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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Etica e democrazia: un saggio del rettore della Lateranense

he di c a n o r c

È il tempo di una nuova laicità positiva. Alla Tocqueville

di Ferdinando Adornato

di Rino Fisichella l viaggio di Benedetto XVI a Parigi e il suo incontro con il Presidente Sarkozy ha posto di nuovo al centro del dibattito pubblico e politico un tema per molti versi caro nel nostro Paese: quello della laicità. I due discorsi scambiati permettono di verificare indirizzi comuni che consentono di guardare con maggior interesse alla problematica, per approdare a una prospettiva condivisa. L’impegnativo discorso di Sarkozy ha un passaggio degno di menzione per il suo spessore anzitutto culturale, prima ancora che politico.

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s eg ue a pa gi na 14

IL CRACK È GLOBALE Disperato appello di Bush al Congresso. Intanto, dall’Irlanda alla Svizzera al Belgio, la crisi arriva in Europa. Con lo stesso colpevole: le banche. Cioè la droga del capitalismo finanziario

Mentre slitta alla Camera il decreto una domanda al ministro Gelmini

Jean-Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea

di Luisa Ribolzi

alle pagine 2, 3, 4 e 5

Viaggio nell’editoria gauchista

Gli islamici vanno La crisi politica a scuola dai preti della sinistra (a Parigi) e dei suoi giornali di Maurizio Stefanini

di Riccardo Paradisi

I musulmani francesi si stanno iscrivendo in massa alle scuole cattoliche. La Legge sulla Laicità consente solo a quegli istituti l’uso libero di simboli religiosi. Anche agli islamici.

La frammentazione dell’editoria della sinistra è lo specchio delle divisioni che impediscono l’unità politica di quell’area culturale. Parlano i protagonisti di un mondo in crisi e in cerca d’identità.

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MERCOLEDÌ 1 OTTOBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

I leader Pd e Udc intervengono alla presentazione di Persone e Reti

Veltroni e Casini: due risposte a Francesco Rutelli di Errico Novi «Bene la novità, oggi l’alternativa non può essere la sinistra». Così ieri il leader dell’Udc Casini, alla presentazione dell’associazione di Rutelli «Persone e Reti». E Veltroni: «I cattolici ci sono ma il Pd è una sintesi».

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pagina 8 CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

n appello al futuro governo: il ministro dell’Istruzione faccia voto di castità e non presenti nuove leggi per i prossimi cinque anni». Così scriveva Paolo Ferratini in un articolo per Il Mulino, prima ancora che il nuovo governo venisse insediato. L’onorevole Gelmini non ha voluto, o non ha potuto, accettare questo consiglio, molto meno scherzoso di quanto possa parere a prima vista, e questo l’ha condannata ad una sovraesposizione mediatica incredibile: digitando “Gelmini”su Google, vengono riportate 1.080.000 pagine! Come evitare che questa sovraesposizione rifletta sul ministro un’immagine di «dilettanti allo sbaraglio», che la penalizza eccessivamente? Mi sembra di poter indicare alcune linee di azione.

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Ora tocca a noi Contro la Legge sulla Laicità

Tra maestri e grembiuli qual è la “visione” della scuola del futuro?

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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In Irlanda, in Svizzera e in Belgio si contano le perdite. In Italia la più esposta è Unicredit

È arrivata la bufera acrime (dei coccodrilli) e sangue (dei risparmiatori). Il day after della bocciatura del piano di Bush e Paulson continua a lasciare morti e feriti sul campo, mentre a poco a poco si viene a scoprire quello che tutti sussurravano ma pochi avevano il coraggio di affermare: l’Europa non è per niente immune dallo tsunami finanziario globale, e i rovesci non possono che arrivare a colpire duramente il Vecchio Continente, che come negli Stati Uniti si trova indebitato fino al collo, ma essendo strutturalmente – perlomeno in alcuni paesi – ancora “bancocentrico”, potrebbe risentire in maniera molto peggiore della crisi in atto rispetto all’America. Sia per il tanto minacciato “credit crunch”, sia perché le banche che oggi sono presenti con quote importanti in aziende strategiche del capitalismo italiano potrebbero trovarsi o nelle condizioni di non poter investire nel caso ce ne fosse necessità, o – peggio - costrette a vendere i loro pacchetti azionari per far fronte a improvvisi bisogni di fare cassa. E sia l’una sia l’altra ipotesi, soprattutto quando, ironia della sorte, in Italia il Comitato interministeriale di credito e risparmio aveva ampliato le possibilità di partecipazione delle banche alle imprese, proprio per venire incontro ai rischi di sottocapitalizzazione insiti nell’imprenditoria italiana.

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La giornata comincia con le aperture negative delle Borse continentali. Londra scricchiola (-0,7%), Milano, Francoforte e Parigi crollano con cali che arrivano a 2,5 punti percentuali. In Russia i mercati non aprono nemmeno, mentre Putin annuncia che presterà denaro alle banche senza chiedere alcuna garanzia. Il Nikkei intanto chiude in ribasso del 4,12%: è il peggior risultato da due anni e mezzo. Francoforte continua a “drogare” il malato-banche: altri 30 miliardi di liquidità, mentre Bce e Fed raddoppiano la quantità di fondi a disposizione delle altre banche centrali. Intanto l’Euribor schizza verso l’alto: raggiungendo il 5,05%: l’interbarcario è la spia della fiducia reciproca tra gli istituti di credito. Con Dexia – istituto che detiene tra l’altro la maggioranza del nostro Crediop – a cui arriva da azionisti e governi un’iniezione di liquidità pari a

Bush: «Senza piano conseguenze gravi» E intanto tremano i banchieri europei di Alessandro D’Amato

ni (Isvap). Al termine, in una nota del Tesoro si definisce “adeguata”la liquidità del sistema finanziario italiano. Il portavoce della Commissione Europea Johannes Laitenberger si rammarica per il no del congresso al piano Bush, e auspica che gli Stati Uniti «si assumano le loro responsabilità». Sarkozy annuncia misure per facilitare il credito delle banche alle imprese. Poi, di buon mattino (ore 14 e 30 italiane), il presidente George W. Bush parla alla nazione per convincere il

Borse in picchiata per tutta la mattina, ma dopo il drammatico appello del presidente Usa al Congresso, Wall Street risale e trascina in pareggio le altre

6,3 miliardi di euro, salgono a cinque le banche difese con salvataggi “di Stato”da un probabile default. In Irlanda il governo garantisce sui depositi bancari (anche qui, l’ultima spiaggia prima dell’assalto agli sportelli) di sei istituti. A Milano Unicredit,

Dopo mezzogiorno si tira il fiato. I futures su Wall Street sono in rialzo, le Borse accennano una timida risalita. In Italia arriva la terza riunione in nove giorni del Comitato per la stabilità finanziaria; presenti Tremonti, Draghi, Cardia e Gianni-

Congresso ad approvare il piano Paulson. «La crisi costa di più, ieri abbiamo bruciato 1000 miliardi di dollari, i 700 miliardi di spesa saranno recuperati in tutto o in parte. Se non agiamo le conseguenze saranno peggiori». Le parole hanno un effetto discorde: l’Europa torna a scendere, mentre i futures di Wally si impennano verso l’alto. Poi la tendenza cambia, e alle 17 le piazze affari europee vi-

l problema vero è che si è creata una separazione netta tra il mondo finanziario, che si è costruito una realtà a sé, e il mondo reale, che ha vissuto una storia completamente diversa». Per Luigi Paganetto, professore di Economia Internazionale all’università romana di Tor Vergata, la crisi finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti e minaccia l’economia mondiale ha una causa principale che, almeno apparentemente, con l’economia sembra avere poco a che fare: «manca l’etica». L’etica, professore? Sì, l’etica. Anche se siamo portati a considerarla come “luogo degli interessi”, senza etica l’economia non funziona. Le osservazioni sulla dimensione stratosferica dei guadagni dei manager, dimensione ingiustificata dal

ruolo da loro ricoperto, è una questione di assenza di un’etica della responsabilità. Joseph Stiglitz, che di queste cose se ne intende, sosteneva l’introduzione di una certificazione dei titoli e delle offerte di fondi, come oggi accade per l’olio d’oliva o per il vino. Sarebbe un esperimento interessante... Sarebbe un modo per evitare che l’utente finale abbia una percezione distorta sugli strumenti finanziari che ha a disposizione. La liquidità molto alta che c’è stata dopo lo “sboom” degli anni Novanta ha forse evitato la recessione negli Stati Uniti (anche se la recessione a volte è benefica), ma con i tassi di interesse praticamente a zero, ciascuno si è inventato un modo per usare tutto questo denaro che non costava niente. Modi spesso rischiosi... Appunto, si è trattato spesso di ini-

che secondo i rumors si troverebbe in difficoltà – e ha annunciato la nascita di una SIV, escludendo l’ipotesi, circolata nei giorni scorsi, di un aumento di capitale, viene sospesa dalle contrattazioni. Riammessa, arriva a cedere il 6,5%.

Parla Luigi Paganetto

«La finanza non è l’economia. E comunque ha perso l’etica» colloquio con Luigi Paganetto di Andrea Mancia

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Al Congresso conservatore, un invito bipartisan

E Cameron minaccia: le banche la pagheranno di Silvia Marchetti banchieri devono pagare, ma non ora. In questo momento dobbiamo pensare a proteggere i risparmiatori e il sistema creditizio». Il suo intervento di chiusura alla conferenza annuale dei Tory in corso a Birmingham era in programma per oggi, ma ieri il giovane leader David Cameron si è sentito in dovere di richiamare la politica - maggioranza e opposizione - alle proprie responsabilità per risollevare la Gran Bretagna dalle secche della crisi finanziaria. Il “no”del congresso americano al piano di salvataggio Paulson ha dato un ulteriore shock ai grattacieli della City, fomentando il clima di instabilità generale che si respira non soltanto nella capitale inglese ma nell’intero Paese. Il timore che una bocciatura simile a quella statunitense possa avvenire anche in Gran Bretagna – dove lunedì il Parlamento riaprirà i battenti per occuparsi della riforma del sistema creditizio che prevede forme di salvataggio per gli istituti in fallimento ha fatto sì che la conferenza dei conservatori si concentrasse sull’emergenza finanziaria, costringendo Cameron ad anticipare parte del suo discorso. Lo tsunami del credit crunch dall’America ha raggiunto l’Europa e in Gran Bretagna è ormai emergenza nazionale: dopo il salvataggio di Northern Rock (all’indomani dell’esplosione della crisi immobiliare) e il recente via libera alla fusione Lloyds-HBOs da parte del governo, nel fine settimana è avvenuta la nazionalizzazione del colosso bancario Bradford&Bingley. E stando all’Authority per i servizi finanziari guidata da Lord Turner, la nazionalizzazione di B&B potrebbe avere un effetto domino sui colossi della City. Insomma, altre banche potrebbero presto crollare.

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George W. Bush. A destra, David Cameron. Nella pagina a fianco: sopra, Alessandro Profumo; in basso, Luigi Paganetto

Le chiusure delle Borse sono positive o in blanda perdita: Milano fa peggio con -0,56%, Francoforte sale dello 0,56%, Londra cresce del 2,32% e anche Parigi va bene (+2,6%). Ma c’è chi si lecca le ferite: tra sospensioni e riprese della contrattazione del titolo, Unicredit perde quasi un sesto della sua capitalizzazione: 6 miliardi di euro. Alessandro Profumo si dichiara comunque tranquillo. Madrid, Amsterdam e Zurigo

chiudono in rialzo, mentre la Svizzera annuncia che Ubs e Credit Suisse, sulle quali erano circolate voci allarmistiche nei giorni scorsi, non hanno problemi di liquidità. Intanto, l’euro è in ribasso sul dollaro (chiude a 1,40), mentre Hypo Re, Dexia e Fortis crescono dopo gli interventi dell’altroieri. Si chiude così l’ennesima giornata di ordinaria follia nei mercati finanziari. Mentre tra gli operatori ci si interroga: continuare a iniettare liquidità non rischia di far “passare la buriana” senza far pagare chi ha sbagliato? E basterà a far tornare il capitalismo “vero” in sella, dopo anni di finanza creativa?

ziative rischiose a cui non corrispondeva poi un’adeguata tutela nei confronti di chi le sottoscriveva. È chiaro che si è innestato un fenomeno di “rischiosità” ingiustificata che era già stato messo in evidenza da molti economisti. Nella stessa relazione della Banca d’Italia si trovano accenni preoccupanti su questo problema. Una volta che ho tanto liquido e non so che farci, mi invento cose ad alto rischio pur di usare denaro che non mi costa. E tutto il sistema è andato in crisi... Alta rischiosità e basso costo della moneta hanno creato un circuito di irresponsabilità in cui si sono scissi senso dell’etica e senso del guadagno. Diceva un economista famoso che l’economia ha bisogno degli interessi ma anche della passione, intendendo quello che Adam Smith, all’inizio della scienza economica, chiamava “la teoria dei sentimenti

morali”. Faccio un riferimento preciso: quando l’imprenditore fa innovazione e sviluppa ricerca - mi viene in mente il mercato dell’informatica e delle telecomunicazioni - questa è passione per l’innovazione. Quale è stato il ruolo delle banche nella crisi? Negli Stati Uniti si è separato il ruolo delle banche dal mondo della finanza. E questa separatezza, che sembrava essere virtuosa, ha finito per avvolgersi su se stessa. L’Europa rischia? Non molto, perché la crisi nasce nel settore dei mutui ipotecari e nelle banche che erano specializzate in questo settore. Ma il sistema europeo è “bancocentrico”. Questo, in qualche modo, ci dovrebbe preservare da questa “separatezza”che è alle fondamenta della crisi.

rano al rialzo. Parla Manuel Barroso, presidente della CE: «Le regole antitrust non vietano il salvataggio delle banche, saremo flessibili sugli aiuti di Stato».

difficoltà». Il piano bipartisan proposto da Cameron prevede tre misure urgenti per soffocare il vortice finanziario. Primo: approvare al più preso la nuova legge-quadro che dà potere alla Banca d’Inghilterra di salvare gli istituti di credito in crisi (e qui ha promesso che il suo partito non farà ostruzionismo al momento del voto). Secondo: accelerare l’approvazione di un altro disegno di legge che protegga i risparmi dei cittadini. Terzo: aumentare le capacità di sostegno al credito delle banche inglesi. Priorità che dovranno avere una corsia preferenziale in parlamento perché secondo Cameron «non ci possiamo permettere ciò che è successo negli Stati Uniti, dove mancava il consenso generale sul piano di salvataggio del settore bancario. Insieme al governo dobbiamo riportare stabilità al nostro sistema finanziario».

I partiti dovranno lavorare in un confronto costruttivo bipartisan, già ieri e lunedì ci sono stati colloqui informali tra il governo e i ministri ombra dei Tory e dei Libdem. David Cameron ha parlato a lungo al telefono con Gordon Brown, esortandolo ad approvare al più presto il riassetto del sistema bancario britannico già la prossima settimana, quando i deputati torneranno in aula dopo il lungo break estivo. Il punto forte del discorso del leader Tory è stata l’apertura incondizionata al governo laburista per il bene della Gran Bretagna, il richiamo alle responsabilità collettive e l’abbandono di qualsiasi logica di contrapposizione politica. «La gente è confusa e ha paura – ha ripetuto più volte ai delegati Tory – vogliono sapere cosa succederà nel prossimo futuro e come ci tireremo fuori da questo pasticcio. Oggi non è il giorno per inutili giochi di politica, dobbiamo garantire sicurezza, stabilità e protezione ai contribuenti». Ma il sale del suo intervento sono state le accuse rivolte al mondo finanziario, da sempre tradizionale serbatoio di voti per i conservatori. Se si parla di responsabilità politica, non si possono certo ignorare quelle che ricadono sui protagonisti della crisi: «Capisco perché la gente è arrabbiata, e vi assicuro che un giorno i banchieri pagheranno per quello che hanno fatto. Il partito conservatore non fa soltanto gli interessi dei grandi finanzieri e imprenditori – ha sottolineato - ma sa anche contrastarli quando necessario». Il messaggio che Cameron vuole trasmettere agli inglesi è questo: i Tory difendono i deboli, ossia i contribuenti e i risparmiatori. Non gli avvoltoi finanziari.

Il leader tory tende la mano al Labour: un piano in tre punti per proteggere i risparmiatori e uscire dalla crisi economica

Di fronte a un simile scenario, la politica non può permettersi di fallire. Dal palco di Birmingham, Cameron ha così esortato ad andare oltre le differenze di partito e ha teso la mano al governo di Gordon Brown, lanciando la proposta di un patto bipartisan per la «stabilità del Paese che rassicuri i cittadini proteggendo i loro risparmi, pensioni e lavoro. Questo è il momento in cui le democrazie vengono messe alla prova – ha detto – e noi dobbiamo dimostrare di saper gestire simili


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Viaggio nella capitale della crisi. La gente non cambia le proprie abitudini ma si vedono i segni di un grande animale ferito

Crack and the City New York di fine settembre, una città spaesata Ma c’è anche chi trasforma la bancarotta in business di Angelo Crespi NEW YORK. La città si sveglia il lunedì come una bestia ferita. Tutta la notte si è rigirata rumorosamente. Dalle parti di Broadway, i trucks della spazzatura sono andati su e giù come bisonti tra le luci variopinte di Time Square. Suoni cupi provengono dal sottosuolo come se la città dovesse digerire una lunga cena. Così questo sole di fine settembre, un settembre mite, è solo un piccolo conforto. Non è il dramma dell’undici settembre quando i detriti hanno sepolto le certezze di un paese. Oggi il crollo della borsa è qualcosa di meno fisico, eppure ugualmente disastroso. Non c’è la polvere che ha coperto i palazzi dopo il crollo delle Twins, ma una polvere più sottile rende tutto meno scintillante, perfino i video digitali dai quali emmemens invoglia ad ingozzarsi di pastigliette multicolori al cioccolato.

C’è aria di crisi sulla Quinta. Almeno a sbirciare i prezzi. Per un europeo, forte dell’apprezzamento dell’euro sul dollaro, tutto sembra very cheap. Da «Banana Republic», accanto al Rockefeller Center, vestiti e vestitini costano poche decine di euro. Da «H&M» anche. Ma I clienti latitano, o acquistano svogliatamente. Gli unici negozi pieni, stracolmi sono «Ambercrombie and Ficht» e Apple store. Two

enormi cerberi di colore regolano l’afflusso della folla.Tutti i turisti sono impazziti e vogliono una tutina colorata da portare in patria come souvenir. Si spingono tra la calca, scelgono il capo, lo misurano, lo ributtano sugli scaffali, lo riprendono. Molti genitori affranti dal ritmo di questa sorta di discoteca diurnal, tempio dell’abbigliamento, esausti assistono al rito collettivo sfiancati sulle poltroncine in pelle dei salottini. Da “Apple Store” va invece in scena l’America tecnologica. Tra la Quinta e Central Park, si fa la fila per acquistare l’Ipod nano, ultimo ritrovato della tecnologia stilosa della Mela. Un lettore mp3 sottile come una lama e grande poco più di un pacchetto di cicche, metallizzato, con uno schermo ad alta definizione incredibile, e l’accelerometro che quando lo scuoti capisce che deve cambiare musica. Giù nel sotterraneo di Apple al quale si ac-

Da «Banana Republic» come da «H&M», vestiti e vestitini costano poche decine di euro. Ma i clienti latitano, o acquistano svogliatamente

Questo lunedì mattina di fine settembre gli impiegati come al solito raggiungono gli uffici. Sono una massa formata, riconoscibile dalla divisa d’ordinanza, il vestito grigio, la camicia bianca, la cravatta. Molti di loro non indossano ancora la giacca, credo per via del caldo inatteso; solo la camicia e l’immancabile borsa nera porta computer a tracolla. D’altronde, durante l’ultimo lunedì nero di Lehman-Brothers perfino ai manager della più rigorosa banca del mondo è stato permesso, prima del crack, di allentare il nodo della cravatta. E poco importa se oggi un gruppo di turisti tedeschi voglia farsi fotografare sotto la sede storica della banca e chieda il permesso ad un imbarazzato portinaio coi galloni e il capello in testa. Tutto a NYCity diventa business e immagine, perfino la bancarotta.

different faces of America. «Ambercrombie and Ficht» è il tempio dei teen agers di tutto il mondo, soprattutto europei.Tre piani di penombra e musica a palla, giovani commessi e giovani commesse di bella presenza ballano salutando a cento denti i clienti. Uno di questi, petto nudo, addominali scolpiti, si lascia fotografare alla porta da giovani urlanti fan. Due

cede da un cubo di vetro, i commessi sono ragazzini nerds con gli occhiali spessi il cappellino di lana e la t-shirt colorata azzurra o arancio. Con la vocina chioccia aiutano il cliente a districarsi nel mondo dei marchingegni. Il capo degli sfighi con le penne nel taschino della camicia, improvvisa un corso di computer parlando al microfono per farsi sentire nel caos totale del negozio. Attorno al tavolo si affolla attentamente un’umanità da melting-pot, casalinghe anzianotte, messicani, giovani americani di colore, ragazzini, manager, tutti col desiderio di apprendere i segreti dell’ultimo software per scattare, impaginare, e loggare la propria foto nel profilo di Facebook o di un’altra commnunity del genere, dove la gente si ammassa a milioni in cerca relazioni normali o più spesso di emozioni proibite.

