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La Commissione Amato era solo un’operazione di facciata

di e h c a n cro

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80923

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Ma il sindaco Alemanno ha un progetto per Roma?

di Ferdinando Adornato

di Renzo Foa e non fosse per il «no» al progetto di parcheggio sotterraneo destinato a cancellare l’armonia dell’assetto che Valadier diede al Pincio e per le polemiche sul XX settembre, sarebbe un’impresa impossibile distinguere, a Roma, l’amministrazione Alemanno da quella precedente di centrosinistra. Vero che c’è stata la cancellazione delle «notti bianche» che con la mostra del cinema erano state il tratto distintivo dell’era veltroniana.

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se gu e a p ag in a 2 3

I controlli per la sicurezza non bastano, rapite e rilasciate 19 persone

CRACK DELLE BORSE E TERRORISMO

L’America reggerà? La crisi finanziaria mette in forse la sua leadership rispetto alle nuove potenze economiche del pianeta. L’attentato a Islamabad rischia di rompere il fronte geopolitico della lotta a al-Qaeda...

di Enrico Singer

La testimonianza dello scrittore iracheno

Il fallimento di Alitalia (in ordine sparso)

Così a Bagdad hanno ucciso mio fratello

di Franco Insardà

di Younis Tawfik

di Francesco Rositano

Per Alitalia ormai è caos totale. Il Commissario Fantozzi reclama acquirenti, gli steward attaccano i piloti e nella Cai qualcuno comincia a sfilarsi. Per esempio, Benetton...

In Iraq, nel nome di una oscura «resistenza», si sta consumando un massacro di uomini liberi che puntano alla rinascita del loro paese. Lo scrittore iracheno racconta la sua terribile esperienza.

Importante apertura del cardinale Angelo Bagnasco all’assemblea della Cei: «Confini etici precisi per una legge condivisa, poi il medico dovrà decidere in base alla scienza e alla sua coscienza».

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MARTEDÌ 23

SETTEMBRE

2008 • EURO 1,00 (10,00

Un discorso del cardinale Bagnasco alla Cei

La chiesa apre a una legge sul testamento biologico

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pagina 6 CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

181 •

WWW.LIBERAL.IT

apiti e liberati in 48 ore. Un sequestro-lampo, per fortuna, quello dei cinque italiani. Ma la felice conclusione di una vicenda che le autorità del Cairo già cercano di archiviare come la brutta avventura di un gruppo di turisti-fai-da-te, nasconde una realtà assai più complessa. In Egitto è in corso una vera e propria guerra che ha come obiettivo la distruzione della principale fonte di sussistenza della malconcia economia del Paese: il turismo. È una guerra che si serve di tutte le armi possibili: dalle azioni dei predoni del deserto agli attentati più micidiali, come quelli che hanno insanguinato Taba, Sharm el Sheik e Dahab. Con una strategia precisa: far saltare il regime moderato del presidente Hosni Mubarak. E con un mandante altrettanto preciso: il fondamentalismo islamico.

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alle pagine 2, 3, 4 e 5 Nuovi dissidi anche nella Cai

Il sequestro-lampo è una lezione per l’Egitto di Mubarak

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 23 settembre 2008

«Non si possono cambiare in corsa le regole del gioco. Lo pagheremo duramente nei prossimi decenni»

Non è la crisi del ‘29, eppure... L’ex consigliere di Bush: «Tutti gli errori dei nostri mercati finanziari» di Lawrence B. Lindsey li amici (e i clienti) da qualche settimana non fanno che ripetermi la stessa domanda. Siamo tornati ai tempi del 1929? Stiamo davvero dirigendoci verso una nuova depressione? Prima di tutto partiamo da un dato di fatto piuttosto rassicurante: anche se fossimo alle soglie di una depressione, dobbiamo dimenticarci le fotografie degli anni Trenta che troviamo nei libri di storia, con la gente in fila per un piatto di minestra. Nel 1929, gli americani avevano il reddito pro-capite di chi vive attualmente nei Balcani. Oggi è cinque volte superiore. Anche in caso di depressione economica, dunque, ci potremmo trovare di fronte ad una massiccia crescita della domanda di assistenza pubblica o a un aumento delle richieste di affitto, ma sicuramente non alle terribili privazioni degli anni Trenta. Abbiamo imparato da quello che è accaduto allora, come abbiamo imparato dall’esperienza giapponese degli anni Novanta. E probabilmente non ripeteremo gli stessi errori. Anche se commetteremo altri errori (come, del resto, abbiamo già fatto), visto che - malgrado le diverse condizioni generali - non sono cambiate le motivazioni umane fondamentali che scatenano la paura, l’avarizia e l’ignoranza.

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Molti lettori, credo, conoscono il gioco da tavolo“Monopoli”. Ma probabilmente molto pochi ci giocano con le sue regole originali. Il più frequente cambiamento delle regole adoperato oggi è quello di costringere la “banca”a restituire ai giocatori il prezzo totale delle case una volta che questi vogliono liquidarle. Nelle regole originali, la “banca” paga solo la metà del prezzo. E questo cambia totalmente il gioco. Lo sviluppo delle proprietà diventa molto più rischioso. Il ritmo delle “attività economiche” diventa più lento e più alta la possibilità di perdere denaro. Tornare alle regole originali è come passare da un “Monopoli dell’inflazione” a un “Monopoli della depressione”. Me ne sono accorto quando ho tentato di spiegare la crisi in corso a mio figlio sedicenne, con il quale ho giocato innumerevoli volte al

“Monopoli dell’inflazione”. Ed è esattamente questo che sta accadendo: l’economia americana ha appena scelto di passare dalle regole dell’inflazione a quelle delle depressione, nel bel mezzo della partita. Per almeno 15 anni, i prezzi delle case sono cresciuti in quasi ogni parte del Paese. La disponibilità di denaro era ampia. Grandi ricchezze venivano accumulate comprando la maggior quantità di terra possibile e costruendo su di essa. I rischi erano ridotti al minimo. Davanti a imprevisti, ottenevi indietro almeno quello che avevi pagato per la casa, ripagavi la banca e, nel peggiore dei casi, te ne andavi con un piccolo profitto in tasca. Si trattava di uno schema così diffuso che un numero record di famiglie americane ha comprato una seconda casa. E le nostre istituzioni finanziare si sono evolute per venire incontro alle nuove regole: nel 2006 la percentuale media di anticipo per l’acquisto della prima casa era appena del 3 per cento; la necessità di dimostrare il percepimento di un reddito era diventata un “optional”, proprio come la storia personale della propria capacità di ripagare un debito. Il vero motivo per cui le nostre istituzioni finanziarie sono in crisi è che stanno rientrando in possesso di case sui cui hanno erogato mutui per 90 centesimi ogni dollaro, ma che i proprieta-

Nella pagina a fianco, il responsabile del Tesoro statunitense, Henry Paulson. Secondo l’ex consigliere per la politica economica di Bush, cambiare le regole del mercato finanziario in corsa è un errore

McCain, a differenza di Obama, sembra almeno aver compreso il legame che esiste tra il “free trade” e i problemi della sicurezza ri possono rivendere soltanto a 75-80 centesimi. Così, anche se le banche tornano in possesso della casa, perdono denaro e non hanno riserve di liquidità sufficienti per contenere le perdite. Il problema, poi, diventa ancora più complesso per l’abitudine che hanno le istituzioni finanziarie di prestarsi denaro a vicenda. Così, quando un’istituzione va in difficoltà scatena una “crisi a reazione” che spesso entra in una spirale negativa. In genere, le autorità rispondono a questa crisi cercando di organizzare l’acquisto, da parte di istituzioni relativamente in buona salute, di

quelle sull’orlo della bancarotta. Ma la lista dei potenziali acquirenti si assottiglia ogni giorno di più e la quantità di capitale dell’intera industria dei servizi è già fin troppo utilizzata. In assenza di iniezioni di liquidità dall’esterno del sistema, alcune istituzioni sono destinate a non trovare compratori e a fallire, come è accaduto nel caso di Lehman Brothers. E quando uno di questi colossi fallisce, le ripercussioni della caduta si avvertono in tutto il sistema, la quantità di capitale nell’industria scende ancora di più e altri fallimenti diventano più probabili. È per questo che

molti si chiedono se stiamo dirigendoci verso una depressione economica. La dinamica di questa spirale negativa ci ricorda quello che è accaduto all’inizio degli anni Trenta, proprio come ci sono analogie tra l’economia degli anni Venti e quella degli anni Novanta. Ci sono differenze importanti, naturalmente, ma le leadership politiche di entrambi i partiti non sembrano rendersi conto della gravità della situazione a livello planetario.Vogliamo davvero correre il rischio che qualche centinaia di milioni di individui che nell’ultimo decennio sono entrati nella “classe media globale” torni nella povertà? Davvero pensiamo che questo possa accadere senza conseguenze geopolitiche? Malgrado qualche deludente commento sulla crisi del credito, almeno

Ora chi fermerà lo shopping dei fondi sovrani cinesi? di Gianfranco Polillo li economisti si interrogano. Gli analisti non sono in grado di fare previsioni. I leader politici scrutano l’orizzonte, cercando di portar acqua al proprio mulino. Se poi c’è di mezzo un’elezione presidenziale, come quella americana, le cose si complicano ulteriormente. Di chi è la colpa? Di Bush, con il suo disinteresse, camuffato da iperliberismo, come accusa Obama, o le responsabilità sono più generali? O di Alan Greenspan che, ieri osannato per la sua lungimiranza, oggi posto da tutti, o quasi tutti, sulla graticola aveva comunque operato, come presidente della Fed, alla corte di Bill Clinton? Polemiche destinate a durare almeno fino alla vigilia dell’election day.

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Nel frattempo, ci si arrovella su una nuova possibile sciagura. “Quale la prossima?”grida, ad esempio, la copertina dell’ultimo numero dell’Economist, sconvolto dal susseguirsi delle brutte notizie che hanno fatto impallidire l’immagine trionfante del mercato. Ma quando le borse cadono in tutto il mondo e si riprendono solo al-

l’indomani dell’annuncio di un intervento pubblico pari a 700 miliardi di dollari, come quello fatto da Bush, si fa fatica ad essere ottimisti. Basterà? Finora la crisi è stata – salvo i riflessi in borsa – un fatto prevalentemente americano. Per farvi fronte sono stati stanziati ingenti fondi pubblici anche se c’è chi, come Jacques Attali, ritiene che la dimensione del default sia molto più estesa. Secondo questa valutazione occorrerebbero almeno 3.000 miliardi di dollari: una cifra senza precedenti. La crisi, inoltre, ha fatto scomparire un’etnia. Le banche d’affari – le Big five – non esistono più. Bear Sterns, Lehman Brothers e Merrill Lynch sono fallite o sono state comprate. Goldman Sach e Morgan Stanley hanno accettato l’ultimatum della Fed. Potranno sopravvivere, ma solo a condizione di trasformarsi in banche commerciali sottoposte al suo controllo e non più, com’era prima, a quello della Sec: l’autorità di vigilanza sulla borsa. Gli altri paesi si sono comportati diversamente. Se si esclude l’Inghilterra, costretta a nazionalizzare la Northern Rock, le altre banche centrali del G7 si sono limitate ad accrescere la liqui-


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Parlano Donato Masciandaro, Carlo Stagnaro e Giacomo Vaciago

Nuove regole per salvare l’America di Alessandro D’Amato

ROMA. È giusto che il governo Usa e la Federal Reserve intervengano nella crisi in atto, salvando società e istituti commerciali, bancari e finanziari (le ultime sono Goldman Sachs e Morgan Stanley), che si trovano nei guai a causa di una cattiva gestione del rischio? E cosa si dovrà fare affinché quanto accaduto non succeda mai più? liberal l’ha chiesto a tre fra i massimi esperti di economia italiani.

John McCain sembra comprendere il legame tra il free trade e i problemi globali della sicurezza, qualcosa che il suo avversario non riesce proprio ad afferrare.

Continuando con la nostra metafora del “Monopoli”: a meno che altro denaro non sia immesso nel gioco (“parcheggi gratuiti”?) non ci saranno abbastanza soldi per assicurare la redditività delle case e degli alberghi che sono già stati costruiti. È probabile che il governo federale si decida a stampare moneta in volumi soddisfacenti, ma questo non è ancora certo. È molto difficile giocare ad un gioco in cui le regole cambiano continuamente. Una volta che la novità è passata, molto del divertimento scompare, visto che i giocatori non sanno come svi-

luppare una strategia vincente. E questo è ancora più vero quando il gioco non è una finzione e quando in ballo ci sono i propri risparmi di una vita. L’approccio ad hoc del governo nel cambiare le regole in corsa - che sarà presto seguito da interminabili battaglie nei tribunali - ha probabilmente leso per sempre l’attrattività dei mercati finanziari statunitensi. Questo è un prezzo che pagheremo per i prossimi decenni. Ormai lo abbiamo capito: il “Monopoli della depressione” non è più divertente da giocare. Ex governatore della Federal Reserve, è stato uno dei consiglieri per la politica economica di Bush. È il direttore della National Economic Council della Casa Bianca

dità e interdire temporaneamente, al fine di sostenerne i corsi, la vendita allo scoperto delle azioni delle imprese finanziarie.

Chi, invece, era fuori da questo perimetro guarda alla crisi americana con occhi più disincantati. È il caso soprattutto della Cina e della Corea del Sud. L’agenzia Nuova Cina ha accolto le ultime decisioni americane quasi con indifferenza. «Ci auguriamo – è detto nel comunicato – che le misure prese possano produrre rapidamente effetto». Ma il fuoco cova sotto la cenere. I paesi del Far East sono stati, in questi anni, i principali finanziatori, insieme a quelli produttori di petrolio, dell’economia americana. A livello mondiale, controllano una quota del risparmio complessivo che oscilla tra il 30 ed il 50 per cento del totale. Sono giganti finanziari e nani politici. La crisi americana consente loro di uscire da questa posizione di minorità. Lo strumento principe è quello dei fondi sovrani. Grandi risorse finanziarie da gestire nello shopping di aziende ed imprese. Finora, la loro offensiva è stata respinta, specie quando la preda individuata aveva un valore strategico – porti, grandi compagnie petrolifere e così via – per i paesi prescelti. Era soprattutto una difesa contro una presenza ritenuta inquietante dal punto di vista politico. Ma ora che gli Usa non sanno a che santo votarsi, ci potranno ancora essere dei veti?

Cominciamo da Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni: è questa la strada giusta per uscire dalla crisi? «Spero di sì, ma credo proprio di no, la Fed e il governo, riparando con le loro tasche agli errori passati, creano i presupposti per gli errori futuri. In questo modo fomentano il moral hazard, ma soprattutto è inevitabile che le scelte delle autorità avranno un impatto di lungo termine sull’economia reale, che verrà coperto nell’unico modo possibile: con aumenti delle tasse». Non è d’accordo Giacomo Vaciago, direttore dell’Istituto di Economia e Finanza nell’Università Cattolica di Milano: «Non solo è giusto, ma dovevano cominciare molto prima! Il problema è che, come Berlusconi a Napoli, è necessario ritirare l’immondizia dai mercati. E mi sembra molto giusto che a farlo sia chi ce l’ha buttata, no?». Professore, ma non è preoccupato di mandare così ai mercati il messaggio che si può anche azzardare, tanto poi pagherà Pantalone? «Il moral hazard e l’adverse selection sono due fenomeni che accadono ex ante, non ex post. Ma una volta che l’incendio è scoppiato è inutile interrogarsi sulle cause; molto più costruttivo farlo una volta che l’abbiamo spento». Più severo è Donato Masciandaro, professore di Economia della Regolamentazione Finanziaria all’Università Bocconi di Milano: «Assistiamo a una serie di scelte tattiche monche, prive di una strategia a monte». Insomma, navighiamo a vista? «Esattamente. E il rischio è proprio che si continui così, tappando un buco mentre si apre una falla». Di quanto accaduto, sicuramente è colpa del mercato, dicono gli statalisti; è la prova dell’instabilità del mercato, dicono invece i liberisti. E poi si dividono tra chi vuole più regole e chi ne vuole di meno. Voi da che parte state? «Guardi, la crisi ha dimostrato chiaramente che le regole erano sbagliate o inefficaci – risponde Vaciago – e che ce ne vogliono di nuove. Questa crisi ha un tratto connotativo differente rispetto alle altre: prima i rovesci erano dovuti agli scandali (Enron o Parmalat) oppure erano regionali (Russia,

Argentina). Oggi il problema è nell’intero meccanismo messo in funzione dalla globalizzazione». E quale sarebbe la colpa che lei imputa alle istituzioni? «Ci sono banche che operano in tutto il mondo, controllate da autorità del Wisconsin, e supermarket finanziari che sfornano di tutto sotto la vigilanza di controllori settoriali. Lehman Brothers operava in 128 paesi, doveva essere controllata globalmente e non nazionalmente. Ci vuole un’istituzione globale come il Fondo Monetario Internazionale per vigilare su banche globali». «Siamo sicuri che il problema siano le regole? – afferma Stagnaro – Ricordiamoci che Fannie Mae e Freddie Mac sono due tra le istituzioni tra le più regolamentate al mondo, ma questo non le ha salvate dal disastro. Lo sport preferito, in questi due anni, è stato trovare i metodi per sfuggire alla regolamentazione, oppure aggirarla. Il problema non è trovare altre regole complesse, ma poche, chiare e stabili. La vera sfida è riuscire a farle funzionare». E Masciandaro aggiunge: «No ai divieti, sì alla trasparenza. Deve valere per tutti il principio dell’assunzione del rischio sano e prudente. Qualcuno ha giustamente osservato come la supervisione Usa sia praticamente balcanizzata: e allora la cosa necessaria è ridurre il numero di autorità, come tra l’altro aveva proposto Paulson prima che la crisi lo travolgesse».

Gli statalisti accusano le operazioni più spericolate, i liberisti chiedono meno vincoli: il problema del futuro è nelle regole condivise

Ma allora le banche centrali hanno sbagliato tutto? E chi dovrebbe essere a vigilare? Masciandaro distingue: «Nessuno ha accusato la Banca Centrale Europea di avere particolari responsabilità nella crisi: ha fatto le sue iniezioni di liquidità, e se l’è cavata alla grande. Sulla vigilanza globale, l’istituto preposto non può che essere il Fondo Monetario Internazionale. Ma non certo così com’è strutturato adesso. E c’è bisogno anche che le banche scelgano: o sei istituto di credito, o sei un brocker, oppure un’assicurazione. Non si possono fare tutte e tre le cose, ovvero prestiti a nullatenenti, cartolarizzazioni degli stessi prestiti e vendita degli stessi ai fondi pensione, e sperare che tutto questo non comporti un cortocircuito globale». Nemmeno una riforma delle agenzie di rating che regalavano triple A ai titoli-salsiccia sarebbe necessaria? «Mi chiedo se esiste un’alternativa alle agenzie... Non certo le banche centrali: semmai, visto che il sistema è sostanzialmente in regime di monopolio bloccato, la strada giusta potrebbe essere togliere gli ostacoli normativi alla costituzione di nuove realtà nel “mercato” delle valutazioni. La concorrenza fa bene, anche alle agenzie di rating».


