QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Forte intervento di Ratzinger sulle leggi per l’immigrazione
La politica saprà ascoltare il Papa dell’accoglienza?
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di Ferdinando Adornato
di Renzo Foa apa Benedetto XVI è tornato a parlare di immigrazione. Lo ha fatto con un messaggio scritto in occasione della 95ma Giornata mondiale del migrante e del rifugiato e ha sottolineato con una particolare enfasi la visione che ha del problema la Chiesa romana. Si è trattato di un vero e proprio appello, introdotto da una suggestiva citazione del Vangelo – «Io vi accoglierò e sarò per voi come un padre e voi mi sarete come figli e figlie» – e seguito da una domanda: «Se di questo siamo consapevoli come non farci carico di quanti, in particolare rifugiati e profughi, si trovano in condizioni difficili e disagiate?».
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C’È UN ARGINE AL CRACK? Le Borse di tutto il mondo continuano a precipitare. Fed e Bce tagliano i tassi, ma l’Europa dimentica di essere un’Unione. Lo spettro della Grande recessione si fa realtà. E pensare che qualche settimana fa tutti dicevano “Non c’è niente da temere...”
Caduta libera
I governi europei, divisi, annaspano. La politica sembra impotente di fronte alla crisi alle pagine 2, 3, 4 e 5 Verso l’età delle reti energetiche?
La Cina: «Niente premi ai dissidenti»
La terza rivoluzione industriale
Guerra del Nobel: Pechino contro Oslo
di Jeremy Rifkin
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Roselina Salemi
Le grandi trasformazioni coinvolgono energia e comunicazione. Nel ’700, carbone e vapore portarono all’alfabetizzazione. Il ’900 è il secolo di motore a scoppio e telegrafo. E adesso?
Secondo il ministero degli Esteri cinese, il Premio Nobel per la pace «dovrebbe andare a chi ha lavorato per salvaguardare la pace mondiale. Oslo non deve offendere, ancora, i nostri sentimenti».
Dalla Democrazia cristiana fino a Di Pietro, passando per la Rete: chi è l’uomo su cui Silvio Berlusconi ha posto un veto assoluto per la presidenza della Commissione di Vigilanza sulla Rai.
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GIOVEDÌ 9 OTTOBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
Prende quota l’ipotesi di una “rosa” di nomi per la Vigilanza
Lo strano caso di Leoluca “Zelig“ Orlando
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NUMERO
193 •
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La crisi del regime di Pyongyang apre a due scenari opposti
Corea del Nord: incubo nucleare o riunificazione con il Sud di John Bolton e Nicholas Eberstadt uando i negoziatori Usa sono corsi a salvare i colloqui a sei sul programma nucleare nord-coreano, hanno dovuto affrontare un nuovo, grosso problema: chi sarebbe stato incaricato di parlare a Pyongyang con i diplomatici americani? L’assenza di Kim Jong-il alle celebrazioni del 60° anniversario del Paese ha scatenato un torrente di speculazioni sul suo stato di salute in tutto il mondo. Sia a Washington che a Pyongyang i commenti e le discussioni vertevano sul fatto che la crisi del regime è l’ultima cosa da augurarci, ma la stabilità di un Paese criminale, crudele, dittatoriale e dotato di armi nucleari è davvero qualcosa che dovremmo apprezzare al di là di tutte le alternative possibili?
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Il governo presenta il suo piano d’emergenza: maggiori garanzie per i depositi e liquidità per gli istituti
Ma l’Italia è l’anello più debole di Francesco Pacifico
ROMA. Da un lato il taglio di 50 punti base al costo del denaro effettuato contemporaneamente dalle banche centrali. Dall’altro i piani dei governi per affrontare – o meglio, lenire – la crisi del credito. Compreso quello, sotto forma di decreto legge, approvato ieri sera da Giulio Tremonti in un Consiglio dei ministri straordinario. A 24 ore dall’Ecofin, le vigilanze mondiali e i Paesi europei mettono in pratica le disposizioni – blande, in verità – discusse in questi giorni. Nulla a che vedere con il maxipiano Usa da 700 miliardi di dollari, ma un taglio comune e coordinato dalle banche centrali e singoli piani di salvataggio dagli Stati membri. Anche l’Italia si è inserita in questo filone. Ieri mattina Giulio Tremonti, dopo aver discusso dell’impianto e della copertura con il premier Berlusconi e il Ragioniere generale dello Stato, Mario Canzio, ha annunciato un piano straordinario per evitare danni ai risparmiatori, ai bilanci delle banche e alle aziende che temono una stretta del credito.
ranzia sui depositi bancari, estendendo l’azione di risarcimento ad altri prodotti finanziari in circolazione. Ma soltanto in parte ai bond. Così si dovrebbe garantire liquidità al sistema, permettendo agli istituti
rettamente con un veicolo finanziario, forse un fondo di private equity, nel capitale delle banche. Le misure, Tremonti le ha anticipate ieri mattina, in un vertice al Tesoro con il direttore generale di Bankitalia Fa-
brizio Saccomanni, i leader di Confindustria (Emma Marcegaglia) e Abi (Corrado Faissola), il presidente di Mediobanca Cesare Geronzi e l’Ad Alberto Nagel. Il ministro, che nel pomeriggio ha informato l’oppo-
La Fed, la Bce e tutte le vigilanze dei grandi Paesi concordano un taglio al costo del denaro di mezzo punto. Troppo poco per i mercati, che sperano in un piano Paulson dalla Ue: le Borse europee bruciano 340 miliardi di euro sizione, ha presentato uno scenario congiunturale preoccupante, che va ben oltre la condizione delle banche. Se Faissola ha smentito una stretta del credito, invece paventata dalla Marce-
di recuperare le risorse allocate nei loro fondi di garanzia. Il governo poi chiederà una ricapitalizzazione agli istituti con i ratios fuori norma. In caso contrario potrebbe intervenire di-
Tre i punti fondamentali. In primo luogo aumentare il tetto (ora di 20mila euro) per il fondo pubblico di gahe cosa può fare la politica per risolvere la crisi finanziaria, che turba il sonno dei risparmiatori di mezzo mondo? Paradossalmente: poco e tanto nello stesso tempo. Poco, perché l’evoluzione della crisi somiglia sempre più alle antiche pestilenze. Finirà quando il virus originario avrà perso gran parte della sua forza ed il contagio non si diffonderà più. Tanto, perché il “fronte interno”, in questa catastrofe, è importante almeno quanto la schiera di soccorritori che si affanna al capezzale degli illustri malati. Sul piano strettamente economico non è ancora chiara la lista delle vittime più o meno illustre. Proprio in questi giorni, il Fondo monetario ha stilato un proprio referto. Le perdite, vi si dice, saranno pari a 1.400 miliardi di dollari. Qualche mese fa, secondo la
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La crisi ha minato i rapporti interni alla finanza. E la politica ha le armi scariche
Se anche i banchieri si fanno la guerra... di Gianfranco Polillo stessa fonte, erano molto meno: pari ad appena – si fa per dire – 1.000 miliardi. E non è finita. Gli analisti più seri parlano di “titoli tossici” per una valore pari a 5.000 miliardi di dollari. Allungando il brodo, vale a dire accrescendo la liquidità interna ed internazionale grazie all’intervento delle Banche centrali, si può sperare che una parte di queste perdite potenziali sia diluita nel tempo. Ma anche così il rospo da ingoiare resta di proporzioni gigantesche.
Che almeno i banchieri battano un colpo: invocava, qualche giorno fa, il Sole 24 ore. Ma su quella sponda il silenzio è assordante. È il sospetto
che domina la scena e congela il mercato. Le Banche centrali, con un’azione coordinata che non ha precedenti, hanno tagliato i tassi di mezzo punto; ma almeno fino a ieri – vedremo da domani – l’azione delle singole banche era stata amorfa. Piuttosto che prestarsi i soldi l’un l’altro, avevano preferito investire l’eccedenza di liquidità temporanea nei forzieri della Bce, il cui rendimento è inferiore, seppure di poco, al tasso sostenuto per accaparrarsene. E così, mentre il tasso di riferimento scende ancora – traducendosi in un ulteriore tosatura per i risparmiatori che ormai sui depositi percepiscono interessi negativi in termini reali –
l’euribor a 3 mesi saliva al 5,37 per cento: il massimo negli ultimi 10 anni. L’euribor è il tasso interbancario. Quello cioè che la singola banca paga per prestiti a breve da parte di una sua omologa. Nei periodi di normalità esso era pari allo 0,08 per cento in più del tasso di riferimento. Tanto per avere un idea, alla fine del 2005, era del 2,592 per cento. La differenza di quasi 2 punti percentuali rispetto alle odierne quotazioni misura il premio per il rischio. Ossia il sospetto di manager e presidenti di banca rispetto alle richieste dei propri amici/concorrenti. Eppure nonostante questi valori quel mercato risulta quasi immobile. Nessuno, in altri termini, è
gaglia, Geronzi si è detto pronto a intervenire come per Unicredit. Tremonti avrebbe voluto di fare più. Non a caso ha plaudito al piano di emergenza del britannico Gordon Brown: investimento di 50 miliardi di sterline nelle grandi otto banche locali (Abbey, Barclays, Hbos, Hsbc, Lloyds TSB, Nationwide Building Society, RBS e Standard Chartered) colpite dai subprime, iniezioni di liquidità pari a 200 miliardi, e la proposta di un intervento del G7 sull’Euribor.
Un mondo sempre più preda dell’incertezza si è svegliato ieri mattina con la decisione da parte delle vigilanze mondiali (tranne il Giappone) di tagliare di mezzo punto percentuale il costo del danaro. Così il tasso di riferimento della Bce passa dal 4,25 al 3,75 per cento. La Fed porta il tasso di sconto all’1,75, la Banca d’Inghilterra al 4,5, mentre la Cina ha portato il livello base, dopo una riduzione dello 0,27 per cento, al 6,93. Se i governi e il Fmi hanno approvato la scelta, le Borse hanno risposto picche: in Europa sono stati bruciati 340 miliardi di euro. Tra le peggiori Milano, in calo del 5,71 per cento. disposto a rischiare, nemmeno per qualche giorno. Perché l’improvvisa valanga della crisi può colpire in ogni direzione.
Come se ne uscirà? Solo quando le perdite, nascoste nelle pieghe dei singoli bilanci, verranno alla luce e saranno certificate. Solo allora quel maledetto cerino, che gli istituti di credito rischiano di passarsi l’uno con l’altro, verrà spento. Era la strada indicata da Mario Draghi, qualche mese fa. Cento giorni, aveva pronosticato. Il tempo limite in cui compiere quelle operazioni e stoppare il contagio. Sono passati invano nella speranza vana, riposta in capo ai manager, di poter resistere, nel tirar fuori gli scheletri dall’armadio, un minuto in più dei propri concorrenti. Che può fare la politica? Qualcosa, intanto, è stato fatto, anche se i risultati finali sono tutt’altro che bril-
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Come il ‘29? L’opinione di Mario Sarcinelli
«Più grave di quel che si crede, la politica è stata cieca» colloquio con Mario Sarcinelli di Errico Novi
ROMA. Cosa può fare la politica in questi casi?
lanti. Ma che sarebbe successo se il piano Bush, pur con i contrasti che abbiamo visto, non fosse stato approvato? O se i vertici europei, che pure hanno prodotto un topolino, fossero andati deserti. Angela Merkel ha, indubbiamente, deluso. Ma una serie di norme, per così dire tecniche (modifica dei principi contabili e aiuti di stato) contribuiranno almeno a raffreddare il pathos. C’è poi il “fronte interno” come dicevamo all’inizio. Qui la delusione è forte. Di fronte ad uno stato d’emergenza era lecito aspettarsi toni meno contrapposti. Un Governo più aperto al confronto, anche parlamentare. Ma un’opposizione meno disponibile al gioco poco produttivo del “piove, governo ladro”. Le continue accuse di Walter Veltroni, per non parlare di Di Pietro, e quelle di Bersani lasciano interdetti.
Così come l’accusa retrospettiva al Ministro dell’economia sulla valorizzazione degli assets immobiliari. Come se la crisi americana fosse stata determinata dai finanziamenti aggiuntivi ai possessori di immobili e non da mutui concessi a chi non era in grado di restituire quanto ottenuto. Se fossero vere le tesi di Bersani, bisognerebbe proibire la corrente elettrica perché qualcuno ha preso la scossa. Smorzare i toni, quindi, come suggerisce Pier Ferdinando Casini e trovare momenti di convergenza. O meglio ricercare, pur partendo da culture diverse, una comune diagnosi dei mali del nostro tempo. Può sembrare poco, ma non è così. Contribuirebbe a dire al Paese che, nella crisi, si ritrova una classe dirigente capace di guidarlo oltre le sponde del Mar Rosso.
«La politica è l’ultima risorsa, quella prima della disperazione. Non ci sono più appigli di tipo economico, il mercato non riesce più a trasmettere fiducia e a dare equilibrio. E allora ci si aggrappa alla possibilità che la politica riprenda il proprio ruolo di sempre». Mario Sarcinelli, ex presidente della Bnl, oggi al vertice di Dexia Crediop e professore di Economia monetaria alla Sapienza, è realista, lapidario e poco rassicurante. Ricorda i danni prodotti da «un’illusione ideologica, quella secondo cui il mercato è onnisciente e in grado dirisolvere qualsiasi situazione, anche quelle molto particolari generate dal panico». Il sistema globale sarebbe dunque rimasto prigioniero di un’incantesimo. Finché… …finché gli indici hanno continuato a precipitare nonostante le banche fossero state ricapitalizzate. Si sono aggiunti fatti nuovi? No, è semplicemente l’effetto del panico. Vede, non si può pensare che il sistema dei mercati costituisca un’intelligenza superiore. È semplicemente il coacervo e il distillato di intelligenze umane, come la mia o la sua. Se gli uomini portano il cervello all’ammasso si innesca appunto un meccanismo irrazionale come quello a cui assistiamo in queste ore. L’imprudenza decisiva potrebbe essere addebitata proprio alla politica. Ma se la cultura e l’ideologia prevalenti affermano che il mercato è in grado di regolare se stesso meglio di qualsiasi altro soggetto o potere, è ovvio che la politica tende o è costretta a ritirarsi. C’è ancora il tempo di rimediare? Il ritardo è disastroso. Come è nella logica delle cose, i politici non sono inclini a prevedere e a prevenire. Vedono solo l’urgenza del contingente, spessi dell’essere rieletti. E così si è creata un’impressionante sfasatura. Da una parte il mercato si è fatto sempre più globale e complesso, in virtù dell’innovazione tecnologica e di quella finanziaria. Dall’altra, non sono state create infrastrutture politiche adeguate, che fossero in grado di reggere l’evoluzione del sistema. Lo si vede dal tipo di contromisure che gli Stati europei cercano oggi di adottare: ognuno si muove per conto proprio, al massimo si fa un comunicato congiunto. Siamo rimasti molto indietro, lo schema è ancora quello degli Stati nazionali. Un’Europa più coesa avrebbe limitato i danni, dunque. La debolezza della Ue è una grande sciagura. Ho sempre visto nell’Europa una forza utile a
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gestire la globalizzazione, almeno nel nostro Continente. E invece non abbiamo nessuno strumento con cui fronteggiare passaggi del tutto eccezionali come questo. Si può recuperare in poco tempo il lavoro trascurato per anni? Vorrei augurarmelo. Ma non mi pare che le iniziative prese da Sarkozy o da altri lascino intravedere sviluppi positivi. Non giudico il merito delle contromisure. Colpisce che ci si continui a muovere separatamente, anche se con modalità coordinate. D’altronde si fa osservare che se gli interventi di organismi nazionali o sovranazionali fossero molto invasivi rischieremmo di compromettere la libertà del mercato. Sono stupidaggini. Le chiedo: lei si sente libero o no in un Paese in cui c’è la forza pubblica? Se non si sente libero vuol dire che è un anarchico, e con tutto il rispetto gli anarchici non hanno mai saputo gestire una comunità. L’incompatibilità tra sorveglianza e libero mercato fa parte di dissertazioni ideologiche completamente sganciate dalla realtà. Personalmente, mi sento molto più libero in un Paese sorvegliato. Fuor di metafora, cosa può fare ancora la politica? Avremmo dovuto creare infrastrutture sovranazionali e invece ci siamo affidati a regole che accentuano il disastro. Basta un esempio semplice: se si possiede un titolo che va giù si è costretti a registrare in contabilità il riflesso di questo calo, e quindi ad assistere all’erosione del proprio capitale. Nella storia delle banche non si era mai vista una cosa del genere. Dietro le sue parole c’è rassegnazione. Niente affatto, c’è analisi e realismo. È come se a via del Corso, dove la circolazione delle persone si svolge in genere in modo ordinato, si scatenasse il panico e tutti corressero all’impazzata e calpestassero coloro che sono davanti. In quiascuno risponde solo al proprio istinto di sopravvivenza. Così avviene nei mercati. È razionale? No, ma avviene. Ed è troppo tardi per riportare la calma. Le esortazioni alla calma devono continuare, ma la politica può fare solo due cose: stabilire regole o intervenire con i rimedi a cui sta ricorrendo in questi giorni. A questo punto non si può fare molto di più. Si può discutere sull’opportunità di procedere su scala internazionale, anziché ciascuno in casa propria. Certo, muoversi in modo accentrato, o almeno coordinato, produce effetti migliori. Ma il grande peccato ormai è stato commesso: cedere all’illusione che il mercato potesse risolvere da solo tutti i problemi in qualsiasi situazione.
Sono mancate infrastrutture sovranazionali capaci di reggere il mercato globale, ha prevalso l’illusione che il mercato avesse in sé tutte le soluzioni
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Dietro le intese di facciata, ognuno per sé nel tentativo di salvare i risparmiatori Anche a costo di introdurre nuovi squilibri nel mercato comune europeo
Il vero crack è della Ue Gordon Brown “compra” otto banche in crisi La Merkel gioca in casa: garantiti solo i tedeschi di Enrico Singer è un titolo che, se fosse quotato in Borsa, oggi avrebbe toccato davvero il suo minimo storico, travolto più di ogni altro dal disastro dei mercati. È il titolo Ue, quello dell’Unione europea per intenderci, che in un vortice di riunioni a quattro e a ventisette, di impegni solenni e di misure d’urgenza, ha dimostrato soltanto una cosa. Di fronte alla crisi finanziaria più devastante del dopoguerra, nell’Europa politica riemergono e vincono, ancora una volta, gli interessi nazionali. Alla faccia della solidarietà e della tanto invocata necessità di iniziative comuni per salvare il sistema bancario e i risparmi dei cittadini. Il “no” di Angela Merkel al maxi-fondo proposto da Nicolas Sarkozy è illuminante. Non è solo un colpo durissimo a quello che resta dell’asse tra Parigi e Berlino che per decenni ha fatto il bello e il cattivo tempo nella Ue: è la prova che il governo tedesco vuole spendere i soldi delle casse pubbliche per mettere al sicuro i suoi cittadini (ed elettori) piuttosto che contribuire a un sistema di protezione per gli europei.
