando al ministero del Welfare per introdurre pacchetti di cassa integrazione
massiccia e far calare il costo del lavoro. Ma per allegerire i conti l’unica strada resta di diminuire il perimentro aziendale. «Credo», dice l’economista Oliviero Baccelli, «che toccherà a Tremonti convincere Finmeccanica e Fintecna a prendersi asset della compagnia». Si profila così uno spezzatino e proprio questa ipotesi viene collegata in ambienti della maggioranza al nome di Carlo Toto. Il patron di AirOne, estromesso di fatto da Colaninno all’interno di Cai, potrebbe tornare utile a tutti: con Intesa studia il dossier da oltre due anni, ha esperienza tecnica e un numero (seppure non pagato) di opzioni per nuovi aerei. «Soprattutto», chiosa Baccelli, «que-
I fischi, gli applausi, le lacrime. È stata una giornata terribile e piena di colpi di scena. Fino al crollo finale on era una notte buia e tempestosa. A dire il vero, quello di ieri era un pomeriggio assolato, con la temperatura mite che caratterizza il settembre romano. Eppure, bastano le poche parole di uno scarno comunicato per alzare la temperatura di parecchi gradi, in particolare quella che avvolge sindacalisti, dipendenti, imprenditori e politici impelagati in qualche misura nella questione Alitalia. Ore 16.20, aeroporto di Fiumicino: iniziano a circolare le prime indiscrezioni – dalle solite fonti
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Quel pomeriggio di un giorno da cani ben informate – secondo cui Cai ha ritirato l’offerta di acquisto per Alitalia. E partono gli applausi dei dipendenti della nostra compagnia di bandiera. Quasi in sincrono fra Roma e Milano, tra l’altro: ai lavoratori riuniti nel Terminal A del Leonardo da Vinci rispondono quelli che assediano Palazzo Clerici, dove i componenti della cordata si sono riuniti da meno di mezz’ora per deliberare sulla questione. E dagli ap-
plausi si passa in pochi minuti alla contestazione.
Alle 16.30, infatti, iniziano le prime serie reazioni alla decisione del gruppo. “Meglio falliti che in mano ai banditi”, “Via la casta riapre l’asta” e “Buffoni” sono soltanto alcuni degli slogan – quelli che possono essere riportati su un giornale perbene – indirizzati nei confronti di Roberto Colaninno e Rocco Sabelli, presidente e ammini-
stratore unico della Cai. Nessuno sconto di pena neanche per Fausto Marchionni, di Fonsai e Marco Fossati, che sfilano davanti alla folla per raggiungere l’assemblea della cordata. E la folla non si lascia sfuggire l’occasione: i precari di Alitalia, e un piccolo drappello di rappresentanti di Airone (forse in segno di solidarietà), iniziano a cartelli che sventolare espongono il proprio Cud a fronte di quello dei membri di Cai. E il confronto, per
quanto sia scontato dirlo, è veramente impietoso. Una ragazza di circa 24 anni, che lavora ai servizi di terra della compagnia italiana, chiede: «Cosa si può dire a chi discute del nostro futuro e non ci guarda neanche quando ci passa davanti?». Pochi minuti dopo, siamo all’incirca intorno alle 16.40, il primo ministro italiano Silvio Berlusconi passeggia amabilmente per Corso Vittorio Emanuele, nei pressi della sua deliziosa residenza romana,
prima pagina sta volta potrebbe comprare un boccone più piccolo, più alla sua portata». Sono in pochi a scommettere, invece, che bussi alla porta di Fantozzi un vettore straniero come Air France o Lufthansa. Anche se la procedura di trattativa privata prevista dalla Marzano bis faciliterebbe la cosa. Chiaramente tutto deve essere fatto in tempi rapidi. Si aspettano novità per il weekend se l’Enac ha convocato lunedì Fantozzi per capire se ci sono le condizioni (economiche più che di sicurezza) per confermare l’autorizzazione al volo. E che già oggi è a tempo. Ma è difficile se saranno risolutive: anche perché le prenotazioni crollano e i creditori potrebbero esigere cash il dovuto.
Il leader dell’Unione Piloti, comandante Massimo Notaro, ha guidato la protesta contro la Cai
Dopo l’abbandono della Cai, sul destino della compagnia c’è nebbia fitta: spezzatino, ritorno di Carlo Toto, nuova gara per la vendita. Tutti, però, parlano di ”fallimento” e il commissario Fantozzi avvia le procedure per la cassa integrazione
spulciando le vetrine in cerca di un buon affare.
Ai giornalisti che, con poca educazione, infastidiscono la sua passeggiata con assillanti richieste di commenti su Alitalia, risponde fiducioso: «Aspettiamo prima di parlare». E a chi gli riferisce di quelle indiscrezioni sul ritiro della cordata di Colaninno, fa presente di essere «molto più informato» di tutti i presenti. Salvo, nel giro di 8 minuti (conditi da una telefonata di Gianni Letta), dichiarare: «Siamo davanti al baratro. E la colpa è dei sindacati».
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Il leader dell’Unione piloti, attacca «la cordata e la sua irresponsabilità»
A Cai non bastava un buon affare Ne voleva uno enorme colloquio con Massimo Notaro di Vincenzo Faccioli Pintozzi evidente che a Cai non bastava fare un buon affare: con Alitalia voleva farne uno enorme. Ma questo non è possibile con una compagnia in crisi, e questo è il loro fallimento. Hanno dimostrato di non avere alcun senso di responsabilità. È il durissimo giudizio di Massimo Notaro, pilota Alitalia e presidente dell’Unione Piloti (una delle sei sigle sindacali di categoria affiancate alla Cgil nel contrastare la proposta della cordata) al rifiuto opposto da Colaninno e soci alla loro controproposta. Uno dei più contestati fra i protagonisti di questo scontro, ma anche uno dei pochi a dirsi disonibile a continuare il proprio lavoro. Dopo le prime indiscrezioni sul ritiro dell’offerta della cordata, un comunicato diffuso al termine dell’Assemblea del gruppo ha chiarito ogni dubbio: Cai ha deciso di non rilevare la compagnia di bandiera italiana. All’unanimità. Il comandante, informato da liberal in tempo reale del ritiro di Cai dall’acquisto della compagnia di bandiera, commenta con un lapidario «è comprensbile» l’applauso con cui i dipendenti Alitalia riuniti a Roma e Milano hanno accolto la notizia del ritiro dell’offerta Cai. Comandante Notaro, qual’è la sua prima reazione davanti a questo ritiro? Sono amareggiato. Cos’altro potevamo fare più di così? Avevano un vantaggio competitivo mostruoso, partivano con la compagnia nuova, con tutti gli asset positivi di Alitalia. Non mi spiego cosa altro avremmo potuto fare per evitare quanto è avvenuto. Era davvero così disastrosa la situazione che si è trovata in mano la cordata guidata da Colaninno? La compagnia era in crisi, certo. Ma noi abbiamo dato aperture a stipulare dei nuovi contratti, europei, che consentivano ai proprietari un risparmio fino al 33%. Avevano degli sgravi fiscali imponenti, perché prendevano il lavoro da un’azienda in crisi. È evidente che non gli bastava fare un buon affare; volevano farne uno enorme, nonostante il periodo di crisi in cui verte l’azienda. Cosa avevate proposto alla Cai nel pomeriggio di ieri, prima della scadenza dell’ultimatum? Ci siamo impegnati al massimo, ai limiti della decenza, per
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venire incontro alle richieste dei possibili acquirenti. Ci siamo detti disponibili a aumentare il numero delle ore di volo e tagliare quelli che ora qualcuno definisce benefici di casta. Ci tengo a sottolineare, per dare un’indicazione della nostra onestà, che non abbiamo mai interrotto il servizio, come invece hanno fatto tante altre categorie. Avrei sperato in un apprezzamento serio per questo comportamento. In primis da parte del presidente del Consiglio e poi di tutta la popolazione italiana. La stampa ci accusa, spesso senza sapere le cose, di essere privilegiati in maniera incredibile. Ma nessuno parla del nostro attaccamento al lavoro. E, allora, come si spiega questo rifiuto? Nel corso del nostro ultimo incontro, è emersa una cosa singolare che forse può fornire un’immagine chiara della questione. Quando noi abbiamo detto che Lufthansa e Air France sanno fare il loro lavoro, ci è stato risposto che non è vero. Perché non guadagnano abbastanza rispetto al giro di denaro che toccano. L’idea che mi sono fatto, quindi, è che la Compagnia aerea italiana voleva un ritorno incredibile rispetto al denaro investito. A volte però questo non è possibile, anche a fronte della responsabilità nei confronti della nazione e del governo che li ha chiamati in causa. Dovevano avere una responsabilità maggiore, essere disposti a guadagnare e non stra-guadagnare. Cosa che invece i soci della cordata non sono stati disposti a fare, neanche davanti ai nostri sforzi. E adesso, a fronte di quanto avvenuto, cosa succede? Noi ci poniamo davanti agli avvenimenti in maniera logica: ho bisogno di rimanere distaccato per cercare di fare il possibile. Ora andremo dal Commissario straordinario [che nel frattempo ha avviato le procedure per la cassa integrazione dei dipendenti Alitalia ndr] a offrirgli tutta la nostra disponibilità. E siamo pronti a tutto: capiremo, se ci verranno chiesti degli sforzi economici che saremmo in grado di sostenere – ovviamente differenziati per categorie – e faremo di tutto per mandare avanti la compagnia. Perché siamo gli unici che dimostrano, ogni giorno che passa, di essere affezionati agli italiani, a questo Paese e alla sua compagnia di bandiera. E lo dimostrano con il proprio lavoro.
Colaninno voleva un ritorno enorme rispetto al denaro investito. E lo ha dimostrato quando ha criticato Lufthansa. Dovevano avere una responsabilità maggiore, essere disposti a guadagnare e non stra-guadagnare
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La politica. Chi ha vinto
L’harakiri del sindacato di Errico Novi
ROMA. «C’è da mettere le bandiere fuori». Franco Debenedetti si spinge fino al limite del paradosso. «Quella di oggi è una buona notizia. Non perché è fallito un piano proposto dal centrodestra, anche se è stato un errore non accettare l’offerta di Air France. Né alludo alla validità del piano, che mi sembrava l’unico capace di assicurare un futuro. La buona notizia è un’altra: si è detto no a quello che ha determina, soprattutto di certi sindacati». C’è dunque un modo per fissare la data di ieri come un passaggio storico. Almeno secondo l’analista torinese, che guarda oltre il baratro della compagnia aerea e intravede una svolta nella storia dei rapporti sindacali: «Quello che è successo risulterà importante anche per gli altri contratti che si dovranno stipulare nei prossimi mesi. Dite che il fallimento di Alitalia è un prezzo troppo alto da pagare? Che non vale quanto una riforma degli equilibri tra impresa e lavoro? Ma io credo che il Paese avesse già pagato un costo altissimo, decisamente insostenibile, e mi riferisco ai 5 miliardi sprecati a causa delle rigidità sindacali». Non si poteva pretendere di più, secondo l’ex senatore ds. È irragionevole pensare che l’offerta della Cai dovesse essere più generosa. Soprattutto, dice, «è fuori dalla realtà: prendersela con il piano degli azionisti significa rifiutarsi di guardare le cose per quelle che sono.
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Nel lungo termine la prospettiva era nota, consisteva in quella che Colaninno ha delineato fin dal primo giorno: vale a dire la fusione con una delle tre grandi compagnie intorno alle quali ruota il mercato europeo».
All’interno del Pd si oscilla tra lo sconcerto di chi, come Anna Finocchiaro, si aspetta che Berlusconi «trovi un’altra soluzione» e gli sfoghi di altri che puntano senza esitazioni l’indice contro la strategia del governo. Pierluigi Bersani non ha dubbi: «Il presidente del Consiglio non può prendersela con altri, non può dare la caccia ai colpevoli perché il colpevole è lui. Purtroppo questo è l’esito di una operazione spregiudicata e irresponsabile che l’esecutivo ha imposto e ha mal guidato». Adesso, dice il ministro ombra all’Economia del Pd, dopo aver ascoltato le prime reazioni del premier, «è il momento di tenere i nervi a posto. Non siamo davanti a un baratro, c’è spazio per evitare il fallimento, per rimettere nel solco la procedura. Il commissario può prendersi il breve tempo necessario a pubblicare un avviso che solleciti proposte, anche con l’alienazione di beni non essenziali. Sono convinto che possano esserci disponibilità di attori internazionali, ma anche che, in questo quadro, disponibilità e risorse dell’imprenditoria potranno essere utilizzate meglio».
C’è da mettere le bandiere fuori - dice Franco Debenedetti - si è detto no a chi ha causato questo naufragio
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Dal Pdl i primi commenti sono durissimi. Daniele Capezzone vede «una delle pagine più buie nella storia della Cgil». Maurizio Sacconi è tra i primi ad attribuire esplicitamente la responsabilità del naufragio al sindacato di Epifani
e alle sigle autonome. È una lettura che suscita tra l’altro la replica della stessa Finocchiaro: la capogruppo democratica invita il governo a non nascondersi dietro lo scaricabarile. Ma è la stessa obiezione che Pier Ferdinando Casini rivolge sia alla maggioranza che al partito di Veltroni: «In queste ore drammatiche è inutile e dannoso il rimpallo di responsabilità tra Berlusconi e la sinistra . Questo è il momento di rimboccarsi le maniche e di dare, ciascuno il proprio contributo, anche in Parlamento per la soluzione della vicenda Alitalia. Veltroni, la sinistra e alcuni sindacati», dice il leader dell’Udc, «hanno strumentalizzato la vicenda e contribuito ad aggravarla, mentre Berlusconi ha promesso miracoli che non è riuscito a mantenere: ora è stucchevole che Pd e Pdl si accusino a vicenda».
Tra le posizioni più eterodosse nella maggioranza c’è senz’altro quella di Benedetto Della Vedova. Il rappresentante
dei Riformatori liberali conferma di essere tra i pochi a condividere l’iperrealismo di Renato Brunetta e, interpellato da liberal, esorta il governo a «non partecipare alle prossime trattative. Credo si debba riportare tutto alla fisiologia di quanto accaduto: il commissario liquidatore cercherà di vendere al meglio l’azienda, arriveranno compratori stranieri per acquisire le attività e assumere parte dei dipendenti, il più alto numero possibile, mi auguro. A questo punto l’esecutivo non dovrà pensare ad altro che ad approntare un normale piano di ammortizzatori sociali, magari con qualche elemento in più rispetto all’ordinario ma senza spendersi oltre. Berlusconi ha fat-
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Il modello confederale è definitivamente fallito secondo Benedetto Della Vedova - ora il governo si tiri fuori
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to il possibile e l’impossibile, ma si è trovato di fronte a un modello fallimentare, quello del sindacato confederale che si occupa di tutto, dalla scuola ad Alitalia. Non avviene in nessuna altra parte del mondo». Cai avrebbe potuto mettere in campo un’offerta migliore? Della Vedova ribadisce di non essere mai stato entusiasta dell’operazione, ma anche di comprendere le ragioni degli azionisti: «Hanno messo una cifra, hanno detto di essere disponibili a certe condizioni. Erano liberi di farlo, la rigidità è altrove».
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L’economia. Chi ha perso
La cordata era un bluff di Franco Insardà
ROMA. «L’applauso dei lavoratori dell’Alitalia alla notizia del ritiro dell’offerta della Cai è sintomatico delle relazioni industriali ormai decotte che contano solo sul denaro pubblico». Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, è indignato: «La trattativa - dice Ponti - è stata condotta malissimo e la cordata a questo punto dobbiamo dire che era evanescente. Non si è riusciti a portare a termine un’operazione che aveva obiettivi minimi. Il governo ne esce molto male». Secondo il professor Ponti le responsabilità sindacali sono da ridimensionare: «I sindacati si sono ritrovati a gestire una situazione industrialmente pezzi. In questi casi è difficile dare la colpa a una sigla, se non c’è un’unità nell’azione. Nessuno vuole rimanere con il cerino in mano. Ma le colpe maggiori sono della politica. Possibile che non si capisca che in alcuni casi bisogna ammettere di aver sbagliato, altrimenti si perde di credibilità?». Anche Oliviero Baccelli, esperto del trasporto aereo e vicediretto-
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Oliviero Baccelli: quella del Cai non era l’unica soluzione possibile Il commissario di Alitalia, Augusto Fantozzi
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re del Certet Bocconi (Centro di Economia regionale, dei trasporti e del turismo) dà un giudizio poco lusinghiero sulla gestione della vicenda Alitalia. «Quella del Cai non era l’u-
nica soluzione possibile. Andava lasciato più tempo dopo aver cambiato le regole in zona Cesarini per altre offerte. Probabilmente ci sarebbero state delle alternative più valide come sta succedendo per Iberia, Austrian Airlines, Brussels Airlines e la scandinava Sas per le quali sono interessati tutte le più importanti compagnie. In linea generale il piano della Cai - continua Baccelli - presentava aspetti positivi come la razionalizzazione dei voli domestici, la riduzione dei voli di Alitalia e AirOne e lo spostamento di alcuni voli internazionali a Malpensa». Sullla ricaduta per i cittadini il professor Marco Ponti esprime molti dubbi: «Il piano lo definirei un ”piano-forte” che caricava sulle spalle dei contribuenti e dei cittadini che volano 3 miliardi di euro di debiti. Non è chiarissimo, ma i soci della Cai non sono degli schiocchi. Sanno bene che se le cose dovessero andare male potrebbero passare all’incasso su altri tavoli. Hanno una sorta di garanzia. Il piano comunque suscitava delle perplessità perché puntava al medio raggio che è abbastanza concorrenziale e tralasciava le rotte internazionali».
Ma le critiche del professor Ponti vanno oltre e prendono di mira il modello Alitalia che il Paese ha percepito: «In tutta la vicenda la cosa peggiore è il segnale politico che emerge. Se l’imprenditore si mette d’accordo con il governo del momento viene agevolato su tutta la linea. Non dimentichiamo che all’origine del disastro di Alitalia c’è la continua interferenza politica per evitare il fallimento dell’azienda, con un esborso da parte dello Stato di oltre 5 miliar-
di di euro. Con questo sistema qualsiasi azienda, considerata di interesse nazionale, potrà vivere più serenamente se passasse il sistema Alitalia. Come giustamente scriveva Alberto Alesina sul Sole 24ore quest’effetto annnuncio avrà delle ricadute molto negative. La motivazione di tipo sociale, poi, è ancora più debole. Il settore aereo è, uno di quelli che tira di più, perché bisogna tutelare dei lavoratori che per larga maggioranza sono stati assunti grazie a interventi politici a scapito, ad esempio, dei raccoglitori di pomodori in Puglia? Sarebbe più corretto dal punto di vista sociale che anche un solo euro fosse destinato a quei lavoratori, piuttosto che ai dipendenti di Alitalia».