La sera nei whisky bar di Manhattan si ripete il rito del corteggiamento. Non c’è sentore di crisi, tra un cocktail e l’altro. Tutti bevono e ridono e cercano negli occhi altrui una possibile via d’uscita dalla consuetudine, dalla crisi, foss’anche per una notte sola. Molti giovani manager rampanti hanno perso il posto, molti ne arrivano quotidianamente da tutto il mondo, di tutte le razze e credi e skilness apprese in prestigiose business school londinesi. Dicono che Mahnattan sia stata edificata su una pietra che emana radiazioni positive, per questo motivo tutti si muovono sentendosi al centro del mondo. Qui l’energia sprizza dai marciapiedi, come il vapore che sbuffa dai tombini. Forse per questo New York è la capitale del business. Non solo «Ambercrombie and Ficht» e Apple puntano sull’animazione all’interno del proprio punto vendita. Se vai da “Fao Schwarz”, il re dei giocattoli, alcuni teenager spiegano ai più piccoli come divertirsi con gli ultimi balocchi di moda. Da Disney shop mentre guardi gli

alla copertina dell’ultimo numero dell’Economist, Will Paulson, il segretario al Tesoro americano, abbigliato come lo zio Sam, punta l’indice e minaccia i lettori. «Voglio i vostri soldi»: dice la didascalia. È l’immagine plastica che descrive l’atteggiamento di una parte della business community internazionale. Preoccupazione per la crisi, ma soprattutto un dissenso manifesto sulla manovra di 700 miliardi di dollari, a carico dei contribuenti, con cui l’Amministrazione Bush, con l’accordo di McCain e la freddezza di Obama, vorrebbe far fronte alla difficile situazione internazionale ed al fallimento di Wall Street. Dalle pagine de «Il Corriere della sera», Francesco Giavazzi rincara la dose. Laisser fair, laisser passer: il vecchio grido della cultura iper liberista risuona nel suo scritto, appena aggiornato dalla riflessione storica. Bisogna seguire l’esempio della Svezia, che fece fallire le proprie banche, quando furono coinvolte in operazioni di moral hazard. Quelle perdite furono più che compensate dai successivi

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espositori ad un tratto sbucano giovani cheerleader che intonano il motivetto di stagione e fanno ohhhhhh con le braccia alzate e i pon-pon fruscianti. Qui tutti vogliono vendere e si sono specializzati nel vendere, comprese le bancarelle all’angolo che friggono gli spiedini di carne e rendono in certi tratti, per via dell’odore, New York una città mediorientale.

Già il cibo. È una vera ossessione per il cittadino di New York, crisi o non crisi. New York è l’unica città al mondo dove si può mangiare qualsiasi cosa a qualsiasi ora del giorno. I daily esplodono di mercanzia, tutto rigorosamente pronto da portar via. Spianate di frutta a pezzettini, di insalate già lavate, di pizze e maccheroni, di sushi e sashimi, di croissant e muffin, di stu-

specie a New York vedere agli angoli le vetrine luminose delle agenzie deserte della Wachovia Bank, la banca recentemente salvata da Citigroup. Wachovia sembra un nome di fantasia. Certo: il regno di Vachovia dove il sole non tramonta mai.

Il sole invece forse è tramontato per sempre a New York, in questo incipiente autunno. Chi può dirlo. Il capitalismo americano fondato sulla libertà dell’individuo sembra al capolinea. Oggi nel mondo prevalgono paesi come la Cina o la Russia in cui il pragmatismo del totalitarismo comunista ha sposato l’efficienza del mercato. Si chiama capitalismo di Stato. New York se ci passeggi in questo scorcio di fine settembre non spaventa più come un tempo. È una bestia ferita. I grattacieli sono ancora

I problemi dovrà superarli l’America profonda, che difende il recinto di casa col fucile, che va perfino in guerra per difendere la nostra civiltà fati e omelettes, e poi spremute, beveroni energizzanti, caramelle, cioccolato, ovviamente caffè a litri, tutto compresso in un solo luogo. È il regno del single o della single, del divorziato o della divorziata, del lavoratore forzato, del ragazzino abbandonato, della signora chic che non se la sente di spiattellare ai fornelli. E soprattutto dei manager, degli impiegati delle banche, che trangugiacono qualcosa al volo tra una trattativa e l’altra, tra un crollo e l’altro. Ed ora, molti di loro sono a spasso.

Il crollo, il mercato buono, le banche cattive e le regole che servono

Mettete le briglie agli animal spirits di Gianfranco Polillo sviluppi. Fatta pulizia, il Paese conobbe una fase di intensa crescita economica. Ed il maggior dinamismo non solo compensò le perdite, ma realizzò un surplus, rispetto alla dinamica degli altri paesi europei, in grado di risarcire, con gli interessi, quei risparmiatori che erano stati coinvolti nella crisi.

Citazione per citazione, vorremmo ricordare che lo schema proposto da Giavazzi non è poi così diverso, dal comportamento tenuto, agli inizi degli anni ’30, da Alberto Beneduce: il fondatore dell’Iri italiano. Anche allora l’intervento della mano pubblica doveva essere temporaneo. Si trattava di acquistare gli assets distrutti dalla crisi. Quindi ristrutturare il sistema bancario per poi cedere, di nuovo, il relativo capitale a possibili investitori. Sappiamo come finì. Quelle partecipazioni rimasero in carico allo Stato per i successivi 50 anni. E il pro-

cesso di privatizzazione decollò solo con la crisi degli anni Novanta. Non sempre la storia fornisce ricette univoche. Specie quando la crisi si presenta con un volto inedito come l’attuale. Ciò che non convince nell’esaltazione del “mercatismo” è proprio l’eccessiva semplificazione che porta a sottovalutare la complessità dei problemi che la crisi attuale solleva. Il primo indizio è dato dal suo effettivo decorso. Essa è stata determinata proprio dalla fiducia cieca nei confronti del mercato. Se vi fossero state regole in grado di imbrigliare gli animal spirits, oggi, forse, non conteremo morti e feriti. E poco importa se non tutti – gli hedge fund – non sono stati coinvolti in questo disastro.

La seconda considerazione riguarda la dimensione che essa ha assunto. Il mercato della speculazione finanziaria ha raggiunto

una latitudine che è pari a circa 10 volte il Pil mondiale. Questo dato ci dà la dimensione, seppure a spanne, della leva finanziaria utilizzata nella disperata caccia di profitti e stock options per quei manager che ne hanno cavalcato le infinite praterie. Che effetto produrrebbe il fallimento delle sole banche più esposte? Si tratterebbe solo della loro giusta punizione, o non sarebbe, invece, l’inizio di una reazione a catena dalle conseguenze imprevedibili? Tentare di governare questo processo è quindi un’operazione di buon senso e non, come nel poker, un’apertura al buio. Forse il fallimento, di cui Giavazzi auspica l’avvento, sarà inevitabile. Ma prima di percorrere questa strada, lo ripetiamo, imprevedibile è bene che i grandi della Terra facciano tutto il possibile per intervenire.

C’è aria di crisi. La si respira anche ai piani alti dei building a Down Town. Il piano pubblico di Bush per salvare il salvabile però non piace a tutti. I più liberali, cioè i più americani, preferirebbero veder fallire le banche che hanno sbagliato indebitandosi con i subprime. I businessman più accorti che avevano deinvestito già da un anno, ora aspettano come squali che il mercato immobiliare si abbassi ancora per comprar casa, cioè blocchi interi, da street a street. Si preparano a ripartire, sempre che si scampi l’elezione di Obama che qui viene vista come un vero disastro. Macain invece è considerato «solo il meno peggio». Lo scontro è tra due concezioni chi crede che il capitalismo possa farcela da solo e chi crede che il mercato debba essere sostenuto. Liberali contro socialisti. Ieri al Congresso hanno prevalso i liberali. È strano pensare ad un’economia americana in cui tre sole grandi banche aiutate dallo Stato competeranno per la primazia. Forse è questo che ha bloccato i senatori. Ma fa

quelli degli anni Settanta, sei Sessanta, perfino dei Trenta del secolo scorso, una patina di antico li rende amichevoli. Da vent’anni ci sono poche novità architettoniche. Mentre altre metropoli del mondo crescono, New York resta uguale. Mentre i grattacieli salgono dovunque sempre più alti, New York si accontenta dei suoi antichi primati. Oggi è Dubai a lasciare stupiti, Shanghai, Kuala Lumpur, dove le costrizioni illiberali di nuove civiltà trovano perfetta esaltazione nel titanio e vetro dei nuovi edifici che si elevano fino a Dio, come minareti.

In questo scorcio di fine settembre, nei pressi di Madison, New York è una città a misura di uomo. Tutto è lindo, coi bambini delle elemetari che sfilano in gruppo nelle divise dei college, le gallerie d’arte, le cartolerie zeppe di block notes, i piccoli bistrot che ricordano l’Europa, anzi che inducono alla nostalgia per un’Europa che non è mai esistita, ma che qui si percepisce nella suo ideale mai fino in fondo realizzatosi neppure in Europa. Cammini e non c’è traffico. New York si appresta a diventare l’ex capitale di un impero. Un po’ come Roma. E sta qui la magnificenza, il tramonto perpetuo che non declina mai nel buio, perché c’è sempre qualcuno disposto a investire sulle vestigia del passato. La crisi dovranno superarla gli altri, quelli dell’America profonda, conservatrice, che difendono il recinto di casa col fucile, che hanno valori da noi dimenticati, che vanno perfino in guerra per difendere la nostra civiltà.


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politica Il ministro Mariastella Gelmini ha annunciato in questi mesi una serie di riforme per la scuola: dal maestro unico per le elementari al ritorno del voto in condotta fino al recupero del grembiule in classe. Ma spesso, dietro gli annunci, è mancato un progetto complessivo

La politica degli annunci non chiarisce il progetto del governo segue dalla prima Innanzitutto, sarebbe opportuno distinguere fra i provvedimenti la cui carica è prevalentemente di immagine (il grembiulino, per certi aspetti anche il voto di condotta) e le linee portanti della politica educativa che il governo in carica vuole perseguire per mezzo del ministro Gelmini (e anche, o forse più, del ministro Tremonti, come molti pensano…). A parte alcune iniziative e dichiarazioni ondivaghe, vedo tre linee portanti: il recupero del clima più decisamente educativo, che passa anche attraverso l’educazione civica, la (ri)qualificazione dell’offerta di formazione, che passa anche dalla reintroduzione dei voti, e – in linea con il precedente ministro – gli obiettivi del processo di Lisbona (in particolare ridurre gli abbandoni, innalzare gli apprendimenti, potenziare la formazione scientifica).

Si tratta di obiettivi in larga misura condivisibili, ma ci aspetteremmo che le decisioni venissero prese in base anche ai risultati di ricerca, e non solo con ragionamenti legati al risparmio, del tutto legittimi, ma impropri. Inoltre, decisioni che di fatto modificano il modello educativo della scuola, come la reintroduzione del “maestro unico” andrebbero discusse nelle sedi opportune, ponderate nelle loro conseguenze e presentate in modo chiaro e possibilmente convincente. Una comunicazione pasticciata che passa dal maestro

Tra maestri e grembiuli, qual è l’idea di scuola? di Luisa Ribolzi unico a quello prevalente, che non chiarisce come si articolerà l’offerta del tempo pieno, che non mette in risalto che continueranno ad esistere accanto alla figura di riferimento docenti specializzati (di inglese, di musica, di educazione fisica…) mette in discussione l’accettazione del provvedimento, visto - o presentato - come in contrasto con i bisogni delle famiglie. Mi sembra legittima la richiesta

Il ministro Gelmini deve ricordare che non si può fare una buona riforma «contro» gli insegnanti (fatta del resto propria lunedì scorso dal Presidente della Repubblica) che si tagli non a caso, ma intervenendo nei

molti sprechi di un modello organizzativo che fa acqua da tutte le parti, e salvaguardando in modo esplicito la tutela dei più deboli.

Infine, non bisogna dimenticare che non è possibile modificare la scuola “contro” gli insegnanti, ma solo “con” gli insegnanti: il problema è che in un sistema in cui non è possibile valorizzare i migliori, per impegno e per

E per il decreto è in arrivo la fiducia ROMA. Il decreto Gelmini sulla riforma dell’Istruzione e il complesso di emendamenti presentati saranno votati dall’aula di Montecitorio la prossima settimana. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo della Camera riunitasi nelle prime ore di ieri pomeriggio. In un primo momento, si era ventilata l’ipotesi di discutere e votare il decreto in tempi brevi, già tra oggi e domani, poi lo stop del governo (apparentemente imbarazzato dal numero elevato di emendamenti - circa 300 - presentati nelle ultime ore prima della discussione generale e perciò tentato di porre la fiducia). Gli emendamenti saranno discussi venerdì 3 ottobre e poi da lunedì 6, nel pomeriggio, si passerà al voto sul provvedimento che reintroduce il voto in condotta e il maestro unico. Sul possibile ricorso, da parte del governo, della fiducia, il ministro per i Rapporti con il

Parlamento Elio Vito ha detto che «è prematuro» e comunque «il ministro per i Rapporti con il Parlamento si augura sempre che non sia necessario il ricorso alla fiducia». Manca ancora l’ufficialità e il ministro Vito sdrammatizza, quindi, ma, a quanto si apprende, la richiesta di fiducia da parte del governo al dl Gelmini sulla scuola è sempre più vicina. Ieri a Montecitorio si è riunito anche il comitato ristretto (il cosiddetto comitato dei nove) della commissione Cultura che ha terminato il proprio lavoro e atteso il “verdetto” della capigruppo presieduta da Gianfranco Fini. Dunque, se molti emendamenti non venissero ritirati, il governo sarebbe intenzionato a presentare un maxiemendamento e a chiedere la fiducia per far correre il provvedimento ed evitare che non si riesca a convertirlo nei sessanta giorni previsti.

qualità, di fronte a qualsiasi tipo di intervento i docenti si chiudono a riccio, sostenuti brillantemente dalle organizzazioni sindacali per cui l’idea che la scuola debba servire innanzitutto agli utenti, e non ai docenti, è ancora talvolta estranea. Benissimo i settemila euro ai docenti di valore… ma se penso all’uso costante degli incentivi “a pioggia” e alla sorda opposizione ad attribuire fondi aggiuntivi agli insegnanti con funzioni speciali, mi chiedo con che criteri e da chi saranno assegnati, visto che al momento attuale nel nostro sistema formativo, a parte le buone intenzioni dell’Invalsi, non c’è traccia di valutazione degli insegnanti, tema su cui sono già caduti un paio di ministri.

Se questi presupposti – programma più chiaro e sul medio-lungo periodo, utilizzo della ricerca, discussione nelle sedi appropriate, risolutezza nell’affrontare il problema degli insegnanti dalla formazione al reclutamento ai percorsi di carriera – venissero garantiti, sarebbe possibile accettare il richiamo del Presidente Napolitano ad un collaborazione bipartisan che superi le ideologie in un settore, la scuola, troppo centrale per lo sviluppo personale e sociale per pensare che possa essere guidato «a colpi di maggioranza». Ci auguriamo che il ministro riesca ad utilizzare per programmare distesamente, e non solo per prendere decisioni puntuali, il lungo periodo di lavoro che ha davanti.


politica

1 ottobre 2008 • pagina 7

Calderoli presenta il progetto sul federalismo che venerdì arriverà in Consiglio dei ministri

E adesso, entrate Irpef per tutti di Francesco Pacifico

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Rai, Fini: maggioranza non mortifichi Camere Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, chiede che si sblocchi lo stallo sull’elezione del presidente della commissione di Vigilanza Rai e fa appello ai gruppi di maggioranza. «Il perdurare della assenza dei parlamentari di maggioranza e la conseguente impossibilità di raggiungere il numero legale per l’elezione del presidente - afferma in una nota - rendono di fatto inutile la convocazione ad oltranza della Commissione di Vigilanza Rai». Per Fini questa è una situazione che rischia di «mortificare le istituzioni parlamentari». «Faccio pertanto appello ai presidenti dei gruppi della maggioranza perché mettano il Parlamento nella condizione di poter costituire l’organismo di controllo e garanzia».

Sanità Lazio, governo sblocca i fondi

ROMA. Davanti ai microfoni delle “Iene” Umberto Bossi non ha certo peccato in moderazione. Durerà cinque anni questo governo? «Se passa il federalismo». Altrimenti? «Se la Padania deve restare schiava, prima o dopo succederà un patatrac». Ma il Senatùr potrebbe ottenere le prime rassicurazioni già a fine settimana: venerdì il ministro per la Semplificazione, e suo colonnello, Roberto Calderoli, porterà in Consiglio dei ministri il disegno di legge delega sul federalismo fiscale per l’approvazione. Un sì che sarà preceduto dalle ultime mediazioni di Silvio Berlusconi per superare i dubbi posti da Regioni e, soprattutto, Comuni. Per sbloccare l’impasse Calderoli ha pronte una serie di modifiche alla sua bozza, che stasera il premier presenterà ai governatori e domani saranno discusse durante la conferenza unificata tra Stato ed enti locali. Quella che i sindaci hanno minacciato di disertare. Le novità il ministro le ha annunciate a margine di un convegno organizzato dei gruppi parlamentari del Pdl sul federalismo fiscale – “Un’esigenza e un’opportunità per il Paese”– che ha visto per la prima volta il centrodestra scendere in campo compatto su questo tema. E le concessioni riguardano l’imposizione fiscale. «Per le Regioni», ha spiegato il ministro, «ci sarà un’aliquota Irpef riservata oltre ai tributi propri; alle Province sarà data la gestione e la riscossione del bollo auto; ai Comuni, anche per venire incontro alle richieste dei sindaci del Nordest, una compartecipazione all’Irpef e l’addizionale». Il percorso del decreto legge delega sembra in discesa, ma non manca-

no incognite da risolvere che potrebbero spingere le parti a ferri corti in futuro. I più bellicosi, i Comuni, chiedono un risarcimento per i mancati incassi dovuti all’abolizione dell’Ici per la prima casa. Ma Calderoli è pronto a dire no: «Con la compartecipazione all’Irpef e la perequazione si recupera il 100 per cento del pregresso». Al premier le Regioni chiederanno conto degli 834 milioni di euro di pregresso sul deficit sanitario, che a loro dire deve accollarsi il governo. In più preten-

I parlamentari del Pdl pronti a cancellare la riforma del Titolo V. Gasparri: «Usciamo da una situazione dove chi ha i poteri non ha le risorse» dono altri 400 milioni per evitare a enti del Sud e del Centro l’introduzione dei ticket nei prossimi mesi, oltre ad altri 834 milioni in più per il triennio 2009-2011.