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Gli Usa investono su Zardari, ma la sua unica qualifica è quella di essere il vedovo della Bhutto

L’incognita Pakistan La strage del Marriot potrebbe mettere in crisi la strategia globale di Washington di Robert D. Kaplan unica qualifica di Zardari è quella di essere il vedovo della leader assassinata del Partito popolare del Pakistan, Benazir Bhutto. E la qualifica principale della Bhutto era quella di essere la figlia del defunto primo ministro, Zulfikar Ali Bhutto. Il Pakistan va verso il feudalesimo ed è governato dal culto della personalità che ne deriva. I Partiti politici non hanno un’ideologia propria: sono la mera prosecuzione dell’amore e del potere dei propri leaders. Il nuovo presidente Zardari è un giocatore di polo e un playboy il cui unico “merito”nella vita è stato quello di essere riuscito a convicere la Bhutto a sposarlo. Mentre sua moglie era premier, lui era conosciuto come“mr. 10 %”, per le commissioni sui contratti di Stato che presumibilmente è riuscito a ottenere. Durante gli anni in cui sua moglie era in carica, da quel che si dice, è fuggito con molte decine di milioni di dollari. Per anni, le autorità svizzere lo hanno accusato di riciclaggio di denaro. La sua vita sembra non aver altro scopo se non quello di inserirsi tra le schiere dei miliardari. Viene considerato il supremo spaccone furfante. La sua acesa alla presidenza è vista come l’ennesimo segnale dell’entrata del Pakistan tra le fila degli Stati falliti. Zardari ha passato undici anni in prigione in Pakistan per accuse di corruzione che non vennero mai dimostrate dalla Corte. Undici anni in prigione segnano un uomo, anche se il caso di Zardari è atipico: durante la detenzione gli è stata assegnata una stanza singola, un bagno, cibo cucinato su richiesta e personale di servizio. La sua incarcerazione è stata più simile agli arresti domiciliari che alla prigione, come i più la immaginano.Tuttavia, l’esperienza può rafforzare il carattere, insegnare ad essere pazienti, cambiare un individuo in peggio o in meglio. Infatti, per un politico neofita, Zardari ha svolto le sue funzioni con una buona credibilità negli ultimi mesi. Ha manovrato sé stesso fino alla presidenza e ha inserito come primo ministro un uomo del suo Partito,Yousef Raza Gillani. E ha anche cooperato con il suo rivale politico, Nawaz Sharif, per far cadere Musharraf. Con il recente sostegno degli Sati Uniti, Zardari deve riuscire a tenere sotto controllo la ribellione talebana nelle aree tribali del Pakistan, dovrebbe spegnere i fuochi del separatismo e la rivolta nella provincia del Baluchistan e collaborare con il primo ministro per riavviare l’economia pakistana. Una vita spesa ad arricchirsi velocemente gli ha fornito un’esperienza limitata in questi campi.Avrà la volontà e la forza per affrontare seriamente quelle questioni che potrebbero rappresentare una sfida anche per i politici migliori e più preparati? Se Zardari fallisce, i militari po-

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trebbero ancora una volta intervenire per riempire il vuoto di potere, ma in una maniera differente rispetto ai precedenti colpi militari. Nella torbida storia del Pakistan, generali e politici si sono susseguiti al potere ed entrambi hanno fallito. Ma l’Occidente condannerebbe un altro colpo di stato e le minoranze del Baluchistan e del Sindh - che vedono i militari come una cospirazione dei punjabi - esploderebbero in una furia nazionalista se i militari prendessero il potere.Tra le cose che possiamo aspettarci per i prossimi mesi ci sono i segnali di un colpo di Stato latente e non dichiarato, in cui Zardari e il leader dell’opposizione Sharif si troverebbero implicati in una soap opera di macchinazioni politiche rivolte l’uno contro l’altro, mentre le aree tribali ed altre parti della nazione scivolerebbero in una parziale anarchia. I militari potrebbero quindi intervenire per riempre il vuoto creatosi nel governo. La legge marziale sarebbe effettiva in tutto tranne che nel nome. E questo è lo scenario che l’ex playboy Zardari minaccia di scatenare.

Il direttore del pakistano “Daily Times” invita il suo governo a un’azione decisa contro la violenza talebana

Guardiamo in faccia la realtà: è una nostra guerra di Yousaf Gila ue giorni dopo l’esplosione del Marriot Hotel, le fiamme non si sono ancora spente. Il camion Shehzore di media grandezza, riempito con 600 chilogrammi di esplosivo Rdx, ha superato la barriera dell’hotel ed è esploso, dando fuoco all’edificio. Ma la sua corsa non si è ancora fermata. È molto probabile che Osama bin Laden sia stato “felicemente” sorpreso dall’esito dell’operazione, dato che il camion non sarebbe dovuto neanche riuscire ad arrivare nei pressi dell’albergo. Esattamente come dopo gli attacchi dell’11 settembre, che lo hanno“compiaciuto”, la sua strategia si dimostra letale. Islamabad è divenuta uno degli obiettivi primari di al-Qaeda sin dall’elezione del nuovo governo: dalle urne, si è verificato un attacco al mese. È stata al-Qaeda a bombardare l’ambasciata danese, anche se ha concesso ai talebani nostrani di prendersi il merito

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per gli altri attacchi, di minor portata. E questa non è una strategia nuova per il gruppo terroristico. Già nel 1995, Aiman al Zawahiri ha proclamato la sua teoria del “nemico vicino”, quando ha benedetto l’attacco e la distruzione dell’ambasciata egiziana in Pakistan. In questo modo, ha mandato un segnale chiaro al nostro governo.

Ma, nonostante tutte queste attenzioni, le nostre forze armate non sono state in grado di rendere sicura la capitale. Una ragione di questo fallimento è ovvia: gli attentatori suicidi sono virtualmente impossibili da fermare. Un’altra è la presenza di amici di al-Qaeda a ogni livello della società pakistana, e soprattutto negli strati bassi della popolazione. Una terza è la mancanza di preparazione anti-terroristica nelle nostre agenzie di intelligence interne, che sono mal preparate e mal equipaggiate. Paghe basse per basse motivazioni. L’obiettivo di quest’ultimo attentato sarebbe dovuto es-

sere il Parlamento, dove il Presidente Zardari doveva parlare davanti ai maggiori esponenti del mondo politico. E un camion è stato ammesso per le strade della capitale senza i dovuti controlli. Certo, era camuffato da trasporto edile: ma era pieno di dinamite. Quella contenuta in un camion che al-Qaeda era riuscito a rubare poco tempo fa nell’industria militare di Wah. Quindi, possiamo dire che i terroristi usano risorse interne per i loro scopi. Immaginiamo dunque che il Marriott fosse un obiettivo secondario: nessuno è riuscito a dare la dovuta sicurezza a quello che è stato per quattro volte il bersaglio dei terroristi. E che è stato minacciato innumerevoli volte da quei religiosi senza scrupoli che gli hanno lanciato contro una fatwa. Purtroppo, anche il giornalismo ci ha messo del suo. Un editorialista dice che Zardari dovrebbe andare a Washington, fissare negli occhi Bush e sfidarlo. Un altro pensa che l’attentato sia stato effettuato da


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La cacciata di Musharraf ha spianato la strada al terrorismo

«Il rischio è che diventi un nuovo Afghanistan» colloquio con Mario Arpino di Vincenzo Faccioli Pintozzi on abbiamo più molto tempo. Se il governo pakistano non torna ad avere la fiducia dell’esercito, il Pakistan rischia di divenire un nuovo Afghanistan. Ne è convinto il generale Mario Arpino, uno dei maggiori conoscitori del Paese asiatico ed ex Capo di Stato maggiore della Difesa, che in un’intervista a liberal tratteggia le prospettive future di uno dei Paesi chiave della lotta al terrorismo internazionale. Generale, alla luce degli ultimi attentati, cosa sta succedendo in Pakistan? La situazione è veramente precaria. Da quando se ne è andato Musharraf – o meglio, da quando è stato costretto a dimettersi – le infiltrazioni dalle aree tribali del Pakistan verso l’Afghanistan sono aumentate, e di molto. Gli americani hanno tentato in qualche modo di fermarle, creando quelli che vengono definiti danni collaterali, e naturalmente i pakistani hanno protestato per la lesa sovranità del loro territorio. Musharraf, in qualche modo, aveva cercato di collaborare; con Zardari, questa collaborazione non è scontata. Il patto fra Zardari e Sharif [il leader della Lega musulmana N, considerato un estremista islamico ndr] per abbattere Musharraf ha comportato degli accordi con i talebani delle zone tribali. E questo non ha portato alcun bene alla nazione. Dobbiamo tenere sempre in mente l’influenza di Sharif, che non lascerà il presidente lavorare in pace, e che è stato filo-islamico, filo-estremista e filo-talebano anche quando era al governo. È lui il responsabile dell’urbanizzazione dei talebani, del loro spostamento dalle aree rurali alle città. Ha favorito l’estremismo e le scuole islamiche. E i nodi di tutto questo stanno oggi venendo al pettine. Al-Qaeda e i “nuovi talebani”, quelli urbani, stavano aspettando un’occasione. La caduta di Musharraf è stata la miglior occasione possibile. Se poi aggiungiamo a questa la formazione di un governo debole, com’è quello di Zardari, l’occasione diventa ghiotta. I risultati si stanno già vedendo. C’è un piano politico dietro all’aumento delle violenze di stampo islamico nel Paese? Il Partito popolare ha coscienza di quanto accade? Io non credo che, a livello popolare, vi sia una vera coscienza di questo pericolo. Diciamo che l’odio nei confronti di Musharraf è stato fomentato tanto da arrivare a un’unione impossibile, quella fra Zardari e Sharif, nemici da sempre. Se siamo arrivati a questo punto è perchè non si è pensato ad altro se non all’abbattimento dell’ex presidente. A qualunque costo. Se fosse stata possibile l’alleanza Musharraf-Bhutto, non sarebbe successo tutto questo. Ma

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potenze straniere, ovvero uno a scelta fra India, Afghanistan, Israele, Stati Uniti e Russia. E un religioso di Quetta ha dichiarato di non poter condannare l’attacco, perché ha colpito «Washington e i suoi alleati». Ringraziando Dio, il primo ministroYousaf Raza Gilani ha indicato chiaramente il nemico.

Ha detto che è stata al-Qaeda ad attaccare il Marriott, usando una delle migliaia di risorse umane che ha addestrato nelle aree tribali del nostro Paese. Zardari ha usato un altro tono: ha detto che il nostro popolo è pronto a combattere il terrorismo, e che lui lo sa bene «avendo seppellito una moglie morta per mano proprio dei terroristi». Ora, però, dobbiamo aprire gli occhi e ammettere la verità. Questa è una nostra guerra, che noi dobbiamo combattere. Ammettiamo che il nostro Paese deve allinearsi al mondo, e fare una diagnosi si quello che sta avvenendo. E ammettiamo infine che la crisi economica del nostro Paese non ci permette di mostrare i muscoli davanti al terrorismo: abbiamo bisogno di aiuto davanti a quegli estremisti che sono aiutati da fondi, tecnologie e consulenze da parte dei loro amici, sparsi nel mondo. Ora dobbiamo cercarlo.

quell’alleanza – nata dall’amnistia concessa dal generale a Benazir – è stata ricambiata male da subito, perché Benazir è rientrata e ha iniziato a fomentare il popolo contro il capo dello Stato. L’alleanza con Sharif, dunque, è divenuta un giocoforza. Anche se tutti sapevano come sarebbe andata a finire. Eppure sarebbe ancora possibile, se non un’alleanza, almeno un accordo fra il Partito popolare e quello di Musharraf, la Lega musulmana Q, che ha ottenuto meno del 20% delle preferenze ma conta ancora molto a livello militare. Questo servirebbe per consentire alle forze armate di tornare a fidarsi di Zardari e consentirebbe di riprendere l’azione iniziata contro i talebani, che si basa sull’iso-

L’unica speranza è che vengano ricuciti i rapporti fra il presidente e le forze armate

lamento dei talebani e sulla lotta ai membri stranieri di al-Qaeda giunti nel Paese. Una cosa che Musharraf aveva fatto e stava facendo. Non ha mai sparato direttamente ai talebani, ma ha fatto di tutto per isolarli dalla rete di bin Laden. Ora, questo isolamento non c’è più: adesso abbiamo al-Qaeda in supporto ai talebani, un attraversamento del confine con l’Afghanistan continuo, e un’azione americana. A questa, abbiamo visto immediatamente una risposta nelle aree tribali. Questa serie di attentati è un monito che i talebani e al-Qaeda lanciano al governo: fin quando questo rimarrà debole, loro continueranno a dimostrare che Islamabad non ha il controllo del territorio. Parliamo di scenari. Perché è venuto meno il sostegno americano a Musharraf, e cosa può succedere dell’alleanza Washington-Islamabad?

Il sostegno americano è venuto meno quando Musharraf ha iniziato a perdere il favore popolare, in quanto ha epurato il sistema giudiziario. Una mossa che, tra l’altro, era necessaria per il rientro della coppia Bhutto dall’esilio. Questa è una cosa che nessuno dice mai, ma senza l’epurazione dei giudici non sarebbero mai cadute le accuse di corruzione mosse contro Zardari. Gli americani sono sempre sensibili al discorso della democrazia ad ogni costo, ma questo pone diversi limiti. E in questo caso, visto l’aumento del favore popolare nei confronti di Benazir e il crollo di quello di Musharraf, il discorso democratico ha deciso. Un editoriale del Daily Times chiede al governo di aprire gli occhi sulla matrice qaedista degli attentati e prendere posizione sul patto con gli Usa. Quale sarà questa posizione? Un confronto del genere è molto importante. Io credo che gli americani cercheranno in qualche modo di mettere Zardari davanti alle sue responsabilità, e torneranno – in caso di risposta positiva – a finanziarlo. In questo caso, metteranno i loro soldi in mani cattive. Però temo molto anche un allontanamento fra i due Paesi: non dobbiamo infatti dimenticare che il Pakistan ha la bomba atomica. Io credo che questo sia il punto chiave: si deve cercare di legare il governo a un impegno simile a quello che aveva Musharraf. Anche attraverso il denaro, un argomento a cui Zardari è molto sensibile. Il tempo non è molto, perché se questo non avviene e il governo perde unità con l’esercito, gli estremisti avranno gioco facile nel mettere il Paese in ginocchio. La parte meno abbiente della popolazione – che sostituisce alle ideologie il credo islamico – potrebbe prendere il sopravvento: e questo è pericoloso, soprattutto nell’area di Karachi e nelle aree tribali a nord-est della capitale. Rischiamo di fare del Pakistan un nuovo Afghanistan. C’è la possibilità di un ritorno di Musharraf, o di un suo delfino? Non credo ci sia la possibilità di un ritorno formale di Musharraf: più che altro, è possibile una riconsiderazione del suo operato. Di un ritorno ad alcuni dei concetti militari che l’ex presidente ha cercato di portare avanti. Il duo Zardari-Sharif ha riportato in pista l’ingegner Khan, quello che ha venduto i piani dell’atomica e che Musharraf aveva confinato in casa. Azioni come queste verranno riconsiderate, e lo spirito della sua opera è destinato a permanere. Soprattutto per quanto riguarda un nuovo accordo fra Zardari e le forze armate, l’unica strada per rendere sicuro il Paese.


pagina 6 • 23 settembre 2008

politica

Il cardinale Bagnasco parla del “Caso Englaro”: «Sì a una legge, purché ci siano regole certe e condivise»

La Chiesa apre al testamento biologico di Francesco Rositano

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Camorra, oggi si decide sull’uso dei soldati Il governo valuterà oggi in sede di Consiglio dei ministri se, per l’emergenza camorra nel Casertano, sarà o meno necessario affiancare alle forze dell’ordine dei militari. Nel caso, ha fatto sapere ieri il ministro dell’Interno Roberto Maroni (nella foto), «faremo come abbiamo fatto con successo e con ottimi risultati nelle città». D’accordo sull’uso dei soldati anche il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, secondo il quale c’è «un problema di fattibilità e va verificato: non bisogna tirare la coperta e né io né Maroni vogliamo farla diventare troppo corta».

Alcool, tabelle anti-stragi in discoteca

Il cardinale Angelo Bagnasco visita una scuola media di Pieve Ligure. Nel corso di questo incontro, i genitori hanno contestato il presule, che ha preso il posto del cardinale Camillo Ruini alla guida della Cei

di Francesco Rositano

ROMA. Che la prolusione del cardinal Angelo Bagnasco al Consiglio permanente della Cei avrebbe affrontato i grandi nodi dell’attualità lo si sapeva. E le ragioni erano diverse. Innanzitutto, questo Consiglio ha aperto una nuova fase nella vita della Conferenza episcopale dal momento che è l’ultimo che vedrà la presenza di monsignor Giuseppe Betori come segretario. E quindi chiude la lunga era del cardinale Camillo Ruini, che comuque continuerà a dare il suo contributo in seno alla Conferenza da responsabile del“Progetto culturale”. Inoltre, questa prolusione era molto attesa perché - dopo il grande dibattito aperto dalla vicenda di Eluana Englaro - la gerarchia cattolica non si era ancora espressa nel merito di una legge sul cosiddetto testamento biologico. A patto che non fosse il primo passo verso l’eutanasia. Ieri, nella sua prolusione il presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, ha dato il suoimprimatur ad un intervento normativo sul tema. A patto, però, che esso avvenga entro regole certe, che ci siano confini etici precisi, che non venga mai meno il rapporto medico-paziente e che venga escluso dal provvedimento l’interruzione di alimentazione e idratazione. Ecco le parole del porporato: «Anziché forme di eutanasia mascherata, in particolare di abbandono terapeutico, si lavori per quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano». Naturalmente, la prolusione del porporato ha toccato i temi più dibattuti nell’attualità: laicità, persecuzioni dei cristiani nel mondo, immigrati, famiglia,

scuola. Il cardinale ha prestato particolare attenzione a quei nuclei familiari che appartengono alle fasce più deboli e nei confronti delle quali c’è comunque bisogno di una maggiore attenzione. E, a proposito, ha aggiunto: «È indispensabile tuttavia che mentre positivamente ci si applica alla soluzione di alcuni importanti nodi, contemporaneamente ci si concentri sulle fasce più deboli, e sulle famiglie monoreddito che stanno reagendo come possono all’ondata di aumenti dei prezzi che nel frattempo non cessano di lievitare. Certo, ogni provvedimento di soccorso è utile, ma necessitano misure organiche che diano un minimo di serenità, consentendo ai nuclei famigliari di pianificare le loro prospettive di vita».