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Marco Ponti: i sindacati si sono ritrovati a gestire una situazione industrialmente pezzi
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Nello specifico del piano che la Cai aveva messo a punto il professor Baccelli esprime una serie ulteriore di perplessità «Certo la scelta delle sei basi operative comporterebbe dei problemi perché alcune di esse, come Catania, sono già ai limiti per il traffico lowcost. A questo si aggiunge la richiesta di flessibilità operativa del personale che attualmente è concentrato su Roma e Milano. Sarei cauto, poi, sull’accusa di quasi monopolio della linea Milano-Roma dal momento che in tempi brevi sarà operativa l’Alta velocità ferroviaria che sarà a tutti gli effetti un concorrente forte. Senza contare che anche sulle altre rotte esistono concorrenti importanti. In Italia da parecchio esiste un duopolio, voluto dal mercati. Molti passeggeri vogliono viaggiare in business con tutti i confort: quindi è giusto che le compagnie rispondano a queste richieste». Sulla promessa che Colaninno aveva fatto ai dipendenti di dare il 7 per cento sull’utile nel 2011 Baccelli ironicamente dice: «Aveva un po’ il sapore della carota dopo il bastone. Colaninno è indubbiamente un inguaribile ottimista dal momento che il tendenziale di Alitalia di quest’anno ha fatto registrare 800 milioni di perdite».
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politica
Accordo fatto tra Pdl e Pd: Orlando alla Vigilanza, Calabrese alla Presidenza e Stefano Parisi sarà direttore
Uno scoglio di Paglia per la Rai di Franco Insardà
d i a r i o ROMA. Il puzzle Rai comincia a definirsi. Nonostante le smentite ufficiali, tra Pdl e Pd l’accordo sembra fatto. Martedì dovrebbe andare al suo posto la prima delle tessere: quella del presidente della commissione parlamentare di Vigilanza. Leoluca Orlando dovrebbe essere eletto con i voti dei commissari dell’opposizione e con il centrodestra che assicurerà il numero legale. Ma ieri le polemiche sulla Rai non si sono placate. Anzi. Il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, da una parte ha dichiarato di lavorare per una risoluzione complessiva dei problemi dell’azienda, dall’altra ha polemicamente detto: «Ci sono programmi della Rai, in particolare di Raitre, che fanno pura militanza ideologica. E questo è inaccettabile». Ovviamente le reazioni non si sono fatte attendere e sono ripartite le accuse di nuovi editti bulgari. Ma l’elezione di Orlando è la chiave di volta di una serie di nomine che vanno dal presidente della Rai ai direttori di rete fino a quelli delle testate giornalistiche. Sull’ex direttore di Panorama e del Messaggero, Pietro Calabrese, convergono le indicazioni per la nomina a presidente. Qualche indecisione c’è ancora sulla figura chiave del direttore generale. Stefano Parisi, ex direttore generale di Confindustria e attuale amministratore delegato di Fastweb, avrebbe posto una serie di condizioni sia economiche che di gestione, ma sembra che siano state trovate delle soluzioni.
L’attenzione adesso è tutta puntata sul consiglio di amministrazione che è stato l’elemento determinante di tutta la trattativa. Infatti da quando Gennaro Malgieri, eletto deputato, è incompatibile e Marco Staderini, in quota Udc, è con l’opposizione la componente Pdl-Lega si è trovata in minoranza. Motivo per cui tutta la vicenda ha avuto un’improvvisa accelerazione, anche se i nomi dei componenti vengono confermati e smentiti ora dopo ora. In casa centrodestra dovrebbe essere confermata la leghista Giovanna Bianchi Clerici, mentre qualche dubbio c’è sul rappresentante del Tesoro, Angelo Maria Petroni. Sugli altri tre ci sono una serie di veti incrociati e di incroci. In quota Forza Italia ci sarebbero Alessio Gorla, berlusconiano doc prima in Mediaset, poi in Rai, lo storico Piero Melograni, altre volte candidato al cda Rai, e Ruben Esposito, capo degli Affari legali di viale Mazzini, sponsorizzato anche da An. Il nodo vero però è attorno a Guido Paglia, fedelissimo di Fini, direttore delle Relazioni esterne della Rai. Il suo nome sembra non sia gradito a
d e l
g i o r n o
D’Alema attacca duramente Berlusconi Mentre Walter Veltroni è impegnato in una contestata trasferta oltreoceano, Massimo D’Alema(nella foto) occupa la scena con un’esternazione a tutto campo. Intervistato su La7, l’ex premier manda segnali in ogni direzione: attacca pesantemente Silvio Berlusconi sulla legge elettorale per le europee e sulla giustizia, boccia in blocco l’operato del governo, mentre su Alitalia punta il dito contro le colpe «della politica», difendendo Guglielmo Epifani ed evitando toni polemici nei confronti del presidente della Cai, l’imprenditore Roberto Colaninno. Non solo. D’Alema se la prende con i giornali “interessati” - Corriere della Sera in primis - per il modo in cui informano sul caso Alitalia. E anche per come raccontano la rivalità tra lui e Veltroni.
Federalismo, Dominici contrario Modificare il ddl delega sul federalismo fiscale per quel che riguarda l’autonomia impositiva dei Comuni e il meccanismo di perequazione a favore degli enti locali. Sono le due richieste principali che l’Anci, per bocca del suo presidente, Leonardo Domenici, porterà alla Conferenza unificata governo-regioni-enti locali che inizierà ad esaminare lo schema di disegno di legge approvato in via preliminare dal Cdm di giovedì scorso. Forza Italia per alcuni episodi nei quali Paglia non avrebbe voluto accettare alcune forzature da parte degli azzurri. Ma An potrebbe “scambiare”la nomina di Paglia in cda con quella di Mauro Mazza alla direzione del Tg1. Per i quattro componenti dell’opposizione - tranne l’ex Margherita, ora Pd, Nino Rizzo Nervo - per gli altri c’è ancora incertezza. I nomi che circolano sono quelli di Gianni Bor-
Guido Paglia, fedelissimo di Fini, dovrebbe entrare nel consiglio d’amministrazione. Ma Forza Italia, per ora, non vuole saperne gna e Marcello Del Bosco, mentre sul fronte Udc Erminia Mazzoni sembra in vantaggio sul consigliere uscente Staderini.
Insomma dopo cinque mesi dalle elezioni si cambia anche nelle direzioni Rai. Alla maggioranza dovrebbero andare Rai1 e Rai2, il Tg1, il Tg2, i Tg Regionali, Rai International, Rai Sport, la Tsp, Rai Corporation e il Gr unificato, all’opposizione Rai3, il Tg3,Televideo e Rainews24 e Gr Parlamento. Ma vediamo nel dettaglio la situazione. Rai1 dovrebbe essere appannaggio di Forza Italia che, insieme a Rai Fiction, capitanata da Fabrizio Del Noce, gestisce buona parte delle produzioni e degli spettacoli. A dirigere Rai2 dovrebbe restare il leghista Antonio Marano. Sul Tg1 la partita è complicata. L’at-
tuale direttore Gianni Riotta dovrebbe andare a Washington ed essere sostituito dal vicedirettore del Corriere della Sera Pierluigi Battista, ma ci sarebbe l’incognita An con lo scambio Paglia-Mazza. In questo caso al Tg2 dovrebbe essere nominato Alberto Maccari. Lascia il ponte di comando dei Tg regionali e dei circa 900 giornalisti Angela Buttiglione, al suo posto, indicata dalla Lega, Nicoletta Faverio, vicedirettore milanese ed ex portavoce di Bossi, a capo della testata regionale. Sarà sostituito anche Piero Badaloni, alla guida di Rai International dopo che ultimamente ha incassato anche la sfiducia dell’assemblea di redazione. Tra i possibili sostituti ci sarebbe il finiano Gianni Scipione Rossi. Rai Sport resta saldamente nelle mani di Massimo De Luca, come Rai Corporation in quelle di Fabrizio Maffei. Al posto di Giuliana Del Bufalo ai servizi parlamentari dovrebbe andare Bruno Socillo che attualmente dirige il Gr Parlamento. Alla guida del Gr, se rimane unificato, sarebbe promosso il caporedattore economico Andrea Buonocore, in quota An. Sul fronte opposto c’è la forte incognita dell’Udc che perde la Buttiglione al Tg Regionale e quindi potrebbe avere qualche altra direzione. Paolo Ruffini dovrebbe essere confermato a Rai3, mentre al Tg3 dovrebbe arrivare Antonio Caprarica dal Gr e l’attuale direttore, Antonio Di Bella, potrebbe andare a New York. Fabio Scaramucci sostituirebbe Antonio bagnardi a Televideo e nel caso non entrasse nel cda, in quota Pd, Marcello Del Bosco ora alla direzione Radiofonia, prenderebbe il posto di Corradino Mineo a Rainews24.
Europee, Storace: è deriva oligarchica Nuova legge elettorale per le europee con sbarramento e liste bloccate? «D’Alema si preoccupa solo per l’Udc, noi per la democrazia», dice Francesco Storace (nella foto), segretario nazionale de La Destra, che aggiunge: «Si può fare una legge per lo sbarramento al 5 per cento contro l’Udc, al 4 contro la sinistra radicale, al 3 contro La Destra? È una scandalosa deriva oligarchica che ha il suo culmine nella soppressione delle preferenze. Abbiamo più iscritti e militanti dello scorso anno: siamo pronti alla piazza». La replica del Pdl non si fa attendere. E il vicepresidente dei deputati del Partitito della libertà, Italo Bocchino, avverte «abbiamo i numeri in Parlamento e il dovere politico di farle da soli».
Moratti pensa di allontanare la Maiolo L’assessore alle Attività produttive, Tiziana Maiolo, sembra a un passo dal licenziamento dalla giunta comunale di Milano guidata dal sindaco Letizia Moratti. All’esponente di Forza Italia, per ora, il primo cittadino non ha ancora ritirato ufficialmente le deleghe. Secondo indiscrezioni, la Moratti è stata durissima con la Maiolo, preannunciandole l’allontanamento dall’esecutivo di Palazzo Marino. La goccia che ha fatto traboccare un vaso, forse, la promozione di iniziative, da parte dell’assessore, senza una delibera che l’autorizzasse a farlo. Oppure le ultime dichiarazioni della Maiolo sul centro storico, in cui dava in parte ragione allo stilista Giorgio Armani, ipercritico con il Comune. Ma al momento sono solo ipotesi.
Di Pietro: «Democrazia in pericolo» La democrazia in Italia è a rischio. Lo sostiene Antonio Di Pietro (nella foto), intervenendo in aula alla Camera per illustrare un’interpellanza al governo sul tema della riforma varata nel 2006 dei reati relativi all’attentato all’integrità dello Stato, che oggi prevedono pene solo per gli atti compiuti con la violenza. La nuova norma «un domani può risultare pericolosa», sostiene Di Pietro, citando le trame della P2, la minaccia secessionistica e le recenti polemiche su fascismo e antifascismo. Se domani si organizza una Spectre, diretta al di fuori del Parlamento, «può attentare - ammonisce il leader di Idv - all’integrità dello Stato, può modificare la Costituzione, minare l’indipendenza dello Stato senza ricorrere alla violenza».
il personaggio
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Due immagini di papa Pio XII. Qui accanto, la celebre immagine del pontefice a Roma, a San Lorenzo subito dopo il bombardamento del 1943
ROMA. «Il venerato Pio XII ha compiuto ogni sforzo per aiutare e difendere gli ebrei perseguitati dai regimi nazista e fascista». Con queste parole, Benedetto XVI ha ammonito chi ancora, a cinquant’anni dalla morte di papa Eugenio Pacelli (avvenuta a Castelgandolfo il 9 ottobre 1958), insiste su una sua presunta connivenza con il nazifascismo. L’occasione è stata data al pontefice in un’udienza concessa ieri ai partecipanti al simposio promosso dalla fondazione “Pave the way” sulla figura di Pacelli.
Si chiude la querelle sulla presunta connivenza col nazismo
Papa Ratzinger duro «Basta accuse a Pio XII» di Francesco Capozza «quando ci si accosta senza pregiudizi ideologici alla nobile figura di questo Papa ha detto Benedetto XVI - oltre ad essere colpiti dal suo alto profilo umano e spirituale, si rimane conquistati dall’esemplarità della sua vita e dalla straordinaria ricchezza del suo insegnamento. Si ap-
Ma la rivista «Civiltà cattolica» rilancia: la questione storica resta ancora incerta e da discutere
Il papa ha pronunciato un discorso nel quale in modo esplicito si schiera dalla parte dell’azione del suo quinto predecessore a difesa degli ebrei. Benedetto XVI, riferendosi alle ingiurie di cui è stato oggetto Pacelli ha inoltre ammonito: «Tanto si è scritto e detto di lui in questi cinque decenni e non sempre sono stati posti nella giusta luce i veri aspetti della sua multiforme azione pastorale. Scopo del vostro simposio deve essere anche quello di colmare alcune di tali lacune, conducendo un’attenta e documentata analisi su molti suoi interventi, soprattutto su quelli a favore degli ebrei che in quegli anni venivano colpiti ovunque in Europa, in contrasto con il disegno criminoso di chi voleva eliminarli dalla faccia della terra». Così, una volta per tutte, papa Ratzinger ha voluto sgombrare il campo dalle polemiche che durano da cinquant’anni e ha raccomandato agli studiosi e agli storici di accostarsi alla figura di Pio XII senza prevenzione ideologica
prezza la saggezza umana e la tensione pastorale che lo hanno guidato nel suo lungo ministero e in modo particolare nell’organizzazione degli aiuti al popolo ebraico».
L’attuale pontefice non ci sta al gioco di chi lo descrive come scettico nei confronti della beatificazione del suo predecessore. Ratzinger ha ricordato che la causa si è conclusa già da tempo e che non è per nulla congelata, anzi, secondo il por-
tavoce della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi «i documenti che verranno pubblicati prossimamente sul pontificato di Pio XI (di cui Pacelli era segretario di Stato) mettono in evidenza come sia papa Ratti sia il suo successore Pacelli fossero intransigenti oppositori del nazismo». Sullo stesso argomento - il presunto polso poco fermo del Vaticano negli anni del nazismo - è intervenuta proprio ieri anche Civiltà cattolica che, in un edi-
Sabbatucci: «Fu un vero diplomatico» ROMA. «Di sicuro c’è un fatto: Pio XII fu meno duro del suo predecessore nel condannare apertis verbis i regimi nazista e fascista, ma questo non vuol dire che papa Pacelli fosse filonazista». Con queste parole, il professor Giovanni Sabbatucci, ordinario di Storia contemporanea presso La Sapienza di Roma, commenta a caldo per liberal le parole pronunciate dal pontefice ai partecipanti del convegno“Fave the way”. Professor Sabbatucci, è revisionismo storico quello di Benedetto XVI o realmente papa Pacelli fece molto per gli ebrei perseguitati? Vede, la querelle sui presunti silenzi di Pio XII nei confronti dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti è ormai stantia da anni. Non vi sono elementi nuovi che contribuiscano ad avvalorare questa tesi. Ma sul fatto che Pio XII non condannò
apertamente le persecuzioni naziste sono d’accordo in molti. Pacelli, rispetto al suo predecessore, era meno sanguigno e più diplomatico. Non va dimenticato che il futuro Pio XII fu nunzio in Germania negli anni dell’avvento del Nazismo e quindi conosceva bene il “nemico”. Anche da pontefice si comportò da fine diplomatico. Avrebbe potuto fare di più per gli ebrei? Non credo. Le accuse che si rivolgono a Pio XII sono lanciate da chi ritiene che la Chiesa debba evidenziare sempre la verità senza ponderare le conseguenze; per chi pensa, invece, che la Chiesa non debba intervenire politicamente il giudizio nei confronti di Pio XII è diverso. Le parole di Benedetto XVI spianano la strada alla beatificazione di papa Pacelli? Immagino di sì, anche se non è il Papa che decide chi fare Beato o meno, ma un’apposita congregazione vaticana. (f.c.)
toriale a firma del gesuita Giovanni sale, ha in qualche misura contraddetto le parole del Papa. Stando a quanto scrive padre Sale sulla rivista, il Vaticano in occasione della pubblicazione delle leggi razziali del 1938 «ebbe un atteggiamento piuttosto prudente, chiedendo al governo fascista di usare come criterio discriminatorio non il dato biologico-raziale, ma quello religioso, cioè l’appartenenza ad una determinata fede religiosa». Se da un lato è pur vero che nel 1938 sulla cattedra di Pietro sedeva ancora Pio XI, dall’altro è pur vero che Eugenio Pacelli era il suo più stretto collaboratore, ed essendo a capo della segreteria di Stato era l’ispiratore della politica vaticana forse più del pontefice (papa Ratti era da tempo malato e nel ‘38 aveva praticamente lasciato le redini del governo in mano a Pacelli che il pontefice stesso identificava come suo successore).
Se un articolo del giornale dei gesuiti, che in un certo senso attacca il governo della Santa Sede negli anni del nazifascismo, viene reso noto proprio nel giorno in cui Benedetto XVI pronuncia un discorso di netta opposizione alle accuse rivolte a Pio XII, è chiaro che si sfiora l’incidente diplomatico. Civiltà cattolica non era al corrente dell’incontro che il pontefice avrebbe concesso ai partecipanti del congresso di “Pave the way” oppure lo era, ma si è smarcata dalle opinioni della Santa Sede? Oppure, ancora, il quindicinale gesuita non ha più il ruolo di microfono vaticano che ha avuto per molto tempo? Di sicuro c’è che le parole del Papa riaccendono le speranze di chi, da svariati anni, aspetta di vedere Pio XII assurgere all’onore degli altari.