Il ministro del Lavoro con delega alla Sanità, Maurizio Sacconi, non lascia margini alla trattativa: «Non ci sarà alcuna risorsa aggiuntiva per il 2009». Anche perché, continua, «l’83 per cento della spesa corrente delle Regioni è costituita dalla spesa sanitaria. Per questo il successo del federalismo fiscale si misurerà soprattutto in termini di responsabilità. Quindi, già oggi, non sarà possibile fare sconti». Ma la questione va ben altro le an-

nose e mai risolutive liti tra centro e periferia sulla dotazione del fondo sanitario. Certo, i quasi 4 miliardi che dividono le parti finiranno per essere merce di scambio per il sì alla delega Calderoli sul federalismo fiscale, ma ai governatori sta a cuore ancora un altro aspetto: evitare che nel passaggio da spesa storica a spesa standard, non la si calcoli basandosi su un fondo sanitario per loro sottostimato. Spiega il governatore lombardo Roberto Formigoni: «Noi vogliamo partecipare alla definizione di questi criteri, ma più in generale vogliamo chiedere garanzie e certezze sulle risorse future». Cioè su come sarà fatta la ripartizione nei futuri fondi perequativi. Intanto, se il governo vuole chiudere in fretta la partita del federalismo fiscale e iniziare un iter parlamentare che non durerà meno di due anni, il Pdl ha già chiaro il prossimo obiettivo: la riforma del Titolo V votato a maggioranza dall’Ulivo nel 2001. Spiega il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri: «Dobbiamo uscire da questa situazione dove chi ha poteri, non ha le risorse». Aggiunge il senatore Carlo Vizzini: «Il sistema rischia di saltare, visto che la Corte di costituzionale, dirimendo i ricorsi, sta diventando la Camera di compensazione, la camera delle Regioni, che manca all’ordinamento». Ha notato ieri l’economista Gianfranco Polillo: «Con il passaggio dalla spesa storica a quella standard aumenta il livello di responsabilità per le politiche degli enti locali». Quindi ha aggiunto che, oltre alla prevista perequazione verticale, per il Sud «sarebbe utile introdurre una fiscalità differenziata».

Il trasferimento dei fatidici fondi anche senza l’azzeramento del disavanzo e un subcommissario che affianchi il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, nel processo di attuazione del piano di rientro dal deficit sanitario. Questi i due importanti risultati raggiunti al termine di un vertice tra il governatore e il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Quest’ultimo ha in particolare annunciato l’intenzione di chiedere al Consiglio dei ministri di poter erogare il trasferimento dei 5 miliardi di euro reclamati da tempo dalla regione Lazio. Per il ministro infatti, i provvedimenti adottati dalla regione «dovrebbero garantire l’azzeramento del debito entro il 2009».

Veltroni: Berlusconi dice balle «D’Alema ha chiesto a Walter se fosse impazzito, e così gli è toccato tornare indietro». La ricostruzione della vicenda Alitalia fatta da Silvio Berlusconi non piace a Veltroni. «Berlusconi passa metà del suo tempo a insultare l’opposizione fino ad oggi, quando arriva a dire tre bugie, tre balle per ingannare gli italiani in una strategia di contrapposizione frontale con chi la pensa in modo diverso da lui» ha affermato il segretario al seminario sul federalismo dei senatori del Pd a Frascati, aggiungendo che l’opposizione deve restare unita e che esiste una «preoccupazione democratica». Le «tre balle» si riferiscono appunto alla vicenda Alitalia.

Cei, sì ad una legge sul ”fine vita” «Preferisco non parlare di testamento biologico ma di legge sul ”fine vita”». È quanto ha affermato il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, illustrando i lavori del Consiglio episcopale permanente che si è tenuto nei giorni scorsi. Betori ha sottolineato come la Cei ritenga che una legge sulla «fine vita» non debba accettare, però, il «principio di autodeterminazione» del paziente, né l’ «accanimento terapeutico o abbandono terapeutico».

Di Pietro incalza Napolitano Antonio Di Pietro insiste. E torna a puntare il dito contro Giorgio Napolitano e i suoi inviti al dialogo tra maggioranza e opposizione. «Il capo dello Stato dice cose giuste, ma un po’ ovvie nel senso che dice amatevi e voletevi bene. Questo è un comportamento da papista, deve fare qualcosa di più» dice l’ex pm che definisce le sue parole «non un rimprovero ma un caldo invito». Il leader dell’Idv snocciola i campi d’intervento del presidente. Dalla Rai, alla Corte costituzionale. Di Pietro spiega: «In questi giorni il Parlamento deve nominare il giudice della Corte costituzionale. Chi è il garante della Costituzione? Il capo dello Stato. Imponga il suo ruolo per far nominare il giudice della Corte costituzionale». Poi tocca alla presidenza della commissione di Vigilanza, anche in questo caso, incalza Di Pietro, Napolitano dovrebbe fare sentire la sua voce.


pagina 8 • 1 ottobre 2008

politica

Al convegno sulla laicità l’associazione PeR riapre il dibattito e la partita per definire l’identità del Partito democratico

Due risposte a Rutelli Veltroni: «I cattolici ci sono ma il Pd è una sintesi» Casini: «Bene la novità, oggi l’alternativa non può essere la sinistra» di Errico Novi ROMA. C’è un atto mancato che legittima l’iniziativa di Francesco Rutelli. È in quella lettera che durante la scorsa legislatura i popolari del Pd presentarono a sostegno dei “Dico”e di fatto contro l’allora vicepremier. È un atto mancato, quella dichiarazione firmata da 60 parlamentari cattolici del centrosinistra, perché ridusse a mero parere consultivo l’espressione dei cattolici all’interno dell’allora Ulivo. Adesso con la creazione di Persone e Reti, battezzata ieri al convegno su “La laicità in Italia”Rutelli dà un senso completamente diverso al gioco dei ruoli nel Partito democratico. Dichiara in modo esplicito l’intenzione di dare visibilità e forza competitiva alla componente cattolica. Lo fa con il connubio tra la sua componente originaria – quella di cui fanno parte laici puri come Paolo Genti-

loni, Renzo Lusetti e Linda Lanzillotta – e i teodem. Lo fa soprattutto con il progetto esposto nel “Manifesto per una moderna laicità” che è una proposizione di attivismo dialettico all’interno del partito. «Non si tratta di costruire artifici da politicanti, mi pare che Ferdinando Adornato abbia colto bene il senso della nostra proposta: elaborare e definire nuovi contenuti», dice a Rutelli a liberal. Sulla prospettiva di un’alleanza con l’Udc, e soprattutto sulla singolare tensione che l’ipotesi crea nel Pd nonostante essa sia di fondo condivisa da tutti, il presidente del Copasir nota che «anche su questo l’importante è rafforzare i contenuti intorno ai quali si discute: e mi pare che con questo convegno abbiamo compiuto un grosso passo avanti». In sé non c’è alcuna particolare di-

«Non si tratta di artifici da politicanti», dice l’ex vicepremier, «ma di lavorare sui contenuti anche per un’alleanza con l’Udc»

chiarazione di guerra nei confronti di Veltroni o delle altre componenti del partito. Di certo però si afferma uno slancio competitivo che finora, sulla sponda dell’ex Margherita, non s’era visto. Il segretario dei democratici dà l’impressione di rendersene conto: al convegno svolto nella sala di Palazzo della Minerva a Roma usa un tono garbato, fa ampi riferimenti a Obama quando ricorda che «è un errore lasciare la religione fuori dalla porta, quando si fa politica», ma difende anche il principio della libertà di coscienza: «Il Pd deve essere una sintesi, individuarla sempre in modo perfetto è impossibile». Walter fa intendere in modo chiaro che non sarà facile affermare una prevalenza delle tesi cattoliche nel dibattito interno, e che la partita per definire meglio l’identità democratica è ancora al primo tempo.

Non vuol dire che il gioco sia chiuso. I numeri sono dalla parte di Veltroni, l’organizzazione è saldamente nelle sue mani e la competizione vede i Red di Massimo

L’opinione del politologo

«Walter, attento. È un mondo a disagio» colloquio con Stefano Folli di Susanna Turco

D’Alema solidi nelle loro posizioni. Eppure l’agilità con cui Rutelli e i teodem di Paola Binetti e Luigi Bobba si muovono può aprire spazi imprevedibili. Anche perché il segretario democratico sembra piuttosto ingessato nel continuo botta e risposta con Berlusconi (che ieri su Alitalia non ha voluto neanche replicare) e spinto dall’inerzia del momento a non farsi staccare troppo da Di Pietro rispetto alla durezza dei

Roma. L’associazione battezzata da Rutelli è l’ennesimo segnale d’allarme per un partito dall’unità a rischio, che deve ripensarsi al più presto, dare più spazio ai cattolici e certamente guardare al centro più di quanto non abbia fatto finora. Anche attraverso un dialogo più stretto con l’Udc, sebbene l’attuale sistema politico non consenta di immaginare niente di più. Così Stefano Folli, editorialista del Sole 24 Ore, commenta la nascita di PeR (Persone e reti), ultima creatura para-correntizia dell’universo piddino. Il «manifesto dei moderni laici» per lanciare un’opa sui cattolici del Pd? Credo che sia soprattutto la dimostrazione di una difficoltà reale e forte dentro il Pd, simboleggiata dal disagio dei cattolici, o di una parte di essi, che però significa anche il disagio delle varie componenti che dovevano integrarsi, ma non si sono integrate. Penso per esempio ai popolari, ai prodiani, e

toni. Non sembra volersi dare il tempo, Walter, di lavorare ai contenuti. Lo ha fatto notare ieri anche Pier Ferdinando Casini, che è intervenuto nella parte finale del convegno di PeR e che ha messo in guardia il centrosinistra moderato dallo «scivolamento nel dipietrismo, vantaggioso per Berlusconi e non per Veltroni». Il quale, secondo il leader dell’Udc, «avrebbe dovuto completare uno strappo politico», quello con la si-

a tutti quelli che venivano dalla Margherita. Sembra anche a lei che il Pd non riesca a liberarsi del suo passato? Di più. Non riesce a uscire dal dibattito interno agli ex Ds: D’Alema, Veltroni, Bersani. Tutti quelli che dovevano venire dalle altre sponde, i cattolici, i popolari, di fatto mi sembrano abbastanza oscurati. Così, la nascita di PeR dimostra il disagio dei cattolici, o almeno di coloro che fanno capo a Rutelli, e soprattutto è una mina sulla tenuta complessiva del progetto del Partito democratico. Quindi qualcosa di più che una semplice, ulteriore, corrente? Esiste un problema di rappresentanza, ed è quello che in termini culturali ha posto Ernesto Galli della Loggia, quello del confronto tra cristianesimo e modernità.Il Pd dovrebbe porre il problema di vivere la laicità su questo standard, invece così facendo rischia di re-


politica

1 ottobre 2008 • pagina 9

Luigi Bobba: «Non sarà una corrente»

È nata una nuova casa politica di Francesco Rositano

ROMA. Ancora una volta è stato Luigi Bobba a indossare i panni del mediatore. E illustrando la nuova associazione PeR (Persone e Reti) ai presenti, ha affermato: «Non abbiamo intenzione di formare una nuova corrente: questa nuova realtà non è assolutamente una reincarnazione dei teodem». Già, qualche mese fa - l’ex presidente delle Acli - aveva rassicurato i maliziosi sul fatto che i cattolici del Pd non hanno assolutamente intenzione di “cambiare casa”. «Stiamo bene dove siamo - aveva detto - ma non possiamo rinunciare a richiamarci alla tradizione del popolarismo che ha una sua storia e può essere d’aiuto anche per un partito come il nostro».

Qui sopra, Rutelli e Casini che ieri si sono incontrati alla presentazione di «PeR», la nuova associazione dei cattolici del Pd. Sotto, nella pagina a fianco, il politologo Stefano Folli

nistra radicale e, più in generale, con l’idea di un’opposizione frontale. Walter non può permettersi «falli di reazione», ha detto ancora Casini, «la sinistra è sconfitta e se si pensa di creare l’alternativa a Berlusconi sul filone della sinistra politica l’alternativa non ci sarà mai».

Lo si può considerare un modo implicito per incoraggiare Rutelli a continuare sulla strada della

stare un po’ nel vago, oppure di ricorrere a vecchi strumenti. Come quello di uscire dall’Aula, sperimentato sul caso Englaro? Ecco, appunto. È vero che negli Stati Uniti esistono due grandi partiti che riescono a conciliare le esigenze di laici e credenti, ma quella esperienza è diversa dalla nostra. Qui da noi è difficile ottenere questa amalgama: richiederebbe tempi lunghi, mentre il Pd è stato soprattutto un’operazione di vertice. Il rischio, quindi, è quello di non dare risposte, oppure di darle di basso profilo: l’uscita dall’Aula, la libertà di coscienza sempre e comunque... È troppo poco, per una forza che voglia interpretare anche le istanze cattoliche in un sistema tendenzialmente bipartitico. È qui che arriva Rutelli. È così che nascono questi gruppi che cercano di rappresentare componenti non abbastanza rappresentate. Una parte mondo cattolico è a disagio, c’è un

proposizione di idee. Invocare un Pd più concentrato sui contenuti e meno sulla polemica quotidiana, dal punto di vista dell’Udc, può coincidere con un giudizio benevolo nei confronti dell’iniziativa di PeR. Casini si è limitato a elogiare la riscoperta, nel manifesto di Persone e Reti, della matrice cattolica. Sono i primi passi per la definizione di un centro a cui serve un Partito democratico dalle idee più chare e forti.

problema, che sarà anche personale, di visibilità e bassa cucina della politica, ma non solo. Oggi l’unità del Pd è a rischio? Si va verso un partito federale? Il rischio c’è, ma questo vorrebbe dire iniziare un’altra storia, completamente diversa. E secondo me anche più realistica della velleitaria operazione che ci ha portato sin qui. E l’Udc? La nascita di PeR rappresenta l’inizio di qualcosa? Che il tentativo sia quello di avere un punto di raccordo con l’Udc è nei fatti. Non mi pare però che i frutti possano arrivare in tempi brevi. Nessuna alleanza? Per oggi no, però si semina. Qualcuno è a disagio e cerca di tessere fili che un domani possano diventare qualcosa di concreto. Ma per far questo bisognerebbe avere una legge elettorale diversa, un altro sistema politico: cose che oggi non sono immaginabili.

Oggi, a distanza di mesi, questo progetto che vede in prima fila i teodem Luigi Bobba e Paola Binetti insieme ai rutelliani Renzo Lusetti e Luigi Lusi, ha esplicitato ancor di più la propria posizione, affermando di volere continuare quel dialogo tra le diverse culture del Pd. Un dialogo ritenuto fondamentale anche dal dalemiano Pierluigi Bersani che ha aggiunto: «Se non troviamo il modo di confrontarci e di trovare delle sintesi mettiamo in discussione l’obiettivo stesso di questa formazione che è quello dell’incontro tra culture diverse». La via per il ministro ombra dell’Economia è quella del pragmatismo politico: «Se non negoziamo noi che che abbiamo un umanesimo simile - il cristianesimo è alla base dell’antropologia religiosa e di quella umanistico-socialista - cosa faranno nel frattempo in quei laboratori dove non vige un umanesimo sapienzale?». Certamente, non è la prima volta che dentro questa forza politica ci si interroghi su quanto sia fondamentale - per un partito che aspira ad essere di maggioranza - intercettare le esigenze dell’elettorato cattolico. Enrico Letta ne ha spiegato le ragioni: «Nella Koiné del popolo italiano c’è la storia del cattolicesimo: se noi vogliamo entrare nel cuore della maggioranza degli italiani, dobbiamo entrare in sintonia con questa koine». Paola Binetti, da sempre in prima linea nell’affermare i valori cristiani anche nell’azione politica, ha voluto puntualizzare: «Sì alla mediazione, ma non dobbiamo rischiare nemmeno, nella nostra azione, di essere così laici da dimenticare che siamo credenti». Un’affermazio-

ne secca che dà la misura delle intenzioni dei cattolici del partito - che per ora non vogliono assolutamente creare altri terremoti interni ma non hanno nemmeno l’idea di rinunciare alla propria identità e alle proprie ambizioni. Prima fra tutte quella di colloborare con il mondo dell’associazionismo cattolico.

Lo dimostra il fatto che alla presentazione c’erano diversi esponenti di questo universo. A partire da Mimmo Delle Foglie, ex vicedirettore di Avvenire e portavoce dell’Associazione “Scienza e Vita”, che ha sottolineato come nel Manifesto dell’Associazione sia stata esplicitata chiaramente quale sia la sua antropologia: «Un’antropologia a favore dell’uomo e quindi nettamente contraria al principio di autodeterminazione». E a proposito si è richiamato alla necessità, condivisa anche dalla Conferenza episcopale italiana, di trovare una posizione trasversale sui temi che riguardano i malati in stato terminale: «Se passasse questa pericolosa sentenza oltre ad Eluana ci sarebbero altre 1.000 persone in pericolo. In più una norma del genere sarebbe assolutamente contraria alla maggioranza del popolo italiano che è assolutamente favorevole per la vita e non per la morte». Anche Andrea Olivero - presidente delle Acli, l’Associazione cristiana dei lavoratori cristiani - ha evidenziato come richiamarsi ad una precisa concezione antropologica che mira a mettere al centro l’uomo può avere l’effetto positivo di «creare comunità, di fare rete, appunto così come si propone fin dal nome questa associazione». E fare rete ispirandosi ad un modello di vera laiciità, secondo il presidente delle Acli vuol dire riuscire a comunicare «con gli immigrati, coinvolgere un corpo fondamentale come le famiglie, rendere protagoniste le organizzazioni sociali e in particolare il terzo settore». Un’operazione certamente ambiziosa cui i promotori di PeR hanno già cercato di rispondere invitando a parlare Giovanni Giacobbe, presidente del Forum nazionale delle associazioni familiari; Vilma Mazzocco di Federsolidarietà e Franco Pasquali di Retinopera. Certamente è solo un primo passo. Ora bisognerà vedere cosa ne pensano gli altri inquilini di “un condominio”così popoloso - per idee e culture politiche - come quello del Pd.