C’
tra i paladini di un’azione comune e sta organizzando con George Bush l’incontro al vertice mondiale sulla crisi che potrebbe tenersi martedì prossimo, si è già mosso. Il premier britannico ha annunciato un piano da 50 miliardi di sterline (circa 75 miliardi di euro) per la ricapitalizzazione - in pratica, una parziale nazionalizzazione - di otto grandi banche (Abbey, Barclays, Hbos, Hsbc, Lloyds
previsioni sui tempi e sugli interventi che saranno necessari per uscire dalla nuova tempesta, ma è sicuro che i contraccolpi politici saranno ancora più difficili da guarire. Il progetto di Sarkozy, appoggiato dall’Italia, era coerente con l’idea di un’Europa che – sia pure non a Ventisette – ha una moneta comune, una politica economica coordinata dall’Ecofin e che, proprio per questo, avrebbe dovuto avere anche un fondo per intervenire a garanzia delle banche in difficoltà e, soprattutto, dei soldi dei privati che a queste banche sono stati affidati. Al fondo avrebbero dovuto contribuire tutti i Paesi della Ue in proporzione al loro Pil. Come dire che la Germania, che ha il prodotto interno lordo più forte della Ue, avrebbe dovuto dare di più.
Dopo il no tedesco al fondo unico, il governo di Londra investe 50 miliardi di sterline nel capitale dei maggiori istituti di credito
Se la Germania pensa per sé, allora è il via libera alla linea del ciascuno per proprio conto. Gordon Brown, che pure è
Tsb, Rbs Standard Chartered e Nationwide Building Society) e la possibile iniezione di altri 200 miliardi di sterline di liquidità sul mercato. La decisione presa dalla Banca centrale europea – questa sì, istituzione sopranazionale – di ridurre di mezzo punto i tassi d’interesse, in contemporanea alla Federal Reserve americana, ha ridato almeno un po’di ossigeno ai mercati. Gli economisti più accorti invitano a non lasciarsi prendere dal panico e ricordano che dopo la Grande Depressione del ’29 c’è stato il New Deal e gli Usa che sembravano distrutti sono diventati la prima potenza economica del mondo. Certo, è presto per fare
I bond seguono le regole della shari’a
Il Corano e i sukuk salvano le banche islamiche dalla tempesta di Angelita La Spada
Ma non è questo il problema che ha spinto la Merkel a dire no. Tantomeno è stata una questione di principio come il rispetto assoluto delle leggi di mercato. La verità è che in Germania ci saranno le elezioni politiche l’anno prossimo e la Grosse koalition tra i cristianodemocratici di Angela Merkel e i socialdemocratici di Kurt Beck già pensa a come si re-
ella tempesta finanziaria che ha investito i mercati mondiali irrompono i sukuk, i bond islamici, ovvero le obbligazioni compatibili con i dettami della Shari‘a. Cresce in tal modo l’interesse degli investitori per la finanza islamica e la Dubai Bank già punta alla vendita di 500 milioni di dollari in bond islamici nell’ambito di un programma di emissioni per 5 miliardi di dollari, volto a finanziare una crescita in grado di aiutarla a diventare la maggiore compagnia di servizi finanziari islamici entro il 2015 nonché una fonte globale di prestiti islamici entro il 2013.
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Già nei prossimi mesi l’istituto di credito, non quotato, parte del Dubai Banking Group «potrebbe vendere la sua prima quota in base alle condizioni di mercato», come asserito da Salaam Al-Shaksy, amministratore delegato della banca. Questa prima tranche servirà a finanziare parte de-
gli asset di sviluppo dell’istituto di credito islamico. Il programma si annovera nell’ambito della strategia di crescita ed espansione della Dubai Bank, in seguito alla unificazione di
distribuiranno i voti. Ecco, allora, che di fronte al cittadino-riasparmiatore-elettore tedesco è meglio far vedere che i soldi pubblici vengono spesi in casa. La stessa Merkel che non ha voluto finanziare il fondo europeo, ha deciso di garantire con i soldi dello Stato il totale dei depositi bancari. Esattamente come ha fatto l’Irlanda scatenando le ire della Gran Bretagna preoccupata dal possibile esodo dei correntisti britannici verso Dublino. Anche la decisione comune
quest’ultima con il Dubai Islamic Investment Group, sotto l’egida del Dubai Banking Group. In base alle stime degli esperti Ernst&Young, nel 2010 gli asset gestiti secondo le leggi della Shari‘a ammonteranno a 2mila miliardi di dollari circa. Basti pensare che il solo mercato dei sukuk, cresce del 40 percento l’anno. Ma cosa sono i sukuk? I prodotti offerti dalla finanza islamica si fondano su esigui principi basilari come il divieto di collocare prodotti che implichino una componente di rischio dominata dalla aleatorietà degli eventi sottostanti (gharar), che si contraddistinguano per essere a carattere speculativo (maisir) e che siano volti a finanziare commerci e produzioni esplicitamente proibiti dal Corano (haram).
C’è un ultimo assioma e che forse rappresenta la caratteristica più no-
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Fino a poco fa politici e banchieri gettavano acqua sul fuoco
Perché nessuno aveva capito la crisi? Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Gordon Brown: tre visioni distinte sul piano anti-crisi. Di fronte alla tempesta finanziaria, in Europa ognuno per sé
adottata dall’Ecofin di portare da 20mila a 50mila euro il tetto minimo obbligatorio di garanzia dei depositi bancari in tutti i Paesi della Ue è, in fondo, una foglia di fico che copre una realtà a macchia di leopardo.
In Italia, per esempio, la garanzia è già da anni al livello di 103mila euro: in pratica, nell’eventualità del fallimento di una banca, vengono risarciti dallo Stato i depositi fino a quella cifra. La Germania e ta del sistema bancario islamico: la proibizione di corrispondere o richiedere un tasso d’interesse sui prestiti (riba). A differenza dei bond occidentali, i sukuk sono obbligazioni collegate a beni reali, di solito beni immobiliari, legate dunque a investimenti reali, in cui la rendita finanziaria viene sostituita dalla rata di affitto di un bene. La logica è la seguente: con i sukuk la banca riceve i soldi dal cliente e acquista per suo conto un immobile. Il bene viene preso in affitto dall’istituto di credito che paga la rata al cliente. In questo modo l’investimento è legato ad un bene materiale che appartiene formalmente al risparmiatore, ma utilizzato dalla banca. Gli strumenti finanziari conformi alla Shari’a possono dunque sfidare l’esistente ordine finanziario internazionale? Evitata la crisi subprime, diversamente dalle colleghe europee e statunitensi, nelle casse delle ban-
l’Irlanda, adesso, hanno fatto ancora di più. Anche a costo di introdurre nuovi squilibri nel mercato europeo. E il piano di Gordon Brown - anche lui come la Merkel alle prese con una delicata situazione politica interna - ha ulteriormente riaperto i giochi. Una situazione che ha fatto dire a James Galbraith, il giovane economista americano che segue le orme del suo più famoso padre, John Kenneth Galbraith, che «se ogni Paese va per conto suo, la Ue finirà per dissolversi».
che islamiche c’è parecchia liquidità da investire. L’economia islamica compete con i sostanziosi portafogli degli esportatori di petrolio e con i molteplici strumenti finanziari islamici in espansione.
L’idea di economia islamica, teorizzata dall’intellettuale indo-pakistano Sayyd Abul A’la Mawdudi, fungeva da meccanismo per conseguire innumerevoli obiettivi: ridurre al minimo i rapporti con i non-musulmani, rafforzare il significato collettivo dell’identità musulmana, estendere l’Islam in una nuova area dell’attività umana e modernizzare senza occidentalizzare. Se ai musulmani fosse veramente proibito di non pagare o di non prendere gli interessi, essi sarebbero relegati ai margini dell’economia internazionale. In breve, una via islamica all’economia è un altro esempio di ossimoro islamico.
di Alessandro D’Amato
ROMA. Crisis? What crisis? Parlare con il senno di poi è da sempre piuttosto facile. Ma, anche correndo il rischio di attirarsi critiche, è sempre interessante andare a rovistare nel coacervo di dichiarazioni e controdichiarazioni di politici e finanza a proposito della crisi dei mutui subprime. Per imbattersi in una sequela impressionante di dichiarazioni rassicuranti negli ultimi anni. A cominciare fu Romano Prodi, che all’inaugurazione della Fiera del Levante, nel settembre 2007, disse che «gli effetti derivanti dalle turbolenze indotte dalla crisi del mercato immobiliare americano sono più contenuti in Italia, le nostre banche sono maggiormente protette da questi rischi». Anche Alessandro Profumo, durante la presentazione di uno dei tanti trimestri record di Unicredit, aveva detto «per noi rischi minimi», ma l’ad di Unicredit ha almeno fatto sinceramente autocritica. «In Italia niente panico e nessuna banca a rischio», diceva invece Corrado Faissola, all’epoca e oggi presidente dell’Associazione Bancaria Italiana. Pure Tommaso Padoa-Schioppa alla fine di agosto dell’anno scorso pronosticava un impatto minimo della crisi dei subprime sull’economia italiana. «La crisi non tocca le compagnie di assicurazione», diceva l’Ania. Jean-Claude Juncker, presidente dell’ Eurogruppo, Jean-Claude Trichet, numero uno della Banca centrale, e Joaquin Almunia, commissario Ue agli affari economici davano per assodato «che la crisi dei mutui subprime avrà un impatto relativamente limitato sulla crescita europea», durante un Ecofin del novembre scorso. «La crisi dei mutui subprime non dovrebbe avere che un ’impatto limitato sull’economia reale’ e provocherà solo un rallentamento moderato dell’economia Usa», gli faceva eco il capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale Simon Johnson parlando con la stampa. Mentre presidenti e amministratori delegati delle maggiori banche europee annuivano soddisfatti, e non potevano non concordare con cotante folate di ottimismo.
azione era perfettamente sotto controllo, non sarebbe successo nulla di grave. Niente panico, insomma, come sull’Aereo più pazzo del mondo. «In Italia il rischio per il sistema creditizio e assicurativo “è limitato”», sottolineava secondo il Corriere della Sera - il Comitato per la salvaguardia della stabilità del sistema finanziario riunitosi sotto la presidenza del ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Anche se c’è da dire che in altri ambiti lo stesso Tremonti aveva invece ripetutamente sottolineato la situazione di rischio ed incertezza che avrebbe potuto colpire anche l’Europa. «Le banche italiane hanno presentato un quadro rassicurante», commentava invece il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Giovanni Sanpaolo, Bazoli per il quale gli istituti americani erano «andati fuori dai binari della prudenza», ma la solidità del Vecchio Continente non era assolutamente in discussione. E Baudoin Prot, presidente di Bnp Paribas, diceva che l’impatto sui suoi conti sarebbe stato assai limitato: l’unico che ha detto il vero, visto che i francesi hanno approfittato della crisi per acquisire alcune attività della belga Fortis.
L’unica voce dissonante era stata quella di Mario Draghi che fin dall’inizio aveva previsto il peggio
Anche Silvio Berlusconi diceva che «non c’era troppo da preoccuparsi» durante la campagna elettorale per quanto stava accadendo oltreoceano: la situ-
Sempre con il senno di poi, l’eccezione che conferma la regola è stato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, che invece aveva cominciato a lanciare segnali d’allarme in tempi non sospetti, ed aveva continuato anche nella primavera 2008 e poi in estate, ripetendo che la crisi dei mercati non era finita anche quando nelle Borse mondiali il tempo sembrava volgere al bello. Ed è sempre lui ad averci ricordato di recente che la cura sarà «lunga e dolorosa», mentre da presidente del Financial Stability Forum aveva detto che bisognava costruire «una certa road map che le banche europee devono seguire per tutelarsi al meglio dai contraccolpi della crisi, che passa tra l’ altro proprio attraverso la massima trasparenza delle perdite e della situazione contabile: disclosure, è l’imperativo». Già, rivelazione. E trasparenza. Anche ad oggi, non basterà un fondo europeo – ammesso che la Germania superi le sue perplessità, oppure prima metta a posto la polvere in casa sua – e nemmeno le riunioni degli otto grandi per risolvere la situazione. Serve soprattutto lungimiranza. Quella che finora non si è dimostrato di possedere.
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politica
La legge elettorale per le Europee rischia di essere impallinata dal voto segreto previsto nel Regolamento di Montecitorio
Se Fini fa lo sgambetto al Cavaliere di Francesco Capozza
d i a r i o ROMA. “Ignorantia legis non excu-
g i o r n o
Guzzanti: Berlusconi su Georgia fa vomitare
sat” dicevano i latini. Parafrasando questo celebre brocardo, si potrebbe dire che la scarsa conoscenza dei regolamenti parlamentari potrebbe mettere in seria difficoltà il Cavaliere. Già, perché la legge elettorale per le Europee (introduzione della soglia di sbarramento al 5%, liste bloccate e più circoscrizioni) che tanto sta a cuore al presidente del Consiglio di cambiare, rischia di essere impallinata dal voto segreto della Camera. Il trappolone, infatti, è insito nei commi di un articolo del Regolamento di Montecitorio, esattamente dell’art. 49 commi 1 e 1-sexies. Secondo il primo «sono effettuate a scrutinio segreto, sempre che ne venga fatta richiesta, le votazioni (….) nonché sulle leggi elettorali». E ancora: «…in caso di dubbio sull’oggetto della deliberazione per la quale sia stato richiesto lo scrutinio segreto, decide il presidente della Camera».
La partita dunque è nelle mani di Gianfranco Fini. Per prassi le votazioni a scrutinio segreto sono richieste quando un certo numero di deputati vuole essere libero di votare secondo coscienza e liberi dalle indicazioni venute “dall’alto”. Quale scenario possibile? Che la votazione per scrutinio segreto venga richiesta da una o più forze politiche dell’opposizione e che il tanto sudato accordo tra Lega, Alleanza nazionale e Forza Italia voluto da Silvio Berlusconi venga vanificato, bocciato nel segreto dell’urna da quei non pochi esponenti politici della maggioranza che spesso hanno manifestato un certo disagio nei confronti, specialmente, delle liste bloccate. In questo scenario, assume quindi un ruolo particolarmente rilevante il presidente di Montecitorio. A questi spetta di accordare o meno la richiesta di voto segreto e, secondo la prassi consolidata, lo dovrebbe fare rifacendosi alle decisioni prese in casi analoghi dai predecessori. Su alcuni precedenti, nel caso si trovasse a dover esaminare la richiesta di voto segreto sulla legge elettorale per le europee, Fini sarebbe obbligato a riflettere. Due in particolare sembrerebbero fatti apposta per l’analisi presidenziale e si collocano entrambi nella XIV legislatura quando, analogia degli eventi, al governo c’era Silvio Berlusconi ma sullo scranno più alto di Montecitorio Pier Ferdinando Casini: il primo risale al 2004, il secondo al 2005, quello delle cosiddette “quote rosa”, norma che voleva obbligare i partiti a candidare un numero fisso di donne nelle tornate elettorali, che venne affossato proprio a causa del ricorso allo scrutinio
d e l
Paolo Guzzanti (nella foto), deputato Pdl ed ex presidente della commissione Mitrokhin, entra “in rotta di collisione” con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: «È nauseante e mi fa vomitare». Motivo della rottura le parole del premier su Putin e la Georgia alla riunione del gruppo Pdl di martedì alla Camera. Ecco la descrizione dei fatti. «Ieri alla riunione dei suoi deputati Berlusconi ha superato se stesso paragonando il presidente Saakashvili a Saddam, soltanto per reggere il gioco del bandito internazionale. Era troppo. Ho vomitato». «Ho ascoltato da Berlusconi - aggiunge Guzzanti parole terribili e inaccettabili che non avrei mai voluto ascoltare. Ma poiché invece le ho udite, non posso e non voglio fingere di non essere stato testimone a un misfatto».
Palermo, arresti per brogli elettorali Quattro arresti per le irregolarità nel voto amministrativo del maggio 2007 a Palermo. L’accusa? Brogli elettorali. Sono finiti in manette Gaspare Corso, candidato al consiglio comunale con la lista di centrodestra «Azzurri per Palermo», Silvana Lo Franco cognata di Corso, Vito Potenzano candidato a un consiglio circoscrizionale e un consigliere della sesta circoscrizione comunale, Francesco Paolo Teresi, candidato anche lui nella lista «Azzurri per Palermo». La lista sosteneva il candidato sindaco del centrodestra Diego Cammarata poi eletto con il 53.5 per cento dei voti.
Studenti in piazza contro la riforma Gelmini segreto. La paura che un evento del genere si ripresenti è quindi più che legittima. A via dell’Umiltà c’è chi teme che molti esponenti del Carroccio e qualche colonnello di An possa impallinare il disegno di Legge di iniziativa del governo grazie a un eventuale appoggio di Fini al voto segreto. «D’altro canto - ci confida un deputato forzista non distante dal premier - basta vedere come Fini e Rutelli hanno gongolato l’altro gior-
Secondo l’art. 49, «in caso di dubbio sull’oggetto della deliberazione per la quale sia stato richiesto lo scrutinio segreto, decide il presidente della Camera» no al convegno organizzato per la presentazione di un volume di alcuni noti costituzionalisti».