Importante apertura all’assembrela della Cei: «Servono confini etici precisi, poi il medico dovrà decidere in base alla scienza e alla sua coscienza» Certamente questo intervento richiede una riflessione sulle questioni etiche (testamento biologico e l’eutanasia), temi dibattuti sin dalla promulgazione dell’enciclica Humanae Vitae, su cui si sono nel tempo accavallate opinioni e ipotesi diversi. Secondo alcuni fra i migliori esperti in materia, che consigliano il Vaticano sul tema, va distinto il testamento biologico dal consenso informato. Con il consenso informato (prassi consueta e secondo la Chiesa legittima) qualsiasi persona che sia già ammalata può chiedere, d’accordo col suo medico, che non

gli vengano in futuro riservate terapie invasive o gravose o qualsiasi tipo di accanimento terapeutico. Ma il medico che lo ha in cura ha comunque il diritto-dovere di interpretare i desideri del paziente in quanto durante la terapie egli può giudicare che per il bene del paziente è opportuno agire in altro modo. Mentre con il testamento biologico le cose cambiano. Infatti, si prevede che qualsiasi persona oggi sana possa scegliere di rifiutare qualsiasi tipo di cura nel caso che in un futuro prossimo o remoto si trovi a dover affrontare una malattia grave che non le permetta più di esprimere la propria volontà. Altro problema evocato dal presidente della Conferenza episcopale italiana riguarda lo stravolgimento del rapporto medicopaziente così come oggi è pensato. Questo, infatti, rappresenta una delle estreme esasperazioni dell’autonomia del paziente. Rifiutando in modo deciso il modello paternalistico viene adottato il modello autonomistico o contrattualistico sulla base di una presunta parità fra i contraenti del rapporto, cioè tra medico e paziente. Ma tutto ciò altera l’identità delle due figure in gioco. Il medico, da professionista che agisce nell’interesse e nel bene della salute del paziente, è degradato a essere un esecutore delle volontà del paziente. In questo modello il medico potrà essere anche abilissimo tecnicamente, ma sarà sempre incompetente dal punto di vista decisionale. Il paziente, invece, diventa un puro cliente che può chiedere tutto al medico. Una legislazione esatta sul tema, pensano in molti Oltretevere, non farebbe altro che migliorare la situazione e l’incertezza sulla materia in cui la Chiesa, sin dal Concilio Vaticano II, continua a dibattersi.

Le tabelle sui tassi alcolemici non dovranno essere esposte in tutti i locali pubblici, ma solo in quelli con spettacoli di intrattenimento.Lo ha precisato ieri la Fipe-Confcommercio, sottolineando che «non possono essere affisse in bar e ristoranti». Protestano gli imprenditori del Silb, il sindacato dei gestori locali da ballo: «Non ci stiamo a essere accusati in maniera infondata. I gestori dei locali da ballo non sono mai stati contrari al contrasto all’abuso di alcol». Lo ha sottolineato Renato Giacchetto, presidente del Silb.

Fitto, federalismo nel prossimo Cdm «Credo che la settimana prossima il Consiglio dei ministri potrà varare il testo sul federalismo fiscale. Quindi andrà calendarizzato in aula. Ed essendo collegato alla Finanziaria, entro l’anno dovrebbe essere approvato». E’ questo l’auspicio del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, intervenuto ieri al convegno sul federalismo fiscale promosso dalla Regione Veneto all’Università di Padova. «Il governo dovrà poi accompagnare questa importante riforma sul federalismo fiscale con altre riforme complementari nei settori fondamentali della vita pubblica del Paese», ha spiegato il ministro.

Lavoro, Damiano: si adotti Testo unico «Il ministro Sacconi farebbe bene ad applicare il Testo unico sulla salute e sulla sicurezza anziché depotenziarne la portata e allungare il brodo. Infatti, il governo, nei decreti approvati prima dell’estate, ha già spostato al primo gennaio del 2009 la data di presentazione dell’aggiornamento del documento di rischio da parte delle imprese, che era prevista per il primo agosto di quest’anno». E’ quanto risponde l’onorevole Cesare Damiano del Pd al ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, a proposito della sicurezza sul lavoro. «Sarebbe meglio che si provvedesse ad attuare quanto previsto, a partire dallo stanziamento di 50 milioni di euro già coperti, per finanziare con un credito di imposta al 50% la formazione sostenuta dalle aziende per la sicurezza sui luoghi di lavoro».

Roma, presentato libro su Gabriele Sandri Mentre giovedì 25 settembre si aprirà ufficialmente l’udienza che vede Luigi Spaccarotella imputato per l’omicidio volontario del giovane dj romano Gabriele Sandri, è stato presentato ieri in Campidoglio, alla presenza del sindaco di Roma Gianni Alemanno, del delegato allo sport del Comune Alessandro Cochi e dei familiari del ragazzo assassinato, il libro del giornalista Maurizio Martucci 11 novembre 2007 L’uccisione di Gabriele Sandri, una giornata buia della Repubblica (Sovera edizioni). Il volume, oltre a fornire un’accurata e dettagliata dinamica di ciò che accadde il giorno dell’omicidio di ”Gabbo”, offre una esclusiva intervista a Cirstiano Sandri, il fratello maggiore della vittima.


politica

23 settembre 2008 • pagina 7

Oggi si riunisce la Vigilanza che dovrebbe eleggere Orlando

La nuova Rai quasi pronta ma nel Pd qualcuno frena di Marco Palombi

ROMA. L’estate è veramente finita. A certificarlo, più che la temperatura tendente al basso, è il ritorno di fiamma della politica e dei giornali per la Rai. Come oramai dicono tutti – e lo confermano a chi scrive autorevoli fonti di area governativa – Walter Veltroni e Silvio Berlusconi hanno trovato sulla tv pubblica, il cui consiglio d’amministrazione è in regime di proroga da maggio, il famoso “accordo complessivo”di cui parlava il centrodestra mesi fa. In soldoni, Leoluca Orlando dovrebbe diventare presidente della commissione di Vigilanza con buona pace del carattere eversivo di Italia dei valori che tanto inquieta Fabrizio Cicchitto, mentre alla presidenza della Rai dovrebbe andare il giornalista in odor di veltronismo (ma non molto tempo fa direttore del berlusconiano Panorama) Pietro Calabrese e alla direzione generale Stefano Parisi, attualmente ai vertici di Fastweb e che piace anche all’ex sindaco di Roma. Quest’ultimo però non ci pensa proprio ad andare a viale Mazzini per fare il Cappon, ovvero un dg bloccato dai veti incrociati di un cda esposto a tutti i venticelli della politica, e quindi pretende modifiche normative che aumentino i suoi poteri. Dare voce all’accordo è toccato la scorsa settimana a Paolo Romani - potente sottosegretario alle Comunicazioni ed espertissimo della materia che ha spiegato al Parlamento che su Orlando ci si poteva pure mettere d’accordo, ma soprattutto bisognava dare più poteri al direttore generale sul modello della proposta veltroniana dell’ammnistratore uni-

co: in sostanza, secondo le linee indicate da Romani, il nuovo dg dovrà contrattare col cda solo le nomine di primissimo piano, mentre vicedirezioni e strutture interne potrà gestirsele in piena autonomia. Gli altri otto nomi che affolleranno il cda previsto dalla Gasparri ballano oramai da giorni sulla stampa, ma non sono ancora definitivi e, detto brutalmente, verranno a cascata solo dopo la scelta dell’accoppiata presidente-dg. Intanto, però, ieri è stata sistemata un’altra casella di peso: il nuovo direttore del Tg1 sarà Pier-

ni scavalcati in quello che hanno sempre considerato il loro feudo, il dialogo sottobanco con Berlusconi. Come al solito nel Pd i panni sporchi non hanno pensato a lavarseli in famiglia: Rognoni ha scritto, pur in forma dubitativa, un durissimo j’accuse contro la svendita veltroniana e la Melandri s’è lasciata andare ad un angosciato “non è possibile”.

Certo resta inspiegabile a molti il via libera di Veltroni ad un accordo di questo genere mentre nel cda Rai, grazie alla defezione dell’incompatibile

cavallo di battaglia del Pd veltroniano che vuole “la politica fuori dalla Rai”. Stamattina il segretario dovrebbe incontrare i maggiorenti del partito per spiegare cosa sta succedendo e convincerli a non affossare l’accordo: pare che Veltroni, con l’operazione Orlando-Calabrese-Parisi, punti ad una successiva riforma condivisa della tv di Stato – che, sosterrà, non è comunque possibile contro Berlusconi - e a rinsaldare i rapporti con gli altri partiti dell’opposizione, Idv in testa. Tra gli stessi democratici, però, si accettano scommesse su quan-

Veltroniani in libera uscita come Giovanna Melandri, inconciliabili col conflitto d’interesse del Cavaliere come Vincenzo Vita, membri del cda a rischio irrilevanza futura come Carlo Rognoni e i dalemiani contestano il loro segretario luigi Battista, ora vicedirettore del “Corsera”, mentre Gianni Riotta avrà una rubrica settimanale.

Tutto a posto se non fosse che molti nel Partito democratico sono rimasti, eufemizzando, sorpresi dalla trattativa diretta Walter-Silvio. Chi sono? Veltroniani in libera uscita come Giovanna Melandri, inconciliabili col conflitto d’interesse del Cavaliere come Vincenzo Vita, membri del cda a rischio irrilevanza futura come Carlo Rognoni e, soprattutto, i dalemia-

In alto: a sinistra il segretario del Partito democratico, Walter Veltroni, e a destra il ministro della Comunicazione del governo ombra, Giovanna Melandri

Gennaro Malgieri (eletto deputato), il centrosinistra torna maggioranza dopo dieci anni: una formidabile pistola da mettere sul tavolo della trattativa per riformare la Gasparri, un

to impiegheranno il Cavaliere e il suo alter ego molisano a fregare l’ex sindaco.

Se tutto va come sembra, insomma, oggi o do-

mani sarà già il giorno di Leoluca Orlando, politico famoso all’estero (la Clinton lo adora e in Germania gli hanno dato pure il premio Adenauer), che qualcuno ricorda sindaco di Palermo. Intanto a viale Mazzini Claudio Petruccioli spera ancora nella salvezza: pare che in suo soccorso si siano mossi qualche dalemiano e persino dalle parti del Quirinale (non il presidente, per carità, ma i suoi consiglieri più legati alla comune militanza migliorista col presidente Rai).

Altra possibilità, assai remota, è una ulteriore proroga del consiglio: lo strumento per rimettere tutto in discussione sarebbe una sentenza della Corte Costituzionale, attesa a breve, innescata da un ricorso della commissione di Vigilanza (allora presieduta da Mario Landolfi) sulla revoca del consigliere Rai Petroni da parte del governo Prodi. La Consulta potrebbe giudicare incostituzionale la parte della legge Gasparri che riguarda proprio nomina e revoca del membro del cda spettante al Tesoro, peraltro guardata con sospetto da molti giuristi, costringendo il Parlamento, se lo facesse in questi giorni, a mettere mano alla legge prima di eleggere il nuovo consiglio. E tutto tornerebbe in gioco.


pagina 8 • 23 settembre 2008

alitalia

Avviso di vendita, cordata di piloti, nuove trattative: Alitalia in un vicolo cieco

Chi vuole il fallimento? di Franco Insardà

ROMA. Per il momento si scommette sulla sospensione o sulla revoca della licenza di volo, fra qualche ora ci saranno le quote anche per il fallimento di Alitalia. Dopo le aste andate deserte, le lunghe giornate di trattativa e l’annuncio che il commissario straordinario di Alitalia, Augusto Fantozzi, ha pubblicato sul sito della compagnia e che oggi è apparso su Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24ore e Financial Times arrivano, infatti, anche i bookmaker. Ieri quotavano a 1,30 la possibilità che ad Alitalia entro il 30 settembre, in mancanza di offerte credibili, arriverà la sospensione della licenza per mancanza di liquidità e a 2,50 la revoca o l’interruzione della licenza stessa. Per la compagnia di bandiera abbiamo visto tutto. O quasi. Come sagacemente ha puntualizzato Francesco Cossiga: «Ormai la crisi Alitalia, già scivolata dal dramma alla farsa, sta per trasformarsi in una tragedia, anche se sempre colorata di drammatica farsa, nella quale il ”domani”, data ultima per risolvere il problema, significa sempre più ”mai”!’. Penso che alla fine il problema sarà risolto con la ”rinazionalizzazione” della compagnia, ma solo fino a ”domani”!».

Fantozzi, che pone il termine delle ore 12 del 30 settembre per far pervenire ”le manifestazioni di interesse di potenziali acquirenti al fine di avviare l’eventuale trattativa”. Poi il presidente del Cnel, Antonio Marzano, che ha lanciato la proposta di aprire a un azionariato dei dipendenti per incentivarli e motivarli.

Proprio mentre piloti, assistenti di volo e personale di terra, rappresentati da Anpac, Unione Piloti, Avia e Sdl si sono detti pronti a mettere a disposizione, per un progetto di rilancio della compagnia, una quota delle proprie retribuzioni e tutto il Tfr accumulato. Insomma una

lia non riguarda solo le forze in campo ma l’intero sistema Paese». E Bruno Tabacci ai microfoni di Radio Radicale ha posto l’accento sulle grandi compagnie di trasporto aereo: «Il governo non può ostacolare in maniera così esplicita l’interesse per Alitalia, ha detto Tabacci. Il commissario Fantozzi ha fatto bene ad aprire il fronte delle trattative come gli era stato suggerito da alcuni eminenti cattedratici. Credo che il professor Fantozzi debba spiegare al governo che non può mettersi di traverso. Come fa infatti una grande compagnia come Lufthansa, ma lo stesso vale per AirFrance o British, a dichiarare il proprio interesse se il governo continua a sostenere che alla cordata Cai non c’è alternativa?».

Bruno Tabacci: «Come fa infatti una grande compagnia a dichiarare il proprio interesse se il governo continua a sostenere che alla cordata Cai non c’è alternativa?»

Anche la giornata di ieri non è stata povera di colpi di scena e di dichiarazioni ultimative da parte dei vari protagonisti che da settimane si contendono la scena. Prima il bando pubblicato dal commissario straordinario, Augusto

cordata dei dipendenti che si contrappone alla Cai. Ma il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, e tutti gli altri esponenti della maggioranza hanno continuato a ribadire che: «Fanno male ad illudersi tutti coloro che pensano ancora ad una soluzione pubblica». In sostanza all’offerta della Cai non ci sarebbe alternativa. Ma su questa posizione non è d’accordo l’Udc. Secondo Francesco Pionati, portavoce dello scudocrociato, su Alitalia: «si è aperto uno spiraglio. Le forze politiche hanno l’obbligo di spingere nella stessa direzione: riaprire la via dell’intesa. Imprenditori e sindacati devono rimuovere le rigidità reciproche che hanno portato allo stallo. La partita di Alita-

Nuove tensioni fra i soci

E nella Cai qualcuno già si tira indietro. Benetton, per esempio... di Alessandro D’Amato

Nel pomeriggio si è svolto un tavolo Interistituzionale al quale hanno partecipato il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, quello della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti e i sindaci di Roma, Gianni Alemanno, e di Fiumicino, Mario Canapini, insieme al commissario Augusto Fantozzi. Per Marrazzo: «Il pubblico e il governo devono vigilare così come Bush ha fatto quando una parte fondamentale del sistema finanziario americano stava sprofondando». Intanto la società svizzera di leasing aeronautico e navale, Asset Management Advisor, ha formalizzato una manifestazione d’interesse per l’acquisizione di almeno 30 aeromobili di Alitalia. Come al solito gli elvetici badano al sodo.

ROMA. Ma la Cai è ancora in corsa per Alitalia? Mentre il commissario straordinario Augusto Fantozzi pubblica la richiesta a ricevere manifestazioni di interesse per l’acquisto dei rami d’azienda della nostra compagnia di bandiera e l’Enac minaccia il ritiro del permesso di volo, l’unico fatto acclarato, nonostante gli inviti a tornare al negoziato rivolti dal governo ai sindacati, è che la controparte ha ritirato l’offerta dopo la rottura delle trattative di giovedì scorso. Anzi, tra i sedici imprenditori riuniti a Milano insieme a Roberto Colaninno la settimana scorsa sembrava fosse circolato anche, nascostamente, qualche sospiro di sollievo, viste le grandissime difficoltà della trattativa. Tanto che fonti vicine al dossier di Banca Intesa avevano assicurato, nell’immediatezza della circostanza, che non c’era alcuna intenzione di tornare indietro dalla decisione: «Quel che è fatto è fatto, noi ad Alitalia non siamo più interessati», si sentiva ripetere. Anche perché in alcune fasi della concertazione erano circolati dubbi su quanto stava accadendo. Su Rocco Sabelli, il ma-

«Entro giovedì il commissario straordinario di Alitalia deve presentare all’Enac un piano credibile per evitare la revoca o la sospensione della licenza di volo». Lo ha detto il presidente dell’Enac, Vito Riggio. Intanto ieri sul sito della compagnia di bandiera è apparso l’annuncio di Fantozzi per trovare ”manifestazioni d’interesse per l’acquisto di Alitalia da rendere note entro il 30 settembre”, che sarà replicato oggi sul ”Corriere della Sera”, ”Repubblica”, il ”Sole 24 ore” e il ”Financial Times”

nager che aiutò Colaninno a portare la Piaggio in Borsa e che si distingue per la sua paura di volare, a un certo punto si erano sparse voci di dimissioni, dopo uno scontro molto duro tra lui e alcuni sindacalisti. Così come erano palesi le divergenze tra alcuni dei soci: per un’ala berlusconiana (rappresentata da Bruno Ermolli e dalla famiglia Ligresti) che spingeva per la trattativa a tutti i costi c’erano i Benetton che già prima della nascita ufficiale di Cai avevano manifestato moltissime perplessità. Decidendo infine di entrare per mezzo di Atlantia, la holding delle Autostrade, piuttosto che con una delle due casseforti di famiglia. Diversa la posizione di Carlo Toto, il quale avrebbe un oggettivo vantaggio dal fallimento di Alitalia – già oggi le prenotazioni per volare Air One sono in tumultuosa crescita – e la AP Holding ha dettato l’altroieri ai giornali una nota nella quale ridimensiona le cifre dell’esposizione nei confronti di Banca Intesa, probabilmente allo scopo di rispondere a quanti avevano adombrato conflitti di interesse tra l’imprendito-


alitalia

23 settembre 2008 • pagina 9

Ieri una manifestazione degli steward

A Fiumicino va in scena la mini marcia anti-piloti di VIncenzo Bacarani

ROMA. Sotto il cielo dell’Alitalia sindacale, c’è un grande caos. Sono ore frenetiche: le nove organizzazioni dei lavoratori sono spaccate. C’è chi firmerebbe subito l’accordo con Cai. Si tratta di Cisl, Uil, Ugl (che tutelano soprattutto i lavoratori di terra), Anpav (una parte degli assistenti di volo) e chi invece non vorrebbe firmarlo mai. E parliamo soprattutto dei piloti (Anpac e Up su tutti, cioè le due associazioni autonome) e di parte degli assistenti di volo (rappresentati dall’Avia), oltre alla Cgil che ne fa più una questione politico-ideologica che di sostanza e l’Sdl. Il sindacato di Epifani si trova infatti di fronte all’ennesimo bivio: appoggiare i lavoratori di terra e favorire così la proposta di Berlusconi oppure dire di no e appoggiare indirettamente le rivendicazioni dei piloti, i cosiddetti “baroni dell’aria”? La Cgil ha scelto quest’ultima strada pur di non dar ragione al governo. Ma la situazione è fluida e si presta a ribaltoni e ribaltini dell’ultima ora. Non a caso, dopo che l’Anpav nei giorni scorsi ha rivisto la sua posizione passando da un no deciso al sì, alcune rigidissime posizioni stanno fortemente scricchiolando.

di Alitalia una lettera aperta dal titolo “Continuate a volare con noi, continuate a volare Alitalia” nella quale viene sottolineato che la responsabilità di quanto è avvenuto è tutta della Cai e del governo e che il confronto deve riprendere con qualsiasi interlocutore, italiano o straniero, disponibile a una trattativa vera con tutti gli interlocutori sindacali.