Il timore di Paola Binetti: «Non dobbiamo rischiare di essere così laici da dimenticare che siamo credenti»


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mondo

Russia. Inna Yermoshkina ha accusato il sistema russo e il suo degrado. In cambio, violenze e prigione

In galera chi denuncia i corrotti di Francesca Mereu

d i a r i o MOSCA. Nel vedere una ventina d’agenti vestiti di nero che aspettavano qualcuno nel portone del suo palazzo, l’avvocatessa Inna Yermoshkina non si era preoccupata. Aveva la coscienza a posto. Gli uomini, però, erano lì per arrestare lei e il marito Aleksei Yermoshkin. La Yermoshkina, 41 anni, quella sera di maggio ha capito d’aver superato tutti i limiti permessi in Russia. Troppo tardi. Ammanettata, la donna viene fatta salire nella macchina di servizio, dove due giovani agenti in borghese iniziano a picchiarla. Aleksei, anche lui con le manette ai polsi, subisce la stessa sorte. La scena viene seguita alla figlia Kristina, 13 anni, che piange spaventata. Un agente in divisa le comunica che c’è un ordine d’arresto per lei e il marito: l’accusa è quella di truffa. «Con questo ti insegniamo a pestare i calli alle persone importanti», dice l’uomo in divisa, prima di colpirla con un manganello. La Yermoshkina ha dato noia a varie persone nelle alte sfere. Il suo nome era nei titoli di vari giornali quest’anno, perché ha avuto il coraggio di sporgere denunce contro le commissioni dei concorsi per notai e che avevano fatto vincere mogli, figli e parenti d’alti ufficiali di stato. Questi, senza i titoli necessari, avevano usato i legami dei loro potenti congiunti per superare i concorsi e ricevere la licenza di notaio. «È un lavoro che a Mosca ti permette di intascare una media di 100mila euro al mese. I posti disponibili sono pochi e vengono dati solo ai “pochi eletti”o a chi ha dai 300 a 500mila euro da investire per la mazzetta», racconta un avvocato che ha cercato di superare il concorso. Tra quelli che hanno ottenuto il lavoro tanto ambito ci sono il figlio e la nuora del Capo della polizia di Mosca Vladimir Pronin, la moglie del vice Procuratore generale Aleksander Buksman, la moglie dell’ex vice presidente della Corte Suprema Vladimir Radchenko, un parente del ministro delle Situazioni estreme Sergei Shoigu, la figlia dello speaker della Duma di Mosca Vladimir Platonov e molti altri. «È una fetta di torta che i nostri ufficiali tengono per sé. Il concorso ha lo scopo di limitare i posti così il guadagno rimane nelle loro mani», spiega l’avvocato, che chiede l’anonimato. A Mosca, una città con più di 10 milioni di abitanti, ci sono più di 7mila studi legali, quelli notarili sono solo 665 (Roma, con meno di 3 milioni di abitanti, ne ha quasi 5mila). La Yermoshkina aveva partecipato a vari concorsi, ma s’era sempre vista soffiare il posto da qualcuno ben ammanica-

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Baviera, la Csu nelle mani di Seehofer L’Unione cristiano sociale tedesca ha reagito con un giorno di ritardo alla debacle elettorale. Il giorno dopo i risultati il partito sembrava paralizzato dalle dimensioni della sconfitta. L’inaspettato tonfo dal 60,7 percento del 2003 all’attuale 43,4, aveva lasciato la Csu in uno stato di totale confusione. Al cambio della guardia, martedì Horst Seehofer ha preso il posto di Erwin Huber alla testa della del partito bavarese, si è arrivati solo dopo l’enorme pressione fatta dalla Cdu, il partito fratello di Berlino che ha chiesto esplicitamente l’apertura della crisi e il conseguente cambio al vertice. Huber, che fino all’ultimo aveva negato conseguenze personali del voto, ha gettato la spugna giustificando il suo gesto con la possibilità di dare al partito «la chance di un nuovo inizio». Anche la portavoce della Csu, Christine Haderthauer, lascerà il suo incarico non appena il nuovo leader cristiano-sociale avrà deciso il successore.

Serbia, verso la divisione del Kosovo

to. «Decisi di sporger denuncia, ma da allora la mia vita è diventata un inferno», racconta la donna.

Dopo l’arresto è rimasta due mesi in carcere, dove si trova ancora oggi il marito. «Nel nostro Paese le persone che stanno in alto sono intoccabili, ma contro di noi hanno fabbricato un caso falso», racconta la donna. I Yermoshkin sono infatti accusati d’aver imbrogliato la donna dalla quale 10 anni fa avevano comprato il loro appartamento. L’avvocatessa è stata arrestata un mese prima dell’udienza del suo

Accusata di truffa, l’avvocatessa si è fatta due mesi di carcere. Ora rischia nuove detenzioni, se non ferma la sua battaglia caso e ora, alla vigilia di un’altra udienza (che si terrà l’8 ottobre), la milizia ha tagliato i polsi e rotto le costole al marito della donna, mentre un agente l’ha minacciata di altre «accuse a sorpresa» contro la coppia. «Mi hanno detto che il capo della polizia Pronin e il vice procuratore Buksman me l’avrebbero fatta pagare, ma non pensavo che sarebbero arrivati a questi livelli», racconta la donna. «Nel nostro Paese chi lotta contro la corruzione viene screditato e considerato un nemico. Nonostante le promesse

del presidente», commenta Kirill Kabanov, il presidente del Comitato nazionale contro la corruzione, un’associazione non governativa. Appena eletto a marzo, il presidente russo Dmitry Medvedev ha dichiarato guerra alla corruzione: bisogna proteggere i cittadini dai burocrati corrotti e rendere il sistema giudiziario indipendente. Ma finora niente è stato fatto. «Il presidente ha messo i nostri funzionari corrotti a lottare contro la corruzione e non si farà niente», commenta Kabanov. Secondo uno studio di Transparency International, pubblicato questa settimana, la Russia è tra i 40 Paesi più corrotti al mondo, ai livelli della Siria, la Nuova Guinea, il Burundi e la Somalia. Qui tutto è in vendita.

Un posto di deputato alla Duma costa dai 2 ai 5 milioni di dollari, diventare ministro dai 300 ai 500mila dollari, far arrestare qualcuno costa dai 5 ai 70mila dollari (a seconda dell’importanza della persona), mentre corrompere un giudice costa dai 5 ai 9mila dollari. Per convincere la Yermoshkina a ritirare le denunce, la polizia la segue ovunque, mentre degli agenti hanno minacciato la figlia Karina (di 20 anni) che se non avesse convinto la mamma a desistere se la sarebbero presa anche con lei. La famiglia ora «è terrorizzata. Non possiamo neanche rivolgerci alla milizia, perché sono loro quelli che ci perseguitano. Ora capisco perché la nostra polizia è considerata peggio dei banditi».

Il presidente serbo Boris Tadic per la prima volta ha preso pubblicamente in considerazione la divisione del Kosovo. Nel caso in cui gli sforzi diplomatici non riuscissero a dipanare l’ingarbugliata vicenda dell’ex provincia di Belgrado, la Serbia non esclude la sua divisione tra la maggioranza serba e la minoranza serba, ha detto lunedì sera Tadic alla televisione serba. Un approccio respinto però da Pristina. «Il Kosovo è uno Stato riconosciuto internazionalmente e dalle frontiere definite», ha detto il presidente del parlamento kosovaro, Jakup Krasniqi, «ogni tentativo di modificarle creerà nuovi problemi nei Balcani».

Pakistan, cambio al vertice dei servizi I servizi segreti militari pachistani hanno un nuovo capo. Martedì l’esercito di Islamabad ha reso noto che in futuro l’Isi sarà guidata dal generale Ahmed Shujaa Pasha. Il predecessore di Pasha, Nadeem Taj, è rimasto meno di un anno al suo posto. La nomina, avvenuta lunedì, è stata definita dai vertici delle forze armate come un «avvicendamento di routine». Il generale Pasha è ritenuto un fedelissimo del capo di stato maggiore pachistano, Ashfaq Kayani, che l’anno scorso aveva preso il posto di Musharraf. Secondo gli esperti l’Isi funziona come uno Stato nello Stato, nonostante sia formalmente sottoposto al primo ministro.

Afghanistan, trattative con i talebani in vista La diplomazia afgana intende rivolgersi verso Arabia Saudita e Pakistan per cercare di mettere fine alla della guerra che dal 2001 impazza nel Paese centroasiatico. Da parte sua il presidente afgano Hamid Karzai ha chiesto l’intermediazione dell’Arabia saudita allo scopo di intavolare trattative di pace con gli islamisti radicali talebani. Ryad dovrebbe convincere i guerriglieri islamisti a deporre le armi. Karzai ha ribadito di aver diverse volte chiesto al mullah Omar il ritorno in patria.


mondo musulmani francesi si stanno iscrivendo in massa alle scuole cattoliche. Non ci sono statistiche ufficiali, ma secondo le stime che vengono fatte gli islamici rappresenterebbero ormai il 10% dei 2 milioni di allievi degli 8.847 istituti di insegnamento privati appartenenti alla Chiesa. E in certe aree a particolare concentrazione islamica, come nei sobborghi di Marsiglia o in certi centri industriali del Nord, si arriva addirittura al 50%. Per capire le dimensioni del fenomeno: sebbene in realtà il numero vero dei musulmani presenti in Francia sia una specie di mistero, solo alcune stime estreme arrivano al 10% della popolazione. La forchetta indicata da entità ufficiali statunitensi, come il Dipartimento di stato o la Cia (molto attente a monitorare il fenomeno) è tra il 5 e il 10%. Un censimento del 2007, che non considerava però i clandestini, era sul 3%. La stima fatta dal ministero dell’Interno francese nel 2000 era di 4,1 milioni di musulmani per nascita e di 40.000 convertiti, mentre un ricercatore indipendente aveva calcolato per il 1999 3,7 milioni di persone, che rappresentavano il 6,3% della popolazione. Insomma, in proporzione i musulmani francesi si iscrivono alle scuole cattoliche più dei cattolici.

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Soheib Bencheikh, per conto suo fondatore di un Istituto di Alti Studi Islamici, ha mandato la figlia in una scuola cattolica. «La laicità - ha spiegato è diventata la religione di Stato e la scuola repubblicana il suo tempio. Può sembrare ironico, ma oggi rispetto all’islam è la Chiesa Cattolica a essere più tollerante e più comprensiva dello Stato».

I

E la cosa dovrebbe essere tanto più sorprendente non solo per l’evidente motivo confessionale, ma anche per quello economico: le scuole cattoliche sono infatti a pagamento, mentre i musulmani in genere appartengono in genere agli strati più bassi della popolazione, e quindi dovrebbero avere più problemi a pagare le rette, anche se è vero che in Francia le scuole cattoliche sono più a buon mercato che non nel resto d’Europa. A differenza che in Italia, in Francia lo Stato paga infatti gli stipendi degli insegnanti, e contribuisce anche con un sussidio in proporzione al numero degli studenti, a condizione che l’istituto segua il programma nazionale e sia aperto a studenti di tutte le fedi. Alla fine i genitori se la cavano con una media di 1400 euro all’anno a ragazzo nelle scuole medie; di 1800 in quelle superiori. La ragione dell’apparente paradosso? La Legge sulla Laicità approvata nel 2004 sulla base delle indicazioni della famosa Commissione Stasi, che

Francia. Il 10% degli alunni delle scuole cattoliche è musulmano

E adesso Maometto va a lezione dai preti di Maurizio Stefanini ha bandito dalle scuole tutti i “simboli religiosi ostentatori”: non solo i veli islamici, ma anche le croci “troppo grandi” e la kippah ebraica, per non parlare dei turbanti dei sikh, che infatti furono la comunità che protestò più di tutte. Altri problemi nella scuola pubbli-

che quattro. Risultato: si va dai preti. Nelle scuole cattoliche le ragazze musulmane possono infatti generalmente portare il velo, anche se mancano eccezioni che hanno deciso di invece

La Legge sulla Laicità costringe gli islamici a frequentare gli istituti cristiani. In questo modo, hanno una vera libertà religiosa ca gli islamici li hanno poi con le mense, visto che la linea ufficiale è di non transigere verso i tabù alimentari nella politica di “educazione del gusto”. Ovvero, «quello che c’è, i ragazzi devono mangiare». Ebbene: questi divieti non si estendono alle scuole private. Ovvio che l’ideale per i giovani islamici sarebbe allora di andare in istituti della loro stessa fede, ma di questi in tutta la Francia non ne esistono

conformarsi alla Legge sulla Laicità.

Nelle scuole cattoliche si può ottenere cibo halal, islamicamente puro. Nelle scuole cattoliche è più facile ottenere le ferie per festività islamiche. E non manca chi apprezza anche il clima di maggior raccoglimento, che favorirebbe una spiritualità maggiore. Perfino l’ex-Gran Muftì di Marsiglia

Giovani studentesse islamiche ottengono il diploma. In Francia è proibito mostrare nei luoghi istituzionali (come scuole e uffici comunali) i simboli religiosi

In realtà, non è che alcuni aspetti della laicità non possano poi venire a loro volta approfittati dai musulmani nelle scuole cattoliche. Mentre in una scuola cattolica italiana, non finanziata dallo Stato, l’insegnamento della religione è obbligatorio, in una scuola cattolica francese il finanziamento in cambio dell’adozione del programma nazionale fa poi sì che anche lì le ore di “catechismo” siano sempre facoltative. Insomma, gli islamici si inseriscono nella complessa dialettica tra Stato e chiesa che è stata determinata dalla storia francese. In più, gli istituti cattolici si stanno buttando a capofitto nell’occasione, visto che il business è pur sempre il business. Non solo le cinque preghiere islamiche al giorno sono ampiamente agevolate, ma a Digione c’è perfino una scuola cattolica che ha permesso ai propri iscritti musulmani di adoperare la cappella per i riti del Ramadan. Ovviamente, gesti come quest’ultimo suscitano l’allarme di chi avverte di come per l’islam ogni luogo in cui sia stata praticata la preghiera islamica diventi poi irrinunciabile: lo stesso califfo Omar dopo la conquista di Gerusalemme rifiutò l’invito del Patriarca a recarsi in visita nel Santo sepolcro spiegando: «Se no, poi sarei costretto a trasformarlo in moschea». Sul fronte laico si dice invece che in tal modo le scuole cattoliche si fanno ricettacolo di valori anti-occidentali, come la sottomissione della donna. I responsabili delle scuole cattoliche ribattono che il muro contro muro non fa che peggiorare le cose, e che proprio l’esperienza di convivenza in una realtà dove le varie esigenze di fede sono tutte tutelate è il modo migliore per convincere sempre più ragazze islamiche che portare un capo di vestiario non può essere un valore fondamentale.


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Il discorso di Ferdinando Adornato in occasione del premio liberal a Carlo Azeglio Ciampi

aro Presidente Ciampi, celebrare la tua persona è per me motivo di grande emozione. Non posso dimenticare che quando, nel 1995, nacque il mensile liberal e dopo qualche mese la Fondazione, tu hai accettato di far parte del nostro primo board scientifico, assieme con tanti amici tra cui Antonio Maccanico, Cesare Romiti, Mino Martinazzoli, Marco Tronchetti Provera. Non lo dimentico e so che non l’hai dimenticato neanche tu. Perché avevamo deciso di stare insieme in quella fase? Perché avevamo visto che la nuova democrazia bipolare faticava a imporsi. Anzi, nel ’94 era partita una sorta di guerra civile ideologica tra i due poli dell’alternanza. Perciò avevamo maturato la “fantasia” di contribuire al disgelo, a farli dialogare, a convincerli che c’era un interesse nazionale da anteporre a tutto. Tant’è che il lavoro di liberal venne non a caso definito “terzista”. Non era così, noi volevamo solo esprimere una posizione culturale: ma le letture militanti della politica non tolleravano neanche sul piano culturale posizioni libere dai dogmi dell’appartenenza. Qualche motivo di essere incisivi lo abbiamo avuto, penso al tentativo del governo Maccanico, che avrebbe potuto rappresentare una tappa importante di un progetto di riforme condivise ma Fini si oppose, commettendo forse uno dei più rilevanti errori della sua storia politica, e così si chiuse ogni spazio. Il fatto è che quella nostra iniziativa culturale non trovò allora alcuna sponda politica.

C

Ebbene, sono passati quindici anni ma, purtroppo, le ragioni di quella nostra ispirazione non sono ancora venute meno. Il bipola-

rismo italiano soffre ancora, in forma diversa, le stesse malattie di allora. Oggi però una sponda politica c’è: perciò sono personalmente contento di aver accettato la scommessa di Pier Ferdinando Casini, che, finita l’esperienza storica della Casa delle libertà, gioca oggi la sua battaglia proprio nella direzione di un sistema politico capace finalmente di anteporre l’interesse nazionale, la Patria, il Bene Comune, alle convenienze di parte. Anche oggi questa posizione viene chiamata “terzista”. Ma anche oggi non è così. Il problema non è infatti annullare il bipolarismo, ma renderlo maturo, moderno, all’altezza di un Paese che ha bisogno di ritrovare se stesso, i suoi valori, le ragioni del suo essere Nazione. Il senso dello Stato, la capacità di esprimere una classe dirigente che abbia in mente di guidare una nazione dai valori condivisi: questo tu hai chiesto all’Italia; a questo hai sempre aspirato; questo tu hai rappresentato in prima persona. Questa è però, caro Presidente, ancora una battaglia aperta. Di qui la decisione di consegnare a te il nostro premio. Esso, dunque, non è solo un riconoscimento ai meriti di un “Presidente patriota”, ma è un premio d’attualità; dato che la questione della nostra unità nazionale non è ancora risolta, noi con questo premio intendiamo affermare che occorre un vero e proprio rilancio del “ciampismo”, dello spirito e della lettera di ciò che tu hai proposto alla storia degli italiani. Il discorso non riguarda, ovviamente, Giorgio Napolitano, che è un degnissimo continuatore della tua ispirazione; riguarda piuttosto le classi dirigenti della politica, dell’impresa, della scuola. Non riguarda il Quirinale ma la società italiana nel suo complesso. Cerchiamo allora di capire qual è stato il cuore del messaggio che tu hai proposto agli italiani, il nucleo di valori che oggi noi vogliamo riaffermare.Tu hai riproposto una tesi assai precisa: Il fine della politica e delle istituzioni è l’interesse della Nazione. Può sembrare un’affermazione scontata, facile da comprendere: ma non è così. In altri termini: lo Stato è il mezzo, la Nazione è il fine. E’una tesi importante perché chi in politica negasse l’esistenza di una comunità nazionale e di una Patria, avrebbe

La via italiana al patriottismo:

Mazzini-De Ga di Ferdinando Adornato gioco facile per agire in nome di altri interessi, di gruppo, di clan, di classe etc. invece se l’obiettivo della politica è l’interesse comune, non si può giustificare nessuna situazione politica che non preveda questo scopo. Chiariamo: senso dello Stato non vuol dire “primato dello Stato”, prevalere dello Stato sull’uomo o sulle comunità. Vuol dire servizio per la Nazione. C’è un filo rosso che tu hai spesso ricordato che lega intorno a questo concetto la storia della comunità nazionale, nei secoli della sua preparazione, dai Comuni al Risorgimento fino alla guerra di Liberazione. Intorno al concetto di Stato che ho richiamato, concordano il pensiero più autentico del Risorgimento e l’ispirazione più profonda del cattolicesimo liberale. Farò forse un’affermazione un po’ azzardata, ma io vedo un filo rosso di pensiero che va da Mazzini a De Gasperi a Ciampi che finora non è mai stato letto come tale, e ciò che più conta è ancora oggi quasi del tutto disatteso.

dell’impresa, della finanza, pronuncia quelle parole unendo sotto la voce «valori cristiani e umanistici» il senso dell’identità italiana. Cosa vuol dire? A mio avviso vuol dire che Ciampi è consapevole del filo rosso di cui parlavo, è consapevole della grande equazione valoriale che esiste tra l’impostazione umanistica del cristianesimo e quella del liberalismo. Non a caso, entrambe, si sono sempre trovate dalla stessa parte della barricata rispetto al classismo, al razzismo, allo statalismo, allo scientismo.Tra il Maz-

solo e soltanto nel più grande disegno di una patria europea. Spesso si dimentica una cosa fondamentale: che uno Stato non è mai fino fondo compiuto se si basa solo sull’unificazione politica, senza riuscire a raggiungere l’unificazione spirituale del suo popolo. Questo orizzonte ci aiuta a decifrare la giusta via interpretativa del “nodo Risorgimento” che è ancora irrisolto nel dibattito politico-culturale contemporaneo. C’è stato un difetto di una certa lettura cattolica che puntando giustamente lo sguardo sulla “rottura” di Porta Pia ha finito per dimenticare quanto il lungo e grande processo risorgimentale debba, da Dante a Manzoni fino a Rosmini, al pensiero cristiano. Speculare l’errore di una certa lettura laica: giudicando un successo l’unificazione seguita a Porta Pia hanno finito per trascurare che senza la consapevole partecipazione dei cattolici alla vita della nazione, l’unificazione spirituale non sarebbe mai stata raggiunta. Questa sindrome di Porta Pia che ha contagiato parti cospicue sia del mondo laico che di quello cattolico ancora ci accompagna. Porta Pia rappresenta il simbolo della nostra unificazione politica ma non fu e non è ancora il luogo della nostra unità spirituale. Laicisti e cattolici integralisti non intendono bene la storia del Risorgimento se dimenticano, per mo-

Uno Stato non è mai fino fondo compiuto se si basa solo sull’unificazione politica, senza riuscire a raggiungere l’unificazione spirituale del suo popolo

Permettimi di citare le tue parole del 31 dicembre 2005, cioè dell’ultimo messaggio di Capodanno che hai rivolto agli italiani: «Quel che ho cercato di trasmettervi è l’orgoglio di essere italiani; siamo eredi di un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici, fondamento della nostra identità nazionale». Dunque il Ciampi laico, il Ciampi rappresentante del mondo bancario,

zini che predicava il “cosmopolitismo democratico” europeo, il De Gasperi che immaginava gli Stati Uniti d’Europa e il Ciampi che ci ha guidato nell’Euro, c’è una continuità che rappresenta la migliore “ideologia italiana”.