In effetti, chi era presente a quel convegno, racconta che quando Fini ha parlato di «riconoscimento del diritto di controllo da parte dell’opposizione quale controparte funzionale del governo in Parlamento» gli sguardi di Violante, Chiti e Rutelli si sono illuminati d’immenso. Che il presidente della Camera si voglia svincolare da Berlusconi è cosa nota a tutti, ma l’eventualità che ora cerchi una sponda nel Pd è cosa nuova
e, per molti dirigenti forzisti, pericolosa. Da via della Scrofa, però, c’è chi smorza la polemica sul nascere precisando che anche Fini, prima di diventare la terza carica dello Stato, si era sempre espresso a favore delle liste bloccate e nettamente contrario al mantenimento delle preferenze. Si ricorda, inoltre, un suo giudizio sul profilo dei futuri parlamentari europei: «Bisogna mandare a Strasburgo una classe politica esperta e a tempo pieno» diceva non troppi mesi fa. A leggere tra le righe di quella dichiarazione si direbbe che le liste bloccate siano l’unico modo, per il capo di Montecitorio, per garantire che i parlamentari europei non siano legati agli obblighi di collegio e possano svolgere le loro funzioni con serietà e continuità. Come si comporterà, dunque, Gianfranco Fini quando e se si dovesse ritrovare sulla scrivania la richiesta di votazione segreta per l’approvazione della legge elettorale europea? Guarderà alle sue dichiarazioni passate da leader del Pdl, oppure acconsentirà alla richiesta dell’opposizione per garantire il suo ruolo di arbitro fuori dall’agone politico? Nel primo caso verrà certamente tacciato di non essere super partes dai suoi ex colleghi di partito e di governo, nel secondo di giocare di sponda con le opposizioni. La resa dei conti, se ci sarà, potrebbe essere lo strappo finale tra Berlusconi e il suo eterno delfino e, forse, il tramonto definitivo delle speranze del secondo di succedere al primo.
Nuova protesta contro la riforma Gelmini. Venerdì 10 ottobre scenderanno in piazza gli studenti di tutta Italia. «L’approvazione del voto di fiducia alla Camera sul decreto Gelmini (nella foto) - osserva l’Unione degli studenti - rappresenta un ulteriore atto antidemocratico di un governo che elude le manifestazioni di dissenso e con violenza prova ad affermare il proprio autoritarismo. Per questo venerdì porteremo in piazza tutta un’altra musica».
Abruzzo, Storace candida Buontempo «Credo che sia giunto il momento di rompere gli indugi. Lo stucchevole gioco messo in scena da una sinistra incapace e distrutta nella sua credibilità morale è insopportabile. E il centrodestra, inebriato da una incredibile sindrome da autosufficienza, cincischia». Francesco Storace parla delle elezioni in Abruzzo sul suo blog e lancia la candidatura di Teodoro Buontempo alla guida della presidenza della Regione. «In Abruzzo -dice il leader de la Destra- per le regionali che ci saranno fra 53 giorni, a 23 giorni dalla presentazione delle liste, stanno tutti a litigare. A sinistra Di Pietro tira botte da orbi sul Partito democratico che, a sua volta, insegue l’Udc dopo aver distrutto ogni possibilità di alleanza con la sinistra radicale alle ultime politiche».
Caso Amina, Maroni difende la polizia La polizia si è comportata correttamente con Amina Sheikh Said, la donna di origine somala che ha denunciato maltrattamenti durante un controllo all’aeroporto di Ciampino. Lo ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni durante il question time di ieri alla Camera, annunciando che il governo, che «sostiene fermamente l’operato delle forze dell’ordine, si costituirà parte civile nell’eventuale processo». «La signora - ha proseguito Maroni - ha mostrato subito segni di contrarietà dando in escandescenze. Questa reazione incontrollata ha vanificato i tentativi di controllo effettuati dalle operatrici, contro cui la signora ha gettato i propri indumenti dopo essersi spogliata quasi completamente».
politica
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Nella foto al centro, il leader dell’Idv Antonio Di Pietro. A sinistra, l’esponente dei Verdi Paolo Cento, contrario alla prossimità con l’ex magistrato. A destra, Giovanni Russo Spena di Rifondazione comunista. Per lui Di Pietro non pone problemi di egemonia alla sinistra
l leader dell’Idv Antonio Di Pietro e il direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais in Piazza Navona; Rifondazione comunista, Pdci, Sinistra democratica e Verdi da Piazza della Repubblica in corteo fino a Piazza Esedra. Sabato prossimo, 11 ottobre, il centro storico di Roma sarà percorso da due manifestazioni contro il governo Berlusconi. Due manifestazioni autonome, sì, ma quanto distinte e distanti non si capisce ancora bene. Perchè se è vero che gli esponenti della sinistra ci tengono a sottolineare il carattere autonomo della loro iniziativa – ognuno ponendo l’accento sui temi più vicini al partito di riferimento – è anche vero che il punto d’incontro delle due manifestazioni è proprio il referendum lanciato inizialmente da Di Pietro sull’abrogazione del lodo Alfano. E la raccolta delle firme partirà proprio dalle tre piazze interessate alle due manifestazioni.
I
Una convergenza sulle cui conseguenze politiche la sinistra si divide di nuovo. Da una parte quelli che non temono l’abbraccio con Di Pietro, dall’altro coloro i quali invece pensano che con il leader dell’Idv occorrerebbe limitare al massimo i punti di contatto. Non è la prima volta che accade. Lo scorso luglio, alla vigilia della prima manifestazione dipietrista di Piazza Navona, la sinistra fu tagliata in due da queste posizioni. Tanto che lo slogan con cui Rifondazione chiamò il suo popolo a raccolta era abbastanza involuto e da restare sufficientemente aperto a ogni possibile distinguo. Che non tardarono infatti ad arrivare: Nichi Vendola, Franco Giordano e l’ex maggioranza bertinottiana facevano infatti sapere che in piazza loro non si sarebbero fatti vedere mentre Paolo Ferrero, Giovanni Russo Spena, Maurizio Acerbo, Claudio Grassi, annunciavano
Polemiche a sinistra sulla mobilitazione dell’11 ottobre a Piazza Navona
Di Pietro,si apre il gioco chi ci va,chi non ci va di Riccardo Paradisi la loro convinta presenza. Stessa dicotomia si presentava nel Pdci: Oliviero Diliberto e Paola Palermi in piazza mentre i garantisti capitanati dall’ex ministro per gli Affari regionali Katia Belillo si dissociavano. Identica divisione nei Verdi con l’ex capogruppo alla Camera Angelo Bonelli che partecipa al voo-
nifestazione unitaria della sinistra – ma certo quello che viene da pensare è che l’agenda della sinistra radicale la detti proprio Di Pietro. Un rischio che Paolo Cento dei Verdi ha ben presente: tanto da sottolineare la necessità da parte della sinistra di sottolineare la specificità della pro-
Verdi, Rifondazione comunista, Pdc faranno una manifestazione unitaria sabato prossimo. Ma si dividono sull’adesione all’iniziativa dell’Italia dei Valori e Micromega in Piazza Navona doo di piazza Navona contro Berlusconi mentre Marco Boato e Paolo Cento disertano l’iniziativa spiegando che «è un errore farsi trascinare dalla ventata gustizialista e girotondina». Oggi il fatto che le manifestazioni siano due mette più al riparo da questi imbarazzi pubblici, anche se non del tutto. Infatti sarà pure una coincidenza il fatto che entrambe le manifestazioni si svolgeranno l’11 ottobre – come garantisce il comitato organizzatore della ma-
pria iniziativa e di stare il più lontano possibile da Piazza Navona: «Lì non c’è nessuna possibilità di incarnare un’opposizione sociale ed economica, c’è solo l’antiberlusconismo che è solo una piattaforma politico-programmatica riduttiva». Vallo però a spiegare a Manuela Palermi, ex senatrice Pdci e neodirettore di Rinascita, che a differenza di Paolo Cento lo scorso luglio in Piazza Navona c’era e gli dispiace sinceramente che “per motivi
logistici” non potrà esserci “con tanti altri compagni” anche sabato prossimo: «Abbiamo tentato di far congiungere le due manifestazioni dell’11 ottobre ma Piazza del Popolo era già occupata. Il percorso che siamo riusciti a ottenere resta un po’ fuori mano». Solo problemi logistici dunque, nessun timore per la prossimità col populismo dipietrista: «Le cose che dice Di Pietro sui temi della legalità sono giuste: affermare che la legge è uguale per tutti è dire qualcosa di sinistra».
E poi c’è in ballo il referendum «Un’altra cosa di sinistra – la definisce Palermi – perché se qualcuno resta impunito si andrà verso la costituzione di una società in cui l’ineguaglianza diventa sistema». L’ex senatrice del Pdci, a differenza di tutta l’intendenza del Pd, è persino ottimista sull’esito della mobilitazione: «Ci avviamo serenamente verso una grande vittoria». Dopo la svolta la torsione legalitaria avvenuta con l’ultimo congresso che ha sancito la
sconfitta di Vendola anche Rifondazione comunista ha deciso di investire molto sul referendum contro il Lodo Alfano: «Una legge castale – l’ha definita il segretario del Prc Ferrero – e anche una legge simbolo di un modo di legiferare sulla giustizia che vuole utilizzare il malessere sociale per farsi i comodi propri». Sulla sovrapposizione tra l’inizio della raccolta di adesioni e la manifestazione della sinistra, Ferrero fa spallucce: la considera anzi una ricchezza, tanto che ha sottolineato che il suo partito allestirà banchetti all’inizio e alla fine del corteo. Nessun timore dunque sul rischio che Di Pietro – il populista, il giustizialista, il magistrato legge e ordine – conquisti l’egemonia dell’opposizione radicale a Berlusconi e quindi della sinistra? «Certo, Di Pietro ha più forza mediatica di noi – ammette Russo Spena – e la sinistra deve ancora trovare la sintesi tra le sue molte anime dopo la sconfitta delle ultime politiche. Ma l’abbraccio con Di Pietro non c’è. Ci incrociamo solo su alcune tematiche particolari». A non avere nessun dubbio su cosa fare sabato prossimo è invece l’esponente verde Marco Boato che rimarrà in Trentino: «La manifestazione della sinistra di sabato prossimo è una riesumazione macabra della defunta e non rimpianta sinistra arcobaleno. Un errore. Che si moltiplicherebbe per due se quella manifestazione, come potrebbe capitare, finisse per confluire con quella giustizialista di Piazza Navona».
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società
Il caso. «Come non farci carico di quanti si trovano in condizioni disagiate?» è l’invito per la Giornata mondiale del migrante
Il Papa dell’accoglienza Immigrazione: forte messaggio di Ratzinger ai governi (anche a quello italiano) di Renzo Foa segue dalla prima È stato l’ennesimo appello del Papa, di fronte al problema irrisolto dell’accoglienza, rivolto ai governi dell’Europa occidentale, incluso quello italiano e all’opinione pubblica, in una fase come questa di incertezza, di paura, di manifestazioni di fenomeni più o meno espliciti di razzismo. Quindi una critica, resa esplita dal cardinale Martino quando ha detto, presentando ieri il messaggio del pontefice, che appunto il problema non si risolve chiudendo le frontiere. Cioè con una sugge-
vocazione». Infine benedicendo «quanti sono impegnati nell’aiutare i migranti e, più in generale, il vasto mondo dell’emigrazione». Ma per quanto avvolta dalla dottrina, questa visione non può non richiamare a responsabilità più terrene, più politiche. E soprattutto non può non scuotere il dibattito che sulla questione è aperto in Italia ormai da quasi un ventennio e che si rinfocola ogni volta che l’alternanza di governo porta a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi con la sua coalizione. E ancora una volta la risposta – se ci sarà – dovrà
Una riflessione di grande spessore morale e culturale che va molto al di là della questione aperta da tempo su come controllare o limitare tramite le leggi i flussi della clandestinità stione, per di più irrealizzabile, che spesso torna in primo piano nel dibattito politico.
Benedetto XVI, come è solito fare in circostanze come queste, ha espresso anche ieri, con parole forbite e concetti intensi, una posizione dottrinaria, fondata sull’universalità delle visioni della Chiesa. Lo ha fatto prima chiedendosi «come non andare incontro alle necessità di chi è di fatto più debole e indifeso, segnato da precarietà e da insicurezza, emarginato, spesso escluso dalla società?» e rispondendo che «a loro va data prioritaria attenzione». Poi aggiungendo che «nell’amore è condensato l’intero messaggio evangelico e gli autentici discepoli di Cristo si riconoscono dal mutuo loro amarsi e dalla loro accoglienza verso tutti». Poi ricordando ancora che annunciare il Vangelo a tutti, «senza distinzione di nazionalità e di cultura» è missione della Chiesa e «di ogni battezzato», «nell’era della globalizzazione» come ai tempi di San Paolo, egli stesso «migrante per
essere data da quelle forze politiche che insistono da sempre per misure restrittive, anche se stentano a vararle e soprattutto ad attuarle.
Naturalmente il senso del messaggio del Pontefice non tocca il problema, tutto amministrativo e politico, sulla reale applicabilità di decisioni volte a bloccare il fenomeno, visto che proprio sulla scala europea l’immigrazione continua ad essere un problema difficilmente risolvibile, con flussi incontenibili e che continuano ad essere consistenti nonostante una crisi economica e finanziaria che dovrebbe frenare l’allargamento del mercato della manodopera. Il discorso non riguarda quindi le tecniche per quello che riguarda gli afflussi clandestini o gli accordi diplomatici, spesso inapplicati, con i paesi rivieraschi del Mediterraneo. Si tratta al contrario di un approccio culturale e morale completamente diverso, che va molto al di là della questione aperta da tempo su come controllare o limitare i flussi della clandestinità. In primo piano ci sono le
parole chiave dell’accoglienza, della non esclusione, dell’universalismo. C’è questa cultura in chi governa oggi l’Italia? Si può avere qualche dubbio. Anzi si può davvero essere convinti del fatto che troppo spesso chi governa tende, forse solo per comodità o per semplice ricerca del consenso, ad inseguire le paure anziché a lavorare per contenerle. E si può anche davvero prevedere che sarà difficile ascoltare, sempre da parte di chi governa, risposte all’appello di Papa Ratzinger che siano all’altezza della sfida che egli ha posto.
So che questa è una previsione fin troppo facile, visto che anche in occasioni precedenti c’è stata una difficoltà dei responsabili istituzionali anche soltanto ad entrare nella logica delle posizioni della Chiesa. Con una sola eccezione: quando sabato scorso Benedetto XVI è salito in visita al Quiri-
nale si è sentito parlare – proprio dall’alto del Colle - del pericolo di un’intossicazione razzista, in una stagione in cui già le difficoltà dell’Italia e degli italiani sono grandi. Ma si è trattato di un’unica eccezione. Ora, dopo questo messaggio, dopo la riaffermazione di una posizione dottrinaria e cultura-
le di grande spessore universale, si tratta di vedere se i responsabili della cosa pubblica, soprattutto in un Paese come il nostro, continueranno a far finta di niente o cercheranno per lo meno di aprirsi ad un principio di verità sulla grande e, in gran parte rifiutata, questione dell’accoglienza.
I cattolici del Pdl: «Nessuna contraddizione fra la nostra politica e l’appello»
Col Pontefice,“ma anche” con Maroni di Susanna Turco
ROMA. Il disagio non c’è. E se c’è, non si vede.
pensiamo ai poveri italiani», le risponde.
I cattolici del Popolo delle Libertà non avvertono discrasia tra l’invito di Benedetto XVI per una fraterna e solidale accoglienza degli immigrati e la politica sull’immigrazione perseguita in questi mesi dal governo Berlusconi. Se gli si va a chiedere, provocatoriamente, a chi si sentono più vicini tra il Papa e Maroni, infatti, tutti rispondono salomonicamente di stare con entrambi, ossia di trovarsi perfettamente in sintonia con gli appelli della Chiesa. Perfino lo stesso ministro dell’Interno, del resto, si trova d’accordo con il Pontefice: «Io sto col Papa», dice mostrando la spilletta di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Piano, di cui è stato insignito in Vaticano l’altro giorno, «sull’immigrazione una contrapposizione non c’è», precisa. E sorride benevolo alla ex ministra Livia Turco che è venuta a chiedergli di «fare qualcosa per questi poveri immigrati»: «Stiamo facendo tante cose,
Nel Pdl, insomma, l’esame di coscienza non s’ha da fare: perché non c’è niente da esaminare, dicono, la direzione è la stessa. E se il piddino Pierluigi Castagnetti trova «inevitabile» interrogarsi «sul significato dell’insistenza con cui la Chiesa mette in
società
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Monsignor Marchetto: «Così formulato il provvedimento non ci convince»
E così il vescovo disse no al Carroccio di Francesco Rositano
ROMA. Ancora una volta il Vaticano risponde alle provocazioni della Lega in tema di sicurezza e immigrazione. Lo aveva già fatto quando il Carroccio aveva lanciato l’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom. Ed è stato costretto a ripetersi ieri in merito alla possibilità di prevedere un permesso a punti per gli immigrati irregolari.
Accanto, Gianfranco Rotondi Sotto, Maurizio Lupi A destra, il cardinale Renato Raffaele Martino
guardia l’Italia dal rischio di una crescente xenofobia», dalle parti della maggioranza tale analisi appare superflua. «Come cattolico non mi sento in colpa per la politica sull’immigrazione», spiega il ministro dell’Attuazione del Programma Gianfranco Rotondi, «ma piuttosto mi ci sento perché, anche per stare appresso all’infernale meccanismo mediatico che mette in agenda altri temi, ignoriamo i ripetuti appelli del Papa ad aiutare i Paesi poveri, la gente che muore di fame e che entro vent’anni rappresenterà i due terzi della popolazione mondiale».
