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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

L’opinione di chi tra i primi ha avvisato il mondo sui costi di tutela dell’ambiente

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di e h c a n cro

Tutta la verità sulla guerra del clima tra Italia e Ue

di Ferdinando Adornato

SCOMPARE UN EROE DEL NOVECENTO Incompreso quando aveva ragione. Ascoltato quando ormai era tardi. La storia esemplare di un grande “irregolare” che ha insegnato a combattere la schiavitù del pensiero

di Carlo Ripa di Meana al maggio-giugno 1992, quando a Rio de Janeiro si svolse la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite che per la prima volta affrontò la questione climatica ipotizzando le prime misure, dunque da sedici anni, la questione dei costi per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra in atmosfera prodotte dalle attività umane si dilania sulla quantità dei costi richiesti a ogni paese e, prima ancora, sul coinvolgimento dei massimi produttori mondiali di Co2, Usa, Cina, India, che già allora dal primo giorno si chiamarono fuori da questa prospettiva. Lo posso dire con conoscenza di causa, perché la prima misura messa a punto dall’allora Comunità europea fu la mia Direttiva nota come «Energy-carbon tax».

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se gu e a p ag in a 8

La sovranità popolare è ormai un simulacro, le idee enti inutili

Qualcuno vede che nel Palazzo non c’è più spazio per la politica?

Vittorio Foa 1910-2008

Ciao Maestro

di Gennaro Malgieri

alle pagine 2, 3, 4 e 5

Al posto di Veltroni, Enrico Letta

Parla il filosofo della politica inglese

Per il pontefice, bisogna riportare la vibrazione umana nella cura

Anno 2010 D’Alema verso la vendetta?

I mercati in realtà sono due

L’appello di Benedetto XVI: «Il malato non è una cosa»

di Antonio Funiciello

di John N. Gray

Che c’è di vero nelle voci che vogliono D’Alema candidato premier nel 2013? A sentire quanto si mormora, parrebbe più un desiderio dei dalemiani che un’idea di D’Alema.

Il libero mercato corrode alcuni aspetti del carattere mentre ne migliora altri. Il risultato dipende dalla propria idea della vita e degli altri sistemi economici. Possono dare risultati migliori?

I medici non devono cedere alla tentazione di «abbandonare il paziente quando si avverte l’impossibilità di ottenere risultati apprezzabili». Lo ha detto ieri Benedetto XVI nel corso dell’udienza alla Società italiana di chirurgia.

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MARTEDÌ 21 OTTOBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

di Francesco Rositano

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

201 •

WWW.LIBERAL.IT

el Palazzo non c’è più spazio per la politica. Esso è quasi il simulacro di se stesso. Dà piuttosto l’impressione di essere diventato un maniero diroccato, un labirinto nel quale ci si smarrisce, dove si consumano intrighi levantini. Il Palazzo è la rappresentazione del potere e della sovranità popolare (in democrazia, naturalmente). Ma quanto poco oggi corrisponde all’immagine che, sia pure negativamente utilizzata, è stata a lungo tramandata. Perfino i frequentatori abituali hanno la sensazione che sia un non-luogo, inconsistente metafora della discussione e della decisione. Insomma, il Palazzo è sostanzialmente vuoto.

