QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Lo studioso americano prevede un ritorno alle origini del capitalismo
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di e h c a n cro
Senza libertà di mercato non esistono gli Stati Uniti
di Ferdinando Adornato
di Michael Novak
REPUBBLICA O OLIGARCHIA? Mentre continua il braccio di ferro su Rai e Consulta, un ampio arco di forze politiche lancia, dall’assemblea di liberal, una campagna contro la riforma della legge elettorale del governo per riconsegnare il potere ai cittadini
Carta straccia Nei partiti non c’è democrazia. Gli elettori non possono scegliere. Così la Costituzione non conta più niente alle pagine 2 e 3 Il voto sul Consiglio di sicurezza
Verso la rottura sulla Vigilanza Rai
Il Commissario Dimas contro i dati di Confindustria
Ahmadinejad Veltroni e Di Pietro sconfitto all’Onu. ormai sono Ma non troppo separati in casa
I veti italiani sull’ambiente non piacciono all’Europa di Enrico Singer
di Osvaldo Baldacci
di Errico Novi
A Teheran non è riuscito lo scacco matto: l’Onu ha ammesso la Turchia nel Consiglio di sicurezza. Ma per l’Iran va bene lo stesso: la bocciatura rilancia infatti la propaganda anti-Usa.
C’è una rottura, forse definitiva, nell’orizzonte di Walter Veltroni e Antonio Di Pietro. Il segretario del Pd è pronto a scaricare Orlando e a spingere Paolo Gentiloni alla presidenza della Vigilanza Rai.
Il commissario Ue all’ambiente, Stavros Dimas, si è detto “allibito” per le obiezioni avanzate dall’Italia (in particolare da Confindustria) sul pacchetto di misure europee sul clima che prevedono un taglio alle emissioni di Co2.
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SABATO 18 OTTOBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
200 •
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uando è nata l’America, la maggior parte delle società erano organizzate sulla base o dell’aristocrazia terriera o di una forte struttura militare. I Padri Fondatori americani rifiutarono questi modelli e sostennero strenuamente che una nuova società - costruita sul libero commercio - avrebbe prodotto un più alto livello di virtù e si sarebbe rivelata più sicura e più impegnata nel rispetto delle leggi. Una società del genere si sarebbe dedicata non all’inseguimento del potere ma alla creazione dell’abbondanza. Come constatò Alexander Hamilton ne Il Federalista: «La prosperità del commercio è oggi percepita e riconosciuta da tutti gli uomini di stato illuminati come la più utile e la più produttiva sorgente di benessere nazionale, ed è di conseguenza diventata il principale oggetto delle loro preoccupazioni politiche». s eg u e a pa gi n a 1 2
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Manifestazioni contro la Gelmini Napolitano: non si può dire solo “no”
Perché bisogna ascoltare chi va in piazza (anche se sbaglia) di Giancristiano Desiderio o ha detto anche il presidente Napolitano: non si può dire solo di no. In questa chiave, e per una serie eccessiva, parallela di no, il problema della scuola è stato rapidamente trasformato in una questione sociale, sindacale e politica. Se il ministro Gelmini, scrivendo il decreto, avesse potuto intuire a che cosa sarebbe andata incontro, forse avrebbe modificato il suo modo di agire. Ma ormai la frittata è fatta. Il decreto, che prevede provvedimenti sbagliati ma che nella sostanza non mette e non toglie, è fatto e approvato, mentre centinaia di migliaia di studenti sono per strada a contestare senza sapere cosa.
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Due proposte dalla manifestazione di liberal: un’assemblea parlamentare dei diversi gruppi e un comitato comune
Chi ha paura della democrazia? ROMA. Ci voleva uno scossone forte, per rianimare il dibattito. Una minaccia grave che spalanca le porte alla monarchia, come avverte Pier Ferdinando Casini. Nella stracolma sala conferenze di piazza Montecitorio, liberal e l’Udc riuniscono buona parte dell’opposizione e persino qualche spicchio di maggioranza per esprimere “Una preferenza per la democrazia”. Che coincide con il no al tentativo di riformare la legge elettorale per le Europee già avviato dal Pdl. Si ritrovano concordi, con il Centro, il Pd e l’ex Sinistra arcobaleno. Francesco Rutelli, Franco Marini ed Enrico Letta intervengono personalmente alla manifestazione, aperta al pubblico e andata avanti per quasi tre ore nel pomeriggio di ieri. Walter Veltroni invia un lungo messaggio che il dirigente centrista Angelo Sanza legge dal palco. «È una battaglia importante per la democrazia», spiega il segretario del Pd, che stronca il sistema di voto delle Politiche (riproposto per il Parlamento di Strasburgo nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio).
Ha tutta l’aria, questa battaglia per difendere il voto di preferenza ed evitare l’innalzamento della soglia al 5 per cento, di essere la prima vera occasione di conflitto serio e forte di questa legislatura. Tanto che il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa propone
Rutelli: «Si tratta di una sfida cruciale. Rispetto alla riforma voluta dal Pdl, è più democratica l’elezione di Miss Italia» di costituire «un’assemblea formata da tutti i parlamentari contrari alla riforma presentata dal Pdl», e Casini già prepara un comitato che darà forma stabile alle iniziative dell’opposizione. «Non si tratta di una riunione funzionale ad alleanze politiche», chiarisce nella relazione introduttiva Ferdinando Adornato, «ma di una questione per far prevalere la democrazia degli elettori sull’oligarchia». In discussione c’è, spiega il presidente di liberal, «la violazione
Con gli elettori contro le oligarchie: nasce un nuovo fronte trasversale di Errico Novi
Il leader centrista: uno scontro duro sia in Aula sia nel Paese
«Una battaglia anche per chi vota Pdl» colloquio con Pier Ferdinando Casini di Francesco Capozza
ROMA. «L’abolizione delle preferenze alle elezioni europee è iniqua e va combattuta perchè l’Italia non è una monarchia in cui due persone sole possono scegliere tutti i deputati». Così Pier Ferdinando Casini ha motivato la battaglia, lanciata dall’Udc, contro la riforma del sistema elettorale europeo voluta dal governo e dalla maggioranza di centrodestra. «Si vogliono espropriare i cittadini della libertà di scegliere il proprio parlamentare europeo» ha sottolineato il leader Udc nel suo intervento al meeting «Una preferenza per la democrazia» organizzato a Roma dalla fondazione liberal di Ferdinando Adornato. «La nostra non è una monarchia in cui i soli leader di partito possono scegliere tutto - ha insistito Casini - le forme monarchiche sono passate di moda in tutta Europa e ci sarà battaglia anche nel Paese perchè i cittadini non accettano monarchie». Per Pier Ferdinando Casini, la norma «è profondamente iniqua, ma la dice lunga sulla deriva che sta prendendo la nostra democrazia». All’osservazione che la Pdl sta bocciando in commissione tutti gli emendamenti dell’Udc (oltre 300, il numero più consistente tra quelli presentati da tutte le forze politiche), e che altrettanto si prepara a fare per quelli del Pd e di IdV, Casini ha ribadito: «Ci sarà una dura battaglia in aula, ma anche nel Paese. Il voto di preferenza interessa ai cittadini italiani che vogliono scegliere i loro rappresentanti. È un fatto di libertà e di democrazia, ma è anche il problema del modo in cui vogliamo vivere la partecipazione democratica». «Secondo lei - ci incalza il leader Udc - è una cosa che capita in altri paesi europei? Dove, peraltro, ci sono partiti veri, radicati, che fanno le primarie quelle vere - e che non sono costituiti da atti notarili». E allora, a chi gli domanda se siamo ad un presidenzialismo di fatto, la risposta di Casini è perentoria: «no, il presidenzialismo è un evento democratico mentre qui siamo, nei fatti, ad una oligarchia». Presidente, perché l’Udc è così rigida nel voler mantenere le preferenze? Noi siamo favorevoli anche alla soglia di sbarramento al 5%, ma sulle pre-
ferenze non arretriamo di un millimetro. A chi obbietta che quasi in nessun Paese europeo esistono le preferenze, io rispondo che è vero. Ma sono Paesi dove i partiti non nascono per atto notarile, che spesso hanno una loro storia ed una loro tradizione di congressi e di selezione trasparente della loro classe dirigente. Qui, invece, si vuole imporre agli elettori chi li deve rappresentare. Ma le dico di più: lo si vuole imporre anche ai partiti e non a caso molti esponenti del Pdl stanno firmando la nostra proposta sulla reintroduzione delle preferenze per l’elezione del Parlamento italiano. E adesso l’attenzione si sposta sul Parlamento europeo… Sì, poi si passerà alle Regioni, alle Province, ai Comuni, vedrà. Sarò chiaro: noi non poniamo nessun aut aut, non diciamo o le preferenze o niente. Noi chiediamo a governo e maggioranza di confrontarsi su una proposta che consenta ai cittadini di eleggere chi li rappresenta. Anche il Pd è compatto sulle preferenze, lo dimostrano gli interventi di oggi fatti da Enrico letta, Francesco Rutelli, Franco Marini, Franco Bassanini. C’è però chi crede che siano solo dichiarazioni di facciata. Lei che ne pensa? Io non faccio lo psicologo, non guardo al retropensiero vero o presunto di colui con il quale interloquisco. Credo alle parole dette pubblicamente e da queste si evince nettamente che il Pd, su questo tema, è schierato compattamente con noi. Comunque, per fugare ogni dubbio, diamo seguito alla proposta fatta qui al meeting organizzato liberal: creiamo un comitato formato da parlamentari ed extraparlamentari di tutte le formazioni politiche che vogliono raggiungere il medesimo scopo, evitare che ai cittadini, anche a quelli del Pdl, sia scippato il diritto di scegliersi i propri rappresentanti al parlamento nazionale come pure in quello europeo. Crede ci sia ancora spazio per una trattativa che faccia ritirare al governo la sua proposta di legge? Io lo spero di cuore. L’esperienza di questi mesi ha dimostrato che il confronto tra maggioranza e opposizione è indispensabile.
di un principio costituzionale, quello sancito dall’articolo 49 della Carta che riguarda la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica». Abbiamo a che fare con «un presidenzialismo strisciante, che non è legato alla supposta intenzione di Berlusconi di introdurre un regime, ma perché l’inerzia degli eventi rischia di condurre effettivamente a questo. In più, un si-
Enrico Letta: «È un vero esproprio nei confronti di tutti i cittadini. Se continua così, Berlusconi sbatterà contro un muro» stema che elimina di fatto la partecipazione e con essa la passione civile ci sottrae il gusto stesso di far politica», dice Adornato.
L’allarme scatta un attimo prima che scada il tempo utile. A ricordarlo tra gli altri è un battagliero Clemente Mastella, che nota un ulteriore paradosso costituzionale: «Dall’8 novembre sarà possibile raccogliere le firme per i candidati alle elezioni del’Europarlamento: di fatto quindi il Pdl intende modificare la legge a campagna elettorale già in corso». Rutelli fa osservare ancora un’altra, pesante contraddizione: «In tutto il Continente, anche dove il voto per il Parlamento nazionale è regolato secondo un principio fortemente maggioritario, il sistema elettorale per le Europee ha un’impostazione proporzionale, perché è avvertita la necessità che tutte le culture politiche siano rappresentate». È poi, ricorda Rutelli, «in campagna elettorale non si era detto che le leggi elettorali, come le riforme costituzionali, non vanno fatte dalla sola maggioranza?». Ecco perché quella per le preferenze «è una battaglia democratica di prima grandezza: d’altronde non possiamo negare», dice ancora il presidente del Copasir, «che questo tentativo di riforma è concepito come un’ulteriore tappa verso il bipartitismo, idea che è la più sbagliata per l’Italia, che è in contrasto con la natura stessa del nostro Paese. Rispetto a questa rifor-
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Serve un rapporto sano fra partiti e rappresentanza
La Repubblica dei “nominati” di Renzo Foa uando nel 1991 votai il mio «sì» alla preferenza unica, nel primo appuntamento dell’ultima grande stagione referendaria, non avrei mai immaginato che nel 2008, dopo tanti anni, attorno alla possibilità di segnare una o più preferenze sulla scheda elettorale si sarebbe ingaggiata un’altra sfida sulla natura dei partiti, sulla «qualità» degli eletti, cioè sui presupposti fondamentali della democrazia politica. Allora sembrava che questi presupposti potessero essere salvaguardati con un’operazione di risanamento delle forze politiche, con un rilancio della partecipazione e della presenza della società. E, in maggioranza, ci muovemmo in questa direzione. Così nelle elezioni politiche rinunciammo non solo alle preferenze multiple, considerate fonte di corruzione e di spreco, ma anche alla preferenza singola, preferendo i collegi uninominali, con candidati conosciuti e in concorrenza diretta tra loro. E scegliemmo il bipolarismo, considerandolo come la soluzione della paralisi italiana.
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Qui sopra, il premier Silvio Berlusconi. A destra, il segretario del Pd Walter Veltroni. Nella pagina a fianco, il leader dei centristi Pier Ferdinando Casini
ma è più democratica l’edizione di miss Italia…».
L’ironia corrisponde all’atteggiamento molto determinato che si nota in tutti gli interventi, compresi quelli delle forze che non fanno parte dell’attuale Parlamento nazionale. Sono sferzanti le parole di Francesco Storace e del verde Angelo Bonelli, caustiche quelle di Bruno Tabacci («Berusconi è determinato, certo… ma non bisogna aver paura di condurre battaglie per resistergli, anche quando si rischia di fare solo testimonianza) e accorate quelle del prc Franco Giordano: «Credo che si possa arrivare anche a un blocco del Parlamento. Ritengo che Rifondazione, seppur dall’e-
sterno, possa dare un’adesione sostanziale all’iniziativa dell’Udc e di liberal». Lucido e decisissimo è Enrico Letta, che rende perfettamente il senso e il peso dell’intesa trasversale maturata ieri pomeriggio: «Noi siamo molto determinati, se davvero lo è anche il premier, andrà a sbattere contro un muro». Non sono solo auspici, a giudicare dal clima di ieri, che Letta riscalda con un avvertimento sul percorso parlamentare: «Questa paventata riforma è un esproprio e un modo per rendere sempre più debole il Parlamento. Sarebbe assai grave se in Aula, nel momento in cui fossimo chiamati a votarla, non si garantisse lo scrutinio segreto».
Adornato: «C’è il rischio di violare l’articolo 49 della Costituzione che garantisce la libera partecipazione»
Ora, dobbiamo giungere alla conclusione che questo percorso è servito a poco se non a nulla. Dopo la crisi esplosa all’inizio degli anni Novanta e dopo l’implosione provocata da «mani pulite», la ricostruzione del sistema politico non solo è incompiuta – dato che è difficile misconoscere – ma è soprattutto ingannevole. Infatti ingannevole va considerato il bipartitismo tanto esaltato in questo ultimo anno. Se ci si chiede cosa è il Pdl, il Popolo delle libertà, fondato da un Silvio Berlusconi in piedi sul predellino della sua auto circa un anno fa, non è facile trovare una risposta. Non è un partito, neanche nella sua accezione più moderna, perché non ha alcuna caratteristica di un’associazione fra uomini liberi decisi a stare insieme fra loro attraverso la discussione, il confronto e la conta delle volontà. Resta essenzialmente un cartello elettorale, costituito per vincere le elezioni, e fondato su un incontro abbastanza improvvisato tra Forza Italia, Alleanza Nazionale e un po’di cespugli. Un cartello elettorale dove ogni decisione è nelle mani del socio di maggioranza dell’impresa, Berlusconi, che ha certo il merito di aver vinto le elezioni e di esprimere un forte carisma, ma che è pur sempre una singola persona nelle mani della quale sono concentrati tutti i poteri, a cominciare da quello di scegliere gli eletti, dal primo all’ultimo, di nominarli, come ormai correntemente si dice. Se ci si chiede cosa è il Pd, il Partito democratico, la risposta è forse più facile. Forse per la natura delle sue componenti, i post-comunisti e i cattolici ex democristiani, c’è una maggiore consuetudine alla dialettica interna e c’è anche una maggiore
abitudine al confronto, visto che Walter Veltroni è stato scelto come segretario attraverso un meccanismo elettorale che ha coinvolto alcuni milioni di militanti e visto che il metodo delle primarie è stato deciso anche in altre circostanze. Ma anche nel Pd è abbastanza facile scorgere, pur dietro tante divergenze, la cappa leaderistica che lo avvolge così come è facile avvertire che il regime correntizio assomiglia più ad un incontro di potere tra lobbies che ad un confronto reale tra diverse ipotesi. Il mancato decollo della principale forza di opposizione sta proprio in questo: nel non rappresentare una reale alternativa, nonostante intenti dichiarati in questa direzione, all’immagine di chiusura data dal Pdl e dai suoi alleati.
La crisi della politica italiana sta in gran parte qui: nel fatto che i partiti, estintisi negli ultimi quindici-vent’anni, non solo non sono stati ricostruiti, ma soprattutto i soggetti che continuano a chiamarsi «partito» non sono certo centri di vita democratica e dunque non promuovono la ricostruzione o – se si vuole essere meno pessimisti – l’allargamento della democrazia nella società. Con il risultato, che abbiamo sotto gli occhi e che è fonte di diffuso malessere, perché non consente ai singoli cittadini di partecipare all’elezione dei proprio rappresentanti, scegliendoli direttamente. Probabilmente neanche i padri costituenti, quando formularono l’articolo 49 della Carta (che recita così: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»), avrebbero potuto immaginare che sessant’anni dopo i partiti si sarebbero ridotti nelle condizioni in cui sono oggi e che gli eletti, previsti «dal basso», sarebbero stati trasformati invece in «nominati dall’alto». La questione della preferenza – che si vorrebbe cancellare nell’occasione delle prossime elezioni europee – va dunque aldilà del problema in sè, che resta comunque controverso e complicato, con molti e validi argomenti contrari a fronte dei molti e validi argomenti favorevoli. La questione è ormai la metafora della crisi della politica italiana e, più in generale, dell’erosione della democrazia a cui stiamo assistendo e che, invece, ha bisogno di una forte reazione contraria. Non si tratta del solito e vecchio allarme che da tanto tempo sentiamo lanciare contro il «berlusconismo». È un problema ben diverso, perché finisce con il coinvolgere tutti – purtroppo anche il Pd – e sta diventando un ulteriore elemento di paralisi e di freno dell’intera società.