Ciampi condivide con Mazzini e con De Gasperi l’idea che la politica acquista senso e consenso solo se diventa fede nella grande storia della Nazione. Religione civile di una finalità che appartiene allo spirito di una grande comunità. E’il filo rosso di chi vede la patria italiana affermarsi


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partigiani nel “triangolo rosso”. Ebbene, io credo che tutte queste “revisioni” abbiano creato un quadro universalmente accettabile per determinare quella“pacificazione della memoria” da più parti richiesta per ritrovare lo spirito di una rinnovata unità della nazione.

asperi-Ciampi

tivi opposti, che quella storia è fortemente caratterizzata dalla spiritualità cristiana. Perché è inevitabile che la componente fondamentale di ogni Nazione sia la sua Religione. Lo ripeto: si tratta di un processo che viene da lontano, da Dante e da Manzoni: questi sono i valori che ci precedono e che hanno formato la grande Storia della Nazione Italiana. Le letture “parziali” che ho richiamato hanno poi permesso l’affermarsi della contestazione leghista del Risorgimento, visto come fondamento del centralismo. Si tratta dell’ennesima lettura strumentale e superficiale della storia. E, sia detto per inciso, personalmente mantengo più di un dubbio sul fatto che tutti noi ormai consideriamo la paro-

la federalismo come una sorta di parola magica da condividere quasi “al buio”, cosa che si sta ripetendo nella decisiva attualità dell’agenda politica. Rileggere correttamente il Risorgimento, dunque: ecco la prima necessità di un patriottismo moderno che voglia legare Stato e Nazione nell’indissolubile vincolo di cui parlavamo. Ma occorre rileggere correttamente anche la Guerra di Liberazione. Il revisionismo affermatosi in questi ultimi decenni è stato assai utile. A partire da Renzo De Felice per arrivare a Giampaolo Pansa, nuove interpretazioni storiche hanno contribuito a rendere più equilibrato il giudizio sul nostro Novecento, fino ad allora troppo faziosamente segnato

dalla lettura ideologica della sinistra comunista. De Felice ci ha raccontato una dittatura che però è stata anche un episodio importante della modernizzazione del Paese. Abbiamo poi ben compreso le ambiguità storiche determinate dal “paradosso di Yalta” che ha “legittimato” uno Stato totalitario come l’Urss, risultato tra i vincitori della Guerra Mondiale. Abbiamo poi ascoltato Bobbio ricordarci come l’antifascismo sia un must della democrazia ma che non sempre tutti gli antifascisti sono al tempo stesso democratici. Claudio Pavone ci ha proposto il concetto di “guerra civile” per fotografare il reale spirito degli italiani in quella che fino ad allora era stata chiamata solo “Resistenza”. Pansa, infine, ci ha ricordato gli eccidi di cui si resero responsabili i

E invece no. Questi “paletti” non vengono ancora ritenuti sufficienti e si continua a eccitare gli animi. Perché mai altrimenti un ministro della Difesa dovrebbe tornare sul “complesso di Salò”? E’ come se il passato non volesse mai “passare” e ci costringesse a restare suoi prigionieri. Ma questo forse riguarda solo le élites. Nel nostro popolo, invece, è probabilmente, più forte la realtà di una memoria condivisa. Così come il presidente Ciampi diceva il 4 novembre del 2002: «Oggi, 4 novembre, Giorno dell’Unità Nazionale, dobbiamo riflettere sulla evoluzione che la nostra comunità sta vivendo. Stiamo ritrovando in noi le ragioni profonde di una memoria condivisa. Gli antichi valori della nostra indipendenza nazionale si stanno ricomponendo come in un mosaico con i valori di oggi, di una collettività democratica e pacifica, orgogliosa dei propri modelli di vita, pronta a difenderli. La storia non divide più noi italiani. L’ho sentito a El Alamein, come l’ho sentito a Cefalonia, a Tambov, a Porta San Paolo. La storia non divide più noi europei. L’ho sentito stando a fianco del presidente Rau nel sacrario dei martiri di Marzabotto. Oggi sappiamo che sono più forti le cose che ci uniscono. Il patriottismo che sta crescendo tra gli italiani è un’occasione che viene offerta alle istituzioni, non dobbiamo perderla».

sull’anticomunismo mentre dovremmo chiudere definitivamente queste vicende e chiederci piuttosto se l’identità della nazione italiana e l’identità della comune patria europea possa accontentarsi di definirsi in negativo (antifascista, anticomunista, in una parola antitotalitaria) e non debba piuttosto ritrovare nella sua storia le ragioni di una definizione in positivo. L’identità di una comunità di popolo, infatti, non si può basare su un “non essere”ma deve piuttosto rivelarsi come un “essere”. Solo così essa potrà infatti reggere agli urti della storia, perché la fede in se stessi non può nascere da una coscienza di ciò che non siamo, ma può nascere solo dall’entu-

Una comunità di popolo non si può basare su un “non essere”, ma deve rivelarsi come un “essere”. Solo così essa potrà reggere agli urti della storia

Ebbene, caro Presidente, la verità è che più d’uno quest’occasione vuole davvero perderla. Ma noi non dobbiamo permetterlo. Una cosa è riconoscere la buona fede dei singoli che hanno creduto di servire l’Italia con la Repubblica di Salò, altra cosa è sapere, come tu hai ricordato, che «il giudizio storico sulla Repubblica di Salò - creata in antitesi allo Stato legittimo, il Regno d’Italia che non cessò di esistere fino al referendum del 2 giugno 1946 non può dimenticare che essa appoggiò con la sua azione, la causa del nazismo, anche se scelte individuali di adesione furono ispirate al convincimento di fare in tal modo il proprio dovere». La nostra memoria vacilla, il nostro animo è ancora inquieto. In fondo il nostro è un Paese ancora culturalmente arretrato. Ci laceriamo ancora sul fascismo e sull’antifascismo, sul comunismo e

siasmo per ciò che siamo. E non c’è dubbio che a definire in positivo l’identità italiana ed europea concorrano proprio quei pensieri umanisti laici e cristiani dai quali abbiamo preso le mosse. Quei pensieri che muovendo dal “primato della persona” nella storia hanno reso grande la civiltà occidentale, costruendo le democrazie liberali nelle quali abitiamo e sconfiggendo il mostro del totalitarismo che nel XX secolo ha tentato di divorare l’Europa. Nazione italiana e patria europea vivono in virtù di questi valori, tanto che il rischio della loro eclissi sta diventando il rischio di un vero tramonto dell’Occidente. Perciò, caro Presidente, ci siamo rivolti a te. Perché senza riabilitare questi valori e la loro storia anche il senso dello Stato deperirà, come sta deperendo; declinando verso una politica fatta di “potere per il potere” nella quale il senso del dovere, la dignità, la missione, lo spirito di servizio rischiano di essere considerate soltanto illusioni da anime belle. In omaggio a questi valori che noi vogliamo invece preservare e tramandare ai più giovani, in omaggio in particolare a quello spirito di servizio che è stato il leit-motiv di tutta la tua esistenza, permettimi di concludere con un’altra tua frase: «Lavorate ogni giorno come se l’incarico che avete dovesse durare per sempre, ma ogni giorno dovete lavorare come se fosse anche l’ultimo. Siate sempre pronti a lasciare il vostro incarico da un giorno all’altro senza un rimpianto, uscendo dalla porta senza guardare indietro». Grazie Presidente!


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La laicità positiva. La relazione di monsignor Fisichella al convegno di liberal

Il fattore Tocqueville di Rino Fisichella segue dalla prima «È legittimo per la democrazia e rispettoso della laicità dialogare con le religioni. Queste, e in particolare la religione cristiana, con la quale condividiamo una lunga storia, sono patrimonio di riflessione e di pensiero, non solo su Dio. Ma anche sull’uomo». E sulla società e persino su quella preoccupazione, oggi centrale, che è la natura e la tutela dell’ambiente. Sarebbe una follia privarcene, sarebbe semplicemente un errore contro la natura e contro il pensiero. È per questo che faccio appello ancora una volta a una laicità positiva. Una laicità che rispetti, una laicità che riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che denunci. In questa epoca in cui il dubbio e il ripiegamento su se stessi pongono le nostre democrazie davanti alla sfida di rispondere ai problemi del nostro tempo, la laicità positiva offre alle nostre coscienze la possibilità di scambiare opinioni, al di là delle credenze e dei riti, sul senso che noi vogliamo dare alla nostra esistenza. La ricerca di senso». Rispondendo, il Papa diceva: «In questo momento storico in cui le culture si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importan-

za della laicità è divenuta necessaria.

È fondamentale infatti, da una parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini che la responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società». L’esegesi dei due testi permetterebbe di cogliere molti aspetti su cui intrattenersi; mi permetto di richiamare alcuni elementi comuni che balzano evidenti. Anzitutto, la sottolineatura del momento storico che stiamo vivendo. La cosa non è affatto ovvia; essa obbliga a verificare direttamente in quale modo due Istituzioni quali la Chiesa e lo Stato possono contribuire, nella loro autonoma sfera di influenza, per superare la crisi attuale. Ambedue, inoltre, riconoscono il valore positivo che la religione può avere per la società e per la vita delle persone. Esso si esprime non solo nel valore culturale che possiede una religione come il cristianesimo, soprattutto per l’Europa, ma anche l’apporto che la fede cristiana offre nel rispondere alla domanda di senso che ogni persona si pone. Nei due discorsi è immediato percepire il riferimento alla cultura. Storia e cultura sono due categorie con cui dovremmo impegnarci molto più spesso. Esse indicano non solo la capacità di saper cogliere la dinamica dei fatti che lo scorrere del tempo, per sua stessa natura, obbliga a considerare ma, soprattutto, che esistono fatti che hanno creato cultura e solo il loro dinamico mantenimento permette di rimanere ancorati alla propria identità nazionale. Benedetto XVI, infine, richiama proprio su questa base all’istanza

etica che deve essere ricercata per approdare a una visione dell’uomo, della società e della natura che mentre è rispettosa delle conquiste compiute nel passato sia prodromo per costruire un futuro che vada oltre i possibili conflitti per recuperare un fondamento comune. In una parola, il vero progresso non si attua con un processo di rottura con il passato, ma solo con un coerente sviluppo con quanto ha costituito cultura e forma la nostra tradizione.

In questo contesto, ritornano con accenti fortemente moderni per il nostro tema le considerazioni di A. de Tocqueville: «Accanto a ogni religione si trova un’opinione politica che, per affinità, le è unita… I cattolici mostrano una grande fedeltà alle pratiche del loro culto, e sono pieni di ardore e di zelo per la loro fede; e tuttavia formano la classe più repubblicana e più democratica che vi sia negli Stati Uniti. Questo fatto, a prima vista, sorprende, ma la riflessione ne scopre facilmente le cause nascoste. Penso che sia un errore considerare

la religione cattolica come un nemico naturale della democrazia. Tra le varie dottrine cristiane il cattolicesimo mi sembra, invece, una delle più favorevoli all’uguaglianza delle condizioni… In materia di dogmi, il cattolicesimo pone tutti gli uomini allo stesso livello di intelligenza; obbliga ai particolari delle stesse credenze il sapiente come l’ignorante, l’uomo di genio come il volgare; infligge le stesse austerità al potente come al debole; non transige con nessun mortale e, applicando a ogni uomo la stessa misura, ama confondere tutte le classi della società ai piedi di un mede-

diviso il mondo intellettuale in due parti: nell’una hanno lasciato i dogmi rivelati e ad essi si sottomettono senza discuterli; nell’altra hanno posto la verità politica e sono convinti che Dio l’ha lasciata alla libera ricerca degli uomini. Così i cattolici degli Stati Uniti sono, insieme, i fedeli più sottomessi e i cittadini più indipendenti». Il testo, per alcuni versi, riveste un’attualità impressionante (...) riguardo l’apporto che il cattolicesimo può offrire al mantenimento e allo sviluppo di una vera democrazia. Ci sono momenti nella storia in cui si fa più pressante la richiesta per riflettere su problematiche che segnano da vicino la vita delle Istituzioni (...). In questo orizzonte riflessivo noi cattolici siamo carichi di una storia che ci ha preceduto e di una tradizione viva di pensiero e di azione che ha formato intere generazioni di persone con l’intento di costruire una società dove la complementarità degli apporti sfociava in una visione unitaria capace di produrre una convivenza civile. Questo scenario, che appare sempre più appannato (...), meri-

Il vero progresso si attua non con la rottura, ma con un coerente sviluppo di quanto ha costituito cultura e forma la nostra tradizione

simo altare, così come esse sono fuse insieme agli occhi di Dio. Se il cattolicesimo dispone i fedeli all’obbedienza, non li prepara però all’ineguaglianza… I sacerdoti cattolici in America hanno


il paginone/siena 2008 ta di essere riproposto come spazio significativo in cui superare i conflitti e convergere verso una visione positiva condivisa. Certo, non possiamo tacere su alcune cause che segnano questo processo disgregativo; penso, in primo luogo, all’imporsi del primato dell’individuo sulla società, alla perdita di credibilità di diverse

a esprimerlo con coerenza e senza forzature. Prendo lo spunto da quanto Massimo D’Alema, ospite all’Università Lateranense, ha detto: «I cattolici in questo Paese hanno garantito la laicità dello Stato più di tanti laici, spero che continueranno a farlo». L’osservazione rispondeva a una mia domanda circa il posto che l’etica

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mulgato questa legge; alla quale l’uomo non può disobbedire senza fuggire da se stesso e senza rinnegare la natura umana, e senza per ciò stesso scontare gravissima pena, quand’anche sfuggisse le punizioni ordinarie».

La Chiesa, quando richiama a non andare mai in deroga dall’istanza etica, non fa altro che invitare a conservare quel patrimonio condiviso (...) che costituisce l’identità di un popolo. Affonda, infatti, le sue radici in una conquista della ragione che, libera nella sua ricerca di verità, ha individuato una legge impressa nella natura (...). La laicità a cui ci si richiama non dovrebbe essere altro che il richiamo e la fedeltà a questa istanza che non può essere umiliata dalla pretesa di comporre una legge con la prerogativa di essere “perfetta” e, quindi, immutabile. In uno Stato liberale non si possono imporre “convinzioni assolute”da parte di nessuno. I cattolici ne sono ben coscienti. Ciò non significa, tuttavia, che sono obbligati a votare leggi che hanno altrettanta convinzione assoluta per il richiamo all’ideologia. In uno Stato democratico ritengo che i cattolici (...) siano chiamati a cercare il maggior consenso possibile per formulare un progetto condiviso senza per questo rinunciare ai principi e contenuti fondamentali in cui si identificano. Non ritengo che in nome della laicità dello Stato, comunque, possano venire meno a un obbligo di coscienza di cui il concetto di laicità si nutre ed è sostenuto. Se la laicità diventasse il criterio per assopire la coscienza o crearle sempre più situazioni di conflitto, sarebbe arduo pensare allo sopravvivenza dello Stato democratico. La Costituzione del nostro Paese, d’altronde, ne è un esempio. Essa non è sorta dal nulla, ma dalla condivisione di principi partecipati e riconosciuti nel rispetto delle diverse posizioni (...) Esiste, deve esistere un substrato culturale partecipato di cui lo Stato non solo fa sintesi, ma se ne fa interprete autorevole per la feconda convivenza civile. (...) In ogni caso sarà bene ribadire che i valori, prima di essere patrimonio del cristianesimo, sono conquista dell’umanità. Nella dinamica storica, comunque, ci sono valori che sono stati ispirati dal cristianesimo e questi fanno parte di un patrimonio irrinunciabile. Lo stesso concetto di laicità, di democrazia come tante altre espressioni del vivere civile anche se non sono state formulate direttamente da cattolici trovano, comunque, nel Vangelo il loro ambiente vitale.

credenti non abbiano valori. Ritengo questa dimensione falsa e offensiva; così come lo è altrettanto quella che ritiene di emarginare i valori cristiani perché frutto della fede. La laicità non è astensione di giudizio per un vago senso di tolleranza, ma capacità di decidere liberamente in forza della verità che una retta ragione persegue. Personalmente, non amo il concetto di tolleranza e preferisco quello più impegnativo di“rispetto”. Dalla Epistula de tolerantia di Locke alla Dignitatis humanae del Vaticano II molta acqua è passata sotto i ponti. Se lo Stato si fa tollerante dinanzi alle religioni le offende perché le giudica tutte uguali. La Chiesa è tenuta a ricordare che il senso religioso appartiene a ogni creatura, Dio appartiene a quella nostalgia che è iscritta nel cuore di ogni uomo; eppure, le religioni differiscono tra loro per i contenuti che esprimono con la loro fede. Certo, lo Stato non può essere arbitro dell’istanza veritativa che le religioni portano con sé;

Gli stessi concetti di laicità e di democrazia, anche se non concepiti da cattolici, trovano nel Vangelo il loro ambiente vitale

Istituzioni (...), all’accresciuto senso di indifferenza e apatia per tutto ciò che comporta l’assunzione di responsabilità personale e civile, alla progressiva perdita del senso religioso. La Chiesa e lo Stato non possono ignorarsi dinanzi a queste sfide che coinvolgono i popoli (...) e neppure possono procedere in ordine sparso, pena l’impossibilità di giungere a una soluzione efficace. Ritengo sia importante (...) avere una visione lungimirante che consenta ai diversi responsabili delle Istituzioni di ripensare il proprio apporto reciproco attraverso il recupero di una circolarità formativa che consenta di sviluppare un progetto in grado di restituire fiducia e responsabilità ai cittadini (...) Perché questo avvenga, comunque, è necessario che nessuno si rinchiuda nella propria sfera istituzionale (...)