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Il dibattito di questi giorni su maestro unico, voto in condotta e grembiule ha finito per nascondere il problema fondamentale: la libertà dell’insegnamento
Emergenza “scuola libera” di Giancristiano Desiderio
a scuola non è messa bene, ma il dibattito sulla scuola è messo peggio. Nella scuola, nella politica, nella società, nella pubblicistica circolano due sentimenti, o due “partiti”, l’uno contro l’altro armati da quando il ministro Gelmini ha preso alcuni provvedimenti (esami di riparazione, condotta, grembiule, maestro unico). C’è il partito dei “favorevoli” e c’è quello dei “contrari”, anche se a volte, per alcuni provvedimenti, le due parti tendono a sovrapporsi (sì al maestro unico, ma sì anche al tempo pieno). I due partiti, infatti, sono le due anime dello stesso corpo: la
L
scuola di Stato. Il dibattito tra favorevoli e contrari, non uscendo mai dai confini statali dell’ordinamento scolastico italiano, oscilla tra l’accademia e la fazione, la polemica e il sindacalismo. I favorevoli tendono a giustificare i provvedimenti del ministro con la pedagogia, quando invece basterebbe richiamarsi all’autorità dello Stato; viceversa, i contrari parlano di «fine della scuola pubblica» ma difendono gli interessi privati dei posti di lavoro. Il mondo della scuola e tutto il mondo che vi gira intorno - ed è gran parte della nazione - sembrano essere impazziti. In realtà, sono impazziti
Il modello è ancora napoleonico: tutto dipende da circolari ministeriali e leggi dello Stato
per davvero e, forse, era necessario che accadesse. La scuola italiana è “scuola di Stato”: ciò significa che tutte le scuole - sia le statali, sia le non statali - sono scuole di Stato perché nascono e vivono all’interno dell’unico ordinamento scolastico.
La scuola italiana è una scuola di tipo napoleonico ed è amministrata e regolamentata dalle circolari ministeriali e dalle leggi dello Stato. Il primo e unico pedagogo d’Italia è lo Stato. I provvedimenti del ministro Gelmini - che personalmente condivido, ma qui il mio pensiero non conta - sono criticabili, ma per farlo non si possono dire cose come questa: «Giù le mani dalla scuola pubblica. No al maestro unico». Non si può criticare la scuola statale con lo statalismo perché è proprio la statizzazio-
Ragazzi in un’aula magna di liceo: il loro futuro è sempre più incerto, soprattutto perché mancano modelli culturali nuovi e liberi che determinino la loro formazione
ne della scuola che legittima il ministro a prendere i provvedimenti che la sua maggioranza, ora di un colore ora di un altro colore, gli permette di adottare. L’unico modo per criticare con
avvedutezza intellettuale e morale il ministro è quello di rivendicare la libertà d’insegnamento e, quindi, non l’esistenza dell’unico ordinamento scolastico statale ma la molteplicità degli
ZAINI VUOTI Dall’e-book al blocco delle riedizioni: ecco perché le proposte del Governo non bastano sa e un po’ stravagante. poeti possono fare 6. Comodato d’uso: la tutto. Anche disprezRegione elargisce conzare i libri, come fa tributi alle scuole, che Vladimir Majakovcomprano i libri e li affiskij: «Gli implumi delI quali, a fine anno, si impegnano a dano agli studenti. l’uomo, /appena con un po’ di penne, /pongono mano di Giuseppe Lisciani restituirli in buono stato o a comprarli. 7. La compraai libri, /ai quinterni dei quaderni. /Io imparavo l’alfabeto delle insegne, /sfogliando pagine di ferro e di lat- comportamento degli editori nella gestione dei prezzi vendita di seconda mano, cioè l’antica pratica di semta» (da La mia università). I poeti possono. Ma non il di copertina. Il presidente dell’Associazione italiana pre. 8. Infine, l’«e-book», che Giulio Tremonti ha così ministro dell’Istruzione, né quello dell’Economia. I editori (Aie) Federico Motta ha commentato: «Non battezzato e di cui va particolarmente fiero. Ma è un’iquali si sono messi insieme, in una sorta di affiatata riusciamo a capire la logica dell’autorità, visto che gli dea ancora impraticabile: il libro “download” attualcombriccola, per screditare il libro di testo e i suoi edi- impegni presi dagli editori nella primavera scorsa mente costa parecchio di più del libro comprato in litori, con una intensa, pervicace e a volte arrogante avranno effetto solo per i testi da utilizzare nell’anno breria. Il testo on-line potrebbe diventare, eventualcampagna mediatica. Ma cosa vogliono dire e dove scolastico 2009-2010 e non per il corrente anno» (di- mente, meglio accessibile se si affermasse l’uso non vogliono arrivare Mariastella Gelmini e Giulio Tre- chiarazione rilasciata al quotidiano «Italia Oggi»). 3. integrale del libro, ma soltanto per paragrafi scelti. Remonti? Accusa agli editori di produrre nuove-edizioni-truffa, sterebbe comunque da considerare il costo dell’atticioè rimescolando pagine senza rinnovarle o cam- vità creativa (autori, grafici, illustratori), dell’editing e Lo scopo dell’accoppiata Tremonti-Gelmini sembra biando solo gli esercizi o addirittura non cambiandoli del lavoro d’impianto. Un costo che non è affatto seessere quello di scongiurare qualsiasi responsabilità e e semplicemente spostandoli. Sono accuse gravi: spet- condario per l’editore.Tutt’altro. impegno economico da parte del governo e, al tempo ta ai professori non dare spazio a simili editori e, evenstesso, salvaguardare e anzi incrementare il consenso, tualmente, denunciarli. È comunque pretestuoso sca- In conclusione, dall’elenco qui dipanato emergono pur nella gestione di un problema spinoso, come è il ricare il problema del caro-libri sulle spalle degli edi- alcune e-videnze. Si tratta in primo luogo di iniziative “caro-libri”. Il quale, per colmo di sventura, si associa tori generalizzandone il comportamento scorretto. 4. che hanno efficacia più o meno scarsa: nessuna di esad una magrissima e allampanata sorella, che chia- Contingentamento delle edizioni: secondo il duo Tre- se è risolutiva e neanche tutte messe insieme. In semeremo “povertà-famiglia”. Per esorcizzare eventuali monti-Gelmini, ad un libro dovrebbe essere consenti- condo luogo, alcune sono politicamente corrette, ma ostili pensieri dalla mente di padri e madri di famiglia ta una nuova edizione ogni circa cinque o dieci anni o altre lo sono solo demagogicamente. In terzo luogo, vi e, nel frattempo, creare un’aureola di curatela sociale anche più: alla scuola di Stato si aggiungerebbero è, nella gestione del problema da parte del duo Trealla politica governativa, il duo Tremonti-Gelmini ha dunque le edizioni di Stato? Improponibile, soprattut- monti-Gelmini, una contraddizione di fondo: la morticongegnato e/o avallato alcuni discorsi e alcune pro- to da un governo liberale… 5. C’è chi promette un ri- ficazione del libro in un contesto, la scuola, che inveposte, che qui elencherò con qualche breve argomen- sparmio del 20-25 per cento: sarebbe sufficiente ce avrebbe il compito di realizzarne l’esaltazione. Ma tazione: 1. Rispetto, da parte dei professori che adotta- «comprare i libri scolastici in grandi quantità, all’in- questo non capiterà fino a quando lo Stato gestirà l’eno i libri di testo, del tetto di spesa fissato dal ministro grosso». Si deve attribuire alla scuola anche la profes- ducazione in regime di quasi monopolio e non si darà dell’Istruzione 2. Decisione del garante della concor- sione di libraio o, magari, la mansione di supermerca- luogo a una de-mocratica libertà di scuola, in regime renza del mercato, Antonio Catricalà, di verificare il to del libro? Mi sembra una soluzione molto comples- di autonomia e di concorrenza.
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Qualcuno vuole sconfiggere il caro-libri?
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presupposto morale per la nascita di scuole libere. Accade, invece, che gli insegnanti critichino sì il ministro, ma richiamandosi alla scuola di Stato perché la loro premura non è la libertà dell’insegnamento e dell’educazione, bensì la tutela del posto. È un po’ come se il malato rivendicasse di curarsi con la malattia.
La scuola italiana è la vera emergenza nazionale. L’emergenza nasce dal fatto che la scuola di Stato non può più vivere, ma non può neanche morire (come è giusto che muoiano e passino la mano le cose che hanno fatto la loro parte). Non può vivere per due motivi di fondo: perché la scuola deve nascere dalla libertà e non dallo Stato; e, inoltre, perché è cresciuta talmente tanto che è malata, ormai da molto tempo, di elefantiasi. Chi ha davvero a cuore la funzione della scuola di Stato deve augurarsi che faccia una severa cura dimagrante: la scuola di Stato - cioè la scuola gestita direttamente dallo Stato - deve essere una scuola tra le altre tante scuole libere. Ma proprio qui, purtroppo, si annida l’emergenza: in Italia tutto lascia intendere che non ci siano le forze scolastiche, intellettuali
e morali per il passaggio dalla scuola di Stato alla scuola libera. Le due grandi culture politiche del secondo Novecento italiano, quella democristiana e quella comunista, hanno nutrito esclusivamente un’idea statale della scuola che è stata letteralmente abbandonata nelle mani dei partiti e dei sindacati. L’idea che si ha della scuola è quella di un grande parcheggio nazionale. «Una società, una scuola» recitava un cartello di protesta: è la negazione stessa della democrazia che per esistere e rigenerarsi vuole il pluralismo dei valori. La scuola è pensata sul modello dei Trasporti o dei Lavori pubblici o delle Poste: solo che invece di sfornare raccomandate, sforna raccomandati. Ma il criterio è il medesimo: la scuola è uno sportello, un timbro, un diploma, una laurea. La scuola non vale perché, sia di fatto sia di diritto, ciò che vale è altro. Lo Stato-pedagogo capovolge il giusto rapporto tra cultura e legge e abitua a un’idea statalizzata della libertà in cui si attende sempre che qualcuno (un leader, un partito) o qualcosa (un ente, un ministero) metta le cose a posto. Ma questo stato di cose, come dimostrano ampiamente i fatti, è impazzito.
L’istruzione ormai è come le Poste: ma invece di sfornare raccomandate, sforna raccomandati
ordinamenti scolastici. Se sia giusto o sbagliato che nella scuola elementare ci sia un solo maestro o più maestri lo decide lo Stato, sia pure con tutte le discussioni politiche e i contributi
scientifici, fino a quando la scuola valida è solo la scuola di Stato. Per fare in modo che lo Stato - ossia ministro, governo e maggioranza di turno - non decida della pedagogia e dell’edu-
cazione di fanciulli e giovani si deve passare dal sistema napoleonico della scuola statale al sistema della scuola libera: gli insegnanti devono rivendicare la libertà d’insegnamento che è il
ZAINI PIENI La rincorsa di modelli editoriali sbagliati ha portato alla perdita degli approfondimenti ingenuo e controprora editori e acquiducente. renti di libri scolastici, ormai da anI libri di testo dovrebni è in atto una bero riacquistare sobattaglia giocata sul di Alfonso Piscitelli brietà: la somiglianza con i magazine di divulgazione margine del rincaro e del risparmio. Le strategie di tipo Focus o Scientific American non necessariamenquesto gioco sono risapute: gli editori approfittano delle ristampe per introdurre piccole modifiche ai te- Col passare dei decenni, i libri di testo della scuola te giova agli studi. Dovrebbero essere più sintetici: un sti, per cambiare la copertina e giustificare l’aumen- hanno perso la loro originale sobrietà e severità. Og- periodo storico può essere trattato in maniera più effito di prezzo. A loro volta i ragazzi e le loro famiglie gi tendono a somigliare a dei magazine. Fotografie cace senza una dispersione eccessiva nei particolari, cercano di bypassare i canali ufficiali della vendita sgargianti, didascalie che mirano a semplificare (o ma con una trama argomentativa che faccia cogliere dei testi, e di avvalersi del mercato clandestino o fai addirittura a rendere inutile) la lettura del testo. La gli aspetti fondamentali di un’epoca. Lo sviluppo dei da te: mercatini del libro sulle bancarelle e il vecchio moda delle mappe concettuali ha poi riempito le ulti- sussidi multimediali potrebbe venire in aiuto per gacollaudato sistema del passaggio del libro da una ge- me pagine dei capitoli di intricati schemi da settima- rantire un prodotto economico e qualitativamente alnerazione all’altra fanno parecchi danni agli editori. na enigmistica. Oggi che si pone all’attenzione il te- to: i libri di testo potrebbero essere snelli come le sima del costo eccessivo dei testi, la questione dello nossi in uso nelle scuole secondarie degli Stati Uniti, Particolarmente gettonati sono i libri degli alunni “stile”di tali libri deve essere ugualmente sollevata. I ma contenere al termine di ogni capitolo dei“link”, dei dell’ultima fila: libri quasi mai aperti, non sottolineati, libri di testo costano tanto anche perché sono diven- rinvii a pagine on line di approfondimento. quasi intonsi. Gli editori a loro volta colgono al volo tati barocchi, inutilmente ampi e complicati. La pro- Del resto, anche da un punto di vista rigorosamente alcune occasioni per indirizzarle a scopo di lucro. posta veramente rivoluzionaria sarebbe quella di ab- metodologico, l’obiettivo fondamentale di un testo Qualche anno fa le associazioni di genitori lanciarono bassare i costi, riconducendo i libri di testo a una for- scolastico non è quello di“dire tutto”, di proporsi come l’allarme del peso della cartella: troppi libri e troppo ma più sintetica, sobria. Il difetto originale che ha re- bibbia all’interno della quale è contenuta ogni rispopesanti rischiavano di trasformare i preadolescenti in so i manuali simili a piccole enciclopedie (a garzati- sta. La finalità di un libro di scuola è di stimolare l’atanti piccoli Leopardi. Non dal punto di vista della ne…) è forse negli autori: figure di intellettuali carat- more per la ricerca: partendo da una offerta di alcuni preparazione culturale, ma da quello più caricaturale terizzati dalla tipica autoreferenzialità della casta concetti di base, il libro deve stimolare nel lettore “l’adella “gobba” e della scoliosi. L’allarme era giustifica- letteraria. Molti libri non sembrano essere scritti per more per la conoscenza”concepita come ricerca indito: effettivamente alcuni zaini somigliavano per peso un pubblico di adolescenti e preadolescenti. La selva viduale. La riduzione delle pagine dei manuali si ima quelli adottati dalla fanteria meccanizzata. Ma furo- di citazioni e di riferimenti anche criptici, l’utilizzo di pone quindi come una esigenza didattica. Riduzione no lesti gli editori a propiziare un ulteriore rincaro da un formulario e di argomentazioni tipiche da circo- dei testi significa peraltro richiamo alla sintesi e lotta questa situazione. Proposero una suddivisione dei lo culturale in dibattito permanente, rendono il ma- alla prolissità. Diciamo la verità: molti testi in adoziovecchi manuali in tanti fascicoli: ciascuno aveva un nuale spesso estraneo ai gusti e agli interessi dei lo- ne sono prolissi. E forse è per questo che, mentre i lipeso irrilevante, un numero limitato di pagine, ma an- ro naturali destinatari. Ci riferiamo principalmente bri di testo si gonfiavano di pagine, in questi anni la che un prezzo che sommato a quello degli altri fasci- ai manuali di letteratura, storia, filosofia. Ma spesso preparazione culturale dei nostri alunni diventava coletti produceva un costo ben più alto dell’originario. anche i testi scientifici peccano di un enciclopedismo sempre più superficiale.
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Basta con i manuali formato magazine
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economia
Ecco perché l’assenza di controlli ha consentito alla banche di creare un castello di carta di dimensioni colossali
Il fantasma del capitalismo di Gianfranco Polillo la «fine del capitalismo», come ha scritto Feltri su Libero? Si arriverà alla «chiusura delle borse mondiali», come paventa Giannini su la Repubblica? O vale l’esortazione di Panebianco che, sulle pagine del Corriere, invita a non cedere alle «facili profezie»? Non siamo al ’29, sostiene sulla scorta del ragionamento condotto da Alesina, sul Sole 24 ore. Rispetto a quell’esperienza le cose sono diverse.
laws, che segnarono nel ‘700 l’ascesa della potenza inglese, quei prodotti a basso prezzo servivano a ridurre «il costo della riproduzione della forza lavoro». Senza gli abiti a basso costo o la massiccia produzione di beni di consumo, le rivendicazioni salariali avrebbero messo in crisi anzitempo l’economia americana. Dove invece si esagerò fu nel settore finanziario. L’assenza di controlli ha consentito alla banche di creare un castello di carta di dimensioni colossali. Il mercato sorto intorno ai nuovi prodotti – subprime, vehicle, conduit, derivates, monolines – è ormai pari a 10 volte il Pil mondiale. Senza contare il coté assicurativo, a sua volta sorto proprio per assicurare il rischio di investimenti posti al di fuori di qualsiasi controllo. Una rete impossibile da gestire.
