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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

L’ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite contesta i rapporti dell’Europa con l’Iran

Ahmadinejad sfida l’Onu e il mondo. Obama e McCain devono fermarlo

di Ferdinando Adornato

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80925

di e h c a n cro

VIAGGIO NELLA CAMPANIA NON BONIFICATA

di John R. Bolton l presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha parlato martedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite solo poche ore dopo il presidente George W. Bush. E il contrasto è stato palpabile. Ahmadinejad, fortemente sostenuto dal regime dominante dei mullah, ha continuato a sfidare il Consiglio di Sicurezza e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), insistendo che l’Iran non si fermerà nella sua corsa all’arsenale nucleare. Al contrario, Bush ha sottolineato i quasi sei anni di fallimento nel cercare di scongiurare tale evenienza. L’Iran è oggi più vicino che mai a raggiungere questo obiettivo che persegue da anni. Perché Teheran ha avuto maggior successo degli Stati Uniti in questa fondamentale battaglia, e su quali opzioni potrà contare il prossimo presidente americano per scongiurare il pericolo? Sarà l’Iran - come dovrebbe - il nodo centrale del primo confronto fra i candidati presidenziali di domani? Andiamo per ordine. Primo, negoziare con l’Iran non fermerà la loro rincorsa al nucleare. Il senatore Obama enfatizza nella sua campagna elettorale la sua volontà di parlare con i leader degli Stati Canaglia - Ahmadinejad è fra essi - «senza preconcetti», spacciando questo come la nuova strada. se g ue a p ag i na 23

I

Là dove c’è ancora la vergogna Napoli ora è pulita. Ma nei dintorni, nel casertano, a Santa Maria Capua Vetere come a Maddaloni, i rifiuti sono rimasti a cielo aperto. Però nessuno ne parla più... alle pagine 2 e 3 Violato l’art. 49 della Costituzione

Un’assurda decisione della Corte

Europee, i partiti che non ci sono

La Cassazione rimandata a settembre

di Errico Novi

di Francesco Capozza

di Assuntina Morresi

di Giovanni Reale

Dove non ha potuto nulla il dibattito sulla giustizia o su Alitalia, arriva il confronto sulla legge elettorale. Su questi temi un’inizitiva di liberal con una serie di approfondimenti.

I professori sono avvertiti: è reato minacciare di bocciatura uno studente. Lo ha deciso la Corte di Cassazione. Il «reo confesso» è un professore del liceo scientifico di Vicenza.

L’intervento del cardinale Bagnasco riguardo alla legge sulla finis vitae non avrebbe dovuto sorprendere più di tanto. È una posizione condivisa da rappresentative personalità del mondo cattolico.

L’assegnazione di un premio a Carlo Azelio Ciampi chiuderà un convegno di liberal, a Siena, su “Patria, Nazione, Bene comune”. Anticipiamo la relazione di Giovanni Reale.

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GIOVED’ 25

SETTEMBRE

2008 • EURO 1,00 (10,00

Un convegno di ”liberal”

Le posizioni del cardinale Bagnasco non sono una novità

Serve un’etica politica e morale anche per la morte

pagina 8 CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

La nuova Europa salvata dal bene comune

pagina 12 183 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 25 settembre 2008

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Viaggio in Campania: Napoli è pulita, ma in alcune zone del casertano è ancora emergenza

La ”resistenza” dei rifiuti di Giancristiano Desiderio

NAPOLI. La città è pulita, ma nella provincia napoletana e in quella casertana si continua qui e là a combattere quotidianamente con l’immondizia. Noi lo abbiamo verificato in alcuni centri. Basta fare un salto a Santa Maria Capua Vetere (la cittadina assurta all’onore delle cronache con l’inchiesta della Procura nei confronti dell’ex ministro Mastella e di sua moglie Sandra) per trovarsi davanti a una vera e propria discarica a cielo aperto in un luogo che meriterebbe ben altra cura: il cimitero. Se la zona a nord di Caserta piange, quella a sud non ride. Basta entrare, purtroppo, nella storica cittadina di Maddaloni - poco più di venti chilometri da Napoli - per trovarsi immersi nei sacchetti della spazzatura che piovono da ogni dove. Le strade principali di Maddaloni presentano dei giganteschi cumuli di rifiuti: via Ciucciarella, via Caudina, via Campolongo. A Caserta la situazione è più civile, ma anche qui dipende dai giorni: da quando passano e non passano i camion delle nettezza urbana. Nei comuni più vicini a Napoli (Caivano, Melito, Cardito, Casoria, Giugliano, Afragola) la situazione è senza dubbio ormai fuori dall’emergenza di primavera e dell’estate, ma percorrendo le strade in auto e a piedi si vedono vie, viali e marciapiedi sporchi: una gomma abbandonata là, olio per auto più in là, sporcizia varia, incendi. Insomma, si ha la netta sensazione che questa terra e questi comuni per uscire definitivamente da un pericolo di ricaduta nella spazzatura dovranno ancora per un bel po’ vivere in un triste purgatorio. Ma perché nel grande hinterland napoletano e casertano non si riesce a tenere le strade pulite e la lotta con la spazzatura, anche se interessa meno di un tempo televisioni e giornali, è ancora quotidiana? La situazione che si è verificata qui non è sorta in altre province della Campania. Ad esempio nel Beneventano. Guardiamo un po’ da vicino la cosa. Nei comuni della provincia di Caserta la raccolta differenziata costa 78 euro per abitante. Nei comuni della provincia di Benevento la raccolta differenziata costa 25 euro per

abitante. Come si spiega la differenza? Con la presenza dei consorzi: a Caserta ci sono e a Benevento no e se ci sono non sono attivi. La grande differenza di costo cresce in modo esponenziale quando si passa all’applicazione concreta dei

contratti. Facciamo un esempio. Si prenda un comune di 10mila abitanti nel Casertano e uno equivalente del Beneventano: Macerata Campania da un lato e San Giorgio del Sannio o Sant’Agata dei Goti dall’altro. A Macerata, con la tariffa di 78

euro per abitante si avrà un costo annuo per la sola differenziata di 780mila euro, mentre a San Giorgio o a Sant’Agata con la tariffa di 25 euro si avrà un costo annuo di 250mila euro. Dunque, il medesimo servizio a Caserta costa tre volte di più che a Benevento. Con la differenza che in provincia di Benevento la raccolta rifiuti funziona e in provincia di Caserta no. La vera differenza, dunque, non è solo e semplicemente quella dei costi, ma anche e soprattutto quella dei risultati.

Il problema è nella gestione dei consorzi: le società pubbliche sono più economiche per i Comuni, ma meno efficienti, quelle private funzionano bene ma costano care

In queste pagine, alcune foto scattate martedì scorso. Qui sopra, il cimitero di Santa Maria Capua Vetere; in basso, un altro scorcio della cittadina. Sotto a destra e nella pagina a fianco, due immagini che illustrano la situazione di Maddaloni

Al danno, la beffa. Là dove c’è un sistema consortile c’è il monopolio pubblico per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti; là dove non c’è il consorzio c’è libertà di mercato e libera scelta per i comuni. Il prezzo dei consorzi (qui si fa riferimento al piano industriale del Consorzio GeoEco Spa) è in pratica un prezzo politico, comunque fuori mercato: insomma, imposto e non contrattato. Il prezzo della raccolta nei comuni del Beneventano oscilla tra i 25 e i 30 euro. L’alto prezzo dei consorzi si giustifica in teoria con la superefficienza, in pratica con l’elefantiasi: “monopolio pubblico”, infatti, significa “monopolio dei partiti” che controllando i consorzi li hanno pensati e costruiti come carrozzoni clientelari. GeoEco (raccoglie 26 comuni dell’area Aversa, Capua, Santa

Maria Capua Vetere) ha 700 dipendenti: un ministero.

La superefficienza teorica diventa così superinefficienza pratica: raccolta differenziata ai minimi termini, praticamente inutile, operai inoperosi, mezzi fermi. L’unica cosa che funziona è il pagamento dei comuni per i quali il costo della differenziata è solo una parte a cui bisogna aggiungere oneri di discarica (ma senza discarica): così si arriva abbondantemente al di là del milione di euro. I comuni sono tenuti comunque a pagare e non sono liberi di uscire o di non usufruire del “disservizio” del consorzio che è un obbligo di legge. Dunque, a distanza di pochi chilometri abbiamo realtà sociali, politiche, economiche diverse e opposte. Quasi due mondi: uno costosissimo con la spazzatura per strada e uno più economico con i paesi puliti. Ma la differenza a volte si ha anche nella stessa provincia di Caserta: là dove c’è un comune che, per un motivo o per un altro, non rientra nel sistema consortile avviene il miracolo: il prezzo cala e il servizio è garantito. È evidente, quindi, che è la realtà dei fatti a condannare la logica statalista e partitocratrica (ossia potere senza controllo) dei consorzi-carrozzoni. E, in quest’ambito, come si è regolato il nuovo governo? Con il decreto legge per le misure straordinarie, il governo Berlusconi IV stabilisce che


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25 settembre 2008 • pagina 3

Il futuro è nei termovalorizzatori della discordia

Una terra ancora appesa alle ecoballe di Lucio Rossi

ROMA. L’emergenza è finita, la crisi dei rifiu-

Il governo vincerà la sua scommessa solo quando entreranno in funzione il termovalorizzatore di Acerra e un nuovo impianto previsto a Napoli nelle more della costituzione delle società provinciali (volute dalla stessa Regione Campania per superare il disastro del si-

stema consortile) i consorzi di bacino di Napoli e Caserta «sono sciolti e riuniti in un unico consorzio, la cui gestione è affidata ad un soggetto da individuare con successivo provvedimento del Sottosegretario di Stato».

I consorzi si sciolgono ma si ricompongono in un superconsorzio in attesa dell’arrivo delle società provinciali. Quando arriveranno queste società cosa sarà del superconsorzio da milioni e milioni di euro alimentato spremendo i comuni? Questa è la scommessa del governo che riuscirà nell’impresa solo quando entreranno in funzione il termovalorizzatore di Acerra e un nuovo impianto a Napoli che, al momento, è ancora nel libro dei sogni. Napoli oggi è pulita perché funzionano le discariche, quando le discariche saranno colme, ritornerà a galla il problema dei problemi: come smaltire la spazzatura.

ti no. Potrebbe essere sintetizzata così la situazione in Campania dopo che sul caso immondizia (un’emergenza lunga quasi 15 anni) si sono spenti i riflettori. Ma che cosa resta delle immagini che hanno fatto il giro del mondo? E che cosa della pubblica crocefissione del centrosinistra e del ministro Alfonso Pecoraro Scanio? Oggi la Campania riesce a smaltire la produzione quotidiana dei rifiuti, ma non in proprio: una parte delle 7300 tonnellate di immondizia prodotte ogni giorno dai 551 comuni campani finisce nelle discariche di Savignano Irpino e Sant’Arcangelo Trimonte, oltre che negli stoccaggi, in attesa di destinazione finale. Per esempio a Ferrandelle, in provincia di Caserta: un sito nato originariamente per ospitare 300 mila tonnellate e cioè poco meno di una discarica di media taglia. Il resto va, come è noto, in Germania e in parte in Puglia (nell’inceneritore di Massafra del gruppo Marcegaglia) che si dividono equamente circa 800 tonnellate al giorno. Le altre regioni hanno dato un contributo-spot; come nel caso della Lombardia che, in base ad accordi istituzionali (quelli privati fanno storia a sé), ha ricevuto negli impianti della milanese A2A circa 6000 tonnellate.

Questo relativamente allo smaltimento della produzione quotidiana: come detto oltre 7000 tonnellate al giorno. E il pregresso dove è stato messo, dovendo intendersi per pregresso le enormi giacenze che si sono registrate nell’ultimo anno per le strade della Campania? Nessuno, tranne il sottosegretario con delega all’emergenza rifiuti, Guido Bertolaso, lo sa con certezza. L’ipotesi più probabile è che abbia preso la via dello smaltimento concordato in base ad accordi privati che, nel caso delle famigerate ecoballe, significa in qualunque tipo di impianto: dalla discarica al termovalorizzatore passando per i cementifici e le centrali termoelettriche. Del resto di ecoballe - o, come si dice, combustibile da rifiuto (cdr) - ce n’è per tutti, senza che la Campania rischi di rimanere senza o di intaccare, nel breve periodo, una riserva aurea pari a circa sei milioni di tonnellate stoccate prevalentemente in provincia di Caserta in siti negli anni divenuti vere e proprie cittadelle senza soluzione di continuità tra un comune e l’altro. Una volta co-

struiti, i termovalorizzatori campani (quattro in tutto) dovranno lavorare per anni per smaltire l’arretrato: del resto, chi li gestirà farà affari d’oro dal momento che questi impianti beneficeranno del regime agevolato del Cip6, una remunerazione speciale per l’energia prodotta equiparata (e quindi premiata) alle fonti alternative come per esempio l’eolico. E poco importa che il cdr, e cioè le ecoballe, sia fatto di materiali non conformi, come ha ripetutamente segnalato la magistratura. Per esempio, ad Acerra, cioè nel primo termovalorizzatore che dovrebbe essere messo in funzione all’inizio del 2009, potrà essere smaltito il famigerato cdr con codice «Cer 191212» grazie ad un provvedimento adottato dal governo Prodi.

Oltre ad Acerra, la cui gestione dovrebbe essere affidata a giorni (in pole position c’è A2A in consorzio con la municipalizzata napoletana Asìa), ad ottobre dovrebbe essere assegnato l’appalto per l’impianto di Ponticelli (che sarà al servizio di Napoli) e per il quale sempre la municipalizzata del capoluogo campano punta ad un affidamento diretto. La gara invece si farà per il termovalorizzatore di Salerno (in gara Hera contro A2A), mentre per quello di Caserta la situazione è ancora in stallo. L’impianto originariamente autorizzato si trova nel comune di Santa Maria la Fossa ma appare probabile, data la disponibilità del comune limitrofo di San Tammaro, che venga delocalizzato. Non a caso, proprio a San Tammaro nascerà una discarica con annessi impianti di selezione dei rifiuti al servizio della provincia di Caserta. Le altre discariche previste per garantire alla Campania l’autosufficienza (presso la Corte di Giustizia c’è un dossier aperto sulla mancata realizzazione di questa condizione) sono in programma a Chiaiano e Terzigno (il Consiglio dei ministri ha autorizzato le compensazioni ambientali nel corso dell’ultima riunione) e renderebbero autonome Napoli città e la provincia, mentre si sta ancora consumando un braccio di ferro con il sindaco di Serre sulla questione dell’ampliamento della discarica di Macchia Soparana o l’apertura dell’ormai celebre impianto di smaltimento a Valle della Masseria ricordato dalle cronache a causa dell’altolà di Pecoraro Scanio che provocò le dimissioni dell’allora commissario Bertolaso.

Lo smaltimento quotidiano (oltre 7000 tonnellate) è stato risolto, ma nessuno sa dove siano finiti i rifiuti accumulati nei mesi scorsi


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politica

Con l’introduzione delle liste bloccate anche alle Europee rischia di ridursi ancora di più la partecipazione dei cittadini alla vita politica

A caccia di democrazia Violato l’articolo 49 della Costituzione: ormai è il momento di cambiare di Errico Novi

ROMA. Dove non ha potuto nulla il dibattito sulla giustizia, dove non sono arrivate le polemiche su Alitalia, arriva invece il confronto sulla legge elettorale. È bastato che Berlusconi spingesse con più decisione l’acceleratore sulla riforma del sistema di voto per le Europee per ricompattare l’opposizione. E per suscitare qualche reazione più vigorosa da parte dei commentatori, come quella di Famiglia Cristiana che nell’editoriale dell’ultimo numero ha paventato il rischio che l’Italia scivoli verso una semidemocrazia.

È un fatto che in nessuna altra occasione Walter Veltroni aveva così esplicitamente appoggiata la campagna di un altro partito: martedì scorso il segretario del Pd ha detto di condividere in pieno la proposta avanzata da Pier Ferdinando Casini sulla legge per le elezioni all’Europarlamento: nessuna abolizione delle preferenze ma scelta diretta dei candidati con i collegi uninominali, su base proporzionale. «Facciano quello che vogliono, alzino la soglia di sbarramento anche al 7 per cento ma facciano in modo da riavvicinare li cittadini alla politica», è stata la provocazione del leader udc alla festa di Chianciano. E in effetti è proprio la partecipazione diretta alla vita dei partiti lo snodo attraverso il quale il dibattito sembra finalmente riaprirsi, al punto da lasciare il Pdl in una posizione isolata. C’è una coincidenza singolare. Di democrazia nei partiti si parlerà tra l’altro martedì prossimo alla festa per il trentennale di Cittadinanzattiva, associazione civica che si è impegnata nella raccolta delle firme per il referendum elettorale di Giovanni Guzzetta, intervistato in un altro servizio che compare in questa pagina. Gli organizzatori hanno invitato esponenti di tutte le parti politiche, da Gianni Letta a Dario Franceschini. Il segretario dell’associazione Teresa Petrangolini presenterà le iniziative della sua associazione per i prossimi mesi, e parlerà anche delle risposte che intende dare all’eventuale introduzione delle liste bloccate alle Europee. Lo farà in una location molto particolare: il roof garden di Palazzo Grazioli, l’edificio in cui

si trova la residenza romana di Silvio Berlusconi. L’ultimo piano viene gestito da una società di pubbliche relazioni che l’ha affittato per martedì sera a Cittadinanzattiva. Non capita tutti i giorni che si muovano critiche al premier praticamente in casa sua.

Quella sera succederà, e sarà l’occasione per far ripartire un’iniziativa messa da parte dopo la celebrazione delle Politiche: la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sulla democrazia all’interno dei partiti. A ritirare fuori la questione è anche un altro protagonista della campagna referendaria, il fondatore dell’Associazione per il Partito democratico Gregorio Gitti, professore bresciano e genero di Giovanni Bazoli. «Ad un convegno sulla democrazia nei partiti organizzato dai Radicali per il 5 ottobre annuncerò il rilancio della campagna sull’articolo 49 della Costituzione: l’anno scorso, nel periodo delle primarie per il Pd, raccogliemmo migliaia di firme a sostegno di una legge costitu-

In alto una seduta del Parlamento di Strasburgo. Berlusconi spinge per modificare la legge per le Europee

Alla battaglia dell’Udc sulle preferenze, appoggiata da Veltroni, si aggiunge l’iniziativa di Cittadinanzattiva e altre associazioni civiche per raccogliere firme sull’effettiva attuazione alla Carta

zionale di iniziativa popolare che renda ancora più esplicito il passaggio della nostra Carta in cui si parla della partecipazione dei cittadini alla vita politica. Nel progetto», spiega ancora Gitti, «è prevista anche una proposta di legge ordinaria, sempre di iniziativa popolare, che dia piena attuazione al dettato costituzionale. Ad esempio con l’adozione delle primarie per scegliere i candidati di tutte le competizioni elettorali».