Questo aspetto riporta al tema della “laicità”(...). Laicità non è solo un modo di riflettere (...); laicità è anche una delle espressioni in cui si esprime la democrazia. Riprendere tra le mani un sano concetto di laicità, comunque, non può che far bene; soprattutto se nella prassi si riesce

occupa nell’agire del legislatore. Ritengo, infatti, che lo Stato democratico non possa prescindere da una concezione etica da porre alla base della sua legislazione e del rapporto tra i cittadini e le istituzioni perché possa farsi garante del suo agire presso il popolo. L’istanza etica, comunque (...) è una conquista della ragione (...). Mi piace riportare Cicerone per mostrare quanto il concetto fosse presente presso gli antichi: «La legge naturale è la diritta ragione, conforme a natura, universale, costante ed eterna, la quale con i suoi ordini invita al dovere, con i suoi divieti distoglie dal male. Essa non comanda né vieta invano agli onesti pur non smuovendo i malvagi. A questa legge non è lecito fare alcuna modifica né sottrarre qualche parte, né è possibile abolirla del tutto; né per mezzo del Senato o del popolo possiamo affrancarci da essa né occorre cercarne il chiosatore o l’interprete. E non vi sarà una legge a Roma, una ad Atene, una ora, una in seguito; ma una sola legge eterna e immutabile governerà tutti i popoli in tutti i tempi, e un solo dio sarà come la guida e il signore di tutti: lui, appunto, che ha concepito, redatto e pro-

Sopra: Benedetto XVI incontra il presidente francese Nicolas Sarkozy in occasione del viaggio apostolico del pontefice in Francia. Nel corso dell’incontro, i due hanno dialogato di laicità positiva. Sotto: A. de Tocqueville

Non mi sfiora neppure lontanamente l’idea che i laici o i non

tuttavia, per il fatto di essere democratico e liberale è tenuto alla salvaguardia della tradizione religiosa maggioritaria del Paese come pure ad essere garante per quella della minoranza. Ritengo che il mondo cattolico abbia consapevolezza della distinzione e della reciproca autonomia e indipendenza tra la comunità politica e quella cristiana, ma è altrettanto chiaro che ambedue sono tenute a collaborare per il raggiungimento del bene comune. (...) Da ultimo, mi sorge spontanea una domanda ingenua: non sarebbe utile non inflazionare il rimando alla laicità e convincersi che viviamo in una democrazia liberale? (...) Certo, una democrazia liberale si distingue per il riconoscimento e la promozione dei diritti individuali, ma non solo. Alla base di ogni società democratica si devono porre, in primo luogo, il diritto alla vita, la libertà di pensiero, di religione, di stampa… tutte espressioni che devono coniugare diritto individuale e convivenza sociale. Una libertà questa non solo teorica, ma concretamente realizzabile e da rispettare. Scriveva De Toqueville: «Lasciate allo spirito umano di seguire le sue tendenze, ed esso regolerà in modo uniforme la società politica e la città divina; cercherà, oserei dire, di armonizzare la terra e il cielo». La cosa mi convince. Conviene rafforzare la ragione: gli uomini di fede non potranno che rallegrarsene.


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il caso

Viaggio nella crisi politica della sinistra vista attraverso i suoi giornali

Compagni,ormai siamo di spalla di Riccardo Paradisi

n lungo rosario di divisioni e incomprensioni: la storia della sinistra italiana alla fine – ma anche dal suo inizio – è questa. E l’editoria della sinistra – la sua attuale, persistente frammentazione, in un momento in cui l’esigenza a rigor di logica sarebbe l’unità – è lo specchio ancora oggi di questa impossibile convivenza. Ma perché la sinistra intellettuale e politica non riesce a trovare un minimo comune denominatore su cui costruire un’embrione di unità? Perché non c’è un grande giornale, per esempio, che trasformi l’arcipelago della sinistra in un territorio più compatto? Una domanda che fatta oggi sembra forse una provocazione anche di fronte all’ennesimo motivo di frizione interna generato dal dubbio amletico se aderire o no alle manifestazioni dipietriste contro le leggi ad personam del prossimo ottobre. Del resto è dallo scorso luglio – dalla vigilia della prima manifestazione di Piazza Navona – che il conflitto interiore alla ex sinistra arcobaleno prosegue nei tempi e nei modi dello psicodramma.

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Un tormento tutto riassunto nello slogan con cui Rifondazione chiamò il suo popolo a quella manifestazione: ”partecipare ma non aderire”. Un orizzonte, già problematico, dentro cui si formano subito ulteriori divisioni: Nichi Vendola, Franco Giordano e l’ex maggioranza bertinottiana che facevano sapere che in piazza loro non si sarebbero fatti vedere con il giustizialista Di Pietro, mentre Maurizio Acerbo, Claudio Grassi e Paolo Ferrero annunciavano la loro presenza. Stessa divisione nel Pdci, con Oliviero Diliberto in piazza e Katia Belillo che si dissocia. Stessa musica nei Verdi: da una parte Marco Boato e Paolo Cento che disertano l’iniziativa – «una ventata giustizialista e girotondina» – dall’altra l’ex capogruppo del partito alla Camera Angelo Bonelli invece che aderisce. Divisioni ancora tutte sul tappeto se è vero che dopo la smentita del segretario di Rifondazione Paolo Ferrero sulla presenza in piazza del partito il prossimo 11 settembre è in corso un difficile tentativo di mettere insieme una manifestazione unitaria della sini-

Tenerli in vita è una battaglia di tutti arà anche un luogo comune però un Paese in cui diminuisce il numero dei giornali e l’editoria è concentrata nelle mani di pochi grandi gruppi è un Paese più povero di idee e di pluralismo. E siccome è molto alto il rischio che questo impoverimento possa determinarsi se l’entità dei tagli all’editoria venisse confermata vale la pena ribadirlo questo luogo comune. Come vale la pena ricordare che quella per il pluralismo non è una battaglia di destra o di sinistra, ma di tutti. Non è una vittoria della destra se un giornale di sinistra è in difficoltà come non è un successo della sinistra se a navigare in cattive acque è un giornale di destra. Quando i giornali rischiano la vita è una sconfitta per tutti coloro i quali, sia a destra che a sinistra, ritengono un bene comune il valore della libertà e della democrazia. Che non sono beni generati dalla concorrenza perfetta ma dal mantenimento e dal rispetto di un contrat-

S

to sociale dove tutte le voci hanno diritto di tribuna in proporzione alla loro rappresentanza. E se questo discorso non deve diventare il paravento di operazioni editoriali spregiudicate anche la retorica virtuosista del taglio degli sprechi e della nuova austerity non può diventare la foglia di fico per ridurre la quantità e la qualità di democrazia in un Paese. I giornali d’opinione e quelli politici hanno svolto una funzione importante in questo Paese: hanno formato intere generazioni di giornalisti e coltivato un pubblico di lettori abituandolo al dibattito, al confronto, all’approfondimento. La letteratura nera che ha preso a circondarli, al netto diqualche critica sensata, è appunto letteratura volgare come il discorso antipolitico di un qualunquismo sempre più diffuso e alimentato ad arte. I giornali costano, è vero. Ma un Paese che ne riducesse la presenza è destinato a pagare un prezzo incomparabilmente più alto.

stra, parallela a quella di Di Pietro. Questo per dire che la convivenza politica e culturale a sinistra, come dire, non è facile. Figurarsi pensare a un grande quotidiano di informazione della sinistra. Piero Sansonetti, direttore del quotidiano di Rifondazione comunista Liberazione fa l’analisi logica delle difficoltà che si frappongono a questo obiettivo: «Ci sono motivi economici innanzi tutto: per unificare i tre giornali della sinistra Unità, Manifesto, Liberazione. Ognuno di questi quotidiani dovrebbe rinunciare alla sua quota di contributo pubblico e sarebbe doloroso, soprattutto in questi tempi. Poi – continua Sansonetti – c’è un dato che non va trascurato, che mentre in politica l’unità quasi sempre fa la forza nel caso dei giornali le unificazioni limitano il pluralismo, impoveriscono le differenze. Nel caso specifico poi è un po’ difficile mettere insieme l’Unità legata a una cultura legalitaria, Liberazione più garantista, il manifesto molto legato alla tradizione comunista. Ci sarebbero resistenze, difficoltà di sintesi». Insomma non è su questa via che si trova l’unità. «A meno che – continua il direttore di Liberazione – non si crei un nuovo grande giornale di informazione della sinistra. Giornale per cui in Italia ci sarebbe un grande spazio». E Repubblica?

Non c’è già il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari a occupare e presidiare lo spazio politico e culturale dentro cui l’opinione pubblica di sinistra in Italia si forma e si informa? «Ma Repubblica – replica Sansonetti – non è più un giornale di sinistra dalla seconda metà degli anni Ottanta, da quando è diventato un grande giornale moderato, di centro». Eppure è lo stesso giornale che ha svuotato velocemente il bacino da cui pescava l’Unità del milione di copie la domenica. «Si, ma per il motivo molto semplice – specifica Sansonetti – che ormai da un paio di decenni in Italia non esiste più un opinione pubblica di sinistra. E non esiste perché non c’è stato chi l’abbia coltivata, aggiornata, sostenuta. Occorre tornare a lavorarci su e per farlo serve un giornale. E serve un giornale nuovo, non la fusione dei tre giornali che ci sono già. Un nuovo giornale per una nuo-


il caso

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Le principali testate dell’editoria di sinistra che non riesce a trovare una piattaforma su cui costruire un grande quotidiano che unisca le diverse anime dell’area progressita. Che oggi si rivolge a Repubblica

Nelle foto sotto a sinistra Velentino Parlato fondatore del quotidiano comunista il manifesto a destra l’ex direttore dell’Unità Furio Colombo. Oggi esponente del Pd

va sinistra capace di vivere e interpretare il suo tempo e che sia perciò molto radicale e al tempo stesso molto liberale». Un nuovo giornale per una nuova sinistra: ma come? Furio Colombo che è stato direttore dell’Unità condivide l’esigenza di riunire insieme punti di vista di sinistra democratica in un giornale capace di farsi sentire la propria voce oltre il giardino di casa: «Oggi – dice Colombo – non c’è un grande quotidiano che agiti il tema fondamentale della difesa del lavoro per esempio, anzi tutti i grandi giornali, compresi quelli di sinistra, si precipitano a fare

l’apologia del mercato. Certo l’Unità, il manifesto fanno il loro lavoro ma sono voci flebili purtroppo». L’unione delle forze dunque servirebbe, solo che « a impedirla ci sono le storie personali di gruppi e persone. Dentro il Pd le distinzioni tra componenti sono puntigliosissime, la tensione all’Interno di Liberazione è anche un riflesso di quella tra Ferrero e Vendola, il manifesto ha una coscienza di gruppo molto radicata. Difficile pensare a fondere queste storie in un’unica storia». E allora? Come potrebbe nascere un nuovo giornale di sinistra? Ecco la soluzio-

La sinistra italiana e europea è in crisi e divisa. Parlare di unità ha poco senso quando la frantumazione è soprattutto politica

ne, l’unica possibile, immaginata da Furio Colombo: «Dall’iniziativa di un editore indipendente il quale, per pure ragioni di mercato, decidesse di investire nella creazione di un giornale che avrebbe sicuramente un suo spazio. Non dovrebbe essere

un’operazione che nasce all’interno di un partito».

Ma questo spazio di mercato editoriale a sinistra esiste davvero? Alessandro Dalai, l’editore che pure ha tentato a fare dell’Unità il quotidiano della sinistra italiana, non sembra così convinto: «La mia impressione è che Il pubblico della sinistra sia ampiamente soddisfatto di un giornale come Repubblica, ma ammesso che non fosse così e che questo spazio esistesse davvero bisognerebbe fare i conti col settarismo storico dentro la sinistra. E col legittimo orgoglio di appartenenza: quelli del manifesto per esempio sentono di essere un club esclusivo. Non credo abbiano nessuna voglia di pensare a un nuovo giornale della sinistra». E in effetti l’analisi di Valentino Parlato, uno dei padri fondatori del manifesto, è anche un’orgogliosa rivendicazione di autonomia e splendida eccezione: «La sinistra è in crisi. Non solo in Italia. E parlare di unità ha poco senso quando la frantumazione è politica. In questo paesaggio con rovine però il manifesto resiste da trentasette anni, forse proprio perché è un soggetto autonomo, senza un partito alle

spalle, con una maggiore autonomia. Un vantaggio che comporta il prezzo di tornare a chiedere sempre di nuovo sacrifici e sostegno ai propri lettori». Un tentativo però, seppure in embrione, di creare un giornale unitario della sinistra plurale c’è stato: nel 2001, con la risorta Unità diretta da Antonio Padellaro. A raccontare quell’esperienza a liberal è lo stesso Padellaro, e la sua ricostruzione ha anche una morale finale. «Con quell’esperienza noi abbiamo cercato di rappresentare tutte le voci dell’opposizione di sinistra. L’Unità era la tribuna di Federico Orlando e di Marco Travaglio – firme a rigore non proprio di sinistra – di Fau-

sto Bertinotti e Nicola Tranfaglia: insomma era un giornale in cui era rappresentato tutto il ventaglio dell’opposizione al berlusconismo e al centrodestra. Un esperimento riuscito – racconta Padellaro – fino a quando la sinistra è andata al governo. In quel momento le contraddizioni sono esplose tutte: non ha funzionato il passaggio dall’opposizione alla proposta». Insomma – ecco la morale di Padellaro – la sinistra plurale è destinata a rimanere divisa: «Se tu metti insieme per un the

Un nuovo giornale potrebbe nascere grazie a un’editore interessato a quello spazio di mercato

Piero Sansonetti, Gabriele Polo, Concita De Gregorio e Furio Colombo, loro, che sono persone squisite prenderebbero amabilmente il the insieme, ma poi comincerebbero a litigare di brutto. Se ne deve prendere atto. La realtà è che ognuno deve filare la sua tela».


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arte Fino al 1 febbraio, a Roma, la mostra ”Fantasmi da scacciare”, dedicata al graffitista più irriverente degli anni Ottanta: Jean-Michel Basquiat. In mostra, più di 40 opere provenienti da Germania, Belgio, Francia, Italia, Austria, Svizzera e Stati Uniti, incluse quelle “pop” realizzate con l’amico Andy Warhol

In mostra a Roma i ”Fantasmi da scacciare” di Jean-Michel Basquiat, il graffitista più irreverente degli anni ’80 e pupillo di Andy Warhol

Il randagio che dormiva sui dipinti di Stefano Bianchi on voleva essere un artista nero, ma un artista famoso. «Non so come descrivere la mia pittura», diceva, «perché non è mai la stessa cosa. È come chiedere a Miles Davis: ‘Com’è il suono della tua tromba?’». A Jean-Michel Basquiat, nato a Brooklyn il 22 dicembre 1960 e morto per overdose d’eroina il 12 agosto 1988 nel loft al 57 di Great Jones Street che Andy Warhol gli aveva affittato per quattromila dollari al mese, la Fondazione Memmo di Roma dedica da domani fino all’1 febbraio la mostra Fantasmi da scacciare.

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dro via l’altro, senza sosta, in cambio della gloria eterna. E lui, l’ex Samo (contrazione di Same Old Shit, «la solita vecchia merda») che aveva inondato di scritte i muri dell’East Village, si firma Basquiat dopo avere annunciato con l’ultima tag che Samo is dead. S’ingi-

Martin Luther King, Hank Aaron e Jesse Owens: il top, fra quelli che chiamava Famous Negro Athletes.

Eroi che lui scarnifica “chirurgicamente”, riducendone le facce a teschi ghignanti per poi circondarli di numeri telefonici, slogan, marchi pubblicitari, epitaffi, parole barrate. Fra primitivismo afro e Art Brut, citando più o meno consciamente Jean Dubuffet e Willem De Kooning; cullandosi, soprattutto, nella predilezione per la pittura “sca-

dalla madre il volume Gray’s Anatomy, adottato dagli studenti di medicina. Quel libro ha il potere di cambiargli la vita. Dando forma, spiega il curatore della mostra Olivier Berggruen, «a una visione della personalità umana come qualcosa di fratturato e frammentato. Questa frammentazione, fa anche riferimento all’alienazione vissuta da un nero nella società razzista che più tardi lo avrebbe accolto con la stessa rapidità con cui lo avrebbe respinto qualche anno dopo, quando la dipendenza

Il ricordo di Madonna: «Aveva le tasche dei completi Armani macchiate di vernice e piene di dollari stropicciati.Avere soldi lo faceva sentire in colpa»

P r i ma d i d iv e n t a r e graffitista, Jean-Michel Basquiat era un randagio. Un homeless che rovistava nei bidoni della spazzatura e s’infilava nel letto di mille ragazze diverse pur di garantirsi un tetto dove dormire. Francamente, se ne infischiava della vita borghese che la madre portoricana e il padre haitiano gli avrebbero messo a disposizione. Basquiat, i suoi dipinti, li “viveva”: dormendoci sopra, camminandoci sopra, mangiandoci sopra. Nel 1982 della prima personale, Annina Nosei lo fa lavorare nello scantinato della sua galleria d’arte newyorkese. Un qua-

nocchia, sopra quelle tele oversize. E le riempie, quasi in trance, di spasmi colorati. Pennellate fulminee come assoli be-bop. È il jazz, infatti, sputato fuori dal suo ghetto-blaster, che lo fa star bene. Charlie Parker: morto da tossico come lui. E Miles Davis, Dizzy Gillespie, Max Roach, Billie Holliday. Sfilze di neri d’America. Miti della cultura black come Malcom X,

rabocchiata” di Cy Twombly, l’arte dannata di Jean-Michel Basquiat concentra in Fantasmi da scacciare più di 40 opere provenienti da Germania, Belgio, Francia, Italia, Austria, Svizzera e Stati Uniti, incluse quelle “pop” realizzate con Andy Warhol e le “transavanguardistiche” dipinte con Francesco Clemente. Scacciare i fantasmi. Un’ossessione. Uno slogan che spesso ha voluto imprimere sulle tele. Fantasmi che sono immagini di corpi scheletrici.Visioni anatomiche, maturate nel 1968 quando un’auto lo investe mentre gioca a pallone. Gli asportano la milza, e durante la convalescenza riceve in dono

dalla droga lo fece diventare ‘persona non grata’ tra la maggioranza dei galleristi e collezionisti». Un fantasma da esorcizzare ad ogni costo, dunque. Dopo averlo spremuto fino all’ultima goccia e trasformato nella Big Thing della Big Apple. Dopo averlo infilato in quel look modaiolo che lo faceva sentire un alieno, quando peregrinava nella notte fra le celebrities che si incontravano al Mudd Club per ascoltare la New Wave radicale dei Lounge Lizards e dei Tuxedomoon. Madonna, una fra le tante relazioni-lampo, nel ’96 lo ricordò così: «Aveva le tasche dei suoi completi Armani macchiate di vernice e piene di dol-

lari stropicciati. Possedere soldi lo faceva sentire in colpa». Basquiat, all’inizio della carriera, visualizza il suo “corpo” come quello di uno zombie che riemerge dal mondo dei morti. Oppure, si ritrae come una figura nera, spettrale. Una sagoma che contrasta con la dolcezza e la vulnerabilità delle 5 foto che gli scattò Michael Halsband e che vengono presentate per la prima volta al pubblico nelle sale di Palazzo Ruspoli. Poi, ritraendo jazzisti e campioni dello sport, il corpo si trasforma in spirito scenico, recitante, graffito. Protagonista, spesso, di una pittura che sprofonda in un caotico “paesaggio” della giovinezza fatto di automobili, aerei, grattacieli, poliziotti, fumetti. Per dare vita, mettendo in fuga i fantasmi, alla fugacità dell’esistenza e al tempo stesso, con l’istintualità del gesto pittorico, alla sua riaffermazione.