È
«La Grande Depressione – insiste Panebianco – fu l’effetto di politiche radicalmente sbagliate». Qui c’è una contraddizione nel ragionamento. Le politiche finora condotte dalla Fed, invece, sono state giuste? Difficile, con il senno di poi, rispondere di sì. Forse Alan Greenspan non è come Bin Laden, come ha sostenuto recentemente Giulio Tremonti; ma le sue responsabilità, e quindi gli errori commessi nella gestione della Fed, sono ormai emersi. Errori, poi. Chi ragiona in questi termini dimentica che il capitalismo, anche nell’era della globalizzazione, resta una realtà segnata da profonde contraddizioni. Che vanno in qualche modo regolate per evitare il rischio di deflagrazioni. A questo, del resto, serve la politica. Se il mercato fosse un meccanismo perfetto, in grado di guidare la direttrice di marcia dell’umano progredire, non ci sarebbe bisogno delle regole della democrazia. Astrazioni? La crisi americana dimostra il contrario. La politica monetaria della Fed, nel breve periodo, ha funzionato. Ha garantito agli Usa, che alla fine degli anni ’80 mostravano i segni del declino sotto l’incalzare della concorrenza mondiale, di riprendersi e avviare un nuovo ciclo di sviluppo. Fu la sconfitta di maître à penser come Kindleberger, che profetizzava il passaggio del testimone al di là della sponda del Pacifico: a favore di un paese, come il Giappone, i cui ritmi di crescita erano tre volte tanto quelli dell’economia occidentale. Furono smentite teorie economiche consolidate. Il lungo ciclo di sviluppo, che data senza
Giorno dopo giorno, fascina dopo fascina, un vero e proprio mostro finanziario è stato costruito, gestito e alimentato per realizzare profitti e garantire retribuzioni fantastiche interruzioni sostanziali, dagli inizi degli anni ’90, fu visto come un nuovo miracolo. Altro che economie avanzate inevitabilmente destinate a subire l’erosione del tempo. La potenza tecnologica, l’ingegneria finanziaria, il peso militare – dopo la caduta del muro di Berlino – sembravano essersi trasformate in un elisir di lunga vita. Greenspan fu uno degli artefici di questo cambiamento. La sua politica monetaria – una continua iniezione di liquidità sul mercato – contribuì a sostenere la domanda interna, alimentò i consumi oltre il dovuto, permise alle grandi istituzioni finanziarie di moltiplicare i pani e
i pesci. Una locomotiva lanciata a forte velocità: questi sono stati gli Usa in tutti questi anni. Una motrice, alla quale si sono via via agganciati i vagoni delle economie più periferiche: dall’Europa – Germania in testa – all’India ed alla Cina. Giulio Tremonti, giustamente, recrimina sul Wto. L’accordo che ha permesso alla Cina di partecipare ai vantaggi del commercio internazionale, senza pagare pegno. Ma quegli stessi accordi furono la conseguenza inevitabile delle grandi trasformazioni dell’economia mondiale. Gli Usa non fecero alcuna concessione di carattere politico. Come nel caso delle corn
Quel mostro è stato costruito giorno dopo giorno, fascina dopo fascina. Gestito e alimentato dalla grande finanza internazionale, come macchina straordinaria per realizzare profitti e garantire retribuzioni fantastiche per i propri dirigenti. In questa corsa all’arricchimento, di gruppo e individuale, è stata abbandonata ogni prudenza, così l’effetto leva, per la legge del contrappasso, ne ha determinato ora la distruzione. Se ne uscirà? È presto per dirlo. Ma la penitenza, dopo la goduria, non sarà né indolore né di breve periodo. I peccatori più incalliti – le grandi banche d’affari e in particolare Bear Stearn, Lehman Brother, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sach – hanno o sono in procinto di pagare. Il loro orgoglio è stato spezzato da coloro – le banche più tradizionali – ch’erano visti come impenitenti provinciali, destinati a rimanere fuori del nuovo regno della modernità. Se i danni non saranno irreparabili, tutto sommato, una lezione salutare che ci riporta al discorso iniziale. Questa non è una riedizione del ’29; ma qualcosa di diverso eppure straordinariamente simile, su cui occorre continuare a riflettere.
economia ROMA. Tutto secondo i pronostici: una vittoria ai punti per Geronzi, che però deve incassare la “soluzione diplomatica”per il comitato nomine. Ma arriva anche una nuova carica e un debutto in cda che farà discutere. Mediobanca cambia governance, ritornando al monistico e abbandonando dopo un anno il sistema duale, e trova anche un nuovo vicepresidente nella persona di Marco Tronchetti Provera. Non solo: Marina Berlusconi, presidente di Fininvest, è stata indicata dai soci industriali del gruppo B del patto di sindacato per entrare a far parte del consiglio di amministrazione. La holding di Via Paleopaca detiene l’1% sindacato e un ulteriore 1,06% fuori dal patto, che ha stabilito ieri in 22 i componenti del nuovo cda: ci sarà anche Angelo Casò, che nel sistema duale era componente del consiglio di sorveglianza mentre nella governance tradizionale era presidente del collegio sindacale. Era cominciata al mattino l’ultima maratona di incontri. Il primo ad arrivare è stato il mattiniero Cesare Geronzi, che ha varcato il cancello per presenziare al consiglio di gestione che doveva approvare il bilancio (un miliardo di utili). Poi sono arrivati Eugenio Pinto e Tarak Ben Ammar, poi Tronchetti e Dieter Rampl, presidente di Unicredit; l’ultimo è stato Piergaetano Marchetti, incaricato di redigere la bozza del nuovo statuto. Nonostante ci si aspettasse un po’ di battaglia, sembra invece che tutto sia filato liscio. L’approvazione è arrivata con la sola opposizione di due piccoli soci, Alberto Pecci e Oscar Zannoni che hanno motivato il loro no con il troppo poco tempo trascorso dall’adozione del modello duale per una bocciatura. E se sul fronte del cda il banchiere di Marino può incassare una bella vittoria, con l’entrata di soci a lui sicuramente vicini e la vicepresidenza all’amico Tronchetti, la guerra del Comitato nomine non l’ha visto uscire in trionfo. Alla fine ha vinto l’opzione a sei componenti, che era favorita rispetto a quella a sette,
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Mediobanca. Torna la tradizionale governance con Geronzi Dominus
Tronchetti vicepresidente Marina Berlusconi nel cda di Alessandro D’Amato che avrebbe visto i soci bancari aumentare la loro rappresentanza, minando gli equilibri storici. Dentro il comitato ci saranno il presidente, l’ad e il direttore generale e tre rappresentanti dei soci; e se Geronzi può contare sull’appoggio incondizionato dei francesi e degli imprenditori, non altrettanto certi potrebbero essere gli orientamenti del rappresen-
Accantonato il sistema duale che spartiva le funzioni tra Consiglio di sorveglianza e quello di gestione
tante degli istituti di credito. In più, Rampl uscendo da Piazzetta Cuccia ha annunciato soddisfatto che il voto del presidente non varrà doppio, consentendo così di sfuggire allo strapotere di Geronzi. E infatti il modello può rischiare di creare una situazione poco diversa da prima: se fino a qualche tempo fa Geronzi lamentava la poca incisività del consi-
glio di sorveglianza nella scelta delle linee strategiche, oggi lo stallo che si potrebbe creare nel comitato potrebbe finire per divenire non irrilevante ai fini delle prossime decisioni sulle partecipate. «Il rischio è che tra sei mesi bisognerà di nuovo rimettere mano al tutto», mormorano preoccupate alcune fonti vicine a Piazzetta Cuccia. Anche perché dopo l’approvazione ufficiale della nuova-vecchia governance – prevista per il 28 ottobre – l’Istituto si dovrà giocare alcune partite di importanza fondamentali: le Generali, dove c’è in ballo la vicepresidenza e l’attivismo di soci esteri, e soprattutto Telecom, dove la convivenza tra Telefonica e gli altri soci sembra arrivata a un punto di svolta. In più, le cronache raccontano che nel corso dell’assemblea è stata avanzata la proposta di rinnovare l’accordo di sindacato per due anni, contenuta nelle carte preparatorie della riunione del patto. Ma da alcuni soci (molto probabilmente Unicredit, tra gli indiziati anche un socio industriale) è arrivato un secco no. E forse nell’occasione saranno riecheggiate le parole di Alessandro Profumo al Corriere: «Sul patto, ricordo che scade nel 2009. Da quel momento ci sentiremo liberi».
«Il modello di governance è come un vestito, e su un’azienda muscolosa deve essere tagliato su misura – dice Susanna Stefani, vicepresidente esecutivo di Governance Consulting – e a Piazzetta Cuccia ci sono equilibri delicati, tantissimi azionisti e diversi interessi in gioco. Tutti, a partire da Geronzi, vengono da aziende dove sono abituati a comandare, mentre il consiglio di sorveglianza aveva una funzione di controllo e non di indirizzo». E questo i soci non lo sapevano già? «Vede, sintomatica è l’esperienza di Banca Intesa, dove sono i componenti a essere cambiati profondamente, permettendo così il funzionamento della governance. In Mediobanca non è stato così, e non dimentichiamo che l’azienda vive una situazione di ‘conflitti’ con le attività degli azionisti».
Sopra, il nuovo vicepresidente di Mediobanca, Marco Trochetti Provera. A sinistra Marina Berlusconi, prossima a entrare nel nuovo cda
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Perché il fatto di essere stato un pilota di caccia potrebbe far vincere le elezioni a John McCain
La manovra del Maverick di Michael Barone ohn McCain è un pilota di aerei da caccia. Dalla sua scelta di Sarah Palin, nonché dalla convention e dalla campagna elettorale che ha condotto, si evince come egli abbia imparato una lezione importantissima dai giorni in cui era un pilota: è entrato nel ciclo di “OODA” di Barack Obama. Si tratta di un concetto messo a punto da John Boyd, grande pilota di caccia e stratega militare. Un acronimo dei termini Osservare, Orientare, Decidere e Agire (Observe, Orient, Decide, Act). «Il segreto della vittoria è agire più rapidamente del nemico» scrive Robert Coram, biografo
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politici della Palin. I responsabili della campagna di McCain hanno intelligentemente tenuto nascosto il fatto che il suo nome figurasse tra i candidati e che era stata prescelta da una mezza dozzina di persone, che non lo avevano riferito neppure al coniuge. La squadra di Obama non ha “osservato” come avrebbe dovuto. Poi, ha dimostrato delle mancanze anche nelle attività di “orientamento”. La Palin, come dimostrato alla convention e dalle sue successive apparizioni, va a rafforzare due delle posizioni principali assunte da McCain: è un politico indipendente, che non ha chinato il ca-
Il candidato repubblicano ha messo in pratica la strategia elaborata da John Boyd: “Osservare, Orientare, Decidere e Agire”. Ed è riuscito a disorientare e spaventare i democratici di Boyd. «L’elemento chiave da comprendere della teoria di Boyd non è il ciclo inteso nella sua meccanicità in quanto tale, bensì il fatto che esso vada eseguito in modo tale da entrare nella mente e nel ciclo decisionale del nemico». «Il segreto della vittoria è agire più rapidamente del nemico»: per un pilota di caccia, questo significa manovrare al di sopra e alle spalle dell’avversario, in modo da espellerlo dal cielo. Per un candidato alle elezioni, invece, significa agire in modo tale che le risposte dell’avversario vadano di volta in volta a rafforzare le proprie teorie, indebolendo la posizione della parte avversa che le fornisce. La scelta della Palin e la sua apparizione sul palco della convention sembrano aver avuto tale effetto. Riguardo alla scelta della Palin, il chief strategist di Obama, David Axelrod, ha ammesso: «Onestamente, non ce lo aspettavamo. Cioè, il suo nome non figurava in alcuno dei nostri elenchi». Ma era noto che il consigliere di McCain per la scelta del vicepresidente si fosse recato in Alaska e chiunque visitasse il sito Internet youtube.com poteva vedere i video dei dibattiti
po dinanzi ai dirigenti del suo partito (cosa che Obama non ha mai fatto a Chicago) e, in materia di energia, è nota per aver favorito l’attività di trivellazione e l’esportazione delle risorse americane. Invece di contrastare tali posizioni, lo staff di Obama ha liquidato la scelta definendola un tentativo di attirarsi le simpatie delle sostenitrici di Hillary Clinton o dei conservatori religiosi. Inoltre, la squadra di Obama ed i suoi numerosi sostenitori del mondo dei media tradizionali
non hanno assunto “decisioni” adeguate, sbagliando quindi al momento di “agire”. I loro attacchi contro la Palin hanno rimbalzato, ritorcendosi contro Obama. È priva di esperienza? E Obama? Ha mai gestito nulla? (a parte la sua campagna elettorale, attualmente in difficoltà). Essere il sindaco di una cittadina, come sottolineato dalla Palin, è come essere responsabile dell’organizzazione di una comunità, «salvo che ci si trova di fronte a reali responsabilità».
La Palin trascura la sua famiglia? E Obama? Quante volte ha rincalzato le coperte alle sue figlie negli ultimi tempi? Abbiamo sentito per più di una settimana il principale esponente del ticket democratico affermare di essere più preparato della numero 2 del ticket repubblicano. Questa non è un’argomentazione vincente, anche se si ha la meglio. Come sottolineato dal veterano Californiano Democratico Willie Brown, «ora di Repubblicani sono all’attacco, mentre i Democratici giocano in difesa». Forse i responsabili delle strategie elettorali di Obama si aspettavano che i loro numerosissimi amici appartenenti al mondo dei media tradizionali svolgessero il lavoro al loro posto. Certo, ci hanno provato. Ma i loro tentativi sono andati a vuoto e le granate lanciate verso la Palin sono rimbalzate e gli
sono scoppiate in faccia. Gli elettori stanno scoprendo il loro gioco. Secondo il sondaggista Scott Rasmussen, il 68 per cento degli elettori americani ritiene che «la maggior parte dei giornalisti cerchi di aiutare il candidato che desiderano veder vincere» ed il 51 per cento - più di quanti sostengono McCain crede che la stampa stia «cercando di nuocere» a Sarah Pa-
lin. La stampa ed il ticket democratico pagano il prezzo di anni d’informazione distorta e parziale da parte dei media dominanti. Non sono l’unico ad aver notato che John McCain e Sarah Palin sono entrati nel ciclo di “OODA”della campagna elettorale di Obama (e dei media tradizionali). Il blogger Charlie Martin è riuscito ad scriverlo su www.americanthinker.com
La corsa alla Casa Bianca in libreria Tra le miriadi di pamphlet sulle ormai imminenti elezioni presidenziali americane in questi giorni in libreria - quasi tutti invariabilmente agiografici nei confronti di Barack Obama - si segnalano due bei volumi appena usciti. Il primo, John McCain. Tutte le guerre del maverick è una densa biografia del candidato repubblicano scritta da Federico Leoni, Moreno Marinozzi e Daniele Moretti (tutti e tre giornalisti di Sky Tg24), che racconta i 72 anni di «disastri e salvataggi, disgrazie e rinascite» del senatore dell’Arizona. Dalla prigionia in Vietnam alla crisi del primo matrimonio, dal nuovo amore con Cindy ai primi passi in politica (prima al Congresso, poi al Senato), passando per la sfida a George W. Bush alle primarie repubblicane del 2000 e terminando con questa sua ultima corsa per la Casa Bianca.Tutto il fascino (e le «cicatrici») di McCain. Non di uno dei candidati in particolare, ma delle differen-
ze tra le piattaforme programmatiche proposte da democratici e repubblicani - oltre che, più in generale - dell’affascinante processo elettorale americano, si occupa invece La corsa più lunga. Obama contro McCain: due visioni, una nazione, scritto a quattro mani dal corrispondente dagli Stati Uniti di Avvenire, Alberto Simoni, e da John Samples, direttore del Center for Representative Government del Cato Institute di Washington (forse il più importante think-tank di ispirazione libertarian degli Stati Uniti). Come si legge nella quarta di copertina del libro, La corsa più lunga è «una guida chiara, semplice e affidabile alle elezioni per la Casa Bianca e all’America di oggi». Un volume utile a capire cosa accadrà, dopo le elezioni del 4 novembre, alla superpotenza che, nel bene e nel male (soprattutto nel bene), continuerà a governare una buona parte dei destini del pianeta.
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Ma nei sondaggi Obama ha recuperato terreno: adesso tutto si gioca in 3-4 stati Secondo il sondaggista Scott Rasmussen, il 68 per cento degli elettori americani ritiene che «la maggior parte dei giornalisti cerchi di aiutare il candidato che desiderano veder vincere» e il 51 per cento più di quanti sostengono McCain - crede che la stampa stia «cercando di nuocere» a Sarah Palin. La stampa e il ticket democratico pagano il prezzo di anni d’informazione distorta e parziale da parte dei media dominanti
prima che io riuscissi ad andare in stampa con questo articolo. Ma mentre scrivo, Barack Obama sta spiegando, per il secondo ciclo di notizie quotidiane, perché il suo riferimento al «rossetto su un maiale» non costituisca un attacco sessista contro la hockey mom, che si è paragonata ad un «pitbull con il rossetto».
Robert Coram descrive ciò che può accadere quando un giocatore entra nel ciclo di “OODA” di un avversario. «Se uno riesce davvero a capire come ingenerare pericolo, incertezza e sfiducia, quindi come sfruttare e valorizzare la sussistenza di tali elementi disorientanti, si può creare un circolo vizioso, una forza terribilmente distruttiva, praticamente inarrestabile nel creare panico e confusone e, quindi - Body lo dice nel modo migliore - «distruggere la competizione». «L’aspetto più incredibile del ciclo di “OODA” consiste nel fatto che il perdente raramente capisce cosa sia successo». John Boyd sarebbe stato un consulente politico formidabile.
di Andrea Mancia già finito l’effetto-Palin? Forse è ancora presto per affermarlo con certezza, ma di sicuro nell’ultima settimana Barack Obama sembra aver recuperato, nei sondaggi, il terreno perso nei confronti di John McCain dopo la convention repubblicana e - soprattutto - la scelta del governatore dell’Alaska come candidato alla vicepresidenza. Nelle rilevazioni condotte dagli istituti di ricerca a livello nazionale, la situazione è ormai in quasi perfetta parità: secondo Rasmussen Reports i due candidati sono appaiati al 48%; secondo Gallup, Obama ha un paio di punti percentuali di vantaggio (47-45); secondo Battleground i rapporti di forze sono esattamente opposti (47-45 per McCain); mentre l’ultimo sondaggio Cbs News/New York Times vede in vantaggio il candidato democratico piuttosto nettamente (49-44). Ha poco senso, però, concentrarsi troppo sui sondaggi nazionali, visto che con il sistema elettorale statunitense alla Casa Bianca non va chi conquista più voti popolari, ma chi raggiunge il numero più alto di electoral votes a livello statale. E qui la situazione si fa ancora più complicata. Nella mappa elettorale elaborata dal sito RealClear Politics con le medie degli ultimi sondaggi statali, il ticket McCain Palin è accreditato di 216 electoral votes, contro i 207 di Obama/Biden. La battaglia, invece, infuria nei dieci stati considerati
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toss-up, cioè ancora incerti, che mettono in palio i 115 voti rimanenti. Da ovest a est: Nevada, Colorado, New Mexico, Wisconsin, Indiana, Michigan, Ohio, Pennsylvania, Virginia e New Hampshire. Assegnando questi dieci stati con metodo puramente matematico, ad oggi Obama vincerebbe le elezioni con 273 electoral votes contro i 265 di McCain. Ma al candidato repubblicano basterebbe ribaltare la situazione in uno di questi stati per esempio Colorado o New Mexico, entrambi vinti da Bush nel 2004 - per passare in testa. A meno di clamorose sorprese in uno dei cosiddetti “Big Four” (una vittoria di Obama in Florida o Ohio, oppure di McCain in Michigan o Pennsylvania, sarebbe probabilmente decisiva), sarà proprio nel triangolo occidentale Nevada-Colorado-New Mexico che si dovrebbe giocare la partita decisiva. Si tratta di tre stati “rossi”, con una solida tradizione repubblicana, in cui però alcuni fattori demografici (soprattutto l’immigrazione “ispanica”) potrebbero giocare un ruolo decisivo a favore dei democratici. Non a caso Obama ha scelto di tenere la convention del proprio partito a Denver, in Colorado. Soprattutto in New Mexico, dove Bush nel 2004 vinse per soli seimila voti, McCain dovrà fare molta fatica. Se poi i repubblicani dovessero perdere anche in Virginia, dove Obama spera di mobilitare la folta comunità afro-americana, allora la situazione si farebbe quasi disperata.