Sia il Pdl sia il Pd sono preda del vizio di fondo sul quale sono nati: un assoluto eccesso di leaderismo
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economia
Il pericolo è che il ritrovato keynesismo di cui tutti si dichiarano profeti possa trasformarsi in una nuova ondata di statalismo
L’occasione italiana C’è anche un’opportunità: “sfruttare” la crisi per riformare il nostro modello di capitalismo di Enrico Cisnetto a crisi finanziaria comporta un grande pericolo e una grande occasione. Il pericolo è quello che il ritrovato keynesismo di cui tutti in questi tempi si dichiarano profeti possa trasformarsi in una nuova ondata di statalismo. L’occasione è quella di utilizzare la crisi per mettere finalmente a segno quelle riforme strutturali di cui l’economia italiana ha estremo bisogno. Sotto il primo profilo, è vero che le turbolenze sempre più marcate che si registrano non solo sulle Borse ma che rischiano di avere presto effetti anche sull’industria costringono a un ripensamento del ruolo dello Stato in economia. La “mano invisibile” di smithiana memoria ha dimostrato di essere un po’ troppo disinvolta negli ultimi decenni, e il tanto vituperato Stato pare essere oggi l’unico soggetto ad offrire fiducia.
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tema di liberalizzazioni e privatizzazioni. Un conto è la politica industriale, cioè l’indirizzo strategico che la politica deve assumersi la responsabilità di dare, altro è l’intervento pubblico di salvataggio, peraltro senza prima aver definito una strategia di sviluppo. Secondo punto: l’occasione. Gli ultimi dati ci dicono che l’economia italiana è in ginocchio. Il fatturato del settore in-
strato un tonfo dell’8%, e addirittura del 12,4% verso i paesi Ue.
Di fronte a questi dati, è bene sgombrare subito il campo da un equivoco, o meglio da un alibi, con cui molti tentano di farsi scudo: il declino industriale del Paese non ha nulla a che vedere con l’attuale crisi finanziaria. Si tratta di un processo strutturale, che risale indietro di almeno 15 anni, nel corso dei quali abbiamo accumulato un gap di crescita di 15 punti di pil rispetto ai paesi di Eurolandia e di 35 con gli Stati Uniti. E se guardiamo anche agli ultimi anni, non si può non constatare che al rallentamento degli altri paesi europei corrisponde un dato molto più pesante per quanto riguarda l’Italia: ancora nel 2007, la Francia è cresciuta dell’1,6%, la Germania del 2,6%, la Spagna dell’1,8% e l’intera Eurolandia del 2,1%. L’Italia solo dello 0,8%. Dunque, non nascondiamoci dietro le previsioni di recessione del Fondo Monetario e da altri enti per i trimestri e gli anni a venire. Certo, le conseguenze della crisi finanziaria, in termini di credit crunch e di contrazione di consumi e investimenti, ci saranno e saranno pesanti per tutti. Ma il fatto che si entrerà in un periodo generalizzato di stagnazione o addirittura di re-
Il declino industriale del nostro Paese non ha nulla a che vedere con la congiuntura attuale. È un processo strutturale vecchio di almeno 15 anni
Ma attenzione a pericolose derive neo-stataliste. L’idea di aiuti di Stato a pioggia - si parte dal settore auto, e non si sa dove si arriva - è pericolosa. «La politica industriale esisteva nel trattato di Roma, ma è stata messa tra parentesi e affidata solo alle regole antitrust», ha detto giustamente il ministro Tremonti. Attenzione, però, a non mettere tra parentesi il lungo cammino fatto in
Il presidente della Confapi
«E adesso servono degli sgravi per salvare le aziende» colloquio con Paolo Galassi di Alessandro D’Amato
dustriale è diminuito dell’11% rispetto ad un anno fa. Un dato che va a sommarsi a quelli sulla produzione industriale usciti la settimana scorsa (scesa del 2,4% da inizio 2008 e del 5,3% anno su anno) e all’aumento esponenziale delle ore di cassa integrazione (+15,1% anno su anno). Per non parlare dell’export, la scialuppa cui si sono aggrappati con i denti gli ultimi cantori della “tenuta del made in Italy”: ad agosto, infatti, l’interscambio complessivo dell’Italia ha registrato un saldo commerciale negativo per 2,1 miliardi di euro, un valore triplicato rispetto ai 687 milioni del 2007. Inoltre le esportazioni complessive hanno regi-
ROMA. «A rischio ci sono 150mila lavoratori, il 10% dell’occupazione della piccola e media industria. Il governo ha aiutato banche e tranquillizzato i risparmiatori, ed ha fatto bene. Adesso però mi aspetto una politica industriale di sostegno alle imprese. Altrimenti la crescita non ripartirà mai». Non usa mezze misure Paolo Galassi, presidente di Confapi, Confederazione italiana della piccola e media industria privata. E spiega con dovizia di particolari perché le Pmi saranno profondamente colpite dalla crisi dei subprime e dalla stretta creditizia e cosa deve fare la politica per salvare una categoria che rappresenta il 20% del prodotto interno lordo italiano. «In realtà la situazione attuale si innesta all’interno di uno scenario di grave difficoltà: è vero che, come dicono i dati diffusi dall’Istat sull’andamento del fatturato delle industrie e del commercio estero e ai dati Confapi, l’export extra Ue è sceso del
4% nell’ultimo semestre. Ma nonostante gli indici positivi, sono almeno due anni che noi sosteniamo le difficoltà sempre crescenti dell’economia italiana». E quali sono i fattori di criticità, presidente? Si presta meno, e a caro prezzo, ormai da 24 mesi. A questo aggiunga una tassazione che, a parte i dati sulla pressione fiscale, arriva a pesare con annessi e connessi tra il 62 e il 65% del totale del fatturato. Già è difficile far guadagnare un’impresa, in Italia: se ci si mettono anche i costi e le tasse non avranno mai la forza né per ricapitalizzarsi, né per investire e stimolare così la crescita. In tutto questo si innesta il credit crunch. Proprio così, sembra la ciliegina sulla torta. E adesso che le banche si ferma-
cessione non ci deve consolare. Perché non saremo mai, comunque,“alla pari”. L’Italia sconterà, infatti, più degli altri i suoi ritardi strutturali, portandosi dietro il “delta” clamoroso della mancata crescita accumulata.
Sfruttiamo dunque questo momento: l’Italia è oggi nella stessa situazione in cui si trovarono gli Stati Uniti dopo l’11 Settembre. La vulgata vuole che l’attacco alle torri gemelle abbia provocato la loro entrata in recessione. Ma non è affatto vero: anzi, l’amministrazione Bush sfruttò proprio il momento del massimo attacco al Paese per mettere in atto una serie di manovre a sostegno della crescita (pur con tutti i limiti no, dove troveremo finanziamenti? Un’impresa di certe dimensioni, in grado di sfruttare la flessibilità di licenziare ma anche un radicamento importante sul mercato può anche cavarsela da sola. Alla fine, è probabile che resti in piedi anche solo grazie alle sue dimensioni. Ma le ditte giovani? Quanto possono durare in una situazione come questa? Ma la vostra associazione ha dati certi riguardo la stretta del credito? Guardi, le faccio un esempio, sperando che basti: il nostro consorzio fidi, nato con l’intenzione di finanziare nuovi progetti e sviluppare l’innovazione aziendale, oggi si trova sommerso di richieste di finanziamento per la gestione corrente. Siamo passati da 3 a 4,5 miliardi totali di euro di domanda.
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Tutti li sognano. Ma sono un porto, non una garanzia
Torneranno di moda i paradisi fiscali? di Maurizio Stefanini arkozy e Berlusconi chiedono alle banche beneficiarie dei bailout pubblici di tagliare ogni rapporto con i “paradisi fiscali”. Deputati e Ong chiedono di metterli fuori legge. Lo stesso Barack Obama sta per diventare presidente Usa dopo aver presentato da senatore nel febbraio del 2007 una proposta di legge dal titolo che più esplicito non si potrebbe: Legge per porre termine agli abusi dei paradisi fiscali. Davvero c’è il rischio che gli istituti di credito, dopo aver forse speculato su oro e petrolio i soldi ricevuti per rimettere il credito in circolazione, si mettano ora a imboscare i fondi in questo buchi neri della finanza internazionale? Le cifre all’ingrosso si sanno. Secondo Transparency International, nei paradisi fiscali sarebbero ospitate «400 banche, i due terzi dei 2mila fondi speculativi e 2 milioni di società di facciata, rappresentanti 10mila miliardi di dollari, 7400 miliardi di euro, di attivi finanziari». E una ricerca coordinata da Viktor Ukmar, professore emerito dell’Università di Genova e Presidente del Centro di Ricerche tributarie dell’impresa presso l’Università Bocconi, dava all’inizio del decennio 320 banche italiane con sedi in 30 paradisi fiscali; 30 con sede in Lussemburgo; 117 gruppi controllati da banche italiane; 112 delle 250 società italiane quotate in Borsa, quasi il 50%; e 22 degli 88 gruppi bancari italiani con partecipazioni di controllo su società residenti in paradisi fiscali, il 25%. I nomi? Qua è già un po’ più difficile. Dopo che Gordon Brown ha stanziato miliardi di sterline per salvare Royal Bank of Scotland Group Plc, Hbos Plc e Lloyds Tsb Group Plc, si è però visto che la Royal Bank of Scotland, di cui il governo finirà per avere il 60% del capitale, ha conti a Jersey, Cayman e Isola di Man. Arran Funding Ltd., appartenente alla Royal Bank of Scotland e basata su Jersey, ha emesso titoli per 7500 miliardi collegati a carte di credito della stessa Rbs, secondo il sito della Banca. Lloyds Tbs, in cui invece assieme a Hbos il governo dovrebbe arrivare al 43,5%, opera a Jersey e Guernsey: sempre secondo il sito web degli interessati, «centri finanziari offshore all’avanguardia a livello mondiale, con indipendenza giudiziaria e fiscale, alti standard di regolazione e un regime fiscale neutrale». Mentre il sito della Hbos informa di uffici a Jersey e Isola di Man. Un elenco di banche italiane con sedi in paradisi fiscali fu invece fatto nel 2002 da Attac. E qua, si fa in realtà prima ad elencare chi non ci
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che sono emersi dalla crisi di questi giorni) che hanno innescato poi un periodo di sviluppo senza precedenti. Questo è quello che deve fare l’Italia oggi. Cogliere l’occasione della crisi generale per mettere in atto una riforma strutturale del nostro capitalismo. Ridurre i ritardi strutturali, cambiare la nostra specializzazione produttiva che è rimasta troppo indenne ai grandi cambiamenti della new economy, saldamente ancorata a produzioni ad alta intensità di lavoro (e non di know how e di capitale); abbiamo bisogno di una cura ricostituente per far compiere alle piccole e medie imprese quel salto dimensionale che le renda meno succubi non solo della concorrenza internazionale ma anche me-
Secondo lei, perché? La realtà è che oggi il 10% della forza lavoro delle Pmi, e parliamo di 150mila persone, è a rischio. Bisogna fare qualcosa. Che cosa? In che modo deve muoversi l’esecutivo per affrontare il problema? Gli interventi devono essere finalizzati a sostenere la piccola e media industria manifatturiera che produce e investe in tecnologie, innovazione e nuove fabbriche. Due proposte facili facili: la prima è detassare fortemente gli utili che le imprese decidono di reinvestire in azienda. Non è nuova, ma non vedo come si potrebbe fare a finanziare l’innovazione in modo diverso. La seconda è tagliare l’Irap, oppure ricalcolarla per le imprese del manifatturiero. Non è normale che in un momento simile siano penalizzate le imprese con più dipendenti! In questi anni sono state prodotte leggi che penalizzano fortemente la piccola impresa, aiutando
no dipendenti dal settore bancario (soprattutto in vista del tanto temuto credit crunch). Sul fronte macro, è ora di rimettere mano alla riforma della previdenza e della sanità. Abbiamo bisogno di aggredire frontalmente il problema dell’enorme debito pubblico, e di rivedere seriamente i meccanismi della spesa pubblica, che, insieme ai cambiamenti in vista per l’assetto istituzionale, rischiano di mettere ulteriormente fuori strada la finanza pubblica. Tutte queste operazioni, certamente non facili, possono essere realizzate più agevolmente sfruttando il clima di emergenza di questi giorni. Alla politica, ora, è richiesto di agire con grande pragmatismo. (www.enricocisnetto.it)
invece i grandi e il sistema finanziario. Ed è assurdo che oggi si continui a dare alle banche e a togliere a noi. Anche perché gli imprenditori non sono allocchi: lo sanno benissimo che gli istituti di credito sono capaci di guadagnare anche dai ribassi in Borsa… E finanziare i consumi, come chiede invece l’opposizione? Non basta per creare il circolo virtuoso dell’economia. Guardi, né le proposte del governo né quelle degli altri affrontano né risolvono i problemi veri del tessuto produttivo del Paese. Chiedo soltanto alla politica di ascoltare alle Pmi, e di proporre finalmente quello che manca da anni: una strategia industriale per il rilancio delle piccole imprese. Non mi sembra una richiesta impossibile da soddisfare. Noi, da parte nostra, ci impegniamo a restare sul mercato e, se necessario, ci mettiamo anche le case. Ma diteci quello che volete fare, una volta per tutte.
sta: tra le prime 30 per numero di agenzie, solo otto. E cioè: Poste Italiane, Banca Popolare di Lodi, Banca Carige, Banco di Sardegna, Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, Banca Carime, Banca Agricola Mantovana e Banca Regionale Europea.
Naturalmente, bisognerebbe però intendersi su cosa si intende per paradiso fiscale: nozione in sé non chiarissima. Qualcuno, ad esempio, sostiene che tutti gli Usa potrebbero esservi rubricati, per la possibilità che offrono a uno straniero non residente di costituire società sottoposte unicamente a una tassa amministrativa annuale su base statale, nell’ordine dei 100-150 dollari: senza attribuzione di numero di identificazione tributario o obbligo impositivo, a patto che la società così costituita non svolga attività con gli Usa. E se a Londra una riforma imposta dall’Ue ha ora ridotto drasticamente la possibilità che i cittadini stranieri avevano di evadere le tasse appoggiandosi alla City, restano però i rapporti privilegiati tra la City ed i ben 10 paradisi fiscali esistenti al mondo che dipendono in un modo o nell’altro dalla Corona. E cioè, tutte e cinque le “Dipendenze della Corona”, ex-possedimenti feudali, attorno alle Isole Britanniche: Jersey, Guernsey, Alderney, Sark e Man. E cinque dei 14 British Overseas Territories, nuova terminologia introdotta da una legge del 2002 per quelle che una volta si chiamavano colonie: Anguilla, Isole Vergini Britanniche, Cayman e Turks e Caicos nei Caraibi; Bermuda nell’Atlantico. Restano fuori Territorio Britannico dell’Oceano Indiano, Territorio Antartico Britannico, Georgia del Sud e Isole Sandwich Meridionali e Akrotiri e Dekhelia perché non hanno popolazione stanziale; Pitcairn perché ha solo 67 abitanti; Gibilterra perché nel 2006 l’Europa l’ha costretta a rinunciarvi; Montserrat per l’eruzione vulcanica che nel 1995 ha indotto gli operatori a smobilitare; Falkland e Sant’Elena sole per propria scelta. D’altra parte, almeno tre Stati dell’Ue sono paradisi fiscali tollerati dai partner, almeno finora: Irlanda, Lussemburgo e Cipro. E anche il Vaticano è stato definito «paradiso fiscale perfetto». Certo: a Svizzera ha dovuto pompare a sua volta 5,3 miliardi di dollari alle proprie banche, e l’Islanda è finita in virtuale bancarotta. I paradisi fiscali, come spiega la terminologia inglese tax haven, sono «porti» che mettono in salvo dalle «tasse». Non necessariamente dalle crisi.
Nelle banche sicure vivono 400 istituti, 2 milioni di società e 7400 miliardi di euro in attivi finanziari
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politica
Il Pd è pronto a votare il candidato di centrodestra alla Consulta per mandare Gentiloni alla Vigilanza Rai
Veltroni e Di Pietro, separati in casa di Errico Novi
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Sciopero, polemica Sacconi-Cgil Per adesso siamo solo alle linee guida, ma la polemica già cresce di tono. Da una parte il ministro del Welfare Maurizio Sacconi (nella foto), dall’altra la Cgil. Nel mezzo il progetto del governo che riforma il diritto di sciopero, soprattutto nei servizi pubblici essenziali. Cambiamenti che la Cgil contesta. «Lo sciopero è un diritto incoercibile e le linee guida confermano i tratti illiberali già denunciati nei giorni scorsi» si legge in una nota del sindacato di Epifani. Ma Sacconi insiste: «Cittadini e imprese non possono essere penalizzati». Tocca al ministro del Welfare chiarire le linee guida del futuro decreto legge. Si parte dall’idea che lo sciopero potrà essere proclamato anche nel caso in cui venga indetto da una minoranza di lavoratori, ma il governo chiede di sapere «preventivamente quale sarà l’adesione».
In manette capo clan di Scampia
ROMA. Gianni Letta ha convinto Veltroni una volta per tutte: questa sciarada di veti incrociati su Rai e Consulta non porta da nessuna parte. E ieri Veltroni, in volo per Trento per sostenere il suo candidato alle elezioni provinciali del 26 Ottobre, c’ha riflettuto parecchio. L’incontro risolutivo con Di Pietro non c’è stato, ma è all’agenda. E non soltanto perché Veltroni avverte che il vicolo cieco in cui la vicenda l’ha cacciato non gli giova affatto. Ma anche in virtù delle crescenti pressioni che provengono dal Quirinale e dell’insofferenza nel partito verso lo scomodo alleato che sale di giorno in giorno. Veltroni si ostina a voler tenere dentro tutto e il contrario di tutto, ma i fronti aperti si moltiplicano e pare sempre più difficile chiuderli tutti, restando nel perimetro dell’invito al senso di responsabilità rivolto da Napolitano e tenendo in piedi da un lato il dialogo con l’Udc, dall’altro l’alleanza con Di Pietro.
Veltroni ha chiesto ancora ieri al telefono a Di Pietro di accettare il nome che il Pdl avanzerà lunedì, qualunque esso sia, incassata da Letta la garanzia che non si tratterà di un nome che presenti «impedimenti formali» come quelli riscontrati su Pecorella. Non sarà, però, un confronto tra rose di nomi. Semplicemente perché, se lo fosse, significherebbe che s’è già deciso di far fuori l’Italia dei Valori dalla partita, visto che attaulmente in Vigilanza, oltre che Orlando, il partito di Di Pietro può contare solamente l’altrettanto indigesto Pancho Pardi. Da par suo, anche Veltroni vorrebbe che il Pdl avanzasse l’opzione di un ”tecnico”,
ma per ragioni tutte di dialettica interna al Pd. Se infatti dovesse essere eletto alla Consulta un nome ”politico”, Napolitano lo riequilibrerebbe, nella nomina di competenza presidenziale del prossimo febbraio, con quello di Luciano Violante. E Veltroni non intende rafforzare e dare spazio ulteriore alla già forte componente dalemiana, che ha smesso di tramare all’ombra per sostituirlo e, a questo scopo, agisce ormai alla luce del sole. Speranza vana quella del segretario democratico. Il Pdl vuole l’elezione di un ”politico”alla Consulta e gli ha reso nota la volontà di eleggere lunedì il presidente della commis-
Per il nuovo giudice dell’Alta Corte si fa il nome di Donato Bruno: votandolo, il leader democratico finirebbe per scaricare Orlando sione Affari costituzionali della Camera Donato Bruno, la cui carica ammanterebbe di istituzionalità il suo profilo schiettamente politico.