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Ciao Vittorio, ci hai insegnato a essere “irregolari” di Ferdinando Adornato ro ancora poco più che un ventenne, sarà stato intorno all’inizio degli anni Ottanta, dirigevo le pagine culturali de l’Unità. Mi venne in mente di fare una chiacchierata a tutto campo con Vittorio Foa: la sinistra, il Novecento, le colpe, i ritardi, l’umanità negata da un secolo che aveva sfidato la civiltà democratica. Vittorio non credeva che quell’intervista sarebbe alla fine uscita. La sua “emarginazione” dalla sinistra ufficiale era insieme antica e freschissima, perché i partiti ideologici sono come gli elefanti: la loro memoria è spietata. Tra l’altro la storia aveva dato ragione alle tesi ”revisioniste” di Foa, la qual cosa accentuò la distanza nei suoi confronti. Invece l’intervista uscì, e all’eretico toccò in sorte “il disgelo”. Da allora l’ostracismo evaporò e, giorno dopo giorno, le idee del“grande azionista”cominciarono a circolare liberamente nel discorso pubblico della sinistra italiana. Vittorio me ne fu grato a lungo e mi onorò di un’amicizia che ogni tanto proponeva qualche ora di compagnia con me e con Renzo, che da allora considero come mio fratello, sul filo della fantasia, dell’utopia, della scommessa intellettuale sul futuro. Chi si sente“irregolare”, chi ha sempre rifiutato la livrea dell’intellettuale organico, ha una specie di ossessione per la “previsione”: cercare di capire, sulla base delle lezioni del passato, come potrà evolversi la storia futura. Immaginare, dedurre, e quindi progettare. Hercule Poirot e Benedetto Croce si tengono la mano nella metodologia dell’irregolare. Il detective della storia respinge con raccapriccio l’idea che ci sia una verità che viene prima dell’indagine, della ricostruzione delle “scene del crimine”. osì era Vittorio Foa che non smise mai, neanche dopo aver sconfitto l’ostracismo, di sentirsi e di essere un“irregolare”, un detective del Novecento. «I Maestri, i Libri - scrisse - sono coordinate necessarie, non sono il motore». La storia e la vita degli uomini sono una ricerca aperta e ininterrotta, e il modo di percorrerla è più importante di qualsiasi fine ci si riprometta di raggiungere. Il Percorso è più importante del Traguardo. Che questo fosse il suo vero intimo convincimento lo si capiva anche dalla stringente circolarità del suo ragionamento, intercalato da quel “neh” sabaudo che pretendeva assenso, perlomeno sul “metodo del discorso”. Che poi le conclusioni fossero ritenute giuste era, appunto, meno importante. Cartesiano d’istinto, popperiano per vocazione, liberale e socialista per formazione, mai antireligioso,Vittorio Foa ha sempre pagato sulla sua pelle le verifiche che la sua immaginazione ha chiesto alla storia. E lo ha fatto in tempi di “ferro e di fuoco”, tempi di una durezza che i ragazzi di oggi non possono neanche capire. Incompreso quando serviva che venisse compreso. Compreso quando ormai il dolore della storia aveva già scavato i suoi fiumi d’odio. Comunque un Maestro: i più giovani dovrebbero leggere e rileggere le sue pagine di storia e di vita per cercare di migliorare la loro. Ma soprattutto per cercare di far proprio il suo metodo intellettuale. A loro ricordava: «Mi è stato chiesto un consiglio, lo do: stare svegli, non abbandonarsi ai sogni. So il valore del mito, so come riesce a dare luce alla vita, anche a farcela capire. Ma non devo accettarlo come autorità che trascende la mia scelta. Può accompagnare la vita, non deve detrminarla. Quando scegli non devi sognare, tu sei responsabile». Ciao Vittorio, a te è toccato in sorte il destino dei grandi: vivere nell’inattualità. Il tuo Percorso umano si è fermato due anni prima di arrivare al secolo di vita. Si sa, agli irregolari non piace la retorica.

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Se ne va Vittorio Foa: ha indicato il riformismo alla sinistra italiana

L’uomo che sfidò tutti i dogmi

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di Riccardo Paradisi veva novantotto anni Vittorio Foa, morto ieri a Formia dopo una lunga malattia. Giornalista, sindacalista, intellettuale, padre nobile della sinistra italiana come oggi lo descriveranno tutti i coccodrilli che gli verranno dedicati. Tutte qualifiche esatte, che però non afferrano la cifra, l’ equazione personale di Vittorio Foa. Perché al di là dei ruoli che ha giocato nella scena politica e culturale del nostro Paese Foa è stato una coscienza critica del Novecento italiano, dei suoi slanci e dei suoi orrori, delle sue speranze e dei suoi incubi.