A meno di sorprese in Florida, Ohio, Michigan o Pennsylvania, la partita si giocherà in Colorado, Nevada e New Mexico
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mondo
Israele, da domani consultazioni per nuovo governo. Si teme una leadership debole. Barak e Netanyahu chiedono elezioni anticipate
Livni vince ai punti, Mofaz contesta di Emanuele Ottolenghi Il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, ha vinto le primarie di Kadima per 431 schede, prendendo il 43,1% dei voti rispetto a Shaul Mofaz, fermo al 42%
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Australia, niente uranio a Mosca Una commissione del parlamento australiano si è detta contraria a consegnare a Mosca la quantità di uranio che Camberra aveva già deciso di inviare alla Russia per la costruzioni di nuove centrali nucleari. La stessa commissione si è poi rivolta al governo invitandolo a non ratificare il corrispondente trattato stipulato con il Cremlino. Alla base della decisione i parlamentari hanno messo il recente conflitto tra Russia e Georgia. L’accordo, fonte dell’attuale scontro tra governo e parlamento, era stato stipulato un anno fa dall’ex primo ministro John Howard e dall’allora presidente russo Vladimir Putin. Che aveva dichiarato l’intenzione, nei prossimi 20 anni, di voler costruire 30 nuove centrali nucleari. Un piano che renderebbe indispensabile l’utilizzo di uranio australiano. L’accordo esclude la possibilità di poter rivendere a terzi il combustibile nucleare o di utilizzarlo per qualsiasi scopo militare.
Usa, approvato bilancio Difesa 2009
onostante i pronostici altamente favorevoli Tzipi Livni ha vinto le primarie del partito Kadima solo con un pugno di voti. In attesa del prevedibile ricorso del suo sfidante, Shaul Mofaz, per un secondo conteggio che confermerà definitivamente il risultato, si possono già azzardare delle prime valutazioni sulle sfide politiche e istituzionali che attendono Israele. Dal punto di vista istituzionale il percorso è limpido. Livni, non appena Olmert si sarà dimesso, diverrà primo ministro incaricato e avrà sei settimane per formare una coalizione. Qualora le mancasse la maggioranza al termine delle sei settimane, il Paese dovrà andare a nuove elezioni entro novanta giorni. Se Livni non riuscisse a formare la sua coalizione, cosa non improbabile per le rivalità che esistono all’interno del partito e nella coalizione attuale, il Paese attraverserebbe un nuovo lungo periodo di instabilità. C’è quindi da auspicare che Livni riesca nel suo intento.
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Tuttavia il suo successo, una volta superati gli ostacoli istituzionali, solleverà potenzialmente dei problemi politici non indifferenti. La domanda importante dal punto di vista politico, infatti, riguarda le qualità politiche, intellettuali e professionali del primo ministro designato. Livni senza dubbio gode di popolarità sia in Israele sia in Europa, ma il suo curriculum politico lascia molto a desiderare e solleva inquietanti interrogativi sulla sua capacità di guidare il Paese attraverso pericoli, sfide e crisi regionali. Cominciamo dall’inizio: secondo fonti israeliane la sua carriera di agente segreto nel Mossad, su cui lei fonda le sue credenziali di sicurezza, in realtà è stata una breve esperienza
giovanile tesa principalmente in un ruolo amministrativo e qualche operazione di supporto che non ha mai presentato nessun pericolo e nessuna sfida. La sua carriera d’avvocato non presenta lustri o processi celebri né partner importanti. La sua breve presenza nella commissione Affari Costituzionali nel Parlamento israeliano non ha lasciato traccia in quanto ai tre ministeri che ha gestito. Da quando è entrata in politica, Livni non ha lasciato alcuna eredità di rilevo – amministrativa, politica, diplomatica o gestionale. Pur essendo stata a capo del ministero della Giustizia per due anni non esiste riforma o disegno di leg-
Le sfide che l’attendono? Il processo di pace, la minaccia nucleare iraniana e il rischio continuo di un’escalation a sud con Hamas e a nord con Hezbollah ge importante approvato dal Parlamento che porti il suo nome. I suoi quasi tre anni al ministero degli Esteri sono anch’essi un’esperienza in cui non ha lasciato nessun segno positivo. Quale responsabile della gestione della crisi diplomatica che si accompagnò alla guerra del 2006, Livni conta due fallimenti importanti: l’incapacità di gestire con efficacia la guerra mediatica scatenatasi attorno agli eventi della guerra e la mediazione diplomatica fallimentare che ha prodotto la risoluzione Onu 1701, un documento dannoso per gli interessi israeliani.
Anche l’immagine di Livni come faccia nuova e incorruttibile della politica israeliana non si concilia bene con la sua esperienza politica. Pur non essendo in nessun modo coinvolta in scandali, Livni è stata ministro della Giustizia durante l’amministrazione Sharon – una delle più corrotte gestioni della storia d’Israele. Possibile che non si sia accorta di nulla? Nel peggiore dei casi sarebbe complice e nel migliore mediocre. Può Israele dunque affidarsi a un politico di questo spessore per guidarlo attraverso la sfida del processo di pace coi palestinesi, la minaccia nucleare iraniana e il rischio continuo di un’escalation a sud con Hamas e a nord con Hezbollah? Livni, per tre anni, come reggente del ministero degli Esteri, ha avuto la responsabilità sia dei negoziati coi palestinesi sia della sfida nucleare iraniana. Fonti diplomatiche indicano come la Livni non abbia alcuna capacità diplomatica, tattica o strategica nonostante conosca e comprenda bene la sfida diplomatica coi palestinesi.Tuttavia sul fronte iraniano pur avendo mobilitato le risorse del ministero a questo fine, soltanto raramente si è impegnata in prima linea specialmente sul terreno critico e a volte scettico delle capitali europee. Israele oggi entra in un periodo di grande crisi: se Livni fallisce ci si possono aspettare sei mesi di instabilità politica senza un governo che possa prendere decisioni potenzialmente molto rischiose per il futuro del Paese. Se Livni riesce a formare un governo, invece, il Paese potrebbe essere guidato da una persona certamente ben intenzionata ma inadeguata a gestire le sfide. È un dilemma che non avremmo mai voluto vedere per Israele.
Mercoledì il senato americano ha approvato a grande maggioranza, 88 sì contro 8 no, il bilancio della Difesa per il 2009. Per il prossimo anno il piano prevede spese militari pari a 612,5 miliardi di dollari, di cui 70 per le sole operazioni militari in Iraq. Del bilancio fanno parte anche gli aumenti di salario per il personale militare, pari al 3,9 percento degli attuali stipendi. Si tratta dello 0,5 percento in più di quanto chiesto dal presidente Bush. Prima che il bilancio diventi legge e venga presentato alla firma del presidente, occorre l’approvazione della Camera dei rappresentanti che lo scorso maggio aveva deliberato un proprio progetto.
Russia, aereo caduto per cause tecniche Il Boeing-737 dell’Aeroflot-Nord, caduto nei pressi della città di Perm negli Urali circa una settimana fa, non è esploso in aria. Queste le conclusioni della commissione tecnica interministeriale per l’aviazione civile russa che ha anche confermato che fino al momento dell’impatto al suolo l’aereo era intatto e che a bordo del mezzo non si era sviluppato nessun incendio.
Pakistan, nuove tensioni con Washington Prosegue la querelle tra Usa e Pakistan sulle presunte violazioni della sovranità di Islamabad. Un giorno dopo la visita nella capitale del capo di Stato maggiore americano, Micheal Mullen, le forze armate di Washington hanno colpito di nuovo un bersaglio sul territorio pachistano. «Non eravamo informati dell’azione», queste le dichiarazioni date ieri dal ministro degli Esteri pachistano Shah Mahmood Qureshi. Secondo i media Usa, il Pentagono avrebbe però informato in anticipo le autorità pachistane dell’inizio del nuovo attacco aereo. Questa volta il bersaglio dell’aviazione Usa è stato un deposito di munizioni nei territori semiautonomi del Waziristan. Nel corso del raid sarebbero stati uccisi sei guerriglieri talebani.
mondo
n Zimbabwe i periodi preelettorali hanno sempre coinciso con un forte aumento del numero degli ospedalizzati nei reparti di traumatologia dei nosocomi. I sostenitori più attivi del Movimento per il Cambiamento Democratico, il partito di opposizione allo Zanu-PF di Robert Mugabe, sono stati spesso costretti ad abbandonare i propri villaggi per evitare le spedizioni punitive dei veterani della guerra civile del 1980, che trasformò la Rhodesia razzista in Zimbabwe, e sostenitori del partito al potere, lo Zanu PF. Lo stesso Morgan Tsvangirai, leader dell’opposizione e, grazie all’accordo mediato dal presidente sudafricano Tabo Mbeki, nuovo Primo Ministro del governo di condivisione, è stato, in passato, più volte aggredito e, a suo dire, torturato in carcere lo scorso anno. Anche i bianchi, anglosassoni e portoghesi per la maggior parte, sono stati costretti ad abbandonare le fattorie a causa degli assalti armati dei facinorosi sostenitori del presidente Mugabe.
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Il Paese si presenta oggi ad una svolta storica con il raggiungimento dell’accordo per un “governo condiviso: 18 ministeri allo Zanu-PF e 15 alle opposizioni di Morgan Tsvangirai e Arthur Mutambara. Anche se ieri l’incontro per decidere l’assegnazione dei ministeri ha dato fumata nera ed è stato «rinviato ai negoziatori di ogni partito a causa di una serie di contestazioni sui ministeri chiave», come ha dichiarato il portavoce dell’Mdc. La priorità – secondo Tsvangirai – è dar da mangiare al Paese, stremato da un decennio di gravissima crisi economica. Il leader dell’Mdc, però, non dimentica l’altrettanto importante problema della riconciliazione nazionale, sostenen-
Fumata nera sul governo, ma il nodo è la riconciliazione nazionale
Zimbabwe, non c’è pace fra Mugabe e Tsvangirai di Franz Gustincich do che ci sono membri dello Zanu PF a differenti livelli istituzionali che dovrebbero essere processati per gli abusi commessi in materia di diritti umani e civili. Non si schiera l’ex apertamente, invece, membro dell’Mdc, anch’esso al governo, Mutambara, non indicando direttamente le responsabilità in merito del governo di Mugabe. Immediata la risposta dello Zanu PF attraverso le parole del vice por-
e praticabili per raggiungere la riconciliazione nazionale».
La fragilità dell’accordo è evidente sia da questi passaggi, che dalle posizioni diametralmente opposte dei leader. Sulla riconciliazione si gioca la partita della stabilità e, quindi, della rinascita di quello che un tempo era il più progredito e ricco Paese africano. Nel grande gioco della riconciliazione, rientra anche la co-
do è esplicito sul tema quando si legge, sempre all’art.VII, «si formuleranno politiche e si prenderanno misure per attrarre il ritorno ed il rimpatrio di tutti i zimbabweani della diaspora, ed in particolare si lavorerà verso il ritorno di tutto il personale competente». Un chiaro invito ai cittadini bianchi, i farmers che, ammesso che vogliano tornare, attenderanno garanzie e diritti certi o, come dichiarato più
Come agire con i warlords, un tempo eroi della guerra anticolonialista, che fino a ieri hanno seminato il terrore nella nazione, sequestrando terre, case e beni ed entrando nei seggi elettorali sparando raffiche di mitra? tavoce Ephraim Masawi «L’accordo dice chiaramente che dobbiamo avere una riconciliazione nazionale, ma come raggiungerla è ancora materia di discussione». L’articolo VII dell’accordo, in effetti, lascia aperte tutte le porte poiché, nel riconoscerne la necessità dichiara che i partiti «dovranno prendere in considerazione l’impostazione di un meccanismo per consigliare appropriatamente quali misure potranno essere necessarie
siddetta diaspora: i profughi fuggiti nei Paesi confinanti (più di un milione solo in Sudafrica, secondo l’Mdc, quasi un decimo dei cittadini zimbabweani), e i numerosi farmer bianchi, che fino a pochi anni fa gestivano fattorie, alcune delle quali delle dimensioni dell’Umbria e, di fatto, l’intera economia del Paese, che fino al 2001 è stato il secondo produttore mondiale di tabacco, dopo la Cina, solo per fare un esempio. L’accor-
volte dalle associazioni degli agricoltori, la fine di Mugabe. Mugabe è indicato, e non solo dai bianchi, quale responsabile di aver requisito quasi tutte le terre fertili per distribuirle ai veterani di guerra, che le hanno lasciate alle ortiche, provocando così il tracollo dell’economia e sottraendo al Paese l’autosufficienza alimentare. Come bisognerà comportarsi con i warlords, un tempo eroi della guerra anticolonialista,
che fino a ieri hanno seminato il terrore nella nazione, sequestrando terre, case e beni ed entrando nei seggi elettorali, sparando raffiche di mitra per ricordare chiaramente chi era il candidato che avrebbe comunque vinto alle presidenziali? L’establishment di Harare, dal canto suo, non può permettere che membri del governo, alte cariche dello Stato, e gerarchie delle forze dell’ordine e dell’esercito, che fino a ieri hanno dimostrato - anche con la violenza - fedeltà a Mugabe, siano processati. Ne va della stessa sopravvivenza del partito.
Il problema è che, secondo alcuni osservatori africani, questo accordo ricalchi la falsariga di quello analogo firmato in Kenya lo scorso marzo: un mero accordo di potere. Se Mugabe e Tsvangirai non saranno in grado di dimostrare la volontà di risollevare lo Zimbabwe, o costruiranno fossati e trabocchetti per eliminarsi vicendevolmente, la situazione potrebbe precipitare, e la guerra civile – il cui spettro non si è mai fatto sentire, nonostante tutto – rischierebbe di essere un’opzione. In fondo i veterani del 1980, le cui mani si sono macchiate di sangue un po’ in tutto il Paese, sono coloro che hanno più da perdere in una eventuale sconfitta di Mugabe. E hanno le armi. Il rischio di tensioni ed instabilità è reale per chi conosce il carattere e la tempra dei due leader, descritti dalle vignette come due cowboys facili alla rissa, che non si danno mai le spalle per il timore di essere accoltellati. La riconciliazione, dunque, è una tappa fondamentale, ma dovrà passare inevitabilmente in quello strettissimo imbuto che dovrebbe essere la riconciliazione tra Mugabe e Tsvangirai.
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revisionismi
Viaggio tra gli intellettuali di destra. Dopo la sortita di Fini sull’antifascismo Buttafuoco e Veneziani duri contro il presidente. Con lui invece Campi e Rossi
Contrordine camerati di Riccardo Paradisi «Lei è antifascista?» Domandano le Jene di Canale 5 a Silvio Berlusconi: «Io penso a lavorare» risponde il Cavaliere che sotto questa forca caudina non ha nessuna intenzione di passare. Non è solo la sua antideologica “cultura del fare” a dettargli un atteggiamento così sbrigativo. Fonti interne al centrodestra parlano di una strategia dell’accoglienza adottata da Berlusconi alla vigilia della grande fusione nel Pdl tra An e Forza italia nei confronti di chi, a destra, non ha gradito il diktat finiano secondo esisterebbe un nesso obbligatorio tra i valori di libertà, uguaglianza e giustizia e la categoria ideologica dell’antifascismo. Dentro e intorno Alleanza nazionale le parole di Gianfranco Fini pronunciate alla festa nazionale di Azione Giovani la scorsa settimana, hanno lasciato un segno profondo. Lo sfogo (ingenuo e coraggioso) del presidente di Azione giovani di Roma, Alessandro Iadicicco – «Antifascisti non saremo mai» – è la punta dell’icberg del mare di ghiaccio con cui dentro il partito sono state accolte le parole di Fini. Una situazione che ha fornito il pretesto alla sinistra di riaprire il processo sulla sincerità democratica della destra italiana: Fini è sicuramente democratico, ma il suo partito non lo è ancora e lo dimostrerebbero i silenzi, i mal di pancia, il disagio che molti esponenti e militanti di An hanno nel definirsi antifascisti. Ma anche gli intellettuali più o meno vicini alla destra finora non si sono espressi su questa nuova accelerazione di Fini.
A rompere il ghiaccio e a elaborare un’analisi su questo nuovo controverso passaggio della destra italiana era stato due giorni fa Alessandro Campi – politologo dell’università di Perugia e direttore scientifico della Fondazione Fare Futuro – sulla rivista Reset online: «All’interno del gruppo dirigente del partito persistono contraddizioni e elementi d’ambiguità. E questo dipende dal modo sin troppo traumatico e repentino con cui si è verificata la svolta di Fiuggi. An, sotto la spinta di complesse vicende che hanno determinato la fine della cosiddetta Prima repubblica, ha rinnegato il suo passato senza però mai sottoporlo a
un’adeguata revisione critica. C’è stato poco dibattito politico interno. Al tempo stesso, gli intellettuali cosiddetti d’area si sono guardati bene dall’accompagnare in qualche modo il cammino avviato da Fini: hanno preferito gridare al tradimento o mugugnare in privato. Il risultato è che certi fantasmi tornano fatalmente ad affacciarsi». Il riferimento naturalmente è alla dura mise au point di Gianfranco Fini alla festa di Azione giovani: «Non rivendicando più a sè la memoria del fa-
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schia di rendere l’antifascismo un mostro metafisico eterno. Non solo, col suo ordine di servizio è riuscito a inibire anche quel residuo di vitalità politica giovanile che ancora albergava in Azione giovani. Che da parte sua non ha avuto il coraggio né la forza di fare un discorso autonomo. Ad Ag bastava dire che su questa questione dell’antifascismo loro la pensavano come Silvio Berlusconi il leader del Pdl e il grande depuratore dei residui del Novecento». Ma è proprio per andare oltre il Novecento, sostengono i finiani, che il presidente della Camera ha pronunciato il sillogismo del Celio: chi è democratico è antifascista. Agostino Carrino, docente di filosofia del diritto all’Università di Napoli e editorialista del Secolo d’Italia parla del coraggio di Fini di superare un paradigma vecchio, dentro cui la destra è stata troppo a lungo prigioniera. «Non è possibile che la destra abbia com,e riferimenti gli stessi autori degli anni Venti e Trenta: c’è bisogno di un balzo in avanti. Questa ulteriore accelerazione di Fini non è la chiusura di un percorso ma l’inizio di uno nuovo».