Sempre in conferenza stampa i rappresentanti sindacali del fronte del no hanno annunciato di voler mettere a disposizione il proprio Tfr e una quota del proprio stipendio a supporto di “qualunque progetto serio e credibile per il rilancio dell’Alitalia”. Una cifra che dovrebbe aggirarsi sui 350 milioni di euro complessivi. Inoltre – secondo le stesse fonti sindacali – sono stati avviati concreti contatti con Lufhtansa ed Air France. «Che cosa dobbiamo fare di più? – dice a liberal Antonio Di Vietri, presidente della più grande associazione di assistenti di volo (oltre mille iscritti), l’Avia – Abbiamo detto a Lufhtansa e ad Air France che siamo disposti a sottoscrivere i loro contratti per piloti e assistenti di volo con una decurtazione del 30 per cento dei nostri stipendi». Ma le due compagnie di bandiera – sostiene Di Vietri – non si muoveranno finché il governo non rivedrà la propria posizione negativa nei confronti di interventi stranieri. «Il problema – prosegue il rappresentante dell’Avia – è che il piano della Cai è stato redatto da bravi professori laureati alla Bocconi, ma che non sanno qual è la differenza tra un Boeing 767, un Md 80 e un Airbus». Ma queste obiezioni non potevate farle in sede di trattativa? «Ma chi li ha mai visti quelli della Cai? – risponde Di Vietri – Noi non abbiamo avuto nessun incontro. Abbiamo ricevuto un fax e basta. Hanno voluto incontrare solo Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Air France e Lufhtansa sono molto interessate e aspettano soltanto che il governo non dimostri ostilità di fronte ad altre offerte, anche straniere». Anche sui privilegi il presidente dell’Avia ha qualcosa da ridire. «Vogliono che andiamo in aeroporto con i mezzi pubblici? – dice Di Vietri – Ci provino loro a imbarcarsi in un volo per Buenos Aires partendo con un valigione e prendendo un tram a mezzanotte e quaranta». Di opposto avviso l’Ugl. Il segretario del settore trasporti, Roberto Panella, spiega a liberal che «il fronte del no sta cedendo. Ormai molti lavoratori si rendono conto che la politica delle associazioni autonome li porta verso il baratro». Nonostante circolino voci su una possibile cordata straniera, l’Ugl resta scettica. «Non esiste nulla», replica Panella. E riguardo al fatto che piloti e assistenti di volo vogliamo investire il Tfr con una sorta di azionariato in una nuova compagnia, l’Ugl si mostra diffidente. «Già in passato l’Anpac ha preso iniziative similari – dice Panella – e sono andate tutte a rotoli».

La frattura all’interno dei lavoratori di Alitalia è sempre più profonda: ognuno rimprovera all’altro il fallimento, ma la trattativa resta chiusa

re abruzzese e Corrado Passera. Il quale, nonostante la regola del banchiere lo vietasse, è stato tra i pochi, a parte Colaninno, a rilasciare dichiarazioni nell’immediatezza della rottura della trattativa per rammaricarsi della conclusione negativa. E questo ci fa comprendere quanto l’ex ad delle Poste tenesse a una chiusura positiva, sia per il tempo e l’impegno investito nell’operazione, sia perché altrimenti a Ca’de’Sass qualcuno potrebbe cominciare a storcere la bocca per un’impresa che ha visto impegnati Passera e Micciché per così tanto tempo. Insomma, malgrado qualcuno voglia sfilarsi, la Cai è viva e lotta insieme al governo per la soluzione casalinga nella crisi di Alitalia. Ma non è escluso che alla fine, se si andrà a stringere, qualche “pezzo” possa rimanere per strada. Una cosa è certa: i portavoce della cordata non credono all’ipotesi che qualcuno possa presentarsi e soffiargli l’affare. Le voci su un interessamento di Lufthansa vengono considerate né più né meno che un gioco delle parti delle rappresentanze sindacali e della poli-

Ieri mattina a Fiumicino quelli che vogliono firmare l’accordo – soprattutto lavoratori di terra - hanno dato vita a una manifestazione con slogan contro i piloti che sono i più fermi del fronte del no. Insomma, si sta frantumando la corazzata dei nove sindacati che ora sembra si riduca a otto sigle. Proprio ieri, infatti, l’Unione piloti – per voce del suo presidente, il tica per spingerli a tornare al tavolo concecomandante Massimo dendo qualcosa. E il governo sembra penNotaro - ha annunciasarla allo stesso modo: «Nessuna ipotesi to che presto si unifitedesca o francese sul piatto», ha detto il cherà con l’Anpac, ministro Altero Matteoli. «Allo stato c’è sodando vita a una sola lo la Cai. Solo se le sigle firmano... Allora, associazione sindacaa quel punto, si può tentare di riallacciare. le di piloti. UfficialTutte quante, poi se ne manca una pazienmente, dice Notaro, za, ma sicuramente la Cgil deve esserci». per difendersi «dalE intanto c’è anche chi, come Ugo Arrigo – l’attacco che si fa alla professore di politica economica all’Uninostra professione». versità di Milano Bicocca – non crede al Molto più realisticapiano industriale della cordata capeggiata mente per avere un da Colaninno, almeno per quanto riguarda maggior peso politico i numeri presentati ai media: «Prevede ri(oltre 900 gli iscritti duzioni di aerei e personale – si legge a sua all’Anpac, oltre 300 firma sul blog dell’Istituto Bruno Leoni – e, quelli all’Unione piloti insieme, 28 milioni di passeggeri nel primo su circa 2100 piloti in anno, trasportati da appena 137 aerei. Un attività). aumento di produttività del 58%». «Se così Nel corso di una confosse - conclude Arrigo - Air France e ferenza stampa ieri, i Lufthansa dovrebbero cedere le loro polpresidenti di Anpac, trone a Colaninno e Sabelli, visto che la Unione piloti, Avia e il nuova Alitalia farebbe meglio di tutti e due coordinatore dell’Sdl i giganti dell’aria con tanti anni di impresa hanno anche anticipaalle spalle». to che verrà distribuita a tutti i passeggeri


pagina 10 • 23 settembre 2008

economia

Il piano di Bernabè. Accordo con i sindacati sui tagli occupazionali: in mobilità 3.700 persone

AncheTelecomva Anche Telecomva alla guerra di Alessandro D’Amato

ROMA. L’unico passo avanti è stato aver evitato una guerra sindacale. Non poco nei giorni del caos Alitalia e in vista di un piano industriale ancora fumoso – sul quale non mancheranno dissensi tra gli azionisti i soci in vista – e di un possibile riassetto societario. Nella notte tra giovedì e venerdì, mentre le lame degli scioperi si affilavano, è arriva-

ta la notizia dell’accordo sui 5mila tagli previsti e decisi dall’amministratore delegato Franco Bernabè. Saranno tutti su base volontaria maggiorata al 90 per cento dell’ultima retribuzione (chi accetterà l’esodo conserverà anche l’assistenza sanitaria integrativa). Gli esodi verranno bilanciati da una contropartita di 600 assunzioni nell’area della rete e dalla stabilizzazione di 300 lavoratori che hanno più di un contratto di somministrazione e dall’allungamento da quattro a sei ore dell’orario di lavoro dei dipendenti di Telecontact.

Il paragone con Alitalia si può fare già partendo dai protagonisti dell’accordo: Fabrizio Solari, segretario confede-

degli altri confederali, ha di fatto dato il suo assenso solo alla vertenza occupazionale, ma non al piano industriale.

L’azienda ha anche garantito di non ricorrere a mobilità territoriali che non siano volontarie così come di rispettare gli skill professionali oltre che gli specifici piani formativi con un’erogazione entro fine anno di almeno un milione di ore di nuova formazione. La riduzione totale sarà di 3700 risorse umane: qualcosa in meno di quanto prospettato da Bernabè, ma una cifra comunque imponente per i risparmi che comporterà. Ma è sul nuovo piano industriale che Telecom si gioca l’avvenire. L’azienda da un lato ha l’obiettivo di riportare il debito a valori nella norma – considerando il livello d’indebitamento medio delle aziende di Tlc europee e le sue dimensioni – dall’altro si trova di fronte la moral suasion dei regolatori, i quali chiedono parità d’accesso per tutti i concorrenti alla rete e maggiori investimenti su quella Next generation network che, mentre per le maggiori imprese europee è in cantiere, da noi rischia di trasformarsi in una chimera.

Gli esodi saranno bilanciati da 600 assunzioni, dalla stabilizzazione di 300 lavoratori e da orari più lunghi per i dipendenti di Telecontact rale della Cgil, che è stato in prima linea anche nella trattativa per la compagnia di bandiera, dice: «Siamo coscienti che per Telecom restano aperte grandi incertezze per il futuro. Tuttavia se questo metodo venisse confermato, riteniamo che ci siano margini per fare un lavoro utile per i lavoratori e per il Paese». Ma come per Alitalia la Cgil, a differenza

La cessione delle quote di Tim Brasile per liberarsi degli spagnoli di Telefonica

Si punta sui fondi sovrani arabi e sullo scorporo della rete di Giuseppe Failla

ROMA. Il prossimo consiglio di amministrazione di Telecom Italia dovrebbe segnare l’inizio di quella discontinuità rispetto al recente passato, anche della gestione di Franco Bernabè, che molti azionisti chiedono ormai da tempo. Il Cda, secondo quanto si apprende, dovrebbe avviare il progetto di scorporo della rete. Si ipotizza uno spin off dell’infrastruttura in una società ad hoc, nella quale poi i soci di Telecom Italia potrebbero fare entrare investitori istituzionali. Il nome più gettonato è quello di F2I, il fondo infrastrutturale guidato da Vito Gamberale. Inaugurato in pompa magna dall’ex ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, che voleva fosse la colonna per il rilancio delle infrastrutture, il veicolo è rimasto sostanzialmente inattivo. Lo scorporo della rete non soltanto libererebbe risorse in grado di alleggerire la posizione debitoria di Telecom, ma farebbe diminuire in maniera sensibile le pressioni politiche sulla società. Era stato proprio il destino della rete uno dei motivi che avevano portato il governo Prodi a dichiarare guerra alla passata gestione di Telecom Italia,

Anche perché il prezzo da pagare per un investimento come la Ngn è tra gli otto e i 15 miliardi di euro – ammortizzabili in più anni – e nelle condizioni date diventa difficile. Ma dopo le sollecitazioni arrivate da Bruxelles anche Antonio Calabrò, presidente dell’autorità per le telecomunicazioni, è stato chiaro: «Telecom deve scommettere sullo sviluppo delle infrastrutture attraverso un piano organico di interventi che incentivi le reti di nuova generazione. Tutto per non perdere i vantaggi competitivi di un mer-

fino a portarla a passare la mano. Gli osservatori più smaliziati sottolineano come la separazione della rete rende meno complessi progetti che finora avrebbero incontrato il fuoco di sbarramento di molta parte del mondo politico italiano. In particolare l’eventuale integrazione fra Mediaset e Telecom Italia, difficilissima sul piano politico, avrebbe qualche possibilità in più una volta che la rete sarà fuori dal perimetro di Telecom. Sia in ambienti Telecom sia in ambienti Mediaset si continua a ripetere che il dossier per l’integrazione è “vecchio” e che una sua riproposizione sia da escludere. L’integrazione fra le due aziende viene ancora ritenuta la scelta migliore per massimizzare i punti di forza dei due gruppi minimizzando, al contempo, i rispettivi limiti industriali e finanziari. Al momento le maggiori novità nell’azionariato dovrebbero essere rappresentate dall’ingresso, nel breve termine, di fondi arabi in Telecom Italia. Si parla di fondi del Qatar, del Kuwait e libici. Alcuni ipotizzano che gli acquisti possano avvenire direttamente sul mercato in modo da sostenere il titolo


economia

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mobile. Anche su questo versando stanno ragionando in Telecom: vero è che Benetton sta facendo la stessa cosa con Dmt per Autostrade – e la famiglia di Ponzano Veneto è una dei soci di riferimento di Telco – ma è anche vero che i margini di guadagno sulla rete fissa si vanno via via assottigliando, mentre quelli della mobile no.

Anche perché il management ha ben

cato – quello della telefonia italiana – che dopo i successi colti in termini di crescita e di calo delle tariffe (-0,4 per cento nel primo semestre) potrebbe ora conoscere una seria battuta d’arresto». Ovviamente sul cosa sono tutti d’accordo: è sul come che c’è dissenso. «Gli impegni presentati da Telecom all’Agcom sono insufficienti perché comprendono una serie di obblighi già previsti - ha detto l’Ad di Vodafone, Paolo Bertoluzzo durante un’audizione alla commissione Trasporti e Comunicazio-

e dare respiro anche ai piccoli azionisti, i quali hanno visto arrivare il titolo all’impensabile soglia di un euro. L’arrivo dei fondi sovrani arabi, inoltre, non soltanto sarebbe visto di buon occhio dal governo, soprattutto dopo la pace siglata fra Berlusconi e Gheddafi, ma anche da molti azionisti della stessa Telecom, primi fra tutti i Benetton. Le recenti turbolenze finanziarie infatti hanno rallentato la nascita del progetto Sintonia, la holding lussemburghese nella quale sono confluite le partecipazioni infrastrutturali del gruppo Benetton (compresa Telecom Italia). Il progetto prevedeva la creazione di un azionariato che comprendesse realtà finanziarie forti nei diversi continenti in modo che potessero portare non solo capitali ma anche know how e contatti tali da consentire a Sintonia di replicare all’estero il modello di investimento infrastrutture in tre aree: aeroporti, autostrade e stazioni ferroviarie. Finora nell’azionariato di Sintonia sono entrati Mediobanca, Goldman Sachs e il fondo Gic di Singapore. Per completare l’azionariato i Benetton cercano un investitore forte

ni della Camera -. È necessario e urgente una separazione della vecchia rete, altrimenti ne uscirà penalizzata la concorrenza: bisogna seguire il modello inglese, ossia l’Open Reach con una separazione strutturale della rete».

chiara una cosa: «Per realizzare le reti di nuova generazione sono necessarie nuove soluzioni: un accordo tipo New Deal tra operatori, governi e regolatori per portare adeguati incentivi agli investimenti e per stimolare la concorrenza», come ha detto Bernabè durante un convegno la scorsa settimana. Ma se le parole sono pietre, è anche vero che qualcuno non è assolutamente d’accordo con quanto potrebbe accadere. Gli spagnoli di Telefonica hanno già dimostrato, con le parole ed i fatti, di non essere assolutamente d’accordo con questa soluzione. Ma il 25 settembre, il giorno della convocazione del Cda, Bernabè la proporrà lo stesso. A quel punto Alierta può smarcarsi, ma incasserebbe una minusvalenza dalla cessione delle azioni, visto il prezzo in Borsa. Oppure può spingersi più in là, chiedendo la testa dell’Ad. Nel frattempo le cose in Telco sono cambiate: i Fossati, che sembravano i più sbrigativi nella ricerca di soluzioni, sembrano aver mutato idea; le banche non spingeranno mai per una soluzione che va contro gli interessi del governo (Berlusconi e Scajola sono stati chiari: non si vuole svendere Telecom); gli altri soci industriali non hanno alcun interesse a inimicarsi chicchesia. Insomma, Alierta rischia di restare con il cerino acceso in mano.

Il 25 settembre sarà un giorno fondamentale per le strategie future che riguardano soprattutto le reti

Poi c’è un’altra questione, appena sollevata: quella dello scorporo – e della vendita – delle torri di telefonia

dell’area mediorientale. In passato si marginalizzerebbe ulteriormente il era parlando del Fondo Mubadala di ruolo della società guidata da Cesar Abu Dhabi. Finora non se ne è fatto Alierta. Una prospettiva che gli spanulla anche perché le valutazioni di gnoli vorrebbero evitare. Borsa delle partecipate di Sintonia, in I mediatori di Alierta hanno proposto particolare di Atlantia, sono calate, alle varie forze in campo, politiche e inrendendo fuori mercato il prezzo del- dustriali, di trattare l’uscita della sol’aumento di capitale che i soci do- cietà conferendo agli spagnoli la convrebbero sottoscrivere per entrare nel- trollata Tim Brasil. L’ipotesi finora non la holding. L’ingresso di un fondo so- sembrerebbe essere stata presa in convrano arabo direttasiderazione dal managemente in Telecom poment. Fino a qualche metrebbe avvantaggiare le se fa l’uscita dal Brasile trattative per l’arrivo di era un’opzione impensaun suo omologo anche bile per Telecom visto che la controllata carioca è in Sintonia. Sullo sfondo, inevitabilstata a lungo l’asset maggiormente redditizio del mente, rimane l’insoddisfazione di Telefonica. Il gruppo. Oggi il mercato socio di maggioranza di brasiliano sembra essere vicino alla saturazione Telco, la holding che che il mercato italiano controlla il 23 per cento sperimenta da anni. L’ucirca di Telecom, da temscita dal Brasile per conpo chiede di potere crecentrarsi su mercati in scere nella società itaNella pagina a fianco forte crescita come quelli liana, richiesta che gli è l’amministratore delegato mediorientali potrebbe stata sempre negata. Il di Telecom Italia, Franco coinvolgimento di altri Bernabé, sopra il presidente essere, a questo punto, partner forti in Telecom una scelta strategica. di Telefonica Cesar Alierta

Dopo le comunicazioni, ci ha provato con Alitalia

Due aziende nel segno di Colaninno di Gianfranco Polillo litalia-Telecom: la presenza di Colaninno non è la sola analogia. Ieri alla testa dei “capitani coraggiosi” che conquistarono la compagnia telefonica; oggi presidente della Cai: la società che avrebbe dovuto garantire il rilancio della compagnia di bandiera e artefice di un processo politico ancora più ambizioso. La ricomposizione dell’establishment economico italiano, dopo anni di guerre e lacerazioni. In entrambi i casi, questa è la seconda analogia, un processo travagliato lungi dall’essere concluso. Anche se le difficoltà sono naturalmente diverse. Per Telecom, tuttavia, nonostante le somme investite per conquistarne il controllo, il decollo industriale non è ancora avvenuto. Né è bastata la presenza di un partner forte e affidabile, come Telefonica, per invertirne la deriva. Problema su cui riflettere. Quando Epifani invita Fantozzi a cercare nuovi “cavalieri bianchi”per salvare Alitalia, dobbiamo sapere che questa condizione, seppure necessaria, non è sufficiente. Allo sforzo imprenditoriale deve accompagnarsi una disponibilità più ampia – piloti in testa – e la consapevolezza che la ricreazione è finita. Per Telecom è la stessa cosa. Troppe, almeno finora, le incertezze. Il ritorno di Franco Bernabè, alla testa dell’azienda, è stato importante. Ma da solo non è bastato. I problemi sono soprattutto di natura industriale, in un mercato iper-dinamico, come quello delle telecomunicazioni. Come spesso capita nei periodi di rivoluzione industriale è l’industria stessa che crea nuovi bisogni. Le forme di comunicazione si integrano e si diffondono, grazie alla semplificazione dei linguaggi e l’uso di apparecchi sempre più accattivanti. Ma quello che ancora manca in Italia è l’esistenza di una rete a banda larga in grado di consentire volumi di traffico adeguati alle esigenze della moderna comunicazione. Una rete di nuova generazione – non a caso il suo nome è Ngn - Next Generation Network capace di dilatarne il carico dagli attuali 20 Mbit/sec ai 100 e oltre. Per realizzare questa infrastruttura occorrono finanziamenti adeguati – e bene ha fatto il governo a stanziare fondi nel decreto legge sulla manovra – ma questo, da solo, non basta. Telecom deve fare la sua parte adeguando progressivamente la sua struttura organizzativa e gestionale alle nuove esigenze del mercato.