Il professore bresciano non si dice particolarmente entusiasta del primo anno di vita del Pd: «Si fa fatica a vedere attuato lo statuto, ci vorrebbe una organizzazione interna più democratica». Eppure lo stesso Veltroni, nella dichiarazione con cui l’altro ieri ha annunciato l’appoggio formale alla campagna dell’Udc sulla legge per le Europee, ha rilanciato anche l’ipotesi delle primarie per la scelta dei candidati. Si tratta di un’idea utile anche a mettere ordine all’interno del partito. Di certo però il forcing del Pdl sull’abolizione delle preferenze ha provocato una scossa fino a poche settimane fa imprevedibile. Potrebbero emergere sponde all’interno della stessa maggioranza: molti parlamentari del Pdl non sono particolarmente contenti del passaggio alle liste bloccate. In An c’è più di un malumore: come sostengono sia Famiglia cristiana che Veltroni, e come in fondo è probabi-


politica

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Le priorità secondo il costituzionalista Giovanni Guzzetta

«Ormai siamo in piena crisi della rappresentanza» colloquio con Giovanni Guzzetta di Francesco Capozza

ROMA. «Uno dei problemi del nostro

le, la fusione tra il partito di Fini e Forza Italia potrebbe consentire ai candidati europei della destra di accorciare notevolmente le distanze rispetto ai forzisti, grazie alla migliore organizzazione sul territorio.

Di certo è chiaro come il tema della democrazia nei partiti sia tornato di attualità. Non è un caso che nella stessa occasione in cui ha rilanciato l’abolizione delle preferenze e l’introduzione dello sbarramento al 5 per cento, Berlusconi ha prefigurato il Pdl «come un cambiamento vero che consentirà di passare dalla democrazia dei partiti alla democrazia degli elettori». Non è chiaro però quali saranno, all’interno del nuovo soggetto politico, le forme effettive di partecipazione. Sembra profilarsi più un consolidamento del rapporto tra il leader-sciamano e l’elettorato, che una possibilità per i cittadini di intervenire direttamente nelle scelte politiche. Un segnale che si aggiunge ad altri per dimostrare come la distanza tra politica e cittadini aumenti in modo preoccupante. È per questo che nei prossimi giorni liberal condurrà una serie di approfondimenti sulla democrazia nei partiti. Questione che più di altre, appunto, sembra in grado di coinvolgere un fronte trasversale che vede unita l’opposizione e coinvolti pezzi dell’attuale maggioranza.

sistema politico si chiama “selezione della rappresentanza”, la legge elettorale per le elezioni politiche adotta una soluzione in cui viene meno qualsiasi tipo di rapporto tra cittadino ed eletto come pure tra territorio e rappresentante». Ne è convinto Giovanni Guzzetta, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’università di Tor Vergata a Roma, nonché presidente del comitato promotore per i referendum elettorali. Professore, siamo ad un passo dal “Porcellum”europeo? Sembrerebbe di sì. Vede, io sono da sempre contrario al sistema delle liste bloccate. Oggi non è più il cittadino a scegliere da chi essere rappresentato ma una serie di delegati scelti da una cerchia ristretta di dirigenti partitici formata da 5, 10 persone al massimo. Non ne faccio una questione solamente etica, ma anche qualitativa: è logico, infatti, che essendo questo il modo di selezione della classe dirigente, i “nominati”abbiano una spiccata tendenza a compiacere i superiori ben superiore alla capacità di sostenere il giudizio della pubblica opinione. Quindi per lei bisognerebbe tornare alle preferenze nel sistema italiano e mantenerle in quello europeo? Non esattamente. Io credo che sia sminuente dover scegliere tra due soluzioni egualmente criticabili il male minore. Mi spiego meglio. Anche se, ovviamente, tra le liste bloccate e le preferenze sicuramente molti cittadini sarebbero portati a scegliere le seconde, anche queste ultime hanno evidenti lati negativi: dal costo esorbitante delle campagne elettorali al pericolo che la criminalità - specie in alcune zone del Paese - possa controllare voti e di conseguenza gli eletti, fino al rischio di frammentazione interna dei partiti (e da qui le cosiddette correnti). È un po’ come il serpente che si morde la coda, allora, o lei propone qualche soluzione? Guardi, innanzi tutto se parliamo di elezioni europee bisogna fare una precisazione: non esiste un metodo elettorale universalmente riconosciuto come il migliore. Detto questo, mi sembra una buona proposta, per esempio, quella avanzata da Pier Ferdinando Casini e cioè un uninominale con base proporzionale e circoscrizioni elettorali molto più piccole delle attuali. Restando sulle elezioni europee,

lei è favorevole ad una soglia di sbarramento? Sulla soglia di sbarramento occorre fare una riflessione. Se da un lato essa è prevista dalle normative comunitarie (fino al 5%) ed è utilizzata da molti paesi membri dell’Ue, sono convinto che in qualche modo si debba garantire la rappresentanza anche ai piccoli partiti. Se si mette una soglia di sbarramento, dunque, occorre far sì che, specie in un consesso come quello del parlamento europeo, siano rappresentati anche quei cittadini che danno la propria preferenza ai partiti “minori”.

Credo che Casini abbia suggerito una soluzione corretta: voto uninominale con base proporzionale e circoscrizioni elettorali molto più piccole di quelle attuali

Una soluzione possibile? Una soluzione ci sarebbe, ed è anche prevista dalla normativa comunitaria: sto parlando del sistema di voto alternativo. In base a questo, l’elettore è chiamato ad esprimere due preferenze, la prima per il partito diciamo “del cuore”, la seconda per un partito quanto meno vicino alle proprie vedute. Se il primo non dovesse superare lo sbarramento, il voto non andrebbe disperso, ma assegnato al partito secondariamente opzionato. Professore, voglio portare la sua attenzione su un altro problema che a detta di molti è sintomatico in Italia: l’assenza di una normativa circa l’organizzazione dei partiti e sulla loro democrazia interna. Cosa pensa di un’eventuale pro-

posta di legge in tal senso? Ne penso tutto il bene possibile. Sono convinto del fatto che in Italia si sfugga a certi principi della democrazia e le faccio anche un esempio concreto. Lei rilegga l’art.49 della nostra Costituzione, vedrà che, riferito ai nostri partiti sia per quanto riguarda la scelta dei candidati, sia per quanto concerne la “vita”all’interno degli stessi, il suddetto articolo è del tutto lasciato inosservato. C’è mancanza di democrazia all’interno dei partiti dunque, come si potrebbe risolvere questa piaga? Cioè, cosa dovrebbe prevedere un’eventuale normativa in tal senso? Innanzi tutto bisognerebbe celebrare delle primarie vere, non come quelle che si sono viste recentemente fatte solo per porre in essere un plebiscito nei confronti di qualcuno già designato. Poi, rendere più “aperti”i partiti ai cittadini. Coinvolgerli nelle decisioni e nella rappresentanza. Solo in questo modo, tra l’altro, si potrà riacquistare il consenso perduto. Non voglio fare il moralizzatore, ma ci sono dati elettorali concreti che confermano questa tendenza. Quali? Sulla base dei dati a cui mi riferisco la quota di cittadini che per un motivo o per l’altro sono rimasti esclusi dalla rappresentanza (perché hanno votato partiti che non hanno superato la soglia di sbarramento, perché hanno annullato la scheda o l’hanno lasciata bianca o altro ancora), siamo passati da un 20% delle politiche 2006 ad un 30% di quelle celebrate nel 2008. È un dato evidentemente importante visto che in base a questo un terzo degli italiani non risulta rappresentato in parlamento. I partiti, a mio avviso, dovrebbero“aprirsi”, rendere per così dire più “accattivante” la partecipazione del cittadino alla loro vita. Ma, come sappiamo i partiti non sono neppure soggetti alla legge per molti aspetti. Come si può pensare che sia tutto reso “aperto”? Infatti questo è un punto fondamentale. Non sono sufficienti i probiviri e gli statuti interni, c’è una necessità di fondo: fare sì che i partiti siano delle associazioni soggette alla legalità come tutte le altre, solo in questo modo si potrà evitare di mettere in atto procedure interne illegittime e rendere possibile la democrazia dei partiti che tanto auspichiamo tutti.


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politica

Minacciare di bocciare uno studente è reato: è l’assurda sentenza della Corte contro un professore di Vicenza

Cassazione rimandata a settembre di Francesco Capozza

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Rai: Morri spera in chiarimento nel Pdl «Dopo l’ennesima fumata nera per l’elezione del presidente della commissione Vigilanza Rai c’è da sperare che si sia trattato soltanto dell’esigenza di un chiarimento interno al Pdl. Era infatti sembrato a tutti che fossero finalmente cadute le irragionevoli pregiudiziali sulla candidatura di Leoluca Orlando e si potesse sanare il vulnus istituzionale di una commissione di garanzia paralizzata da oltre 4 mesi dall’osturzionismo della maggioranza». È quanto ha dichiarato Fabrizio Morri (nella foto), capogruppo Pd commissione di Vigilanza, che ha concluso: «Auspico che già dai prossimi giorni sia possibile giungere all’elezione di Leoluca Orlando, mettere la commissione nelle condizioni di svolgere il proprio lavoro e chiudere una pagina certo non brillante della vita parlamentare».

A Cosa Nostra “piace” il Palermo Calcio

ROMA. I professori sono avvertiti: è reato minacciare di bocciatura uno studente. Parola della Cassazione che sottolinea come una minaccia di questo tipo sia «idonea ad ingenerare forti timori», andando ad incidere sulla «libertà morale» dell’alunno. Applicando questo principio, la Sesta sezione penale ha confermato la condanna per minaccia aggravata nei confronti di un professore di un liceo scientifico di Vicenza, Marcello T., colpevole di avere detto alla studentessa Silvia C. che «non aveva più alcuna possibilità di essere promossa».

La condanna per minaccia aggravata, all’insegnante era già stata comminata dal Gup del Tribunale di Vicenza (nel marzo 2005) e dalla Corte d’appello di Venezia (nell’ottobre 2007). Invano il docente si è rivolto alla Cassazione, sostenendo, a sua discolpa, che non poteva configurare minaccia la prospettiva di una bocciatura perché «l’evento pregiudizievole era comunque indipendente dalla sua volontà, trattandosi di una decisione che avrebbe impegnato l’intero collegio dei docenti». La Cassazione, con la sentenza n° 36700, ha respinto il ricorso e ha sottolineato che «giustamente i colleghi di merito hanno ravvisato nella bocciatura prospettata una minaccia» argomentando che «per una studentessa l’ingiusta prospettiva di una bocciatura rappresenta una delle peggiori evenienze». Per Giuseppe Bertagna, professore ordinario di Filosofia dell’e-

ducazione e pedagogia generale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’università di Bologna «non bisogna giudicare la sentenza in quanto tale, perché essa fa riferimento ad una storia particolare e perché le sentenze si applicano e non si giudicano. Tuttavia, c’è da fare una riflessione. È naturale - prosegue Bertagna - che nel sistema educativo la minaccia di una punizione abbia un senso pedagogico e un pungolo per la crescita, basti pensare alla tradizionale assegnazione di premi o castighi come cura educativa. Il problema,

«Una decisione che lascia esterrefatti, così la giustizia scredita se stessa»: è il commento degli esperti, da Giuseppe Bertagna a Giulio Ferroni dal punto di vista scolastico, è che ora, con le nuove disposizioni ministeriali, si può bocciare con l’insufficienza in condotta; con una sola insufficienza non recuperata dopo l’assegnazione dei debiti formativi. Presumo che la Cassazione si sia rifatta alla normativa precedente, alla norma generale cioè, come tale questa sentenza potrebbe non costituire un precedente».

In effetti, se ci si pensa, la Cassazione non può che avere avuto

come riferimento la normativa vigente già all’epoca della sentenza del Gup, quindi a quella serie di circolari ministeriali e normativa generale posta in essere all’epoca del ministro Luigi Berlinguer. Nel 2007, invece, quando la corte d’appello di Venezia ha confermato la condanna del tribunale di Vicenza, erano già in vigore quella serie di norme e circolari emanate dal ministro Beppe Fioroni che avevano, in un certo senso, rafforzato la disciplina e l’uso delle punizioni nelle aule scolastiche. «Sono esterrefatto dalla sentenza della Cassazione», così descrive la questione il professor Giulio Ferroni, ordinario di letteratura italiana presso l’università “La Sapienza” di Roma nonché critico letterario e giornalista: «Mi sembra che si stia andando verso una difesa di certi presunti diritti che rasenta il ridicolo - prosegue Ferroni - anche questo atto è da annoverare tra quelli che io definirei “mania italiana di interventismo giudiziario”. Poi ci lamentiamo che la Giustizia italiana abbia dei tempi lunghissimi. A parte tutto, per dare una sentenza bisognerebbe aver sentito con le proprie orecchie le minacce che questo insegnante condannato ha proferito. In linea generale però, sono orientato a dire che questa sentenza rasenta il ridicolo perché da che mondo è mondo gli insegnanti esercitano la loro autorità con piglio e determinazione incitando così gli studenti. Francamente sono senza parole».

«Non possiamo parlare di tentativo di infiltrazione nella società Palermo Calcio. Certamente, siccome la società sportiva gestisce appalti importanti, è emerso un interesse da parte di Cosa nostra, come per qualsiasi altra attività economia palermitana». Lo ha riferito il pm della Dda del capoluogo siciliano, Domenico Gozzo, che insieme ai colleghi Francesco Del Bene, Annamaria Picozzi, Gaetano Paci ed al procuratore aggiunto Alfredo Morvillo, ha coordinato le indagini che hanno portato, ieri, all’arresto dell’avvocato Marcello Trapani, 39 anni, legale della famiglia Lo Piccolo, e di Giovanni Pecoraro, 47 anni.

Lombardo attacca la Repubblica «Sono indignato e mi ribello a questo tentativo di appannare il ruolo della Sicilia come punto di riferimento delle regioni meridionali». Lo ha dichiarato il presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo (nella foto), che ha richiesto all’Avvocatura dello Stato di intraprendere le iniziative necessarie a tutelare l’immagine della regione, gravemente pregiudicata da questa campagna di stampa. «Una manovra politico mediatica - sostiene Lombardo - già avviata con una raffica di articoli nell’ultima settimana di agosto e che ieri, proprio nel momento in cui le regioni sono sedute a discutere della bozza Calderoli sul federalismo fiscale, ha raggiunto la sua punta massima, con la caduta di stile di Repubblica».

Pdl, Saltamarini non vuole la Santanchè «La Santanchè? Mi opporrò al suo ritorno nel Pdl. Daniela è intelligente, ma ha uno stile troppo aggressivo, un protagonismo che la divide dalle altre. Io invece voglio unirle: più siamo meglio è». Barbara Saltamartini, responsabile femminile di An, in un’intervista, rifiuta l’idea di un ritorno della Santanchè nel partito di centrodestra. «Lei vuole tornare, ma io mi opporrò. In politica conta la coerenza e Santanchè non lo è».

Di Pietro dichiara guerra agli inquisiti in Parlamento Antonio Di Pietro (nella foto) rilancia l’offensiva contro i condannati in Parlamento. E nel corso del question time alla Camera, usa l’ironia contro la cauta disponibilità a una revisione delle norme sulla ineleggibilità manifestata dal ministro della Giustizia Angelino Alfano. Ragione di più, osserva, per firmare «il referendum contro il lodo Alfano», che mette al riparo dai eventuali processi in corso il capo del governo e le alte cariche dello Stato. Nell’interrogazione rivolta al governo, Di Pietro ricorda che «nel Parlamento attuale sono presenti 15 condannati con sentenza definitiva, nella precedente erano 19».


alitalia

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ROMA. Ben tre pretendenti per una principessa che più malandata non si può. «Sono esattamente uguali le opzioni Lufthansa, Air France e British Airways come ipotesi di collaborazione e di alleanza e, eventualmente, con una partecipazione di assoluta minoranza», ha affermato ieri Silvio Berlusconi parlando con i cronisti riguardo agli ultimi sviluppi su Alitalia. E poi, su richiesta, ha precisato che chi bussa, lo fa alla porta della Cai per un’eventuale partecipazione di minoranza: «Non c’è alcuna possibilità - prosegue - che un’altra compagnia straniera prenda su di sé il carico e la responsabilità di Alitalia intera. Un’ipotesi che non esiste e non è mai esistita». Il commissario straordinario Augusto Fantozzi ha confermato: «Sto ricevendo decine di offerte frazionate o frazionarie per i singoli comparti ma non ho una singola offerta per Az Fly», ha detto, parlando in audizione al Senato in commissione Industria.