Il ragionamento sull’antifascismo di Fini è stato un ulteriore strappo comunicativo contro ogni ritorno all’indietro scismo e anzi ponendo tra An e questo fenomeno storico la massima distanza critica Fini – dice Campi – fa un’operazione liberatoria nei confronti della destra. Il fascismo diventa finalmente una questione che riguarda la memoria e le responsabilità di tutto il Paese che non possono essere fatte ricadere sulle spalle di una minoranza». Insomma impugnando l’antifascismo Fini ne avrebbe scaricato la valenza politica: avrebbe tolto a quest’arma il bersaglio da colpire. Ma davvero è possibile sfuggire alla perenne accusa di fascismo assumendo su di sé la divisa dell’antifascismo? Alessandro Giuli, vicedirettore del Foglio e autore de Il passo delle oche (Einaudi) ricognizione critica nel mondo della destra finiana è convinto del contrario: «Fini ha consacrato il mondo della destra politica a uno uno stato di minorità permanente. L’antifascismo era un cadavere psichico ucciso dall’anagrafe e soprattutto da quel grande fenomeno storico che è Silvio Berlusconi che a chi gli fa domanda se lui è antifascista risponde che lo si lasciasse in pace che ha da lavorare». Insomma l’imprudenza di An sarebbe quella di essersi fatta ricacciare con la sortita finiana nell’angolo buio. «Fini ri-
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Resta il fatto che oltre il fascismo la destra italiana ha ondeggiato tra gollismi e tatcherismi, tra difesa a oltranza dello stato sociale e liberismo selvaggio. «Vero: non basta infatti – dice Carrino – dire ”condividiamo pienamente i valori dell’antifascismo”,
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rie demonologiche, saremo condannati a ripetere l’eterno ritorno delle polemiche strumentali. Il pensiero di Stenio Solinas, scrittore, inviato del Giornale, autore di Per farla finita con la destra (Ponte alle Grazie) è che se il Paese non ha il coraggio di mettersi di fronte al fascismo senza complessi non farà un solo passo avanti nel suo processo di maturazione storica. «Dal ‘94 in poi quello che era il Movimento sociale ha perso una battaglia culturale: invece di cercare di inserire il fascismo all’interno della storia d’Italia ha accettato che le regole del gioco fossero condotte da altri. Può darsi che non ci fossero le condizioni per fare altro – anche se nel Paese il collante dell’antifascismo si era definitivamente sciolto – ma sta di fatto che Fini ha barattato una logica di potere immediato con un serio processo di individuazione di An, un partito che si è mosso come un corpaccione acefalo, navigando a vista. Oggi federalista, domani nazionalista, tatcheriano, gollista:
L’antifascismo aveva una ragion d’essere con il fascismo. Oggi che senso ha? In realtà Fini è il liquidatore della destra italiana occorre declinare in positivo anche la propria identità. Io mi auguro che dietro questa accelerazione ci sia un progetto culturale e politico. Il lavoro delle fondazioni dovrebbe servire a questo». Solo che il fascismo è parte integrante della storia italiana e finchè non si affronterà in questa ottica, invece che con catego-
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revisionismi
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A destra, un’immagine di una delle manifestazioni di Alleanza nazionale. A sinistra, il presidente della Camera Gianfranco Fini. Dopo le sue dichiarazioni sull’antifascismo, liberal ha fatto un giro d’opinioni tra gli intellettuali del mondo della destra. Tra questi, nella pagina a fianco: Fabio Torriero e, sotto, Marcello Veneziani. Sotto: Alessandro Campi e Pietrangelo Buttafuoco
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Dopo le parole di Fini l’antifascismo diventa un’arma spuntata. E la responsabilità del fascismo non ricade più su una minoranza politica un’identità assolutamente sfuggente – conclude Solinas – all’interno di una parola destra che vuol dire tutto e niente. Un equivoco destinato a finire con la confluenza di An nel Pdl».
Eppure per qualcuno, come Gianni Scipione Rossi, vicedirettore dei servizi parlamentari della Rai, autore de La Destra e gli ebrei (Rubbettino) il repetita di Fini aiuta: «Evidentemente qualcuno non aveva capito il messaggio di Fiuggi e Fini ha fatto bene a ripeterlo. Peraltro ci sono due domande a cui tutti evitano di rispondere. La prima: che cosa sarebbe stata l’Italia sotto il nazismo? La seconda: perché si continua a sostenere il falso storico secondo cui Mussolini nel ’38 cedette alle pressioni di Hitler? Purtroppo la sua fu un’iniziativa autonoma e questo impedisce di utilizzare anche il simulacro di un Mussolini buono rispetto a un Mussolini cattivo». È più tattico-strategica la lettura di Fabio Torriero direttore de La Destra e editorialista del quotidiano Il Tempo: «Ci sono due strategie dentro An: la destra nelle istituzioni – quella di Fini, per intendersi, che ha chiarito ancora una volta che cosa deve essere una destra moderna e democratica – e la destra nel Pdl
che si traduce nella corsa a occupare lo spazio destro del nuovo partito, dove si scontrano Alemanno e La Russa utilizzando il richiamo della foresta. Il ragionamento sull’antifascismo di Fini è stato un necessario e ulteriore strappo comunicativo contro ogni tentazione di ritorno all’indietro». Ma allora se Fini vuole bruciarsi i ponti alle spalle, rompere definitivamente con il passato, con la tradizione missina della destra italiana: «Perché – domanda Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e inviato di Panorama – non riconsegna il simbolo del Movimento sociale italiano con la fiamma tricolore che ancora campeggia nel logo di An? Di che ha paura? Si liberasse di quell’appropriazione indebita, poi in sede storiografica ne riparliamo di fascismo e antifascismo». Sulle contraddizioni del presidente del Consiglio ragiona anche Gianfranco de Turris, saggista d’area conservatrice: «Fini ha percorso fino in fondo
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la sua parabola personale, niente da dire. Quello che però non si capisce è il motivo per cui ora, che praticamente non ha più incarichi in An, debba imporre le sue scelte al suo ex partito secondo la formula del diktat calato dall’alto che lo ha peraltro sempre contraddistinto. Tanto più che ora esiste il pericolo, grottesco, che il ricatto antifascista – che non trova nessuna presa nel senso comune della gente, che infatti ha votato senza problemi Alemanno e altri sindaci come lui – possa ritornare proprio dentro la destra». Ma quello che per De Turris ri-
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si «Il dirsi antifascisti in quanto antitotalitari è scontato. Non capisco chi si meraviglia delle parole di Fini. È una posizione talmente lineare la sua che chi lo contesta nel merito o ha una legittima posizione impolitica, oppure ha un retropensiero revanscista. Io credo che la maggior parte degli intellettuali di destra che contestano Fini sono degli impolitici».
Fascismo e antifascismo: simul stabunt simul cadunt invece secondo Marcello Veneziani: «L’antifascismo aveva una ragion d’essere con il fascismo. Oggi che motivo di esistere ha? Il fatto che Fini impugni anche questo strumento così logoro non stupisce: Fini è il maggiore liquidatore della destra italiana». Oggi sull’Espresso anche Giampaolo Pansa, antifascista di sicura fede e al tempo stesso revisionista convinto, interviene nel dibattito sulla sua rubrica Il bestiario: «Adesso Fini ordina ad An di fare suoi i valori dell’antifascismo. E lo dice ricordando solo tra parentesi che c’è un antifascismo comunista. Dunque è fatale che una parte di quel popolo respinga l’ordine di Fini. Anche perché comincia a essere sbeffeggiato dalle tante sinistre che gli gridano: avete visto? Anche il vostro leader ammette che avevamo ragione noi. La questione non riguarda me…ma centinaia di migliaia di italiani onesti che respingono l’antifascismo obbligatorio che Fini vuole imporgli».
Perchè Fini non rinuncia al simbolo del Msi con la fiamma tricolore che ancora campeggia nel logo di Alleanza nazionale? schia di essere grottesco deve considerarsi pacifico per Filippo Rossi. Giornalista, coautore con Luciano Lanna di Fascisti immaginari (Vallecchi editore) per Ros-
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letture
Torna tra gli scaffali per i tipi di Marsilio il libro con cui Massimo Fini, nel ’90, infilzò i falsi ”professionisti del controcorrente”
Riecco ”il conformista”...mai conformato di Mario Bernardi Guardi orna Il conformista di Massimo Fini (Marsilio, pp. 400, euro 9,90). E fa bene l’autore a riproporre i suoi pezzi dopo l’edizione mondadoriana del 1990. Fa bene perché questi distillati polemici sono tuttora attuali. Insomma, per ricorrere a una frase sin troppo abusata, il passato non passa. E non passa perché non cambiano gli italiani.
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Hai voglia a dire che Fini ha vergato le sue note tra il 1979 e il 1990 e che da allora sono successe un sacco di cose e di un bel po’ di personaggi ed eventi marchiati a fuoco quasi si è persa la memoria. Hai voglia a dire che oggi siamo nella Seconda (o Terza? Boh…) Repubblica e che non ci sono più i partiti vecchi, ma un bel po’di sigle e uomini nuovi che, postini del post-ideologico, annunciano il futuro. Hai voglia a dire che dobbiamo smetterla con il vizio-vezzo del piagnisteo, della critica (e autocritica) corrosiva, dei perenni malumori. Non si accorgono i maleducati malpensanti - dicono gli ottimisti - che, nonostante tutto, il Paese va avanti? Fiato sprecato. Infatti, c’è da scommetterci, Fini è pronto a risponderti che, proprio perché c’è quel benedetto (o maledetto) “tutto”, il Paese va un po’ avanti, un po’ indietro, un po’ a zig-zag e molto (chiediamo venia per il giocaccio di parole) “a quel paese”. Insomma, come sempre ci sono più politicanti che politici: e ci sono, nelle solite dosi massicce, i cialtroni, i gattopardi, i trasformisti, gli opportunisti, i voltagabbana, i Tartufi, i trinaricuti di tutti i colori, i figli di mamma e quelli di buona donna ecc. E talvolta si tratta delle stesse facce, variamente riciclate. Più che altro, poi, ci sono i falsi anticonformisti o, se si preferisce, i “professionisti dell’anticonformismo”. Quelli che Fini infilza con gioiosa ferocia. E per forza, lui è un “con-
A fianco, il giornalista e saggista italiano Massimo Fini. Sotto, la copertina della riedizione del suo famoso ”Il conformista” (Marsilio editore). In basso e in senso orario, Leo Longanesi, Ennio Flaiano e Indro Montanelli, cui Massimo Fini nel libro si richiama
Le pagine riedite rimangono straordinariamente attuali: nonostante le sigle e gli uomini nuovi che annunciano il futuro, il passato continua a non passare. E gli italiani continuano a non cambiare
formista”. Ovviamente, nell’accezione ribalda e ribelle di chi si sforza da una vita di essere coerente, scrivendo cose “conformi” al vero. Antipatiche magari come geniali “antipatici”- più moralizzatori che moralisti - sono i “maiores” cui Massimo si richiama: Flaiano, Savinio, Maccari, Longanesi, Malaparte e quel Montanelli che nella prefazione si fa un po’ profeta del destino di Fini, scrivendo: «Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non usano più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano».
Ed è fuor di dubbio che Fini, nemico di tutte le retoriche,“cattivista” per antonomasia, stia sull’anima a tanta gente. Ma
lui, bizzarro signore dei malumori, «volve sua spera e beato si gode» come la capricciosa e rompiscatole Fortuna di cui parla Dante nell’Inferno (canto VII, vv. 6796). Rivendicando il suo “conformismo”contro l’“anticonformismo di massa” e soprattutto contro quegli intellettuali sempre col nasino all’insù per fiutar l’aria dei tempi e indossar di conseguenza panni e pannolini appropriati, il massimalista Massimo se la sarà, sì, andata a cercare un sacco di volte, ma se non altro (dopo Dante, il Manzoni del Cinque Maggio: chiediamo venia al lettore) è «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio». Robaccia,
l’uno e l’altro. Ma questi veleni i professionisti dell’anticonformismo li poppano golosamente e poi gaudiosamente li sputacchiano qua e là per la felicità dell’anticonformismo di massa. Lo hanno sempre fatto: e ancor più volentieri lo hanno fatto quando, tutti insieme appassionatamente, hanno potuto gridare il loro “crucifige”contro la“vittima designata”, quella che doveva essere immolata allo spirito dei tempi. E di Sua Maestà, l’Ideologia alla moda. Un esempio su tutti? L’elenco degli ottocento intellettuali che, fierissimi nel loro anticonformismo rivoluzionario, a partire dal 13 giugno 1971, e per tre numeri consecutivi dell’Espresso, firmarono il Manifesto contro il commissario Luigi Calabresi. Già, il “torturatore”che la “giustizia proletaria”avrebbe fatto fuori il 17 maggio 1972. Bene, leggete il libro in cui Mario Calabresi con accorata, composta, dignitosa “pietas” rievoca la figura del padre (Spingendo la notte più in là, Mondadori, Premio Acqui Storia 2007 nella Sezione Divulgativa), ma rileggete anche quell’elenco perché è una immagine terribile e mostruosamente esemplare di quello a cui possono arrivare i “professionisti dell’anticonformismo”, gli eroi delle barricate di carta, gli alfieri di una “lotta di classe” gestita dal velleitarismo ideologico borghese, gli intellettuali vanesi e demagoghi vogliosi di piacere, i “democratici” forse troppo “giacobini”, forse troppo poco “liberali”.
Quel Manifesto stilato da paludatissime, seriosissime “furie anguicrinite”, raccoglie il Gotha dell’antifascismo e dell’anticonformismo “professionale”. Su Google troverete l’elenco completo dei valorosi guerriglieri (ancorché ottocento, si esibivano come i nuovi Mille, con tanto di camicia rossa, marchio garibaldino 1948); noi ci limitiamo a qualche nome: Agnoletti, Amendola, Antonicelli, Argan, Basaglia, Bellocchio, Bertolucci, Bevilacqua, Bobbio, Bocca, Colletti, Colombo, Eco, Einaudi, Fellini, Fortini, Guttuso, Hack, Maraini, Mieli, Moravia, Nono, Pajetta, Pasolini, Pontecorvo, Portoghesi, Raboni, Sapegno, Rossella, Samperi, Scalfari, Siciliano, Soldati, Spriano,Teodori, Zavattini. Per carità, lo sappiamo che per molti si trattò di un errore di gioventù o di immatura maturità; e c’è chi di quel delirio ha fatto pubblica ammenda, magari passando dal rosso fuoco all’azzurro cielo o ad altri delicati pastelli. Ma, siano ancora vivi e vegeti, o faccian parte della schiera dei “più”, tutti quei professionisti, di bandiera in bandiera, son restati protagonisti. Perché è a questo che gli anticonformisti con “imprimatur”tengono: esserci, sempre e comunque, nel santo nome del “giudica e manda”, da qui all’eternità.
televisione
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Negli Stati Uniti sta per iniziare la seconda stagione della serierivelazione che ha inchiodato alla tivù 10 milioni di spettatori a puntata. Dall’8 ottobre ”Pushing Daisies” (a fianco e sotto alcune immagini delle puntate andate in onda negli Usa) approda in Italia. E già promette uno share da capogiro. Il segreto? Per trovare la risposta bisogna tornare indietro di un anno. Bryan Fuller (produttore e sceneggiatore di punta) cerca di mettere insieme qualche idea giusta per una serie che faccia breccia nel cuore degli americani. E invece di scervellarsi alla ricerca di qualcosa di mai visto, punta tutto sulla tradizione
Houesperate sewives”, “Nip Tuck”, “Sex and the City”? Roba vecchia, sorpassata. Gli americani stanno letteralmente impazzendo per un’altra serie. 10 milioni di spettatori ad episodio, pagine e pagine dei maggiori magazine di spettacolo dedicate all’argomento, per un successo che sta assumendo i contorni di un vero e proprio fenomeno di costume.
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Il segreto di “Pushing Daisies”? Per trovare la risposta giusta bisogna tornare indietro di un anno. Bryan Fuller (produttore e sceneggiatore di punta in quel di Hollywood) cerca di mettere insieme qualche idea giusta per una serie che faccia breccia nel cuore degli americani. E invece di scervellarsi alla ricerca di qualcosa di mai visto, decide di puntare tutto sulla tradizione. Pensata geniale. Inutile spingere l’acceleratore sull’effetto choc, quando in fatto di erotismo e violenza si è ormai già visto di tutto. Presto fatto. E Fuller decide di raccontare la storia più vecchia del mondo: quella di due innamorati destinati a non coronare il loro sogno. Detta così, sembrerebbe davvero una faccenda vista mille altre volte. Le cose stanno un po’ diversamente. Già il titolo è un programma: “Pushing Daisies”. Significato: “essere morti”. Un modo carino (e abbastanza circonvoluto) per affrontare una questione delicata. Ok, ma che c’entra l’aldilà con l’amore tutto terreno? C’entra, anzi, si tratta della formula magica che ha incollato più di 13 milioni di americani all’episodio pilota della serie. Perché il pro-
tagonista, il ventinovenne Ned, non si limita ad amare la sua Charlotte (ribattezzata affettuosamente “Chuck”). Fa molto di più. La riporta in vita, sì insomma, la resuscita. Due parole di spiegazione: Ned non è (chiaramente…) come altri suoi coetanei. A otto anni si accorge di avere un dono straordinario e al tempo stesso terrificante: con il solo contatto della mano, è capace di ridare vita ai morti. Il suo battesimo di fuoco? Avviene quando il suo cane viene ucciso da un camion in corsa. Ned gli si avvicina, vuole toccarlo per l’ultima volta
Dall’8 ottobre in Italia la serie che ha fatto innamorare gli Usa
Il dolce e l’amaro di Pushing Daisies di Francesco Ruggeri
quando improvvisamente il cane si alza come niente e ricomincia a correre. Il piccolo Ned non crede ai suoi occhi. Rifà subito dopo una prova con una mosca. Schiacciata con una paletta, toccata da Ned e pronta a riprendere il fastidioso volo.