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In Iraq, nel nome di una oscura «resistenza», si sta consumando un massacro continuo di cervelli e professioni. Uomini liberi che puntando solo alla rinascita del loro paese vengono uccisi da assassini senza volto. Il massimo scrittore iracheno racconta la sua terribile esperienza a libertà di uccidere, questa è la licenza che si sono presi i terroristi nell’Iraq di oggi. Si tratta di una sistematica eliminazione dei cervelli, dell’intelligenza del paese e della cultura millenaria nella culla della civiltà. Stanno uccidendo il pensiero illuminato di alcuni simboli del progresso e delle libertà che, per la valutazione di queste organizzazioni criminali, potrebbero costituire un pericolo. L’integralismo religioso teme la cultura, teme la laicità e considera la democrazia un sistema occidentale in grado di garantire la libertà che, in fondo, è il suo nemico più temuto.

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L’avevano ucciso a sangue freddo. Avevano sparato, con un solo colpo alla testa e a tradimento, al mio povero fratello. Era il sesto avvocato ad essere ucciso in quella maledetta settimana: la prima di settembre. Il giorno seguente a quella esecuzione avevano assassinato un magistrato e un medico anestesista cristiano. Li avevano eliminati come tanti altri, soltanto perché facevano il loro dovere da cittadini coraggiosi. Non volevano abbandonare la loro terra e la loro gente al loro destino. Quando gli chiedevamo perché non vieni da noi in Europa, mio fratello rispondeva: «Non ho paura perché non ho mai fatto del male a nessuno. Questa è la mia patria, questo è il mio popolo e non mi ne vado». Il volto del suo assassino è di sangue, il suo volto è fatto di odio. Non si sa chi era e perché l’avesse fatto, ma rimarrà per sempre un vigliacco che si nasconde dietro una maschera come tutti gli assassini. Ancora oggi, nessuno è riuscito a definire bene che cosa sia la resistenza irachena e nemmeno a sottolineare il suo vero profilo e i suoi obiettivi politici. Insomma di quale resistenza si parla? È la domanda che s’impone anche tra la gente nei paesi arabi e tra le persone più ostili alla politica degli Stati Uniti d’America. Resistere all’occupazione quando tutto conferma che la presunta lotta

per liberare il paese è una operazione politica per conto di paesi terzi che intervengono direttamente e indirettamente per salvaguardare i loro interessi e per paura che il nuovo Iraq, stabile e democratico, possa destabilizzare i loro regimi.

In Iraq si muore tutti i giorni e la maggior parte delle vittime sono tra le popolazione civile, proprio quella povera gente che aveva già pagato un caro prezzo per causa della sciagurata politica del dittatore Saddam Hussein e delle sue avventure, delle frequenti guerre, del-

vi racconto come

hanno ucciso mio l’autore

Younis Tawfik è nato a Mosul (Ninive), in Iraq. Nel 1979 si è trasferito a Torino. Attualmente insegna Lingua e Letteratura araba presso l’Università di Genova. In Italia, con Bompiani, ha pubblicato tre romanzi: «La straniera», 1999, «La città di Iram», 2002, e «Il profugo», 2003, vincitore del premio Grinzane Pavese nel 2006. inoltre, è autore di poesie e di numerosi saggi sulla cultura e sulla letteratura araba, nonché si una monografia su Saddam Hussein.

l’embargo, e della caduta del regime. Le notizie dicono che chi spara non ha volto né nome, tutti contro tutti e nessuno lo fa per il bene dell’Iraq. Ammettiamo che qualcuno abbia ragione di combattere, per la liberazione del paese e per costituire uno stato democratico e libero, allora perché vengono uccisi avvocati, magistrati, medici e professori universitari e senza motivo, se non quello politi-

di Younis Tawfik

co? Il processo verso la democrazia e la libertà passa attraverso un serio e pacifico lavoro di dialogo, di ricostruzione dell’uomo e della sua dignità e della nazione intera che oggi è al limite del collasso. Il cittadino iracheno ha bisogno di rinascere, di sentirsi libero, di essere reinserito nella società internazionale, di riavere la sua dignità e di vivere in pace e soprattutto di avere i suoi diritti nel rispetto della sua stessa esistenza. Pare che la cosiddetta resistenza irachena non rispetti nessuno di questi principì per il semplice fatto che non ha voluto inserirsi nel processo per la riappacificazione per portare il paese verso la libertà e la democrazia senza l’inutile e dannosa violenza.

Quanto può giovare alla causa dell’Iraq rapire le persone o sequestrare bambini senza colpa per poi morire con loro o sgozzarli o chiedere riscatto o peggio ancora uccidere gli innocenti con la scusa di colpire il sistema? La violenza avanza aggressiva

in questi giorni nel Medio Oriente durante questo mese di Ramadan e l’Iraq è la vittima favorita. Militanti del defunto partito Baath cercano di rimetterlo in piedi sotto altri titoli, nazionalisti, islamici e altri cercano di occupare i loro spazi nella tempesta della morte che sta devastando quella terra. In mezzo a questa palude di violenza bazzicano gruppi di estremisti islamici stile Al Qaida che definisce chiunque lavora, frequenta o sta in prossimità degli occupanti un Kafir, ovvero “miscredente”ed è lecito ucciderlo; agiscono nel buio, non hanno volto e sono spietati.Tutto fa capire che si tratta di un gruppo che mira soltanto ai suoi interessi e non distingue

tra gli obbiettivi da colpire. Uccidere un solo iracheno, chiunque esso sia, non salva il paese dal precipizio e dal degrado e non lo libera dall’occupazione e nemmeno dalla dittatura.

Purtroppo questa violenza è anche frutto di fatwa o «sentenze religiose di carattere giuridico» e di infuocati discorsi che certi Imam e uomini religiosi di prestigio diffondono attraverso canali satellitari per confondere giovani entusiasti e alcuni arrabbiati e scontenti facendo loro credere che combattere contro le truppe di occupazione in Iraq è lecito ed è un dovere religioso. Quanto sta accadendo nel mondo dovrebbe spingere noi

Ancora oggi, nessuno è riuscito a definire bene che cosa sia la ”resistenza” e nemmeno a capire il suo vero profilo e i suoi obiettivi politici. Insomma di che cosa si parla? È la domanda che s’impone anche tra la gente nei paesi arabi e tra le persone più ostili alla politica degli Usa


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Gli scontri tra forze Usa e leader iracheni alla base delle violenze

Una terribile scia di sangue sulla rinascita di Bagdad U

o fratello “

Come si fa a risolvere con la violenza il nodo della sicurezza, della pacifica convivenza tra correnti politiche e religiose opposte? E come conciliare con la morte la ricostruzione, il ripristino dell’industria e delle infrastrutture e il bisogno di non far nascere una Repubblica islamica in un paese laico? mussulmani a meditare sul grosso danno che sta subendo la nostra fede e la nostra causa.

Di certo abbiamo tanto da lamentare con i due pesi e due misure che l’Occidente usa in merito ad alcuni problemi che ci stanno a cuore ma di certo la violenza e il terrorismo e soprattutto quello rivolto contro persone inermi non giova a risolvere né ad avere la simpatia dell’opinione pubblica internazionale in questi paesi. Se la resistenza irachena, ad esempio, ha delle ragioni, oggi in Iraq e contrariamente a ieri, ha davanti a sé tutti i mezzi che la libertà potrebbe offrire per far conoscere le sue pretese e le sue ragioni. Come si fa a risolvere il grande nodo della sicu-

rezza, la pacifica convivenza tra correnti politiche e religiose che stanno all’opposto, l’intervento esterno nella politica del paese, la ricostruzione e il ripristino dell’infrastruttura e dell’industria e, infine, resistere a chi vuole far nascere una repubblica islamica in un paese che era tra i più laici tra i paesi arabi, con la violenza e l’assassinio gratuito di persone che potevano far rinascere la nazione? Chi vuole il bene dell’Iraq è invitato a portare pace e benessere in un paese imbottito di armi e di odio. La maggioranza dei suoi abitanti chiede di potere vivere in pace e ha bisogno della sicurezza per far rinascere quella terra. Gli iracheni sono stanchi di morire!

na coincidenza negativa, quella tra l’inatteso incremento del numero di morti di soldati americani in Iraq, in controtendenza con i risultati positivi degli ultimi mesi ottenuti dalla surge, e il cambio al comando delle Forze multinazionali nel Paese, passato dal generale Petraeus al suo parigrado Odierno. Dopo i 15 caduti registrati in luglio, il bollettino più ridotto dall’inizio delle operazioni in Iraq, negli ultimi due mesi, i soldati statunitensi sono tornati a morire: 22 in agosto, mentre per settembre siamo già a Certo, 17. non è nulla in confronto con quello che sta accadendo in Afghanistan e siamo ben lontani dai livelli di violenza a cui ci aveva abituato l’Iraq. Tuttavia, una ripresa degli episodi di violenza non può essere sottovalutata. E Washington deve stare attenta a non commettere errori.

ti di qualsiasi contrarietà irachena. Il fatto di averlo avuto come suo vice garantisce la continuità nella surge e permette allo stesso Petraeus, ora che va alla guida del Centcom, di lasciare il comando delle truppe in Iraq nelle mani di un suo uomo. Il punto principale sul quale Washington deve fare attenzione è il contesto politico. Perché è questo il settore, a rispetto quello militare, che potrebbe generare nuove preoccupazioni. La “dottrina Petraues” volta alla contro-insurrezione e alla pacificazione del Paese ha portato risultati positivi nell’ambito della sicurezza, ma non ha risolto le controversie politiche e istituzionali tra sunniti, sciiti e curdi nell’Iraq postSaddam. L’organizzazione “Figli dell’Iraq”, costituita da ex combattenti sunniti contrari alle truppe Usa, è sorta grazie a un nuovo dialogo tra il comando Usa e alcuni capi tribali. Questo ha permesso di creare una partnership operativa capace di contrastare tutte le altre realtà che facevano e fanno riferimento ad al-Qaeda.

Per la prima volta dopo molte settimane, il numero delle vittime fra i soldati americani ha ripreso ad aumentare. È il segno più evidente della nascita di ulteriori, nuovi conflitti fra la politica ufficiale e la voglia di normalità del paese

Già la scelta di Odierno, come successore di Petraues, non è stata immune da critiche e perplessità a Bagdad. L’alto ufficiale è ricordato in Iraq per il suo trascorso di comandante della 4° Divisione, quella che si rese responsabile delle operazioni più dure e violente nel “triangolo sunnita”, subito dopo l’ingresso delle truppe Usa nel Paese, nel marzo 2003. D’altra parte, è stato proprio Petraues a porsi di traverso nei confronSopra, due immagini di Bagdad. A fianco, il fratello di Younis Tawfik, assassinato dalla “resistenza” irachena

Ma come contrappeso a questo successo, si resta in attesa di definire quel compromesso politico - tra sciiti al governo, alcune realtà sunnite nuovamente affiancate agli Usa e il Kurdistan sempre più autonomo - che determini l’effettiva legittimazione delle istituzioni centrali. Quello che manca è la normalizzazione della politica nazionale. Infine, c’è il rischio di sedersi sugli allori. Eventualità che un qualunque successo può provocare. L’incremento dei morti, quindi, va tenuto a bada. Onde evitare che assunto il controllo della sicurezza, questo venga nuovamente meno perché la concentrazione è tutta per la politica. *Analista Ce.S.I.


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mondo

Il bilancio è di una vittima e cinque feriti gravi. Zapatero annuncia la linea dura: il terrorismo non vincerà mai

Nuovo colpo dell’Eta: tre attentati di Massimo Ciullo Eta ha ripreso in grande stile la sua offensiva terroristica contro obiettivi militari e civili nel Paese Basco. Tra la notte di sabato e quella di lunedì, i separatisti hanno portato a segno tre attentati dinamitardi, l’ultimo dei quali ha provocato la morte di un soldato e il ferimento di altre sei persone. La terza autobomba, in ordine di tempo, è esplosa nel nord-ovest della Spagna, a Santona, città costiera della comunità autonoma della Cantabria, nei pressi dell’Accademia Militare “Virgen del Puerto”. Una telefonata anonima alla sede del soccorso stradale ‘Dya’ a San Sebastian ha annunciato in anticipo l’attentato, ma l’ordigno nascosto in un’automobile parcheggiata vicino all’edificio militare è esploso mentre era ancora in corso l’evacuazione. Luis Conde de la Cruz, 46 anni, è stato investito in pieno dall’onda d’urto della bomba, mentre insieme ad un suo commilitone, rimasto gravemente ferito, cercava di fuggire dalla porta principale dell’Accademia. Altre cinque persone che si trovavano a passare nella zona dell’esplosione sono state ricoverate e curate per ferite lievi. A giudicare dal cratere provocato dall’esplosione, gli artificieri intervenuti sul posto ritengono che la carica esplosiva fosse formata da almeno cento chili di tritolo. Più o meno la stessa quantità usata per la prima vettura saltata in aria verso la mezzanotte fra sabato e domenica accanto a un’agenzia della banca Caja Vital di Vitoria, capoluogo della regione autonoma basca, che fortunatamente non ha causato vittime.

L’

All’alba di domenica è stato colpito invece il secondo obiettivo: un commissariato della Ertzaintza (polizia autonoma basca) a Ondarroa, località della provincia di Vizcaya, che ha provocato il ferimento di undici persone. L’attacco alla banca di Vitoria era stato prean-

A fianco e sopra, l’autobomba esplosa a Santona, nei pressi dell’Accademia militare. Si tratta di uno dei tre attentati siglati dall’Eta nel corso dell’ultimo fine settimana. La vittima è stata investita dall’onda d’urto della bomba, esplosa durante l’evacuazione nunciato con una telefonata anonima di avvertimento. Nessun avviso invece per l’attentato alla caserma della polizia. Stando agli inquirenti spagnoli, gli attentatori avrebbero cercato di provocare una strage lanciando una bottiglia incendiaria per attirare i poliziotti sul posto dove pochi istanti dopo si è verificata la deflagrazione. Il ministro dell’Interno, Alfredo Perez Rubalcaba e la responsabile della Difesa, Carme Chacon, si sono recati immediatamente in Cantabria. Il premier socialista Josè Luis Rodriguez Zapatero, impegnato nella chiusura del Congresso del suo

partito in Castilla e Leon, ha detto che «lo Stato spagnolo non retrocederà di un millimetro» di fronte all’Eta. Il leader del Psoe ha ribadito che sarà l’Eta a doversi arrendere e che «l’unico destino per tutti i terroristi è il carcere». Il segretario dei popolari, Mariano Rajoy, ha assicurato che l’opposizione è «al fianco del governo» nella lotta contro il terrorismo. Il leader conservatore ha però colto l’occasione per lanciare una frecciatina al primo ministro, ricordandogli che gli “esperimenti” e i “negoziati” sono serviti «solo a ritardare la sconfitta» dell’organizzazio-

ne armata. «Questa battaglia – ha concluso Rajoy – si vincerà solamente grazie agli spagnoli e allo Stato di diritto, e ciò succederà presto». Dopo il fallimento della soluzione negoziale pervicacemente sostenuta da Zapatero durante il suo primo mandato, l’Eta ha ripreso la sua strategia terroristica, nonostante l’ondata di arresti e detenzioni che hanno portato in carcere, nel volgere di pochi mesi, i suoi vertici politici e militari.

Gli attentati dell’ultimo fine settimana sono la risposta di un gruppo di irriducibili, che ha limitato il suo raggio d’azione alla regione basca, alle ultime decisioni della magistratura spagnola. Nel giro di una settimana il Tribunale Supremo di Madrid ha dichiarato fuori legge due formazioni del nazionalismo radicale basco: l’Anv (Azione nazionalista basca) e il Pctv (Partito comunista delle terre basche), che puntavano a succedere a Batasuna, come esponenti del braccio politico dei separatisti. Inoltre, l’Audiencia Nacional ha condannato per favoreggiamento ventuno appartenenti di Gestoras Pro Amnistia, un’organizzazione che si batte per trasferire i detenuti dell’Eta dalle carceri spagnole a quelle basche. Il Pnv, la formazione dei nazionalisti moderati alla guida del governo regionale, pur condannando gli attentati dell’Eta, si prepara a presentare un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, contro la bocciatura del governo di Madrid di un referendum per l’autodeterminazione.


mondo

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L’impervia zona del Gebel Uwainat nel deserto al confine tra Egitto, Libia e Sudan dove sono stati sequestrati i cinque turisti italiani che erano con cinque tedeschi e una rumena oltre a otto accompagnatori egiziani. Nella foto sotto, una delle grotte dell’area archeologica di Kark Talj che era la meta dell’escursione

segue dalla prima Il rapimento dei cinque italiani e degli altri turisti che avevano deciso di visitare una delle più affascinanti zone del deserto egiziano, ai confini con Sudan e Libia, è soltanto l’ultimo anello di una catena di azioni che ha colpito la più florida industria del Paese e che ha fatto centinaia di morti e di feriti nei luoghi di maggiore attrattiva turistica. Il primo attentato che provocò anche una vittima italiana è del 26 ottobre del 1993: all’hotel Semiramis del Cairo furono uccisi il nostro connazionale, due americani e un francese.Tre anni dopo, 18 turisti greci furono massacrati di fronte all’hotel Europa, nei pressi delle piramidi di Giza, e quell’attacco fu rivendicato dalla Jamaa al Islamiyya. Il 18 settembre del 1997 nove tedeschi furono uccisi da una bomba lanciata contro il loro autobus di fronte al museo egizio. Lo stesso anno altre 62 persone, tra le quali 58 stranieri, morirono in un attentato a Luxor. Una interminabile scia di sangue che arriva fino alle più recenti azioni terroristiche che dai luoghi del turismo archeologico si sono spostate verso le località vacanziere del Mar Rosso. Il 7 ottobre del 2004 trentaquattro persone, tra le quali due ragazze italiane, furono uccise dall’esplosione di tre bombe a Taba. E il 23 luglio del 2005 le vittime furono 70, tra le quali sei turisti italiani, a Sharm el Sheikh. L’ultimo attentato sul Mar Rosso è quello del 24 aprile 2006 a Dahab dove tre esplosioni colpirono i turisti che passeggiavano nel centro della cittadina: 23 i morti e 85 feriti, tra i quali tre italiani. L’elenco delle

Rapiti e liberati cinque italiani nel deserto tra Egitto e Sudan

È Mubarak l’obiettivo della guerra del turismo di Enrico Singer vittime della guerra del turismo è impressionante.

glio di un attentato con autobomba nel marzo del 2005. Attaccare il turismo per i fondamentalisti islamici significa creare le condizioni per rovesciare Hosni Mubarak che ha 80 anni e che - secondo notizie sempre smentite, ma ricorrenti - sarebbe in condizioni di salute delicate.