Il problema è dunque un altro, semmai. E la visione, al limite, è quella di due rette che devono procedere parallele: «Accoglienza e diritto dei cittadini devono andare di pari passo, se li contrapponessimo faremmo un grosso errore», spiega il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi.«Esistono entrambe le esigenze: quella dell’accoglienza, ma anche quella della sicurezza», aggiunge veltronianamente il sottosegretario Carlo Giovanardi, che rispolvera volentieri la dottrina della separazione tra i
Il timore della Santa Sede è che in qualche modo l’emendamento presentato dal partito di Umberto Bossi al pacchetto sicurezza dia vita ad una sorta di doppia cittadinanza, di cui una destinata solo agli immigrati. E che in tutto l’Occidente si legittimi un atteggiamento di chiusura e cinismo per le persone bisognose di accoglienza e di aiuto che sono costrette a fuggire dai loro paesi per
le ragioni più diverse. È stato monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per la Pastorale per i Migranti e gli Itineranti a prendere posizione su questa misura specifica, rispondendo ai giornalisti in occasione della presentazione del messaggio di Benedetto XVI per la novantacinquesima Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che si celebra il prossimo 18 gennaio. «L’emendamento proposto dalla Lega Nord al pacchetto di sicurezza - ha affermato monsi-
Il cardinale Renato Raffaele Martino: «Il problema si risolverà solo accogliendo, con giusto regolamento, equilibrato e solidale, i flussi migratori da parte degli Stati. E non chiudendo le frontiere» poteri: «Richiamando all’accoglienza e alla fraternità la Chiesa assolve il suo compito, ma il compito dello Stato è garantire la sicurezza, e un’immigrazione non controllata finirebbe per sconvolgere l’equilibrio economico del Paese». Gianfranco Rotondi individua un percorso a tappe: «Ora il governo è impegnato a mettere un argine all’ingresso indiscriminato degli extracomunitari: e bisogna lasciarlo fare, perché il divario tra nord e sud del mondo aumenta ogni giorno di più ed è inimmaginabile pensare di gestire questo problema tenendo le frontiere aperte. In un secondo tempo, però, ci porremo il problema di integrare e accrescere i diritti di chi si trova in Italia». In conclusione, dunque, non c’è che da rallegrarsi e ringraziare. «L’invito del Papa non resterà vano», assicura Maurizio Lupi, «sappiamo bene che l’immigrazione non può essere vista come un nemico da sconfiggere, ma sappiamo anche che non ci può essere accoglienza senza il rispetto delle regole. Ringraziamo quindi il Santo Padre che ancora una volta richiama la politica al significato più profondo, quello che Paolo VI definiva forma esigente di carità».
gnor Marchetto - va ancora studiato con attenzione, si conoscono solo notizie stampa, ma ci sono dubbi su almeno due punti importanti: i matrimoni e l’accesso alla salute degli immigrati». In particolare quello che non convince il presule è il fatto che i medici dovrebbero denunciare gli immigrati irregolari. «Bisogna pensarci profondamente - ha detto - quando si parla di religione e di salute». Il punto è che la Santa Sede è assolutamente consapevole dei problemi relativi alla sicurezza, ma non ha dubbi nel sostenere che essi non si risolvono chiudendo le frontiere o adottando misure destinate a rendere l’ingresso sempre più difficoltoso. Il presule parla di una sorta di «tendenza al ribasso» che però non riguarda solo la Lega ma un po’ tutto l’Occidente. «Da anni - ha sostenuto i rifugiati vengano trattati senza considerazione delle ragioni che li forzano a fuggire e le misure adottate nei Paesi d’arrivo si caratterizzano per la erosione degli standard umanitari e l’introduzione di
norme restrittive, quali l’obbligo del visto di ingresso, nonché la pubblicazione di liste di cosiddetti Paesi sicuri. Purtroppo questo atteggiamento adottato dai paesi del Nord del mondo ha ripercussioni negative sulle politiche verso i rifugiati seguite nel Sud». Un analisi completa del quadro sull’immigrazione è stata effettuata dal titolare del dicastero vaticano che si occupa di migranti e rifugiati, il cardinale Renato Raffaele Martino che presentando il messaggio del Papa per la giornata del 18 gennaio ha affermato: «Ricordo che il movimento migratorio, favorito pure dalla globalizzazione, a cui fa cenno Benedetto XVI, ha assunto, oggi, dimensioni notevoli. Sono, infatti, oltre duecento milioni le persone che vivono fuori dal Paese di origine, spinte dalla miseria, dalla fame, dalla violenza, dalle guerre, dalle rivalità etniche, ma pure dal desiderio di una vita migliore».
E ha continuato: «Il fenomeno migratorio in un mondo globalizzato sta diventando, di fatto, innarrestabile: il problema non si risolverà chiudendo le frontiere, ma accogliendo, con giusto regolamento, equilibrato e solidale, i flussi migratori da parte degli Stati». La relazione del cardinal Martino che ha anche annunciato che entro l’anno potrebbe uscire la terza enciclica del Papa dedicata ai temi sociali, è assolutamente in linea con il pensiero del Papa che da sempre sostiene sul fatto di riservare prioritaria attenzione a chi è «segnato da precarietà e da insicurezza, emarginato, spesso escluso dalla società». Per la Chiesa cattolica quindi questi problemi non si risolvono con il cinismo e la chiusura, ma adottando il linguaggio universale della carità. E partendo da una certezza di fondo: i diritti umani non sono una concessione di nessuna autorità ma sono connaturati all’uomo fin dalla nascita. Tra questi il porporato ha ricordato la libertà di culto. E si è reso favorevole alla costruzione di altre moschee in Europa per permettere ai musulmani di coltivare la propria fede. La ragione per il cardinale è immediata: «Gli immigrati che vengono nei nostri Paesi e contribuiscono al mantenimento del nostro livello economico, hanno bisogno di luoghi per pregare e a questo bisogna provvedere in maniera decente».
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politica
Il ritratto. Dalla Democrazia cristiana fino a Di Pietro, passando per Palermo e per la Rete: chi è l’uomo destinato alla Vigilanza Rai, ma su cui Berlusconi ha posto un veto assoluto
Piacere, Leoluca Zelig Roosevelt, Falcone, Hillary, Wenders: miti (e contraddizioni) di un escluso di lusso di Roselina Salemi
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uando ha scelto di tornare, alla fine del 2005 (ma non se ne era mai andato, almeno con il cuore), l’ha fatto appoggiando la campagna elettorale di Rita Borsellino, sorella di Paolo, come presidente della Regione siciliana. Una di quelle candidature della società civile che la sinistra mette in campo quando non sa che pesci pigliare, o quando i capitani di lungo corso fiutano la sconfitta. Che le probabilità di perdere fossero alte, Leoluca Orlando lo sapeva. L’aveva anche
quello che all’inizio sembrava un club di orlandiani esagitati che andavano in guerra al grido di “Luca Luca!”. Ancora adesso, si professa democristiano senza timidezze, orgoglioso del premio Konrad Adenauer ricevuto a Colonia il 18 settembre, e sta benissimo dentro l’Italia dei Valori, che l’ha riportato al centro di una battaglia di principio, quando molti lo consideravano ormai un ex. Ingombrante. Non quanto Gorbaciov, ma insomma. Invece, rieccolo, a 61 anni, candidato alla presidenza della Commissione di Vigilanza sulla Rai («L’opposizione ha il diritto di scegliere il suo rappresentante, e Italia dei Valori ha il diritto di ottenere un incarico parlamentare»), con addirittura il veto di Berlusconi, che può dire tutto di lui, ma non dargli del comunista. E sono ormai lontani gli anni dell’Orlando Furioso che non risparmiava neanche Giovanni Falcone, pubblicamente invitato a «tirare fuori le carte dai cassetti», gli anni delle sfide estreme e dei massimalismi. Dell’onnipotenza e dell’ingenuità. («Se mi vote-
Di sé dice: «Anche io, come tutti i veri leader ho subito delle sconfitte. Pensate a Roosevelt» dichiarato: «Il voto organizzato è già tutto per Totò Cuffaro. Se quello disorganizzato si concentra su Rita c’è qualche speranza, altrimenti…». È andata come si sa:“Totò vasa vasa”è rimasto sulla poltrona. Ma a quel punto Orlando era di nuovo in pista, a fare i conti con il passato, con Palermo, con la Sicilia, con gli errori commessi e con le ambiguità della politica. Che, a differenza di Antonio Di Pietro, fondatore di Italia dei Valori, lui conosce benissimo.
È nato democristiano, è stato consigliere giuridico di Piersanti Mattarella, uno dei quei diccì che qualcuno comincia a rimpiangere, e si è ritrovato, come sindaco, al centro di una stagione irripetibile, la famosa “primavera di Palermo”, (1985-1990) segnata da molti strappi e dalla nascita della Rete (l’atto notarile è del 21 marzo 1991), un po’ meno di un partito, un po’ più di
Rete, non vi stresseRete» era lo slogan di Gaspare Nuccio, deputato dei Retini).
Certo, la legnata presa nel giugno 2001, quando correva per la presidenza della Regione è stata dura. Aveva lasciato il posto di sindaco (era stato rieletto nel novembre 1997 con oltre 200mila consensi) e la cattedra universitaria di Diritto pubblico. Un milione di voti non gli sono bastati. E anche se ama ricordare che i veri leader rischiano, e «persino Roosevelt ha subito moltissime sconfitte», anche se ha capito, prima dello spoglio delle schede, da che parte tirava il vento, quella non gli è andata giù. Si aspettava di diventare almeno il portavoce dell’Assemblea, il capo dell’opposizione, e invece niente. Così ha maturato il suo distacco e, pur restando deputato regionale è in qualche modo sparito. Per dimostrare che sapeva e poteva fare altro, in altre città del mondo. «Per non essere schiavo della politica come mestiere». È stato in Messico e in Colombia, ha tenuto lezioni, recitato in quattro film e frequentato talk show in Germania. Ha pubblicato libri in America, in Perù, in Libano (In Italia l’ultimo è uscito l’anno scorso da Utet, Leoluca Orlando racconta la mafia), ha “esportato democrazia” con l’Istituto per il
Fini e Schifani: votazione a oltranza
Tutti d’accordo sulla rosa di nomi. Tranne Di Pietro di Franco Insardà
Rinascimento Siciliano. Ha incontrato Hillary Clinton e la stima è stata reciproca. Le ha presentato Aldo Civico, uno dei suoi già ai tempi della Rete, che oggi dirige il Centro per la Risoluzione dei Conflitti alla Columbia University ed è passato dallo staff dell’ex first lady a quello di Barack Obama, come responsabile per il Sud del mondo. Era con lui quando è scampato a un attentato a Granada, al confine
ROMA. In nome della rosa. Anzi delle rose. Ieri dopo la riunione congiunta dei capigruppo di Camera e Senato con i presidenti Schifani e Fini pare sia questa la strada intrapresa per sciogliere il nodo che si sta ingarbugliando ogni giorno di più per la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai. Dopo l’appello del presidente Napolitano gli esponenti dei due schieramenti sembrano intenzionati a trovare una soluzione. Sul nome del portavoce dell’Italia dei Valori, Leoluca Orlando, c’è stato e c’è un vero e proprio fuoco di fila. La conferma viene dal capogruppo del Pdl in Commissione di Vigilanza, Giorgio Lainati: «L’atteggiamento aggressivo dell’Italia dei Valori nei nostri confronti è intollerante. Leoluca Orlando in tutti questi
tra Colombia e Panama. E sono arrivati i terroristi a rovinare quella che doveva essere la festa della ricostruzione di un luogo devastato dagli attentati. Lui si era preparato un discorso in castigliano (una delle tante lingue che riesce a parlare, come il siciliano, il tedesco e il francese e persino qualche rudimento di russo) e ripassava. Dei cinque elicotteri del corteo, uno con il presidente colombiano Alvaro Uri-
mesi non ha mai preso le distanze dalle posizioni di Antonio Di Pietro e il suo silenzio conferma la sua piena condivisione di questa linea. Con questi presupposti per noi è inaccettabile che possa essere il presidente della Commissione». La chiusura del Popolo della Libertà verso l’Italia dei Valori conferma la linea espressa dal presidente del Consiglio Berlusconi che ieri oltre a ribadire il suo no a Orlando aveva detto chiaramente: «L’opposizione ci faccia altre proposte, ma non Giulietti». E Lainati aggiunge: «Quella di Giulietti è stata soltanto un’affermazione di principio. Lui non potrebbe essere eletto perché non fa parte della Commissione. La questione riguarda l’Idv». Quindi l’ipotesi della rosa dei nomi sem-
politica Leoluca Orlando ora corre (inutilmente?) per la Vigilanza Rai, ma negli anni passati si è “rifugiato” all’estero facendo il consigliere politico in Colombia, in Messico e perfino negli Stati Uniti dove ha avuto contatti anche con Hillary Clinton
be, il suo era il secondo. E appena atterrato, colpi di granata a volontà. Inutile dire che è risalito precipitosamente, illeso, ma con il portellone aperto, mentre attorno a lui scoppiava il finimondo. Messo in salvo, ha chiamato la moglie Milly, («una santa»), che però non rispondeva. Allora ha telefonato al Tg1 comunicando che stava bene. Il giornalista, non senza ironia, gli aveva sorriso: «Scusa Luca, sono contento per
te, ma questa non è una notizia!».
Era desaparecido, anche se accumulava riconoscimenti, cittadinanze, premi e lauree. Professore onorario a Tblisi, in Georgia, e a Trier, in Germania, sindaco onorario di Palermo, una cittadina colombiana di 30mila abitanti dove però non può mettere piede (chi l’aveva voluto come consulente è stato costretto a fuggire a Parigi), premio per la
bra la più praticabile, anzi prende quota la possibilità delle rose parallele. Secondo Giorgio Lainati: «Si tratta di una proposta autorevole del presidente Casini, condivisa da quasi tutti i capigruppo, che può consentirci di uscire dallo stallo nel quale ci troviamo». Pier Ferdinando Casini si è detto contrario a “esploratori”e sottogruppi: «Sarebbe soltanto una perdita di tempo. Occorre uno sforzo di maggioranza e opposizione: ognuno presenti una terna di possibili candidati e ci si confronti». Il vicecapogruppo alla Camera del Pdl, Italo Bocchino, chiarisce bene la posizione della maggiornza: «La rosa di nomi deve comprendere i rappresentanti dei tre partiti di opposizione tra i quali scegliere. Sul presidente della Vigi-
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pace Erich MariaRemarque, e la lista potrebbe essere ancora molto lunga perché Leoluca Orlando, pur essendo siciliano, ha molte patrie. Ha fatto campagna elettorale per il sindaco di Bogotà e per quello di Monaco, considera Città del Messico una delle sue seconde case e lì in tema di pace sociale, hanno solo il modello Giuliani (la famosa “tolleranza zero”) e il modello Orlando (“legalità e cultura”). Negli edifici comunali di Palermo non ha più voluto mettere piede. Né a teatro, rompendo consuetudini e amicizie, né allo stadio. «Sarei stato patetico. Quando una stagione è finita, è finita». Ma che stagione, per chi se la ricorda! I ragazzi in piazza gli davano del tu, la folla in delirio saltava sotto la pioggia («Chi non salta , Andreotti è!»), la gente lo chiamava per strada, lo fermava al mercato del Capo o a Ballarò («Ollando, Ollando!»), e lui aveva una parola per tutti, e a tutti riusciva a far credere di essere importanti. Quelli che allora lo adoravano, hanno imboccato altre strade, e alcuni coltivano piante amare come la disillusione e risentimento. La Rete era nata come movimento a termine («Doveva finire, stavamo diventando una caricatura di noi stessi»), con il difetto di avere troppe anime. Nel ’93, Orlando si era dimesso da coordinatore (era di nuovo sindaco, eletto al primo turno senza ballottaggio con il 75 per cento dei voti), ma nel ‘97, aveva depositato il simbolo «La Rete per il Partito Democratico» e simpaticamente l’ha ricordato a Walter Veltroni. «In politica ammette - è così. Uno semina e un altro raccoglie».
Quando ha conosciuto la Clinton è scoppiata la simpatia. E un suo uomo è entrato nel team di Obama
Con Adp (Antonino Di Pietro) si sono piaciuti subito. Si sono incontrati nel 2006, hanno parlato ed è finita a tè e pasticcini. Lui gli ha chiesto: «Aiutami a
lanza c’è un patto tra gentiluomini tra maggioranza e opposizione. Per la Corte costituzionale la situazione è diversa. Abbiamo la maggioranza per eleggere il giudice che manca». Una posizione meno rigida sull’Italia dei Valori e sul nome di Orlando è stata espressa dal capogruppo della Lega alla Camera, Roberto Cota, che entrando nella riunione di ieri ha dichiarato: «Il nome spetta all’opposizione. Bisogna lavorare per una soluzione condivisa. La Lega comunque non fa una questione di nomi». Sul fronte opposto il pd Giorgio Merlo, presidente di turno della Vigilanza fa trapelare ottimismo: «La caduta delle pregiudiziali personali e politiche della destra, se non riemergono nuovamente fra
liberarmi di Di Pietro», nel senso di uscire dal tema della giustizia e costruire un’identità politica, un vero partito, e Orlando l’ha preso sul serio, tanto che adesso fa anche il commissario in Umbria. Alla prima riunione in Molise come portavoce dell’Italia dei Valori, considerato che nella platea il più lontano rispetto a Di Pietro era un parente di quarto grado, non è stato simpatico esordire con: «Il vero problema di Di Pietro sono i dipietristi», e mentre gli altri si guardavano disorientati, l’unico, autentico Adp applaudiva. Arrivando, dopo i reciproci attestati di simpatia, ad ammettere che «Italia dei Valori è nata da due costole della Rete di Orlando». C’è del vero in questa battuta, le similitudini sono tante, c’è il giustizialismo, ma non solo, c’è quel tanto di populismo e quella capacità di incrociare gli umori e sentimenti della gente, ma ormai Leoluca Orlando è vaccinato contro il culto della personalità. La strategia è semplice: essere un alleato scomodo ma utile del Pd, «perché, caro Walter, il Partito democratico è un progetto più grande dei tuoi limiti e delle mie critiche».
qualche giorno, sono un passo in avanti notevole, purché prevalga la tesi del rispetto delle opposizioni e della prassi parlamentare». Tutto bene tranne per l’Italia dei Valori che con Di Pietro in testa continua a sostenere la candidatura di Orlando: «Il candidato presidente lo sceglie l’opposizione, non la maggioranza. E l’opposizione ha già scelto. Non può tornare indietro altrimenti è un’opposizione fantoccio». E mentre il leader radicale Marco Pannella continua lo sciopero della sete la soluzione bisognerà trovarla entro martedì, quando Fini e Schifani incontreranno di nuovo i capigruppo. Altrimenti convocazione a oltranza per Camera e Vigilanza. Se son rose sbocceranno.
E così Orlando ci tiene a far sapere che sta bene, e anche se pare “siddiato” (licenza camilleriana per una parola intraducibile che significa contemporaneamente scocciato, annoiato, di cattivo umore, infastidito, con la faccia scura), che la politica non è tutto per lui, anche se non sembra, che ha due figlie meravigliose, Leila ed Eleonora, ed è tre volte nonno, che ha adottato un bambino russo, con ogni probabilità l’unico Nikita Leoluca di tutte le Russie, che lo vogliono all’Università del Vermont, ma forse non accetterà, che sa di essere amato perché gli amici, o la sorella, gli fanno luna tenera contro-campagna elettorale («Non votate per lui, che si rovina la vita») e insomma, comunque vada, è allegro dentro, è «felice da morire». Quest’Orlando indecifrabile, «un cane sciolto» per Pansa, «un pazzo» per De Mita, «l’erede di un consigliori della mafia», per Martelli, lo trovate anche nel film di Wim Wenders, Palermo Shooting, in uscita il mese prossimo. Lui è quello con il cappotto e la borsa da lavoro che spiega a Finn la tradizione dei pupi di zucchero per la festa dei Morti, il 2 novem-
Ha recitato anche nel film su Palermo del regista tedesco. «Ma prima o poi aprirò un ristorante» bre. Spiega quanto è importante per i bambini, più del Natale, il giorno in cui si impara a conoscere la morte e a non averne paura, perché Palermo è una città che ama moltissimo la vita. Finn non capisce e lui ribatte: «Allora tenetevi Halloween!». Chi ha visto il film, a Cannes gli ha chiesto: «Ma siete parenti tu e quell’Orlando lì?». Sono parenti strettissimi, l’attore che recita se stesso e il politico che non si arrende, il cittadino del mondo e il siciliano “siddiato”. Che ha un sogno, dove la politica non c’entra, condiviso con pochi intimi: aprire un ristorante, naturalmente a Palermo. Si chiamerà “Epicuro”. Un amico professore sarà il sommelier e lui il direttore di sala. Si sono promessi che all’ora X non avrà ripensamenti, volterà le spalle a qualsiasi cosa, anche a una chiamata del Quirinale. Ne parlano molto, ne scrivono molto. Per la cronaca, non c’è ancora lo chef.