Non è tutto perché ogni potere ha due facce. Questa è la prima. La seconda è a dir poco drammatica. Ned la sperimenta con la madre che, intenta a preparargli una succulenta torta di mele, viene colta da un ictus che la uccide all’istante. Ned non si scompone più di tanto. E
Con un tocco ridà la vita ai morti. Ne basta un altro per farli tornare all’al di là. Storia di Chuck e Ned, condannati ad amarsi senza mai sfiorarsi con la sua bacchietta magica (il dito…) tocca la mamma che torna in piedi come niente. Il brutto arriva la sera. Coricatosi a letto, Ned viene raggiunto dalla madre che gli dà il bacio della buona notte. Al primo contatto,
la donna cade in terra. E torna ad essere quello che è: cadavere. Ma stavolta per sempre. E a Ned si spalanca l’abisso di un’altra verità: con un tocco riporta in vita, con un secondo tocco ridà la morte. Brutta storia. A pagarne le spese è la sua infanzia, segnata dalla perdita della figura materna. E’ solo l’inizio. Dopo questo preambolo, ci si sposta vent’anni più tardi. Nel frattempo il protagonista, oltre a lavorare come pasticcere in una tavola calda, sbarca il lunario aiutando un poliziotto di colore. Come? Interrogando all’obitorio i
cadaveri. Li riporta in vita per un minuto, chiede loro il nome di chi li ha uccisi e li tocca una seconda volta, riconsegnandoli al loro destino. Vita dura, anzi durissima per gli assassini. E l’amore? Va male. Perché il cuore del giovane continua ad essere colonizzato da Chuck, la bambina di cui si era innamorato da piccolo e che non ha mai più rivisto. Almeno fin quando non viene contattato dal poliziotto suo amico per un interrogatorio tutto speciale: quello del cadavere di Chuck, uccisa durante una crociera e buttata in mare. Ironia del destino: ritrovare la donna dei sogni quando ormai è troppo tardi. Ma non per Ned. Perché, una volta rivista la ragazza nella bara, non può fare a meno di toccarla. Ma una volta sola… Ecco a voi il cuore pulsante di “Pushing Daisies”, vale a dire l’amore fra un cadavere riportato in vita e un giovane impossibilitato ad amare. Fra i due non può esserci contatto, pena la morte (definitiva) di lei. Un amore scandito da lunghi sguardi appassionati. E nulla più. Nemmeno un innocente bacetto.
Due parole sulla serie dunque. Il regista dei primi episodi – compreso quello pilota - è Barry Sonnenfeld, non proprio l’ultimo arrivato. Nel suo curriculum ci sono successi come Men in Black e Get Shorty; insomma, uno che conosce il fatto suo e che sa infondere alla serie un delizioso tocco retrò. Colori sgargianti, toni da mèlo alla Sirk rivisitati con una leggerezza di fondo che si permette il lusso di palleggiare con straordinaria nonchalance fra vita e morte,
cadaveri e desideri appassionati.“Pushing Daisies”ci riporta indietro negli anni, iniettando nelle viscere dell’anticonformismo imperante una gran bella dose di romanticismo senza tempo e una carica deflagrante di valori vecchi come il mondo. Sotto la superficie fiabesca, si intrecciano le radici di un immaginario sofisticato e popolare, capace di parlare al cuore e di arrivare dritti all’anima. Negli Stati Uniti sta per partire la seconda stagione, in Italia invece dall’8 ottobre avra inizio la prima, composta da ben nove episodi.
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polemiche
Ecco la vera e documentata ricostruzione della congiura che il Maresciallo d’Italia, all’alba del 1942, voleva mettere in atto ai danni di Benito Mussolini
Il falso inedito di Badoglio di Mauro Canali omenica 31 agosto, la Repubblica pubblicava con grande evidenza un articolo di Attilio Bolzoni, dal titolo «La congiura di Badoglio. I piani per l’arresto del Duce e l’armistizio dell’8 settembre 1943 erano già pronti da oltre un anno ma Londra disse no. Repubblica ha trovato negli archivi inglesi le carte segrete». Il giornale romano annunciava il ritrovamento ai National Archives di Londra di «carte segrete», da cui si evinceva che le manovre di Badoglio per abbattere il regime fascista, e che ebbero la loro conclusione nel luglio 1943, non erano iniziate, come s’era creduto finora, nella primavera del 1943, ma un anno prima, cioè nella primavera del 1942, quando un emissario di Badoglio, identificato con Luigi Rusca, un alto dirigente della Mondadori, era riuscito a stabilire un contatto con John Mac Caffery, il capo della rete dei servizi segreti inglesi che dalla Svizzera operava in direzione dell’Italia.
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Dai contatti con l’emissario di Badoglio, che agiva con il nome di copertura di “Vulp”, aveva preso l’avvio l’operazione “Fanfare”, che avrebbe dovuto concludersi con l’arresto di Mussolini e la costituzione di un governo Badoglio, il quale, rigettata l’alleanza con Hitler e chiesto l’armistizio, avrebbe portato l’Italia a schierarsi a fianco degli Alleati. Bolzoni riproduceva il testo di alcuni telegrammi scambiati tra Londra e John Mac Caffery, il quale aveva stabilito con Rusca rapporti sia diretti e sia tramite un suo agente noto con il nome in codice “JQ”. Quindi la filiera che consentiva i contatti Badoglio-Londra era costituita da Rusca-JQ-Mac Caffery. Quale era il progetto che Badoglio avrebbe proposto a Londra, tramite Rusca-JQ-Mac Caffery? Il maresciallo si sarebbe impegnato a rovesciare Mussolini con un colpo di stato da condurre simultaneamente all’interno e dall’estero. Si trattava d’inviare in Cirenaica il generale Pesenti, uomo di fiducia
di Badoglio, che avrebbe dovuto insorgere contro il governo fascista alla testa di forze costituite da esuli antifascisti e soprattutto da soldati italiani prigionieri degli inglesi. Sull’onda del ‘pronunciamento’ libico di Pesenti, Badoglio avrebbe dovuto procedere all’arresto di Mussolini. Il progetto, coltivato dall’aprile 1942 al gennaio 1943, con scambi di telegrammi tra Berna e Londra non aveva convinto tuttavia il ministero degli Esteri inglese che, dopo aver scambiato al riguardo alcune note col governo americano, alla fine lo aveva lasciato cadere. Probabilmente a convincere gli inglesi erano stati gli sviluppi militari a loro favorevoli sul fronte nord-africano che lasciavano presagire una non lontana invasione dell’Italia. Bolzoni cita il fondo HS6 degli archivi inglesi, che è appunto il fondo dei servizi segreti, meglio conosciuti come SOE, Special Operations Executive. Nel presentare come inedito il dipanarsi della vicenda e la relativa documentazione, Bolzoni si cautela con alcune generiche
ce aveva già ricostruito molto dettagliatamente la cosiddetta congiura di Badoglio utilizzando proprio quella documentazione proveniente dagli archivi inglesi che viene presentata come sconosciuta agli storici.
Nel suo volume Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra. Crisi e agonia del regime, che vide la luce nel 1990, in quattro pagine dense di analisi (pp.1165-1168), De Felice spiega infatti in modo esauriente la genesi, lo svolgimento e la fine del tentativo condotto da Rusca per sondare il SOE sulla disponibilità degli alleati ad appoggiare eventuali tentativi di liberarsi di Mussolini per condurre il paese fuori dal-
”la Repubblica” ne aveva parlato alla fine dell’estate definendo «inedite» le carte degli archivi inglesi di cui era entrata in possesso. Sbagliato: De Felice le aveva già rivelate precisazioni, e cioè che «in passato tracce di quegli avvenimenti erano emerse da alcune ricerche di De Felice,Toscano e Parlato», ma che tuttavia ora, grazie a queste carte, si era in grado di ricostruire «giorno dopo giorno, ora dopo ora, di come sessantacinque anni fa si svolsero i negoziati».
Ora, si dà il caso che, diversamente da quanto sostenuto da Bolzoni, cioè che i documenti consentono una «ricostruzione inedita» della vicenda, De Feli-
la sciagurata guerra. E soprattutto spiega quali sono le fonti che gli hanno permesso di ricostruire la vicenda del tentativo di Rusca presso il SOE. Scrive infatti De Felice: «Da quanto Eden scrisse il 1° febbraio 1943 all’incaricato d’affari americano a Londra, dalle testimonianze rese negli anni sessanta da Bianca Ceva e da Mario Zino e soprattutto dai documenti del Soe e del War Cabinet inglese, sappiamo infatti che l’iniziativa prospettata in Svizzera agli inglesi già nell’agosto e più concretamente nella prima metà di novembre 1942 prevedeva l’invio in Cirenaica di un emissario di Badoglio (…) il generale Gustavo Pesenti, con l’incarico di discutere con il governo britannico un’azione coordinata dall’esterno e nell’interno dell’Italia mirante al rovesciamento del regime fascista». Per inciso, De Felice, molto prudentemente, alla luce di
quanto riportato dai documenti, non se la sente di attribuire con certezza il tentativo direttamente a Badoglio, ma precisa che di certo c’è solo «che l’iniziativa fu prospettata agli inglesi come ispirata da Badoglio».
Alla cosiddetta congiura De Felice dedica un’analisi stringente, riferendone in modo dettagliato i vari passaggi, non trascurando di dedicare all’emissario di Badoglio, Luigi Rusca, una lunga ed esauriente nota biografica (p.1166). Le fonti che De Felice cita, come abbiamo visto, sono soprattutto i documenti provenienti dagli archivi inglesi del SOE e del War Cabinet, quei documenti, appunto, che Bolzoni ritiene erroneamente non noti alla ricerca storica. De Felice aveva già scritto, qualche pagina prima, che i documenti riguardanti tutta la vicenda armistiziale italiana dall’agosto 1940 al settembre 1943 si trovano anche in Cab 101/144, allegati a una lunga e importantissima memoria dal titolo The Italian Armistice, compilata dal Foreign Office per uso interno. Anche di questa memoria il grande storico del fascismo si giovò per ricostruire la storia della cosiddetta
polemiche
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Nella pagina a fianco Pietro Badoglio. A sinistra, Il maresciallo italiano insieme a Renato Ricci al Foro Mussolini. Sopra, un’immagine di Badoglio e del maresciallo tedesco Von Keitel alle ”grandi manovre” congiura di Badoglio. Come s’è visto, De Felice accenna, tra le sue fonti, anche ad alcune interviste di Bianca Ceva e di Mario Zino, quest’ultimo uomo di fiducia di Caviglia. Bianca Ceva aveva fatto cenno alla congiura di Badoglio in un convegno sulla Resistenza tenuto a Roma il 23-24 ottobre 1964, mentre Zino, in una sua introduzione a un’opera di Caviglia, risalente al 1968, Guerra russogiapponese. Il segreto della pace, aveva raccontato con grande dovizia di particolari, molti aspetti della vicenda, di cui era stato protagonista diretto, citando anche lui l’attività di Luigi Rusca.
Come s’è detto, De Felice, pur utilizzando queste due fonti, era andato molto più avanti grazie appunto alla consultazione dei documenti del SOE e del War Cabinet negli archivi inglesi. E la sua dettagliatissima analisi risulta ben altra cosa delle «tracce di quegli avvenimenti» che, a dire di Bolzoni, sarebbero «emerse in passato da alcune ricerche di De Felice». L’evento fu dal grande storico del fascismo ampiamente esaminato e accuratamente contestualizzato, grazie proprio alle carte provenienti dai
fondi del SOE e del War Cabinet. Insomma, tutto noto e da molto tempo.
Tuttavia De Felice, i cui scrupoli archivistici erano notoriamente acuti, non si sottrasse ad alcuni riscontri nei fondi degli archivi fascisti. Riuscì così a integrare la documentazione inglese da lui consultata con altri documenti provenienti
italiano, indirizza a Guido Leto, capo della divisione polizia politica, con cui il SIM riferisce che, a partire dalla primavera del 1942, quindi dagli inizi della congiura Badoglio, era riuscito a infiltrare un proprio agente nella rete dell’Intelligence Service attiva su territorio svizzero, cioè la rete diretta da Mac Caffery, consentendo, riferiva sempre Bertacchi a Le-
nel novembre e dicembre 1942, delle quali una è diretta ad un fiduciario del SIM inserito nella rete nemica, e l’altra è destinata – tramite lo stesso fiduciario – al dottor Rusca». Due lettere dunque affidate da Mac Caffery da lui creduto un suo agente, che puntualmente erano finite nelle mani del SIM. Per il nostro controspionaggio il contenuto delle lettere rivelava «chiaramente che il nemico è già da tempo in contatto con il Rusca», e che Mac Caffery mostrava di avere «assoluta fiducia nella fedeltà del Rusca verso l’I.S.». In effetti, osservava Bertacchi, il capo dell’Intelligence Service non aveva esitato a mettere Rusca «in contatto – cosa mai avvenuta per altre persone – con il fiduciario – che è il creduto capo della sua organizzazione in Italia ed al quale attribuisce un eccezionale valore». In definitiva la corrispondenza e i contatti tra i congiurati e Londra erano sotto il
Della cospirazione, lo storico italiano tratta ampliamente nel volume ”Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra. Crisi e agonia del regime”. Basandosi sulle fonti che il quotidiano ha erroneamente ritenuto non noti alla ricerca storica dall’Archivio centrale dello Stato. Egli cita tre fascicoli intestati a Luigi Rusca presenti nel Casellario politico centrale, nella polizia politica, e negli ‘Internati ariani’, che permettono di aggiungere alla vicenda alcuni dettagli sconcertanti, consentendo una lettura in parte diversa da quella a cui si è indotti se ci si basa solo sui documenti inglesi. Si tratta di alcune note provenienti dal SIM, i servizi segreti militari italiani, e dirette alla polizia politica. Vi è soprattutto un pro-memoria con data 27 marzo 1943, che Mario Bertacchi, responsabile del controspionaggio militare
to, «di neutralizzare lo spionaggio ed il sabotaggio britannico operanti dalla Svizzera contro l’Italia».
Fu grazie a questo infiltrato che il SIM aveva potuto accertare che «il dottor Luigi Rusca, condirettore generale della casa editrice Mondadori, tenente colonnello in congedo, noto antifascista, è in contatto con elementi dirigenti dell’Intelligence Service, a scopo spionistico». A prova di ciò, il SIM allegava alla relazione diretta a Leto stralci di lettere intercettate grazie all’infiltrato, «scritte dal capo dell’I.S. operante in Svizzera
controllo del SIM, che poteva seguire attentamente lo svolgersi della vicenda, e probabilmente anche indirizzarla. Con molta probabilità quel fiduciario del SIM infiltrato nel SOE era proprio quel JQ citato dai documenti inglesi usati da Repubblica, e che aveva acquistato la fiducia dei servizi segreti inglesi fino a convincerli di aver messo in piedi quella che le note del SIM definiscono una «pseudo-organizzazione avversaria di sabotaggio in Italia». Anzi di più, a JQ era stata affidata la direzione di questa organizzazione fantasma. Il mancato riscontro negli archivi fa-
scisti ha quindi indotto il giornale romano a prendere sul serio una vicenda che rimase, per gran parte della sua durata, sotto il controllo dei servizi segreti italiani, che al momento opportuno intervennero a scompaginare l’esile trama dei congiurati.
Il fascicolo della polizia politica consente infatti di seguire le fasi finali della vicenda. Il SIM, con la lettera a Leto, chiedeva che Rusca, definito «individuo particolarmente pericoloso per capacità, intelligenza e preparazione professionale», fosse «subito fermato dagli organi di Ps e confinato in adatta località». Il SIM raccomandava a Leto che la conoscenza dei veri termini della questione fosse mantenuta «nell’ambito della più stretta riservatezza personale», e di «non dare notizia del motivo del provvedimento – se non quello di generica attività antifascista», affinché «giammai possa affiorare l’intervento del SIM in questo affare». Bertacchi spiegava a Leto che il SIM non poteva procedere direttamente all’arresto, poiché in tal modo avrebbe bruciato «la sua fonte che è di assoluto interesse mantenere in efficienza». In sostanza il SIM non voleva far correre inutili rischi a JQ, il suo infiltrato nell’Intelligence Service. In effetti, il 2 aprile 1943, il capo della polizia ordinava l’internamento di Rusca ad Avigliana con la motivazione assai generica che questi era ritenuto «antifascista mormoratore». Rusca rimase internato fino ai primi di agosto del 1943. Venne liberato da Badoglio subito dopo la caduta di Mussolini. Nell’immediato dopoguerra veniva nominato commissario straordinario della nuova Rai nata dalla fascista Eiar.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Multe a clienti e prostitute. È giusto? UNA MOSSA SBAGLIATA L’esultanza di molti fa presagire una diffusa presa di posizione molto simile ai sostenitori del Not in my Boneyard. Il tentativo di debellare la prostituzione dalla strade ha una radice troppo piccolo borghese e cosmetica. È la prevalenza della linea dello scandalo che deve essere sottratto alla vista, della logica per cui qualcosa che non è sotto gli occhi cessa di esistere, e pazienza se nei sotterranei dell’esistenza e nel nascondimento il fenomeno che disturba impera. Sbalzare via dalle strade le lucciole, è cosa maldestra e goffa, se davvero l’intenzione è liberare dalla schiavitù le donne succubi. Ne conseguirà che chi esercita la prostituzione continuerà a farlo ma in luoghi privati e ancora più inaccessibili, e lontano dalla vigilanza dei cittadini e delle forze dell’ordine. La strada infatti garantiva paradossalmente alle prostitute una dimensione pubblica che poteva in qualche caso salvarle la vita in caso di zuffe e atti di violenza da parte di clienti e protettori. Adesso invece, nel chiuso di chissà quali locali difficili da localizzare, saranno del tutto sottomesse alle prepotenze dei loro padroni, e lontane anche dai soccorsi che le associazioni cristiane hanno spesso presta-
LA DOMANDA DI DOMANI
Semafori truccati per fare più multe. Che cosa ne pensate?
to nei loro confronti nel tentativo di strapparle alla morsa dei loro padroni. A questo punto lo Stato abbia il coraggio di riaprire le case chiuse, e di farsi di conseguenza imprenditore pubblico della prostituzione. Qualcosa di molto sgradevole, ma di necessario, se ciò che turba le ansie dei politici è la schiavitù di queste donne.