Insomma, nonostante la situazione non sia delle più rosee, sembrerebbe che l’interesse delle compagnie straniere ci sia, e sia ancora vivo. La più “chiacchierata” è la Lufthansa, che sta ancora aspettando però l’esito dell’asta per Austrian Airlines, e sono già due giorni che è impegnata a smentire o a non commentare le indiscrezioni che vengono dall’Italia: «Non rilasciamo dichiarazioni in merito a questo argomento. Non commentiamo. Ovviamente stiamo osservando attentamente la situazione perché per noi il mercato italiano è tra i più interessanti, ma non posso dire nulla sugli ultimi sviluppi», continua a dire Claudia Lange, portavoce corporate della compagnia tedesca. Ma i tedeschi sarebbero comunque considerati in pole position. Un po’ perché la loro alleanza con AirOne farebbe gioco all’interno di un assetto industriale tutto da ricostruire, un po’ perché, politicamente, si preferirebbe Lufthansa ad Air France proprio per non “darla vinta” all’invasore che era stato respinto durante la campagna elettorale. Senza contare che il bilancio tedesco - appena licenziato con profitti notevoli - permetterebbe di sostenere agevolmente un investimento del genere. Ieri si sono pronunciati a favore di Lufthansa sia Emma Bonino che il ministro Altero Matteoli e il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. L’interesse dell’«asse del Nord» nella partita è assolutamente strategico, visto che un accordo con i tedeschi significherebbe

Sulla compagnia (ri)ecco Lufthansa, Air France, British Airways

Alitalia, tre pretendenti. Ma manca la regina di Alessandro D’Amato

«Hugo Chàvez vuole Az Fly» ma (purtroppo) è uno scherzo ra una burla, ed è un vero peccato. Aveva messo in subbuglio le redazioni dei giornali la notizia che la compagnia aerea venezuelana Aserca Airlines aveva preannunciato un’offerta per acquistare «in tutto o in parte» gli asset di Alitalia. «Con l’aiuto del governo socialista della Repubblica Bolivariana de Venezuela e il supporto morale dei tanti italiani che sono emigrati e abitano da queste parti siamo certi che potremo risolvere buona parte dei problemi che colpiscono in questo momento Alitalia e tutti i suoi lavoratori», aveva detto Hugo Santoro, che si firmava come direttore generale del vettore. Peccato che in Venezuela Santoro non l’abbiano mai sentito nominare: «Il comunicato non è partito da qui e non abbiamo alcuna idea di come sia stato distribuito», ha detto un portavoce di Aserca Airlines all’Afp. Insomma, è stato tutto uno scherzo di qualche buontempone, probabilmente italiano. Il quale avrà giustamente preso spunto dalla soluzione «statalista» all’italiana immaginata dal governo Berlusconi per azzardare un paragone nemmeno tanto campato per aria con le politiche economiche e sociali del paese sudamericano. Però, per un attimo, è stato bello immaginare non una vendita, ma una joint venture tra Italia e Venezuela per risollevare le sorti della nostra compagnia di bandiera. Non tanto perché il know-how dei sudamericani potesse apportare significativi miglioramenti al piano industriale, ma perché vedere durante l’assemblea degli azionisti discutere il compagno Hugo Chavez insieme al ministro dell’Economia Giulio Tremonti della situazione economica mondiale e del business dei cieli sarebbe stato davvero fantastico. Dio li fa, lo statalismo li accoppia. (a. d’a.)

E

automaticamente una ripresa delle quotazioni di Malpensa, a discapito di Fiumicino.

I francesi invece continuano a restare alla finestra. Oggi il dossier Alitalia sarà oggetto di un consiglio di amministrazione, insieme a quello di Austrian Airlines. I board di Air France e di Klm si dovrebbero riunire la mattina mentre quello della holding nel pomeriggio, e in

Fantozzi conferma: «Solo proposte frazionarie per i singoli comparti». Berlusconi: «Ipotesi di alleanza ma con partecipazione di assoluta minoranza» quella sede potrebbe arrivare l’annuncio delle dimissioni di Jean Cyril Spinetta, che dal 2009 lascerà al suo numero due, Pierre-Henri Gourgeon la gestione operativa per rimanere comunque presidente della holding con gli olandesi. Ecco quindi che l’ultimo grande atto dell’oggi amministrato-

re delegato potrebbe essere proprio quello di entrare nella Cai per Alitalia. Certo, una soddisfazione minore rispetto a quella di comprarla per intero, ma con buone probabilità, allo scadere dei cinque anni della clausola di lock-up, di poter incrementare la propria quota. Senza contare, riflettono a Parigi, che se in futuro la nuova Alitalia dovesse essere di nuovo in difficoltà e fosse necessario un altro aumento di capitale, loro sarebbero pronti; gli imprenditori italiani invece potrebbero avere qualche difficoltà. I rapporti con il governo non sono idilliaci – brucia ancora il comportamento di Berlusconi durante la campagna elettorale – ma i francesi, già alleati degli italiani, chiuderebbero un occhio in nome del business e del pragmatismo.

Il nome (relativamente) nuovo è quello della British Airways. Che si sa già essere molto interessata agli slot dell’aereoporto di Londra, e potrebbe proprio per questo entrare in competizione con francesi e tedeschi. «British Airways non commenta le speculazioni e i rumors di mercato», ha detto un portavoce degli inglesi, ma fonti dell’industria del trasporto aereo britannico correggono il tiro: «Si può dire che la BA potrebbe essere interessata a un’eventuale partnership con la Cai una volta che li piano industriale avrà avuto il via libera» dai sindacati, si fa sapere in via informale. Anche qui, la sensazione è che comunque, Parigi, Colonia o Londra che sia alla fine, tutto deve prima passare per Roma.


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il dibattito

Nessuna novità nelle posizioni del cardinale Bagnasco. Ora serve un impegno politico anche dei cattolici

Un’etica per la morte La Chiesa è sempre stata a favore della vita. E adesso si tuteli chi non può più esprimersi di Assuntina Morresi intervento del cardinale Bagnasco riguardo alla legge sulla finis vitae, che il Parlamento inizierà presto a discutere, non avrebbe dovuto sorprendere più di tanto. È una posizione condivisa da significative e rappresentative personalità del mondo cattolico: mons. Elio Sgreccia, già Presidente della Pontificia Accademia della Vita, Carlo Casini, leader del Movimento per la Vita, Maria Luisa di Pietro, attuale Presidente dell’Associazione Scienza e Vita, Luciano Eusebi dell’Università Cattolica di Milano, tanto per fare qualche nome. Tutti appartenenti al Comitato Nazionale di Bioetica presieduto da Francesco D’Agostino – attualmente Presidente onorario dello stesso Cnb e Presidente dei Giuristi Cattolici – che nel dicembre del 2003 approvò all’unanimità il parere “Dichiarazioni anticipate di trattamento”. Quel documento rappresentò un’importante sintesi dei diversi orientamenti etici all’interno del Comitato, e leggendolo si può vedere come le sue linee portanti siano le stesse dell’intervento del Presidente della Cei.

L’

Si auspica che il legislatore intervenga - «In conclusione, unitamente a un’adeguata sensibilizzazione culturale, è auspicabile quindi un intervento legislativo ampio e esauriente, che risolva molte questioni tuttora aperte per quel che concerne la responsabilità medicolegale ed insieme che offra un sostegno giuridico alla pratica delle dichiarazioni anticipate, regolandone le procedure di attuazione» che le dichiarazioni non siano vincolanti per il medico, il quale deve sempre agire in scienza e coscienza, che siano redatte in forma pubblica, quindi certificata, escludendo di conseguenza la possibilità di ricostruire a posteriori qualsiasi volontà presunta, come invece stabilisce la sentenza della cassazione relativa al caso Englaro. Il documento è all’interno di una logica di un rapporto fiduciario fra medico e paziente: le dichiarazioni anticipate vanno intese come estensione

del consenso informato, e quindi non devono essere redatte in forma astratta, magari utilizzando modulistica o prestampati, ma riferite a situazioni patologiche concrete e ben precise. Per raggiungere l’unanimità all’interno del Comitato si dovette stralciare la questione dell’alimentazione ed idra-

va che si potesse chiederne la sospensione, ed una minoranza invece che riteneva che la nutrizione artificiale facesse parte delle cure sanitarie, e quindi fosse lecito chiederne l’interruzione. Nessuna novità a riguardo, quindi, come giustamente ha ricordato mons. Elio Sgreccia in una

La sentenza della Cassazione su Eluana è un pericoloso precedente. Consente di far morire una persona che non può esprimersi e lascia decisioni importantissime in mano ai giudici tazione artificiale, che invece fu l’oggetto di un documento differente, totalmente dedicato.

Su questo i componenti del comitato si divisero in una maggioranza che considerava l’ alimentazione ed idratazione artificiale un sostegno vitale, e non un trattamento sanitario, e quindi esclude-

recente intervista al Corriere della Sera: chi si sorprende dovrebbe almeno ripensare a tutto l’iter seguito dalla legge 40, quella che regola la procreazione medicalmente assistita nel nostro Paese.

È ben noto che l’intera legge non è conforme al magistero del-

Le divisioni del mondo cattolico

Il testamento biologico visto dal magistero di Roma

la Chiesa, la quale non approva le pratiche di fecondazione extracorporea. Ma questo fatto non ha impedito che quella legge fosse scritta, discussa, votata e difesa anche e soprattutto da cattolici, mantenendo chiaro il giudizio morale: si è ritenuto che un compromesso “alto”fosse preferibile ad un vuoto normativo. Per le dichiarazioni anticipate, invece, non si può parlare di vuoto legislativo, ma di mutamento del contesto: la sentenza della Cassazione che consente di sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiale ad Eluana, sulla base di

Il caso più eclatante che ha mostrato apertamente come anche all’interno della Chiesa cattolica non ci sia un’unica posizione sul testamento biologico è avvenuto la scorsa estate. E riguardava alcune dichiarazioni rese dai presidenti dell’associazione “Scienza e Vita” secondo le quali si dimostrava una certa apertura dell’associazione nei confronti dell’approvazione di una legge sul tema. La novità era assoluta visto che l’associazione si era mostrata sempre apertamente contraria ad uno strumento del genere, considerando l’avamposto dell’eutanasia. E il terremoto era nello stato delle cose: Adriano Pessina, membro del comitato direttivo, rassegna le dimissioni. La motivazione secondo il direttore del Centro Bioetico dell’Università Cattolica di Milano risiede nel fatto che una simile scelta era stata presa unilateralmente, senza consultare tutti i membri.

Di fronte alla scelta del professor Pessina l’associazione ha quindi spiegato la propria posizione affermando che c’erano stati fraintendimenti e che il loro no al testamento biologico restava tale e quale. Ora le recenti dichiarazioni del cardinal Angelo Bagnasco al Consiglio permanente della Cei hanno riaperto ancora una volta il dibattito. Nel mondo politi-

una presunta ricostruzione a posteriori della sua volontà, è un pericoloso precedente, sia nel merito – perché consente di far morire di fame e

co ma anche in quello cattolico. Il porporato è stato chiarissimo e inequivocabile: sì ad una legge sul fine vita ma entro confini certi e in un ambito di collaborazione tra medico e paziente. Con l’aggiunta che non si può assolutamente sospendere il trattamento di nutrizione e idratazione. Facendo un passo indietro, si può certamente dire che il le questioni etiche (testamento biologico e l’eutanasia) sono tra i temi più dibattuti sin dalla promulgazione dell’enciclica Humanae Vitae, su cui si sono nel tempo accavallate opinioni e ipotesi diversi. Secondo alcuni fra i migliori esperti in materia, che consigliano il Vaticano sul tema, va distinto il testamento biologico dal consenso informato. Con il consenso informato (prassi consueta e secondo la Chiesa legittima) qualsiasi persona che sia già ammalata può chiedere, d’accordo col suo medico, che non gli vengano in futuro riservate terapie invasive o gravose o qualsiasi tipo di accanimento terapeutico. Ma il medico che lo ha in cura ha comunque il diritto-dovere di interpretare i desideri del paziente in quanto durante la terapie egli può giudicare che per il bene del paziente è opportuno agire in altro modo. Mentre con il testamento biologico le cose cambiano. Infatti, si prevede che qualsiasi persona oggi sana possa scegliere di rifiutare qualsiasi tipo di cu-


il dibattito

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Le sfide della bioetica secondo il rabbino capo di Roma

«Anche per noi Eluana deve vivere» colloquio con Riccardo Di Segni di Francesco Rositano

ROMA. «In generale non è giusto sospendere il

di sete una persona che non può neppure esprimersi – che nel metodo, lasciando decisioni di vita e di morte ai giudici.

Quel che è cambiato, quindi, non è la posizione della Chiesa: questa si è sempre pronunciata per la difesa dell’intera vita umana, in tutte le sue condizioni, sicuramente senza negare la libertà di cura, ma comprendendola all’interno della relazione fra chi cura e chi è curato. È invece diventato necessario ribadire garanzie e tutele nei confronti di chi si trova nelle condizioni di non poter più esprimere il proprio consenso ai trattamenti medici, ed è in quest’ottica che andrà redatto l’articolato della futura legge sulla finis vitae.

ra nel caso che in un futuro prossimo o remoto si trovi a dover affrontare una malattia grave che non le permetta più di esprimere la propria volontà. Altro problema evocato dal presidente della Conferenza episcopale italiana riguarda lo stravolgimento del rapporto medico-paziente così come oggi è pensato. Questo, infatti, rappresenta una delle estreme esasperazioni dell’autonomia del paziente. Rifiutando in modo deciso il modello paternalistico viene adottato il modello autonomistico o contrattualistico sulla base di una presunta parità fra i contraenti del rapporto, cioè tra medico e paziente. Ma tutto ciò altera l’identità delle due figure in gioco.

Il medico, da professionista che agisce nell’interesse e nel bene della salute del paziente, è degradato a essere un esecutore delle volontà del malato. In questo modello il medico potrà essere anche abilissimo tecnicamente, ma sarà sempre incompetente dal punto di vista decisionale. Il paziente, invece, diventa un puro cliente che può chiedere tutto al medico. Una legislazione esatta sul tema, pensano in molti Oltretevere, non farebbe altro che migliorare la situazione e l’incertezza sulla materia in cui la Chiesa, sin dal Concilio Vaticano II, continua a dibattersi.

In alto, l’Uomo vitruviano. Il capolavoro di Leonardo da Vinci rappresenta una delle massime raffigurazioni geometriche e anatomiche del corpo umano. Definito da molti la quadratura del cerchio, procurò non pochi guai al suo autore che venne accusato di dissezionare cadaveri per studiare l’anatomia umana. A destra, il Rabbino di Roma Riccardo Di Segni

trattamento di nutrizione e idratazione: per noi l’acqua e il cibo hanno lo stesso valore dell’ossigeno. E non si può privare una persona del diritto di respirare. Pertanto se in un caso come quello di Eluana Englaro ci fosse stato chiesto un parere ci saremmo orientati per non interrompere il trattamento di nutrizione e idratazione. La vita come il corpo non sono di proprietà esclusiva della persona. Ciò, però, non significa che l’uomo sia condannato a soffrire». Con queste parole il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni esprime a liberal la sua posizione sulle questioni di più stretta attualità: vita e morte, testamento biologico, morte celebrale. Questioni su cui recentemente si è pronunciato anche il presidente dei vescovi italiani, il cardinal Angelo Bagnasco, dimostrando un’apertura della Chiesa cattolica ad una legge sul testamento biologico. Qual è la posizione del rabbinato sul testamento biologico? Su questo argomento c’è stata un’ampia discussione negli Stati Uniti. La posizione è che un ebreo osservante può fare un testamento biologico delegando ad un’autorità del rabbinato una serie di disposizioni da prendere qualora lui non sia più in grado di disporre lucidamente. Ciò significa quindi che l’autorità rabbinica interviene nel processo decisionale, ma il suo giudizio non ha valore assoluto: il nostro sistema etico, infatti, prevede che una persona abbia tutto il diritto di non voler soffrire. Quindi la disposizione della persona viene presa in considerazione ma in qualche modo è il fiduciario che, tenendo presente la volontà di chi si è rivolto a lui, può orientare le decisioni. Quanto all’eutanasia, il nostro orientamento in linea generale è contrario nell’intervenire per provocare direttamente la morte. Anche se in alcuni casi precisi è possibile rimuovere gli impedimenti articiali. Quanto a vostro avviso una persona può disporre della propria vita? L’idea fondamentale è che il corpo non sia una nostra proprietà ma un bene che ci è stato messo a disposizione: il corpo come la vita. Per cui in condizioni normali il pensiero rabbinico protende per la vita e non per la morte. Certo, nei casi di estrema sofferenza e dolore, bisogna affermare che la decisione di un paziente che si trova in quelle condizioni non è di per sé condannabile. Il paziente non può, quindi, essere giudicato per decisioni dettate dalla sofferenza Il punto è questo: non siamo né per una assoluta autonomia della persona, né per un paternalismo. Siamo contrari all’idea di affidare acriticamente la vita di una persona al medico, par-

tendo dal presupposto che il suo compito sia quello di salvare la vita della gente. Bisogna, però, valutare caso per caso. Allora prendiamo una vicenda concreta: qual è la vostra posizione sul caso Englaro? C’è un’estrema comprensione per gli aspetti drammatici di entrambe le parti coinvolte. Su questo, comunque, argomento le principali autorità rabbiniche sono del parere che l’ossigeno e i trattamenti essenziali riguardanti la nutrizione e l’idratatazione non devono essere sospesi. Il problema si pone soltanto se la somministrazione avviene in maniera invasiva. Ci terrei a precisare che questo è l’orientamento generale anche se bisogna tener presente che nel mondo ebraico – tranne concetti essenziali – non c’è l’assoluta unanimità di pensiero, ma c’è sempre una dialettica tra le varie autorità. Da noi non esiste un unico magistero come nella Chiesa cattolica. Invece, riguardo alla morte cerebrale qual è la posizione del rabbinato? Su questo argomento c’è stata una grande discussione a partire dal 1968 quando si è aperta l’epoca dei trapianti. E contemporaneamente si è visto che per poter fare un trapianto cardiaco e poi anche di polmoni e di fegato era necessario espiantare l’organo da un corpo con cuore battente. Quando sono stati formulati i principi di Harvard, che sono dei principi anestesiologici in base ai quali si determinano i criteri della morte celebrale, il mondo rabbinico si è diviso in due parti. Una parte ha sostenuto che il concetto di morte è un concetto che non ha un valore esclusivamente clinico, ma un valore filosofico, culturale, religioso, giuridico. Quindi per questo gruppo di rabbini fino a quando il cuore batte la persona è considerata vivente. E qual è l’altra scuola? L’altra scuola ha accettato il concetto di morte celebrale come criterio di definizione di morte. Però ha criticato i criteri di Harvard come insufficienti e ha previsto altri parametri di valutazione che consistono in test aggiuntivi e in più ore di attesa per la diagnosi finale. A ben vedere la vostra posizione non è poi così lontana da quella cattolica? Il confronto con la Chiesa cattolica è lontano dai nostri orizzonti. In alcuni casi, fermi restando i principi di rigore, si cerca di essere comprensivi nei confronti di chi ha fatto scelte non condivise. Ripeto: nel nostro mondo quando ci si trova davanti ad una situazione di grande sofferenza la persona che dispone non è considerata punibile per quello che dispone. Insomma non possiamo non tener conto della situazione

In generale non è giusto sospendere il trattamento di nutrizione e idratazione: per noi l’acqua e il cibo sono come l’ossigeno. E ognuno ha il diritto di respirare


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mondo

Francia. I socialisti votano “no” alla missione in Afghanistan per differenziarsi dall’atlantismo di Sarkozy, ma rompono l’Union sacrée

La svolta antiamericana della gauche di Francesca Giannotti

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Ucraina, il trattato non verrà rinnovato La flotta russa nel 2017 dovrà abbandonare le sue postazioni del Mar Nero. «L’accordo è valido fino al 2017 e sarà rispettato perché è stato sottoscritto dalle due parti», così il capo del governo di Kiev, Julia Timoshenko si è espressa davanti ai giornalisti. Un prolungamento dell’attuale trattato oltre i termini già stabiliti non è all’ordine del giorno. «Dopo il 2017 quelle diventeranno basi militari ucraine». Mosca non sembra però condividere queste opinioni. Martedì il ministro della Difesa russo, Anatoli Serdjukov, ha detto che Mosca intende usare, anche oltre la data di scadenza del trattato, il porto di Sabastopoli per le sue navi. Il Cremino si appresta a fare altre proposte a Kiev.