Nelle sue conversazioni telefoniche con Di Pietro, Veltroni non gli avrebbe confidato che il Pdl ha di fatto deciso di insistere per la Consulta sul nome “politico”. Come pure lo ha pregato di tenere distinta dalle vicende istituzionali romane quella (spinosissima) delle elezioni abruzzesi. Fatti i conti, l’unico modo per provare il miracolo in Abruzzo e non lasciarlo placidamente nelle mani
del Pdl è sfruttare la rottura con l’Udc.Veltroni è convinto di poter tirare fuori dal cilindro un nome super partes, magari dalla società civile, che possa mettere d’accordo Pd, Idv e Udc sul voto regionale del prossimo 30 Novembre, indipendentemente dall’esito della partita romana su Rai e Consulta. Ha chiesto ieri a Franco Marini di lavorare su questa ipotesi. Non vuole trovarsi in nessun modo, almeno in Abruzzo, nella condizione di dover scegliere in via definitiva tra il portare avanti il dialogo con Casini o il conservare l’alleanza con Di Pietro. Anche se ieri, Cesa, segretario Udc, ha ribadito che il suo partito in Abruzzo intende andare da solo.
Ma non è semplice custodire la botte piena e avere la moglie ubriaca. Il segretario democratico sa bene che ottenere da Di Pietro il voto per Donato Bruno e l’accordo in Abruzzo intorno a un’alleanza di tutto il vecchio centrosinistra con l’Udc, in cambio della presidenza della sola Vigilanza per Orlando è, a meno di inattesi colpi di scena, praticamente impossibile. Anche per l’indisponibilità del Pdl, quasi ultimativa, a votare a questo punto Orlando. Ecco perché ha messo tacitamente il fido Bettini a lavorare su una strada alternativa, che contempli la rottura con Di Pietro. Scaricare Orlando e puntare per la Vigilanza né sulla veltroniana Melandri, né sui dalemiani Latorre o Cuperlo, quanto sul rutelliano Paolo Gentiloni, che ha già presieduto laVigilanza tra il 2005 e il 2006 (dopo l’ascesa di Petruccioli alla presidenza Rai) e attualmente è a capo dell’area comunicazione del Pd.
Operazione anticamorra nel quartiere napoletano di Scampia, una delle maggiori piazze di spaccio gestista dagli “scissionisti” e, prima della faida, dal clan Di Lauro. In manette anche il capo clan Tommaso Prestieri. L’arresto è stato eseguito dai carabinieri del comando provinciale di Napoli che, sin dalle prime ore di ieri, hanno effettuato perquisizioni per blocchi di edifici del quartiere a nord del capoluogo campano. L’operazione è stata coordinata dalla Dia partenopea e ha visto impiegati oltre 100 militari dell’Arma. Oltre al boss Tommaso Prestieri, 50 anni, è stato arrestato Vincenzo Esposito, 27 anni.
Sandro Bondi contro il binomio Pd e Idv «Il principale problema politico che pesa sulla vita politica italiana, e rappresenta un macigno sui tentativi di realizzare anche in Italia una democrazia normale, è rappresentato dall’alleanza tra il Pd di Veltroni e il partito di Di Pietro. Un connubio che impedisce alla sinistra di divenire finalmente una sinistra riformista». È Sandro Bondi (nella foto) ad affermarlo. Il ministro della Cultura rileva in una nota che «questo connubio tra Veltroni e Di Pietro ha l’effetto non solo di isterilire gli sforzi di rinnovamento della sinistra, ma addirittura di involgarire e imbrattare la cultura politica della sinistra italiana attraverso l’assorbimento degli spiriti forcaioli, retrogradi e populisti propri di un movimento come quello di Di Pietro».
Roma, scritte antisemite sui muri A Roma, giovedì notte, sono apparse scritte antisemite nelle quali si legge: «L’olocausto è la più grande menzogna della storia». Le scritte, in nero su uno striscione bianco, sono apparse sui muri di un ponte della tangenziale est. Sono firmate Militia e sono accompagnate da svastiche. Un’altra scritta, hanno denunciato alcuni testimoni, riporta la frase «Contro l’immigrazione autodifesa nazionale». La stessa firma era apparsa accanto a scritte contro Schifani, a settembre.
Buttiglione: pericolosi gli aiuti fai-da-te Gli aiuti di Stato fai-da-te sono pericolosi. Lo ha affermato il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, in merito alla strategia del governo per contrastare la crisi dei mercati. «Il governo italiano - sostiene il centrista in una nota - non si lasci sedurre dalla tentazione di ricorrere in modo massiccio ad aiuti di Stato che falserebbero il mercato e ci farebbero tornare indietro rispetto all’integrazione nella comunità economia europea». «Noi - prosegue Buttiglione - appoggiamo la proposta di Sarkozy per un vertice che riscriva le regole del capitalismo».
politica
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Il commissario Dimas contesta le stime di Confindustria sui costi dei tagli alla Co2 er ritrovare un attacco così diretto all’Italia da parte di un commissario europeo bisogna tornare indietro parecchio nel tempo. Almeno ai battibecchi tra Joaquin Almunia e Giulio Tremonti sulla procedura d’infrazione ai dettami del Patto di stabilità: correva l’anno 2005, ma allora, per la verità, gli scontri verbali erano sempre a colpi di fioretto. Questa volta, invece, il greco Stavros Dimas, responsabile dell’Ambiente, ha usato la clava. Si è detto «allibito» dalle obiezioni italiane al pacchetto di misure europee sul clima e ha definito tout court «sbagliate» le stime sui costi che il nostro Paese dovrebbe sostenere per attuarle. La verità è che a Dimas brucia ancora la conclusione del vertice di Bruxelles che, giovedì, proprio per evitare un veto dell’Italia e della Polonia, ha rinviato a dicembre l’approvazione definitiva del piano che il commissario aveva preparato per centrare quello che a Bruxelles hanno ribattezzato ”l’obiettivo 20-20-20”. La formula vuol dire ridurre del 20 per cento le emissioni di gas nocivi e aumentare del 20 per cento le fonti di energia rinnovabili entro il 2020.
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È il piano del dopo-Kyoto. Il protocollo per la salvaguardia ambientale scadrà nel 2012 e la Ue, che è stata il suo più tenace paladino, vuole arrivare alla prossima conferenza mondiale sul clima, già convocata dall’Onu per il 30 novembre 2009 a Copenhagen, con un pacchetto che dovrebbe essere d’esempio per tutti. Ma sulle ripercussioni delle nuove misure sul sistema produttivo si è subito accesa la polemica. Alla vigilia del vertice di Bruxelles, Emma Marcegaglia ha rivolto a Silvio Berlusconi un appello molto chiaro: «Noi non siamo anti-ambiente. L’impegno per ridurre le emissioni inquinanti lo manteniamo. Ma non con queste norme perché così si uccide l’industria europea e quella italiana prima delle altre». Il presidente di Confindustria ha anche quantificato i danni che, «in cambio di benefici infinitesimali per l’ambiente», il pacchetto della Ue avrebbe provocato: 180 miliardi di euro tra il 2012 e il 2020. Una cifra che rappresenta l’1,14 per cento dell’intero Pil dell’Italia che ha una forte struttura manifatturiera. Emma Marcegaglia aveva chiesto al premier di «sostenere le ragioni dello sviluppo e prendere una posizione molto netta, anche a costo di porre un veto». Per gli imprenditori il peso economico dei provvedimenti proposti dalla Commissione europea era insostenibile anche «prima» che l’economia mon-
I veti italiani sull’ambiente non piacciono all’Europa di Enrico Singer Per il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia (nella foto a fianco) le nuove norme della Ue per l’ambiente non sono sostenibili per l’Italia. E a Bruxelles Berlusconi ha bloccato l’intesa politica scatenando la reazione del commissario Stavros Dimas (nella foto sotto)
«Non è il momento di fare i Don Chisciotte», ha detto Berlusconi a Bruxelles e il suo ”no” si è intrecciato a quello della Polonia. Ma la guerra delle cifre e della flessibilità è soltanto all’inizio diale fosse devastata dalla crisi finanziaria che ha trasformato quell’«insostenibile» in altri aggettivi come «inaccettabile e devastante». Nella cena dei capi di Stato e di governo che, nel vertice di Bruxelles, ha affrontato il capitolo-ambiente, Berlusconi ha tradotto le riserve italiane con una delle sue battute: «Non è il momento di fare i Don Chisciotte».
Il suo “no” alla chiusura immediata del pacchetto si è intrecciato a quello della Polonia, capofila degli altri Paesi dell’Est europeo che sono entrati nella Ue con sistemi industriali più antiquati - e inquinanti - che sul piano hanno riserve ancora più forti. In effetti, le obiezioni italiane hanno un segno diverso. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini - che della Commissione europea è stato vicepresidente - ha detto che il governo non contesta «gli obiettivi finali del 2020, ma la loro rigidità». Ed ecco che, nel comunicato finale del vertice, è stata trovata
una formula di compromesso: da qui a dicembre si dovrà lavorare per arrivare «alla applicazione del pacchetto in una modalità, stabilita con rigore, che sia vantaggiosa in termini
di costi per tutti i settori dell’economia europea con riguardo alla situazione specifica di ogni Stao membro». Come dire che la partita della flessibilità comincia adesso e si concluderà
Napolitano:«C’è un legame tra sviluppo e difesa della natura» «Occorre fare uno sforzo per scoprire il legame che c’è sempre tra le esigenze dello sviluppo economico e quello della difesa dell’ambiente». Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha risposta alle domande di alcuni studenti durante la “Festa d’autunno” nella tenuta di Castelporziano. «Stiamo entrando in un periodo di grande difficoltà finanziaria ed economica. C’è il rischio - ha aggiunto il Capo dello Stato di farsi distrarre dalle preoccupazioni per queste cose come se potessero essere separate da quelle per la difesa dell’ambiente. Non è così. Bisogna farlo capire e tenerlo presente nelle scelte che si fanno». «Nonostante la crisi finanziaria che sta colpendo i paesi più avanzati - ha concluso Napolitano - occorre egualmente indirizzare le relazioni economiche e commerciali internazionali ed i modelli di crescita in maniera da consentire a tutti i paesi un effettivo progresso secondo linee compatibili con la doverosa salvaguardia delle risorse naturali e del patrimonio ambientale del pianeta».
soltanto nel prossimo Consiglio della Ue di fine anno dove, ancora una volta, si dovrà decidere all’unanimità. In altre parole, il veto di un solo scontento sarà ancora possibile. Questo spiega perché il commissario Stavros Dimas si sente così deluso ed è tanto irritato dal comportamento dell’Italia. Se il suo pacchetto avesse avuto il via libera politico, le singole misure sarebbero poi state discusse nei consigli settoriali dei ministri europei dove si decide a maggioranza e la capacità negoziale dei singoli Paesi è molto più debole. Nel suo sfogo di ieri, Dimas non si è soltanto definito «allibito» dalle minacce di veto, ma ha contestato anche le stime italiane. «Non so da dove vengano questi numeri, ma sono scenari che non si basano sul nostro pacchetto». La Commissione prevede per l’Italia dei costi tra i 9,5 e i 12,3 miliardi. Non solo: «Per effetto del pacchetto-clima l’occupazione salirà dello 0,3 per cento, ci sarà più sicurezza energetica, un futuro con meno emissioni nocive, più energia rinnovabile e, quindi, molti incentivi all’innovazione», ha detto Dimas. La battaglia delle cifre, insomma, è aperta. E il suo esito finale è ancora più incerto.
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società
Non solo borse. L’Europa corre verso la natalità zero. Fanno eccezione Francia e Irlanda. Italia e Spagna i fanalini di coda
Il crack demografico Sono le famiglie ispirate da valori religiosi a mantenere un tasso alto di fecondità di Alfonso Piscitelli er spiegare le cause del calo demografico si fa riferimento a parametri economici o a imponderabili fattori psicologici come lo stress metropolitano. Ma è pur vero che nonostante la crisi in borsa il nostro tenore di vita rimane più alto di quello dell’Ottocento e che lo stress di una metropoli contemporanea sarà grande, ma vivere in un comune del basso medio evo, allietato da epidemie ricorrenti, guerre civili sanguinose e possibili invasioni, non significava
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certo vivere nella fattoria del mulino bianco. A un certo punto nella storia sopraggiunge la crisi demografica.
Si accompagna di solito ad una stanchezza di vivere, ad una crisi che scuote i fondamenti stessi della civiltà. In epoca moderna, alcuni antropologi hanno cercato di studiare le dinamiche che reggono la demografia, ricorrendo a spiegazioni complesse (etiche, economiche, gestionali) per spiegare il motivo per cui i contadi-
Nelle zone africane dove il cattolicesimo si è maggiormente esteso, portando istruzione e una certa disciplina del lavoro, le nascite si sono stabilizzate su livelli demografici più equilibrati
ni tendono alla fecondità spensierata, mentre i borghesi si compattano in famiglie “nucleari”. Tra gli altri l’antropologo tedesco Arnold Gehlen ha mostrato come il tasso di riproduzione tenda a diminuire mano a mano che si sale lungo la scala della istruzione o della buona remunerazione economica. Per questo, quando Mussolini lanciò in Italia la campagna demografica ad affollarsi di figli furono soprattutto i bassi napoletani, più che le case della buona borghesia ligia a parole alle direttive del regime. Il mondo contemporaneo presenta oggi tutta la varietà delle dinamiche demografiche. Cina e India uniscono una tumultuosa crescita economica ad un’al-
Nel 2050 il Vecchio continente avrà una maggioranza di anziani
Europa, i dati della sterilità L’Europa è l’unico continente che ogni anno conta più decessi che nascite. L’inversione del rapporto naturale tra chi nasce e chi muore è avvenuta negli anni Novanta quando per la prima volta – nonostante l’allungamento della vita media – si sono verificati più funerali che parti. – Negli anni Sessanta gli under 20 erano quasi un terzo della popolazione, oggi sono scesi al 22 per cento.
2. Negli anni Settanta la diminuzione della fecondità si estende a tutta l’Europa Occidentale. 3. Negli anni Ottanta contagia l’Europa Mediterranea. 4. Dopo il crollo del muro di Berlino la crisi demografica si manifesta nei paesi dell’Est come ulteriore segnale di devastazione nello scenario del post-comunismo.
– La consueta piramide demografica in Europa è diventata un rombo: scarse nascite al vertice inferiore, ampia fascia di adulti, un vertice superiore di anziani. Ma nel 2050 stando alle attuali tendenze il rombo dovrebbe diventare una piramide rovesciata, con una base ampia di anziani che insiste su un ristretto spicchio di popolazione giovanile.
– La Spagna di Zapatero è oggi ai vertici della classifica di sterilità… insieme all’Italia. Nel nostro paese i matrimoni sono diminuiti di 150mila unità dalla fine degli anni Settanta, con gravi ripercussioni demografiche. In Italia, infatti, a differenza che nei paesi del CentroNord Europa, la proporzione di nascite fuori dal matrimonio è molto bassa, quindi il calo di unioni nuziali incide notevolmente sulla diminuzione della fecondità.
–La riduzione della fecondità ha conosciuto quattro tempi in Europa: 1. Ha colpito innanzitutto i paesi scandinavi negli anni Sessanta quando la Svezia già mostrava quel preoccupante nesso tra “progressismo” politico, nichilismo spicciolo ed esaurimento delle linfe vitali demografiche.
Conseguenze sociali? Meno nascite e invecchiamento della popolazione significa minore domanda di beni strumentali, diminuzione della popolazione attiva, dunque meno risorse per contribuire alla creazione di ricchezza. Significa anche un corpo elettorale più vecchio e un minore ricambio culturale.
trettanto imponente crescita demografica: i loro governi giungono al punto di imporre leggi draconiane per frenare il più naturale degli impulsi. L’Africa appare invischiata in una tragica forma di darwinismo pratico: molte nascite, per bilanciare le troppe morti per fame. Tuttavia gli studiosi di estrazione cattolica fanno notare come proprio nelle zone dove il cattolicesimo si è esteso, portando istruzione e una certa disciplina del lavoro, le nascite si siano stabilizzate su livelli più equilibrati. Il Giappone invecchia così come l’Europa, ma preferisce affidarsi ai robot domestici piuttosto che aprire le porte di casa a colf e “badanti” provenienti dai paesi più poveri.
Nell’Europa dell’Est la tragica stagnazione del comunismo ha portato con sé anche un collasso demografico. Tuttavia due esempi di società occidentali indicano una controtendenza rispetto alla tendenza demografica negativa delle popolazioni di origine europea: la piccola Irlanda e gli Stati Uniti. L’Irlanda si mantiene ”giovane” e feconda: una fecondità che non è più sintomo di arretratezza, ma che si accompagna ad una vivace dinamica economica. Le famiglie statunitensi, soprattutto quelle fortemente ispirate da valori religiosi, mantengono un tasso alto di fecondità: siano esse bianche o nere. Laddove si conserva uno spirito attivo, intonato a un fresco idealismo morale o a una ispirazione religiosa del vivere, la fecondità si mantiene nei suoi standard ottimali. Dove invece prevalgono il vivere alla giornata, il materialismo instillato da mille cattivi maestri, l’illusione di una adolescenza protratta fino alle soglie dei quaranta anni la demografia langue, e forse - per misteriose sincronicità - la sterilità aumenta.