Nell’83, senza rendersene conto, Basquiat è un artista di 23 anni all’apice della fama, addentato da galleristi-squali. Jean-Michel dalle uova d’oro. Che poco prima di andarsene, sibila: «È qui che voglio morire. Voglio che tutti questi palazzi mi crollino addosso in questo punto esatto. Amico, io odio New York. Ti leva l’energia». Jean-Michel Basquiat. Fantasmi da scacciare, Roma, Fondazione Memmo, dal 2 ottobre all’1 febbraio 2009


società

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Per il direttore di Ortofonologia di Roma, occorre «contrastarne l’abuso soprattutto da parte dei giovani»

Psicofarmaci,Italia a rischio colloquio con Federico Bianchi di Castelbianco di Ernesto Capocci ederico Bianchi di Castelbianco è direttore dell’Istituto di Ortofonologia di Roma e insegna Psicologia all’università “La Sapienza” di Roma. È autore di numerose ricerche, pubblicazioni e libri, tra i quali Il Test di Wartegg nell’età evolutiva e I luoghi del mondo infantile, Vivere bene la scuola. liberal continua con lui il dibattito aperto sull’abuso di psicofarmaci nella nostra società. E’ d’accordo con chi sostiene che è necessario combattere l’abuso di assunzione di farmaci? L’abuso coincide con il desiderio di risolvere i problemi con la bacchetta magica moderna, che dovrebbe essere la pillola. E’ enorme la quantità di pillole che vengono prese e vengono ricercate. La loro assunzione smodata deriva dalla ricerca di una soluzione per il malessere che viviamo. Quali sono le cause? Le statistiche sull’aumento dei casi di mal di testa, di intolleranza alimentare, di chi non dorme di notte, danno per conto loro una prova della situazione di malessere che è legata, certo, a grandi disagi, ma non a grandi patologie. I disagi e il malessere hanno creato questo mondo anfetaminico che viviamo. L’industria farmaceutica che ruolo ha? Le responsabilità sono di tutti. In molti casi accettiamo il male minore, che comporta delle conseguenze. L’industria farmaceutica mira a commercializzare i prodotti. Ha la stessa responsabilità che hanno le fabbriche di abbigliamento che vogliono vendere i loro materiali. E’ aumentato in questi anni l’uso dei farmaci nei confronti dei bambini? Trent’anni fa, quando un bambino stava poco bene, gli si dava la tisana, lo si copriva, lo si coccolava. Oggi, tutto questo non esiste più. Si cerca immediatamente una soluzione che ‘non ci coinvolga troppo’. Una prova? Ci sono statistiche che dicono che quando ci sono le partite di calcio, si riducono del 90% le visite al pronto soccorso. Questo significa che viene cercata una soluzione ai propri problemi personali più che a problemi reali del bambino. E gli psicofarmaci? In Italia, c’è ancora una resistenza culturale allo psicofarmaco, sia da

F

parte degli esperti sia da parte della gente comune, a partire dai genitori, che hanno molta resistenza, salvo in casi conclamati. Sono percepiti come qualcosa di negativo. Circola, però, una proposta molto forte, che riguarda il Ritalin ed è un bel problema; così come abbassare l’età per il Prozac è un altro proble-

Trent’anni fa, quando un bambino stava poco bene, gli si dava la tisana, lo si copriva, lo si coccolava. Oggi, tutto questo non esiste più. E la pasticca diviene una soluzione immediata

ma. Il problema dello psicofarmaco è legato al suo abuso. Esiste la sindrome di iperattività? Non so se esista. C’è il quadro descrittivo di una sindrome, ma non una modalità diagnosticata accrediata e certa per fare una diagnosi. Ci può essere sintomatologia diversa, che si sostiene essere Adhd. La sintomatolo-

gia appartiene a tante patologie diverse: 200 patologie con manifestazioni che mimano l’ahdh. Non esiste una modalità diagnostica accreditata. Sembra che in America l’Adhd sia dilagante tra i bambini. Perché? Le rispondo con un’altra domanda: come mai il Prozac si è così diffuso in America? La mentalità e la cultura americana tende ad utilizzare il farmaco per qualsiasi cosa. Prenda come esempio uno studio della Food and Drug Administration (Fda) di qualche anno fa. Furono dati antidepressivi a duemila bambini; ad altri duemila bambini fu data una pillola senza sostanza. Nel tempo, su questi ultimi bambini si è visto che circa 33-35 hanno tentato il suicidio.Tra i primi duemila, furono in 70 a tentare il suicidio. C’è stato un effetto, quindi, paradosso. Questo dimostra che la pasticca è la soluzione immediata esterna. C’è un rischio reale per l’Italia che l’abuso dei farmaci diventi ancora più massivo? Il rischio esiste e siamo obbligati a cercare soluzioni più rapide, a fare campagne di sensibilizzazione. Bisogna puntare più sui giovani che su gli adulti. Il malessere dei bambini è cresciuto in modo esponenziale in questi anni. Sono aumentati i casi di bambini che vomitano, che non vogliono andare a scuola, che stanno male. I bambini stanno sempre più da soli, tanto che si parla di aver delegato il processo educativo alla scuola. D’altra parte, sono sempre più i genitori che lavorano entrambi e questo crea scompensi. I cambiamenti dobbiamo pagarli, in qualche modo, perché non si riesce più a contenerli. Non facciamo più crescere i bambini, abbiamo fretta. Trent’anni fa dicevo alle madri: ‘almeno l’ultimo anno della scuola materna, glielo lasci fare a suo figlio’; adesso dico: ‘me lo tenga almeno un anno con sé, prima di consegnarlo alla scuola’. Pretendiamo anche che il bambino non esterni il disagio, ma lo superi da solo. Negli adolescenti vediamo dei cambiamenti. C’è una parte di loro che va sempre alla ricerca dell’eccesso, su tutto, ma molti cercano dei legami più duraturi, riflettono, si rifugiano nei sentimenti e li coltivano. La speranza è che questi giovani trovino una modalità diversa, sia da quella della mia generazione sia da quella presente, che corrisponde al modello che ci propone la società anfetaminica.


cultura

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Scrittori rimossi. La vastità e la longevità della sua produzione hanno impedito all’autore degli «Indifferenti» di resistere al tempo

Il Moravia cancellato di Filippo Maria Battaglia er più di mezzo secolo, Alberto Moravia ha dominato la scena culturale italiana, le ha impresso un’impronta definita, non smettendo mai di pronunciare anatemi, firmare appelli, scrivere saggi. In un parola, è stato presente, e lo ha fatto con una proverbiale e prolifica puntellatura del quotidiano: articoli, reportage di viaggio e interviste, tante interviste. Il risaputo talento (che gli era innato e che era stato alimentato da una «lettura quasi bulimica» durante la degenza per una tubercolosi ossea) ha fornito alla sua tentazione narcisista la migliore delle carapaci possibili. Così, se si scorrono le annate di quotidiani e periodici tra gli anni Sessanta e Ottanta, il nome dello scrittore riaffiora decine di volte in modo quasi innaturale e improprio. Ma ogni tentazione, come si sa, ha un costo, e il suo costo Moravia l’ha scontato post mortem, pagando un ridimensionamento nel panorama letterario che, nonostante tutto, appare ad oggi comunque davvero ingiustificato.

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dopo aver dichiarato il proprio debito nei confronti di Dostoevskij, con cui si identificava «in maniera tale da ricavarne uno scoraggiamento spaventoso» in quanto aveva già «espresso tutto ciò che volevo esprimere io, mi toglieva la voglia di scrivere», arrivava al dunque e si presentava come «il primo esistenzialista d’Europa». Un giudizio forse veritiero, ma certamente non modesto. Gli indifferenti non è però di certo l’unico libro destinato a restare negli annali letterari.Vanno almeno inseriti altri tre romanzi, Agostino, La disubbidienza e La noia, senza dimenticare una mezza dozzina di racconti che per capacità narrativa e resa stilistica vanno ricordati a buon diritto in una tradizione, quella nostra-

Il suo problema è sempre stato quello di esporsi troppo, di partecipare a tutti i dibattiti culturali del tempo e di intervenire su tutti i grandi temi sociali

Resta però l’interrogativo: come mai sembra quasi naturare che uno scrittore tanto apprezzato in vita, e con simili qualità letterarie, sia oggi così poco considerato? La prima risposta potrebbe essere questa: Moravia è un narratore il cui talento è esploso troppo presto e che, paradossalmente, ha vissuto troppo a lungo. Tra Gli indifferenti e L’uomo che guarda c’è più di mezzo secolo di vita. Una forbice ultradecennale che per qualsiasi romanziere costantemente sulla cresta dell’onda può trasformarsi in uno specchio onanistico e deformante. In tal senso, a fornire inavvertitamente una spia significativa di questo rischio è lo stesso lo scrittore romano. Nel 1978, in un libro di Nello Ajello (Intervista sullo scrittore scomodo, pubblicato da Laterza) Moravia era infatti netto:

na, che con gli spazi brevi si è misurata raramente e perlopiù con scarsi risultati.

Con queste opere - che gli avrebbero largamente meritato il Nobel – Moravia avrebbe potuto vivere tranquillamente di rendita. E invece non lo ha fatto, continuando a scrivere e a rilasciare interviste, anche su temi sui quali non avrebbe potuto e dovuto intervenire. Così, ad esempio, sulla Cina comunista (corre sempre l’anno 1978) lo scrittore si esprimeva in modo piuttosto lapidario: «La mia simpatia per Mao sta nel suo rispetto per la vita umana e nel suo modo di onorare i diritti del cittadino, intesi naturalmente alla maniera cinese». Tanto da

aggiungere che «Mao ha sempre letto e applicato Marx in chiave confuciana. Assunto il potere, ha trasferito la lotta di classe dalla società… all’interno dell’uomo, nella psicologia individuale. L’ha fatta diventare un’aspirazione morale, quasi cristiana». E il discorso si può applicare anche a certe sue opere: la striatura del miglior Moravia si incrina infatti nella scrittura, anche se va subito precisato che persino nei suoi libri peggio riusciti, la tensione narrativa resta comunque altissima. Come nell’Attenzione (1965), romanzo celebrato da parte della critica come «un esempio mirabilmente conciso, scabro ed energico» e considerato «per asciuttezza morale e artistica, forse il più riuscito di tutta l’opera di Moravia», ma che in realtà è il vero simbolo delle pretese moraviane. La psicanalisi, che lo scrittore conosceva bene avendola traghettata mirabilmente nella letteratura italiana, qui schiaccia fragorosamente l’intreccio narrativo e a nulla vale la straordinaria capacità affabulatrice del suo autore. Una tendenza, questa, che si sarebbe acuita negli ultimi anni della sua vita salvando solo il genere del reportage di viaggio (India e Africa su tutti), e a cui inavvertitamente lo stesso scrittore anni dopo avrebbe dato una significativa risposta nel suo Diario europeo: «Presentando, tempo fa, a Milano, una scelta delle mie opere riunite sotto l’ambiziosa denominazione di classico, una domanda di quelle che si fanno in simili occasioni mi ha suggerito di rispondere con un aneddoto. La domanda era: “Che impressione le fa il vedersi ‘monumentalizzato’?” La risposta era stata la seguente: “Durante un mio viaggio in Africa, precisamente nello Zaire, in quella parte in cui si stende lago di Idi Amin Dada sono capitato in un

villaggio di pescatori di uno squallore fantastico, quasi incredibile, come sono spesso le cose dell’Africa: tante capanne tutte eguali, e sul letto di ciascuna, immobile, un marabut,

uccello cerimonioso che fa pensare ad un uomo in redingote nera e gilè bianco. Il lago, bassissimo, appena affiorante dalla sterminata pianura anch’essa piatta a perdita di occhio, pa-


cultura

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Il controcanto di «Aracoeli»

Quel confronto (perduto) con Elsa Morante di Pier Mario Fasanotti avoravano in due stanze diverse. Moravia scriveva La romana, Elsa Morante riprendeva i fili della letteratura ottocentesca e scriveva Menzogna e Sortilegio. Lui, il marito, trasformava la cronaca in letteratura, come farebbe uno sceneggiatore di qualità, oggi che c’è (ancora) bisogno di esplorazione del presente. Afferrava un tema, lo piegava nella gabbia narrativa. Uno dopo l’altro. Con un ritmo e uno stile che potrebbero far pensare a Moravia come a un giornalista di fantasia. Ma, attenzione, di una fantasia che scorre in superficie, imitando il lavoro della talpa, ossia nel profondo, solo qua e là, sorretto dal sesso quale chiave di lettura con forti richiami al Freud della vulgata generale. La Morante, come annotò Cesare Garboli, «bandì la storia». Con coraggio. Lo stesso che fece di lei una donna tormentata, ambigua e alla fine molto sola, ancora più lontana dalla mondanità politicamente vincente in cui s’immergeva il marito, astuto uomo di clan e con le porte dei giornali generosamente aperte.

L

Di se stesso diceva: «Sono stato monumentalizzato come un elefante africano. E invece sono un uomo vivo»

Qui sopra, Alberto Moravia insieme Pier Paolo Pasolini: i due erano legati da un profondo rapporto d’amicizia. In alto, a destra, lo scrittore romano con Elsa Morante ai tempi del loro matrimonio

reva un’immensa pupilla cieca nella quale si rifletteva il cielo velato e senza luce. Un po’ fuori del villaggio, c’era uno di quegli spazi terrosi, e grandissimi informi, che in Africa prendono il nome di piazze, e che per lo più ospitano il mercato. Nel mezzo di questa piazza, ho visto un singolare monumento: un grande monumento, forse più grande del naturale, rozzamente scolpito in una pietra grigia o fuso nel cemento, con le zanne enormi di gesso o dipinte di bianco. Dico la verità, benché in Africa ci si possa aspettare di tutto in fatto di stranezza, questo monumento mi ha meravigliato: i soli monumenti africani sono quelli del colonialismo, figure ridicolmente realistiche di esploratori e militari, oppure quelli “cubo-astratti” e decorativi del neocolonialismo. Ma un animale, un elefante, finora non l’avevo mai visto, se non nei graffiti delle caverne del Sahel. Incuriosito, ho chiesto ad un abitante del villaggio come mai avessero eretto un simile monumento il quale, oltretutto, era dovuto costare molto. Lui si è messo a ridere e ha risposto che quello non era un monumento bensì un vero elefante vivo e vegeto. Quest’elefante, spinto chissà da quale istinto, veniva ogni mattina a piantarsi nel mezzo della piazza e restava lì, immobile come soltanto gli animali selvatici

sanno stare immobili, dieci, dodici ore di seguito, fino a sera. Poi se ne andava a passare la notte nella foresta, per rispuntare immancabilmente la mattina dopo. Il mio informatore ha soggiunto che nessuno si arrischiava ad andargli vicino: dopo tutto era un animale selvatico e poteva diventare cattivo ogni momento». «Ho risposto alla domanda sulla mia “monumentalizzazione” con questo aneddoto – concludeva Moravia – per dire che un classico se è veramente classico, è come quell’elefante del villaggio africano: pare un monumento invece è vivo, e magari anche pericoloso. Ma nel mio caso, forse, era avvenuto il processo inverso a quello che trasformava l’elefante africano in monumento. Quest’ultimo, per gli abitanti del villaggio, non era un monumento ma un animale vivo, io invece non ero più una bestia feroce (se mai lo ero stato) e la mia “monumentalizzazione” in qualche modo era dovuto alla mia molto relativa integrazione».

Un’analisi lucida e forse anche un po’ spietata, ma in fin dei conti, al suo fondo, veritiera. Lo scrittore Moravia ha dunque pagato all’intellettuale Moravia un fio pesantissimo. E forse il suo immeritato e postumo ridimensionamento va ricercato proprio in questa, ostinata, direzione.

Se Moravia dà lustro al romanzo d’appendice, sua moglie (lo fu dal ’41 al ’61) odia la volontaria o l’involontaria furbizia giornalistico-editoriale e offre se stessa in quattro romanzi mescolando una potentissima fantasia alle suggestioni narrative russe e francesi, fatte di scavo e di grandi fotografie sociali. Nella stanza di Moravia scorrevano le diapositive del presente, in quella di Elsa si componeva un’affresco che rifugge dalla miniatura e dalla plastica. La Morante prende le distanze dal modello neorealistico, mettendo a confronto e a contrasto, il mistero fantastico con la dolorosa pietraia della realtà. Con Aracoeli (1982), la scrittrice romana di origini siciliane affida al protagonista Manuele il fallito tentativo di ricostruire l’immagine materna. Donna che scrive con l’inchiostro irrimediabilmente nero: s’è detto di lei. La desolazione del presente ha come controcanto la speranza di una palingenesi affidata ai “ragazzini”. Se Moravia batteva a macchina con la disciplina dell’impiegato, la Morante racchiudeva il senso del Novecento in un romanzo all’antica: «Quel buio regno di incubi e sogni piccolo-borghesi che in Kafka è in bianco e nero, in lei è a colori» scrisse Garboli. Moravia descrive scene di disperazione, la Morante si cala nella disperazione. Mentre lei sarà sola in ospedale, l’ex marito continuerà a portare cravatte scargianti e si attornierà di donnemuse con le quali è più facile reggere il confronto.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO

LA DOMANDA DEL GIORNO

Caso Gruber: che pensate della nuova ”Otto e 1/2”? LA PALADINA DELL’INFORMAZIONE DI SBIECO PROPRIO NON CONVINCE, IMPARASSE DA FERRARA Eccoli qui. Tutti pronti a difendere la penna rossa (di capelli e non solo) d’Italia. Tutti lì pronti a dire e scrivere Gruber Alles (che bella novità di giocare con i titoli poi...). Insomma, eccola qui la classica levata di scudi in difesa di Lilli Gruber. La paladina dell’informazione di sbieco e in pelle nera è proprio in questi giorni al centro del ciclone. E ancora una volta, come ultimamente accade che faccia opinione in Italia, è stato un giornale dell’area cattolica come Avvenire a menar fendenti contro la giornalista, ex mezzobusto, ex inviata di guerra, ex deputato europeo. Perché poi? Perché, pare, troppo disinvolta. Francamente, a me è parso tutto, tranne l’evidente spigliatezza di cui oggi tanto si parla. La verità è che credo abbia ragione Aldo Grasso nella sua sufficientemente brillante analisa fatta sul seguitissimo Corriere.it. E cioè la questione è questa: primo, non sa collegare i diversi temi trattati, e in effetti, proprio come ha detto Grasso, ricorda un po’ il vecchio Sposini prestato al talk show. Secondo: manca della curiosità, e cioè proprio del pepe, di quell’ingrediente che dovrebbe nutrire e alimentare il giornalismo.Terzo (ma qui ci metto del mio): la

LA DOMANDA DI DOMANI

Spike Lee: i partigiani? spesso fuggivano. Cosa ne pensate? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

nostra Lilli nazionale è davvero, davvero antipatica. E da qui (arrivando dunque ad Aldo Grasso) ne scaturisce la palese emozione degli ospiti da lei intervistati. Insomma, è vero: pentiti, Lilli. O perlomeno attenta a quel che dici. Ma non perché glielo chiede l’Avvenire e non per le motivazioni spiegazzate dal quotidiano. Cordialità.

Gaia Miani - Roma

AL DI LÀ DI LILLI, È LA MANCANZA DI GIULIANO A ”OTTO E 1/2” PURTROPPO A FARE LA DIFFERENZA Semplicemente penso che la nuova trasmissione proprio non sia più la stessa senza quella gran mente brillante di Giuliano Ferrara. Non ho nulla contro Lilli Gruber né contro la sua spalla, non appartengo insomma a quella categoria di persone che a suon di preconcetti difende o attacca ciecamente la nostra giornalista. Sento solamente la mancanza di un intellettuale sagace come il direttore del Foglio. Del quale non solo non comprendo la scalta di abbandonare il programma di La7, tra l’altro credo davvero il più seguito tra i talk show d’opinione in Italia. Che dire, aspettando il suo ritorno, farò a meno di Lilli. Che comunque, onestamente, convince assai poco.