Corea del Nord, riattivato impianto nucleare Secondo informazioni diffuse dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Pyongyang ha messo all’opera la minaccia di togliere i sigilli dell’Aiea dai suoi reattori. Anche le tecniche di controllo dell’Agenzia sono state disattivate. Secondo quanto comunicato mercoledì a Vienna dalla portavoce dell’Aiea, Melissa Fleming, da ieri gli ispettori dell’agenzia non avrebbero accesso agli impianti di Yongbyon dove, da circa una settimana, si lavora il materiale fissile. La rimessa in funzione dell’impianto viene giustificata dai coreani con il rifiuto Usa di togliere il Paese asiatico dalla lista degli Stati canaglia.

PARIGI. Chi ha paura della guerra cattiva? La sinistra, risponde la Francia in coro. Ed è la prima volta. Il «no» dell’opposizione rosa-rosso-verde al prolungamento della missione francese in Afghanistan è risuonato come un monito storico lunedì scorso all’Assemblée Nationale. Non che il voto abbia avuto un’incidenza immediata: con 343 voti contro 210 la maggioranza di destra era sicura di poter confermare la presenza del contingente in seno all’Isaf. Il «no» è però sintomatico: per la prima volta dopo 33 anni, si è infatti spezzata la tradizionale «union sacrée», il consenso nazionale che la Francia ha sempre esibito quando si tratta di Difesa e impegni militari. Dai tempi di François Mitterrand e del Libano, del Ciad, del Rwanda, della prima guerra del Golfo e dell’inizio della guerra in Bosnia, passando per Jacques Chirac e l’intervento in Kosovo, il “no” alla guerra in Iraq e l’invio di truppe in Afghanistan, destra e sinistra, gollisti e socialisti si sono sempre trovati d’accordo su quello che bisognava fare per «conservare alla Francia il suo rango». Persino sulla dottrina della dissuasione nucleare, nel 2001 un alto responsabile di sinistra aveva potuto dichiarare che tra la posizione del gollista Jacques Chirac all’Eliseo e del socialista Lionel Jospin a palazzo Matignon «non si poteva far passare il foglio di un filtro di sigaretta». La luna di miele è finita. Colpa di una sinistra alla disperata ricerca di un’identità, che ha miracolosamente ritrovato in un “no” dai non

vaghi accenti antiamericani? O di un presidente di destra che ha sottratto al dibattito e al voto del parlamento le sue decisioni in materia di Difesa?

Di certo il «no» dei socialisti alla proroga del mandato dei soldati francesi in Afghanistan ha sollevato un dibattito che va al di là del voto di lunedì. La destra, fustigando una scelta «irresponsabile» ha liquidato la cosa come una decisione tattica in vista del congresso di novembre da cui dovrà uscire il nuovo segretario del partito socia-

Sul voto ha pesato sia che il 64% dei francesi è contro il proseguimento della missione, sia che la sinistra ha bisogno di riconquistare elettori lista e forse il prossimo (o la prossima) sfidante di Nicolas Sarkozy per l’Eliseo. Lacerati da lotte intestine e fratricide, i socialisti non si sono sicuramente lasciati sfuggire l’occasione di presentarsi per una volta uniti contro Sarkozy. La spiegazione comunque non basta. Anche se con alcuni contorcimenti dialettici, il capogruppo socialista all’Assemblée Nationale JeanMarc Ayrault ha ben spiegato che i socialisti non hanno in realtà votato no «al proseguimento della missione», ma «al modo in cui

questa missione è condotta». A poco più di un mese dalla morte di dieci soldati francesi caduti in un’imboscata dei talebani a ovest di Kabul e all’indomani della pubblicazione di un presunto rapporto della Nato in cui si descrive il contingente francese in Afghanistan come un’Armata Brancaleone, il “no” socialista solleva «questioni quantomeno legittime», come ha scritto Le Monde (a sinistra, ma non sempre tenero con i socialisti). Di sicuro, sul voto ha pesato il fatto che il 64% dei francesi è contro il proseguimento della missione: deve essere stato un sollievo per la gauche essere in sintonia con un’opinione pubblica che continua a bocciarla alle elezioni.

Tutti sono però concordi nell’addebitare la fine dell’«union sacrée» francese sulla Difesa alle simpatie troppo «americane» e «atlantiche» del presidente Sarkozy. «La coalizione impegnata in Afghanistan – si leggeva l’altro ieri nell’editoriale di le Monde – obbedisce a una strategia, quanto meno discutibile, decisa a Washington e che Nicolas Sarkozy, nella doppia veste di presidente francese e dell’Unione europea non ha saputo o voluto riorientare». E François Lamy, deputato socialista incaricato di un rapporto parlamentare sull’Afghanistan, insiste: «In quanto presidente di turno dell’Unione Europea Nicolas Sarkozy aveva l’obbligo di predere posizione nei confronti della Nato e dell’Amministrazione americana. Il nostro “no”è stato un voto di esigenza».

Gran Bretagna, ministro si dimette Il giorno dopo il combattivo discorso del primo ministro Gordon Brown al congresso Labour, il ministro dei trasporti Ruth Kelly ha abbandonato il suo incarico adducendo ragioni private. Kelly, madre di quattro bambini, ha detto di voler dedicare più tempo alla propria famiglia. Con il prossimo rimpasto di governo, previsto per la nuova settimana, la donna verrà sostituita. In passato il ministro aveva criticato il capo del governo inglese a causa del suo piano di ricerca sulle staminali.

Georgia, nuova rivoluzione in vista Il presidente georgiano Mikhail Saakashvili nel suo discorso pronunciato davanti all’annuale assemblea generale dell’Onu, ha preannunciato una vasta riforma del governo e un maggiore equilibrio tra i poteri del suo Paese. Una seconda “rivoluzione delle rose” che dovrebbe proteggere Tblisi da eventuali nuovi attacchi da parte di Mosca. La divisione dei poteri dovrebbe aumentare, parlamento e giustizia acquisterebero maggiore indipendenza mentri i partiti di opposizione riceveranno maggiori finanziamenti pubblici. La prima rivoluzione delle rose aveva abbattuto Schevardnatze per mettere al potere proprio Mikhail Saakashvili.

Austria, passo falso dei liberali Il leader del Forum liberale, Lif, Alexander Zach, a cinque giorni dalle elezioni legislative austriache, ha reso note le sue dimissioni dalla guida del partito. Alla base del ritiro di Zach vi sarebbe un’attività di lobbyng dell’agenzia dell’uomo politico nei confronti dell’industria produttrice di aerei militari Eads. Un passo che rappresenta con ogni probabilità il colpo definitivo alla credibilità della piccola forza politica liberale che aveva fatto della moralità in politica il suo cavallo di battaglia, e la fine di ogni sua speranza di ingresso nel futuro parlamento. La fondatrice del partito, Heidi Schmidt, che si era già dimessa la settimana scorsa, ha parlato di calunnie nei confronti del Forum liberale contro le quali il partito intende agire per vie legali. Scopo delle calunnie sarebbe impedire alla Lif l’ingresso nel consiglio nazionale.


mondo

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Una moneta diversa per ogni provincia: è la ricetta del lìder venezuelano contro l’inflazione

L’ultima di Chávez? Il baratto di Maurizio Stefanini opo un periodo di apparente ripiegamento, quello delle ultime settimane è un Chávez di nuovo in grande effervescenza. Dopo aver chiesto all’Opec di ridurre le quote di produzione, aver promosso un vertice sudamericano a sostegno del suo protetto Evo Morales, aver ospitato due bombardieri russi e invitato la flotta di Mosca a fare manovre congiunte, adesso è andato lui a Pechino e da Putin, a firmare nuovi accordi strategici. Fra questi, l’incremento di un fondo strategico per lo sviluppo creato nel 2007, progetti energetici, acquisto di macchinari industriali e agricoli e di aerei da addestramento K-8, costruzione congiunta di una raffineria in Cina e di un’altra in Venezuela, costruzione di navi venezuelane in cantieri cinesi, con la Repubblica Popo-

D

lare. Un credito per acquistare sistemi antiaerei, carri armati e sottomarini, per un totale di 30 miliardi nei prossimi sei anni, con la Russia. Nel contempo c’è anche l’offerta di acquistare Alitalia effettuata da Simeón García, un imprenditore a lui vicino. Ma mentre Chávez all’estero gioca a tutto campo, in Venezuela pur di riuscire a venire a capo di un’inflazione ormai incontrollabile è costretto a tornare al baratto. Della cosa aveva iniziato a parlare nel corso della campagna per le presidenziali del 2006, citando allora «il modello dello Zimbabwe». Poiché nel frattempo l’immagine di Robert Mugabe deve essersi deteriorata anche in America Latina, quando il 31 lu-

stanza, ci fanno capire abbastanza bene come il problema vero sia un’inflazione ormai sempre più incontrollabile: 19,4% da gennaio e 34,5% su base annuale. La più alta dell’America Latina.

Paradossalmente, il risultato è abbastanza simile a quanto si era avuto in Argentina tra 2000 e 2001, ma per ragioni opposte. Allora non era stata infatti l’inflazione, ma la dura ortodossia deflazionista che aveva ancorato il peso al dollaro a far sparire la moneta, costringendo una provincia dopo l’altra a pagare i loro dipendenti in “buoni”. Ovviamente non bastò, e il ministro Domingo Cavallo, padre della “parità”,

Lionza, cimarròn, guaiquerí: sono solo alcuni esempi delle nuove monete già coniate in dieci province del Paese. Ma il direttore della Banca centrale avverte: torniamo all’800 glio ha varato un decreto legge «per l’incentivo e lo sviluppo dell’economia popolare» ha avuto il buon gusto di lasciar perdere quel riferimento. In compenso, dopo che già il ministero dell’Economia comunale aveva iniziato a diffondere i primi buoni nel corso del 2007, ha ora dato al progetto sanzione legale.

Approvato nell’ultimo giorno utile prima della scadenza dei poteri straordinari che si era fatto dare all’Assemblea Nazionale un anno e mezzo prima, il decreto autorizza le comunità, organizzate in «gruppi di intercambio soldario», a creare una propria valuta, darle un nome «che faccia risaltare l’identità del popolo» e stabilirne il valore in rapporto al bolívar fuerte: la nuova moneta di corso legale stabilita a gennaio, tagliando tre zeri alla vecchia valuta. L’una e l’altra misura, a sette mesi di di-

ebbe allora l’idea del “corralito”: un massimale al prelievo dei depositi bancari che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto spingere gli argentini a aumentare i pagamenti in carte di credito, bancomat e assegni, ma che invece provocò prima la sollevazione popolare, e poi il default. E a quel punto per un po’ la gente senza soldi aveva inventato dei mercatini di trueque, “baratto”, basati anch’essi sullo scambio di merce usata o fatta in casa attraverso una specie di moneta autogestita: un’esperienza poi però presto esaurita un po’ per il risollevarsi dell’economia, e molto più per il modo in cui i buoni erano stati falsificati in modo massiccio. Adesso, il trueque bolivariano si articolerà in monete da utilizzarsi unicamente in ambito comunitario, scambiabili con “saperi, beni e servizi” ma mai per denaro corrente o monete di altre comunità. Il che, insomma, vuol dire che in attesa di realiz-

zare il sogno di Simón Bolívar di unire l’America Latina in una sola nazione Chávez sta piuttosto spezzettando il Venezuela in una pletora di entità autarchiche, peggio che ai tempi del feudalesimo e dell’economia curtense. Su 23 Stati, esistono già 10 monete locali di questo tipo. Nel Yaracuy circola ad esempio la lionza, dal nome di una divinità indigena. A Miranda il cimarrón, come gli schiavi fuggiti nella selva. A Nueva Esparta, che sarebbe poi lo Stato della famosa isola turistica di Margarita, il guaiquerí, dalla locale etnia precolombiana. A Trujillo c’è il momoy, da una località dello Stato. A Falcón lo zambo, che sarebbe poi la definizione del meticcio tra negro e indio. A Sucre c’è un populista patria.

A Zulia el relámpago del catatumbo: fenomeno naturale che forma un arco di fulmini (relámpagos) sul fiume Catatumbo. A Lara c’è invece il il tamunange, come il locale ballo folklorico. A Barinas, dove Chávez è nato, c’è il ticoporo, anch’essa località regionale. A a Monagas il turimiquire, che è invece una zona montana. Anche per chi utilizza questi mercati è stato coniato un neologismo: prosumidor, che starebbe per “produttore-distributore-consumatore” allo stesso tempo. «Un mercato socialista dove non c’è sfruttamento», è lo slogan ufficiale. Domingo Maza Zavala, già direttore del Banco Central de Venezuela tra 2000 e 2007, parla invece di «violazione della legge» e di «ritorno al XIX secolo, quando i latifondisti pagavano i loro dipendenti con gettoni che erano spendibili solo nelle botteghe di loro proprietà». In effetti, la possibilità di organizzare il territorio venezuelano in “città comunali” socialiste era stato previsto nel progetto di riforma costituzionale che il popolo venezuelano bocciò. Già nel 2007.


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il paginone

Indagine sul fondamento filosofico dell’identità del Vecchio continente

TORNIAMO A GUARDARE Gli uomini d’Europa non hanno futuro se non riscoprono il “bene comune” di Giovanni Reale a non pochi studiosi si sta mettendo bene in rilievo il fatto che si dovrebbe cercare di dare adeguata importanza, a tutti i livelli alla cultura non meno che ai problemi connessi con l’economia e con il benessere materiale, in quanto la cultura si incentra sui valori, ed è cibo sostanzioso di cui lo spirito ha bisogno, almeno quanto il corpo ha bisogno del cibo materiale. Assai significativo è un monito di Ionesco, che andrebbe tenuto ben presente: «Gli uomini politici non sanno assolu-

tamente l’importanza della cultura. Nel nostro mondo despiritualizzato, la cultura è ancora l’ultima cosa che ci permette di superare il mondo quotidiano e di riunire gli uomini. La cultura uni-

D

Per Eugéne Ionesco «solo l’arte e la filosofia, solo le interrogazioni vive possono tenere sveglia l’umanità e impedire che l’anima si assopisca; soltanto l’arte e la filosofia possono sviluppare il meglio che c’è in ciascuno di noi»

Qui sopra, il poeta inglese Thomas Stearns Eliot. In alto, il grande scrittore di teatro franco-rumeno Eugéne Ionesco

sce gli uomini, la politica li separa». Testo da leggere insieme a quest’altro: «Solo l’arte e la filosofia, solo le interrogazioni vive possono tenere sveglia l’umanità e impedire che l’anima si assopisca, soltanto l’arte e la filosofia possono sviluppare il meglio che c’è in ciascuno di noi». Ionesco non è un credente e punta sulla filosofia e sull’arte, ma bisognerebbe porre insieme a queste, e in primo piano, il senso del religioso, come vedremo. In tale direzione dovrebbe cercare

di indirizzarsi la scuola, che per molti aspetti risulta essere, di fatto, la realtà più in crisi e più trascurata dai politici, con l’assurda convinzione per lo più sottaciuta – ma in certi casi esplicitata – che essa sia di fatto “improduttiva”. Va detto che instaurare una relazione costruttiva fra la cultura della scuola tradizionale e quella dei giovani di oggi rimane assai un compito difficile, per il fatto che fra le due culture ci sono differenze di paradigmi, con tutte le conseguenze che questo comporta. Bisogna aiutare il giovane a comprendere il senso di essere uomo in generale e di essere uomo democratico in particolare. Ricordiamo che oggi il giovane è malato come nella storia dell’uomo non è mai stato. I giovani sono molto cambiati e sono in grande crisi. Fornisco alcune prove specifiche. Nella sola provincia di Milano nel 2007 ben 700 ragazzi fra gli 11 e i 19 anni hanno tentato il suicidio. A questi vanno aggiunti altri 500 ragazzi che sono stati ricoverati in ospedale con altra formula, sotto la quale però si nascondeva l’amara verità. Quindi i tentativi di suicidio di ragazzi fra gli 11 e i 19 anni, nella sola provincia di Milano, nel 2007 sono stati in media fra i tre e i quattro al giorno. Alcuni psicoterapeuti dicono che non hanno avuto mai tanti giovani come ora in cura per depressione. E la motivazione che alcuni adducono è la seguente. I giovani si sentono privi di valori, di ideali e di punti stabili di riferimento. E spesso trovano caos in famiglia e caos nella società in cui vivono, e non sono in grado di tracciare una via da seguire.