Ma i numeri non bastano per capire quello che sta accadendo nel Paese che, pur tra molte contraddizioni, si è schierato nel campo moderato, ha riconosciuto Israele ed è impegnato in una difficile partita contro il fondamentalismo islamico che, in Egitto, è rappresentato da un movimento, i Fratelli musulmani ogni giorno più forte. In passato i fondamentalisti hanno concentrato i loro attac-

I fondamentalisti puntano a fragilizzare il regime proprio nel momento in cui Mubarak sta preparando la successione del potere a suo figlio Gamal e

Le azioni dei predoni nomadi e quelle dei terroristi che colpiscono con le autobomba sono legate da un’unica strategia: mettere in crisi la principale fonte dell’economia per rovesciare il regime moderato del Cairo chi contro la minoranza cristiano-copta, contro gli intellettuali e i politici laici. Adesso l’obiettivo numero uno è il turismo con un doppio scopo: dimostrare che il regime di Mubarak non controlla il Paese e danneggiare l’economia del Paese. I Fratelli musulmani sanno benisimo che le loro idee non possono attecchire e crescere se non in presenza di una crisi economica sempre più pesante. E il turismo non solo è la principale voce attiva della bilancia

dei pagamenti egiziana: è - o, almeno, è stata a lungo - anche il volano di altri settori-chiave dell’economia perché quando si espande il turismo si costruiscono nuovi alberghi e nuovi villaggi di vacanze, prospera l’edilizia, l’industria del mobile, quella alimentare, e dei trasporti aerei, fluviali e terrestri. Prospera anche il piccolo commercio dei tanti suk delle città egiziane, a partire da quello di Khan el Khalili del Cairo che, non a caso, è stato anche bersa-

molti osservatori sono convinti che i prossimi mesi saranno ancora più sanguinosi. Nonostane il governo abbia messo in campo un grande apparato di sicurezza per difendere i turisti che si muovono sempre sotto scorta. È in questo scenario che si è consumato il rapimento-lampo dei cinque turisti italiani, tutti torinesi, tutti amici e abituali compagni di viaggi. Certo, questa vicenda ha le sue specificità. La prima è che il sequestro sarebbe avvenuto in territorio

sudanese. Ma il confine tra quella che era l’antica Nubia e l’Egitto non è nemmeno segnato sulle dune del deserto e la comitiva - i cinque italiani più altri cinque tedeschi, una rumena e otto accompagnatori egiziani tra autisti delle jeep e uomini di scorta - era partita da Assuan, la città più meridionale dell’Egitto meta obbligata per i turisti che visitano la zona archelogica del Nilo. Il gruppo voleva raggiungere Kark Talj, nella provincia di Wadi al Gadid, un’area remota del deserto famosa per i graffiti preistorici in alcune caverne , tra le quali c’è anche la ”caverna del nuotatore”resa celebre nel 1996 dal film Il paziente inglese del regista Anthony Minghella. È un luogo nel quale anticamente gli allevatori andavano a far bere gli animali dopo le rare piogge, ed è la porta per il Gebel Uwainat, la montagna di granito alta 1.934 metri. Qui, dalla Gola delle Acacie, si arriva al monumento che ricorda il principe Kamal el Din, antico esploratore arabo, che scoprì la regione. Tra le varie iniziative turistiche pubblicizzate anche in Internet, c’è anche il viaggio che aveva scelto la comitiva. L’ultimo contatto telefonico dei familiari di Lorella Paganelli, una delle tre donne del gruppo dei cinque italiani, c’era stato giovedì scorso, alla vigilia dell’escursione nel deserto che è cominciata venerdì e che, in quello stesso giorno, si è trasformata in un incubo durato fino a ieri sera quando, secondo fonti egiziane, i turisti erano ormai liberi e in viaggio verso il Cairo. Le stesse fonti hanno detto che i banditi avevano chiesto un riscatto di 6 milioni di euro che non sarebbe stato pagato.


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la polemica

Revisionismi. Per il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica (An) è un errore dimenticare il ruolo positivo del Risorgimento

La destra a Porta Pia di Riccardo Paradisi na volta la destra italiana era ghibellina e risorgimentale prima di essere cattolica: persino negli anni del lungo dopoguerra, quando patria e nazione erano parole oscene nel nostro Paese, la destra montava la guardia a quei principi che erano la sua carne e il suo sangue. E se qualcuno avesse detto a Giorgio Almirante e a Pino Romualdi che il 20 settembre di un anno a venire il comune di Roma, governato da un sindaco di destra, avrebbe commemorato la breccia di Porta Pia ricordando i nomi degli zuavi caduti in difesa del potere temporale del Papa re calando l’oblio su quelli dei quarantanove soldati italiani caduti per l’italia, i due grandi vecchi della destra italiana non ci avrebbero creduto.

U

Eppure è proprio quello che è avvenuto lo scorso 20 settembre a Roma nel 138 anniversario della breccia di porta Pia e dell’annessione dello Stato pontificio al regno d’Italia anche se a protestare per la poca sensibilità risorgimentale non è stata la destra: piuttosto i radicali di Marco Pannella e gli atei razionalisti organizzati in associazione, più interessati evidentemente alla polemica laicista che all’unità d’Italia. La destra italiana, quella che nella sua tradizione ha prima del concordato con la Chiesa cattolica, l’azione politica di Mazzini e di Cavour per l’unità d’italia è rimasta invece silente. Forse ne hanno abbastanza gli esponenti di An di polemiche sul revisionismo storico e c’è da capirli visto quanto è accaduto nelle ultime settimane. E così da fonti interne all’entourage del sindaco si minimizza: è stata lasciata ad altri la gestione dell’evento – si dice – il sindaco ha problemi più urgenti cui far fronte. E certo all’ordine del giorno non c’è nei problemi della Roma di oggi il potere temporale dei

Papi o il compimento del Risorgimento: ma i simboli hanno la loro forza e l’impressione che a destra si sia rotto un altro argine ha qualche fondamento. Per di più in un periodo, che ormai dura da qualche anno, in cui alla bandiera nazionale – spesso vilipesa – viene opposta quella padana, l’inno nazionale sempre criticato, le figure storiche del Pantheon nazionale sistematicamente rilette alla luce di un revisionismo anti-risorgimentale che precipita nel fango Giuseppe Garibaldi per esempio, (padre della patria si sarebbe detto una volta) mentre fa assurgere il brigante al rango di rivoluzionario e di patriota del Meridione oltraggiato dal piemontese invasore. Letture storiche, opinioni: ma se la destra non rivendica oggi nemmeno più la nazione che resterà di lei negli anni dieci del duemila? Quando la grande confluenza nel Partito della libertà inserirà questo settore della politica e della cultura italiana tra le famiglie che già compongono il centrodestra: la liberale, la socialista, la cattolica?Conviene in altri termini alla destra smobilitare sull’idea di na-

zione quando è proprio questa idea che sembra tornare vincente e indispensabile in tempi di crisi della globalizzazione e di fase terminale delle utopie internazionaliste solo per un poco tenute in vita dall’apertura dei mercati dopo l’implosione del comunismo sovietico? Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri e deputato di Alleanza nazionale, è un pezzo di storia della destra italiana. Dirigente di primo piano del Msi, scuola romualdiana, solida cultura letteraria e politica, Mantica è uno dei pochi dentro An a dire «da cavouriano e da centralista» che il suo amico Gianni Alemanno, o chi per lui, «ha sbagliato a non ricordare che la destra è il partito dello Stato e del Risorgimento di Sonnino e di Mosca, di Gioberti di Federzoni».

Tutto quello che si fa per mettere in discussione il Risorgimento è fuori luogo soprattutto in un momento in cui è finita la sbornia della retorica contro lo Stato-nazione. La storia torna a dare ragione a questa destra». Ma l’analisi di Mantica va oltre il merito storico quan-

di questi ultimi episodi legati all’identità di An. «Io temo che queste sortite siano dei richiami della foresta interni prima della confluenza nel Pdl. Richiami tesi a serrare le fila per entrare allineati e coperti dentro uno spazio politico nuovo dove non si vedono ancora be-

spetto che ha i suoi terminali nello storico del medioevo Franco Cardini e nell’associazione Identità europea. Ma queste spiegazioni non eliminano lo spaesamento all’interno di quella che una volta era la destra nazionale, che sembra aver lasciato a Marco

«La destra è il partito dello Stato e del Risorgimento: di Sonnino e di Mosca, di Gioberti e Federzoni. Sbagliato dimenticarlo» do il sottosegretario, anche a proposito delle esternazioni sulla Rsi del ministro della Difesa Ignazio La Russa e dello stesso sindaco di Roma Alemanno sul fascismo, offre una chiave di lettura più politica

ne gli equilibri che si andranno a creare». Ma quale sarebbe la foresta cui la destra capitolina nel caso delle celebrazioni del 20 settembre scorso avrebbe indirizzato il suo richiamo? All’interno di An c’è chi sostiene che la liason politica cementata durante l’ultimo meeting di Cl a Rimini tra il sindaco di Roma e il governatore della Lombardia Roberto Formigoni possa costituire parte di questa foresta, alla cui ideologia pensa da anni una task force intellettuale di tutto ri-

Pannella la difesa d’ufficio, nemmeno disinteressata, del Risorgimento italiano. E che in nome di un certo tradizionalismo guelfo tende a leggere questa pagina di storia nazionale come un complotto ordito da una cricca di massoni e di carbonari.

È che c’è forse un po’ di confusione, e non da oggi, sotto il cielo della destra italiana che in ogni parte d’Italia ondeggia tra patriottismo d’occasione e revisionismi filo-borbonici; disarmata di fronte a una criminaliz-


la polemica

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Difetti e vizi d’origine del Risorgimento

Quel mezzo dramma della presa di Roma di Filippo Maria Battaglia uella che passa come una data storica per la laicità dello Stato, in realtà fu un mezzo dramma per un’intera classe dirigente. La presa di Roma, conti alla mano, rappresenta al meglio difetti e vizi d’origine del Risorgimento. Sin dai suoi prodromi: nel settembre 1870, la battaglia di Sedan tra Francia e Prussia restituisce libertà d’azione all’Italia, costretta fino a quel momento a evitare qualsiasi intromissione fra le mura vaticane per l’occhiuta sorveglianza di Napoleone III.

Q

Caduto prigioniero quest’ultimo, l’opposizione parlamentare preme per la conquista di Roma. Il governo ha una posizione più attendista: dapprima nicchia, alla fine la asseconda.

A destra, un dipinto che rappresenta la presa di Porta Pia nel 1870. In alto, il complesso delle Mura aureliane. Nella pagina accanto, il monumento ai Bersaglieri davanti alla Porta

zazione del Risorgimento cui non reagisce nemmeno più con la lettura che uno dei suoi padri intellettuali, Gioacchino Volpe, contrappose a quella troppo unilaterale e ideologica di Benedetto Croce. Ovvero l’idea che il Risorgimento non segna la nascita della nazione italiana ma appunto il ri-sorgere di un’identítà nazionale preesistente che trova finalmente la realizzazione istituzionale della sua vocazione. Vocazione che ha già forma letteraria e unità linguistica a partire dai grandi poeti e scrittori della letteratura nazionale.

vatrice a quella repubblicana da quella cattolica a quella federalista. Dimenticarsene proprio oggi, celebrando solo la memoria, rispettabilissima, di chi in perfetta buona fede difese l’ultimo lembo del potere temporale della Chiesa – che nessun cattolico oggi sognerebbe di rimpiangere o di rivendicare – è una gaffe magari veniale, che però rivela come nella destra politica italiana la questione dell’identità resta ancora irrisolta.

Oggi nessun cattolico si sogna di rimpiangere il potere temporale della Chiesa e il suo assolutismo

Il Risorgimento – ricordava ancora Volpe – ha dato forma politica a questa koínè nazionale, e lo ha fatto con il contributo dell’azione e del pensiero di tutte le culture politiche della nazione: da quella conser-

A premere è il ministro delle Finanze Quintino Sella, seguito a breve distanza dal capo dell’esecutivo Giovanni Lanza. Nettamente contrario è invece il ministro della Guerra Giuseppe Govone, che di quella crisi risentirà persino a livello psicofisico, scontando un ricovero in una struttura ospedaliera e, insieme ad essa, la fine della propria esperienza politica. Lo stesso Vittorio Emanuele non è affatto entusiasta della decisione. Raccontano certe cronache d’allora di un sovrano che alle prime insistenze del governo avrebbe temporeggiato. Poi, pressato da un coro generale di attivismo, esausto, si sarebbe convinto, sbottando: «Anca custa balussada am fan fa!» («Anche questa sciocchezza mi fanno fare!»).

Una decisione più subita che voluta, dunque (almeno da parte della Corona), ma oramai inevitabile. Tanto che fino all’ultimo si decide di esperire un tentativo di conciliazione in cui Vittorio Emanuele, «con affetto di figlio e fede di cattolico» supplica Pio IX di desistere da ogni reazione. A compiere le prove di avvicinamento è il senatore Gustavo Ponza di San Martino, un nobile piemontese assai vicino alla corte. Ma non c’è niente da fare: il corpo di spedizione italiano, composto di poco più di 50mila uomini, varca i confini vaticani il 10 settembre. A guidarlo è il cattolicissimo Raffaele Cadorna che ha al suo fianco (e forse anche suo malgrado) due garibaldini doc nelle vesti di generali di divisione, Nino Bixio ed Enrico Cosenz. L’iniziativa non è affatto un blitz inaspettato, e infatti il generale deve persino accettare come codazzo una dozzina di giornalisti accorsi a seguire l’evento. Cadorna, va da sé, non ha nessuna intenzione di spargere sangue. Per questo, una volta giunto alle porte di Roma (è il 17 settembre), fa pure una breve sosta: spera così che il Papa issi bandiera bianca. Un’attesa lunga tre giorni, ma del tutto inutile. Il 20 settembre inizia l’attacco. Alle nove di mattina i cannoni hanno già aperto la breccia di Porta Pia, fendendola con uno squarcio lungo all’incirca una trentina di metri. Quella che doveva passare per una battaglia epocale, considerate le cifre di altri conflitti, sembra quasi una scaramuccia: le cronache riportano 49 morti e 141 feriti tra i militari italiani e 19 morti e poco meno di cinquanta feriti tra le milizie pontificie. E in quel di Roma, le stesse reazioni non sono affatto da tregenda: alla prima fase trascorsa in sordina, ne segue una di entusiasmo popolare, con l’arrivo in pompa magna dei bersaglieri.

Al netto di certe esclamazioni della stampa monarchica, che scriverà di «attacco all’infame tirannia sacerdotale», i romani dimostrano di essere molto più realisti di quanto si possa credere. A reggere il labaro della rivalsa papalina restano così in pochi: avvocati, notai, gran parte del patriziato e tutti i componenti del sottogoverno della Curia pontificia. In assenza di gesta da rievocare, la battaglia storica della laicità dello Stato diventa subito un feticcio. E tale rimarrà durante i successivi decenni.


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musica

Snobbato da trasmissioni radiofoniche, appena accennato nelle rassegne dedicate. E una legge incombe sui repertori storici

Il jazz sull’orlo di una crisi di nervi di Adriano Mazzoletti ualche giorno fa la St. Louis Music School, la più prestigiosa scuola di jazz della Capitale, ha indetto un piccolo convegno sulla situazione del jazz a Roma e non solo, la cui breve durata non ha dato la possibilità ai partecipanti di approfondire gli argomenti trattati. Durante la discussione si sono però apprese alcune cose indubbiamente interessanti, ma per alcuni versi già ampiamente conosciute.

Q

Il caso di Radio Rai, ad esempio, il cui palinsesto non prevede alcun di programma jazz commentato da esperti. Qualcuno potrà obbiettare che su Radiotre il jazz continua ad essere trasmesso. Certo, ma spesso in modo assolutamente indecifrabile. Infatti nel corso di molti programmi, conversazioni e interviste sui più disparati argomenti, ogni tre o quattro minuti, è messa in onda una esecuzione a carattere jazzistico anche di grande pregio. Il disco viene trasmesso per intero, ma al termine non vengono annunciati né titolo né esecutore e la conversazione procede. Un quiz conti-

nuo per il povero appassionato di jazz o per il semplice ascoltatore che invece sarebbe interessato a sapere chi fosse quel sassofonista o quel pianista che aveva appena ascoltato. Sappiamo che l’Auditorium di Roma vorrebbe organizzare una nuova edizione della Coppa del Jazz, il concorso che tanto successo ebbe anni fa nelle tre edizioni negli anni Sessanta e Ottanta, in cui si rivelarono musicisti come Dino Piana, Gio-

Se questa legge dovesse essere approvata, nessun disco di jazz a carattere storico sarà nuovamente pubblicato. Infatti le multinazionali proprietarie delle piccole case discografiche, che in passato avevano realizzato molti dischi di jazz, avranno interesse a mettere nuovamente sul mercato dischi incisi negli anni Venti, Trenta e Quaranta. Quest’opera certosina è stata espletata fino a oggi da piccole o piccolissime etichette spinte più dalla passione che non dalla prospettiva di guadagno. Se l’e-

Il mercato discografico trema alla prospettiva di anticipare a novant’anni il pubblico dominio sul diritto di esecuzione: nessun disco a carattere storico potrebbe essere nuovamente pubblicato

vanni Tommaso, il Quintetto di Lucca e molti altri. Ma Radio Rai misteriosamente sembra poco interessata. La stampa quotidiana non si occupa più di recensire concerti e manifestazioni musicali a cui il cronista è spesso invitato ad assistere. Sollecitato a scrivere solamente le presentazioni, al povero giornalista non è consentito di esprimere compiutamente il proprio pensiero critico.