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Le grandi trasformazioni sociali e politiche sono quelle che coinvolgono l’energia e la comunicazione. Nel Settecento, il carbone e il vapore portarono con sé l’alfabetizzazione. Il Novecento è stato il secolo del motore a scoppio e del telegrafo. E adesso, l’èra di internet sarà quella delle nuove reti energetiche?
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uando Angela Merkel è diventata Cancelliere in Germania, mi ha chiamato a Berlino per aiutare il suo governo a far crescere l’economia tedesca nel ventunesimo secolo. Già ma come si fa crescere l’economia tedesca? Come si fa crescere l’economia dell’Unione Europea? Come si fa crescere l’economia mondiale? In nodo è tutto nella crisi energetica di questi anni: penso al petrolio, al carbone, al gas naturale… qualcuno crede che siamo all’alba di queste forme di energia? Ci vorranno pochi decenni o forse pochi anni (le previsioni non sono univoche), ma queste fonti di energia sono al crepuscolo e, allora, nel frattempo noi che cosa facciamo? La business community si base sempre e comunque su combustibili fossili: fertilizzanti chimici, pesticidi, plastica, materiali per l’edilizia, prodotti farmaceutici, gran parte dei nostri abiti, il calore, la luce, tutto ha a che fare con i combustibili fossili. Ecco, la capacità di questa generazione di leader economici di affrontare la crisi energetica determinerà il tipo di civiltà in cui vivranno i nostri figli. Ma per capire bene ciò che sta accadendo dobbiamo parlare di quattro crisi contemporanee.Vediamo quali sono.
La prima riguarda la globalizzazione. La ragione per cui il prezzo del petrolio è sceso in poche settimane da 150 dollari a 100 dollari al barile è che l’economia si trova in un momento di stagnazione e ci sono meno acquisti, non è che magicamente abbiamo trovato tanti nuovi pozzi di petrolio. Questo ci impone di ripensare la globalizzazione, perché questa si basava su un assunto principale che non è più valido: l’energia costa poco, si diceva, quindi possiamo produrre prodotti a migliaia di miglia di distanza e poi riesportarli in Occidente. La seconda crisi ha a che fare con l’instabilità politica dei paesi che producono petrolio: un terzo di tutte le guerre nel mondo oggi coinvolgono i paesi produttori di petrolio. La terza crisi è quella del picco del petrolio: con il termine «picco del petrolio» si intende il momento in cui metà del petrolio globale è finito. Insomma,
quando passiamo il picco, vuol dire che siamo alla fine e che la produzione di petrolio non ha più prospettive reali di espansione. Ebbene, sette anni fa, prima dell’entrata in campo di Cina e India, i dati ufficiali dicevano che con il 2% di crescita di consumo si sarebbe raggiunto il picco verso il 2037. Secondo altri geologi, però, il picco ci sarà già nel prossimo decennio; qualcuno addirittura dice che il picco è stato raggiunto nel 2005. Non so chi abbia ragione sulle date – i pessimisti o gli ottimisti – ma so che tutti discutono di un pugno di anni: 2010, 2020, o 2030. È una finestra molto piccola per risolvere il problema energetico del mondo e creare una nuova infrastruttura per un nuovo regime energetico. La quarta crisi, infine, riguarda il cambiamento climatico. Che cosa significa cambiamento climatico? Chiedete alla gente di Houston, in Texas: gli uragani si susseguono uno all’altro e abbiamo danni per miliardi di dollari. Anche in questo campo ci sono voci differenti, ma in fondo tutti concordano nel dire che ci troviamo in una fase di cambiamento climatico indotto dall’uomo, e quello che è scioccante è che per 30 anni ci siamo tutti sbagliati perché abbiamo continuato a sottovalutare la velocità e l’accelerazione del cambiamento climatico. Solo cinque anni fa, un team delle Nazioni Unite diceva che i grandi ghiacciai sarebbero scomparsi nel ventiduesimo secolo, ma ora sappiamo che i ghiacciai si stanno
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La ragione per cui il prezzo del petrolio è sceso da 150 dollari a 100 dollari al barile è che l’economia è in stagnazione e ci sono meno acquisti. Questo ci impone di ripensare completamente la globalizzazione
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sciogliendo adesso, con cent’anni di anticipo. Chi avrebbe detto, per esempio, che il Polo Nord sarebbe stato circumnavigabile, come è successo quest’anno?
Quello che ci serve, quindi, è un progetto per gestire in modo diverso le fonti energetiche. La più grandi evoluzioni economiche della storia sono segnate sia da un cambiamento dell’uso dell’energia sia dal cambiamento dei
La terza rivol di Jeremy Rifkin modo di comunicare. Per esempio, nell’antica Mesopotamia l’uso dell’energia idraulica ha portato alla scrittura. Nella prima rivoluzione industriale, tra 1830 e il 1880, la comunicazione e l’energia sono arrivate a una nuova convergenza: in margine all’uso del carbone, del vapore e della ferrovia si è sviluppata la stampa, è nata la scuola pubblica, c’è stata l’alfabetizzazione di massa. Nel ventesimo secolo, prima l’elettricità e il motore a scoppio hanno coinciso con la scoperta del telegrafo e poi con l’uso del telefono; e questo ha portato alla seconda rivoluzione industriale. Ora siamo di fronte alla possibilità di dare vita alla terza rivoluzione industriale. La comunicazione è cambiata in modo radicale attraverso i computer, internet, i satelliti, i wireless. Tutto ciò ci dice che bisogna distribuire: possiamo comunicare uno a uno, uno a molti, in tutto il mondo, in modo orizzontale o decentrato. Dobbiamo farlo anche in ambito energetico. Se metteremo in relazione i nuovi strumenti di comunicazione con nuove forme di distribuzione dell’energia, allora daremo vita alla terza rivoluzione industriale. Ma che cosa vo-
glio dire, quando parlo di energia distribuita?
Pensiamo invece all’energia di élite. Non tutti ce l’hanno a disposizione. Non tutti hanno in cortile uranio, carbone: queste sostanze producono energia di élite perché si trovano solo in certe parti del mondo e quindi per usarle ci vogliono investimenti enormi organizzati dall’alto verso il basso. L’energia distribuita, invece, nasce in ogni cortile: il sole splende su tutti, di solito, il vento soffia su tutta la terra, il calore sotto la terra è dappertutto, gli oceani, le maree, l’acqua sono di tutti, quindi abbiamo tutta l’energia che ci serve. Il problema è immagazzinarla. Non possiamo costruire abbastanza impianti solari e eolici –che pure sono importanti – però possiamo usare altri sistemi.Tutti gli uffici, tutti i centri commerciali, tutti gli alberghi, tutti i parchi tecnologici possono diventare impianti che producono energia, che accolgono l’energia che circonda l’edificio o l’insieme di edifici. Alcune aziende stanno già sfruttando questo sistema: si staccano dalla griglia centralizzata e usano soltanto il sole e l’energia prodotta dai rifiuti. E spesso sono
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La comunicazione è cambiata attraverso i computer e i satelliti. Tutto ciò ci dice che bisogna distribuire: possiamo comunicare uno a uno, uno a molti, in modo orizzontale o decentrato. Anche in ambito energetico
rado, in California che saranno pronte entro la fine dell’anno. Come funzionano? Semplice: prendiamo un albergo, una piccola fabbrica, un piccolo negozio, ciascuno produce la sua energia poi, attraverso la nuova rete, può trasmettere energia in due direzioni, in entrata e in uscita. Ho detto che si tratta di una rete intelligente proprio perché deve poter gestire il traffico di entrata e uscita in modo “economico”. Poniamo che un giorno c’è un eccesso di consumo di elettrodomestici, se la rete è intelligente ed è collegata direttamente a tutti gli apparecchi, è anche in grado di suggerire l’uso corretto di quegli stessi elettrodomestici. Non solo. Grazie al suo software, il prezzo sulla rete sarà noto in tutti i momenti, quindi la fabbrica, il negozio saranno informati del prezzo dell’energia e potranno decidere se comprare o vendere energia in ogni momento. Questa è la più grande democratizzazione di energia immaginabile ora e crea un effetto moltiplicatore che è incalcolabile. Pensate a Youtube o a MySpace, pensate a come hanno rivoluzionato dal basso la comunicazione…
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luzione industriale
Alcune immagini di archeologia industriale. Il futuro dell’energia passa da una rivoluzione totale dei sistemi di produzione
anche in grado di rivendere agli altri l’energia “pulita” che producono in proprio. Prendiamo la rete elettrica italiana, come esempio: la trasformiamo in una rete che funziona come Internet (quindi distribuita e intelligente) e così gli alberghi, i negozi, le aziende creano la propria fonte di energia usando i rifiuti, il calore, immagazzinando l’idrogeno, e poi condividono le eccedenze con altri attraverso una rete che collega tutta l’Europa. Una rete del genere esiste già a Bruxelles e collega importanti aziende energetiche. Ne stiamo progettando altre in Texas, in Colo-
L’energia di questo tipo supera di molto quella che si potrebbe ottenere con il petrolio, con il carbone. Pensate i vostri figli che sono cresciuti usando internet, usando sistemi open source, immaginateli circondati da centrali a carbone: non succederà, non è possibile. Generazioni intere, ormai, sono cresciute con concetti diversi e ora bisogna che le prossime generazioni sappiano di poter creare direttamente e poi gestire la propria energia. C’è bisogno di energia eolica, solare, geotermica, ma per essere davvero competitivi bisogna creare la possibilità di vendere l’energia che si produce. Solo in questo modo, il mondo farà la terza rivoluzione industriale e si allontanerà definitivamente dal Ventesimo secolo; se resta legato alle vecchie forme di energia, resterà un mondo vecchio, incapace di sfruttare questa una grande opportunità sociale ed economica.
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mondo
Nessun colpo di scena nel secondo dibattito televisivo tra McCain e Obama. E i democratici mantengono la testa della corsa
Un pareggio che serve solo a Barack di Andrea Mancia
d i a r i o li analisti e i commentatori della galassia conservatrice invocavano il “colpo di reni”, lo scatto capace di invertire la dinamica di una corsa verso la Casa Bianca che sembrava ormai indirizzata verso la vittoria di Barack H. Obama. Ebbene, il “game changer” tanto atteso da parte di John McCain non c’è stato. Anzi, dopo il dibattito tutto sommato equilibrato che si è svolto a Nashville (Tennessee) nella notte tra martedì e mercoledì, si può dire che Obama abbia fatto un altro, importante passo, verso Pennsylvania Avenue. Il formato alla “townhall” del confronto avrebbe in teoria dovuto favorire McCain. Ma la scialba conduzione di Tom Brokaw (storico anchorman di Nbc News) ha lasciato davvero poco spazio all’improvvisazione, in cui il candidato repubblicano eccelle. Anzi, le “passeggiate”in mezzo al pubblico han-
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+9%, rispettivamente). Ma da un mondo come quello dei mainstream media - univocamente, convintamente e spudoratamente schierato dalla parte di Obama non ci si potevano aspettare risultati molto diversi, a prescindere dalla realtà del dibattito.
Una realtà che, in ogni caso, resta sfavorevole per il candidato repubblicano. Le voci della vigilia, che volevano McCain tirare in ballo personalmente gli “scheletri nell’armadio”di Obama (Ayers, Rezko
(anche se nelle ultime 48 ore c’è stato qualche segnale sparso di timida ripresa), i democratici nelle ultime settimane hanno consolidato la loro posizione in quasi tutti gli stati in bilico. Conducono ampiamente negli “stati blu” su cui McCain aveva delle mire (Minnesota, Wisconsin, Pennsylvania, Michigan e New Hampshire). In più, il Grand Old Party sta soffrendo molto più del previsto negli stati che matematicamente - non può permettersi di perdere.
Abbandonato definitivamente
Il senatore dell’Illinois più efficace sull’economia, quello dell’Arizona molto meglio in politica estera. Intanto il Gop continua a soffrire negli swing-states
l’Iowa, che non è mai stato seriamente alla portata di McCain, parliamo dei tre stati che compongono la western strategy di Obama (New Mexico, Colorado e Nevada), di alcuni stati “sudisti” (o quasi), come Virginia, North Carolina e addirittura Missouri. Senza contare Ohio e Florida, che insieme mettono in palio 47
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Georgia, completato il ritiro russo Le truppe russe si sono completamente ritirate dalle zone di sicurezza adiacenti all’Abkhazia e all’Ossezia del Sud. Lo ha riferito il ministero dell’Interno georgiano. «Le forze armate russe ha confermato il portavoce del ministero dell’Interno georgiano, Shota Utiashvili - si sono ritirate da tutte le zone cuscinetto». Le postazioni in Abkhazia e Ossezia del Sud sono state smantellate e «tutti i soldati russi se ne sono andati».
Sudan, 35 arresti per pantaloni stretti La polizia sudanese ha arrestato ieri 35 donne, colpevoli di portare pantaloni troppo stretti. Il loro abbigliamento, spiega un portavoce della provincia di Juba (sud del Paese), «ostacola la sicurezza e disturba la quiete pubblica». Il quotidiano arabo al Quds al Arabi, inoltre, riferisce di «una retata condotta contro bande giovanili, diffuse nella città di Juba, che hanno acquisito la cattiva fama di bere alcolici, provocare risse e denudarsi in pubblico». Le donne fermate la sera di domenica scorsa sarebbero state rilasciate il giorno dopo da un tribunale locale.
Germania, primo trapianto di due braccia Il primo uomo al mondo a ricevere un trapianto di entrambe le braccia complete è apparso ieri in pubblico per far conoscere al mondo il successo della sua operazione. Karl Merk, operaio di un’azienda lattiero-casearia di 54 anni, ha indetto una conferenza stampa a Berlino ed ha definito la sensazione post-trapianto «indescrivibile». Il 25 luglio scorso, presso l’ospedale della Technical University di Monaco di Baviera, per la prima volta al mondo, è stato effettuato da un’equipe di 40 medici il trapianto di due braccia intere. Sei anni fa, l’uomo aveva avuto un incidente sul lavoro che gli era costato l’amputazione di entrambi gli arti. Successivamente aveva tentato per due volte senza successo l’impianto di protesi; oggi, invece, mostra fiero le sue braccia sottolineando come ogni giorno acquista «sempre più mobilità».
Nepal, disastro aereo: 18 vittime
John McCain (a sinistra) e Barack Obama (a destra), si stringono la mano prima del secondo confronto tv no semmai sfavorito il candidato repubblicano, che soffre di un evidente stato di inferiorità fisica nei confronti dell’avversario (tra Honolulu e Hanoi non ci sono solo differenze climatiche...). Nella sostanza, il dibattito può essere considerato un pareggio. Obama più brillante e diretto sui temi economici, McCain nettamente meglio in politica estera. Nessuna sorpresa, nessun capovolgimento di fronte. E questa è un’ottima notizia per il ticket democratico.
I “sondaggi” effettuati subito dopo la fine del confronto da Cbs News e Cnn hanno registrato una prevalenza di pareri favorevoli per il candidato democratico (+14% e
e i finanziamenti esteri alla sua campagna), sono state smentite in diretta televisiva. Gli strateghi del Gop, evidentemente, pensano che Sarah Palin sia più adatta a fare il “lavoro sporco”, come sta facendo in giro per gli swing-states ormai da qualche giorno. Mentre McCain deve restare “al di sopra” di questa politica dell’attacco negativo nei confronti dell’avversario. È una posizione comprensibile - visto l’inevitabile rischio-boomerang di una condotta del genere - ma poco compatibile con lo stato attuale della corsa. A parte il vantaggio di Obama nei sondaggi condotti a livello nazionale, che oscilla tra il 2% di Zogby/Reuters e il 9% di Gallup
preziosissimi electoral votes, nei quali McCain - dopo essere stato in vantaggio fino alla metà di settembre - è stato raggiunto e superato da Obama. Questa “sofferenza” repubblicana che si estende ormai a quasi tutta la mappa elettorale rende sempre più necessario quel “game changer” che molti si aspettavano dal dibattito di martedì. E che non c’è stato. La partita, è vero, è ancora lunga. Ma non abbastanza da consentire al ticket McCain-Palin di restare con le mani in mano, in attesa di un evento esterno capace di cambiare la dinamica della corsa. È arrivato il momento di fare qualcosa, prima che sia troppo tardi.
Un piccolo aereo si è schiantato ieri in Nepal, nella regione dell’Everest, facendo 18 morti. Lo hanno annunciato i media di stato nepalesi. «Un aereo della compagnia Yeti Airlines si è schiantato in fase di atterraggio all’aeroporto di Lukla», ha indicato Mohan Adhikari, un responsabile aeroportuale. Dei 19 passeggeri a bordo 14 erano stranieri e cinque nepalesi. Un passeggero nepalese è sopravvissuto, ha precisato Adhikari. L’aeroporto di Lukla è utilizzato da molti alpinisti e praticanti di trekking diretti verso l’Everest. Tra le vittime ci sono passeggeri tedeschi e svizzeri, ha indicato poi il responsabile dell’aeroporto, precisando che sulla lista dei passeggeri «c’erano 12 tedeschi e due svizzeri». L’aereo da turismo, che volava da Katmandu a Lukla, ha preso fuoco subito dopo essersi schiantato sulla piccola pista d’atterraggio, secondo un giornalista locale presente sul posto secondo il quale «ci sono volute due ore ai servizi di sicurezza per venire a capo dell’incendio».