P a d o a - S c hi o pp a scriveva qualche tempo fa sul Corriere della Sera che «la recessione non ha solo cause economiche ma anche culturali» e identificava proprio una di queste cause nell’invecchiamento della popolazione: «Invecchiamento significa meno idee nuove, minore gusto per l’avventura, tendenza a privilegiare la rendita e la sicurezza… ed anche in definitiva meno futuro e più solitudine». A sua volta il demografo Dumont, invitato a parlare a Roma dalla Fondazione Rebecchini, contesta che il declino demografico sia una fatalità biologica. Il demografo francese punta il dito contro le responsabilità dei politici: «Oggi siamo in un Europa che non assicura la giustizia – leggiamo negli Atti del seminario sulla crisi demografica organizzato dalla Fondazione Rebecchini – . Se una coppia fa ricorso all’aborto, in molti paesi d’Europa l’aborto è pagato da fondi pubblici. In compenso se un’altra coppia vuole un figlio, le politiche familiari sono spesso insufficienti». Il dato interessante è che quando politiche familiari efficienti vengono messe in atto, l’indice demografico in poco tempo risale a livelli accettabili. E per politiche familiari si intendono non solo gli aiuti fiscali ma anche la creazione di asili nido, strutture, servizi. Oggi Islanda, Irlanda, Francia, Norvegia, Finlandia, Danimarca e Svezia sono ai primi posti nella classifica di fecondità europea: vicini al traguardo minimo del pareggio demografico tra nascite e morti. La Francia che per prima aveva conosciuto la depressione demografica ha reimparato ad amare i bambini. I Paesi scandinavi sembrano aver compreso che la felicità di una famiglia feconda è superiore a qualsiasi traguardo di “liberazione sessuale”. L’Italia e la Spagna zapateriana rimangono invece fanalini di coda.
società
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Parla il saggista cattolico Francesco Agnoli
«Senza figli aumenta la spesa sociale» colloquio con Francesco Agnoli di Ernesto Capocci Francesco Agnoli, vive e insegna a Trento. Collabora con quotidiani nazionali e riviste. Tra le sue opere ricordiamo: Chiesa, sesso e morale (Sugarco) e Voglio una vita manipolata (Ares). Quali sono le cause della crisi della natalità in Occidente Agnoli? Non sono cause economiche e neppure deficienze dei vari welfare. Le cause più vere sono ideali: si ha paura, non si ha fiducia nella vita, nella Provvidenza, in un disegno buono cui apparteniamo. L’apertura ai figli va di pari passo con l’apertura alla vita, agli ideali, perchè un figlio richiede sacrificio, fiducia nel futuro, serenità di rapporto con il coniuge. Ti dà immensa forza e ottimismo, ma se dietro c’è una struttura ad accoglierlo, altrimenti... Invece, oggi, i nostri ragazzi hanno paura: paura di sposarsi, perchè hanno visto troppi fallimenti coniugali; paura di non essere capaci, perchè sono stati educati troppo poco al sacrificio; paura di progettare un amore per sempre, perché vivono di attimi fuggenti, scollegati l’uno dall’altro. Infine, c’è l’egoismo proprio di una società individualista... Un figlio è visto spesso come un limite Si, perchè ci impedisce di divertirci, di uscire la sera... per cui molti dicono: uno solo, non di più, per educarlo meglio. In realtà, non sono disposti a cambiare la loro vita, a mettere in gioco la routine della loro giornata. Non sono loro ad adattarsi al bambino che cresce, ma chiedono al bambino di adattarsi a loro. Così nascono sempre di più giovani che della famiglia non conoscono neanche più i termini, la “genetica”: perché magari hanno solo un genitore, mancano di padre o di madre, o perché non hanno nè cugini nè zii. Non crede sia stata fatta troppa propaganda negativa rispetto alla questione del rischio dell’aumento della popolazione? Le cifre allarmistiche sulla popolazione sono semplicemente propaganda ideologica: basta un banale sguardo alle cifre, per capire che l’Africa è sottopopolata e non sovrappopolata. I paesi con più alta densità demografica, dal Giappone all’Italia, all’Olanda
ecc... sono i più ricchi, non i più poveri. Anche la storia insegna che la crescita demografica è legata al successo di un popolo: penso alle colonizzazioni dei Greci, alla rinascita dell’anno Mille, alla rivoluzione industriale. In verità l’idea che siamo troppi sulla terra è legata all’ideologia gnostica, nasconde un rancore verso l’uomo, considerato un virus, un parassita, un cancro del pianeta. Già all’epoca della prima guerra mondiale troviamo auto-
nità o alla Chiesa dell’eutanasia, che invita al suicidio, all’aborto programmatico, all’unione omosessuale, che ha il vantaggio di non portare alla procreazione. È un problema etico-morale o solo di costume, lo spostamento della gravidanza in età matura? È adeguata l’informazione che viene fatta a riguardo? Ci sono varie spiegazioni per lo spostamento della gravidanza in età ma-
I popoli più prolifici sono anche i più ricchi. La storia dell’umanità ha ampiamente dimostrato che Malthus aveva torto
tura: anzitutto il fatto che la maturità affettiva e la capacità di assumersi una responsabilità vengono sempre più tardi, perché la famiglia, la scuola, la società, fanno di tutto per deresponsabilizzare. In secondo luogo, vige una presunzione scientista secondo cui non c’è nessun problema, nessun orologio biologico o ritmo naturale da rispettare, perché tanto c’è la tecnica. Non si dice che la percentuale di successo di tali tecniche è molto bassa, soprattutto con l’avanzare dell’età. Conseguenze? Si arriva al punto che oggi molti non ricorrono più alla fecondazione artificiale per motivi di sterilità, ma semplicemente perché vogliono programmare l’ora e il giorno della nascita del figlio. In America, ad esempio, sta diventando sempre più diffusa una simile pratica: si congelano ovociti e sperma nelle apposite banche a pagamento e si rimanda la nascita del figlio al futuro, perché ora ci sono la carriera, la casa, gli hobby… Poi magari si decide di fare il figlio, in età avanzata, quando lo si ritiene opportuno, indi-
ri come Papini, che elogiano la guerra come “operazione maltusiana” che elimina un pò di persone inutili, di bocche da sfamare...Oppure penso ai darwinisti materialisti, come Desmond Morris, che nel suo La scimmia nuda, del 1968, proponeva il ricorso massiccio all’aborto, per frenare la crescita demografica. Lo stesso si può dire del Club di Roma, o di certi ambientalisti estremisti, che vedono nell’uomo una minaccia per l’equilibrio dell’ecosistema. Oppure penso ad associazioni come Rientro dolce, che propone di ridurre la popolazione da 6 a 2 miliardi -dicono dolcemente, ma non si capisce come - al Movimento per l’estinzione volontaria dell’uma-
pendentemente dalle esigenze naturali, ma non è sempre detto, anzi!, che ovuli e sperma congelati e poi scongelati diano vita ad un figlio. Così, coppie che potevano concepire naturalmente, finiscono addirittura per non riuscire ad avere figli. Le campagne antinataliste delle istituzioni internazionali e sulla salute riproduttiva, quanto hanno concorso rispetto alla crisi della natalità? Sicuramente creano cultura, contribuiscono a diffondere pregiudizi, falsi dogmi. La tecnica è semplice: si continua a martellare sugli stessi punti, si ripetono le stesse menzogne in mille salse, finché finiamo tutti per crederci, anche a ciò che è evidentemente assurdo e che cozza contro il buon senso. Ma c’è sempre qualcuno per fortuna che mette in crisi l’ingranaggio propagandistico. Recentemente, Piero Angela, sempre allineato, in passato, sulle posizioni antinataliste, ha scritto un libro spiegando che senza figli la nostra civiltà muore. Eppure aveva sempre detto il contrario. Abbiamo bisogno di uomini coraggiosi, irriverenti, che facciano notare ad esempio che “salute riproduttiva” non vuole dire aborto, sterilizzazione, contraccezione… cioè non riproduzione, ma il contrario. Come si trasforma la società con l’invecchiamento della popolazione? Ogni società che invecchi è destinata prima o poi a morire. La storia ci insegna che persino gli imperi non finiscono per assalti esterni, ma per crisi interne, anzitutto. Un società senza figli si trova di fronte al problema della spesa sociale che aumenta: come possiamo pagare sanità, pensioni, istruzione per tutti, se non abbiamo i giovani? Aumentiamo di continuo le tasse? È impossibile, c’è un punto di rottura. Il fatto è che tutto si tiene: dove crolla la famiglia, mancano i figli e quando mancano loro anche gli anziani rimangono soli, senza pensioni, senza speranza e senza compagnia. Non è questione di destra o di sinistra: tutti gli ultimi governi italiani, ed europei, hanno tagliato la spesa sociale, chi più chi meno, perché non avevano altra scelta. La realtà si impone.
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mondo
Gli Usa e la politica eurasiatica su gas e petrolio. Parla l’inviato della Casa Bianca, Boyden Gray
Washington:no ai monopoli dell’energia di Pierre Chiartano
d i a r i o vitare la nascita di monopoli nel campo del gas e del petrolio e garantire più rubinetti per l’Europa. Potremo sintetizzare così le linee guida della politica di Washington in Eurasia. Come sono emerse durante l’incontro romano di venerdì scorso, con l’inviato speciale per l’Eurasian energy diplomacy della Casa Bianca.Tema il futuro della politica energetica Usa nell’area del Mar Caspio. Per intenderci, la terza per produzione mondiale di idrocarburi. Alla domanda di liberal se la linea fosse ancora «antimonopolista, ma non antirussa», l’ambasciatore C. Boyden Gray ha risposto: «Rimane ancora un buon approccio al problema della politica energetica russa, che riguardi gas o petrolio, e alla conseguente dipendenza europea che ne deriva». È normale che Mosca dia il massimo sviluppo allo sfruttamento delle proprie ricchezze, ma sono altrettanto importanti i corretti comportamenti delle compagnie – ha continuato il diplomatico - non distorsivi delle regole di mercato. Gli Usa contrasteranno sempre l’uso politico dell’energia. In pratica parliamo di un settore dove gli investimenti sono così ingenti, che le politiche di supporto devono, giocoforza, abbracciare l’arco di diversi decenni per permettere alle compagnie ed ai consorzi d’impresa di rientrare degli investimenti.
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Questo lo sanno gli Usa come Mosca, Ankara e gli Stati in fibrillazione per paura che l’orso russo si svegli. L’interesse americano ed europeo è far sì che né la Russia e neanche l’Iran possano trasformarsi in strozzature ai rifornimenti per l’Europa. La parola d’ordine è: continuità. Anche dopo il tentativo russo di chiudere il rubinetto del Caspio, emerso prepotentemente con l’invasione della Georgia di agosto, sembra essere mutata la rotta della diplomazia “energetica” americana. Le vicende politiche, più volte ricordate da giornalisti e corrispondenti durante l’incontro con la stampa, nella sede dell’Ambasciata Usa di Roma, sono state sempre riportate ad un filone unico da Gray. Già consigliere di Ronald Reagan, «la più bella esperienza della mia vita», ci ha confessato a margine dell’incontro. È possibile che la decisione di avviare il pro-
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Dissidente siriano: «Beirut non è sicura» Nel clima di distensione politica tra il Libano e la Siria dopo anni di tensioni, l’ex deputato siriano indipendente e dissidente politico Maamun al-Homsi, incarcerato a Damasco dal 2001 al 2006 ha lasciato Beirut «per questioni di sicurezza» e ha riparato negli Stati Uniti. «Sono fuggito da Beirut cercando di non divulgare in anticipo la notizia della mia partenza per paura che potessi esser fermato all’ultimo momento», ha detto alHomsi in un’intervista pubblicata oggi dal quotidiano panarabo ash-Sharq al-Awsat, edito a Londra. «Beirut non è più sicura per me», ha aggiunto l’ex deputato che assicura di aver ricevuto più di un segnale che «i servizi d’intelligence siriani stavano indagando sui miei spostamenti a Beirut e che volessero eliminarmi usando sicari del Fronte popolare per la liberazione della Palestina - Comando generale (Fplp-Cg)», una formazione palestinese attiva in Libano e vicina alla Siria. In carcere per cinque anni perchè autore nel 2001 di una petizione per il rispetto dei diritti umani, al-Homsi era arrivato a Beirut nel 2006 dove aveva ripreso la sua attività di denuncia delle violazioni umanitarie da parte del regime siriano.
Onu: via da Mossul 10mila cristiani
Una piattaforma estrattiva nel Mar Caspio. Gli Usa si dicono ottimisti sulle riserve dell’area, considerata strategica anche da Mosca getto Nabucco – un gasdotto di 3.300 chilometri che collegherebbe Medio Oriente, Caspio ed Ue attraverso la Turchia - sia soggetto a valutazioni di natura politica? «No, credo che la decisione di far partire il progetto Nabucco sia di natura economica e commerciale. Non faremo niente per bloccarlo. Le questioni politiche possono diventare dei problemi e alle volte degli impedimenti, ma questo è un altro discorso rispetto a quello che è la nostra linea. È una faccenda fra fornitori e clienti, e riguarda l’interesse a mantenere aperto un libero mercato anche nel settore dell’energia, che è più complesso di altri. Sono convinto che il Nabucco sarà costruito. Le speranze sono che in Kazakistan ci siano riserve di gas per poter alimentare sia il gasdotto Tgi - dall’Azerbaijan, via Turchia-Grecia fino all’Italia che il Nabucco e altri ancora», ha argomentato Gray. Il progetto Tgi potrebbe avere vita più facile. Sull’energia le complicate vicende politiche sembrano non esserci. Forse sarebbe meglio ricordare che Gray è un diplomatico d’esperienza e negli Usa la separazione fra politica ed economia è netta, da un punto di vista formale. Ma in una democra-
Per Bruxelles le regole di mercato sono l’unica garanzia di indipendenza energetica. Via al gasdotto AzerbaijanTurchia-Grecia-Italia
zia liberale politica ed economia sono in simbiosi. Sembrerebbe una nota stonata parlare di libero mercato, visti i risultati nel settore finanziario. Ma se il conflitto d’interessi fra Stati viene confinato all’interno della libera concorrenza, sarà sempre meno probabile che a muoversi siano i carri armati. La vicenda georgiana e lì a dimostracelo e quella iraniana è in cima all’agenda mediorientale. «Sull’Iran siamo favorevoli alla costruzione di un nuovo gasdotto, fatta salva la risoluzione dei problemi sulla issue nucleare», in questo caso la risposta del diplomatico lascia aperte numerose interpretazioni, più o meno improntate all’ottimismo. Si è anche parlato delle regole per il «cap-and-trade» del Co2 e di come le questioni energetiche e ambientali viaggino sugli stessi binari, almeno teorici. «Bush ha già avviato piani per la diversificazione della produzione d’energia, delle forniture e delle politiche per contrastare il climate change. Ma le nostre esigenze di sicurezza in questo settore sono diverse da quelle europee (hanno riserve di carbone per 250 anni, ndr)». Riguardo alle energie alternative, in Europa, occorre armonizzare le legislazioni per facilitare gli investimenti. «Negli Usa, per un po’, dovremo ancora sfruttare gas e altre soluzioni alternative – ha spiegato Gray - per il problema ambientale e anche a una tassazione favorevole allo sviluppo di nuove tecnologie».
Circa la metà dei cristiani della città di Mossul, nel nord dell’Iraq, è fuggita a causa delle minacce e delle violenze contro la loro comunità: 1.560 famiglie, pari a circa 9.360 persone, risultano sfollate da Mossul. Lo ha confermato ieri a Ginevra l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) citando dati delle autorità irachene. «L’Unhcr è preoccupato dalla fuga dei cristiani iracheni di Mossul, cominciata la settimana scorsa», ha detto il portavoce Ron Redmond . «La popolazione sfollata rappresenterebbe circa la metà dei cristiani dell’area di Mossul», ha aggiunto precisando che l’Unhcr non è in grado di confermare i dati delle autorità. Le testimonianze raccolte dai delegati presso i cristiani fuggiti riferiscono di minacce ed intimidazioni, anche per iscritto e con sms, e una persona intervistata ha parlato di cristiani uccisi per strada. La maggioranza delle persone fuggite ha trovato rifugio presso familiari ed amici o in edifici pubblici. C’è «urgente bisogno di cibo, abiti, coperte, acqua potabile ed articoli igienici», ha detto l’Unhcr che ha cominciato a distribuire aiuti.
Gallup: irrisorio vantaggio di Obama La serissima Gallup, la società di sondaggi che mette in guardia dalle rimonte a sorpresa, restituisce il brivido dell’incertezza alla corsa alla Casa Bianca. Mentre tutti i rilevamenti dicono che il vantaggio del democratico Barack Obama sul repubblicano John McCain è consistente e molti media danno il senatore nero oltre la soglia decisiva dei 270 Grandi elettori, la Gallup indica che fra i probabili elettori, esclusi i giovani all’esordio, il vantaggio di Obama è risicatissimo, due punti, statisticamente irrilevante. Certo, il sistema elettorale americano inficia l’attendibilità dei sondaggi: azzeccare il campione non è facile fra i cittadini, i cittadini registrati come elettori (e che quindi possono votare) e i cittadini registrati come elettori e che prevedono di recarsi alle urne.
Abramovich: c’è la crisi, niente nozze La crisi finanziaria in atto non risparmia proprio nessuno. Neanche Roman Abramovich. Stando a quanto scrive il tabloid moscovita online Life.ru, il miliardario russo è stato costretto a rimandare il suo matrimonio. Il sito russo cita un’amica della sposa, Daria Zhukova. «Non è il caso di organizzare feste» avrebbe detto il magnate, rimandando la data delle nozze, previste per ottobre. Abramovich aveva piani grandiosi, come è sua abitudine, per celebrare le nuove nozze con la giovane Daria: feste in sei diverse città, fra cui Mosca, New York, Londra, un prezioso abito di Roberto Cavalli da 250mila euro per la fidanzata e un numero spropositato di invitati.
mondo l controllato vuol diventare controllore. Di se stesso. Ahmadinejad è bravissimo a scompigliare le carte. E rompere le uova nel paniere degli altri. Il presidente iraniano, osservato speciale delle Nazioni Unite, ha avanzato la candidatura del proprio Paese a un seggio di membro non permanente del Consiglio di Sicurezza. Ha fallito, ma non conta. Ha fatto sul serio, con un’attiva propaganda tra i Paesi dell’Onu, che segue ai suoi interventi degli ultimi due anni all’Assemblea Generale e anche alla Fao. La corsa elettorale, iniziata ieri, ha visto vincente il Giappone. Ma Teheran ha ottenuto un sacco di risultati. Andiamo per ordine. Ieri l’Assemblea Generale del’Onu ha votato per scegliere 5 membri biennali del Consiglio di Sicurezza. L’Italia è tra i Paesi uscenti. Tutti i Paesi votano per tutti i candidati, ma le nomine sono tradizionalmente divise per area. Per essere eletti occorrono i due terzi dei voti, cioè 125 su 192. Si procede a oltranza fino al raggiungimento del risultato. Un accordo unanime ha visto vincente l’Uganda per l’Africa e del Messico per l’America LatinaCaraibi. La “battaglia” serena tra i tre candidati ai due posti del gruppo “Paesi occidentali e altri” - Turchia, Islanda e Austria - ha premiato Ankara e Vienna. La Turchia ha vinto con l’appoggio del mondo islamico e i buoni seppur altalenanti rapporti con tutti (compresi ad esempio Usa, Russia, Israele, Iran, Europa).