Sempre più spesso infatti si assiste a esibizioni su cui sarebbe giusto far cadere qualche salutare frecciata, utile allo spettatore, ma anche agli organizzatori e agli stessi artisti. Ma tutto ciò non è più possibile. Perciò tutto ciò che viene presentato sembra essere quanto di meglio esiste. A Roma ha chiuso anche i battenti l’unico negozio specializzato, il Doctor Music di Roberto Manganini, dove era possibile reperire incisioni rare pubblicate da etichette discografiche poco o per nulla rappresentate sul mercato italiano. Il mercato discografico è anche in L’Auditorium di Roma ha fatto sapere di voler organizzare una nuova edizione della ”Coppa del Jazz”, il concorso che tanto successo ebbe in passato, in cui si rivelarono musicisti come Dino Piana (sopra, insieme al fratello Franco), Giovanni Tommaso (in alto a destra) o il Quintetto di Lucca (qui a fianco)

fermento per la prospettiva di anticipare a novanta se non addirittura novantacinque anni, dagli attuali cinquanta, il pubblico dominio sul diritto di esecuzione.

ventuale legge, ancora da ratificare dalla Commissione europea, dovesse essere approvata, questa tenderà a proteggere solo la produzione di musica leggera - fra pochi anni infatti le incisioni dei grandi del rock e del pop diventeranno di pubblico dominio - ma per il jazz sarà l’opposto. Nessun nuovo appassionato o giovane studioso avrà la possibilità di procurarsi agevolmente incisioni di grande importanza storico-culturale, così come avviene oggi. Nel 1913 nessun disco di jazz era stato ancora inciso e i “mecenati”, se ancora continueranno a esistere, dovranno accontentarsi di pubblicare incisioni di difficile reperimento e soprattutto poco appetibili, quali rulli di pianola e cilindri di cera di musiche popolari e

pre-jazzistiche, il cui costo di ristrutturazione sarà troppo oneroso rispetto all’eventuale guadagno per l’eventuale produttore. In questa desolante situazione si è appreso però che fra giugno e settembre, in Italia vengono organizzati ben 250 festival del jazz, alcuni importantissimi come Umbria o Pescara, altri meno, altri ancora minuscoli, della durata di due o tre giorni con musicisti locali e qualche partecipazione importante per attirare il maggior numero di persone. Opera indubbiamente significativa per la diffusione di questa musica, come erano soliti fare anni addietro gli Hot Club sparsi nell’intera Penisola. La loro attività concertistica era però sostenuta da manifestazioni collaterali oggi quasi del tutto scomparse, basate su conferenze, dibattiti, audizioni, oltre alla creazione di piccoli centri studi e documentazione utilizzati dagli appassionati delle singole associazioni.

Oggi il jazz è profondamente mutato, ma soprattutto si è immensamente arricchito grazie alla possibilità di utilizzare assai facilmente supporti magnetici. Esistono, e non solo nel nostro Paese, archivi privati assai importanti, che potrebbero andare perduti o dispersi. Essendo il jazz musica irripetibile, l’importanza di questi archivi sonori è enorme. Ci si è domandato per quale ragione una minima parte del molto denaro pubblico che viene erogato per le tante manifestazioni che a volte rischiano di dare false indicazioni ai neofiti, a causa di cartelloni dove il jazz è spesso confuso con musiche diverse, non venga devoluto verso qualcosa culturalmente più accettabile e duraturo in un periodo in cui il jazz è diventato anche materia di studio ed approfondimento.


letture

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dall’inizio del mondo che le donne fanno sesso, ovviamente. Ma è da poco tempo che ne scrivono. Hanno cominciato a trasferire sulle pagine quei chiacchiericci da gineceo che hanno accompagnato la loro storia, triste o felice o tormentata che sia. Il punto di vista femminile sui rapporti intimi ha attratto gli editori di tutto il mondo. Facile capire perché: una narrazione così “spudorata”eccita gli uomini appunto perché fatta dalle donne, e incuriosisce le donne offrendo loro l’occasione di specchiarsi, tra ricerca di identità, confronti e divertimento. Ben più del 90 per cento di questo genere narrativo è penosamente ripetitivo e letterariamente sgangherato. Ci si imbatte di rado in opere di maggior spessore, il ché è dovuto all’intelligenza e alla cultura dell’autrice. Questa matrice consente di staccarsi dal pornografico per avvicinarsi all’erotico. E questa è l’intenzione di Salwa Al-Neimi, poetessa siriana che da parecchi anni vive a Parigi dove fa la giornalista occupandosi di temi culturali. Il suo libro, La prova del miele (Feltrinelli, 102 pagine, 10 euro) è subito salito in testa alle classifiche dei più venduti.

È

Certamente c’è un’astuzia di titolo e di copertina, oltre al nome dell’editore che normalmente dà la garanzia di opera magari discutibile ma non vanesia. Il “miele”attiene al piacere femminile e sarebbe inutile spendersi in spiegazioni più dettagliate: qualsiasi lettore sa, e chi non sa ci va comunque vicino. La copertina ritrae un (quasi) intero morbido corpo femminile visto da dietro: candido e insieme piccante, o meglio: piccante nel suo placido candore. La protagonista è una ricercatrice universitaria, araba e di fede musulmana. Parla in prima persona: della sua vita di single, delle acrobazie erotiche che l’hanno piacevolmente allontanata dall’oppressione ideologico-sociale della sua zona d’origine, di quanto ha imparato dal misterioso amante chiamato «il Pensatore», della sua curiosità intellettuale attorno agli antichi testi erotici dell’Islam. Testi improntati alla felicità dei corpi e dello spirito che proprio per questo evidenziano l’attuale oscurantismo che continua a umiliare le donne islamiche, sempre considerate oggetti sessuali e mai soggetti. La protagonista de La prova del miele, nella sua avventura diaristica, è ben consapevole che «il sesso è ovunque». Decide di parlare dei corpi, ma inevitabilmente agganciate alle carni e ai loro movi-

Il punto di vista femminile sui rapporti intimi secondo Salwa Al-Neimi

Le mille e una notte dell’erotismo in rosa di Pier Mario Fasanotti menti ci sono le emozioni: queste però le sfiora appena, tenendosi lontano da ridicoli psicologismi e dalla melensaggine da romanzo rosa. «C’è chi porta con sé il ricordo degli animi» scrive. «Io porto con me il ri-

attenta com’è a rilevare l’attitudine di molti a recitare frasi scurrili in lingue diverse, curiosa di esplorare l’etimo di alcune parole scabrose. Per esempio, annota che in arabo “sarìr” (letto) ha la stessa radice di

logica glielo consentirebbe, eccome. Scrive, con una punta di orgoglio, quanto le ha detto un giorno un suo amante: «Di te mi piacciono due cose: la tua libertà e il fatto che sei ara-

La poetessa siriana, autrice di ”La prova del miele”, si racconta anche attraverso gli antichi testi erotici dell’Islam, che evidenziano l’attuale oscurantismo che continua a umiliare le donne islamiche cordo dei corpi. Non conosco la mia anima né quella degli altri. Conosco il mio corpo, conosco i loro corpi. E mi basta».

La sua spudoratezza è squisitamente intellettuale e sconfina in una curiosità linguistica,

“sirr”(segreto). Il sesso per lei è una (se non l’unica) forma di conoscenza: «In tutta la mia vita mi sono drogata di letti e di storie. Ogni uomo una storia, ogni storia un letto». Oltre non vuole andare, anche se la sua preparazione culturale e psico-

ba». Questa affermazione attraversa subdolamente tutto il libro, e pure gli intenti dell’autrice: la donna musulmana che parla di sesso, e tanto, è trasgressiva, eccitante. Viene il legittimo dubbio che questo “mie-

le” sia una furbata commercialletteraria. Anche perché nelle pagine iniziali il lettore, sia uomo che donna, è fortemente attratto dall’investigazione sui testi arabi antichi. Ma la promessa è mantenuta solo in parte: citazioni ce ne sono, racconti di donne al modo di Mille e una notte, ma troncate tutte, lasciate in sospeso per dare spazio (che non è enorme visto che si tratta di cento pagine) a resoconti invertebrati. Un’araba che ammette di avere “un animo poligamo” è il ribaltamento drastico di una tradizione millenaria. E questo «innato talento per la duplicità» è strumento di emancipazione e anche «scudo per proteggere la mia libertà dall’ipocrisia del mondo». L’autrice dice a chiare lettere che «Islam e sesso non sono compatibili». E questo malgrado l’archeologia erotica rispolverata dalla protagonista, con atto di sfida e con sottile piacere onanistico, che ha sempre qualcosa di prescrittivo, il più delle volte a favore degli uomini. Il mondo arabo è oggi sotto l’ombra della colpa, la donna se la deve vedere con una codificazione etica e giuridica che la pone sempre in bilico tra due estremi: la virtù e la dissolutezza. O è obbediente o è puttana. A tal punto che sorgono ridicoli quesiti sulla distinzione tra i vari atti intimi, come se si volesse codificare sempre e solo l’agire tra le lenzuola senza tener conto del sentimento dell’amore.

Con tutti i limiti cui abbiamo accennato, il libro di Salwa Al-Neimi si distanzia di molto da opere analoghe: per peso letterario, per l’acume di chi scrive, ma soprattutto perché evita sconfinate banalità. E nelle banalità cascano decine e decine di opere che vorrebbero essere uno scandalo intelligente. La brasiliana Claudia Tajes (in La vita sessuale delle donna brutta, Cavallo di Ferro editore) promette molto, anche come umorismo, ma scivola nel confidenziario oggi molto in voga nei siti internet. Stella Black (pseudonimo di una inglese) offre il solito titolo frizzante (Ogni mio desiderio Autobiografia erotica, Piemme editore) ma confessioni come «…a me non piace il cunnilingus… non mi piace e basta… potrei fare sesso anale in mezzo alla strada, essere incatenata…» fanno dire al lettore una sola cosa: ma chi se ne frega.


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il personaggio

Scrittori rimossi. Perché l’autore delle ”Ragazze di San Frediano”, tanto amato dal cinema, è stato dimenticato?

L’ambiguità di Pratolini di Mario Bernardi Guardi Vasco Pratolini piaceva il cinema, al cinema piacevano i romanzi di Vasco Pratolini. E tra il Cinquanta e il Settanta illustri registi hanno trasformato in film, con la fattiva collaborazione di Vasco (allora, anche se non riempiva gli stadi, era noto e osannato dai giovani come l’omonimo cantante), alcune tra le sue più belle storie fiorentine. Si comincia nel 1953 con Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani e si va avanti con Le ragazze di San Frediano e Cronaca familiare di Valerio Zurlini (1954 e 1962), La costanza della ragione di Pasquale Festa Campanile (1965) e infine, nel 1970, Metello di Mauro Bolognini( a dire il vero ci sarebbe anche, nel 1961, Un eroe del nostro tempo di Sergio Capogna: ma in quanti lo hanno visto?). Per chi ha superato gli -anta è una festa della memoria che naturalmente va a ripescare anche le facce degli attori: Antonella Lualdi, Annamaria Ferrero, Rossana Podestà, Antonio Cifariello, Marcello Mastroianni, Jacques Perrin,Catherine Deneuve, Massimo Ranieri, Lucia Bosé, Ottavia Piccolo… Icone, compresa la povera Marcella Mariani, una delle «ragazze di San Frediano», che morì nel 1956 in un incidente aereo sul Terminillo.

A

Pratolini amava il cinema. Quello che raccontava la realtà, con fresco piglio nazionalpopolare, ma con intensità di “scrittura” e di immagini. Quello che rievocava eventi storici, magari attraversati da un potente respiro epico. E ideologico, come è il caso delle Quattro giornate di Napoli . Lo diresse Nanni Loy (1962), ma il soggetto originale è di Vasco. C’è Vasco dietro l’immaginario corale e l’epopea collettiva. Compresa la retorica, stile “realismo socialista” ed italici dintorni neorealisti, che trasforma i napoletani da «volgo disperso che nome non ha» a popolo in lotta che finalmente se lo dà, ribellandosi ai Tedeschi oppressori. Ecco, Pratolini è uno scrittore che ama le storie di formazione e di crescita, individuali e sociali, i percorsi attraverso cui si diventa educati e consapevoli, si acquista, come si diceva un tempo,“coscienza di sé”. E, ovviamente,

“di classe”. Perché per farla, la “lotta di classe”, bisogna avere un carattere e uno stile. Bisogna che si possegga una maturità interiore, fatta di sobrietà e di austerità, di senso del dovere e di spirito solidale. Bisogna capire che la rivoluzione è la riscoperta delle radici comunitarie: moralità popolare, sana e forte, in armi contro il moralismo borghese, ipocrita e decadente. Un comunista doc che ci insegna il “senso della vita”,Vasco Pratolini? Uno scrittore che lavora bene a intrecci e personaggi, ma in qualche modo è sempre lì, a fare il “maestrino dalla penna rossa”, che ci ammannisce il predicozzo? È per questo che le nuove generazioni postideologiche, minimaliste e anarcoidi, attratte da soldi, successo e “sballo”, l’hanno gettato nel dimenticatoio e gli incanutiti intellettuali di sinistra non gli riservano nemmeno uno sgabello nel loro pantheon mass-mediatico?

In effetti, il “rimosso”Vasco Pratolini all’impegno dell’intellettuale ci credeva. Ed era profondamente convinto che a dar vigore a questo impegno fosse una schietta vita vissuta. La sua lo era? Indubbiamente, il carico di esperienze che fortifica (o dovrebbe fortificare) c’è tutto: una famiglia umile come tutte quelle del suo quartiere (Santa Croce), il babbo cameriere e la mamma sarta, lui che avrebbe voglia di studiare, ma non può farlo perché tra i poveri la regola è quella di cercarsi un mestiere. Intanto cominciano ad arrivare i primi cazzotti dalla vita, quelli

Qui accanto, Ponte Vecchio, uno dei luoghi-simbolo di Firenze, del suo miscuglio fra antico artigianato e nuova ricchezza turistica. Un conflitto al quale ha dedicato molte sue pagine Vasco Pratolini (nella foto a sinistra)

lo scrittore

Era un romanziere per il quale l’«impegno» doveva essere sempre collegato alle esperienze di vita vissuta. Proprio per questo, i suoi libri non trovano più spazio che ti fanno male e ti lasciano segni indelebili, poi addolciti nel ricordo e tradotti in letteratura. Quelli che potrebbero essere anche immagini di un fotoromanzo o di un film pratoliniano: il padre che va in guerra, si becca una ferita e durante la convalescenza mette incinta la moglie; lei che, già malata, affronta una difficile gravidanza e poi muore a causa della “spagnola”; Vasco che va a stare dai nonni, e poi da uno zio; il fratello minore, Dante, che viene adottato e allevato come un “signorino”da una coppia che è a servizio presso una ricca famiglia inglese e ribattezza il bimbo col nome di Ferruccio. Poi il babbo si risposa, e Vasco, come da

copione, non va d’accordo con la matrigna: comunque, il mestiere di vivere lo impara.Tanto per cominciare, facendone tanti, di mestieri (giovane di studio da un avvocato, apprendista in una tipografia, aiuto-portiere e lift all’Hotel Moderno; venditore di bibite; rappresentante di commercio; impiegato ecc.); e poi tessendo le prime amicizie, roba importante per capire il mondo e se stessi. La più forte è quella con Ottone Rosai: Vasco gli vorrà tanto bene da chieder di esser sepolto accanto alla sua tomba nel cimitero “Alle Porte Sante”di Firenze. Un desiderio che sarà esaudito (lo scrittore muore nella propria casa romana la mattina del 12 gennaio 1991). Ma per adesso Ottone si-

Nato nel 1913 da una famiglia proletaria, Vasco Pratolini pubblica i suoi primi romanzi a partire dall’inizio degli anni Quaranta («Il tappeto verde», 1941; «Via de’ Magazzini», 1942; «Le amiche», 1943). Nel «Quartiere», sempre del 1943, comincia ad affacciarsi la poetica dell’impegno civile, con lo scrittore che si schiera nettamente dalla parte dei poveri e dei diseredati. Il tutto condito dalle esperienze quotidiane della Firenze della guerra. Il dopoguerra e la formazione libertaria si affermeranno nei romanzi successivi, a partire da «Cronaca familiare», 1947 e da «Cronache di poveri amanti» dello stesso anno. Sono romanzi a più voci, dove protoginasta è un costesto sociale ben preciso, ricco di contraddizioni, illusioni e speranze. I conflitti si inaspriscono nel suo romanzo più popolare, «Metello», del 1955, che apre una trilogia composta anche da «Lo scialo» del 1960 e da «Allegoria e derisione» del 1966. Pratolini è morto a Roma nel 1991.


il personaggio

23 settembre 2008 • pagina 21

Un poeta per Firenze di Giulio Cattaneo ttratto dalla “prosa d’arte” e con una inclinazione per i motivi elegiaci, soprattutto ai suoi inizi, Vasco Pratolini si affermò principalmente per le doti di narratore che ha dato di Firenze un quadro non paragonabile per efficacia costruttiva ai vari ritratti di città del Novecento letterario italiano. Dai primi bozzetti ai romanzi dell’età matura lo scrittore resta fedele ai luoghi della sua giovinezza come il quartiere di Santa Croce o limitadosi anche alla rievocazione di una sola strada, via del Corno o via de’Magazzini. Se le prime prove mettono in rilievo esigenze liriche (Pratolini è anche autore di libri di poesia), prevale più tardi l’impegno storico-sociale con il contributo delle sue tendenze politiche e la particolare attenzione alle lotte civili come nel torbido dopoguerra del Primo conflitto mondiale. In questo modo si rompe l’equilibrio che caratterizza la produzione giovanile dello scrittore fra lirismo e documento per arrivare ai romanzi fondati essenzialmente sul documento come Metello, Lo Scialo e Allegoria e Derisione.

A

gnifica vita e speranza di futuro. E tanti, tanti libri, dai classici ai contemporanei, che il pittore gli presta e che lui divora con l’avidità dell’autodidatta. Peraltro curioso di tutto, compresi i romanzi d’avventura e i polizieschi: Salgari, Verne, Poe, Nat Pinkerton, Petrosino, Fantomas e Arsenio Lupin si mescolano tranquillamente a Dante e Boccaccio, Dostoevskij e Jack London,Tozzi e Pratesi, Campana e Palazzeschi. E poi ci sono le “cronache” fiorentine del Compagni e del Villani, a suggerirgli un destino di scrittore-cronista: raccontare Firenze (che è poi l’Italia e il mondo) e il suo popolo (che è poi tutta l’umanità). In questo impegno gli dà una mano il fascismo rivoluzionario, proletario e antiborghese che ha una sua roccaforte proprio in Firenze.