Betancourt: grazie all’Ue Cinque minuti di applausi, con l’Assemblea tutta in piedi, per l’intervento di Ingrid Betancourt nella seduta solenne del Parlamento europeo a Bruxelles. Accompagnata dal presidente del Parlamento, Hans Gert Poettering, l’ex ostaggio delle Farc ha preso ieri la parola davanti ad un’assemblea attenta ed emozionata e ha rivolto un forte appello al Parlamento europeo perchè si adoperi per la liberazione degli oltre 3mila ostaggi ancora in mano alle Farc.
mondo
l Premio Nobel per la pace «dovrebbe andare alla persona giusta, ovvero a chi ha sempre lavorato per salvaguardare la pace mondiale. Speriamo che la decisione del comitato di Oslo non voglia offendere i sentimenti della popolazione cinese. Non una seconda volta». Questa dichiarazione, rilasciata dal ministero degli Esteri cinese, rappresenta il primo passo di una guerra aperta nei confronti di chi indica nel noto dissidente Hu Jia il prossimo Nobel per la pace. Il Premio, che verrà assegnato domani, rischia di scatenare una crisi diplomatica di enorme portata. Dopo la consegna del Nobel al Dalai Lama nel 1989, infatti, il governo cinese non intende tollerare un nuovo gesto di enorme portata simbolica contrario alla sua politica interna. Anche se la giuria del Premio non rilascia mai anticipazioni, Stein Toennesson - direttore dell’International Peace Research Institute di Oslo – è convinto che quest’anno (60esimo anniversario della Dichiarazione universale Onu dei diritti dell’uomo) il Premio potrebbe andare a chi si batte per essi. In un’intervista, Toennesson ha sottolineato: «Ritengo probabile che vinca un dissidente cinese. La scelta si divide tra Gao Zhisheng e Hu Jia, entrambi in prigione».
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Questa convinzione si spiega con il fatto che «negli anni scorsi il Comitato può non aver premiato dissidenti cinesi per non offendere Pechino e incoraggiare un miglioramento dei diritti per le Olimpiadi del 2008, ma i Giochi non hanno portato l’auspicato miglioramento della situazione. Ora è arrivato il momento di far sentire la nostra voce e non ignorare le aspettative disattese». Hu Jia è noto per la sua lotta a favore dei malati di Aids, ma è diventato anche una
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La Cina preme perché il titolo per la Pace non vada ai dissidenti
Guerra del Nobel Pechino contro Oslo di Vincenzo Faccioli Pintozzi sorta di riferimento centrale della dissidenza cinese: ha raccolto articoli, preparato ricorsi legali e presentato alla comunità internazionale l’opera di tutti gli altri oppositori del regime. Ha collaborato con i media stranieri e con le ambasciate, fornendo materiale sulle violazioni ai diritti umani e, più di recente, a favore dei molti cittadini per vessati preparare le Olimpiadi. Dopo aver trascorso alcuni anni in galera nella seconda metà degli anni ’90, è stato arrestato a dicembre e con-
Dopo il polemico riconoscimento al Dalai Lama, il governo cinese non vuole un altro smacco alla sua politica A lato, il dissidente cinese Hu Jia. Indossa una maglietta con il volto di Chen Guangcheng, attivista cieco. Sopra: la cerimonia di assegnazione del Nobel
dannato ad aprile a 3 anni e mezzo di prigione, per «istigazione ad attività sovversive». Gao Zhisheng, l’altro candidato di peso del mondo cinese, è un avvocato che ha difeso per anni i diritti dei cittadini. Il 22 settembre 2007 è stato portato via da casa, dove era agli arresti domiciliari, e da allora non se ne hanno notizie. Gao è da un certo punto di vista più pericoloso di Hu Jia. Indicato da fonti statunitensi come «il primo presidente della futura Cina democratica», ha combattuto il sistema repressivo cinese dall’interno. Ha vinto centinaia di cause su tematiche scottanti – come i diritti umani e la libertà d’espressione – portando alla luce le falle del sistema giudiziario cinese. Fonti di liberal in Cina, anonime per motivi di sicurezza, esprimono però scetticismo davanti a queste indiscrezioni: «Hu Jia non è come il Dalai Lama. Ha fatto troppe poche cose, è molto gio-
vane e non ha la statura morale degli altri vincitori. In più, pur apprezzando moltissimo il suo lavoro, siamo quasi sicuri che nessuno vorrà lanciare un guanto di sfida così forte in faccia a Pechino».
Le stesse fonti, però, confermano che Hu è ridotto molto male: «Per non farsi trovare impreparati, i dirigenti comunisti hanno ordinato un trattamento durissimo per il carcerato che, da quello che abbiamo saputo, vive in condizioni infernali. È probabile che, in caso di vittoria, diventi come Aung San Suu Kyi». È invece entusiasta l’attivista anti-Aids Wan Yanhai, cofondatore con Hu Jia del Beijing Aizhixing Institute – Istituto privato che aiuta gratuitamente i malati di Hiv/Aids - che dice: «Sarebbe una grande cosa per gli attivisti democratici di tutta la Cina. Abbiamo bisogno di un incoraggiamento dalla comunità internazionale».Tra i favoriti di domani ci sono l’avvocatessa cecena Lidiya Yusupova e il monaco vietnamita buddista e attivista dei diritti umani Thich Quang Do. L’ultimo premio Nobel per la pace a un attivista per i diritti umani è stato quello del 2003, assegnato all’iraniana Shirin Ebadi. Un nuovo Nobel per la pace, che guardasse ad Est, sarebbe un segnale importante in un mondo che sta spostando il suo baricentro a oriente.
Chimica, premiata la proteina Gfp Il premio Nobel per la chimica è stato assegnato ieri allo scienziato giapponese Osamu Shimomura e agli americani Martin Chalfie e RogerY.Tsien. L’Accademia reale svedese delle scienze ha deciso di premiare gli autori della ricerca sulla proteina fluorescente Gfp, osservata per la prima volta nel 1962 in una medusa, e diventata uno dei più importanti strumenti usati nella bioscienza contemporanea. Con l’aiuto della Gfp, infatti, sono stati messi a punto modi di osservare processi che prima erano invisibili, come lo sviluppo delle cellule nervose nel cervello o la crescita delle cellule tumorali.
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Dopo Berlino, il 52esimo parallelo è l’ultimo Muro da abbattere per evitare il collasso dell’area
Una bomba al bivio La crisi del regime apre a due opposti scenari: l’incubo nucleare o la riunificazione coreana di John R. Bolton e Nicholas Eberstadt segue dalla prima
LE PREVISIONI da incubo sulla disponibilità di testate nucleari, un esercito fuori controllo, uno tsunami di rifugiati e la prospettiva che la Corea del Sud dovrebbe assorbire oltre 20 milioni di nuovi cittadini poveri, stanno tenendo sveglio più di una persona. Indubbiamente, una crisi di regime a Pyongyang comporta ampi rischi e sfide, ma bisogna vedere pro e contro. Potrebbe esserci una preziosa opportunità - in mezzo a un potenziale disastro - di riunire la penisola coreana sotto una democrazia, o quantomeno rendere questo obiettivo più vicino. La crisi del regime pone due sfide principali: 1) la minaccia milita-
re e nucleare sull’intera penisola e 2) le conseguenze umanitarie ed economiche del collasso del Paese, sia per quanto riguarda il rischio immediato di un flusso massiccio di rifugiati, che per i costi economici di lungo termine della riunificazione. Queste due sfide in realtà impongono scelte simili ai leader americani e sudcoreani. Primo, non c’è dubbio che l’arsenale nucleare della Corea del Nord non debba essere lasciato cadere nelle mani sbagliate, fuori o dentro il Paese, né dovrebbero essere rese operative le armi chimiche e biologiche. Il comando delle forze comuni americane e sudcoreane (Cfc) ha predisposto dei piani appositi per queste evenienze, ideati con la piena coscienza che la loro rapida attuazione in un momento di grande incertezza potrebbe significare la differenza tra l’assicurare le armi di distruzione di massa e il vederle usate in modo caotico e mortale. Nonostante congetture diverse, non c’è ragione per i generali nordcoreani di attaccare la Corea del Sud, perché sono molto più propensi
ad impegnarsi in una battaglia interna di potere, che è l’ambito nel quale verrebbero usate le armi più distruttive e la ragione per cui dobbiamo agire rapidamente, ma - se le cose davvero precipitassero - la principale preoccupazione dei generali sarebbe semplicemente andarsene, e noi dovremmo essere felici di facilitare tale obiettivo.
La questione cruciale è che a Pechino deve essere chiaramente detto che qualsiasi azione militare che attraversi la zona delimitata è intesa soltanto ad occuparsi della crisi del regime, e non è in nessun modo rivolta alla Cina. D’altronde, nella misura in cui Pechino dispone di informazioni riguardo, ad esempio, la locazione delle armi nucleari nordcoreane, sarebbe certamente interesse della Cina stessa condividere tale informazione. Non solo un’operazione risolutiva del Cfc ridurrebbe al minimo le possibilità di utilizzo delle testate atomiche o le intenzioni dei generali guerrafondai, ma potrebbe anche aiutare a rassicurare la popolazione nordcoreana sul fatto che potrebbe rimanere nelle sue case, prevenendo così un esodo di massa verso la Cina, e questo, a sua volta, potrebbe eliminare ogni dubbio di Pechino riguardo un suo intervento volto ad evitare che i nordcoreani attraversino il Fiume Yalu.
Foto grande, Kim Jong-il (leader Corea del Nord, a sinistra) e Roh Moo-Hyun (ex presidente della Corea del Sud); qui a lato George W. Bush e a destra Cristhoper Hill, mediatore Usa. Nell’altra pagina un’immagine dall’alto del sito nucleare di Yongbyon e il generale sudcoreano Kim Tae-Young
Secondo, qualsiasi cosa il Cfc sia in grado di fare, rimane il problema - che deve essere previsto - delle urgenze umanitarie del Nord Corea. La portata e la spesa necessarie per prevenire una tragedia in queste circostanze potrebbero essere enormi, ma una risposta internazionale - oggi - non è soltanto fattibile quanto potenzialmente abbastanza gestibile. La chiave di questa valu-
La spesa utile a fronteggiare l’emergenza umanitaria della Corea del Nord sarebbe alta, ma se la riunificazione incentivasse l’economia in cui il Sud è prosperato, i costi sarebbero riassorbiti tazione è di ordine geografico: la Corea del Nord è adiacente alla Corea del Sud, una ricca democrazia.
Per una risposta di successo ai problemi umanitari della Corea del Nord, ovviamente, ristabilire l’ordine il più rapidamente possibile sarà un obbligo; in tutte le troppe crisi umanitarie contemporanee i rifugiati non hanno un posto dove tornare, ma non sarebbe lo stesso in questo caso perché la Costituzione della Corea del Sud ha già riconosciuto i loro diritti di cittadinanza nella Repubblica coreana. Come la Germania durante la guerra fredda e Israele oggi, la Corea del Sud garantisce un “diritto di ritorno” per coloro che sono nella Corea del Nord. Invece di affrontare un futuro incerto in campi di dispersi in Cina, Russia o qualsiasi altro posto, i profughi nordcoreani potrebbero contare sulla protezione e il riconoscimento dei diritti civili nella Repubblica di Corea. Le implicazioni economiche dell’assorbimento della popolazio-
ne nordcoreana sono sembrate terrificanti ai politici e agli opinionisti sudcoreani da quando è caduto il muro di Berlino, ma la semplice realtà è che il divario economico tra Corea del Nord e del Sud continuerà ad allargarsi fino a quando il regime sopravviverà. Un processo più lungo di riunificazione è
mondo
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La denuncia: Pyongyang monta testate nucleari sui missili
Il poker atomico non è un bluff di Kim di Stranamore a diplomazia nuclearmissilistica di Pyongyang, nel giorno del secondo anniversario del primo test nucleare della Corea del Nord, ha bisogno di accrescere la tensione e di continuare ad agitare il babau nei momenti di difficoltà e quando cerca di ottenere concessioni alle controparti. E ora sfrutta quella che sente come una possibile fase di debolezza dell’Amministrazione Usa, che sarebbe ben lieta di portare a casa un risultato importante in Corea prima del cambio della guardia.
L
Affrontiamo i pericoli e le conseguenze di una crisi di regime a Pyongyang: prepararci al peggio non deve impedirci di pianificare la cosa migliore per gli Stati Uniti e l’Occidente rinviato, le sfide maggiori alla riunificazione possono essere risolte nell’immediato; ci sono potenziali opportunità in una reintegrazione economica tra Nord e Sud, non solo spese. Un’economia coreana flessibile e orientata al mercato, sottoposta alle regole del diritto e aperta al commercio e alla finanza internazionale, sarà meglio in grado di sfruttare queste opportunità. Nel breve termine, le spese necessarie per fronteggiare le esigenze umanitarie della Corea del Nord potrebbero essere alte, ma nel lungo periodo, se una Corea riunificata potesse ricreare il clima econo-
mico in cui il Sud è prosperato, i costi della riunificazione sarebbero riassorbiti.
La morte di Kim Jong-il potrebbe dunque accelerare la fine della Corea del Nord, un risultato che dovremmo accogliere favorevolmente. Una Corea riunita e pienamente democratica potrebbe essere un forte alleato per l’Occidente. Non perdiamo di vista questa prospettiva e affrontiamo i pericoli e le conseguenze di un crisi di regime a Pyongyang; prepararci al peggio non deve impedirci di tentare di pianificare la cosa migliore.
Il segnale “classico” è rappresentato dal lancio di due missili a breve raggio nelle acque del Mar Giallo, una operazione che naturalmente viene presentata come operazione di routine nel quadro di esercitazioni militari programmate. Il lancio è avvenuto martedì e gli ordigni sono due missili antinave KN02 STYX, missili da crociera molto vecchi. I missili si aggiungono alla prospettata riattivazione dei siti nucleari. Ma a mettere altra benzina sul fuoco è stata una invero improvvida dichiarazione del Capo di Stato maggiore della Fisa Sud Coreano, il Generale Kim Tae-Young, il quale ha affermato di fronte al parlamento di Seoul che a quanto gli risulta la Corea del Nord sta attivamente sviluppando una testata nucleare idonea ad essere montata sui missili balistici che il regime di Pyongyang continua a sviluppare. Tae-Young, però, ha detto di non poter precisare se la testata sia o meno pronta per essere montata sui vettori. Dopo i test nucleari nord-coreani del 2006 (sul cui successo ci sono ancora dubbi) era evidente che il passo successivo sarebbe consistito nella “weaponizzazione”ovvero, nel passaggio da ordigni sperimentali a vere e proprie armi. Quelle di più semplice realizzazione sono le bombe d’aereo, mentre per mettere a punto una bomba miniaturizzata e che possa essere installata nel-
la testata di un missile occorrono tecnologie non banali e molteplici prove. L’intelligence concorda nel ritenere che la Corea del Nord disponga di circa 40 chili di plutonio, con il quale si possono realizzare una mezza dozzina di ordigni. Per arrivare ad una testata missilistica però occorrono anni, tecnologie relativamente sofisticate ed una serie di prove con testate ovviamente inerti. Non sembra che niente del genere sia stato osservato dai satelliti. Peraltro i nord coreani sono soliti prendere “scorciatoie” nello sviluppo delle loro armi: in pratica metteono in produzione e dichiarano operativi sistemi che in occidente verrebbero considerati terribilmente pericolosi… per chi li maneggia o vorrebbe impiegarli in combattimento. In realtà alla Corea del Nord non serve arrivare davvero a sviluppare un missile balistico ed un veicolo di rientro nucleare efficiente, basta che questa possibilità sia ritenuta concreta dagli interlocutori per ottenere il potere di ricatto/deterrenza desiderato e la possibilità di “vendere” la minaccia al tavolo negoziale. I Nord Coreani sono bravissimi a giocare a questo poker pericoloso e lo hanno insegnato anche agli iraniani. Anche sull’effettiva maturazione dei programmi missilistici Nord Coreani relativi ad ordigni a lungo raggio o addirittura intercontinentali è d’altronde lecito nutrire molti dubbi.Tuttavia ancora recentemente è stato segnalato che Pyongyang sta realizzando un nuovo poligono di lancio, utilizzabile sia per lanciare il missile balistico Taepong-2 sia il suo derivato utilizzato come vettore spaziale. Il sito sorge a Pongdong-Ni, sulla costa occidentale del Paese, in una zona che risulta di difficile sorveglianza, se non dallo spa-
zio, perché è piuttosto vicina al Mar Giallo e alla Cina.
Missili e relative tecnologie, inoltre, sono i soli prodotti Made in Korea del Nord che hanno un mercato ed acquirenti pronti a pagare in valuta. Da un punto di vista militare poi, l’artiglieria missilistica Nord Coreana è una dei pochi assi, insieme alle
L’intelligence ritiene che il Paese abbia almeno 40 chili di plutonio utili a costruire una mezza dozzina di ordigni Forze Speciali, nell’arsenale di Pyongyang, perché consente di battere moltissimi obiettivi in Corea del Sud, a partire dalla capitale Seoul. Non è un caso se il ridislocamento delle forze Usa in Corea del Sud prevede che le basi che si trovavano a ridosso del confine o al nord della capitale… siano spostate a sud. Non si sa mai. Una cosa è certa. È difficile per chiunque “vedere il bluff” dei Nord Coreani. Non quando ci sono le atomiche di mezzo.
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arte
A Palazzo Barberini di Roma, a partire dal prossimo 13 ottobre, la terza edizione della rassegna ”Il gioco serio dell’Arte”
Quando il gioco si fa puro di Massimo Tosti na serie di confronti che possono apparire bizzarri, se non addirittura arbitrari. Così, per gioco, come dice il titolo della rassegna. Che è giocosa nel senso di quello che gli anglosassoni chiamano “understatement”: un atto di modestia, obbligato per chi non voglia apparire superbo. Il titolo – per esteso – è Il gioco serio dell’Arte. Colpisce, soprattutto, la serietà: siamo già alla terza edizione (segno che le prime due hanno avuto successo) e l’unica parola degna della maiuscola nel titolo è “Arte”.