Rosario Incarbona Catania
NON SI ARRIVI A CERTI ECCESSI La persecuzione dei clienti che vanno a donne per strada, e delle donne di strada che adescano clienti si presta a risvolti tragicomici. Innanzitutto come fare a stabilire che qualunque contatto con le operatrici del sesso è punibile, e soprattutto come dimostrare che la macchina ferma davanti a loro si sia fermata per ragioni di svago, e non, ammettiamo, perché è stata richiesta un’indicazione, una sigaretta, un’informazione, o si è semplicemente conversato. Deve essere quindi fatto divieto di scambiare anche qualche parola? Questo è in realtà eccessivo, semmai va bene perseguire se si coglie il soggetto in fragranza di reato. In secondo luogo, come fare a stabilire quanti centimetri di gonna mancanti sulla scala del pudore, o quali tipi di abiti e mise o parrucche o jeans, rappresentano inequivocabili segnali di adescamento e strumenti professionali riconducibili alla prostituzione. Non sono mancati infatti episodi ridicoli, come quello di una giovane turista in abiti molto attillati, scambiate per una prostituta mentre aspettava un autobus notturno. Ad ogni modo, mi sembra poi inaccettabile il ricatto per cui o la multa si salda immantinente, soldi alla mano, oppure si riceve la comunicazione del reato a domicilio. Una violazione della privacy inaccettabile, che punisce due volte. Per questo ritengo che debba essere punibile solo la fragranza di reato, e non l’ipotesi preventiva non supportata da prove. L?intento del decreto è buono, la sua applicazione tragica
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
IL SESTO SENSO Si può vivere senza TV, radio, computer, iPhone, cellulare? Certamente. Sono infatti tutte cose di cui l’uomo dispone già per sua natura. Molte delle tecnologie quotidiane non sono altro che l’estensione dei cinque sensi: l’olfatto, la vista, il gusto, l’udito e il tatto. Basti pensare al telefono: in fin dei conti non è altro che il prolungamento dell’udito, così come ogni immagine multimediale è il prolungamento della vista. Il grande successo dell’iPhone sta probabilmente nel fatto che concentra in un unico apparecchio di altissima tecnologia più estensioni di sensi. Il grande filosofo scozzese Hume metteva però in guardia dal pericolo che invece di governare i sensi, l’uomo possa esserne governato, perdendo, senza rendersi conto, la libertà e la capacità di distinguere il bene dal male. Le cose si complicano ulteriormente se i sensi non sono solo cinque. Se fosse così, saremmo privati della nostra coscienza ancora più facilmente dato che non ci si renderebbe nemme-
Gianni Raimondi Venezia
IMPRESSIONE A PELLE Alcuni modelli posano dopo essere stati completamente dipinti dagli studenti, durante il Festival internazionale della Body Art tenutosi di recente a Caracas
BENE IL GIRO DI VITE SULLA PROSTITUZIONE Mònos cioè unico: unica madre e unico padre. Tutto il resto è crisi, disordine, che i figli pagano innocenti. Prendendosi cura del matrimonio è giusto ignorare le sterili sirene dei Dico/Pacs/Didòré e introdurre il reato di prostituzione in luogo pubblico o anche aperto al pubblico. Soltanto così sarà inferto un duro colpo sia ai mercanti sia ai consumatori di schiave. Come non riconoscere nella piaga della prostituzione quella radicale mercificazione dei corpi che rende possibile ogni discriminazione della donna e minando l’istituzione famigliare, legittima culturalmente adulterio, delitto d’onore, aborto e infanticidio? Fuori controllo o legalizzata minaccia la stabilità e il futuro di ogni Stato, che non pun-
dai circoli liberal
no conto del canale attraverso il quale questo avviene. Purtroppo molto probabilmente è proprio così. I sensi sono più di cinque, ma abbiamo difficoltà a individuarli:il sesto senso, l’intuito, forse anche la fede: non è anch’essa un modo per percepire un’entità? L’alternativa alla sconfortante constatazione dell’impossibilità di percepire la realtà vera e dell’asservimento ai sensi e quindi ai condizionamenti esterni è quella di governare i sensi stessi per non esserne governato. Ma la questione implica anche una convinzione di fondo che è diventata una caratteristica della civiltà occidentale: l’impossibilità di addivenire a verità assolute e definitiva compresa l’esistenza di Dio. Lo Scetticismo. Attenzione però. Gran parte dei filosofi di questi ultimi due secoli sono stati pervasi dal Scetticismo fino all’atteggiamento più radicale e degenerante di negazione dell’esistenza di qualsiasi verità ovvero il nichilismo. In realtà però il nichilismo, anche se viene accomunato allo scetticismo, né è la negazione. Afferma-
tando più a debellarla, nemmeno riesca a ridurla ai minimi e privati termini, nel contesto di un generale rifiuto di essa. Auspico che ogni parlamentare, magistrato, poliziotto, carabiniere e operatore sociale di strada dia il suo apporto per sostenere, migliorare e applicare, nell’ estenderne concretamente la portata, questa ottima prossima legge Carfagna-Alfano che almeno una quarantina di milioni di italiani approva. Quando si intende prendersi cura anche del patrimonio famigliare? Quoziente famigliare e bonus bebè sono impegni programmatici che non devono essere contrattati nè con sindacati nè con alcun’altra corporazione perchè sono coessenziali alla ripresa.
Matteo Maria Martinoli Milano
re la verità dell’inesistenza della verità significa appunto non avere più il giudizio sospeso, il dubbio, ma essere nel dogma. Come l’ateismo: come si può essere così sicuri che Dio non esiste? Lo Scetticismo vero ed originario invece conduce alla tolleranza ed al sano confronto:è una metodo che lascia nella faticosa incertezza il che, a dimostrazione che è tutt’altro che nichilismo, è di per sé una realtà inconfutabile e quindi la negazione implicita che tutto può essere “nulla”. Il significato etimologico di Scetticismo infatti è quello di “guardare intorno scrutando” e non quello di “guardare intorno negando”. Alla fede, alla Religione invece le certezze rivelate. Alla ricerca di un’area di confronto e di linguaggio comune nel reciproco controllo tra ragione e fede, il futuro. Insomma, come affermava Ratzinger prima di diventare Papa, nella “disponibilità (reciproca) ad apprendere”. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Voglio saperti al riparo da ogni male Mia carissima Julca, ricordi una delle tue ultime lettere? Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fortemente questo: io sono sicuro che sarai forte e coraggiosa, come sempre sei stata. Dovrai esserlo ancora di più che nel passato, perché i bambini crescano bene e siano in tutto degni di te. Mi preoccupa un po’ la questione materiale: potrà il tuo lavoro bastare a tutto? Penso che non sarebbe né meno degno di noi né troppo, domandare un po’ di aiuti. Vorrei convincerti di ciò, perché tu mi dia retta e ti rivolga ai miei amici. Sarei più tranquillo sapendoti al riparo da ogni brutta evenienza. Le mie responsabilità di genitore serio mi tormentano ancora. Abbraccia tutti di casa tua; ti stringo insieme coi bambini. Antonio Gramsci alla moglie dal carcere di Regina Coeli
PROPOSTA DI SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA Non sono avvocato, per cui, non conosco i termini tecnici appropriati. Chiedo di proporre l’applicazione della “sospensione condizionale della pena”anche a coloro che hanno subito una condanna superiore ai due anni e che, essendo in carcere o sottoposti ad altre misure restrittive della libertà, avendo scontato una parte di pena ed essendo scesi sotto i due anni (pena residua), avendone i requisiti previsti dalla legge (artt. 163-168 del codice penale), possono tornare in libertà. Faccio presente il mio caso: ho subito una condanna a due anni e due mesi; se la mia condanna fosse stata di due anni avrei potuto usufruire della sospensione condizionale della pena (ho i requisiti di legge) e non andare in carcere, invece, a causa dei due mesi inflitti oltre il massimo previsto (due anni), sono stato privato della libertà e ho scontato sei mesi di carcere (dunque sono sceso abbondantemente sotto i due anni). Serve “un atto di giustizia”, che applicato a tutti coloro che si trovano nelle mie stesse condizioni e che hanno già subito l’umiliazione del carcere, avendone i requisiti, possono usufruire di questo beneficio.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
19 settembre 1942 - La Sesta armata della Wehrmacht, al comando del generale tedesco Paulus, raggiunge il centro della città di Stalingrado: ha inizio la Battaglia di Stalingrado 1944 - Firma dell’armistizio tra Finlandia e Unione Sovietica. (Fine della Guerra di continuazione) 1952 - Gli USA vietano a Charlie Chaplin il rientro in patria dopo un viaggio in Inghilterra 1955 - Juan Domingo Perón viene deposto in Argentina 1957 - Primo test sotterraneo statunitense di una bomba nucleare 1973 - Re Carlo XVI Gustavo accede al trono di Svezia 1983 - Saint Kitts e Nevis ottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1994 - Viene pubblicata la dimostrazione dell’Ultimo teorema di Fermat ad opera di Andrew Wiles 1995 - Il Washington Post pubblica il manifesto di Unabomber
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
Questa misura darebbe una speranza a tutti coloro che hanno una pena da scontare inferiore ai due anni e, giustamente o ingiustamente sono detenuti, alle loro famiglie e darebbe sicuramente una boccata d’ossigeno alle carceri sovraffollate (nel carcere dov’ero io eravano tre per stanza in un letto a castello e in una cella di pochi metri quadrati in condizioni disumane). Chiedo, infine, che la sospensione condizionale della pena venga applicata indistintamente per tutti i reati, l’importante è il rispetto dei requisiti per evitare che elementi realmente pericolosi possano uscire dal carcere; a tal proposito, ad esempio, può essere utile la relazione degli educatori del carcere. Sarebbe un sollievo per tanta gente che soffre in carcere, per i loro familiari spesso costretti ad una vita di stenti e con la concreta possibilità per molti di tornare al lavoro (ovviamente con indubbi vantaggi per la società) e, infine, un risparmio non indifferente per le casse dello Stato. Nel sistema giudiziario, prima di parlare di certezza della pena, bisogna parlare di “certezza del reato”, introducendo il sistema anglosassone che si basa su prove certe per condannare una persona e non su prove indiziarie costruite, spesso, sul nulla e dal niente.
Indirizzo mail
PUNTURE “Dalla crisi economica”, dice Tremonti, “si esce con più pubblico”. Pagante.
Giancristiano Desiderio
“
La mediocrità non ha consolazione più grande del pensiero che il genio non è immortale WOLFGANG GOETHE
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
SEGUE DALLA PRIMA
Guerra delle preferenze: è in gioco la democrazia di Francesco D’Onofrio Con questa iniziativa, l’Udc non si orienta pertanto ad esercitare una pura e semplice opposizione parlamentare costruttiva e di rimessa rispetto alle proposte formulate dal governo ed eseguite dalla sua maggioranza parlamentare, perché è di tutta evidenza che è l’idea stessa di democrazia, quella posta a fondamento dell’iniziativa popolare dell’Udc, concernente l’introduzione del voto di preferenza per la elezione di deputati e senatori nazionali e conseguentemente vissuta quale fondamento irrinunciabile anche per la legge elettorale europea. Nella storia politica europea degli ultimi due secoli, caratterizzati dall’affermazione dell’esperimento democratico rispetto ad altri esperimenti di governo vissuti nel corso dei medesimi, la distinzione di fondo è sempre consistita proprio nel programma che distingue i diversi partiti politici proprio a partire dall’idea di democrazia per passare solo successivamente - e coerentemente - all’organizzazione dello Stato (centralista o federalista); del governo (separazione o confusione dei poteri); della giustizia (ordine indipendente anche dal potere politico o potere sovrano anche rispetto al Parlamento). Nel momento stesso in cui l’Udc si pone come promotore della costruzione di un soggetto politico - che aspira anche al governo - fondato su un programma essenziale, è pertanto decisivo il costatare che è proprio su questa idea di democrazia che si fonda contemporaneamente l’appello a quanti la condividono e la sfida a quanti la avversano.
Altro che teoria dei due forni! Come sembrano ancora oggi sostenere quanti stanno cercando di trasformare i cartelli elettorali in veri e propri partiti politici. Il programma non è necessariamente solo quello di governo, perché esso va oltre l’immediato risultato elettorale. Non sorprende che in campagna elettorale si sia fatto molto ricorso all’affermazione del cosiddetto voto utile perché era chiaro, anche se non condivisibile, l’intento di non far prevalere una eventuale e rigorosa esigenza di identità governativa rispetto alla esigenza – tipica dei cartelli elettorali soprattutto in presenza dell’istituto del premio di maggioranza – di conseguire la vittoria per governare l’Italia. Questa differenza di fondo tra cartelli elettorali e partiti di programma è la differenza che purtroppo l’Italia non ha potuto vivere dal 1994 in poi, a causa del venir meno di tutti i partiti della cosiddetta Prima Repubblica, caratterizzati – essi si – proprio dall’essere partiti di programma. Quanto alla ripetuta affermazione che la posizione politica dell’Udc è quella di oscillare tra due soggetti che pretendono di essere “forni”, è opportuno, pertanto, che si prenda finalmente coscienza del fatto, che le differenze e le convergenze si realizzano non già sulla convenienza, tipica dei cartelli elettorali, ma sulla convinzione, propria dei partiti di programma, di partecipare ad un progetto politico complessivo, cha fa appunto del programma il punto di forza della propria proposta politica.
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PAGINAVENTIQUATTRO Reportage. A San Giuliano di Puglia, a sei anni dal terremoto, torna la scuola
La storia difficile di un paese e della sua lenta RINASCITA di Susanna Turco
SAN GIULIANO
DI
PUGLIA (CAMPOBASSO).
Alle 15 e 30, mezz’ora dopo che anche l’ultima autoblu è filata via, la fontana al centro del paese, ventisette cannelle in fila a ricordare nel numero - i bimbi morti schiacciati dalla sopraelevazione della loro scuola, smette di buttare acqua. Spenta. E transennata, di reti arancioni. «Non l’hanno ancora finita», spiega chi passa nel deserto ossuto di gru, case in costruzione e polvere. Certo, l’acqua zampillante era per la parata. Per l’inaugurazione con premier e ministra dell’Istruzione.
Per la nuova scuola “Francesco Jovine” che da ieri si chiama “Angeli di San Giuliano”, ha 99 studenti alla faccia dello standard (minimo 100) fissato dalla riforma Gelmini (che sul tema non ha preferito verbo) e una classe vuota, quella dei nati nel 1996 che non ci sono più. Silvio Berlusconi ha scoperto la roccia su cui è incisa la nuova intestazione. «La lapide», la chiamano. Ma qui, nel paese che, dicono i discorsi ufficiali, «con la sua tragedia ha commosso tutto il mondo», c’è poco da inaugurare. Davvero. Bisogna farlo, certo, bisogna festeggiare, ti spiegano. «Per me è una giornata triste. La vita continua, va bene. Ma non fa niente, i bambini non ci sono più», sussurra una nonna vestita di nero, mentre si tira per mano il nipote superstite e si porta sul petto l’altro, minuscola foto ovale in una medaglietta. Il dolore che ti fa dire cose banali ma resta violento, negli anni. I genitori, loro, hanno imparato col tempo a gestirlo almeno un po’, a incanalarlo tra rabbia e liti in qualcosa che possa avere un senso anche domani, anche per qualcun altro. Così, la prima cosa di cui parlano, al Comitato vittime, è la battaglia per la sicurezza nelle scuole. «Abbiamo presentato una proposta di legge, speriamo che il governo prenda l’impegno di portarla avanti”, dice asciutto Ciro, occhialoni scuri e una maglietta nera con la foto dei suoi gemelli, che oggi avrebbero 16 anni “e invece non li abbiamo più rivisti, se non col cranio
schiacciato». Ma se ci fossero solo i morti sarebbe facile. Terribile, ma facile. Invece qui, nella San Giuliano di Puglia ferma a sei anni fa nonostante i cantieri, tra gli scolaretti che cantano col presidente del Consiglio strofe come «quanti bambini salutano la mamma e il papà, poi chissà che avverrà, lalalà lalalà», c’è anche l’assurdo. L’assurdo dilaniante effetto che i figli del 1996, più il terremoto, più i soldi, più la ricostruzione, più una sentenza di primo grado che assolve «perché il fatto non sussiste» i presunti colpevoli del crollo della scuola, hanno
euro, a Berlusconi ne hanno chiesti 250 milioni per tre anni, ma lui gli ha detto di no. Non ci sono soldi. San Giuliano è un’altra storia. «Finora quello che vede è costato trecento milioni di euro, qui ci hanno mangiato tutti», dice Antonio Morelli, presidente dell’associazione delle vittime. Per ricostruire, certo, anche. «Lo stato avanzatissimo dei lavori, sotto gli occhi di tutti, un modello anche a paragone con gli altri terremoti», scandisce nel suo discorso ufficiale il sindaco Luigi Barbieri. Poi certo, per ora i più stanno ancora nelle casette di legno, «di assi» le chiamano qui. Però tra poco, dicono, faranno persino una bella piscina, vicino alla scuola e alla sede distaccata dell’Università.
Nel piccolo centro molisano è stato costruito un istituto nuovo di zecca proprio nel luogo in cui, prima del sisma dell’ottobre del 2002, sorgeva la scuola nella quale morirono 27 bambini. Adesso li ricorderà un’aula vuota e senza nome prodotto su un paese che fino al 31 ottobre 2002 era un niente, uno dei tanti piccoli centri da mille anime sperduti del Molise, troppo poveri persino per interessare la malavita o la speculazione edilizia. Un paese che da allora è stato investito da finanziamenti a pioggia, a valanga. E non bastano mai: gli altri 13 paesi terremotati hanno calcolato che per ricostruire tutto ci vorrebbero 3 miliardi e 200 milioni di
Tra gli isolatori sismici
e gli impianti fotovoltaici. Poi chissà, spiega il presidente della Regione Michele Iorio mentre chiama Berlusconi «caro Silvio», quante belle cose si potranno fare per ospitare bambini e studenti, quando le casette di assi torneranno ad essere vuote. «Otto milioni di euro ci hanno speso per questa scuola, ci bastava la metà dello spazio», dice Morelli, mentre si aggira tra i due blocchi asimmetrici in cemento arancione e rosso, stile centro commerciale. «La vera anomalia è che si sono spesi milioni di euro senza necessità», aggiunge. Accanto c’è un’altra fontana: puttini panciuti di ceramica e, in cima, trombe sinuose in vetro colorato. «Dicono che gli angeli sono ventisette, non li ho ancora contati, ma è bellissima, la cosa che mi piace di più», dice Massimiliano, che ha 20 anni e uno sguardo spensierato, o almeno così pare.