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IL CIELO Dimenticanza del senso e del valore della persona Uno dei valori caduto maggiormente in crisi è quello dell’uomo come persona, con la sostituzione dell’individuo alla persona. Già nel 1930 Karl Jaspers parlava del diffondersi di una “responsabilità anonima”, e noi dobbiamo aggiungere anche di una “assistenza puramente anonima”. Gadamer precisa che quella di Jaspers «è una parola che vede molto lontano. E che diventa sempre più vera. Diventa terribilmente vero che oggi ci siano delle cliniche nelle quali come pazienti non si conserva più il proprio nome e si riceve solo un numero». E soggiunge una osservazione assi efficace: «noi viviamo in questo mondo della responsabilità anonima, che grazie alla propria arte di organizzazione ha poi portato ad un mondo della reciproca estraneità. Chi è il vicino con cui viviamo? » Da qualche tempo in Europa accade che qualcuno muoia, e che, anche se si trova in un condominio, nessuno se ne accorga per parecchio tempo (a Parigi si è verificato il caso della morte di un pensionato in un condominio, di cui non ci si accorse per ben due anni). Alla provocatoria domanda di Gadamer va aggiunta anche quest’altra, ancora più provocatoria: «Sai che esiste un tuo vicino?». I nuovi rivoluzionari mezzi di comunicazione che cancellano ogni distanza, anziché avvicinare gli uomini li allontana l’uno dall’altro. Ancora

Gadamer s c r i v e : «Quando il tocco del bottone rende raggiungibile il vicino, questo sprofonda in una lontananza irraggiungibile». E Heidegger precisa che l’eliminazione della lontananza con la vicinanza di tutto viene a coincidere con l“assenza”: «Tutto si confonde nell’uniforme senzadistacco. Come? Questo compattarsi nel senza-distacco non è forse ancora più inquietante di un frantumarsi di tutto? Tutto ciò che è reale si stringe nell’uniforme senza-distacco. La vicinanza e la lontananza di ciò che è

Il convegno di ”liberal” con il premio a Ciampi Venerdì e sabato prossimi, 26 e 27 settembre, la fondazione liberal terrà a Siena - presso Santa Maria della Scala - la quinta edizione delle ”Giornate internazionali del pensiero storico”. Il convegno di quest’anno - venerdì - sarà incentrato su “Patria, Nazione, Bene comune”. Sono previste relazioni di Giovanni Reale (“Attualità del concetto di bene comune”, che anticipiamo in queste pagine), Gennaro Malgieri (“Patria e valori condivisi”) e Pierpaolo Donati (“Cittadinanza e globalizzazione”). Nel pomeriggio di

venerdì si terrà il dibattito su “Dialogo e conflitto nella seconda Repubblica” con Pierluigi Bersani, Giuseppe Pisanu e Bruno Tabacci moderati da Stefano Folli. L’iniziativa si chiuderà sabato con la consegna di un premio al presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La cerimonia di consegna sarà introdotta dalle prolusioni di monsignor Rino Fisichella su «Chiesa e Nazione» e di Ferdinando Adornato su «Il senso dello Stato» e dopo la Laudatio di Pier Ferdinando Casini in programma dalle ore 10.

trovarsi in compagnia di altri individui solitari come loro, e tornano alle loro proprie case con una solitudine corroborata e ribadita».

Per Thomas Stearns Eliot, «la forza dominante della creazione d’una cultura comune tra i popoli, ciascuno dei quali abbia una propria cultura distinta, rimane sempre la religione» presente rimangono assenti». L’uomo di oggi ha perduto in larga misura il senso dell’uomo come persona. Ricordiamo che il concetto di persona è sostanzialmente cristiano. L’uomo come immagine di Dio è immagine di un rapporto fra persone (solo con il dogma trinitario si spiega la cosa), fondato sull’amore donativo. Tu sei uomo solo se instauri un rapporto donativo e costruttivo con l’altro. Il nostro “Io” è senza base se non ha un nesso strutturale con il “Tu”. Il sociologo Zygmunt Bauman, che non è un credente ma è un saggio nel senso antico del termine, ha giustamente rilevato che l’individuo è il peggior nemico dello Stato e della vera democrazia e scrive: «Se l’individuo è il peg-

giore nemico del cittadino e se l’individualizzazione è foriera di guai per la cittadinanza e per la politica basata su di essa, è perché gli interessi e le preoccupazioni degli individui in quanto tali riempiono lo spazio pubblico proclamandosene i soli legittimi occupanti ed escludendo ogni altra cosa dal discorso pubblico». Inoltre, sempre Zygmunt Bauman giustamente rileva che l’individualismo è la base della precarietà dei rapporti umani a tutti i livelli. Inoltre, l’individualismo rende di fatto impossibile un autentico “stare insieme”, e le riunioni di giovani e di non giovani che si cercano da varie parti e a vari livelli, sono riunioni di solitari. «Gli individui oggi entrano nell’agorà solo per

Dimenticanza della dimensione del religioso in connessione con il messaggio cristiano Il principio assiologico fondativo di una comunità europea non dovrebbe essere se non quello umanistico-cristiano, in base al quale l’Europa si è generata e costituita. Eliot, in una pagina veramente memorabile, esprime un messaggio di verità di straordinaria portata: «La forza dominante della creazione d’una cultura comune tra i popoli, ciascuno dei quali abbia una cultura distinta, è la religione. Vi prego, a questo punto, di non compiere un errore anticipando quel che intendo dire. Questa non è una conversazione religiosa, né mi dispongo a convertire alcuno. Mi limito a constatare un fatto. Non m’interesso molto della comunione dei cristiani credenti ai giorni nostri; parlo della comune segue a pagina 14


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segue da pagina 13 tradizione cristiana che ha fatto l’Europa quella che è, e dei comuni elementi culturali che questa cristianità ha portato seco.[...] Un singolo europeo può non credere che la Fede Cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice e fa, scaturirà dalla parte della cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato. Solamente una cultura cristiana avrebbe potuto produrre un Voltaire ed un Nietzsche. Non credo che la cultura

Edgar Morin

Martin Heidegger

Platone

dell’Europa potrebbe sopravvivere alla sparizione completa della Fede Cristiana [...] Quel che desidero dire è che questa unità negli elementi comuni della cultura è da molti secoli il vero legame tra di noi. Nessuna organizzazione politica ed economica, quale che sia la buona volontà che essa voglia imporre, può supplire a quanto dà questa unità culturale. Se noi disperdiamo o gettiamo via il nostro comune patrimonio, allora tutte le organizzazioni e i progetti delle menti più ingegnose non ci gioveranno, né contribuiranno a unirci».

il paginone Crisi della filosofia All’uomo di oggi – che dà assoluta preminenza al pensiero scientifico – sono caduti in oblio in generale la filosofia i suoi problemi di fondo. Non pochi filosofi di oggi si occupano di questioni di carattere formale e connesse con il problemi del “metodo” e del “linguaggio”, ben più che di ciò che con il metodo e con il linguaggio si dovrebbe raggiungere, ossia dai contenuti. Habermas, in un suo recente libro, scrive: «[…] Per quanto la nostra autocomprensione esistenziale continui sostanzialmente ad alimentarsi di quelle tradizioni, tuttavia, nello scontro delle stesse potenze di fede, la filosofia non è più autorizzata ad intervenire in modo diretto. Proprio nelle questioni per noi più rilevanti, la filosofia si ritira su una sorta di metalivello. Essa si limita ad indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti. Certo, tutto questo può sembrare deludente. Ma che obiezioni potremmo mai sollevare contro questa astensione ben giustificata?» Inoltre, se la filosofia vuole imitare la scienza (come è avvenuto soprattutto negli ultimi due secoli), in realtà si snatura, ossia finisce col perdere la propria identità e diventare inutile. Patocka scriveva: «Là dove si chiede che la filosofia sia provata e dimostrata alla maniera delle teorie matematiche o di quelle delle scienze naturali, c’è la capitolazione della filosofia. Questa tendenza conduce anche allo scetticismo sulle possibilità e sull’utilità della filosofia, sul suo stesso senso». Heidegger diceva, con una forte frase provocatoria: «La scienza non pensa». Non pensa, nel senso che pensa problemi specifici e particolari, ma non pensa i problemi di fondo dell’uomo. Gadamer soggiunge che la scienza non ha neppure una propria lingua, in quanto procede per simboli e segni artificiali. L’errore più grave che l’uomo moderno rischia di fare è quello di trasformare la scienza in religione. Osservazioni sulla natura della democrazia Morin, mentre esalta come uno dei meriti più grandi dell’Europa quello di avere creato e diffuso la democrazia, mette bene in evidenza come la democrazia non sia un valore autonomo. La democrazia non è “autosuffi-

ciente”, in quanto non possiede una verità che trascenda il suo esercizio, e pertanto suppone alla base valori morali che, in quanto tali, la trascendono. Morin scrive: «La democrazia non è il riflesso di un ordine divino o cosmico. Non possiede in sé alcuna verità trascendente il suo esercizio; la sua verità fondamentale è di non avere verità per permettere alle diverse verità politiche di esprimersi, affrontarsi confrontarsi, rispettandosi, cioè rispettando la regola democratica. – Così, la chiave dell’idea

democratica è nella sua regola. [...] La regola del gioco democratico permette alla diversità sociale, culturale, politica di essere produttiva attraverso i suoi conflitti. È ciò che permette ai conflitti di essere eventualmente creatori. Certamente la democrazia non garantisce affatto che gli antagonismi sociali non riescano a spezzare la regola e così a distruggerla». A complemento di queste fini notazioni di Morin leggere un converrà passo, tratto dal classico libro di Sartori Democrazia: cosa è, che sono assai illuminanti. A conclusione dell’ultima edizione dell’opera, Sartori precisa: «Nel mondo modernizzato chi oggi governa senza democrazia gioca senza legittimità. Ma anche il gioco democratico può essere giocato male. Saprà la democrazia resistere alla democrazia? Sì, ma a patto di giocare con più intelligenza e

soprattutto con più responsabilità di quanta io oggi ne veda a giro. Sì perché il pessimismo dell’intelligenza va combattuto da un ottimismo della volontà. Ma se ci culleremo nell’illusione (irresponsabile) di un futuro ‘sicuro’, allora è sicuro che tale non sarà». Le conclusioni che dobbiamo trarre dai ragionamenti fatti sono le seguenti: per poter reggere, la democrazia deve poggiare su solide basi meta-politiche, ossia su valori etici, che assiologicamente la trascendono, su

quei valori oggi in crisi. In particolare va richiamata l’attenzione sul fatto che la democrazia, quando è democrazia vera, non è e non può essere fondata su una libertà eslege e senza limiti. La libertà, diceva già Platone, se non è fondata sui valori, e quindi su un bene comune oggettivo, si autodistrugge e si capovolge nel suo contrario.

La grande questione dell’incontro di differenti culture e della possibilità della loro mediazione Samuel Huntington, a conclusione del suo libro Lo scontro delle civiltà, scrive: «Nell’epoca che ci apprestiamo a vivere, gli scontri di civiltà rappresentano la più grave minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra mondiale». Ma come dovrà essere affrontato l’incontro fra civiltà e culture tanto diffe-

renti tra di loro, e in che modo potrà instaurarsi un rapporto costruttivo? Da molti studiosi è stato messo in rilievo il fatto che la cultura europea – e di conseguenza l’idea stessa di Europa – è nata da differenti culture sinteticamente mediate: antichità greca e romana, ebraismo e cristianesimo. E da tale mediazione sintetica è nata la civiltà europea che ha prodotto la razionalità, l’umanesimo, la concezione spirituale dell’uomo, la democrazia, e i valori che l’hanno posta in primissimo piano

rispetto alle altre civiltà. Dunque, non da un coacervo di differenti elementi, ma da una loro mediazione e da una loro sintesi è nata l’Europa: e di conseguenza bisogna procedere in tale direzione, affinché non accada ciò che è successo all’impero romano. La sintesi degli elementi derivanti dalle differenti culture nell’Europa rimase costantemente, in ogni caso, una forma di unitas multiplex, la quale – come rileva Morin – implica sempre, in un certo senso, conflittualità, però secondo una dinamica dialogica, e quindi costruttiva. In che modo, allora, si potrà costruire una unio multiplex? Occorre riconoscere e mantenere la propria identità come condizione per instaurare un rapporto costruttivo con le altre culture. Dunque, bisogna riguadagnare il senso dell’“identità” dell’Europa, che costituisce il suo puntum stantis aut cadentis. In tal senso, le affermazioni di Morin si impongono come paradigma-


il paginone tiche: «Dobbiamo radicarci nell’Europa per aprirci al mondo come dobbiamo aprirci al mondo per radicarci nell’Europa. Aprirsi al mondo non è adattarsi al mondo. È anche adattare sé agli apporti del mondo [...]. – Una volta di più, l’apertura e il ritorno alle origini sono legati. Ciò che T.S. Eliot aveva detto della letteratura è vero di tutto ciò che è cultura: ‘La possibilità per ogni letteratura di rinnovarsi, di accedere a una nuova tappa creatrice (…) dipende da due cose: 1° dalla sua facoltà di

non ‘Sopportare’ l’altro significa affatto che non si debba essere consapevoli della propria irriducibile identità. È anzi proprio la forza, la forza che deriva dalla certezza di quell’identità, a rendere possibile la tolleranza». È appena il caso di ribadire che si dovrà fare tutto questo tenendosi lontani il più possibile non solo dalla guerra ma anche da qualsiasi forma di violenza, e battere invece la via della pace, che è la più erta e la più difficile. Jünger diceva: «La vera pace presuppone un coraggio superiore a quello necessario per la guerra; è una manifestazione di travaglio spirituale, di forza spirituale». E la vera pace richiede una forza superiore a quella della guerra, perché presuppone il guadagno spirituale del bene comune, con tutto ciò che esso implica. Identità e differenze e i loro nessi strutturali dinamico-relazionali Quale deve essere il limes fra una cultura dell’“uomo europeo” e le varie culture degli uomini che vogliono entrare in Europa? Una risposta al

assimilare influenze straniere, 2° dalla sua facoltà di ritornare alle proprie fonti e di imparare da loro’. I Giapponesi hanno potuto, fino ad ora, assimilare la civiltà occidentale ‘con l’anima giapponese’ (wakonyosai). Per noi, si tratta di assimilare i pensieri diversi da quelli europei ‘con l’anima europea’, cioè introducendoli come nuovi interlocutori nella dialogica culturale europea. [...] È qui che la salvaguardia e il ritorno alle origini sono indispensabili all’assimilazione». A completamento di quanto abbiamo detto e letto, converrà riportare anche una bella pagina di Gadamer: «Bisogna guardarsi dal riportare la coesistenza del diverso a un falso spirito di tolleranza, o meglio a un falso concetto di tolleranza. È un errore molto diffuso quello di ritenere che la tolleranza consista nel rinunciare alla propria peculiarità, cancellandosi di fronte all’altro. […] La tolleranza non può andare disgiunta dalla forza.

problema viene fornita con chiarezza da Giovanni Sartori nel suo libro Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Partendo dalla celebre contrapposizione che poneva Popper fra “Società chiusa” e “Società aperta”, Sartori fa emergere un problema essenziale, che Popper non solleva e non discute: fino a che punto una società deve rimanere “aperta”? Dice Sartori: «Le frontiere sono spostabili, ma qualche frontiera ci sarà sempre, anche se ne può grandemente variare la trasversabilità e la porosità». Sartori distingue: 1) un “pluralismo” da 2) un “multiculturalismo”. Il “pluralismo” è strettamente connesso con la “tolleranza”; comprende e

accetta l’alterità e anche la difende, però la frena, nel senso che non la esalta e difende la propria identità: «Per il pluralismo omogeneizzazione è male, ma assimilazione è bene. Inoltre, essendo tollerante, il pluralismo non è aggressivo, non è bellicoso. Ma, sia pure in

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riconosce il bene comune come valore fondativo do qualsiasi tipo di vera e costruttiva convivenza. Per renderci conto a fondo della dimenticanza che comporta il pensare scientifico, leggiamo un passo del libro di E. Morin – scritto in collaborazione con A.B. Kern – dal

Per Edgar Morin «l’intelligenza parcellizzata e meccanicistica rompe il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale»

modo pacifico, combatte la disintegrazione». Per contro, il “multiculturalismo” esalta e in certo senso fomenta la differenza, e di conseguenza rende estremamente problematica – se non addirittura impossibile – una unificazione: «[…] Il pluralismo si dispiega come una società aperta variegata da appartenenze multiple, mentre il multiculturalismo configura lo spezzettamento della comunità pluralistica in sottosistemi di comunità chiuse e omogenee». In altri termini: mentre nella società pluralistica si realizza quella concordia discors, di cui abbiamo detto, nella società multiculturalistica prevale una sorta di discordia senza vera concordia. La società multiculturalistica non

titolo Terra Patria. Morin, pur essendo un grande amante della scienza, spiega – con sprizzante ironia, squisitamente francese – come e perché la scienza rende cieca la nostra ragione (e quindi ci rende sempre più incapaci di “contemplare”): «L’intelligenza parcellizzata, compartimentata, meccanicistica, disgiuntiva, riduzionistica rompe il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. È un’intelligenza nello stesso tempo miope, presbite, daltonica, monocola; finisce il più delle volte per essere cieca. Distrugge in embrione tutte le possibilità di comprensione e di riflessione, eliminando così tutte le possibilità di un giudizio correttivo o di una vita a lungo termine. Così, più i problemi diventano multidimensionali, più c’è incapacità di pensare la loro multidimensionalità; più progredisce la crisi, più progredisce l’incapacità a pensare la crisi». L’intelligenza parcellizzata è diventata mortifera. Solo se tiene in debito conto quanto sopra ho precisato, si potrà prendere coscienza di quali e quante siano quelle “forze centrifughe” che rendono difficile un ricupero di quelle energie spirituali necessarie per la ricostruzio-

ne di una nuova “idea di Europa democratica” e la formazione di un nuovo “uomo europeo” veramente democratico. Ionesco in un Discorso di apertura del Festival di Salisburgo, sviluppava pensieri che convergono perfettamente con quanto sto dicendo e nel finale precisava: «Le nozioni di amore e di contemplazione non sono più neanche nozioni diventate ridicole, sono completamente abbandonate. L’idea stessa di metafisica, quando non anima le collere, suscita sogghigni. – La crisi è incominciata da molto tempo. Forse a partire dal

Carl Gustav Jung

Hans Georg Gadamer

Zygmunt Bauman diciassettesimo secolo, la cultura ha affrettato il proprio decadimento. È diventata sempre più umanizzante, invece di essere spiritualistica. Ci sono sorrisi di santi, di angeli e di arcangeli sui volti delle sculture che si trovano nelle cattedrali. Non sappiamo più guardarli. Gli uomini girano intorno in quella loro gabbia che è il pianeta, perché hanno dimenticato che si può guardare il cielo». Ma è proprio questo che l’uomo di oggi deve richiamare alla memoria, che si può e si deve guardare anche il cielo.