U
Il tema è affrontato con una tale profondità da aver convinto un editore di primo piano a pubblicare in volume le interviste del curatore, Massimiliano Finazzer Flory, ai relatori delle precedenti edizioni (Il gioco serio dell’Arte, Bur, 190 pagine, 9,80 euro): Vittorino Andreoli, Remo Bodei, Francesca Brezzi, Maurizio Calvesi, Piero Coda, Giulio Giorello, Predrag Matvejevic, Quirino Principe, trattarono temi come la Paternità, il Sacrificio, la Donna, la Testa, la Morte, la Fortuna, le Religioni, l’Ascolto. Quest’anno ogni tema evocherà un confronto fra un artista del XVII secolo e uno del XX. Il primo appuntamento è fissato per lunedì prossimo (a Palazzo Barberini, nel salone affrescato da Pietro da Cortona, appena restaurato): Maurizio Ferraris e Anna Coliva discuteranno del Corpo, prendendo spunto dalla visione che ne ebbe Caravaggio e quella, più inquieta, di Francis Bacon («L’immagine che cerco», disse una volta, «sta come una specie di funambolo sulla corda tesa che separa la pittura cosiddetta figurativa da quella astratta»). Gli appuntamenti successivi (uno al mese, con date variabili, fino a maggio compreso) tratteranno questi temi: la Bellezza (Giordano Bruno Guerri, con punti di riferimento il Bronzino ed Eleonora Duse); la Fantasia (Carlo Sini; Miguel de Cervantes e Paul Klee); il Figlio di Dio (monsignor Rino Fisichella; Blaise Pascal e Andy Warhol); l’Orecchio di Beethoven (una rappresentazione teatrale di Finazzer Flory, introdotta da Claudio Strinati, con i musicisti della
Filarmonica della Scala: questo è l’unico appuntamento che non si terrà a Palazzo Barbarini, ma nella Sala Sinopoli del Parco della Musica); la Terra (Franco Farinelli; Jan Wermeer e Giorgio Morandi); la Notte (Roberto Escobar; El Greco e Luis Bunuel); il Relativismo (Edoardo Boncinelli; Isaac Newton e Lucio Fontana). Ogni incontro sarà corredato di letture teatrali (fra gli altri interpreti, spicca il nome di Rossella Falk) e coreografie.
Il programma è ghiotto per chiunque voglia scavare nei significati più profondi dell’arte, indagando sui rap-
per chi vuole pensare: del resto, l’arte ha bisogno sempre di questo spazio, che non è solo fisico, ma riguarda qualcosa che ha a che fare con dimensioni non del tutto sondabili, eppure significative, e anzi necessarie». La rassegna intende offrire una nuova immagine dell’opera d’arte come oggetto e soggetto di una trama di rapporti con temi filosofici, storici, letterari, scientifici. Ci sono abbinamenti che appaiono sorprendenti (e particolarmente stimolanti), come quello fra Newton, lo scienziato della legge di gravità, e Lucio Fontana, il pittore dei tagli sulle tele bianche; o quello fra il ed Bronzino Eleonora Duse, una musa del XX secolo, affidato a Giordano Bruno Guerri, che di recente ha pubblicato una splendida biografia di Gabriele D’Annunzio, che dell’attrice fu per lungo tempo amante appassionato (ma non devoto); o, ancora, quello fra Cervantes (un autentico maestro della Fantasia) e Paul Klee, l’artista che spiegò il nuovo compito della pittura: «Far vedere ciò che gli occhi non vedono». Altrettanto profonde saranno sicuramente le considerazioni di Monsignor Fisichella, con il compito (apparentemente arduo) di descrivere il Figlio di Dio arrampicandosi sul pensiero laico di Blaise Pascal e sul genio della pop art Andy Warhol, dissacrante e provocatorio.
Il primo appuntamento è per lunedì prossimo: Maurizio Ferraris e Anna Coliva discuteranno del ”Corpo”, partendo dalla visione che ne ebbero Caravaggio e Francis Bacon Al via a Roma, dal prossimo lunedì 13 ottobre, la terza edizione della fortunata rassegna culturale ”Il gioco serio dell’Arte”, curata da Massimiliano Finazzer Flory. Quest’anno ogni tema evocherà un confronto fra un artista del XVII secolo e uno del XX
porti (che esistono, come sviluppo in taluni casi, come rottura e rivoluzione in altri) fra il passato remoto del Seicento (un secolo in bilico fra il Rinascimento e il Barocco, con tutte le tensioni e le lacerazioni della controriforma e una visione arcadica e spirituale) e il passato recente del Novecento, carico di inquietudini e di tragedie globali. «Il gioco serio dell’Arte», spiega il curatore, «è uno stare di fronte e attraverso l’opera d’arte. Soprattutto attraverso, perché questa è la posizione preferita
Un gioco, dunque (come esige anche lo sponsor (che è Lottomatica, al quale va il merito di aver restaurato Palazzo Barberini, la cui meravigliosa Galleria d’arte antica avrà adesso spazi più adeguati per la meravigliosa pinacoteca), ma anche un’occasione per riflessioni di livello che promette di essere molto alto, ma senza lo snobismo altezzoso che troppo spesso tiene lontano il pubblico. Una misura dell’intelligenza di chi organizza incontri di questo tipo, destinati ad avvicinare il pubblico alla cultura, e non di allontanarlo (come troppo spesso accade, purtroppo).
musica
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chiamata “musica alternativa”. È quella che da oltre trent’anni accompagna i giovani di destra nella loro militanza politica. È la musica che le radio nazionali non hanno mai passato e di cui pochissimi dei grandi media, se non in chiave negativa, hanno osato parlare. Oggi è un movimento eterogeneo, non più racchiudibile nel solo territorio italiano e che vede impegnati decine di gruppi musicali. È insomma uno dei principali mezzi di comunicazione e trasmissione degli ideali di destra.
È
Dal rock più classico alla musica Oi!, dal progressive degli anni Settanta alla musica cantautoriale (la corrente più seguita, almeno nel primo periodo), dall’Hard rock alla Techno-elettronica degli ultimi tempi, il grande mondo della musica alernativa sembra non conoscere confini. Nessun libro, fino a un mese fa, era stato scritto sulla musica dei ragazzi di destra. Ci ha pensato Cristina Di Giorgi, poco più che trentenne di Roma, con il nuovissimo Note alternative, edito dalle Edizioni Trecento e in vendita nelle librerie da un paio di settimane. È la storia di un mondo che risale alla fine dei Sessanta, quando si inizia a sentire il bisogno di togliere spazio ai grandi autori della sinistra, di portare in musica la lotta politica vissuta quotidianamente. È il bisogno latente di uscire allo scoperto, descrivere le emozioni e gli ideali, far sentire la propria voce e dimostrare che a destra, al contrario di quanto si pensi, si è culturalmente e artisticamente vivi. I primissimi interpreti sono i fondatori del Bagaglino, che ripropongono in chiave satirica i valori di riferimento della destra. Ma la vera musica alternativa nasce all’inizio degli anni Settanta, dalle strade e dalle sezioni, da un clima politico che si fa via via sempre più aspro. Nascono così le canzoni che ancora oggi rappresentano dei veri e propri “inni”per chi fa politica a destra. Vengono incise su cassette amatoriali che girano da una sezione all’altra, da Milano a Roma, passando per tutta l’Italia. Oltre a Zpm, Amici del Vento, Compagnia dell’Anello e più in là Massimo Morsello (che vivrà un lungo esilio a Londra), c’è anche il gruppo progressive Janus che, avendo in Italia poco mercato, viene venduto addirittura in Giappone.Il libro è un viaggio in questo mondo sotterraneo con trent’anni
A sinistra, la copertina del libro ”Note alternative”, scritto da Cristina Di Giorgi (in basso). Sopra, il cd del trentennale della nascita della musica alternativa di destra. Tra gli artisti storici, Massimo Morsello (qui sotto) e La Compagnia dell’Anello (in basso)
”Note alternative”, il primo libro sulla musica dei giovani di destra
Il canzoniere dei ”neri per scelta” di Alessandro Ricci
Scritta da una ex militante del Fronte della Gioventù, l’opera getta luce su un mondo sconosciuto e per anni ”musicato” nel silenzio di vita alle spalle, fatto di gruppi, storie, aneddoti e nomi ai più sconosciuti, ma che hanno animato e infuocato i cuori di intere generazioni di destra.
È la storia della musica alternativa e dei gruppi che l’hanno vivificata, dai primi cabarettisti fino alle ultime formazioni musicali. Una storia raccontata nei minimi dettagli, senza trascurare i particolari più ricercati, opera di un intenso lavo-
ro di ricerca e passione da parte dell’autrice, già militante all’età di diciassette anni nella storica sezione di Roma “Trieste-Salario”. Quello della musica alternativa è un un fenomeno di enorme portata, forse «il più grande e complesso esem-
pio di cultura sommersa che l’Italia abbia mai conosciuto», come viene ricordato nella premessa. E questo è il primo libro sulla musica alternativa, è il percorso storico che molti ragazzi a destra hanno acquisito nel tempo e nella memoria. È la
raccolta delle informazioni sui gruppi e i protagonisti della galassia della musica che si è sempre ispirata ai valori «etici ed epici» della destra come modello. Sono poi riportate le storie che hanno ispirato le canzoni più importanti, che ancora oggi toccano il cuori di centinaia di giovani. Come Piccolo Attila, scritta da Gabriele Marconi sulle note di Foggy dew in ricordo di Nanni de Angelis,“suicidato” in una cella il 5 ottobre del 1980. Ci sono le storie e la storia (antica e moderna, riprendendo il nome di uno dei capitoli) che hanno ispirato i versi dei musicisti alternativi. Come i riferimenti medioevali in Non Nobis Domine dei 270bis, o ancora il ricordo dei martiri vandeani nella toccante Vandea di Massimo Morsello. Viene ricordato ancora, nella dialettale Brigante se more riproposta da Francesco Mancinelli, il fenomeno del brigantaggio, e ancora i morti di Hiroshima nell’omonima canzone degli Hobbit e la lotta di liberazione irlandese in Belfast, canzone dei Diapason uscita nel 1984 e riarrangata in chiave moderna dai romani Imperium.
È un mondo, quello della destra, rimasto chiuso in un ghetto che pochi da fuori hanno conosciuto e conoscono a fondo, rimasto all’oscuro per molto tempo, in parte vittima della sua stessa immagine e dei pregiudizi che da essa scaturivano. Negli ultimi tempi, storici (Giampaolo Pansa con il suo Il sangue dei vinti) e giornalisti (Luca Telese con il suo Cuori Neri) hanno approfondito studi e inchieste sulla Resistenza e sugli “anni di piombo”, contribuendo a squarciare veli intoccabili, far conoscere realtà fino a oggi ai molti sconosciute e a dare una immagine più vicina alla realtà del mondo della destra nel suo insieme. Si aggiunge oggi questo nuovo libro, destinato a far parlare di sé (soprattutto dopo le polemiche relative a Nazirock di Claudio Lazzaro) e che vuole far conoscere realmente, per quello che è, lontano dai pregiudizi e dagli stereotipi, il mondo di una certa parte della destra (musicale e non solo) attraverso espressioni artistiche vive e sempre più in crescita.
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cultura
Il 26 giugno del 1920 Filippo Turati pronunciò un discorso dal titolo quanto mai emblematico e destinato a essere più volte ripreso: ”Rifare l’Italia”
L’uomo delle riforme possibili Invitò le forze migliori del mondo liberale a collaborare per la salvezza del Paese di Aldo G. Ricci Pubblichiamo qui di seguito parte dell’introduzione di Aldo G. Ricci alla raccolta di scritti di Filippo Turati uscita in questi giorni presso le edizioni Talete (il volume sarà presentato a Milano al Palazzo delle Stelline, il 10 ottobre alle ore 11).
nista, messianica e legata alle dinamiche della Russia sovietica, non riuscendo così a realizzare compiutamente gli obbiettivi che in altri paesi del-
sibili e condivise con i settori più dinamici e aperti del mondo imprenditoriale e dei tecnici, è certamente quello che viene presentato in questo vo-
in dalla sua nascita il socialismo ha avuto due anime: quella oggettivistica ed evoluzionista e quella messianica e interventista, entrambe conviventi, sia pure in modo diverso e con frequenti contaminazioni reciproche, sotto l’ala rassicurante dell’idea di progresso. Tutto si trova già nel pensiero e nelle opere del padre-padrone del socialismo, Karl Marx, che ha convissuto con geniale consapevolezza con questa evidente contraddizione, coltivandola per tutta la vita, nella convinzione che fosse essa stessa componente essenziale delle sue analisi e del suo programma rivoluzionario.
F
In questo dualismo è racchiuso un secolo e mezzo di storia del movimento operaio tra la metà dell’Ottocento e la fine del Novecento, che ha rappresentato, in questo stesso arco di tempo, una delle componenti più importanti della dinamica storica complessiva, anche se oggi ha lasciato il posto ad altre dinamiche legate al venir meno delle tradizionali contrapposizioni di classe e all’insorgere di contrasti politici tipici del mondo globalizzato. In questo quadro non è un esercizio di pura filologia ripubblicare e rimeditare alcuni tra i testi più significativi del cammino storico dei massimi esponenti di quella tradizione, in particolare nel caso dell’Italia, dove la sorte del socialismo di stampo europeo e democratico è stata fortemente condizionata, e alla fine travolta, dalla presenza di una prevalente componente comu-
come in Russia è una parola d’ordine che gli ispira orrore e che continuerà a stigmatizzare negli scritti e nei discorsi, senza curarsi delle reazioni che tali posizioni provocano in una base ormai fortemente suggestionata dal mito dell’Ottobre russo. Negli anni precedenti la guerra, la sua “sintonia asimmetrica” con l’azione politica di Giolitti consente al movimento operaio di raggiungere una serie di importanti conquiste sociali e normative che il leader liberale di Dronero è ben lieto di favorire, convinto com’è, fin dalle sue prime esperienze politiche, che il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici e lo sviluppo della scolarizzazione non solo rappresentino in se stesse delle conquiste di civiltà, ma favoriscano alla lunga il consolidamento dello stesso regime democratico-liberale, legando alle istituzioni quelle masse proletarie che solo in minima parte erano state coinvolte nel processo unitario e poi nel consolidamento dell’Italia come Stato moderno. Con questa strategia, l’accordo di fondo di Turati è completo, al di là delle schermaglie d’occasione e dei contrasti spesso più apparenti che reali. Il leader del riformismo, sulla scia di Eduard Bernstein, più che del suo ben più intimo amico Karl Kautsky, ha superato da molto tempo, come ribadisce in Rifare l’Italia, la vecchia strategia dei due tempi con cui aveva esordito il Partito socialista italiano alla sua nascita. Non pensa più che a un programma minimo di conquiste sociali debba poi seguirne uno massimo, ovvero la fuoruscita dal sistema capitalista, per usare un termine ancora recentemente usato con gran sussiego da molti maîtres à penser della sinistra italiana. Egli ha messo a fuoco
Negli anni precedenti la guerra, la sua “sintonia asimmetrica” con l’azione politica di Giolitti consentì al movimento operaio di raggiungere importanti conquiste sociali l’Europa occidentale venivano perseguiti e raggiunti dai partiti del socialismo democratico, che ormai, nel vecchio continente, sembrano destinati soprattutto, nei casi migliori, a una nobile sopravvivenza. Uno dei testi più importanti della tradizione socialista italiana, ispirato proprio al metodo delle riforme pos-
lume, vale a dire il famoso discorso pronunciato da Filippo Turati alla Camera il 26 giugno del 1920, un discorso dal titolo quanto mai emblematico e destinato a essere più volte ripreso, Rifare l’Italia […].
All’indomani della fine del conflitto, Turati è uno dei pochi leader del socialismo italiano a non soffrire del complesso ‘sovietico’. Fare in Italia
che, come afferma Bernstein, ‘il movimento è tutto’, ovvero quello che conta è la direzione che caratterizza i cambiamenti introdotti dalle riforme. Se si tratta di una direzione di progresso e di emancipazione essa coincide con il percorso verso una trasformazione sociale complessiva.
In que sta prospettiva strategica, Turati non ha fretta di vedere il proletariato italiano, attraverso il suo partito di riferimento, ovvero il partito socialista, approdare alla gestione diretta del potere. Molte le ragioni di questa sua posizione. Anzitutto un radicato storicismo marxista di stampo evoluzionistico, in base al quale l’egemonia delle classi finisce quando esse hanno esaurito il loro compito storico, e Turati ritiene, sia prima che dopo il conflitto mondiale, che i compiti della borghesia e del capitalismo in Italia siano tutt’altro che esauriti. Sostituire la borghesia nell’impresa di gestire le contraddizioni, in particolare dell’infuocato dopoguerra, appare a Turati non solo sbagliato, ma pericoloso per il futuro stesso del socialismo, che non può, a suo modo di vedere, diventare il cane da guardia di un capitalismo in difficoltà […]. E’ questo il contesto in cui nasce Rifare l’Italia. Un contesto di ripetute tentazioni ministeriali, di offerte a mezza bocca e di rifiuti ufficiosi. Turati guarda con simpatia al tentativo del governo Nitti,
cultura
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delle alternative prospettate dal vecchio socialista, anche se soddisfacevano in qualche modo alcune delle esigenze del suo programma.
Nella pagina a fianco, Filippo Turati e, sotto, Giovanni Giolitti. Sopra, un’immagine di un acquartieramento militare durante la Prima guerra mondiale. Sotto, la moglie di Turati, Rosa Luxemburg, e un aereo da Guerra. A destra, Karl Marx. che si consuma tra maggio 1919 e giugno 1920, un governo di cui condivide il forte impegno in senso produttivistico (‘consumare di meno, produrre di più’), che riprenderà poi nel suo famoso discorso. Di fronte alla rapida caduta di Nitti, per l’improvvida deci-
pensa a un impossibile connubio Giolitti-Nitti) perché superino le rivalità e collaborino alla salvezza dell’Italia, ma è anche un sonoro rimprovero al nullismo propositivo del minimalismo socialista, unito all’invito a sostenere quelle forze liberali che fossero in grado di farsi carico delle esigenze del momento. Nel discorso non manca il senso della drammaticità del-
Quello che sfuggiva al leader del riformismo era che, nelle sue componenti ideologicamente più radicali e percentualmente per molto tempo maggioritarie, soprattutto in Italia, alla prova dei fatti, i partiti della sinistra si sarebbero rivelati (e ancora si rivelano) altrettanto conservatori dei proprietari indicati da Turati, mentre solo i riformisti avrebbero mostrato sensibilità per i problemi dell’innovazione. E’ il problema attualmente ancora all’ordine del giorno in un’Europa sempre più statica e conservatrice, e sempre meno innovativa e concorrenziale nell’economia globalizzata. In questa Europa, come è stato fatto rilevare di recente da numerosi commentatori politici, la cosiddetta ‘destra’ tende a farsi interprete, con maggiore coerenza e nella maggior parte degli scenari, delle esigenze di cambiamento e di innovazione, mentre la cosiddetta ‘sinistra’ propende tendenzialmente per politiche di conservazione e di mantenimento dello status quo. Diagnosi esatta, anche perché, naturalmente, le componenti autenticamente riformatrici sono uscite da tempo (o sono state emarginate) dalla sinistra, a definitiva conferma che le categorie di destra e di sinistra da molti anni, ma oggi più che mai, non coincido-
Il suo lungo intervento in Parlamento fu anche un sonoro rimprovero al nullismo propositivo del minimalismo socialista dell’epoca sione di aumentare il prezzo del pane, e al reincarico a Giolitti, che si presenta alla Camera il 24 giugno, con un discorso prevalentemente improntato al risanamento fiscale, che ha perduto quegli accenti riformatori di ampio respiro che avevano caratteriz-
zato il programma enunciato a Dronero nella campagna elettorale dell’anno precedente, Turati decide che è arrivato il momento di pronunciare l’intervento a cui sta lavorando ormai da diverse settimane, soprattutto per sollecitazione della Kuliscioff […].