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Il presidente iraniano Mahmmoud Ahmadinejad in una seduta presso le Nazioni Unite sui diritti umani. Il Commissario speciale Onu Louise Arbour ha attaccato il governo di Teheran per le numerose violazioni ai diritti umani che avvengono nel Paese mediorientale. Da parte sua, Ahmadinejad ha invitato «gli Stati Uniti e i suoi servi a non mettere bocca su questioni interne al Paese». Tuttavia, la questione grava sul voto che determina l’ingresso dell’Iran, anche se in maniera non permanente, nel Consiglio di Sicurezza Onu
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Arriviamo all’Asia: la contesa era tra l’Iran e il Giappone. Difficile immaginare due contendenti più lontani. L’orientale Giappone è grande amico dell’Occidente, è il secondo contributore Onu, è stato già 9 volte membro non permanente e ambisce apertamente a diventare membro permanente del Consiglio. Teheran invece rinnova ogni giorno la sfida «rivoluzionaria e antimperialista» lanciata nel 2006 dal Venezuela, che
Ieri il voto sui nuovi membri non permanenti del Consiglio di sicurezza
Ahmadinejad all’Onu ha provato lo scacco matto di Osvaldo Baldacci In tutta risposta, Ahmadinejad ha affermato che i documenti Onu sono carta straccia, e che il Consiglio di Sicurezza non ha alcuna legittimità. Eppure si è candidato.
Cosa voleva ottenere? Non c’è dubbio che ha cercato di
Per essere eletti occorrevano i due terzi dei voti, cioè 125 su 192. Per Teheran, persino la bocciatura è stata positiva: nuova pubblicità contro il Grande Satana Usa e i suoi «adoratori» pur fallendo ottenne ben 93 voti e costrinse a un compromesso. Ma a questo l’Iran aggiunge altre contraddizioni, seppur con l’obiettivo di scatenarne più di quante ne sollevi. L’Iran, infatti, per il suo programma nucleare, non solo è costantemente al vaglio dell’Aiea e delle Nazioni Unite, ma ha subito ben quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, con sanzioni e crescenti ultimatum.
sfruttare le difficoltà statunitensi per far ulteriormente arretrare le capacità di influenza del “Grande Satana”. Ma nel suo mirino c’è la stessa Onu: una paralisi ne avrebbe dimostrato l’inefficienza (con beneficio dell’imputato iraniano), una sconfitta avrebbe messo in evidenza i “pregiudizi” anti-iraniani dell’organizzazione. Una vittoria avrebbe dato a Teheran grande voce per passare da im-
putato a giudice di se stessa, e anzi avrebbe offerto un’ulteriore platea di primo livello per trasformarsi in inquisitore dei suoi nemici.
Inoltre il Paese sarebbe apparso come grande potenza guida, e Ahmadinejad come un leader mondiale: il suo sogno da sempre. Anche per motivi di politica interna: in patria è sempre più alle strette per la crisi politica e soprattutto economica (fino al primo temutissimo sciopero dei potenti mercanti dei bazaar), e la «campagna dell’Onu» ha spostato ancora una volta le luci dei riflettori, peraltro con le elezioni presidenziali alle porte nel 2009. Ma non finisce qui. L’Iran era isolato: ora non lo è più e il voto, in qualche misura, lo ha dimostrato. In caso di una sua vittoria, infatti, a rimanere isolati sarebbero stati altri: come ad esempio Israele, che non avrebbe mai accettato Teheran nel Consiglio di Sicurezza, e
sarebbe stato disposto a compromettere ulteriormente i suoi da sempre già difficili rapporti con l’Onu. Uno dei tanti elementi che metterebbe ancora in difficoltà la stessa Europa, sempre sballottata tra interessi e amicizie confusi e contrastanti. Se oggi non è difficile per la Ue votare per il Giappone, come si comporterà domani se Teheran sarà al tavolo, più o meno al fianco di Mosca e Pechino, mentre Tel Aviv e Washington saranno all’opposizione? Di Washington si è detto, ma c’è dell’altro.
L’Iran ha incassato il sostegno della Organizzazione della Conferenza Islamica. Sostegno ovvio e di poca spesa, dato che Teheran ha perso il ballottaggio. Ma se poi si fosse trovato davvero vicino a vincere, siamo sicuri di come si comporterebbero certi Paesi, gli arabi in testa? Davvero vogliono l’Iran a quel tavolo? Ecco che Ahmadinejad ha fatto scoppiare altre contrad-
dizioni: per i Paesi arabi (e magari anche per altri come Pakistan e Afghanistan), la vittoria di Teheran avrebbe significato non un sostegno ma un colpo subìto. Ma come giustificare con i popoli islamici l’eventuale cambio di rotta? Un’altra grana per i governi sunniti.
Alcuni dei quali avrebbero ulteriori spaccature interne da fronteggiare: basti pensare al Libano e all’Iraq, sempre vicini alla guerra civile fra filorianiani e filooccidentali. Può sembrare esagerato, ma la candidatura di Teheran all’Onu è stata in un certo senso geopoliticamente destabilizzante. Poi ci sono Russia e Cina con i loro satelliti. Loro guardano di buon occhio Teheran. Per i rapporti economici e politici. Ma anche perché con la sua candidatura ha fatto loro un favore. Non dimentichiamo che i loro voti sono stati decisivi: anche se hanno deciso di esprimersi in favore dell’Impero del Sol Levante (anche questo nella loro sfera di interesse), hanno assestato un altro colpo al sistema unipolare statunitense. L’ago della bilancia ancora una volta non è più a Washington, ma in Asia. Alla fine, il risultato elettorale negativo a Teheran ha spinto l’Onu a un compromesso: ed è stato l’Iran a dettarlo, non il governo americano. Sempre più debole, ma in grado di tenere lontano gli antichi nemici. * senior analyst Ce.S.I.
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ETICA & AFFARI/4. Il grande studioso statunitense ripercorre la storia delle idee che hanno dato vita alla nazione americana, indissolubilmente legata al libero mercato. E prevede un ritorno alle origini del capitalismo segue dalla prima Il commercio avrebbe distratto gli uomini dalle precedenti fonti di divisione e faziosità, le loro passioni sarebbero passate dalle cause politiche alle attività commerciali, e lo spirito di cooperazione necessario al libero mercato avrebbe gradualmente alimentato la loro fedeltà alla Repubblica. Una società basata sul commercio, inoltre, si sarebbe rivelata molto migliore per i poveri, e avrebbe avuto un effetto benefico sulla moralità pubblica e privata.
Grazie ai loro attenti studi di storia, i fondatori avevano imparato che una società fondata sul potere militare tendeva a diventare permalosa e imprevedibile - troppo rapida a scatenare guerre per orgoglio ferito - sempre a spese dei poveri, i quali, generazione dopo generazione, vedevano scarsi progressi nella battaglia contro l’indigenza. Le guerre d’onore, le ritorsioni e le liti tra imperatori, monarchi e baroni hanno ripetutamente cancellato ogni piccolo passo in avanti compiuto dai poveri. Come per le aristocrazie terriere, le corti di questi nobili erano troppo spesso sedi di svago, intrattenimento, seduzione e decadenza. Anche se molti conti e baroni erano buoni condottieri, le loro vite erano in fin dei conti oziose. Vivevano agiatamente grazie alle ricchezze delle loro proprietà e al lavoro dei contadini, e addestravano eserciti per esaurire le eccedenze agricole che strade inadeguate e l’assenza dello stato di diritto (al di fuori dalle maggiori città) hanno impedito diventassero una fonte di commercio produttivo. I fondatori americani conclusero che organizzare una nuova società sulla base del-
l’aristocrazia o delle forze armate non sarebbe stato salutare per una repubblica, la quale ha invece bisogno di indipendenza, autonomia, inventiva e uomini creativi, che non temano di sporcarsi le mani e siano orgogliosi di essere grandi lavoratori, disponibili verso l’innovazione e determinati a trovare modi migliori (spesso meno onerosi) di fare le cose. Indipendenza e innovazione, guidati ad un costante miglioramento del bene comune, sarebbero stati i frutti di una società commerciale, per lo meno per una repubblica come la neonata America. Oltretutto, pensarono, una società costruita sul commercio avrebbe dovuto fondarsi sulla responsabilità personale prima che sulle leggi. Senza una società rispettosa delle regole, che dipenda dai tribunali per far rispettare un contratto, come potevano uomini e donne d’affari correre grandi rischi prima di aver riscosso il pieno pagamento per il loro lavoro?
Navi mandate dal New England a portare indietro il tè proveniente dall’Asia dovevano essere pagate prima di
L’era del qua di Michael Novak leggi fatte rispettare sotto minaccia in alto mare (per questo ci fu la campagna di Jefferson contro i pirati berberi). Non stupisce che il motto di Amsterdam, successivamente una
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devano che una società commerciale avrebbe istruito tutti i suoi membri al lavoro, alle regole e all’innovazione, che avrebbe insegnato agli americani ad intraprendere avventure audaci (come i capitani di mare del New En-
sta, responsabile, autodisciplinata e orientata al futuro, e una simile cittadinanza è particolarmente necessaria per rendere le repubbliche libere prospere e rispettose della legalità.
Dato che le radici
I nostri antenati credevano che una società libera avrebbe istruito tutti i suoi membri al lavoro, alle regole e all’innovazione, che avrebbe insegnato ad intraprendere avventure audaci
poter tornare e vendere il loro carico, e i pirati dovevano essere combattuti non solo con le leggi scritte ma con
delle grandi capitali commerciali del mondo e oggetto di ammirazione da parte dei fondatori americani, era Commercium et Pax: il commercio promuove la pace. Il commercio è ciò che i vicini si scambiano pacificamente piuttosto che conquistarlo in guerra. I nostri antenati cre-
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gland), ad essere modesti nelle loro aspettative di guadagno e parsimoniosi nei loro reinvestimenti per crescite future. Queste attività sarebbero state un’alternativa alla consunzione della vecchia aristocrazia terriera. Una società commerciale incoraggiava una cittadinanza one-
della società commerciale - l’abitudine all’inventiva e all’innovazione, la gioia del duro lavoro, l’occhio al futuro - scaturiscono dagli obblighi delle religioni ebraica e cristiana, non c’è voluto molto tempo ai fondatori per riconoscere il ruolo cruciale della religione e della moralità nel tenere a freno gli istinti commerciali, mantenerli entro certi confini e preservarli dall’autodistruzione. Tocqueville notò con soddisfazione che «Ci sono
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Qui sopra, un dipinto di John Buxton che raffiguracinque tra i “Padri Fondatori” della nazione americana. In piedi (da sinistra verso destra): Philip Livingston, Roger Sherman, Thomas Jefferson e John Adams. Seduto: Benjamin Franklin
arto risveglio il libro
È in uscita in Italia, nella prossima primavera per i tipi di liberal edizioni, il nuovo libro di Michael Novak, “No One Sees God: The Dark Night of Atheists and Believers” (letteralmente, “Nessuno vede Dio: la notte scura di atei e credenti”). La versione originale del libro ha ricevuto l’accoglienza entusiastica di alcuni degli esponenti più celebri del mondo liberale e conservatore statunitense. Secondo l’editorialista del Wall Street Journal, Peggy Noonan, si tratta di «una delle più liriche e commoventi riflessioni su Dio che abbia mai incontrato». «Il nuovo libro di Michael Novak - aggiunge l’ex Speaker repubblicano della Camera, Newt Gingrich - è una delle più affascinanti ri-
flessioni sulla fede che sia mai stata pubblicata. Molti lettori riconosceranno in queste pagine elementi della propria esperienza individuale». E secondo Walter Isaacson, ceo dell’Aspen Institute, «negli anni Novak ha esplorato con grande profondità la relazione tra la religione, la società e l’individuo. E in questo libro affronta le sfide intellettuali più recenti ed insidiose sulla fede, offrendo la prospettiva di un profondo credente che conosce benissimo cosa significhi combattere con il dubbio». Un libro, secondo l’editore della rivista First Things, Richard John Neuhaus, che «affronta con grande pazienza e lucidità problemi che appartengono sia ai credenti che ai non credenti».
molte cose che le leggi non riescono ad evitare che i cittadini facciano che la religione degli americani riesce ad impedire».
Dal l’altra parte, il successo di una repubblica commerciale produce anche realtà snervanti che erodono la forza morale delle società. Le giovani generazioni danno per scontato il benessere ottenuto con il sacrificio degli anziani; qualcuno vuole fuggire dai propri doveri e qualcun altro prova disprezzo per le regole imposte dai suoi progenitori. Generazioni abituate al duro lavoro e all’autodisciplina possono permettere alle nuove generazioni di passare il tempo ad ascoltare la musica e a coltivare la ribellione, preferendo vivere nell’ozio piuttosto che impegnarsi nell’umile lavoro. Una generazione tesa conser-
vare per il domani è rimpiazzata da una generazione che vive sbadatamente solo per l’oggi. Sotto questo profilo, il successo di una repubblica commerciale tende a minare la forza morale dei giovani. Il sociologo Daniel Bell chia-
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stri antenati chiamavano un “Grande Risveglio”.
Secondo i calcoli dell’economista Premio Nobel Robert Fogel, gli Stati Uniti sono oggi nella lenta fase di un quarto grande risveglio, ca-
Secondo i calcoli dell’economista (e Premio Nobel) Robert Fogel, gli Usa sono oggi in una lenta fase di ritorno alle proprie radici, sia spirituali sia commerciali mava questi cicli “le contraddizioni culturali del capitalismo”, che significa, in altre parole, forte moralità ma - col passare del tempo - decadenza dei costumi. Le opportunità per accelerare questo processo, d’altronde, sono ovunque, ma questa decadenza morale è solo uno degli esiti possibili, non necessariamente l’unico. Messi bene in guardia contro di lei, siamo in grado di compiere notevoli sforzi per non cedere alle sue attrattive. In questo senso, il compito principale di una società commerciale diventa l’approfondimento morale e culturale e il ritorno alle radici spirituali, quello che i no-
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ratterizzato da un ritorno alle origini, l’enfasi per la famiglia e un invito ai giovani a sviluppare la consuetudine alla volontà e alla ragione, che sono le migliori garanzie di un carattere forte. Giovani così sono la maggiore speranza per la futura vitalità delle nostre libertà repubblicane e della creatività commerciale. L’intervento di Michael Novak è la quarta puntata del forum dedicato a “Il libero mercato corrompe l’etica?”. Martedì pubblicheremo l’ultimo intervento, quello del professore di economia alla London School of Economics, John Gray.
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mondo
Hassan al-Bashir non ha nulla da temere dalla Corte penale internazionale. Basta che consegni il responsabile del massacro in atto
L’Onu grazia il Sudan Darfur: nessuna accusa dell’Aja contro Karthoum La Corte preliminare blocca il Procuratore capo di Valentina Cosimati l Presidente del Sudan Omar Hassan al Bashir per ora può stare tranquillo: non sarà ricercato dalle polizie del mondo per le presunte responsabilità nel genocidio del Darfur. Una decisione della Corte preliminare ha gelato le
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al giudice per le indagini preliminari, ndr) ha infatti deciso nei giorni scorsi di rimandare la questione al 17 novembre, chiedendo alla Procura ulteriore materiale a sostegno della richiesta per spiccare il mandato di cattura internazionale. Luis
Il Paese non fa parte dell’Assemblea degli Stati Parte, che elegge la Corte internazionale, e pertanto non ricade nella sua giurisdizione. Ma può apparirvi come imputato, se viene citato aspirazioni del Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale Luis Moreno-Ocampo, che il 14 luglio scorso aveva suscitato scalpore annunciando la richiesta di un mandato di arresto per il presidente sudanese. La Prima Camera Preliminare (Pre-Trial Chamber, grossolanamente assimilabile
Moreno-Ocampo si è battuto strenuamente per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di un intervento in Darfur con tutti i mezzi a sua disposizione, tra cui la realizzazione e promozione del documentario prodotto dalla Warner Bros Independent Darfur Now! che ha coinvolto attori
Se le Ong fanno più dei governi
E alle vittime del genocidio ci pensa soltanto Emergency
di Massimo Fazzi
del calibro di Don Cheadle, Ted Braun e George Clooney e la cui proiezione al Palazzo di Vetro dell’Onu ha rischiato di causare un incidente diplomatico. La non decisione della Prima Camera Preliminare è un’azione un po’ “pilatesca” da parte dei giudici, che hanno di fatto rimandato al mittente la spinosa questione del Darfur.
Andiamo con ordine . La Corte Penale Internazionale è un organismo indipendente a due “corpi”: la corte e l’Assemblea degli Stati Parte. La corte ha differenti organi - la Presidenza, la Cancelleria per la parte amministrativa, l’Ufficio del Procuratore per le indagini e per l’accusa in sede di giudizio, e tre ordini di camere giudicanti – i cui rappresentanti più eminenti vengono eletti dall’Assemblea degli Stati
ROMA. Il conflitto in atto nella regione sudanese del Darfur nel giro delle ultime settimane ha provocato altri 24 mila sfollati, stando a quanto riferito ieri da Gregory Alex, direttore dell’ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha). In dichiarazioni rese alla stampa a El Facher, nel Darfur settentrionale, Alex ha detto che i nuovi scontri hanno gettato nel panico la popolazione civile e che la fuga dalla zona degli scontri era in corso anche a fine settembre. Alex ha lamentato anche che le organizzazioni umanitarie continuano a non avere libero accesso alla zona e che gli abitanti hanno crescenti difficoltà a procurarsi acqua e viveri. Come se non bastasse, parte dei profughi che hanno lasciato le loro case nelle ultime settimane sono bloccati in valli e colline inospitali senza alcuna protezione, ha aggiunto Alex. Dal 2003 il conflitto in Darfur ha provocato in totale oltre 300 mila morti e oltre 2 milioni di profughi. Una situazione gravissima in cui sembra - a tratti - che le Ong stiano portando a casa risultati più importanti dei governi, impantanati in giochi diplomatici assolutamente paralizzanti. Che non rendono giustizia al-
le vittime di questa tragedia. Pensiamo al Consiglio di sicurezza dell’Onu che tenendo conto delle resistenze di diversi stati - nel luglio scorso ha approvato una mozione che rinnova la missione militare congiunta di Unione Africana e Nazioni Unite, introducendo esplicitamente il congelamento del mandato d’arresto che pende nei confronti del presidente sudanese Omar al Bashir nei confronti del quale il procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha mosso l’accusa di genocidio e crimini contro l’umanità. In questo gioco di mozioni e rinvii - ultimo quello di un mese con cui i giudici dell’Aia hanno chiesto al procuratore di raccogliere altre prove contro Al Bashir - il dramma della popolazione resta inascoltato. Certo, i tentativi non mancano. Pensiamo, ad esempio, all’iniziativa promossa da Emergency, l’organizzazione non governativa fondata dal medico milanese Gino Strada, che sta raccogliendo i fondi per costruire una struttura pediatrica nella capitale della regione martoriata dalla guerra. Domenica i volontari di Emergency saranno in 200 piazze italiane per illustrare la nuova campagna «Un centro pediatrico in Darfur. La nostra idea di pace».