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polemiche

Il presidente francese Sarkozy propone all’Onu una governance per la globalizzazione e leggi più severe per il capitalismo. Liberal ne ha parlato con tre intellettuali della sinistra italiana

Partito Regolista Italiano «Mercato regolato» contro «Liberismo selvaggio». Basta un aggettivo per convincere i vetero-marxisti? di Riccardo Paradisi a notizia che il presidente francese Nicolas Sarkozy abbia constatato che un mercato senza regole non è un mercato liberale. Ha riscoperto la tradizione colbertista, le sue radici golliste si è detto dopo il suo discorso nell’aula generale del palazzo di Vetro dell’Onu, dove ha proposto che capi di Stato e di governo si riuniscano entro la fine dell’anno per riflettere e tirare le lezioni della più grave crisi finanziaria dopo quella degli Anni Trenta. «Ricostruiamo insieme - ha detto Sarkozy - un capitalismo regolato, dove pezzi interi dell’attività finanziaria non siano abbandonati alla sola valutazione degli

F

Il paradosso è che questo dibattito sulla natura del mercato e del suo governo si svolge oggi tutto a destra. Sicchè viene spontaneo domandarsi: la sinistra intellettuale, quel mondo di uomini e idee che ha passato decenni sul fronte della critica al mercato e al

«mercato», che oggi schiaccia con le potenze dell’economia e della tecnica le persone. Per Barcellona «Il capitalismo è un meccanismo che distrugge ricchezza e la ricrea: appartiene al movimento del capitalismo la vocazione ad autoriformarsi per poi rilanciarsi». Liberismo e keynenismo insomma per Barcellona sarebbero sistola e diastole dello stesso movimento interno al capitalismo. «Il capitalismo sta semplicemente ricollocando le sue risorse. Sta usando strumenti che gli corrispondono. Ma non è la smentita del capitalismo. Con l’intervento pubblico Bush non sta minando l’economia di mercato la sta facendo ripartire». Insomma non basta la formula magica “capitalismo regolato” a far cambiare idea a Barcellona sul segno

Non c’è stato mai un mercato autosuffciente: la moneta, la giurisdizione, la società che non sono regolati dal mercato. I vincoli possono limitare ma non evitare il periodico massacro sociale del ceto medio operatori del mercato, dove le banche facciano il loro mestiere, che è quello di finanziare lo sviluppo piuttosto che la speculazione». Capitalismo regolamentato lo chiama Sarkozy.

È la stessa esigenza che già alla fine degli anni Novanta – il decennio ruggente della net-economy e delle tigri asiatiche – aveva manifestato Edward Luttwak parlando di ”dittatura del capitalismo” da posizioni liberal-conservatrici: il mercato deve essere regolato, i poteri economici necessitano di contrappesi giuridici, il liberismo estremo è una forma di totalitarismo pericoloso alla pari del comunismo sovietico.

capitalismo, come giudica questa dialettica interna al liberalismo dentro cui sembra riprendere forza la declinazione conservatrice?

La

negativo che accompagna sempre, secondo lui, mercato

supremazia

della politica e della governance sugli animal spirits del capitalismo? Pietro Barcellona ordinario di filosofia del diritto all’università di Catania, intellettuale storico della sinistra italiana e autore del recente Il furto dell’anima (Dedalo editore) analizza da anni le contraddizioni del capitalismo dove la libertà ha finito col legarsi solo alla sfera del

e capitalismo. «Non c’è stato mai un mercato autosufficiente: ci sono alcuni

valori – la moneta, la giurisdizione, la società – che non sono regolati dal mercato. Questa regolamentazione può limitare ma non evitare il massacro sociale dentro cui il ceto medio viene periodicamente travolto». Sul fatto che sia tornato di attualità un liberalismo più conservatore, più attento alle regole, interessato al governo politico e meno fiducioso nella mano invisibile Barcellona conviene, anche se il dato non lo consola per niente: «A me non basta. L’individualismo atomistico è un errore di grammatica. Ho sempre difeso la rilevanza dei corpi intermedi, famiglia, partito, associazioni religiose. Io resto un socialista». Resta socialista anche Nicola Tranfaglia, professore emerito della storia d’Europa all’Università di Torino anche se per lui la regolamentazione del mercato non è affatto un’ossimoro o un’astuta formula retorica: «Io vedo positivamente il fatto che ci sia una revisione in seno alla cultura politica di destra del capitalismo. Che si avverta l’esigenza di governarne il movimento. È giusto che chi governa si ponga il problema di fronte alla grave crisi economica che si è aperta, di fare in modo che la società diventi più equa senza perdere la sua connotazione di società aperta». Che questo dibattito si sviluppi “a destra” per Tranfaglia è poi «positivo anche per la sinistra. Come uno stimolo per tornare a elaborare cultura politica, cosa che da anni non avviene più».

Almeno in attesa, che al capitalismo sappia presentare un’alternativa credibile per i tempi: «Non basta più dire socialismo: si dovrebbe anche chiarire quale tipo di socialismo si immagina come alternativa a un’economia di mercato più o meno regolamentata». Anche perché il fatto che la sinistra europea e occidentale non ci sia all’ appuntamento con la crisi sistemica più grave degli ultimi sessant’anni è paradossale. Un paradosso che per Luciano Gallino, professore di Sociologia all’università di Tori-


polemiche Nelle foto della pagina accanto da sinistra lo storico Nicola Tranfaglia, il filosofo Pietro Barcellona e il sociologo Luciano Gallino. Nella foto qui sotto lo storico della letteratura italiana Alberto Asor Rosa

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Asor Rosa sul mercato e i suoi limiti

«Oltre l’ideologia ci sono le persone» colloquio con Alberto Asor Rosa asta l’aggettivo “regolato” per far cambiare ragione sociale al capitalismo e al mercato? Luigi Einaudi diceva di no: che specificare che il mercato era anche sociale era utile solo per quegli stupidi che non capiscono che il mercato ha in sè una vocazione sociale. Alberto Asor Rosa, linguista e storico della letteratura italiana, pur da una posizione molto diversa da quella liberista di Luigi Einaudi, conviene sul fatto che le parole passepartout sono solo parole: formule linguistiche che pretendono di spiegare molto senza afferrare nulla. Si propone una regolamentazione del mercato professore. Da destra. Adesso mi sembra diffondersi l’idea di recuperare una funzione regolatrice dello Stato che nel periodo precedente all’attuale – e parlo di pochi anni fa –veniva considerata il demonio. Ma si tratta di dispute ideologiche. La realtà è che la destra al potere capisce che il mercato assoluto non esiste e ora con le parole – capitalismo regolamentato – spiega quello che trova necessario fare: porre cioè delle regole a un meccanismo che rischia di travolgere tutto. Ma è un discorso senza consistenza strategica. Beh non solo la destra anche la sinistra ha brandito per anni il mercato come panacea per i mali del mondo. Solo formule? Hanno agitato delle idee, ma le hanno pensate e meditate poco. C’è stata l’esaltazione sconsiderata di un liberismo senza freni che lascia il posto a un ritorno di schemi keynasiani. Del resto ceto politico europeo di destra e di sinistra non ha le idee chiare

B

no, è ancora più macroscopico a petto di un terremoto economico che si profila devastante per i suoi effetti. «Sarebbe compito della sinistra, non di Sarkozy o di Tremonti, porre il problema delle regole per un capitalismo che sta mettendo in vibrazione il mondo. Anche perchè i rimedi che sono proposti da destra a suon di interventi pubblici sono solo modi per tornare a fare quello che si faceva prima. Nessuno ha intenzione di cambiare le regole del gioco». Gallino, che sta scrivendo un libro per Einaudi dal titolo Con i soldi degli altri proprio sugli esiti nefasti della globalizzazione: «La cosa che stupisce – dice ancora Gallino – è che il problema era chiaro ed evidente già dieci anni fa, quando in sede Onu si parlava di una governance globale sull’economia internazionale. Non se ne è fatto nulla, per gentile interessamento delle multinazionali». Ancora era terribilmente out parlare di regolamentazione dei mercati.

sulla grande prospettiva. Ragiona in base a proiezioni di pochi anni senza rendersi conto di quale potrebbe essere il quadro strategico globale di un’intera generazione. Non c’è da congratularsi di questo e non c’è da consolarsi coi giochi di parole. Ma che succede professore quando anche un uomo di sinistra come Michele Salvati fa coincidere la sinistra con il liberismo? Non succede nulla, che vuole che succeda. In questo andirivieni di parole del resto ognuno può dire quello che vuole. Dovrebbe esserci però una misura. Anche tra egemonia del mercato e statalismo a tutti costi dovrebbe esserci una misura. Comunque da questa falsa disputa giocata sulle parole una cosa buona s’è prodotta. Quale? L’evidenza che liberalismo e liberismo non coincidono. Nei primi anni del ’900 era possibile non confondere le due cose riil vendicando primato della politica e dell’ideologia sul puro mercatismo economico. Poi non si è distinto più nulla. Il mercato dunque non è anche sociale. Le imprese americane che sono andate in fallimento si fregiavano di essere imprese a carattere sociale perché dovevano aiutare le masse di consumatori americane. Le hanno bellamente fregate invece. Non c’è nessun automatismo virtuoso nel meccanismo economico: se non esistono vincoli, regole, interessi comuni tutelati si ha la giungla, non il ”mercato sociale”. Ma questo i liberali seri l’hanno sempre saputo. E sarebbe già una cosa se ci si sforzasse di definire regole certe e precise per moderare i disastri che il capitalismo produce naturalmente da secoli.

La destra ha capito che la concorrenza perfetta non esiste. Ora corre ai ripari con lo Stato


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letture Spopola negli Usa ”Perché il lavoro fa schifo” (qui a fianco la copertina), singolare libro di Cali Ressler (in basso a sinistra) e Jody Thompson (in basso a destra)

acciamo un esempio. C’è una donna che porta il suo cane ai giardini. C’è un uomo che partecipa a una riunione aziendale e talvolta sbadiglia. Quesito: chi dei due lavora? A nessuno, o comunque a pochissimi, verrebbe in mente di indicare la signora con il cagnolino. Eppure potrebbe darsi che sia lei a pensare intensamente a un progetto di lavoro e non l’annoiato dipendente o manager che sta in sede, incatenato da orari e ritmi un po’ di vecchio stampo.

F

A sostenere che non è più valida l’equazione presenza-rendimento è una nuova scuola di pensiero americano, che rivendica il considerare adulto il lavoratore e non così infantile da doverlo controllare anche quando va a fare pipì. Con tutti i limiti insiti nell’entusiasmo manualistico degli americani, è da poco uscito un libro provocatorio: Perché il lavoro fa schifo, di Cali Ressler e Jody Thompson (tradotto dalla Elliot, 219 pagine, 14 euro). Il New York Times lo ha elogiato e addirittura ha accennato al suo contenuto “rivoluzionario”. Da prendere con le molle, abbiamo già detto. Tuttavia è come un sasso lanciato nello stagno delle cattive e polverose abitudini. Le autrici, ognuna di nemmeno quarant’anni, hanno dato vita al “Rowe”, ossia al “Result-Only Work Environment”, che è poi il nucleo del loro pensiero innovativo. Questo Rowe è stato adottato dalla Best Buy, una mega ditta americana nel settore vendita di articoli tecnologici. Pare con molto successo. Ressler e Thompson sono consapevoli che il mondo del lavo-

La rivoluzione degli impiegati secondo due quarantenni americane

Manuale per abbattere l’America calvinista di Pier Mario Fasanotti che la grande Mela sia per eccellenza il terreno fertile dei cambiamenti, ma dobbiamo considerare anche una buona dose di conservatorismo di marchio moralistico.

Pare che il tanto decantato calvinismo stenti a vedere le rughe nel proprio volto. Il sindaco di New York, Michael Bloomberg, in occasione della consegna delle lauree in un college, ha invitato i connnazionali ad assumersi i rischi e a

per i seguaci del nuovo pensiero son cose da antiquariato etico. Essi sono convinti che «ogni giorno la gente va a lavorare e spreca il proprio tempo, lo fa perdere all’azienda e si rovina la vita per un sistema che si fonda su presupposti che nell’economia globale contemporanea non valgono più». L’obiezione fondamentale all’imperativo di stare più ore possibili sul luogo di lavoro muove da questa considerazione: andiamo a lavorare e diamo tutto

luogo fisico non è cambiata dall’Era industriale». Detto così si spiegherebbe quel diffuso malessere che ci pervade la domenica sera, vigilia dell’inizio di settimana lavorativa. La soluzione non sarebbe tanto nell’orario flessibile, non nell’equilibrio tra vita privata e lavoro («nel sistema attuale sarebbe impossibile» dicono le autrici), bensì nel cambiare «da cima a fondo» le regole del gioco. Il nuovo codice lavorativo detto Rowe prevede che «il di-

“scaldare la sedia”o restare imbottigliati nel traffico urbano (inquinando) pur di timbrare in tempo il cartellino. Tra le varie testimonianze - evidentemente tutte entusiastiche - citate nel libro, c’è quella di Gina, 35 anni, che si occupa di formazione alla Best Buy: «Per la generazione dei miei genitori era normale cominciare a lavorare per un’azienda ed essere certi di rimanervi tutta la vita… Il mio rapporto con l’azienda è diverso. Barattiamo il lavoro con i soldi, non è una relazione personale… credo che siamo arrivati a questo punto perché le persone ormai non considerano più il datore di lavoro come un genitore. Credo che alcuni dirigenti si sentano un po’come dei genitori. Diventare manager significa avere delle responsabilità. Il che in parte vuol dire avere un potere. Ovvero un controllo sulle persone, cosa che spesso implica il far rispettare le regole solo perché sono regole».

Il libro che tanto successo ha avuto in America insiste sul fatto che oggi lavoriamo più col cervello che con le mani, e il lavoro di concetto esige un diverso criterio di valutazione della produttività. E ancora: «Si deve avere più fluidità. Le idee possono venir fuori in ogni momento, non solo tra le nove e le

Nel loro libro, che spopola negli States e in Italia arriva edito dalla Elliot, la singolare teoria secondo cui «il dipendente può sentirsi libero di fare ciò che vuole, anche in orario d’ufficio, purché il lavoro non ne risenta» ro si possa cambiare, ma anche che esistano fortissime resistenze. Parlano di «cambiamento adattivo». Trent’anni fa erano in molti a buttare una bottiglietta di plastica dal finestrino dell’auto. Oggi non più. Inoltre chi lo fa ancora deve vedersela con la riprovazione sociale e quindi con un senso di colpa (a parte casi di disperata maleducazione). A riprova che certe idee incontrino barriere non di poca consistenza è la dichiarazione del sindaco di New York. Siamo abituati a pensare

collaborare gli uni con gli altri. Ma ha marchiato con particolare enfasi questa frase: «Se sarete i primi ad arrivare al mattino e gli ultimi ad andare via la sera, se vi prenderete poche vacanze e mai un giorno di malattia, avrete un rendimento più alto di chi non fa altrettanto. E’ molto semplice». Ha rilanciato, insomma, il vecchio mito del sacrificio, della dedizione, della disponibilità. Cosa che ha fatto grande l’America e ha creato un clima fortemente ostile alla fannullaggine. Ma

ciò che abbiamo, ma in cambio siamo trattati come bambini che se non vengono sorvegliati rubano le caramelle. La critica, bisogna pur dirlo, ha delle solide basi nella realtà: quanti di noi si sono accorti che certe lunghissime riunioni non servono a nulla, che alcune promozioni sono fatte solo in virtù delle ore di presenza in azienda? Le autrici del libro scrivono, e ripetono con insistenza, che «andiamo a lavorare nell’Era dell’Informazione ma, nella sostanza, la natura del

pendente sia libero di fare ciò che vuole, purché il lavoro vada avanti». In questo modo si avrebbe il prilegio di riacquistare il controllo della propria vita senza danneggiare l’azienda, anzi offrendo ad essa vantaggi.

Invece di mostrarsi indaffarato quando il “capo” è nei dintorni, invece di fare domande durante le riunioni tanto per dimostrare di esserci e di partecipare, bisognerebbe garantire i risultati indipendemente dallo

sei…s pesso va a finire che il corpo è in ufficio, ma la mente è altrove». Viva, dunque, la signora che porta fuori il cagnolino. A patto che lungo il tragitto le vengano idee utili al suo lavoro (magari geniali come quella di Newton sulla gravità: lui era sotto un albero a far niente). Con buona onestà, le autrici del libro hanno rilevato che moltissimi dipendenti si sono dimostrati scettici dinanzi al nuovo e sognato rapporto azienda-persona. Il “nuovo”, almeno in forti dosi, fa paura.


cultura

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Un consiglio a Bondi: il modello di Berlino è il migliore per la sburocratizzazione delle biblioteche italiane

Signor ministro, diventi tedesco di Andrea Capaccioni l primo atto del ministro Bondi appena insediato è stato quello di mostrarsi equilibrato, ha riconosciuto i meriti del governo precedente (in realtà pochi) e infine ha proposto un giusto mix tra «un approccio autenticamente liberale» (testuali parole) e l’«imprescindibile» impegno dello Stato. Nei discorsi alle camere ha poi puntato su alcuni temi: tornare al bello, valorizzare le risorse culturali italiane, favorire un’alleanza tra patrimonio culturale e turismo. L’accoglienza è stata buona e in fondo se qualche intellettuale (Eco) non ha voluto stringergli la mano, altri hanno dimostrato di voler collaborare.

I

I programmi ci sono, il tempo per attuarli anche: tutto bene? Sulle biblioteche, ad esempio, il ministro ha messo sul tavolo solo deboli indicazioni (per niente incalzato dall’opposizione). Ad essere onesti Bondi ha subito confermato gli impegni finanziari per l’Istituto che si occupa della promozione del libro e della lettura e ha poi annunciato una nuova revisione della legge in materia di diritto d’autore. Il resto del programma è racchiuso in una manciata di righe: «La realizzazione di un nuovo portale dedicato agli ‘itinerari storici culturali e religiosi’ contenente documenti testuali, cartografici e audiovisivi; il rilancio del restauro dei beni librari e l’avvio di importanti progetti di restauro e recupero di patrimoni; il completamento di importanti interventi di recupero funzionale di istituti; l’integrazione delle Biblioteche con i Servizi scolastici, i Musei e gli Archivi a supporto del turismo culturale, con la creazione di sistemi di informazione turistica del territorio; la realizzazione di concrete strategie di lotta alla contraffazione e di tutela della creatività e della proprietà intellettuale. Andrà poi curato il miglioramento dei servizi istituzionali, mediante l’attività di vigilanza di istituzioni culturali, l’erogazione di contributi per il sostegno dei Comitati Nazionali e delle Edizioni Nazionali, la promozione e il coordinamento delle attività di catalogazione e documentazione, il progressivo incremento del patrimonio del sistema bibliotecario nazionale, la conservazione, la tutela, la valorizzazione del patrimonio bibliografico e la sua migliore fruizione da parte di un’utenza sempre più numerosa e qualificata». Proviamo a capire. La prima parte del programma propone vari progetti tra cui spicca la proposta di una collaborazione tra il mondo delle biblioteche (della scuola, degli archivi e dei musei) con il turismo. Un dato è certo: in Italia mettere insieme realtà così diverse ha sempre creato grandi complicazioni. La seconda parte è come dire: facciamo meglio quello che dobbiamo fare, compriamo più libri per le nostre biblioteche e cerchiamo di far leggere il maggior numero di italiani. Bene ma le urgenze sono altre. Una lu-

cida sintesi è fornita da un recentissimo intervento di Mauro Guerrini uno dei maggiori esperti del settore in Italia (presidente dell’Associazione italiana biblioteche e ordinario di biblioteconomia a Firenze) ospitato in un volume di studi pubblicato in onore di uno dei decani della biblioteconomia italiana Pao-

vità e completezza ciò che si pubblica in Italia (controllo bibliografico) attraverso la «bibliografia nazionale corrente» (che già esiste, ma è in difficoltà) e un efficace sistema di prestito interbibliotecario nazionale che permetta di rendere disponibili i libri (ma anche i cd, i dvd, etc.) richiesti dagli utenti in qualsiasi parte del

Occorre ridistribuire i diversi compiti tra le Biblioteche nazionali di Roma e Firenze. La Germania lo ha fatto nel 2006 con l’approvazione di una legge chiara, snella e funzionale lo Traniello (Pensare le biblioteche, Sinnos, 2008). La distribuzione dei servizi offerti dalle biblioteche nel nostro Paese non è omogenea: la metà delle biblioteche è concentrata al Nord, il resto si divide tra Centro e Sud. Mancano poi delle vere rilevazioni statistiche o perlomeno non sono uniformi: è difficile sapere quanti sono i lettori (e chi sono), quali le opere più lette e così via.