Vasco collabora al Bargello, il settimanale della Federazione Provinciale Fascista Fiorentina, diretto da Alessandro Pa-

volini, la cui immagine, negli anni Trenta, è quella dell’intellettuale colto e raffinato, che non disdegna le polemiche e dà spazio anche alle eresie (chi potrebbe raffigurarselo, da lì a meno di tre lustri, nei panni del fanatico, voglioso di “bella morte”accanto al Duce di Salò?). Pavolini vuol fare «un giornale alla fiorentina; non una rivista all’americana.Vin buono, e soprattutto vino nostrale». Tra i degustatori di toscanità lanciati alla conquista dell’Italia ci sono Bilenchi, Gatto,Vittorini, Bargellini, Ricci (che nel gennaio del ’31 fonda un altro foglio fascista e anticonformista, «L’Universale»): gente pulita e ardita, con cui Pratolini lavora d’amore e d’accordo. Non sono tutti, come lui, innamorati del popolo contadino ed operaio, e in attesa della “seconda ondata” fascista, quella che spazzerà via i resti dell’Italietta borghese e liberale? Questo “sovversivismo fascista”, tutto patria e rivoluzione (e Ricci ci mette dentro an-

che la passione imperiale) è il contrassegno di un’intera generazione intellettuale (si veda Paolo Buchignani, La Rivoluzione in camicia Mondadori, nera, 2006). Che se lo porta dietro (e dentro) anche quando, come nel caso di Bilenchi, Vittorini e Pratolini, cerca di strapparselo di dosso facendo la Resistenza e aderendo al Pci. Nonché mostrandosi profondamente contrita del proprio giovanile abbaglio littorio, anche se tardività e ambiguità di tanti pentimenti fanno nascere non pochi sospetti (si veda Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte, Corbaccio, 2005).

lettuale organico al Pci, poco ci manca. È vero che in molti suoi romanzi compare la divisione manichea tra buoni e cattivi, e che in Un eroe del nostro tempo (1949), il protagonista, Sandrino, “fascio” impenitente, è esemplarmente negativo per cattiveria, immoralità e sadismo. Molto meno negativo, però, è il personaggio di Benito che nella Costanza della ragione (1962) proclama con fierezza il suo credo politico, fascista e rivoluzionario. Domanda d’obbligo: Vasco “si nasconde” dietro Bruno, che la “ragione” porta al Pci,o dietro la generosa “irrazionalità” di Benito? Altre riflessioni dovrebbero essere poi fatte sul quando della “conversione” pratoliniana e sulle eventuali “rimozioni”. Il nostro era già antifascista nel ’38, quando era redattore di «Campo di Marte», “foglio di azione artistica e letteraria”, divenuto ben presto sospetto alla Dittatura che l’anno dopo lo sopprime? Beh, è lecito sospettare che tanto antifascista non lo fosse, visto che negli archivi del Ministero della Cultura Popolare il suo nome compare in un elenco di personalità sovvenzionate e beneficiate dal Regime (sempre sul libro di Mirella Serri). Ma conoscono Vasco anche al Ministero degli Interni:il nome, infatti, compare in una lista dei collaboratori della polizia politica fascista per la VIII zona di Firenze dal dicembre del ’39 al febbraio del ’40. Si aggiunga, sempre per amor del vero, che questa collaborazione, ben compensata, prosegue fino alla caduta del Fascismo e che intanto il nostro nell’ottobre del ’42 era stato nominato dal Ministero dell’Educazione Nazionale professore di Storia dell’Arte, «per chiara fama», presso il Regio Conservatorio di Musica Giuseppe Verdi di Torino. Ma in quell’anno Pratolini non era già comunista? Misteri delle rimozioni e dei rimossi.

La sua fu un’educazione difficile: prima l’adesione al fascismo rivoluzionario, poi il passaggio al Pci

Che dire di Vasco Pratolini? È vero che nel dopoguerra, se non è un intel-


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Guzzanti: siete d’accordo con l’apertura di Alfano? ALFANO IN REALTÀ NON HA GRAZIATO NESSUNO Per farvi capire cosa penso realmente, ricorro a un brillante commento inserito sul sito che raccoglie opinioni www.informazione.it: «Oggi leggo su tutti i giornali che il ministro Alfano, bontà sua, ha deciso di graziare la Guzzanti. ”Ho deciso di non concedere l’autorizzazione a procedere conoscendo lo spessore e la capacitá di perdono del Papa che prevale sulle offese e soprattutto perchè credo che la stagione delle riforma imponga di spegnere i fuochi e non di appiccare nuovi incendi”. Che buono il ministro Alfano! Tutti a ringraziare il buon Angelino! Peccato che a quanto pare le offese della Guzzanti nei confronti del Papa non costituiscono reato e quindi Alfano non ha graziato nessuno. Peccato che esattamente una settimana fa sul sito della Guzzanti si leggeva questo: ”Allora ho parlato con l’avvocato e a quanto pare il reato di vilipendio al papa di fatto non esiste. I patti lateranensi firmati da Mussolini sono stati aggiornati da Craxi e nella sua versione l’articolo che equipara il papa al pres della rep non c’è e va quindi inteso come abolito. Inoltre è stato pure abolito un articolo riguardo all’offesa di un capo straniero. Perchè questa montatura dunque? Tutti a scrivere, punibile da uno a cinque anni,

LA DOMANDA DI DOMANI

Alcool: tabelle anti-stragi in pub e dicoteche. Serviranno davvero? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

quando con ogni probabilità è un’accusa che non va da nessuna parte?”. Allora diciamo le cose come stanno: Alfano non ha graziato nessuno, ha solo evitato che si spendessero soldi pubblici inutilmente in un processo che non aveva senso perchè l’azione commessa non comporta reato».

Paolo Battilocchi - Roma

MEGLIO PARLARE DEI VERI PROBLEMI DEL PAESE Una cosa sia chiara una volta per tutte: all’Italia, al popolo, vi assicuro che importa davvero poco la faccenda Guzzanti-Papa-Alfano. Credo che i problemi che interessano ai cittadini siano davvero altri: caro-prezzi, precariato, sanità, scuola.

Gaia Miani - Roma

IL REATO DELLA GUZZANTI? INESISTENTE La notizia è questa: il ministro Alfano non farà procedere i magistrati contro Sabina Guzzanti per gli insulti al Papa. Sembra strano, visto che i magistrati non sono di norma sottomessi all’autorità del ministro della giustizia come avviene in altri paesi - ad esempio, in Francia. Allora, controlliamo il codice penale. In effetti, nel codice penale questo potere è attribuito al ministro dall’articolo 313 per alcuni reati (non quelli contro il sentimento religioso, artt. 402-412). Quindi il reato imputabile a Sabina Guzzanti deve essere tra questi. Nel caso di Sabina Guzzanti, l’unico reato che la riguarderebbe tra questi è l’articolo 297, «Offese all’onore di capi di stato esteri». Il quale però è stato abrogato, come scrive il codice penale, «dall’art. 18 della Legge 25 giugno 1999, n. 205». Per altro, l’articolo 313 (quello sui poteri del ministro) non dà a Alfano la facoltà di autorizzare a procedere, ma dice che «sono punibili a richiesta del ministro per la giustizia»: quindi era Alfano, in caso, a dover prendere l’iniziativa. In conclusione, Alfano avrebbero dovuto far intervenire i magistrati per un reato inesistente, oppure negli altri casi i magistrati hanno facoltà di procedere d’ufficio. Ma allora di che stiamo parlando? Cordialmente ringrazio per l’ospitalità ricevuta sulle pagine del vostro giornale. Buon lavoro e a presto.

LE LIBERALIZZAZIONI DEI SERVIZI STRATEGICI Una delle opere di riforma, con effetti sul sistema economico, di cui da tempo si discute è quella relativa alle liberalizzazioni nei settori strategici, in primo luogo energia, trasporti e servizi bancari. La grande opera che nei primi anni novanta portò a privatizzare gran parte del patrimonio pubblico, infatti, non contemplò la necessità di andare a liberalizzare i settori che progressivamente venivano privatizzati. Questo ha portato alla trasformazione di quelli che erano dei monopoli pubblici in veri e propri monopoli privati. E infatti le più alte performance di borsa in questi ultimi anni sono state raggiunte da quelle aziende private, ad esempio nel settore energetico, che si sono trovate ad agire sul mercato italiano in condizioni da monopolista. Il principale effetto di questa situazione di mancata concorrenza è quello di un aumento del costo dei servizi per gli utenti, generando evidenti svantaggi per le imprese italiane in termini di competitività. E’ questo, ad esempio, il caso del settore della telefonia fissa che

UNO SGUARDO MILLENARIO Grandi occhi blu, naso aquilino e labbra sottili. E’ questo quello che è apparso agli occhi di alcuni archeologi a Huaca Pucllana, a Lima (Perù). La maschera funeraria appartiene a una mummia di donna, risalente a 1.300 anni fa e perfettamente conservata

ALITALIA ALLA RISCOSSA Dopo pesanti e lunghe settimane, il peggio è passato e si può tirare il fiato. Il cielo s’annuncia sereno. Grossa la decisione da prendere, grosso l’obiettivo e grossa anche la preparazione necessaria per raggiungerlo. Gli dei, si sa, richiedono tempi lunghi per queste cose. Bisogna abbandonare i vecchi schemi, le solite strategie e le tendenze usate e abusate. Eppoi basta pensare troppo, bisogna essere pragmatici e passare all’azione. Ma dopo le fermate negli aeroporti delle cosorterie sindacali e dei club dei tanti privilegiati e raccomandati dagli statalisti, gli aerei Alitalia ora volano verso lo scalo ”successo, gratificazioni e soddisfazioni”. Sì, i problemi sono un pallido ricordo. Scacciate il malumore, nessun timore: i tempi sono propizi. L’Alitalia si salverà e andrà alla riscossa. Anche quelli del Pd ne sono convinti e dispensano fi-

dai circoli liberal Amelia Giuliani - Potenza

seppur liberalizzato non è ancora stato investito da dinamiche realmente concorrenziali perché al momento della privatizzazione Telecom si decise di non scorporare la rete dall’azienda, consentendo ancora oggi una posizione di vantaggio all’ex monopolista. Lo stesso dicasi nel mercato del gas, per la mancata separazione dell’ex monopolista Eni dalla rete, la società Snam rete gas di cui controlla ancora oltre il 50%, e dalla Stogit, la società che gestisce gli stoccaggi di gas. Oppure è il caso dei servizi pubblici locali, che rappresentano il principale esempio di statalismo regionale e municipale. Il controllo diretto di tali servizi da parte delle amministrazioni pubbliche determina, infatti, notevoli problemi di efficienza a danno dei consumatori. Affianchiamo a questa situazione la struttura chiusa nel settore delle professioni intellettuali ed il quadro è completo. Per una azienda italiana il costo per servizi e tariffe (energia, trasporti, banche, notai, ed altro ancora) è mediamente più alto che per altre aziende europee o provenienti da altri mercati, e

ducia. Chiedetelo a Veltroni, a Bersani, alla Cgil e all’Unione piloti.

Pierpaolo Vezzani

I FILM DI VELTRONI quando si dice Veltroni si dice ciak, azione: i suoi film sono fiumi di adrenalina pura. Come gli ultimi da lui girati e diretti che sono tanto piaciuti agli italiani d’ogni ceto, età e scolarità. Dalla trasformazione della scuola all’allungamento dell’età pensionabile, dalla gestione dei rifiuti all’energia nucleare, dalla riduzione delle tasse all’Alitalia, dalla casa alle infrastrutture, dalla giustizia alla sicurezza e all’immigrazione. Ora il Nostro è a New York. Cosa ne diranno gli americani? Farà tendenza anche là il Walter sia nel target popular e pop, amatissimo dai giovani, che in quello chic che tira tra le nuove e vecchie élite?

Lettera firmata

questo crea grossi squilibri, soprattutto per le PMI, nel poter far fronte alla concorrenza dei prodotti provenienti dall’esterno. Urge, quindi, una grande opera di liberalizzazione incentrata sul miglioramento dei servizi e sulla riduzione dei costi per gli utenti finali, che devono sempre rappresentare la stella polare nelle scelte di politica economica relative a concentrazioni e concorrenza. Mario Angiolillo LIBERAL GIOVANI

APPUNTAMENTI ATTIVAZIONI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog SEGUE DALLA PRIMA

Fino all’eternità il fedele vostro fratello Carissima sorella! Già da tempo non ho più potuto scriverti, perché ero occupato con l’opera. Ora che ho tempo voglio osservare meglio i miei doveri. L’opera, ringraziando e lodando Dio, piace ogni sera di più; il che desta la meraviglia di tutti, perché molti dicono che da quando sono a Milano non hanno mai vista prima un’opera così frequentata. Io, insieme al mio papà, sto bene, grazie a Dio, e spero che per Pasqua potrò raccontare tutto a voce alla mamma e a te. Addio. Il mio baciamano alla mamma. Appropos. Ieri il copista è stato da noi e diceva che deve trascrivere la mia opera per il teatro di corte di Lisbona. Intanto statemi bene. Mia cara signorina sorella. Ho l’onore di essere e di rimanere da ora fino all’eternità il fedele vostro fratello. Wolfgang Amadeus Mozart alla sorella

PECUNIA NON OLET Dopo gli accorati allarmi per la tenuta della nostra democrazia, appare un titolo curioso su un noto giornale finanziario: «Cresce il fatturato delle cliniche CaraccioloCiarrapico». Si scopre cosi’ che il nobile ed illuminato editore del gruppo Espresso-Repubblica e l’inavvicinabile fascista sono soci d’affari. Niente di strano, il denaro continua a non emanare un cattivo odore, ma i moraleggianti giornalisti del grande gruppo editoriale sono stati avvertiti? Cordialità.

Enrico Pagano - Milano

IL DIKTAT DELLA CRESCITA L’imperativo della correttezza politica è categorico: bisogna crescere! Si invitano ripetutamente gli europei ad innalzare la loro bassa fecondità, malgrado la sovrappopolazione mondiale (ora 6,5 miliardi), sempre crescente. Politici, sindacalisti, venditori e contemplativi ricercano il consolidamento del loro potere nella numerosità, ossia nelle moltitudini – massificate ed irreggimentate – d’elettori, iscritti, clienti

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

e fedeli. La crescita – anche economica – è diventata mito, ossessione, must e diktat. Si punta quasi tutto sull’incremento del prodotto interno lordo, quasi come il drogato che insegue l’illusione di felicità. Lo sviluppo diventa fine a sé stesso. Si vogliono aumenti di popolazione, produzione, consumo e migrazioni. Da ciò consegue crescita d’inquinamento, rifiuti, aggressività, sradicamento, illegalità, incidenti, crimini, violenza e conflitti. «Se tutti consumassimo come le nazioni più sviluppate, occorrerebbero sei pianeti come il nostro» (considerazioni dell’economista e antropologo Serge Latouche, rilasciate a L’Espresso). Un decremento del Pil dello 0,1% corrisponde a sostanziale stabilità, ma fa gridare “recessione” ai fissati dello sviluppo forzato, che non è sostenibile. Alla vita serena nel pianeta finito Terra si addice la costanza, a cominciare dalla stabilità demografica: questa consente di contrastare efficacemente la fame e gli altri inconvenienti della crescente sovrappopolazione.

Gianfranco Nìbale

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

Qual è il progetto-Roma di Alemanno? di Renzo Foa Ma non può essere questa sola decisione il tratto identitario di una svolta. Una svolta che ancora non c’è e che si fa aspettare, dal giorno in cui il popolare esponente di An è riuscito a sconfiggere Francesco Rutelli nella corsa al Campidoglio. Oggi, a distanza di cinque mesi, il successo di Alemanno appare più come una punizione, l’ennesima, inflitta dall’opinione pubblica alla sinistra italiana uscita dall’era di Romano Prodi che come un vero e proprio investimento politico. Appare come un semplice «proviamo a cambiare», un banale e scontato «forse si starà meglio». Deve sentirsi davvero deluso chi pensa che l’alternanza – in un governo o in un’amministrazione locale – abbia un senso se corrisponde a un’alternativa e quindi a un progetto diverso. Ma a Roma, purtroppo, è difficile non cogliere un senso di stanca continuità. Se non altro, perché da parte del sindaco non è ancora stata formulata un’idea del presente e del futuro della capitale e della sua vivibilità. Anzi, tutto è sembrato un po’ troppo avvolto dalla confusione. A cominciare dall’ambizione di stupire tutti con gli effetti speciali della «commissione Amato». Che è stato soprattutto un tentativo di incidere sul clima politico italiano, prima ancora di aiutare la soluzione dei grandi problemi strutturali della città. In altre parole il tentativo di Alemanno di conservare un ruolo nazionale, evitando di restare schiacciato all’interno dei confini di un Comune, per quanto rilevante possa essere e per quanto sia stato utilizzato dai suoi due predecessori – Rutelli nel 2001 e Veltroni quest’anno – come trampolino per guidare un’intera coalizione. Un tentativo che per questo era destinato a fallire in partenza perché troppo esposto alle tempeste del conflitto tra il governo e le opposizioni e alle tante fughe in avanti (o all’indietro) di questi mesi o, come è avvenuto, ad una incauta dichiarazione pubblica. A cui va aggiunta un’osservazione: durante tutto il periodo in cui la «commissione Amato» è sembrata un’ipotesi realizzabile, non si è comunque mai sentita davvero una sola proposta o una sola idea concrete e dettagliate sul futuro della città e della sua area metropolitana. Tutto è sempre stato vago, a dimostrazione appunto che si trattava solo di un «effetto speciale» del centro-destra così come le «notti bianche» lo erano state del centrosinistra. Appunto, una semplice alternanza politica senza una vera alternativa di programma. A

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

cominciare dal maggiore problema dei romani, che è quello della loro possibilità di muoversi nella città. Già, perché Roma è l’unica grande capitale i cui residenti hanno la possibilità di un solo spostamento al giorno, mentre altrove sono almeno due. È l’unica grande capitale che ha quasi una macchina per abitante. È l’unica grande capitale ad essere affollata da centinaia di migliaia di motorini e ad avere nelle sue strade più Smart di quante non ne circolino nell’intera Germania (dove sono state inventate). È l’unica grande capitale a non avere non solo un servizio di pubblico trasporto funzionante, ma a non dotarsi neanche di un progetto per il futuro: al punto che la terza linea della metropolitana entrerà in funzione – se tutto andrà bene – quarant’anni dopo l’inaugurazione della seconda, che a sua volta seguiva di un po’ più di venti il primo viaggio della linea Eur-Termini, addirittura concepita per l’Esposizione universale del 1942 (che non si svolse a causa della guerra). Bene, davanti alla straordinaria dimensione del problema c’era da aspettarsi che la «prima volta» del centro-destra al governo del Campidoglio corrispondesse ad un programma di cambiamento intenso e frenetico, ad una voglia di imporre una vera e propria svolta all’insegna della buona e concreta amministrazione a fronte dei ludes et circenses della sinistra e dei suoi eterni comitati di affari. Invece, è accaduto il contrario. Le spiegazioni possono essere molte. Forse, non c’era in partenza un’idea alternativa, forse Alemanno non si aspettava di essere eletto sindaco, forse nel centro-destra (come a sinistra) non c’è una cultura sufficiente per affrontare il presente e il futuro di una Roma così complessa. Forse c’è dell’altro. Ma, comunque sia, il problema è che ai romani sembra di vivere un prolungamento dell’era di Veltroni, con qualcosa in meno, come appunto la «città dello spettacolo», con qualche pasticcio in più come quelle delle strisce blu a pagamento e con l’aggravamento costante del problema della mobilità urbana, la cui soluzione è vitale in una moderna metropoli. Con l’unica consolazione del «no» al parcheggio sotto la terrazza del Pincio che però non può certo essere esibito come il simbolo di un’alternativa. So che c’è un’obiezione: cinque mesi sono un periodo troppo breve per dare un giudizio definitivo. Vero. Ma, comunque, mi aspetto al più presto da una persona come Alemanno qualche buona idea per il futuro di Roma e dei romani.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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