Si parlerà della struttura che sarà costruita a Nyala - capoluogo della regione sudanese lacerata dalla guerra - grazie alle donazioni raccolte con gli sms solidali che, fino al 22 ottobre, gli utenti Tim, Vodafone, Wind e Tre potranno inviare al numero 48587 e donare così un euro, oppure, allo stesso numero, una chiamata da rete fissa Telecom Italia per donare 2 euro. Nyala conta circa 1 milione e mezzo di abitanti, in gran parte profughi della guerra. Il centro pediatrico di Emergency darà assistenza qualificata e gratuita ventiquatt’ore su ventiquattro ai bambini fino ai 14 anni di età per patologie quali malnutrizione, infezioni alle vie respiratorie, malaria, infezioni gastrointestinali. Sono previsti anche programmi di immunizzazione e di attività di educazione igienico-sanitaria. Nello stesso centro sarà allestito un ambulatorio per lo screening di pazienti cardiopatici, da trasferire al Centro Salam di Emergency a Khartoum per l’intervento di cardiochirurgia e per il decorso postoperatorio. Tanti piccoli gesti che però rendono giustizia a una terra per ora dimenticata dagli organismi che contano. O dovrebbero contare in ambito internazionale.
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Parte, con l’eccezione della Presidenza (i cui membri vengono nominati dai giudici). L’Assemblea degli Stati Parte ha una struttura molto simile a quella dell’Assemblea generale dell’Onu: ha potere decisionale su questioni vitali per la composizione della corte ma non ha voce in capitolo sullo svolgimento dell’attività giudiziaria.
Ne fanno parte, con uguale diritto di voto, i 108 Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma, ovvero tutti i Paesi UE e del Commonwealth, la stragrande maggioranza dei Paesi sud americani, un consistente gruppo di Stati africani e alcuni Stati asiatici, tra cui la Georgia. Grandi assenti tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu: Stati Uniti, Cina e Russia. In teoria, le riunioni dell’Assemblea si dovrebbero tenere a L’Aja ma il prossimo meeting è previsto per gennaio a New York. E proprio dalla Grande Mela sembra es-
sere partita questa corrente fredda che ha rimandato l’azione della Corte in Darfur, una delle grandi sfide di Luis Moreno-Ocampo. Il Consiglio di Sicurezza ha suggerito nel 2005, con apposita risoluzione e conseguente comunicazione ufficiale all’Ufficio del Procu-
18 ottobre 2008 • pagina 15 A sinistra, profughi del Darfur. La regione sudanese è sotto osservazione da anni per il genocidio della popolazione, compiuta dalle milizie islamiche Janjaweed con il sospetto appoggio del governo. Questo riceverebbe armi dalla Cina Sotto, il presidente del Sudan Omar Hassan al-Bashir
viduato dei potenziali colpevoli e ha presentato la richiesta di alcuni mandati di arresto alla Prima Camera preliminare, che non si può opporre alle decisioni del Consiglio di Sicurezza sull’inizio delle indagini ma può decidere se spiccare o meno un mandato
Unione africana e Lega araba contrari a ogni ulteriore indagine. Cina, Russia e Gran Bretagna spingono per un giusto procedimento, ma vogliono garanzie. Washington non si è ancora espressa ratore, di portare avanti le indagini in Sudan per cercare di arginare la crisi umanitaria e fermare i presunti responsabili del genocidio in atto. Il Sudan non è uno Stato Parte, e pertanto non ricade nella giurisdizione della Cpi, ma la richiesta formale del Consiglio di Sicurezza ha permesso di aggirare la questione dell’ammissibilità. Il Procuratore capo, ben felice di poter proseguire la sua battaglia, ha indi-
di arresto. La richiesta più spinosa è arrivata a luglio di quest’anno: mettere sotto processo Omar Hassan al Bashir, ovvero il presidente di uno Stato sovrano che non ha ratificato lo Statuto di Roma e non rientra pertanto nella sfera dei paesi che hanno volontariamente accettato la giurisdizione sovranazionale della Corte.
A Washington e Mosca più di una persona si è accorta che
si tratta di materiale esplosivo e va maneggiato con la dovuta cautela. Gli strumenti a disposizione sono molteplici, ma finora quello dello stand-by sembra il più gettonato, tanto che si paventa un possibile utilizzo dell’art. 16 dello Statuto di Roma, ovvero il veto da parte del Consiglio di Sicurezza al proseguimento delle indagini per 12 mesi rinnovabili per questioni relative alla minaccia alla pace mondiale (il Capitolo VII della Carta Onu). È bene ricordare che la Corte, al contrario dei tribunali internazionali (ex Jugoslavia e Rwanda), non è un organismo delle Nazioni Unite e la sua azione non dipende dal Consiglio di Sicurezza, ma anche che non è prevista l’opzione dello svolgimento dei processi in contumacia. Al momento l’Unione Africana e la Lega Araba sono contrari al proseguire delle indagini e la Francia di Sarkozy sembra intenzionata a voler richiedere la sospensione. La Cina, la Russia e la Gran Bretagna potrebbero appoggiare la richiesta di art. 16 se verranno garantiti alcuni requisiti minimi, tra cui il raggiungimento di un accordo di pace duraturo, la possibilità per le forze Onu di operare liberamente in Darfur e mettere sotto processo i presunti colpevoli dei massacri. Le istanze all’interno della società statunitense affinché i responsabili del genocidio vengano messi sotto processo a L’Aja sono molte e ben sostenute da una solida rete di lobbies e Ong, ma non c’è ancora una presa di posizione netta e ufficiale da parte degli USA. Sebbene il presidente uscente George W. Bush abbia chiarito che i crimini in Darfur non possono continuare, ha anche puntato il dito, durante i lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sulla situazione in Ossezia del Sud, nella Georgia, Stato che fa parte della Corte Penale Internazionale. Per ora, insomma, il presidente su-
danese non ha nulla da temere, soprattutto se fermerà le atrocità e consegnerà a L’Aja la persona considerata massima responsabile del genocidio e degli stupri di massa, Ahmad Muhammad Harun, attualmente ministro per i diritti umani del Sudan.
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cultura
Il neorealismo, la tensione etico-politica del cambiamento, la ricerca della verità umana dell’emozione. Ecco che cosa ha significato per il cinema italiano il 1948
È successo un Quarantotto di Orio Caldiron l 1948 tira le fila delle esperienze dei primi anni del dopoguerra e insieme prefigura scelte e cambiamenti delle stagioni immediatamente successive. Non si tratta certo di un processo lineare e ordinato, di un diagramma dove tutto torna, ma piuttosto di un percorso interno che come una traccia di senso attraversa alcuni dei momenti più innovativi e dinamici del cinema italiano. In rapporto alla società dello spettacolo e al ruolo che allora si attribuisce all’autore cinematografico (una nozione che si viene meglio definendo proprio in quegli anni), il neorealismo incarna la tensione etico-politica del cambiamento, in cui molti si riconoscono. Ma sul piano estetico, il neorealismo sembra un campo di forze in ebollizione più che un terreno definito una volta per tutte, un intreccio cangiante e magmatico di volontà progettuali a cui da più parti si tenta inutilmente di attribuire etichette inadeguate e condizionanti.
I
modalità espressive di avvicinamento al volto umano, al mistero della soggettività, dall’altro lavora sul corpo dell’attrice in un sottile equilibrio tra la messa in scena che l’interprete fa di se stessa e la messa in scena del regista, in una sorta di incontro/scontro tra due modalità espressive che si confrontano nella ricerca della verità umana dell’emozione, rivendicando ciascuna per sé una propria, paradossale autonomia.
Non meno significativo Il miracolo che alla scandita essen-
Si prefigurarono 60 anni fa i cambiamenti delle stagioni successive al dopoguerra. Un percorso interno che attraversò alcuni dei momenti più innovativi per il grande schermo
È fin troppo facile verificare i risultati dell’anno in film clamorosi come La terra trema di Luchino Visconti, Ladri di biciclette di De Sica e Zavattini e Germania anno zero di Roberto Rossellini, o nelle opere diseguali e suggestive di Luigi Comencini, Renato Castellani, Luigi Zampa, Mario Soldati, Pietro Germi. L’attenzione alla microfisionomia tipica della poetica neorealista spicca in L’amore il film di Rossellini in due episodi, Una voce umana e Il miracolo, molto diversi tra loro. Un omaggio all’arte di Anna Magnani che va ben oltre le ragioni autobiografiche. Una voce umana da un lato sperimenta le
zialità del primo episodio sostituisce la scena esuberante e affollata di un rapporto forte tra il personaggio e l’ambiente di Maiori: anche questo un esperimento che sembra andare in una direzione destinata a affiorare più esplicitamente nell’attività rosselliniana solo negli anni successivi. Sta a sé il caso di Riccado Freda che ripropone con sprez-
zante autorevolezza il modello del grande cinema spettacolare italiano. Si tratta di una scelta polemicamente estranea alla temperie neorealista, in cui invece sono centrali le imprese degli eroi, dei personaggi d’eccezione, dei corpi-simbolo che si stagliano nel fotogramma con una forza di coinvolgimento emotivo che è raro ritrovare sia nel cinema d’autore sia nel cinema commerciale. Il senso dello spazio domina le varie fasi dell’attività del regista, che negli anni successivi si avvicinerà ai generi più diversi, dal peplum all’horror, senza mai modificare sostanzialmente la forza totalizzante della messinscena, impadronendosi del set fino a farlo diventare il luogo privilegiato dell’azione che celebra i suoi riti risolvendo ogni cosa nella magia del cinema. Il segreto di questo grande artigiano – di cui I miserabili e Il cavaliere misterioso costituiscono gli esempi più persuasivi – è la debordante vitalità della macchina da presa, la sicurezza tecnica tanto prodigiosa da toccare l’improntitudine, la capacità di girare all’americana con inimitabile talento visivo. Il successo del cinema comico si affida nel dopoguerra all’incontro tra gli attori provenienti dall’avanspettacolo e la generazione di sceneggiatori maturata nelle redazioni dei
giornali umoristici, da Steno a Maccari, da Metz a Marchesi, da Age a Scarpelli, da Amendola a Rovi. Si ha l’impressione di trovarsi all’interno della fase di trasformazione in cui il comico cambia pelle, lasciando intravedere in lontananza la futura commedia all’italiana.
Dal 22 al 31 ottobre all’Auditorium Parco della Musica
Al via Il Festival internazionale del Film di Roma
È il caso di Accidenti alla guerra! di Giorgio C. Simonelli con Nino Taranto, ma il più curioso è L’eroe della strada di Carlo Borghesio che ripropone la maschera di Macario all’interno della realtà urbana del dopoguerra. La forza del film sta nel gioco pirotecnico delle era una volta il ’48, a cura di Orio Caldiron con la collaborazione di Maria Grazia Miccoli, è un evento organizzato nell’ambito del Festival Internazionale del Film di Roma dal 22 al 31 ottobre nello Spazio Espositivo Auditorium Parco della Musica. La mostra ripropone nei suoi vari aspetti il cinema dell’anno, attraverso un gran numero di foto di scena e di set, manifesti e locandine. Sessant’anni fa, il 1948 è un anno decisivo per il cinema italiano. Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, con La terra trema, Germania anno zero, Ladri di biciclette, spingono il neorealismo nel terreno di una immedesimazione totale con la realtà dei personaggi e degli
C’
cultura
battute e delle gag, che colgono polemicamente innumerevoli aspetti della situazione sociale e politica del momento. In tribunale Felice-Macario viene salvato da Gaetano-Carlo Ninchi, che esibisce una (falsa) tessera di ex partigiano, uno dei suoi tanti espedienti per sopravvivere in una situazione difficile e contraddittoria. Alla Mensa pro sinistrati e profughi, Gaetano riesce a far andar via la maggior parte delle persone che aspettano in fila, annunciando
ambienti. L’inedita forza di rivelazione, sia pure in modi diversi, accompagna anche gli scugnizzi napoletani che costruiscono con don Pietro la città dei ragazzi (Proibito rubare), Ciro, Iris e Geppa che raccontano con esuberanza e malinconia la giovinezza che finisce (Sotto il sole di Roma), il piccolo impiegato comunale che viaggia con disperata ironia nelle contraddizioni del ventennio (Anni difficili), l’ex gerarca fascista cinico e senza scrupoli che tenta la fuga tra le Alpi (Fuga in Francia), l’ispettore di polizia che indaga su un gruppo di insospettabili ragazzi di buona famiglia (Gioventù perduta). Se Anna Magnani si conferma la maggiore attrice italiana con quattro film – la prova più alta resta L’amore, «l’omaggio
che nelle banche è iniziato il cambio della moneta alla pari.
Mentre i finti poveri si precipitano fuori, Gaetano e Felice si chiedono malinconicamente: «Come si fanno a riconoscere i poveri poveri?». L’arrivo della celebre diva americana, inviata dall’Unrra per portare nelle misere baracche il suo smagliante sorriso e il conforto dei pacchi dono, è totalmente inventato dal radiocronista che manipola spudoratamente gli avvenimenti e all’arte di Anna Magnani», firmato Rossellini – Totò comincia la scalata al successo, sempre uguale e sempre diverso, tra ciclisti e toreri. I generi di massa – dal film-opera al mélo, dal comico al film di guerra, dall’avventura al giallo – cercano la propria identità prima dei trionfi degli anni successivi. Storie di oggi e di ieri sullo sfondo di una società che cambia, nell’anno in cui entra in vigore la Costituzione. Il contesto è suggerito da immagini tratte dalla stampa d’epoca su la politica, la cronaca, il costume, il varietà, la cultura, i fumetti, e dalle canzoni e le cineattualità. Nell’occasione la Minimum fax ha pubblicato C’era una volta il ’48, un volume fotografico con scritti dell’anno editi e inediti, oltre a una completa filmografia.
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trasforma in atti caritatevoli gli scatti nevrotici al limite del sadismo della star. L’esperienza più paradossale, il protagonista la vive però quando viene arruolato per scrivere sui muri gli slogan propagandistici, ma è costretto a modificarli a più riprese secondo le pressioni degli attivisti dei vari partiti. Il 1948 – con Fifa e arena e Totò al giro d’Italia – è per Totò l’anno di transizione. Totò al giro d’Italia è una sorta di scommessa anche per l’abile Mario Mattoli perché mette insieme le trovate più funamboliche e surreali con i grandi campioni del ciclismo, lo sport più popolare del momento, che appaiono nel film nel ruolo di se stessi. Scritturare Bartali, Coppi, Bobet, Magni, assieme a uno stuolo di altri assi sportivi, non è solo la trovata di avvio di una sorta di istant movie che sceglie di lavorare all’interno dell’immaginario di massa per verificare la tenuta spettacolare dei campioni più amati dal pubblico, ma segna la struttura portante dell’intero film, il suo percorso di tappa in tappa in giro per l’Italia, il suo rapporto pri-
vilegiato con il giornalismo radiofonico e della carta stampata al seguito. Il riferimento all’inferno giustifica le numerose apparizioni del diavolo, i particolari poteri che il protagonista acquisisce e l’espediente finale con cui la madre lo salva. Il concorso di Miss Italia a Stresa, vinto da Fulvia Franco che ottiene subito di al partecipare film, è una delle tante trovate mediologiche, che gioca tra documento e affabulazione. Sin dall’inizio il regista mescola brani docue mentaristici scene d’invenzione e ancor più spinge il pedale del rapporto ludico tra realtà e finzione nelle sequenze sportive in cui il materiale di repertorio, la citazione delle cineattualità e la messa in scena si confondono di continuo. Nel corso dell’impresa sportiva, in
cui Totò-Casamandrei sbaraglia tutti i veri campioni, s’impone in modo clamoroso il ruolo della radio, medium per eccellenza dell’epoca pretelevisiva. Surreale in modo esagerato o più che mai realisti-
co,Totò rischia di sembrare quasi una persona normale catapultata in un mondo dalle straordinarie capacità muscolari e acrobatiche, in grado di scalare montagne e sfrecciare in volata senza aver bisogno di vendere l’anima al diavolo. Se gli eccezionali poteri del protagonista ci fanno vedere i campioni nella loro goffa quotidianità, quando tornano a tagliare il traguardo da vincitori, si ristabiliscono i ruoli di ciascuno.
Follie per l’opera di Mario Costa, incentrato su un concorso per cantanti lirici, sembra il titolo simbolo della fioritura del film operistico che – inaugurato dallo stesso regista un paio di anni prima con Il barbiere di Siviglia – tiene banco per un decennio con quasi una ventina di titoli, spesso tra i primi posti nella classifica degli incassi. L’intero repertorio classico dell’opera lirica italiana passa dal palcoscenico allo schermo, dando vita a uno dei generi cinematografici postbellici in grado di raggiungere il pubblico periferico, rinverdendo le fortune di uno dei momenti più riconoscibili dell’immaginario nazionale. Il mélo cerca la propria strada nel territorio del romanzo popolare e della letteratura di consumo, riscoprendo schemi narrativi e sentimenti tematici del feuilleton. Nei film dell’anno – da L’isola di Montecristo a Amanti senza amore, da Pagliacci a Una lettera all’alba – si ripropone il collaudato repertorio di vicissitudini del cuore, delitti sensazionali, clamorose redenzioni, figlie perdute e ritrovate, in cui il codice d’onore ruota attorno ai personaggi femminili. Soltanto l’anno dopo si impone, assicurandosi il primo posto nella classifica degli incassi, Catene di Raffaello Matarazzo, che rimesta ingredienti non molto diversi ma abilmente filtrati attraverso la sensibilità e l’iconografia del nuovo cinema italiano. Sfogliando le vecchie riviste, rileggendo gli scritti di allora, si ricompone lo scenario di una cinematografia che rinasce tra le macerie fino a imprimere una forte carica innovatrice nel cinema di tutto il mondo. Ma significa anche ritrovarsi di fronte alle tensioni tra le utopie del nuovo cinema e i compromessi del cinema commerciale, le intransigenze di un rapporto diretto con la realtà e le mediazioni dei generi popolari, altrettante polarità contrapposte, insanabili contraddizioni che il tempo verrà decantando se non addirittura capovolgendo. Sono in qualche modo i problemi che il cinema italiano si troverà a affrontare a più riprese anche nei decenni successivi, fino alla svolta degli anni Sessanta, in cui si aprirà una nuova, appassionante stagione del nostro cinema.
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fumetti Nelle librerie specializzate è arrivata la prima parte della nuova saga di Garth Ennis e Darick Robertson “The Boys” (in questa pagina alcune immagini degli eroi del fumetto indipendente americano)
nelle librerie specializzate arriva la prima parte della nuova saga di Garth Ennis e Darick Robertson The Boys, Collezione Cult Comics, 2008, Panini Comics, fumetto indipendente americano, nel 2007 Graphic Novel dell’anno con una nomination per gli Eisner Award, i cui primi sei capitoli furono pubblicati dalla etichetta Wildstorm, il brand impegnato della Dc Comics, che poi ne interruppe la pubblicazione per i contenuti altamente violenti, scorretti e distruttivi. I diritti della serie passarono quindi alla Dynamite Entertainment, diventando The Boys la serie più chiacchierata da allora sino a oggi negli States.