Due servizi potrebbero, se non risolvere, alleviare questa situazione: la possibilità di accertare e segnalare con tempesti-

II ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, che in diversi discorsi fatti alle Camere ha più volte sottolineato l’impegno che lo Stato deve assumere nel valorizzare le risorse culturali italiane, favorire un’alleanza tra patrimonio culturale e turismo

Paese. A chi spettano questi compiti? Alle due biblioteche nazionali centrali di Firenze e Roma, di diretta competenza del ministero. Guerrini è esplicito: Firenze dovrebbe occuparsi di raccogliere ed elaborare (catalogare) le informazioni sulla produzione editoriale italiana, mentre Roma avrebbe l’incarico di organizzare la circolazione del materiale.

Questo comporta, e qui dovrebbe concentrarsi lo sforzo del ministero per quanto riguarda i beni librari (e non solo), un attento ripensamento dell’organizzazione delle nostre biblioteche nazionali. La Germania lo ha fatto recentemente (2006), con l’approvazione di una legge chiara, snella, funzionale, articolando la nuova Biblioteca nazionale tedesca in tre sedi (Berlino, Lipsia e Francoforte) e ridistribuendo competenze e operatività. A dire la verità nella precedente legislatura era stato presentato un disegno di legge della maggioranza sulla riorganizzazione delle due biblioteche nazionali, ma non aveva riscosso (giustamente) un gran consenso. Il modello tedesco non è certo l’unico, ma sembra – a mio parere – particolarmente adatto al nostro Paese. Purtroppo in Italia alla riforma del sistema bibliotecario si antepone sempre quella dell’apparato burocratico. Si è perso infatti il conto di quante volte il ministero dei Beni culturali sia stato “riformato” in questo ultimo decennio, quanto frenetica sia l’attività riorganizzatrice (messa in moto dai governi di sinistra ed ereditata da quelli di destra) tanto da confermare il detto: tutto cambia perché tutto resti come prima. Le logiche delle riforme dei beni culturali sono poi molto spesso interne, dettate da esigenze di apparato, da “sforbiciate” o ristrutturazioni improntate sulla poco credibile scusa del contenimento della spesa pubblica. In questo ganglio di interessi burocratici e scelte per il futuro il ministro Bondi potrebbe intervenire, non gli manca il coraggio. Le idee e i progetti ci sono, basterà ascoltare chi lavora nel settore (come il ministro ha fatto per altri comparti) ed elaborare una strategia chiara.


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il personaggio

A 58 anni continua a produrre dischi confermando di essere un’icona della musica internazionale. E il 26 settembre, tutto esaurito per il suo concerto milanese

La leggenda di ”Wonder-man” di Valentina Gerace siste una ragione per la quale si parla di miti della musica, di icone. Sono quegli artisti che non muoiono mai. Che vivono per la musica. La cambiano, lasciando un segno per sempre. E il leggendario Stevie Wonder, 35 album alle spalle, 25 Grammy e 30 singoli alle vette delle classifiche pop e R&B, è uno di questi. A 58 anni continua ancora a produrre dischi, confermando di esse-

E

re un’icona della musica internazionale. Annuncia il suo nuovo tour in Europa A Wonder Summer’s Night Tour 2008, un giro di serate eccezionali con la sua grande musica. Il tour è iniziato l’8 settembre a Birmingham, e si conclude il 28 settembre a Parigi. Stevie sarà accompagnato dalla figlia Aisha Morris e dal fratello Milton. L’unica data in Italia sarà il 26 settembre al Datchforum di Assiago (Milano). Ma questo non è un tour di addio. Dopo il suo ultimo successo del 2005, A time 2 love, dopo il quale si è fermato a causa della morte della madre, Stevie reagisce e torna entusiasta sulla scena con altri due successi che usciranno il prossimo mese. The gospel ispired by Lula, con la collaborazione di Tony Bennett, in cui combina gospel tradizionale, musica araba e alcuni brani scritti durante i tour in questi ultimi anni. E Through the eyes of Wonder, in cui si propone di raccontare il mondo come lui lo percepisce, da cieco. The gospel ispired by Lula è dedicato interamente alla madre per la quale Stevie ha un vero culto, e che lo ha aiutato a comporre alcuni importanti singoli di successo come Si-

tetizzatori. E’ stato capace di passare dal funky sfrenato di Superstition a romantiche ballate in stile You are the sunshine of my life. I testi delle sue canzoni sono ciò che l’hanno indelebilmente legato a tutto il mondo.

Da prodigio di Motown a grandissimo innovatore, ha sempre creduto nella musica come una forza trasformatrice. E’ una leggenda che insieme ad altri grandi nomi, ha fatto la storia della musica. Ma Stevie non è un artista come gli altri. La cecità che lo ha segnato fin dalla nascita, avvenuta nel Michigan nel 1950, non gli ha permesso di vivere come un qualsiasi altro artista. I paparazzi lo fotografano lo seguono. I contratti con le più importanti case discografiche non mancano. Ma sono altri i valori che Steve ha imparato a coltivare. Gli stessi valori che canta. Eppure la sua persistente tenacia e la sua miracolosa positività lo portano a suonare già il piano a 9 anni. Studio che decide poi di approfondire alla “Michigan School for the Blind”. Nel 1954 il padre abbandona la famiglia, e Stevie si trasferisce a Detroit con la madre,

Il tour ”A Wonder Summer’s Night” è iniziato lo scorso 8 settembre a Birmingham, e si concluderà il 28 a Parigi. Ma questo, va detto, fortunatamente non sarà un addio gned, Sealed and Delivered. Nel corso della sua incredibile carriera Stevie ha collezionato 49 singoli in top 40, 32 singoli al numero uno, ed un Century Award di Billboard nel 2004. Nel 1989 il suo nome è entrato nella famosa Rock and Roll Hall of Fame, insieme a quello dei Rolling Stones.

Molti lo identificano con I just called to say I love you. In realtà Stevie Wonder, leggendario artista e gigante dell’intrattenimento musicale, è autore di alcuni dei brani di maggiore successo degli anni ’60 e ’70. Accanto ai Beatles. Uno tra gli artisti di maggiore successo della musica contemporanea, ha ridefinito i contorni della musica black, sperimentando nuovi suoni tra il pop, il jazz e l’R&B e facendosi precursore dei sin-

dove prende parte ai cori della chiesa. I gospel lo affascinano e incrementano il suo già forte interesse per la musica. Nel 1961 ha modo di incontrare quello che diverrà poi il suo idolo, Ray Charles, in un concerto a Detroit. Scoperto casualmente da Ronnie White un anno dopo a soli 12 anni, pubblica i suoi primi due album sotto l’ala protettrice della Motown Records: A tribute to Uncle Ray, ovvero una raccolta di cover del suo modello musicale, e The Jazz Soul of Little Stevie, un album jazz in cui mostra tutto il suo talento col piano, l’armonica e le percussioni. Nessuno di questi album tuttavia lo porta al successo. Ma nel 1963 con il disco strumentale realizzato con l’armonica, The 12 year old genius, contenente il singolo Fingertips, Pt. 2 raggiunge il top delle classifiche pop e R&B, e diventa un successo commerciale. Negli anni a seguire produce altri singoli ma nessuno del successo di Fingertips, Pt. 2. Solo nel 1965 riemerge trionfante con Uptight (Everything’s Alright) che diventa numero uno nelle classifiche R&B. Per anni i suoi singoli restano nelle prime 40 posizioni delle classifiche. Stevie marca la tradizione soul combinandolo

con i suoni e gli arrangiamenti tipici del pop. Incide poi Blowin’ in the wind di Bob Dylan e A place in the sun di Ron Miller nel 1966. Raggiunge ancora i vertici delle classifiche pop e R&B con Hey Love, I Was Made to Love Her e For once in my life. Nel 1968 incide For once in my life e si occupa per la prima volta anche della produzione. Con i singoli Shoo-Be-Doo-Be-Doo-DaDay, You Met Your Match e I Don’t Know Why non fa che confermare la sua ormai incontestabile fama.

Nel 1969 produce l’album Singed, Sealed & Delivered scritto con la cantante Syreeta Wright, che sposerà lo stesso anno. Il matrimonio dura poco più di un anno ma i due artisti continuano a collaborare e fare musica insieme. Successivamente Stevie sposa un altro membro della Motown, Yolanda Simmons, con la quale avrà due figlie.Nel 1971 lascia la Motown per creare una sua casa discografica, la “Black Bull Music” che gli permette di avere pieno controllo delle sue canzoni. Nel 1972 produce l’album R&B di maggiore successo di tutti i tempi, Talking Book, album dai suoni estremamente curati e perfezionati. I singoli Superstition e You are the sunshine of my life vincono tre Grammy. Gli anni Settanta sono un periodo brillante per Stevie Wonder. Dal 1974 al 1977 vince ben 14 Grammy. Andrà in tour


il personaggio

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di Gene Wilder The woman in red). La famosissima canzone I just called to say I love you vince l’oscar come migliore canzone e diventa un enorme successo. Stevie ha ormai raggiunto la vetta e musicalmente è ai primi posti della musica pop e R&B. E’ invitato da moltissime trasmissioni televisive e collabora con i più grandi musicisti contemporanei. Nel 1987 torna con un nuovo album Characters, conosciuto per il singolo Skeletons, ai primi posti nelle classifiche R&B. Nel 1991 realizza la colonna sonora di Jungle fever un film di Spike Lee. Nel 1995 Conversation in Peace, album eclettico che spazia dal raggae a ballate tristi e spirituali, al funky, e vede la collaborazione di Branford Marsalis al sax,Terence Blanchard alla tromba e la collaborazione della cantante Anita Baker, vince 2 grammy per il singolo For your love (migliore canzone R&B e migliore voce maschile). Nel 2005 A time 2 love vince due Grammy Awards. Il singolo Love’s in Need of Love Today viene utilizzato per ricordare le vittime dell’11 settembre 2001, e viene cantato con Bono degli U2 per il documentario Darfur Now, riguardante la catastrofe in Sudan.

Dal 2005 Stevie si ritira dalla scena musicale in seguito alla morte della madre. Ma sarà lei stessa ad apparirgli in sogno e a spingerlo a cantare ancora. Oggi Stevie Wonder è ancora una leggenda. I suoi fan sono milioni, e includono grandi artisti del calibro di Mariah Carey, George Michael, Michael Jackson, Prince, Celine Dion, Beyoncé e persino l’aspirante pre-

con i Rolling Stones rendendosi noto a migliaia di suoi futuri fan. Innervision del 1973, concept-album sulla società contemporanea, diviene album dell’anno e contiene il singolo Visions, Living for the city e Higher ground. Lo stesso anno Stevie rischia la vita in un incidente stradale durante il tour in North Carolina. Resta in coma, fortunatamente per poco.

Ma questa esperienza lascia una traccia indelebile nel suo animo. Ed è di forte impatto sui suoi successivi album. Realizza testi impegnati e si fa portatore di valori come l’amore e l’eguaglianza, sottolineando il principio tipicamente americano, che non importa da dove si proviene o di che colore è la nostra pelle. E di quanto sia impor-

tante vivere la vita, e nel migliore dei modi. Partecipa al progetto Usa for Africa con We are the world e si dedica ad attività umanitarie a favore dell’Africa e dei non vedenti. Fulfillingness’ First Finale (1974), album dell’anno, dimostra il suo profondo cambiamento. I toni sono ora malinconici e critici, come nella esplicita e aspra critica a Nixon You Haven’t Done Nothin. Per due anni si concentra al suo massimo capolavoro che esce nel 1976, il doppio album Songs In The Keys of Life. Due ore di musica elegante che confermano Stevie Wonder artista di estremo talento nella musica contemporanea.

Nel 1979 realizza la colonna Sonora del documentario The Secret Life of Plants, un album doppio di minore rilievo dopo l’enorme successo precedente. Gli anni Ottanta iniziano con Hotter Than July che contiene Happy Birthday, un tributo al giorno della nascita di Martin Luter King (che grazie al presidente Reagan diventerà festa nazionale sottolineando i diritti dei neri in America) e il duetto con Michael Jackson (Get it), e lo riporta alle Top Hits del momento. Nel 1982 completa un duetto con Paul McCartney (Ebony and Ivory). Successivamente realizza la colonna sonora della commedia

Stevie Wonder, 35 album alle spalle, 25 Grammy e 30 singoli alle vette delle classifiche pop e R&B. A 58 anni continua a produrre dischi, confermando di essere un’icona della musica internazionale

sidente degli Stati Uniti Barak Obama che ha usato la sua Signed, Sealed and Delivered come inno per la sua campagna elettorale. Si è rivelato un gigante tra i più colossali del rock e del pop, responsabile di aver spinto più in là i confini dell’ R&B facendo emergere i suoi aspetti più sofisticati. Ha influenzato tutta la musica contemporanea con la sua miscela creativa di generi. La sua musica ha lanciato dei messaggi sociali e profondi a favore dei malati di Aids, malati di droga e alcolismo, dei bambini maltrattati, dei senza tetto e dei ciechi. Un artista che ricorda il passato, vive e racconta il presente, e rappresenterà sempre i sogni di un mondo futuro.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Camorra, in arrivo 500 militari. Siete d’accordo? TROVO IL PROVVEDIMENTO GIUSTO E MIRATO, IL GOVERNO FA BENE AD AGIRE CON DUREZZA Bene, in arrivo cinquecento militari nelle zone critiche per tentare di contrastare la camorra. Personalmente, sono molto contento di questo provvedimento, e mi trovo in totale accordo con quanto dichiarato due giorni fa dal presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, che ha dichiarato: «Ottimo l’annuncio del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, di un massiccio ulteriore impiego di militari nelle zone della Campania colpite da gravissimi fenomeni criminali. Il governo fa bene ad intervenire con determinazione e durezza. C’e’ da augurarsi che facciano altrettanto i magistrati». Cordialmente ringrazio.

Alfredo Lo Giudice - Catania

È SENZA DUBBIO UN BUON INIZIO, MA TEMO NON BASTERÀ A BREVE TERMINE Non è proprio semplice avere una posizione netta e condivisa su una questione tanto delicata quanto quella della camorra in Campania. Infatti, da una parte è giusto e utile l’impiego dell’esercito proprio in queste zone, dove l’emergenza è drammatica. Questa posizione si muove nel solco di decisioni del

LA DOMANDA DI DOMANI

Cassazione: sì al cognome materno per i figli. Favorevoli o contrari? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

passato che hanno già visto impegnati i militari, come è avvenuto con l’operazione Vespri Siciliani per riaffermare il controllo dello stato di fronti a drammatiche e aperte sfide della criminalità organizzata. Ma dall’altra parte penso anche che da solo l’uso dell’esericto non basti, perché c’è bisogno di un piano organico di interventi non emergenziale che si sviluppi lungo tre grandi direttrici: controllo del territorio, investigazione e intelligence, e il grande tema della integrazione sociale, anche perché quanto è avvenuto a Caserta evoca il rischio di una drammatica miscela esplosiva tra l’ansia di potere di gruppi sanguinari della camorra e una situazione sociale e civile difficilissima. Grazie per l’ospitalità sulle pagine del vostro quotidiano. A presto e buon lavoro.

Pia Salvati - La Spezia

BUONA NOTTE I genitori di alcuni studenti del primo anno di un’università di Wuhan, in Cina, che pur di condividere con i loro pupilli le gioie del primo giorno di lezione si sono adattati a dormire sul pavimento della palestra, accanto a quelle di altri 350 premurosi genitori

SPERO TANTO CHE I MILITARI NON SI LIMITINO A BLANDI CONTROLLI, MA SIANO DAVVERO EFFICACI Finalmente una cosa urgente, necessaria e soprattutto pensata bene.Trovo infatti più che giusto e utile l’impiego dell’esercito proprio in quelle zone, dove l’emergenza è drammatica, come hanno sottolineato e più volte ribadito Marco Minniti e Roberta Pinotti, rispettivamente il ministro degli Interni e della Difesa del governo ombra del Pd. Mi trovo però d’accordo anche con il sindaco di Castel Volturno, Francesco Nuzzo, che nei giorni scorsi, in un’intervista alla stampa locale del casertano, ha tenuto a precisare: «In una situazione ordinaria mi sarei opposto all’invio dell’esercito nella nostra città, ma nell’emergenza attuale accolgo con favore il provvedimento dell’esecutivo. Chiedo che i militari siano effettivamente e concretamente impegnati contro la criminalità organizzata. Se ci si limiterà a qualche controlli sui commercianti della zona, e sui clandestini, l’operazione fallirà. Io comunque sono fiducioso». Già, c’è infatti da scongiurare un’azione militare, come dire, soft. Ma occorre una seria rete di controlli veri, effettuati a tappeto, e soprattutto una presenza molto visibile nelle strade. Solo così; forse, qualcosa potrà davvero migliorare.