Rifare l’Italia, scritto in poco più di un mese, ma pensato certamente da molto più tempo, vuole essere la risposta riformista a tutto questo. Come è stato detto, non è un programma di legislatura, ma un disegno complessivo di trasformazione del Paese che può essere realizzato solo da una o più generazioni di volenterosi, mobilitatati tra imprenditori, tecnici e operai. Il discorso è allo stesso tempo un invito alle forze migliori del mondo liberale (Turati
l’ora, ma è una drammaticità legata al timore di un collasso produttivo e istituzionale del Paese, nella quale risulta assente qualsiasi accenno di preoccupazione per l’eventualità che la crisi trovi una sua soluzione organica in senso reazionario e, alla lunga, fuori dell’ambito parlamentare. Il fascismo, come si è detto, non rappresenta un serio pericolo per Turati, come in realtà non lo rappresentava per nessun leader del mondo politico di quegli anni […]. Gli avvenimenti successivi si sarebbero incaricati di dare una risposta, imprevista e imprevedibile, anche se parziale e non certo indolore, alle “necessità” e agli interrogativi posti da Turati. L’intervento statale e la modernizzazione realizzati dal fascismo, a prezzo della perdita delle libertà politiche, non rientravano in nessuna
no più, rispettivamente, con quelle di conservazione e innovazione: una lezione che il vecchio Turati non poteva certo prevedere, ma che le sue analisi, rilette alla luce della realtà contemporanea, contribuiscono ancora oggi a confermare.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Permesso a punti per gli immigrati.Siete d’accordo? UN COLPO DI SOLE, MA L’ESTATE È FINITA! Tra i vari colpi di testa su cui si plasma la politica italiana, eccone uno nuovo che va ad aggiungersi a tutti gli altri: è il nuovo progetto di legge per la sicurezza presentato dalla Lega Nord. Un permesso di soggiorno a punti, ”formato patente”. Chi vìola le leggi o non è in regola perde il bonus e gli vengono sottratti dei punti dai suoi 10 crediti di partenza. All’esaurimento punti, scatta l’espulsione. Mentre chi si comporta bene e fa il bravo ottiene nuovi punteggi. Insomma una specie di ruota della fortuna. Un gioco di società. Va bene chiedere il rispetto delle regole. Va bene esigere l’integrazione e la buona condotta. Va bene inasprire le condanne in caso di violazioni di domicilio, furto, rapine e minacce.Va bene non consentire i matrimoni o l’assistenza sanitaria se prima non si esibisce il permesso di soggiorno. Ma siamo sicuri che bastano 10 crediti su una carta per inibire gli impulsi criminali? O per regolamentare un Paese come il nostro, invaso quotidianamente da extra comunitari senza alcuna intenzione di integrarsi. E senza la minima conoscenza della lingua italiana? Insomma, nulla contro la legge proposta. Mi sembra un giochetto perverso. Per giunta ridicolo.
Dora Megale - Verona
LA DOMANDA DI DOMANI
Francesca Mambro ottiene la libertà condizionata. Che ne pensate? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
È UNA POLITICA DA STRAPAZZO E LA LEGA NE È LA CAPOFILA Ora si capisce perché nessuno prende sul serio quello che avviene in Italia. In Austria basta un Haider qualsiasi o uno Strache da quattro soldi per agitare la stampa continentale. Da noi nessuno prende sul serio questa politica un po’ stracciona che non sa mai cosa inventarsi per far vedere che riesce ancora a pensare. Un permesso di soggiorno a punti come la patente di guida: chi si integra nella società italiana vede accresciuto il punteggio, chi viola le leggi o non è in regola perde punti fino a esaurimento. Un filone questo della politica-cretin/creativa che andrebbe sfruttato di più. Per esempio si potrebbe pensare ad un superenalotto con cui finanziare la riforma della Costituzione. Giunti a questo punto un altro passo molto intelligente sarebbe quello di affidare al gratta e vinci la scelta di quale parte della Costituzione riformare: prima la prima o prima la seconda, oppure sarebbe istituzionalmente più lungimirante fare il contrario? Che dire poi della proposta di matrimonio fatta dai rappresentati del nostro estero vicino? Un clandestino si può sposare solo se o quando sarà in regola. In caso affermativo il clandestino dovrà tornare in Patria per richiedere il visto di ingresso in Italia. Diciamo che dovrà trascorrere un periodo di circa un anno e mezzo (dopo l’emanazione del decreto-flussi). Questo periodo è altamente deleterio se si pensa che la politica della famiglia richiede, tra gli altri, un aumento della natalità. E poi perchè fare delle discriminazioni? Perché, per sposarsi, il cittadino extra Ue deve avere per forza un lavoro mentre il cittadino italiano può benissimo essere un disoccupato?Tralascio, per brevità, gli altri aspetti di incostituzionalità dell’ emendamento proposto. Affidarsi ai bookmakers per capire se la proposta passerà o meno il vaglio della corte Costituzionale. Della quale nel frattempo Emilio Fede sarà diventato presidente.E via così, cazzeggiando fino alla morte. Del resto chi non si ricorda la famosa: ”Sarà una risata che vi seppellirà”? Siamo sulla buona strada...
I CIRCOLI LIBERAL DELLA BASILICATA ADERISCONO ALLA MANIFESTAZIONE ”NO ALLE MAFIE” «Risvegliamo le coscienze. Uniti e senza omertà si può contrastare la lotta alle mafie anche in Basilicata». È quanto ha dichiarato il coordinatore regionale dei Circoli Liberal della Basilicata, Gianluigi Laguardia preannunciando l’adesione dei Circoli Liberal alla grande manifestazione popolare “No alle mafie”, promossa per oggi a Rionero in Vulture, dall’Associazione Libera. Secondo Laguardia, «è dovere di tutte le Istituzioni, delle forze politiche, delle organizzazioni sindacali e di categoria, del mondo associativo e di tutti i cittadini rompere il muro del silenzio e non rimanere più indifferenti anche alla luce dei recenti fatti di criminalità accaduti a Rionero ed in altri centri, scendendo in piazza per condannare le mafie e contrastare, al fianco delle forze di polizia e degli organi inquirenti le organizzazioni criminali che operano da anni anche sul nostro territorio, per salvaguardare la dignità di tutti i Lucani». Secondo i Circoli Liberal, i silenzi non sono più
UNA VITA DA SUGHERO Chissà quante bottiglie di vino avrà dovuto stappare Saimir Strati per realizzare la sua ultima fatica: il mosaico di sughero più grande del mondo. 229 mila tappi di sughero, disposti su una parete di circa 96 metri quadrati a Tirana
IL SISTEMA POLITICO AMERICANO È UN MODELLO DA SEGUIRE È bello seguire la politica americana e i dibattiti tra i due aspiranti presidenti. A differenza dell’Italia in cui tutti sono contro tutti, tutti litigano, si offendono, parlano l’uno sull’altro, sono confusi, vogliono in sostanza tutto e il contrario di tutto, e si rendono nemici persino all’interno dello stesso partito; negli Stati Uniti è tutto molto più semplice, lineare. Schematico. E allo stesso tempo il sistema politico lascia più spazio al pathos, alle emozioni e al coinvolgimento. Martedì sera durante il dibattito in Tennesse Mc Cain ha detto: Vi prego, non votate «quello lì» riferendosi a Obama. Forse è stata la frase più offensiva della serata. E Obama per tutta risposta, nessuna in-
dai circoli liberal
Antonello Farabello - Maropati (RC)
condivisibili dopo che anche la Dia nel predisporre la relazione semestrale gennaio-giugno 2008 emerge una situazione allarmante per quanto concerne la regione Basilicata: «crocevia di traffici illeciti posti in essere da personaggi, consolidate aggregazioni criminali di stanza nelle regioni limitrofe che sovente sanciscono nuove aggregazioni per lo sviluppo di traffici illeciti», oltre che «nella regione è in atto una riviviscenza criminale che non può e non deve essere letta come fenomeno episodico ma che ha le sue radici nei reiterati atti di criminalità organizzata consumati nel corso di un lustro nel territorio, come conseguenza di una rinnovata e più cruenta guerra di mafia». Alla manifestazione di oggi a Rionero, la delegazione dei Circoli Liberal di Basilicata vedrà la partecipazione dei simpatizzanti dei Circoli Liberal di Potenza, Matera, Melfi, Lavello, Vietri di Potenza, Filiano, Genzano, Maratea, Montescaglioso e Policoro. Inoltre, conclude la nota – nelle prossime settimane i Circoli Liberal si renderanno promotori di organizzare sul territorio alcuni
vettiva. Nessun’offesa personale o attacco. Sa tener testa al vecchio stizzoso, che teme gli venga rubato il trono in fatidico 4 novembre. Ormai tutti i sondaggi danno Obama per vincitore. E poiché come lui stesso ha detto «l’America è il Paese più straordinario del mondo», allora che sia straordinario anche il suo Presidente. Troppi soldi sono stati spesi per la guerra in Iraq. E l’America ha bisogno di concentrarsi su se stessa più che sulle sue passate manie di protagonismo e distruzione. Le assicurazioni sanitarie, la crisi economica, le tasse, l’istruzione. Basta concentrarsi sulla guerra. E sono convinta che Obama porterebbe solo una ventata di sano cambiamento a un’America ormai stanca di troppe cose.
Cristiana Mereu - Roma
incontri nel corso del quale verrà presentato e commentato il libro scritto dall’infaticabile don Marcello Cozzi, «Quando la mafia non esiste», per aprire un serio contraddittorio, con quanti, forse, inopportunamente hanno tentato di sottovalutare i tanti episodi di criminalità e di malaffare verificatisi in una Lucania che non può essere più considerata come “Isola felix”. Gianluigi Laguardia COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL BASILICATA
APPUNTAMENTI MARTEDÌ 14 OTTOBRE, ALLE ORE 18, PRESSO LA SEDE CIRCOLO DELLA VELA DI BARI Conferenza stampa con Magdi Cristiano Allam sul suo ultimo libro “Grazie Gesù” .
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog A volte anche una parola fa bene Se solo sapeste, caro signor Browning, quante volte vi ho scritto… non questa lettera che mi accingo a scrivere, ma un’altra lettera migliore nel bel mezzo del mio silenzio, non pensereste neanche per un momento che il vento di levante, con tutto il male che mi fa, possa commettere il male gravissimo di spegnere la luce del pensiero di voi nella mia mente questo, infatti, non lo può proprio fare. Una volta ho impugnato la penna per scrivervi, e perché mi sia caduta di mano non ve lo so dire. E poi vedete… tutto il vostro scrivere non muterà il vento! Un giorno mi avete augurato ogni bene allo scoccare delle dieci – sì, e vi assicuro che quel giorno mi sentivo meglio – e non devo dimenticare di dirvelo anche se è passato tanto tempo. E, quindi, la logica mi ha costretto a credere che da allora non avete più pensato a me… a meno che non mi abbiate augurato i venti di levante! Elizabeth B. Barrett a Robert Browning
PARLANDO DELLA SCUOLA Nell’intervista pubblicata su liberal di sabato scorso, il professor Panebianco sostiene che, quando era ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer ebbe il merito di un disegno riformatore «in base al quale veniva esaltata la professionalità del corpo docente con dei seri criteri di selezione» e che avrebbe significato «la possibilità per gli insegnanti di fare carriera». Non è la prima volta che mi capita di leggere un giudizio così positivo su una proposta che significativamente fu ribattezzata ”concorsaccio” e poi abbattuta, nel febbraio del 2000, dal più grande sciopero degli insegnanti nella storia della scuola italiana. Sono d’accordo con Panebianco che i docenti italiani hanno molto spesso riflessi assai conservatori rispetto a ipotesi di cambiamento dello status quo, specie su questioni relative alla meritocrazia e alla piena assunzione delle proprie responsabilità professionali. In quel caso però sono convinto che la protesta avesse delle buone ragioni e che gli insegnanti fecero bene a bocciare la proposta di Berlinguer che, nel suo insieme, non era in realtà una co-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
9 ottobre 1701 La ”Collegiate School of Connecticut” (in seguito ribattezzata Università di Yale) ottiene uno statuto 1874 Con la firma del Trattato di Berna viene istituito quello che è oggi l’Unione Postale Universale e da allora questa data diventerà la Giornata mondiale della Posta 1877 Onori militari e sepoltura del Generale Custer caduto assieme ai suoi soldati nella battaglia di Little Bighorn più di un anno prima 1940 Seconda guerra mondiale: Battaglia d’Inghilterra - Durante un raid aereo notturno della Luftwaffe 1963 Strage del Vajont: nell’Italia nord-orientale, oltre 2.000 persone vengono uccise quando una frana caduta nel bacino della diga del Vajont produce una gigantesca onda che supera la diga e si riversa a valle 1967 Il giorno dopo la sua cattura, Che Guevara viene giustiziato per aver incitato la rivoluzione in Bolivia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
sa seria. Basti pensare che la proposta, inserita nel Contratto Nazionale 1998-2001, offriva ad una quota predeterminata di docenti “bravi” (il 20%) la possibilità di un incremento stipendiale, previo superamento di una procedura concorsuale per titoli e prove, continuando a fare lo stesso identico mestiere di prima. Sono fra quanti sostengono la necessità e l’opportunità di una carriera per gli insegnanti, ma finalizzata a ricoprire nell’ambito della scuola dei ruoli diversi dall’insegnamento in senso stretto, ruoli che oggi o non esistono o sono affidati alla disponibilità dei volenterosi. La stessa procedura concorsuale era molto discutibile (Riccardo Chiaberge sul Corriere la definì “un’avvilente lotteria”), essendo fra l’altro basata su una prova a quiz e non essendo prevista alcuna valutazione di quanto bene o male un docente avesse sin lì insegnato e se avesse o no ottemperato ai propri doveri, sicché un possibile esito di quella selezione poteva anche essere la bocciatura di un buon insegnante e l’aumento di stipendio ad un assenteista. Del resto quella proposta, guarda caso (direbbe il professor Panebianco), fu sottoscritta da tutti i sindacati confederali, che lo stesso professore spesso giustamente addita tra i massimi responsabili delle condizioni in cui oggi versa la scuola italiana e contrari, per connaturato egualitarismo, a qualsiasi vera forma di carriera, così come a colpire anche le più gravi forme di demerito.
Andrea Ragazzini - Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità
“
Il vero valore di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso egli è giunto a liberarsi dall’io ALBERT EINSTEIN
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani,Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Roselina Salemi, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LA NUOVA SARAH PALIN Sarah Palin aveva dato l’impressione di essere una persona poco esperta di politica estera nelle interviste televisive della ABC con Charles Gibson e della CBS con Katie Couric. Anche fra i repubblicani stava iniziando a serpeggiare il presentimento di avere davanti un soggetto inadatto per ambire alla Vice Presidenza degli Stati Uniti D’America. L’immagine che però la Palin è riuscita a costruire il 2 Ottobre a St Louis, durante il dibattito con Joe Biden, è risultata completamente diversa. Vedere il governatore dell’Alaska prendere intelligentemente per il «bavero» Biden sulle armi nucleari, riuscire ad anticiparlo sottolineando la pericolosità dell’Iran rispetto ad una possibile bomba e poi ribattere in maniera perentoria alla moderatrice Gwen Ifill di poter parlare dell’Afghanistan, è stata una sorpresa. La Palin è risultata concreta ed è riuscita, lavorando sulle emozioni, ad essere più comunicativa del suo antagonista democratico. Sapeva, ben prima di iniziare il dibattito, di poter gestire tutte le questioni fin troppo tecniche poste dalla moderatrice (un po’ di parte) Ifill. Ed è riuscita a convincere proprio sui temi chiave di Biden. Questa è stata la sua grande vittoria che va ben al di là dello scoreboard finale perché ora il partito conservatore sa di poter contare su una “Vice” di tutto rispetto. George W. Bush vinse contro Kerry proprio grazie alla «pancia» del Grand Old Party. Lo stesso che oggi si è ricreduto su Sarah «barracuda». La Palin ha superato a pieni voti il test contro Biden ed oggi il partito repubblicano sa di poter contare su
una candidata di razza. Certo Sarah non poteva dimostrare la stessa preparazione approfondita di Biden, il quale ha una grande esperienza proprio sulle questioni di foreign policy. Nonostante questo la Palin ha sfoggiato una buona cultura su tutti i temi esposti e su ogni questione, nazionale ed estero, che ha caratterizzato il lungo dibattito di novanta minuti. Il governatore dell’Alaska è riuscita ancora una volta ad elettrizzare la base del partito, così com’era successo alla convention repubblicana. La sua performance è stata però abbastanza incisiva per cambiare la direzione di una campagna che vede Barack Obama ancora in vantaggio su McCain? Potrebbe anche se i sondaggi generali danno sempre il Sen. dell’Illinois avanti di cinque punti percentuale e di parecchi collegi nella conta degli swings state. La Palin, nel dibattito con Biden, ha dato l’idea di aver tenuto in mano meglio la situazione. Un’immagine completamente diversa rispetto alle sue prime interviste non riuscite granchè bene. Ronald Reagan nel dibattito con Carter nel 1980 – riuscì a convincere gli americani di non essere un guerrafondaio. Oggi la Palin, grazie ad un dibattito che poteva essere devastante per lei, ha dimostrato di poter essere un buon Vice Presidente. Sempre col sorriso sulla labbra, come alla convention, Sarah Palin ha dato prova di gran sangue freddo trovandosi davanti ad un «vecchio marpione» come Joe Biden, il quale ha dovuto sudare «sette camice» per uscire dal vortice in cui Sarah l’aveva costretto. «Vorrei avere altre occasioni come questa Senatore».
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