E
Resi celebri dalla loro personalissima proposizione del Vietnam di Frank Castle negli anni idealmente precedenti alla nascita del personaggio Marvel de Il Punitore, Ennis con i suoi testi duri, violenti e cinici, e Robertson con i suoi disegni che ammiccano al cartoon anni ’80, tutto tratti tondeggianti, colori pieni e tavole che orchestrano il narrato in uno stile inequivocabilmente cinematografico, giungono a un connubio straniante in una storia che per la prima volta mette i supereroi dalla parte dei “nemici”. Billy “the butcher” – il macellaio – inglese, è il leader di una squadra che sotto copertura della Cia deve controllare, fermare e nel caso cancellare la minaccia rappresentata dai supereroi. Che non sono più gli eroi un tempo conosciuti, gente disinteressata che metteva a rischio la propria vita in nome della giustizia, della difesa della vita o anche solo per l’interesse del Paese che li ospitava. Adesso sono un manipolo di viziati, corrotti, depravati che utilizzano i loro poteri per giungere alle soglie di piaceri proibiti, di abusi che le autorità devono far finta di non aver visto solamente per non causare incidenti diplo-
dai tratti orientaleggianti silenziosa e dissociata cui non è dato rivolgersi - “latte materno” - un enorme afroamericano newyorchese, sono tutti dotati di una forza fisica che va oltre il naturale per via dell’assunzione di sostanze topsecret.
Arriva in libreria la nuova saga di Ennis e Robertson “The Boys”
Sorpresa: i supereroi ora sono dei cattivi ragazzi di Giampiero Ricci matici che potrebbero significare problemi alla sicurezza nazionale e interIl nazionale. piccolo Hughie, alter ego dell’attore Simon Pegg, divenuto noto
agli amanti del genere horror demenziale per essere stato Shaun in L’alba dei morti dementi di Edward Wright e per aver vestito i panni di uno zombie in La terra dei morti viventi di George A. Romero, è un nerd scozzese che per la
prima volta nella sua vita tocca il cielo con un dito: è innamorato e il suo amore è ricambiato. Ma proprio quando il suo sogno si sta coronando la fidanzata, sotto i suoi occhi, viene travolta durante un combattimento tra superuma-
Viziati, corrotti, sboccati, depravati che utilizzano i loro poteri per giungere alle soglie di piaceri proibiti. Ma tra gli adulti sono i fumetti che vanno per la maggiore ni rimanendo orrendamente dilaniata e ferita a morte.
Billy “the butcher” sta reclutando proprio in quei giorni una squadra che metta in ordine le cose tra uomini e supereroi. I suoi rapporti ambigui con la Cia e la donna che dirige il progetto anti-supereroi si spingono molto oltre la simpatia e i suoi uomini, “il francese”- un simpatico psicopatico evidentemente somigliante nelle movenze e nei tratti somatici a Vincent Cassel - “la femmina” - una donna
Il fumetto, al di là delle esplicite scene di sesso e per l’utilizzo di effetti splatter, va ascritto nel solco tracciato dal mitico Alan Moore e il suo The Watchmen - trasposizione cinematografica a breve nelle sale - del noir alla Sin City di Frank Miller ovvero in quegli spazi di qualità che il fumetto indipendente americano riesce sovente a ritagliarsi. Se in The Watchmen la domanda ricorrente era “Who watches the watchmen?” - “Chi osserva gli osservatori” - dove i protagonisti erano supereroi in crisi, in cerca di una identità e di un senso nella vita al cospetto di un imminente disastro nucleare, con The Boys Ennis e Robertson sembrano formulare la “loro” squadra di “osservatori” quasi a titolo di risposta all’interrogativo di Alan Moore. Non a caso la frase che appariva nella serie di Moore ritorna anche nel racconto di Ennis. In “The Boys”, se ai supereroi per traslazione si sostituiscono ricche e superficiali ereditiere, sportivi super pagati, manager corrotti vuoti e senza qualità, starlette e tronisti del ceto televisivo caro all’intrattenimento in sospensione di coscienza, allora si riesce a cogliere nel sadismo e nella cattiveria senza limiti della squadra di Billy “the butcher”, l’affiorare di quel senso di disgusto verso i privilegi di tutti i generi che nelle nostre società occidentali sembra sempre di più essere il minimo comun denominatore del sentimento popolare (e questo nell’anno domini di quella che da qualche parte è stata denominata la “Long Depression” di rimando alla “Big” degli anni ’30 del secolo scorso). The Boys resta un fumetto per lettori adulti, a volte sboccato, spesso troppo indulgente nel cercare l’effetto pugno-nellostomaco, ma una lettura imperdibile per gli amanti del Comic World.
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A 500 (più uno) anni dalla nascita di Jacopo Barozzi, in arte il Vignola, studiosi di tutto il mondo si preparano a celebrarlo
L’architetto dei papi e dei Farnese di Claudia Conforti ignola è una cittadina vicina a Bologna, celebre per la produzione di ciliegie e per aver dato i natali e il nome d’arte all’architetto Jacopo Barozzi, detto il Vignola. Protagonista del pieno Cinquecento, autore della chiesa del Gesù e del palazzo Farnese di Caprarola, l’architetto è nato il 1 ottobre del 1507 da una famiglia di artigiani: il padre era ciabattino; il nonno paterno scalpellino, come il fratello Giovanni Angelo; uno zio era pittore, come il secondo fratello Guarnerio. Del lavoro artigiano Vignola ha il gusto della manipolazione e della trasformazione della materia, l’accuratezza esecutiva e quello schietto pragmatismo che lo guida nella stesura della Regola delli cinque ordini d’architettura, un trattato che, pubblicato nel 1562, gode di un successo torrenziale tra architetti, scenografi e studenti, fino alle soglie del XX secolo.
V
1536, come eccellente misuratore e disegnatore di antiche fabbriche d’architettura, di bassorilievi e di statue. Proprio la sua famigliarità con la scultura antica è all’origine dell’ingaggio alla corte di Fontainebleau, per la quale deve approntare copie di bronzi antichi, traendole da gessi da lui stesso formati sugli originali delle collezioni cardinalizie e vaticane della città eterna.
Ma la sua fama è legata soprattutto alla sua generosa produzione architettonica, che ha convogliato immagini e forme rinascimentali nelle città e nei paesi dello stato pontificio: da Piacenza a Bologna, da Norcia a Capranica e, naturalmente, a Roma. A Bologna, dove assume la direzione della fabbrica di San Petronio nel 1543, il suo progetto per la facciata del palazzo dei Banchi riformula il volto di piazza Maggiore, la piazza principale della città emiliana, imprimendole la nobile eleganza di un antico Foro, come ha brillantemente illustrato Richard J.Tuttle, appassionato studioso americano di Vignola, nel volume Piazza Maggiore, edito da Marsilio nel 2001.Tornato a Roma nel 1550, richiamato da papa Giulio III, l’architetto edifica lo straordinario tempio a
Il Comitato nazionale presieduto da Paolo Portoghesi curerà una serie di convegni distribuiti tra la fine di ottobre e novembre
Le notizie sul Vignola provengono da due biografie: una nella seconda edizione delle Vite degli artisti (1568) di Giorgio Vasari, suo coetaneo, che lo conobbe e che lavorò come lui al servizio dei Farnese e di papa Giulio III a villa Giulia a Roma. L’altra è scritta da Egnazio Danti (1536-1586), domenicano, matematico e cosmografo di Cosimo I de’ Medici, che antepose la Vita di M. Iacomo Barozzi da Vignola a un altro trattato di Vignola: Le due regole della prospettiva (1583). Queste fonti sono state integrate da notizie tratte da archivi italiani e francesi, poiché l’artista fu ingaggiato dal 1541 al 1543 dal re Francesco I di Francia, nel cantiere di Fontainebleau dove, sotto la direzione dell’architetto Sebastiano Serlio e del pittore Francesco Primaticcio, le arti francesi si aprivano all’antico. La formazione di Vignola prende le mosse da Bologna, dove tredicenne, alla morte del padre, è mandato a bottega da un pittore rimasto sconosciuto. Lì impara la prospettiva, nella quale si distingue come un autentico virtuoso, tanto che un suo disegno di Mosé salvato dalle acque, commissionato dallo storiografo fiorentino Francesco Guicciardini, viene tradotto in tarsie lignee da fra Damiano Zambelli da Bergamo, all’epoca ricercatissimo maestro dell’intarsio. Il disegno e la prospettiva sono gli strumenti con cui il giovane bolognese si afferma a Roma, dove giunge nel
A fianco, la Chiesa di Sant’Andrea sulla Flaminia; sopra, il ritratto di Vignola; sotto, Palazzo dei Banchi a piazza Maggiore a Bologna; in basso, il Frontespizio del trattato di architettura con autoritratto di Vignola (a sinistra) e il Palazzo arnese a Caprarola (a destra)
bre, la presentazione al pubblico del programma di manifestazioni in onore di Vignola che si terranno nelle prossime settimane.
pianta ovale di Sant’Andrea sulla via Flaminia, nel quadro della qualificazione monumentale di quella parte di città che introduce a porta del Popolo, l’ingresso dei pellegrini che giungono dal nord. Nello stesso disegno rientra la magnifica residenza con giardini, villa Giulia appunto, dal nome del papa committente, che il Vignola progetta insieme a Vasari e a Bartolomeo Ammannati, a pochi passi dalla Flaminia. La splendida villa, oggi sede del museo etrusco, ha ospitato mercoledì 8 otto-
Le celebrazioni per i 500 anni della nascita, differite di un anno, sono organizzate da un Comitato Nazionale presieduto da Paolo Portoghesi, del quale fanno parte importanti storici dell’architettura come Sabine e Christoph Frommel, Tuttle, Marcello Fagiolo e Bruno Adorni, oltre che funzionari delle soprintendenze che hanno in carico i monumenti di Vignola a Roma e nel Lazio. Un convegno, che si terrà tra il 22 e il 26 ottobre nel palazzo pentagonale dei Farnese a Caprarola, capolavoro assoluto di Vignola, riunisce studiosi di tutto il mondo, tra cui Fernando Marìas, Vincent Droguet, Howard Burns, il contributo dei quali fornirà gli indirizzi del futuro Centro Studi Vignola, che avrà sede proprio a Caprarola. E nel mese di novembre nella sala dello Stenditoio del complesso del San Michele a Trastevere verranno presentate le due monografie appena pubblicate su Vignola: quella di Marcello Fagiolo, Vignola, l’architettura dei principi, dell’editore romano Gangemi, e quella di Bruno Adorni, Jacopo Barozzi da Vignola, del milanese Skira.
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spettacoli
La popolare casa cinematografica, specializzata in “computer generated imagery”, torna in primo piano con il robottino “Wall.E”. Il nuovo cartone animato digitale da ieri in tutti i cinema
La vita formato Pixar John Lasseter: «Ecco come siamo passati dai giocattoli di legno a quelli di plastica» di Alessandro Boschi a tecnologia non crea i film. Le persone lo fanno. Non sei un animatore solo perché sai muovere un oggetto dal punto A al punto B. Sei qualcuno che dà vita a un personaggio: un qualcosa che i software e la tecnologia non possono fare», John Lasseter dixit. John Lasseter, da molti considerato il novello Walt Disney, è molto fiero del suo lavoro, e anche molto convinto dell’assoluta bontà dei propri prodotti. Quando per bontà si intende ciò che essi provocano e suscitano nei fruitori, bambini e non. Quando, all’uscita di Toys Story 2 - Woody e Buzz alla riscossa, gli chiedemmo se il passaggio dal vecchio cartone animato, quello del vecchio Walt Disney, per intenderci, al nuovo mondo dell’animazione digitale, non fosse un po’ come il passaggio dai giocattoli di legno ai giocattoli di plastica, il buon John si irrigidì. In realtà la nostra era una provocazione, perché se è un fatto che stuoli di studiosi del comportamento sostengono che il legno è un materiale emotivamente caldo, al contrario della fredda plastica, e questo può incidere sul carattere dei bambini, è altrettanto vero che non esiste (almeno non ancora) una simile equazione riferita alle animazioni di un tempo e a quelle di adesso. Peraltro come si evince dalla frase di Lasseter in apertura, egli è assolutamente convinto dell’anima delle sue animazioni, ci si consenta il gioco di parole. È però necessaria una breve parentesi storica sulla nascita di questo colosso.
«L
La compagnia Pixar nasce da una costola della del-
la LucasFilm di George Lucas. Fu acquisita da Steve Jobs (cofondatore della Apple Computer) nel 1986 per una cifra vicina ai dieci milioni di dollari. Questa operazione, fondamentale, la rese indipendente. Nello stesso anno Jobs fondò, appunto, la nuova compagnia indipendente e John Lasseter fi chimato a supervisionare tutti i progetti dello studio come vice-presidente esecutivo del Dipartimento creativo. Dal
2005, invece, è una parte del colosso multimediale della Walt Disney Pictures Tutti i prodotti Pixar, infatti, sono condivisi con la Walt Disney Pictures. All’inizio ci fu accordo grazie al quale le due compagnie dividevano costi di produzione e profitti. Accordo, questo, molto fruttuoso per entrambe le aziende. Con un “dettaglio” che però si rivelerà fondamentale: la Pixar diventa il nuovo leader dell’animazione grazie ai suoi primi cinque film che incassano qualcosa come 2,5 miliardi di dollari. Va detto che nel 2004, fu fatto
un tentativo di rinnovo del vecchio accordo, ma la Pixar, oramai forte del suo primato, pose delle condizioni che la Disney non potè che rifiutare. Le tante controversie interne tra gli amministratori delegati della Disney, Michael Eisner, e della Pixar, Steve Jobs (l’ormai mitico Steve Jobs) e i sorprendenti risultati che hanno fatto della Pixar stessa il vero leader dell’animazione rispetto alla Disney fecero il resto. Detenendo però i diritti dei primi
Da molti considerato il novello Walt Disney, Lasseter si dice soddisfatto del proprio lavoro: «Non sei un animatore solo perché sai muovere un oggetto. Sei qualcuno che dà vita a un personaggio» film, il colosso creato dal vecchio Walt tentò di realizzare il terzo episodio di Toys, che invece, grazie al successivo accordò, realizzò lo stesso Lasseter.
Successivamente la Disney, in proprio, diede vita ai primi lun-
gometraggi in CgI (Computer Generated Imagery), il primo dei quali è Chicken Little - Amici per le penne. Poi nel 2006, la Disney con un esborso di 7,4 miliardi di dollari, a fronte, non dimentichiamolo, dei 10 milioni pagati dal sempre più mitico Jobs dieci anni prima, ingloba la Pixar diventando, di fatto, la più grande realtà nel mondo della animazione. Ma Jobs non molla, e resta nel consiglio di amministrazione della Disney stessa titolare del maggior numero di azioni. A questo punto è evidente che parlare dell’aspetto artistico diventa necessario per prendere fiato e riemergere dalla jungla di cifre e giochi di potere, ma è altrettanto evidente che tenendo conto di queste lotte tra cartoonist (questa fa un po’ ridere), ci resta leggermente più difficile immaginare un film d’animazione, della nuova animazione, senza pensare a tutto ciò che c’è die-
In “Wall.E” la toccante passione tra due robot nella Terra distrutta dai rifiuti. Correva l’anno 2815...
Una love story in salsa ambientalista uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo. Questa, in estrema sintesi, la filosofia del buon Wall.E, ovvero Waste Allocation Load Lifter Earth-class… (diciamo operatore ecologico o spazzino?) unico rimasto a presidiare un pianeta terra devastato e “liberato” dall’umanità che, al pari di un relitto spaziale, vagola in una dimensione interspaziale con pochissime speranze di rientro alla base. Questo sporco lavoro però a qualcosa serve, perché è dall’immondizia e non solo dai monti di pietra che può nascere un fiore… o meglio, è dall’immondizia, e magari da un vecchio e obsoleto vhs (nemmeno un dvd…) che una
È
macchina può apprendere molto su chi quell’immondizia ha seminato ed ereditarne la personalità. Corre l’anno 2815 e Wall-E è sfuggito miracolosamente alla retata della Bnl (tranquilli, Bnl sta per Buy’N’Large Corporation), che aveva progettato di far ripulire il pianeta a uno stuolo di robottini creati alla bisogna. Fallendo l’operazione, i robottini vengono ritirati, eccetto il Nostro, ovviamente. Che continua a dedicarsi alla sua missione. Incontrerà una sua quasi simile molto sexy che, guarda un po’, si chiama Eve. Che dire? Tanto per cominciare che il regista Andrew Stanton (già premio Oscar per Alla ricerca di Nemo), e la Pixar, han-
spettacoli
tro. A meno di non essere bambini. Appunto. Siamo convinti che per quanto molti film disegnati siano più adatti ad un pubblico adulto, come ad esempio alcuni del grande maestro Hayao Miyazaki (peraltro il buon Lasseter di Miyazaki è amico oltre che produttore esecutivo di alcune sue pellicole), siamo convinti, dicevamo, che il disegno (anche il bianco e nero alla Persepolis) sia linguaggio squisitamente infantile. Miyazaki, Lasseter, Disney ovviamente. Oriente e Stati Uniti. E l’Europa? In Europa ci si affida al coraggioso Luc Besson, che forte degli incassi dei suoi blockbuster, declinati anche in versioni americane (pensiamo a Nikita), ha pensato bene di sfidare Pixar e Dreamworks (poi ne parliamo) con Arthur e il popolo dei Minimei, esperimento non del tutto riuscito ma apprezzabile perché frutto di una produzione interamente europea e realizzato con l’innovativa tecnica del motion capture. Ma
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cosa è mancato a Besson e al suo film? Il cuore, la magia. E sempre lì si torna. Come diceva un vecchio spot (parola che all’epoca non esisteva) della Salvarani «Tecnica sì, ma con sentimento».