IL “PARADOSSO DELLO SPIRITO RUSSO” Nel 1949 Spadolini scrisse un commento alle pagine di Gobetti sul “Paradosso dello spirito russo”. L’uno e le altre meriterebbero di essere di nuovo approfondite alla luce della nuova Russia di Putin. L’allora giovane Spadolini, conveniva sul fatto che la Russia non aveva conosciuto un’esperienza liberale, ma anche che è priva dell’esperienza medioevale nel senso europeo e cioè della fase storica nella quale consumare fino in fondo l’esperienza teocratica. L’identificazione dello spirito religioso e di quello civile sorto fin dalla nascita della nazione russa, si è consolidato nel tempo prendendo forme sempre diverse, ma avendo sempre come costante nell’anima nazionale la «dissoluzione della coscienza individuale nell’unità di una disciplina mistica ed autoritaria». Diceva Gobetti: «Mosca vuol dire clero:un’alta burocrazia che governa perché ignora». Il «clero», al di là della veste religiosa o civile, «formò sempre una casta tirannica, oppressiva, indiffe-

PROFESSIONE PROFESSORE Il mestiere d’insegnante non è facile, i requisiti e le caratteristiche necessari sono parecchi. Un po’allenatore, formatore e direttore d’orchestra, un po’ arbitro o anche mentore, suggeritore e persino genitore: è il docente o professore. Nei casi migliori, sono persone d’eccellenza e d’esempio, capaci di uno sguardo nuovo sul loro lavoro e di suggerire agli alunni inedite e originali letture, visite e incontri. Nei casi peggiori, hanno una laurea ma difettano in maturità ed equilibrio. Seguono gli alunni senza metterli in guardia da idee, visioni o ambizioni indifendibili e insostenibili. Dovrebbero sapere tutto sulla scuola e sul rispetto della dignità delle persone, spesso sanno tutto solo sul Pci, sul Pd, sui partigiani e sul Partito d’Azione. E nelle scuole pubbliche

dai circoli liberal Amelia Giuliani - Potenza

rente ad ogni valore sociale, ostile ad ogni iniziativa individuale». Mancò in Russia l’esperienza comunale e la conseguente distinzione tra sacro e profano base delle future rivoluzioni liberali e democratiche, in quanto comportò l’idea, che fu alla base della modernità quale esito filosofico dell’evoluzione dell’occidente cristiano, che la condizione umana non fosse inevitabile e immutabile per volontà divina. Il comunismo non sarebbe stato possibile in Russia se non avesse utilizzato le due componenti della tradizione teocratica:il clericalismo, ovvero la burocrazia investita di un privilegio trascendente, ed il messianismo nazionalistico tendente al dominio del mondo e comunque delle nazioni minori da salvare e da redimere. L’Illuminismo nella Russia del ‘700 non distrusse questa dottrina e coscienza dogmatica, ma fu utilizzata dall’autocrazia per rafforzare il potere tradizionale. Spadolini ricorda come Dostoevski e tutti i grandi pensatori e scrittore dell’ottocento russo negano lo «spirito dello Sta-

ci tengono a farcelo sapere, cosa che non ci fa affatto piacere.

Pierpaolo Vezzani

FRANCESCHINI NOVELLO MARX? Dario Franceschini, numero due del Pd, non fa sconti d’esuberanza, riempiendolo e strabordando da tutte le parti. Alla nuova sede delle Frattocchie, or ora ribattezzata, perchè fa più glamour, Summer school del PD, è stata sua la frase ”Il sistema capitalistico non è eterno. E’necessario ipotizzare un nuovo modello di sviluppo, lontano dalle degenerazioni individualiste, dalle brame egoiste e dal gretto e volgare spirito piccolo borghese”. Il vago tono di serietà e di dignitoso distacco con il quale l’ha pronunciata tanto deve essere piaciuto ai suoi compagni e sodali, ma non a noi. Osiamo chiederlo: e a voi?

Lettera firmata

to Laico, civile e terreno:l’avvento del regno in terra è possibile solo mediante l’attuazione dello Stato teocratico assoluto che imponga una sola regola, una sola disciplina, un solo credo». Questa è la inquietante tradizione comune sia al medioevo religioso ortodosso degli zar che poi al comunismo nazionalista e su questo Dna forse si fonda la tentazione totalitaria di Putin e la forte possibilità che la Russia non si evolva in società democratica, fatta quindi anche di giornalisti oppositori o stati vicini indipendenti, avendo a disposizione una nuova fonte di sostegno di un nuovo clero, il ricco apparato di burocrati delle industrie estrattive di stato, per un nuovo unificante messianismo nazionalistico ed assolutista: il fiume denaro derivante dai proventi per le forniture di gas e petrolio.Visti i rischi, varrebbe veramente la pena che esperti aggiornassero l’analisi di Spadolini sullo scritto di Gobetti. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog SEGUE DALLA PRIMA

Com’è bello, amore, volare sulle Alpi

Bisogna fermare Ahmadinejad di John R. Bolton

Tesoro, sono arrivato a Roma alle 4 circa di questo pomeriggio dopo un volo meraviglioso da Copenaghen via Milano, sopra le Alpi. Volare sulle Alpi è eccitante e spaventoso. Sembra che quei picchi debbano raggiungerti. Per quanto fossimo molto al di sopra, sembravano vivissimi attraverso la luce del sole, stranamente luminosa di quel pomeriggio. Non so cosa dire di Roma che potrebbe suscitare una grande impressione. Probabilmente ne ho già vista troppa nei film. Mi piace davvero, mi piace la sua atmosfera libera e vigorosa e il fatto che ora, alle 2 di mattina, le strade sono piene di gente che cammina lentamente per andare Dio solo sa dove, e di piccole Fiat che sfrecciano impazzite a velocità spaventosa. Le strade su entrambi i lati per due isolati sono piene di tavolini e sedie, con moltissima gente che parla e beve. C’è una pesante invasione di turisti che guasta in qualche modo la vitalità originale. Tutto il mio amore a tutti. John Fante a Joyce Fante

PERSEGUIRE LA SOLIDARIETÀ La solidarietà è una virtù. Tuttavia “il troppo stroppia”; di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno.Va distinto il desiderabile (aiutare tutti) dal possibile (agevolare secondo i mezzi disponibili). L’Italia è sfavorevolmente caratterizzata da: sovrappopolazione, iperinquinamento, statalismo economico, altissimo debito pubblico, inefficienza burocratica, lentezza della giustizia, carenza d’infrastrutture, scarsa competitività, basso grado di libertà economica, stragi stradali, povertà di molti nativi, ecc. Perciò deve governare l’immigrazione secondo ragione. L’imperversante, conformistico e peloso buonismo ignora la realtà e si rifugia nella retorica e nell’utopia. In presenza di fortissima pressione immigratoria, i limitati mezzi italiani impongono di battere (non tollerare) l’illegalità di chicchessia e d’astenersi dall’ostentazione interessata d’apertura, che alimenta e stimola indirettamente la fiumana illusa e imprudente di migranti. Poiché molti lavoratori abbandonano la sinistra, questa programma il mantenimento e l’eventuale ampliamento del bacino elettorale, mediante

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

porte sostanzialmente aperte all’immigrazione massiccia, più o meno regolare. In campagna elettorale, il centrodestra promette la limitazione e la disciplina dei flussi immigratori. Tuttavia, alcuni tradiscono gli elettori: «Passata la festa, gabbato lo santo». Fini parla d’anticipo del voto ad immigrati «che pagano le tasse». Galan espone un linguaggio buonista, tipico del vocabolario della sinistra. Egli afferma il dovere d’ospitalità, integrazione, accoglienza; l’apertura alle diversità, al confronto, al dialogo culturale; una visione non localistica, ma nazionale e internazionale. Ma gli si replica che questi precedono normalmente i cittadini italiani nelle graduatorie. Si attua una sistematica, molteplice e continua discriminazione a favore di stranieri e danno d’italiani. Questi discendono da avi che hanno contribuito al progresso della nazione: dovrebbero essere trattati con giustizia (non assistenzialismo, né pauperismo). Nella battaglia per la verità, buonisti, esteromani ed esterolatri usano l’arma terroristica: l’insulto “razzista”, appioppato a chi la pensa diversamente da loro.

Gianfranco Nìbale

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

Dimenticando forse che Gran Bretagna, Francia e Germania (EU-3), hanno tentato questa via per oltre cinque anni, continuando a ripetere che i loro “vertici” non costituivano un negoziato. La loro pretesa che l’Iran sospendesse le attività di arricchimento dell’uranio non ha portato praticamente a nulla, così come a niente è servito il tentativo di dialogare con il regime di Teheran. Diciamolo: gli europei sono stati un surrogato dell’America, ma ciononostante l’Iran non ha mostrato nessuna predisposizione a sospendere la sua ricerca. Negoziare è una delle tante attività umane: e comporta costi e benefici. In assenza di costi la solita domanda, alquanto retorica: «cosa ho da perdere dal parlare con il nemico?» si trasforma già in un parziale sucesso. In questo caso, invece, abbiamo moltissimo da perdere. La lunga negoziazione dell’EU-3 ci mostra chiaramente uno dei principali costi di un negoziato con un proliferatore nucleare: il tempo. Che è quasi sempre a favore del proliferatore, perché più tempo perde in chiacchere, più ne ha per condurre a termine le complesse ricerche e studi scientifici necessari al raggiungimento del suo obiettivo. L’effetto di 5 anni di discussione è stato consegnare al nemico 5 anni di studi e avanzamento tecnologico nel campo dell’armamento nucleare. Di fatto, l’ultima cosa che possiamo fare a questo punto è più o meno la stessa. Secondo: l’Europa non ha ancora affatto compreso i rischi che comporta un Iran dotato di nucleare e non sta facendo i passi necessari per scongiurare questa evenienza. Nonostante i leader di EU3 dichiarino pubblicamente la loro preoccupazione al riguardo e considerino la minaccia gravissima per il Medio Oriente e il mondo intero, si avverte che tale can can è messo in piedi per l’opinione pubblica e forse anche per placare gli Stati Uniti. Questa mancanza di sicurezza sulle reali intenzioni iranane e sui loro passi avanti nel campo nucleare, non deriva dai rapporti intelligence, ma dai dossier presentati dall’Aiea, e ha indebolito e reso vano ogni tentativo di contrastare Teheran. La riluttanza dell’Europa a prendere posizione nasce in parte dalla controversia nata dal ruolo dell’intelligence nella questione Iraq, ma in parte anche dalla profonda impostazione mentale dell’Unione Europea, che ritiene di essere passata indenne attraverso la storia per entrare in una “zona sicura”atta a restare tale solo fino a che gli outsider non saranno “provocati”. Questo falso senso di sicurezza blocca la volontà europea di intraprendere azioni più decise rispetto alla mera diplomazia, come le sanzioni economiche e il contemplare l’uso della forza. Nei negoziati con gli Stati Uniti e nel Consiglio di Sicurez-

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

za, l’EU-3 si è sempre mostrata pronta ad accettare sanzioni così deboli che l’Iran ha potuto regolarmente contrastarle, e questo fino a quando non si è trovata l’intesa (recente) su un pacchetto di nuove e più rigide sanzioni. Ma la lentezza richiesta per passare dalle parole ai fatti è tale da eliminare qualsiasi impatto sull’Iran. Terzo, il Consiglio di Sicurezza non risolverà il problema Iran. Anche assumendo che l’EU-3 possa alzarsi in piedi e confrontarsi con l’Iran, la Russia e in minor misura la Cina, ha chiarito la propria volontà di bloccare ogni ragionevole sanzione del Consiglio. È stato il caso della prima delle tre risoluzioni di sanzioni, dove l’intransigenza russa ha smontato l’EU-3 fino al punto che questi si sono preparati ad accettare – e fare – soltanto quello che la Russia aveva deciso per loro, in modo da permettergli di «dichiarare vittoria» anche davanti all’adozione di sanzioni deboli. La Russia ha un enorme interesse a proteggere l’Iran dalle sanzioni “forti” del Consiglio di Sicurezza. Mosca spera di vendere propellente nucleare e costruire molte centrali nucleari oltre a quella quasi completata di Bushehr, e vede l’Iran come un mercato appetitoso per una vendita d’armi convenzionali ad alto livello. Inoltre, vuole sostenere gli sforzi iraniani nel minacciare Israele e minare gli sforzi americani tesi a dare stabilità al Golfo persico e la regione circostante. Allo stesso modo, la grande domanda energetica cinese (peraltro in crescita) fa dell’Iran un partner desiderabile, data la possibilità di fornire maggiori risorse di petrolio e gas naturale. Oltre a renderlo un mercato potenziale. Tutti questi interessi – e altri, come il desiderio generale di complicare la vita agli Usa e all’Occidente in generale – sono una garanzia virtuale del fatto che l’atteggiamento del Consiglio di Sicurezza rispetto all’Iran rimarrà di portata minima. Nel migliore dei casi. Il 20 gennaio, il presidente eletto (McCain o Obama) dovrà affrontare delle scelte veramente poco attraenti, dato che l’amministrazione Bush non ha compreso queste tre lezioni. Di fatto, le nostre opzioni, oggi, sono veramente limitate. Una prevede il cambio di regime a Teheran, tramite un sostegno al profondo malcontento che attraversa l’Iran a causa della mala gestione economica dei mullah, le dure leggi religiose e la discriminazione nei confronti delle minoranze etniche. L’altro è l’uso della forza contro il programma nucleare iraniano. Entrambe queste opzioni sono complesse, rischiose e molto difficili. Sfortunatamente, l’unica alternativa – l’Iran con un arsenale atomico – è peggiore. Pronto o meno, il nostro nuovo presidente sarà chiamato a scelte di vasta portata. E decisive.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Buone notizie. Compagno politico di Aung San Suu Kyi, ha scontato 20 anni

Esce dal carcere birmano il simbolo della democrazia:

U WIN TIN di Vincenzo Faccioli Pintozzi Win Tin è un simbolo. Non soltanto per il popolo birmano, che lotta da decenni contro uno dei regimi militari più repressivi del mondo, ma per tutti gli attivisti democratici del mondo asiatico. Praticamente sconosciuto nella parte occidentale del pianeta, è stato rilasciato due giorni fa dopo 19 anni di detenzione. Libero, ha deciso di continuare a indossare la divisa blu del carcere per protestare contro la detenzione dei suoi compagni d’avventura. Infatti, nonostante la gioia per la sua liberazione, ha tenuto subito a ricordare i circa 2.100 dissidenti politici ancora nelle carceri birmane. Nel corso di una piccola conferenza stampa improvvisata, in cui ha avuto (molto stranamente) libertà di parola, Win Tin ha detto: «Continuerò a lottare per la democrazia nel mio Paese. Non mi fermerò fino a che la nostra battaglia non sarà stata vinta». Giornalista 78enne, U Win Tin è noto per il suo impegno a favore dei diritti umani nel Paese. Figura di primo piano della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi, ha contribuito in maniera decisiva alla clamorosa vittoria elettorale del suo movimento alle elezioni del 1989. L’anno in cui viene arrestato, con l’accusa di «aver dato rifugio ad una ragazza che aveva abortito». Per questo orrendo crimine, viene condannato a cinque anni di galera. Da allora, la sua pena è andata via via aumentando: viene accusato di voler fomentare una rivolta nel carcere, di fare propaganda anti-statale e di attaccare la leadership nazionale. Gli anni di detenzione diventano venti. In passato, ha diretto l’influente quotidiano nazionale Hanthawaddy, ha ricoperto la carica di vicepresidente del sindacato degli scrittori e ha svolto un ruolo di primo piano nelle rivolte del 1988, in seguito alle quali è stato arrestato con l’accusa di “propaganda anti-governativa”e detenuto nella prigione di Insein, a Yangon. Fonti vicine al giornalista dissidente riferiscono che è stato rilasciato in buone condizioni di salute – pur avendo sofferto, in passato, di problemi cardiaci e alla prostata – e senza condizioni. Durante il regime carcerario, le autorità gli hanno più volte negato cure mediche adeguate

U

e la possibilità di scrivere. U Win Tin rifiuta però l’accostamento con i 9.002 prigionieri comuni rilasciati nei giorni scorsi dalla giunta militare, che con questa amnistia cerca di ottenere i voti necessari per far approvare l’anno prossimo la nuova Costituzione del Paese.

Per il dissidente, infatti, «non c’è nulla di più lontano da questo accostamento. Io, con quei prigionieri, non c’entro nulla: non ho firmato l’accordo imposto dalle autorità carcerarie,

dei prigionieri politici del paese. Questo deve essere solo l’inizio, se si vuole parlare di un processo democratico in atto nel Paese». Nel 2001, U ha vinto il Premio Unesco/Guillermo Cano per la libertà di stampa in tutto il mondo. Nella motivazione che accompagna il premio, l’organizzazione delle Nazioni Unite ha scritto: «Per i suoi sforzi, tesi a difendere e promuovere nel mondo il diritto alla libertà di espressione. Che ha pagato a caro prezzo». Secondo alcuni dissidenti birmani in esilio, la liberazione è collegata all’Assemblea generale dell’Onu, in programma in questi giorni a New York: sarebbe infatti un segnale di apertura dei militari, dopo le critiche degli Stati Uniti e di una parte della comunità internazionale per il mancato rispetto dei diritti umani. Nell’ultimo mese, peraltro, la giunta birmana ha arrestato 39 attivisti fra cui Nilar Thein, altra esponente della “generazione dell’88”.

Il dissidente è stato arrestato nel 1989, dopo la sfolgorante vittoria alle elezioni (annullate) della Lega per la Democrazia. Dopo la liberazione, ha deciso di continuare a indossare la divisa del carcere, per ricordare i prigionieri politici

che chiedono in cambio del rilascio l’approvazione del testo costituzionale, e ritengo la proposta del governo vergognosa». Secondo Benjamin Zawacki, ricercatore di Amnesty International, «quella del suo rilascio è la migliore notizia arrivata dal Myanmar da molti anni, ma va ricordato che le persone rilasciate rappresentano meno dell’un per cento del totale

Per scongiurare rivolte analoghe a quelle avvenute nel settembre del 2007 (in cui morirono monaci e dimostranti falciati dalla repressione scatenata dal regime), la giunta al potere ha però aumentato la censura verso i siti internet e bloccato le comunicazioni con l’esterno. Dal 18 settembre – anniversario del massacro – e per diversi giorni a seguire, il sito dell’Irrawaddy (giornale dell’opposizione in esilio), le agenzie Democratic Voice of Burma e New Era non erano visitabili perché vittime di un attacco informatico, dietro al quale si cela la lunga mano dei militari. Per rendersi conto della censura operata dal regime, basta provare a inserire digitare il nome di Aung San Suu Kyi sul motore di ricerca google.com (si ottengono circa un milione e mezzo di voci), e ripetere l’esperimento nel riquadro di google presente sul sito internet dell’organo di stampa governativo New Light of Myanmar: le voci che appaiono sono soltanto sei.


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