Paolo Salvati - Palermo

BASTA CON LE ACCUSE: LILLI GRUBER È BRAVA E PRIMA O POI PIACERÀ AI TELESPETTATORI ITALIANI Ma perché accanirsi così tanto dopo appena una settimana o poco più di messa in onda? Che Otto e 1/2 sarebbe stato diverso senza Ferrara ce lo aspettavamo tutti e lo sapevano anche i telespettatori meno assidui. Lilli Gruber ha preso in mano un’eredità pesantissima, sostituire forse il giornalista più acuto e irriverente contemporaneo. Ha accettato la sfida, e l’ha fatto continuando a essere se stessa, senza voler imitare Giuliano Ferrara. Beh, i miei personali complimenti alla Gruber. Certo che poi ci vorrà del tempo prima che si radichi l’era-Lilli su La7, ma questo è normale e sacrosanto in realtà. Insomma: in bocca al lupo a lei e al suo staff. Senz’altro, prima o poi, piacerà.

LA SCIENZA E IL POTERE Nella scorsa primavera alcune fra le più importanti associazioni scientifiche americane hanno cercato di stimolare un “dibattito scientifico” tra i vari candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Come c’era da aspettarsi questo dibattito non è fino ad ora avvenuto; la scienza, infatti, non è mai stato un argomento particolarmente privilegiato durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali americane. Il fatto abbastanza sorprendente è però che quelle stesse associazioni non si lamentano della irrilevanza che la scienza assume in una competizione elettorale così importante, ancor di più considerando che molti dei temi della campagna elettorale denotano una precisa connotazione scientifica: cambiamenti climatici, finanziamenti alle agenzie di ricerca nazionali, cellule staminali ecc.. Riflettendo un attimo su questo tema ci si può rendere conto che questo “conflitto” tra scienza e politica non rappresenta una novità nel mondo occidentale. Anzi, in un certo senso, costi-

SATIRA A SUON DI MUSICA Trucco verde, volto espressivo e abiti vistosi: sono i tre ingredienti principali per realizzare un buon Ottamthullal, una delle danze più suggestive dello stato indiano del Kerala. Più che di una semplice danza, in realtà, si tratta di una specie di one man show

SIAMO TUTTI EX PCI E FIGLI DI PUTIN! Leggo che Veltroni avrebbe detto: «Con Berlusconi democrazia svuotata come la Russia di Putin». La solita musica! Tra qualche mese, forse tra qualche settimana, si sentirà anche dire in giro che il PdL è una costola del Pci! E quello che sarà più grave è che quotidiani e Tv riporteranno la notizia e tutti saranno preoccupati e le piazze si riempiranno di intellighentiae in protesta e bandiere della pace sventoleranno tra facce «arrabbiate» ed in Parlamento si siederanno le sinistre con il lutto al braccio e nessuno si ricorderà invece che Napolitano è un ex Pci, ex comunista come Putin, Masismo D’Alema, Walter Veltroni e compagni. Sono figli del Pci, anch’essi ex comunisti come Putin! Una cosa

dai circoli liberal Amelia Giuliani - Potenza

tuisce un elemento caratteristico del pensiero occidentale. Già Platone analizza e prende posizione riguardo la possibilità e l’opportunità di agire e assumere decisioni sulla base di dimostrazioni scientifiche o di opinabili interpretazioni soggettive: “…Se un retore e un medico arrivassero in una città qualsiasi, e se si trovassero a dover competere a parole nell’assemblea o in un’altra pubblica adunanza su quale dei due vada scelto come medico, il medico non avrebbe alcuna possibilità di uscirne vincitore, ma la scelta cadrebbe su quello capace di parlare, ammesso che costui lo volesse. E se si trovasse a competere con qualsiasi altro specialista, il retore saprebbe persuadere a scegliere sé piuttosto che chiunque altro. Non c’è infatti argomento di cui il retore, di fronte alla folla, non sappia parlare in modo più persuasivo di qualsiasi altro specialista.” (Gorgia 456 b-c). Inutile dire che Platone si manifesta critico riguardo tale predominio dell’”arte del dire” rispetto alla scienza. D’altro canto, come già nel Seicento dichiarava Bacone, “la

è certa: ci vuole proprio «una faccia» che più faccia non si può! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

Valeria Monteforte

ASSENTEISMO Un piccolo malessere (ad esempio, una linea di febbre) induce l’autonomo a presenziare regolarmente al lavoro, perché premuroso e interessato al buon andamento della sua attività, mentre può invogliare il dipendente pubblico (anche preparato e corretto) ad assentarsi. Infatti, nello statalismo economico manca l’adeguata incentivazione (premio al merito e sanzione al demerito); rischiano di prevalere il menefreghismo e la noncuranza: la gestione pubblica «è di tutti e di nessuno» (Aristotele).

Lettera firmata

scienza è potere”, e i condizionamenti tecnici ed economici che limitano l’esercizio di questo potere obbligano la scienza a cercarsi un alleato nella politica intesa nel senso più nobile della parola; questa infatti può indirizzare i flussi di finanziamento ed assegnare gli obiettivi verso i quali i risultati della ricerca devono trovare applicazione. Ecco quindi che quella che dovrebbe essere una disinteressata alleanza tra scienza e politica comincia a trovare degli interessi specifici nel momento in cui gli scienziati hanno necessità dei finanziamenti erogati dalla politica per svolgere le loro ricerche dimostrandosi anche disponibili a mettere i risultati della ricerca al servizio della politica. Gli scienziati devono battersi, autonomamente dalla politica, per il progresso e la crescita civile, con la consapevolezza di poter rappresentare anche un sano e doveroso spirito critico nei confronti della classe dirigente. Antonio Cossu COORDINATORE CIRCOLI LIBERAL SARDEGNA


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Caro Bompiani, mi trovo a corto di quattrini Caro Bompiani, sono a Roma; puoi farmi un grosso piacere? Mi trovo a corto di quattrini, perché quanto avevo è rimasto bloccato nel nord, e io non desidero muovermi. Ti sarei grato se tu potessi farmi avere una parte delle mie percentuali per la vendita di Gazzetta nera. Ma, se è possibile, in liquido e non in assegni. Che qui è difficilissimo riscuotere servendoti della prima persona che venga a Roma per tuo incarico. Li potrebbe depositare in viale Liegi 42, dove abito, affidandoli anche a chi lo riceverà, se io non fossi in casa. A Roma, impossibile trovare una copia di libri miei da tempo immemorabile. Eppure qualcosa passa… Ti ringrazio. Sono impaziente di rivederti, di parlare con te e di riprendere il lavoro comune, per il quale ho molti progetti. Un affettuoso saluto. Guido Piovene a Valentino Bompiani

IL CICLISTA PADOVANO FRA PERICOLI E SOBBALZI Un indice – chiaro ed eloquente – della disistima dell’Amministrazione comunale padovana di sinistra centro per il cittadino è costituito dallo stato trascurato di numerose strade cittadine, specie periferiche. Sono estremamente pericolose, anche per il manto d’asfalto: vecchio, usurato, eroso, fessurato, sconnesso - con molti dislivelli -, oppure malamente rattoppato dopo lavori su sottoservizi. Automobilisti, pedoni e soprattutto ciclisti subiscono forti sobbalzi, scossoni, colpi e contraccolpi. Possono cadere, ferirsi ed essere investiti. La segnaletica orizzontale è sovente consumata e poco visibile, perché periodicamente rinfrescata con inammissibili ritardi. E’ quindi penoso e pericoloso percorrere tali strade, specialmente per i ciclisti. Il Sindaco, ex Pci, star televisiva, spende e si occupa d’altri obiettivi, pomposi e non prioritari (fra cui l’auditorium). In particolare, ha concesso un immobile pubblico agevolato per moschea, onde consentire a musulmani credenti di “pregare” (secondo sue affermazioni pubbliche): ma comunisti ed ex comunisti non sono

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

1 ottobre 1800 La Spagna cede la Louisiana alla Francia con il Trattato di San Ildefonso 1811 La prima nave a vapore del Mississippi arriva a New Orleans 1818 Comincia il Congresso di Aquisgrana 1880 Thomas Edison apre la prima fabbrica di lampadine 1887 Il Baluchistn viene conquistato dall’Impero Britannico 1898 Lo Zar Nicola II espelle gli Ebrei dalle principali città russe 1918 Forze arabe guidate da Lawrence d’Arabia conquistano Damasco 1928 L’Unione Sovietica introduce il Piano quinquennale 1943 Seconda guerra mondiale: Napoli viene occupata dai soldati Alleati 1946 I principali esponenti del Nazismo vengono condannati al Processo di Norimberga 1949 Mao Zedong dichiara la costituzione della Repubblica Popolare Cinese 1958 La Nasa viene creata per sostituire la Naca

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

atei? L’utente che si ferisca per effetto del dissesto stradale è privo di difesa. Sostanzialmente disattivato per lungo tempo il Difensore civico comunale, detto utente rinuncia normalmente alla causa giudiziaria contro il Comune, perché la giustizia italiana – malgrado la bravura e il valore di Magistrati – è lenta (e, come tale, ingiusta). Le conseguenze dell’eventuale condanna del Sindaco per danni recati al cittadino da strade sconnesse e pericolose, sono pagate – non dal Sindaco stesso – ma dalla fiscalità generale, ossia da Pantalone (cittadino, svilito a suddito vessato).

Gianfranco Nìbale

PERCHÉ IL LODO ALFANO SAREBBE IRRAGIONEVOLE? Lodo Alfano: il pm dichiara che trattasi di una legge anticostituzionale e pertanto chiede che decida la Consulta. Nulla da eccepire. Nel momento invece in cui leggo anche: «Il pm: lodo Alfano è irragionevole», qui non ci sto e chiedo lumi! Può un pm esprimersi così, rappresentando quel potere al quale la Costituzione demanda solo il compito di esercitare la parte giudiziaria?

L. C. Guerrieri - Teramo

il meglio di NO La Camera ha detto di no al piano di salvataggio di Wall Street (700 miliardi di dollari) varato dall’Amministrazione Bush e modificato dai leader democratici e repubblicani del Congresso. L’accordo è fallito. 133 repubblicani hanno detto no. 94 democratici hanno detto no. McCain non è riuscito a convincere i repubblicani, ma almeno una dozzina di repubblicani ha cambiato idea subito dopo aver sentito il discorso suicida di Nancy Pelosi (che, convinta di avere il voto in mano, ha trasformato la crisi finanziaria in pozzanghera politica). Nei prossimi giorni ci ritentano. La debacle della Pelosi è gigantesca. L’Amministrazione è furiosa. McCain deve inventarsi qualcosa, sennò è finito. Obama è cool come al solito (e le spara grosse, anche se solo un economista serio ha il coraggio di farlo notare).

Camillo

FORTI, GLI AMERICANI

PUNTURE Putin telefona a Berlusconi e gli fa gli auguri per il compleanno. Ma allora è vero che siamo al putismo.

Giancristiano Desiderio

Non sarà la forza, ma la bellezza, quella vera, a salvare il mondo FËDOR DOSTOEVSKIJ

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani,Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Roselina Salemi, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

E così il Congresso ha rigettato il piano di Bush e della Fed per salvare il salvabile nella tremenda crisi finanziaria che ha colpito gli Usa ed il resto del pianeta. Per quanto trovi interessante l’alleanza fra i liberali duri e puri e certo mondo no global, come la sconfitta dell’ipotesi colbertista cara a Giulio Tremonti, la mia attenzione è spostata su altro. Nella storia, ogni centro di potere decadde e fu sostituito a causa di dissesti finanziari. Non è una novità. Roma cadde quando non potè più pagare i propri mercenari posti alla difesa dei confini nordorientali dell’Impero. Venezia cominciò il suo declino quando l’argento proveniente dalle miniere tedesche non fu più sufficiente a pagare le sue navi. Anversa, Londra, stesse storie in differenti epoche. Ora, anche se la transizione è cominciata da

almeno vent’anni, tocca a New York. L’ultimo centro del pianeta è la California. Los Angeles, probabilmente, ne è il cuore pulsante. Nella Silicon Valley vengono disegnati gli oggetti che nel futuro prossimo ci accompagneranno. Le università californiane sfornano fra i migliori professionisti del pianeta. Uno statunitense su otto abita lì, produce reddito lì e vota lì. Si può ipotizzare che, chiunque vinca le elezioni di novembre, il prossimo presidente degli Stati Uniti condurrà una politica estera diversa da quella di George Bush Jr. ma dubito vi sarà alcuna rivoluzione quand’anche fosse Obama ad affermarsi. Prima che la Cina superi in termini economici gli Usa ci vorranno almeno trent’anni. In trent’anni, o cinquanta, può darsi che il centro di potere globale si sposti ancora, lasciando le Americhe per proseguire il suo incessante cammino verso Occidente. Dal Mediterraneo al Mare del Nord, all’Atlantico, al Pacifico. Non vedo oggi un Paese che si qualifichi come candidato: il motore primo di questo movimento progressivo è stata la ricerca della libertà individuale e dell’autonomia economica delle singole persone, spesso contro i poteri delle chiese e della politica. Il Giappone è stato incapace di risolvere la sua crisi economica, per quanto sia in ripresa, così come non è evoluto in senso liberale e individualista. La Cina, non vale la pena parlarne. Singapore, per cortesia. L’India, forse, forte della sua tradizione di tolleranza – benché attraversata da conflitti religiosi e paurose disparità di classe. Ma non è questo il tempo per discuterne. Lasciatemi assistere alla decadenza dell’ultimo grande impero dell’Uomo. Perché, mala tempora currunt, non è detto che venga sostituito.

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PAGINAVENTIQUATTRO Da MySpace a Facebook. Seduzioni, rischi e pericoli delle cliccatissime ”comunity online”

Benvenuti nell’era (a-sociale) del social di Tommaso Della Longa nche per James Bond i tempi cambiano. Se la spia più famosa del mondo volesse arruolarsi, oggi, agli ordini di Sua Maestà, forse non capirebbe più come fare. Nel terzo millennio basta infatti un click per mettersi in contatto con l’MI6, il servizio segreto britannico. Un click però non solo sul sito ufficiale: i nuovi 007 ora vengono ricercati tramite annunci su Facebook, il social network più famoso e diffuso al mondo. Dopo aver battuto Myspace e aver travolto i siti a luci rosse, Facebook è diventato un vero e proprio fenomeno di costume e comunicazione. C’è chi ci lavora. Chi conosce gente. Chi organizza feste. Chi fa politica. E perché no, d’ora in poi ci saranno anche baby spie reclutate. Uno strumento che attira e seduce. Ma anche un sistema alienante e pericoloso.

A

Oggi chi non entra nel social network è considerato «persona non inserita nella società». Politici, sportivi, professionisti, studenti, impiegati. Tutti, appena possibile, sbirciano il proprio account virtuale, aggiungono notizie sui propri interessi, raccontano la propria occupazione, pubblicano foto. E soprattutto, gli utenti di Facebook passano il proprio tempo a scavare nel passato altrui, a vedere chi sono gli amici del tizio o caio di turno, a scoprire cosa faccia nel tempo libero il proprio capo o l’amica che sempre si è voluta conoscere. In due parole: Voyeurismo e pettegolezzo. Entrare nel mondo della rete sociale e soprattutto virtuale è molto semplice. Dopo aver aperto sul proprio pc la pagina web di Facebook (www.facebook.com), basta aggiungere pochi dati personali ed ecco che l’account è pronto. Da quel momento si entra nel mondo che non c’è, dove tutto diventa più fluido e spersonalizzato. Ma soprattutto più semplice. Digitando un nome e un cognome si può scoprire se la persone è iscritta e a quel punto si può chiederne l’amicizia. Già: un click e si diventa amici. Una volta fatta questa prima operazione, si può aprire una catena per cui è facile consultare la lista degli amici di altri contatti e, eventualmente, aggiungerli ai propri. E così via. Il tutto condito di giochi, chat, appuntamenti, gruppi. Così si può diventare amici del proprio politico di riferimento, inventarsi un gruppo per organizzare una festa a tema o una manifestazione. I vecchi vo-

NETWORK lantini, come le telefonate o gli incontri a tu per tu guadagnati col sudore di un tempo, diventano così un fastidio del passato. Fin qui sembra quasi un mondo fantastico, la personificazione dell’isola che non c’è dove ogni distinzione viene abbattuta. Ma il rovescio della medaglia è dietro l’angolo. I nostri Padri ci hanno insegnato un detto: Verba volant, scripta manent. E proprio la saggezza di un tempo ci spiega i risvolti oscuri della rete sociale online. Ogni parola, ogni informazione persona-

bisogna far parte di una comunità virtuale. Ma è proprio la parola comunità a far pensare a qualcosa di più profondo e mportante, come l’unità di intenti e di spiriti. Oggi non servono più. Basta un click per sentirsi parte di qualcosa. Un qualcosa che però non è materiale, non è tangibile, non suscita emozioni, non genera passioni. Non nel senso tradizionale e profondo di un tempo. Nel Belpaese della «dolce vita» i bellocci italici, che facevano perdere la testa alle bionde americane, erano diventati un simbolo, come la Vespa o la grande musica melodica italiana. Oggi basterebbe fare uno spot e «uplodarlo» in una community di amici virtuali. Nessuno spazio per gli occhi che si guardano o le parole che si rincorrono. Solo tasti digitati in un balletto dal sapore decadente. E l’idea che le giovani generazioni facciano comunità tramite uno schermo getta sconforto. Soprattutto, fa riflettere su quanto il mondo abbia distorto e svuotato la bellezza e la profondità dei rapporti umani. Il corteggiamento, come la costruzione di un’amicizia fondata sulla lealtà, la disponibilità, la fedeltà diventano così meri fenomeni da museo in un mondo che sempre più prende la dimensione del tanto globalizzato, tanto bello. O peggio, tanto più semplice, tanto meglio.

C’è chi ci lavora, chi conosce gente, chi fa politica, chi gioca, chi organizza feste o semplicemente s’impiccia nelle altrui vite. E c’è anche chi, come il servizio segreto britannico MI6, spera di reclutare le future baby spie le, ogni foto immessa su internet viene tracciata e lascia un segno indelebile. Ancor di più nei server che contengono i dati di Facebook.

Secondo alcune ricerche statunitensi, è sempre maggiore il numero dei «cacciatori di cervelli» delle grandi università che vanno a controllare i profili di Facebook dei possibili candidati di Yale o Princeton. E come se non bastasse, le grandi marche internazionali usano i dati sensibili immessi lì per ricerche di mercato e per la pubblicità di nuovi prodotti. Chissà se i milioni di nuovi utenti del social network abbiano mai pensato a questi risvolti. Ma non è finita qui.Va molto di moda la parola community proprio dall’avvento di Facebook e Myspace. L’idea è che per esser trendy

Un «visionario» come Aldous Huxley, nei primi decenni del ‘900, aveva ben descritto nel suo Mondo nuovo, un futuro fatto di pianificazione, grigiore, dove tutto può esser sacrificato in nome del progresso. Anche i sentimenti, gli amori, i dolori. Il tutto sacrificato sull’altare sporco del benessere fisico fine a se stesso, fatto di una vita senza emozioni e senza libero arbitrio. Forse ancora non siamo arrivati a tanto. Ma i rapporti nella rete virtuale ricordano tanto quello Stato dove tutto veniva controllato, regolato e anche anestetizzato dalla soma, droga di stato immaginata dall’Huxley che faceva dimenticare bellezze e spaventi del mondo reale.


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