Ecco, se questo sentimento non c’è, se la storia non ha anima, puoi fare quello che vuoi ma il risultato sarà mediocre. Al contrario, episodi tecnicamente rudimentali di animazione come Appuntamento a Belleville risultano a nostro avviso dei veri miracoli. DreamWorks, dicevamo, creatura fortemente voluta nel 1994 da quel Re Mida di Steven Spielberg. (Re Mida perché tutto quello che tocca diventa oro, e per una rapida verifica controllate i suoi incassi). Facciamo cenno a questo altro colosso della produzione cinematografica (e musicale e televisiva) “solo” perché al suo attivo si conta il successo, citiamo solo questo, di quel Gondrand dell’animazione che risponde al no-
no fatto di nuovo centro. Il film è una delizia, e già il solo immaginare, vedendola, una imbolsita umanità ammucchiata nella stazione spaziale di Axiom vale il prezzo del biglietto: in fondo la situazione, a dimostrazione che nulla si crea ma tutto si ricicla, ricorda molto gli ozi di Capua che furono fatali ad Annibale e al suo esercito: è proprio vero, le esperienze non si comunicano e la storia non insegna niente. Ma una speranza c’è sempre, ed è riposta in un germoglio, un virgulto che potrebbe ridare fiato all’esausta e già abbastanza criticata umanità. E dove si trova questo germoglio? Siete davvero sicuri di volerlo sapere? Ma, soprattutto, siete davvero sicuri di non saperlo già? Ma il punto, il vero punto in tutto ciò, è la realizzazione impeccabile del prodotto. Furbo quanto si vuole (vedi la scelta del vhs di Hello Dolly), ricco di luoghi comuni e citazioni ma, cari miei, sfido chiunque di voi a non commuoversi quando Wall-E e Eve, nel momento della loro separazione… (al.b.)
In alto e nella pagina a fianco, alcune immagini di “Wall.E”, il nuovo cartone animato in digitale della Pixar, da ieri nelle sale cinematografiche italiane. Sopra, alcuni fotogrammi di altri famosissimi cartoon della Pixar. Dall’alto: “Cars”, “Alla ricerca di Nemo” e “Bugs life”
me di Shrek, 1, 2, 3 e, presto, 4. Il primo orco è il film di animazione che ha registrato l’impiego del budget più alto e, ça va sans dire, il maggior successo al botteghino della storia del cinema, o giù di lì. Ma oggi, qual è lo stato del disegno animato nel mondo? La sensazione (la certezza) è che esista una strategia che coinvolga molti più mezzi di comunicazione che non il solo cinema cui il prodotto è in origine destinato. E non ci riferiamo alle emanazioni dirette come home video e televisione. È perfino superfluo sottolineare il merchandising invasivo che pervade tutto ciò che è visibile. E se il mondo intero si stesse trasformando in un unico cartone animato? Se la storia del mondo fosse racchiusa in un cartone animato? Borges diceva che un grande scrittore come Quevedo non aveva avuto il successo che secondo lui meritava perché pur scrivendo storie bellissime «non aveva mai creato un simbolo che si impossessasse dell’immaginazione dell’uomo». E di simboli che si impossessano della nostra immaginazione sono invece ricchi i cartoni animati. Dal topo chef di Ratatouille di Brad Bird, sempre Pixar, al nuovo e recentissimo Wall.E, ancora Pixar, che sta invadendo le nostre sale. È uno spazzino, Wall.E, ed è l’ultimo abitante della terra. Una volta questo ruolo, sebbene in compagnia di poco socievoli vampiri, era affidato a Vincent Price. Oggi al suo posto c’è un robot. Chissà. La sprezzante battuta di Eddie Valiant alias Bob Hioskins, «cartoni, ci cascano sempre», forse non è più molto pertinente.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Aiuti di Stato alle imprese. Siete d’accordo? BEN TORNATA POLITICA. BENTORNATO STATO «Il mondo è cambiato ha osservato il premier». Fino a poco tempo fa tutto era vietato. Gli aiuti di Stato erano considerati al pari di un peccato mortale. Adesso diventano l’imperativo categorico». Ora è possibile anche prevedere forme di sostegno al settore dell’auto ha spiegato Berlusconi – siano essi diretti o attraverso eventuali incentivi alla rottamazione. Del resto, se anche gli Stati Uniti, per far fronte agli effetti della grave crisi in atto, scendono in campo per sostenere la loro industria automobilistica, «non vi è da scandalizzarsi se anche le nostre imprese, ove necessario vengano aiutate. In sostanza, l’onda d’urto dello “tsunami” che si è abbattuto sui mercati finanziari mondiali sta scardinando alcuni dei baluardi posti dai governi europei a sostegno e protezione dell’economia di mercato. Del resto ha puntualizzato Tremonti – sugli aiuti di Stato già nel Trattato di Roma vi era «ampio spazio per una politica di sostegno delle imprese. Poi una certa interpretazione ha portato al sopravvento del mercato». Il ritorno in grande stile della mano pubblica, passaggio necessario per sostenere l’intero settore del credito, apre ora nuovi orizzonti di intervento
LA DOMANDA DI DOMANI
La crisi economica cambia le abitudini alimentari degli italiani. Cosa ne pensate? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
(impensabili fino a qualche settimana fa).Torna in auge Keynes e accusano decisamente il colpo i teorici della supremazia assoluta del mercato. Per Tremonti, già schierato sul fronte antimercatista, dalla crisi si uscirà solo con maggiore domanda pubblica, e dunque con più investimenti in infrastrutture da immettere nel circuito dell’economia europea. Quindi bando alle chiacchiere e prepariamoci ad un ritorno della supremazia della politica sulla finanza.
Marco Falleti - Ferrara
TUTTI SENZA TETTO
SVENDITA ITALIA «L’intervento dello Stato è irrinunciabile». Così parlando da Bruxelles, Silvio Berlusconi, ha illustrato la strategia europea per fronteggiare la tempesta finanziaria dell’ultimo periodo. Ma quale Stato verrebbe da chiedersi? E da maligno, risponderei: quello libico, forse? Sì perché il fatto che Lybyan Foreign Bank abbia conquistato il 4,23 per cento di Unicredit deve per forza far pensare. Deve far pensare alla deriva in cui si sta inabissando il nostro Paese che - di questo passo - di italiano avrà solo la pizza. Ah, dimenticavo: anche quella sta diventando sempre più egiziana. Nel senso che anche un fiore all’occhiello del made in Italy è sempre più nelle mani degli stranieri. Con questo, vorrei precisare che non ho nulla contro gli immigrati che arrivano nel nostro paese e imparano un mestiere. Anzi, il loro è uno sforzo nobile. Ma sono arrabbiato con l’Italia. Che ha smarrito in maniera inaccettabile una sana dose di orgoglio nazionale. E non è più attaccata al suo territorio, alle sue meraviglie, alle sue peculiarità. Già non avevo tollerato il modo in cui era stato gestito il caso Alitalia (ora addirittura, vogliono convincersi pure del fatto che hanno compiuto un miracolo). Ma questo altro colpo proprio non dovevano darmelo. Adesso manca solo la Fiat e stiamo a posto. In fondo c’è solo un rischio. Banale, banalissimo, talmente banale che nessuno sembra accorgersene: se continua così la bandiera italiana finiremo per vederla solo su certi (obsoleti) edifici.
NUOVE SPERANZE IN SICILIA Liberal in Sicilia è ancora in fase di rodaggio, ma già pronta a lanciare nuove personalità sulla scena politica. Pietro Vitellaro, Presidente in pectore dei Club liberal nella Provincia di Agrigento, è stato acclamato segretario cittadino dell’Unione di Centro ad Agrigento. Il più giovane segretario di partito in Italia, ha titolato la stampa locale. Certamente un ragazzo che può vantare un impegno politico, seppur limitato all’attività studentesca, di tutto rispetto. Un giovane di 19 anni, studente in giurisprudenza, si è avvicinato a liberal da qualche tempo - era già pronto ad assumere la responsabilità di innestare i club nella Provincia di Agrigento - quando è stato candidato a segretario cittadino ed eletto dall’assemblea congressuale. L’esperienza con liberal certamente non termina, anche se non potrà essere affrontata come immaginato in precedenza. A lui e all’avvocato Calogero Termine, eletto presidente cittadino, l’augurio di un proficuo la-
Quest’uomo somalo dorme in una capanna di fortuna. Ma non è l’unico a non avere una vera casa. Nel mondo ci sono molti senzatetto, anche nei paesi occidentali. Solo in Italia gli homeless sono 17 mila
UNA RETE DI VOLGARITÀ Ormai internet è a portata di molti, direi tutti eccetto chi non vuole munirsi di uno strumento elementare per guardare fuori. Si, fuori, dove si trovano le ragioni di tanti odi, rancori, provocazioni, menzogne tra le parti politiche principali italiane. Lascio perdere le volgarità, per soffermarmi solo su alcuni siti: il sindaco di Roma è il neo podestà (alla faccia delle elezioni); Fini è il capo fascista mimetizzato (alla faccia delle sue dichiarazioni); Berlusconi è il peggio del peggio (alla faccia del dialogo negato); Veltroni è un lumacone viscido (non so perché); Di Pietro un qualunquista opportunista ( mi sembra esagerato); Casini un servo dei Caltagirone (nemmeno la libertà di scegliersi la moglie). Di fronte a questo, cosa dovrebbe fare il
dai circoli liberal Tommaso Verrini - Cagliari
voro a servizio della città di Agrigento e della sezione cittadina dell’Unione di Centro. Liberal sarà sempre al loro fianco per promuovere l’attività culturale e continuare ad essere laboratorio di idee per lo sviluppo della città. Giovanni Nocera PRESIDENTE LIBERAL SICILIA NON RUBATE LA SPERANZA (ALMENO QUELLA) Crescenzio Sepe, Arcivescovo di Napoli, consegna al popolo italiano un libro, una visione e uno spaccato della Napoli di oggi vista dagli occhi di un uomo di fede che ama Dio e ama la sua Città. «Quante Napoli conoscete?», si chiede e ci chiede Sepe. Lo direi da campano e da giovane “aspirante” politico di turno. Una, nessuna e centomila, forse. E raccogliendo il suggerimento dell’Arcivescovo aggiungerei: «La città è questa» aggiungendomi al ritornello stanco di certa politica locale e nazionale. E qui Sepe, senza infingimenti e senza scusanti striglia tutti noi. «Napoli ha biso-
capo del Governo se non lo storico “Tiremm innanz”?
Leopoldo Guerrieri - ( T e )
L’USOCRAZIA RESISTE ANCORA Pochi giorni fa la Bce ha abbassato i tassi Euribor dello 0,50 per cento. Nonostante ciòil tasso euribor sui mutui è sceso dello 0,10 per cento. Ma allora a che serve che la Bce intervenga, se le banche fanno quello che vogliono? Forse l’intervento della politica nell’economia e nella finanza è solo un palliativo. Un compromesso tra poteri forti e poteri deboli, in questo caso la politica. Penso che si debba fare di più. A pagarne le conseguenze sarà sempre la persona comune, il cittadino della strada. Quello che non arriva alla seconda settimana, un tempo si diceva la quarta.
Franco Ribba - Ancona
gno di chi sappia guardare oltre perché da questa città, come da poche altre, è possibile allargare lo sguardo al mondo». Un libro da leggere tutto di un fiato per chi ha la presunzione di aver capito e per chi invece vuole capire i problemi di Napoli e della Campania in generale. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO CIRCOLI LIBERAL
APPUNTAMENTI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 2008, ALLE ORE 11, PRESSO PALAZZO FERRAJOLI A ROMA Riunione Nazionale con i coordinatori regionali, provinciali e comunali dei Circoli liberal
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog La distanza avvicina i sentimenti Vorrei poter venire da te come mia madre faceva con me le tante volte in cui mi ammalavo - e come tua madre deve aver fatto con te - come la Vita quando ero vuota di vita, così vivacemente quieta e ristoratrice, come dolce acqua fresca, perché sapevo che mi amava e mi portava nei suoi pensieri, e non avevo paura. E così scendeva sempre un senso di pace sulla mia inquietudine. Attingevo dalla sua presenza qualcosa che andava oltre la mia arsura, e per i momenti in cui si fermava presso di me il ricordo della sofferenza è quello di un gradino sul quale guadagnavo una gioia più chiara di sentirla vicina, un più squisito senso di lei. È questo il balsamo che vorrei portarti se potessi: ma so che dalle sue mani e cuori senza numero io può inviarti più di quanto io possa mai desiderare per te; e perfino i miei occhi riescono a vedere quanto la sua volontà sia benevola nei tuoi riguardi. Così pregare per te diventa assai semplice. Mary Haskell a Kahlil Gibran
CASO SAVIANO, BRUTTA STORIA Leggere da più parti «l’omertà di Casal di Principe, Saviano poteva farsi i fatti suoi», fa molto male al cuore. La Campania è una terra baciata dal sole e dalla natura, ma così maledettamente offesa dagli uomini. capisco che non si può credere che da quelle parti tutti siano o camorristi o omertosi! Eppure si leggono reazioni come sopra. Cosa vorrebbe ancora questa gente per decidersi, avere uno scossone, emettere un urlo, concedersi una reazione, un segnale! Non credo più sia demerito solo di Bassolino, di Jervolino, di Pecoraro. Convivere col pizzo, il ricatto, l’estorsione, nel 2000 non è più tollerabile. È una vergogna regionale, politica e sociale. Grazie per l’attenzione e buon lavoro
Paolino Di Licheppo - Teramo
STRAGE DI BOLOGNA, REGNA ANCORA L’INGIUSTIZIA A tanti anni dall’esecuzione della strage di Bologna, la più efferata azione di terrorismo mai avvenuta durante gli an-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
18 ottobre 1797 Trattato di Campoformio (Campoformido) tra Napoleone e l’Austria 1860 Prima edizione dell’Open britannico di golf 1907 Nasce l’Atalanta, squadra di calcio maschile di Bergamo, con il nome di Società Ginnastica Atalanta 1931 Al Capone viene condannato per evasione fiscale 1933 Albert Einstein, scappa dalla Germania Nazista e si sposta negli Usa 1945 A seguito di un colpo di stato, Juan Domingo Perón diventa dittatore dell’Argentina 1967 Debutto a Broadway del musical Hair 1973 I paesi dell’Opec iniziano un embargo del petrolio contro alcune nazioni occidentali ritenute responsabili di aver aiutato Israele nella sua guerra contro la Siria 1979 Madre Teresa di Calcutta riceve il Premio Nobel per la pace
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
ni di piombo, ci si interroga scandalosamente sulla vera matrice della strage, e la stessa sinistra si lascia andare sulla dubbia certezza della colpevolezza di personaggi come Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. All’epoca dei fatti non si guardò in faccia alla realtà, perché se scoppiava una bomba il primo ad essere indagato era di destra. Così i ben 47 ordini di cattura partiti subito dopo e che riguardavano tutte le organizzazioni neofasciste dell’epoca, può sembrare oggi un dato azzardato, ma allora era una prassi. Meno strana è la lunghezza burocratica con la quale si arrivò, dal 1987 alla prima sentenza del processo l’11 Luglio dell’88, che condannò Fioravanti e Mambro all’ergastolo come esecutori della strage. Ma la kermesse dei ripensamenti con la quale la nostra giustizia rinnega se stessa e si rifà il lifting, tuonò nel 1990, 18 Luglio, data nella quale la Corte d’Assise d’Appello, fece dietro front e assolse i neofascisti in questione più altri due per non aver commesso il fatto. Due anni dopo, il nuovo giro di boa: la sentenza di appello viene annullata e dopo altrettanti due, si ritorna ad una nuova sentenza di ergastolo. La beffa più grande è nel 1995, perché un nuovo giudizio riduceva da 4 a 2 gli autori della strage: così Fioravanti e la Mambro sono restati gli unici predestinati ad espiare cotanto pesante fio. Se a tanti anni di distanza riprende il valzer, vuol dire che l ultima sentenza non era esaustiva.
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Bruno Russo - Napoli
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La storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie
CHARLES ALEXIS DE TOCQUEVILLE
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani,Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Roselina Salemi, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
SEGUE DALLA PRIMA
Perché bisogna ascoltare anche chi va in piazza di Giancristiano Desiderio La Cgil e ciò che resta del sindacato hanno già fissato lo sciopero generale e viaggiano spediti come un treno verso il 30 ottobre; i professori sostengono che la scuola pubblica è minacciata dalla scuola privata e il governo fa il gioco di quest’ultima. Insomma, c’è tanta confusione sotto il cielo della scuola italiana e non si prevede a breve il ritorno del bel tempo. Nonostante le aule si vadano via via svuotando di alunni e le strade, le piazze riempiendo di manifestanti, il ministro sa di poter contare su una maggioranza silenziosa che approva a grandi linee i suoi provvedimenti: condotta, esami, grembiule, maestro unico e anche i tagli. La Gelmini, dunque, è pronta ad un braccio di ferro senza sconti? Le sue dichiarazioni - «i motivi della protesta sono incomprensibili» - lasciano intuire che la sua linea è chi la dura la vince. Ma quale sia il premio della vittoria non è facile immaginare. Il decreto Gelmini vale davvero tutto lo scontro che si sta profilando e che è già in atto? Non coverebbe, invece, al ministro ascoltare, spiegare e mettere al centro della sua politica l’idea di scuola migliore per l’Italia? È vero: i motivi della protesta sono incomprensibili. Anzi, di più: sono spropositati e extrascolastici. Sono spropositati perché dire che il governo è un pericolo per la scuola statale è ridicolo. Sono extra-scolastici perché sono mossi da motivazioni sindacali. Il ministro Gelmini, alla quale non sembra far difetto il coraggio, dovrebbe prendere il toro per le corna e dire che senza autorevolezza e senza ridimensionamento la scuola statale è destinata a im-
plodere. Luigi Einaudi definiva la scuola italiana “napoleonica”, ma ormai siamo ben oltre questo tradizionale assetto e le dimensione della nostra scuola sono elefantiache: la nostra scuola è “asiatica”. Il ministro farebbe bene a mettere mano a un po’ di numeri: è possibile che al ministero della Pubblica istruzione facciano capo qualcosa come un milione e trecentomila persone? La scuola italiana è cresciuta al di là dell’immaginabile perché sulle sue spalle sono state caricate esigenze e soluzioni che con la scuola nulla hanno a che vedere. Ma una scuola che viene usata per tutto tranne che per fare scuola è una pessima scuola. Se tiene a cuore il merito, il ministro deve acconciarsi a cambiare il metodo. Se non lo fa, l’accusa che le viene mossa - taglia solo i fondi alla scuola statale - rischia di essere accreditata nell’opinione pubblica come vera. Ciò che fa difetto alla sua strategia è un’assenza di prospettiva: deve invece sobbarcarsi la fatica di spiegare, anche se magari c’è molto poco da spiegare. Ma la democrazia, a volte, è la fatica dell’ovvio. Soprattutto dovrebbe mettere i suoi contestatori davanti al bivio: scuola statale o scuola libera? C’è da scommettere che tutti diranno scuola statale perché tutti rifiutano a priori l’idea che la scuola possa essere libera da quella cosa strana che si chiama “monopolio statale dell’istruzione”. Ma come si può invocare la scuola statale e rifiutare l’autorità che organizza e legittima tutta la baracca? A pensarci bene, il ministro Gelmini ha un’occasione storica. Sarebbe un peccato buttarla via.
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