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Non solo un testimone del “Secolo breve” ma un suo protagonista inquieto, capace, come pochi altri, di riconoscere la supremazia e l’autonomia del pensiero in un’epoca a tutto tondo antintellettuale, convulsa, dinamica, votata all’ebrezza dell’azione diretta: alla volontà di potenza e di egemonia più che all’analisi degli eventi, alla loro comprensione profonda. Nato a Torino da famiglia borghese ed ebraica Foa è nei primi anni della sua vita influenzato dalla figura di Giovanni Giolitti. Non è un’influenza occasionale: Giolitti è un liberale borghese che tenta di integrare, non di espellere la classe operaia nel capitalismo. Per i comunisti e socialisti ortodossi costituisce una minaccia, una provocazione e

una mistificazione, per Foa la possibilità di una sintesi da costruire sul terreno della cultura politica italiana. Ufficiale di complemento dell’esercito sabaudo negli anni Venti dopo la laurea in giurisprudenza, già antifascista entra, nel 1933, in ”Giustizia e libertà’’. La repressione del regime sul movimento azionista è durissima: il 15 maggio del 1935 Foa viene arrestato, nel 1937 i fra-

prima persona quello di Foa a cui non segue la stagione del rancore e della vendetta piuttosto un’ansia positiva di ricostruzione, una volontà di recuperare il tempo perduto.

Durante la Resistenza fa parte del Comitato di liberazione nazionale come rappresentante del Partito d’azione e Il 2 giugno viene eletto deputato del Partito d’azione all’Assemblea costituente. In una delle sue ultime interviste televisive rilasciate a Enzo Biagi Foa ha ricordato il clima di quei mesi febbrili: «C’erano conflitti molto forti nell’Assemblea costituente, con accenti molto duri e personali. Mentre però al mattino si litigava nel pomeriggio si lavorava insieme per costruire le regole della democrazia». Ma per il Partito d’Azione non c’è un futuro politico in Italia: tanto che dopo la sconfitta alle elezioni nel 1947 si scioglie. Da qui comincia il lungo viaggio di Foa all’interno della sinistra italiana. Un viaggio che non troverà mai posa, un peregrinare senza sosta e senza pace in un territorio dentro il quale, va detto, Foa resterà sempre un nomade: un’ispiratore di suggestioni, di idee, di spunti, più rispettato che amato, percepito come scomodo,

Membro dell’Assemblea costituente per il Partito d’Azione e dirigente sindacale di primo piano ha lavorato alla ricostruzione democratica del Paese telli Rosselli, che avevano raggiunto Gaetano Salvemini in Francia, (dove dieci anni prima era già riparato Gobetti), vengono uccisi da sicari del regime. Foa che condivide la prigionia con Ernesto Rossi e Riccardo Bauer e che in galera studia l’opera di Benedetto Croce, esce dal carcere solo nel 1943. Nel settembre di quello stesso anno entra nel Partito d’Azione di cui diviene segretario assieme a Ugo La Malfa nel 1945. Con lui ci sono Emilio Lussu, Oronzo Reale e Altiero Spinelli. Un antifascismo rigoroso, coerente, pagato in


prima pagina irregolare, un anarchico troppo geloso della sua libertà. Dopo l’esperienza azionista dunque Foa entra nel Psi di cui diviene un dirigente nazionale e deputato per tre legislature, dal 1953 al 1968. Nel 1948 Entra nella Fiom nazionale e, un anno dopo, nella Segreteria nazionale della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Foa non ha solo un’idea pragmatica del sindacalismo: ritiene infatti che il sindacato possa giocare un ruolo di primo piano nella scena politica del Paese e

polo, nei lavoratori – che va finalmente riconosciuta e affrontata. Questa malattia consiste nella mancanza di fiducia nel prossimo. Se io chiedo la fiducia alla gente non devo pensare di essere superiore, devo saper imparare dalla gente. Devo sapere ascoltare».

Un invito alla sinistra a una maggiore umiltà e a liberarsi dei suoi complessi di superiorità certamente ma anche un monito a liberarsi di ogni residuo antiliberale, di un’antica impazienza verso la tolleranza per l’altro da sé. In Un dialogo (Feltrinelli), libroconversazione con lo storico Carlo Ginzburg (2003), Foa denuncia un eccesso di silenzio nei confronti dei rapporti tra il partito di Togliatti e l’Unione sovietica. Un silenzio che aveva coinvolto tutti, anche lui stesso, mantenuto nell’idea che le ragioni della convenienza politica erano superiori a quelle della verità e della giustizia. Il fatto che Vittorio Foa a oltre novant’anni avesse ancora voglia di mettersi in discussione, di farsi un’esame di coscienza, lui che per le sue idee aveva pagato con anni di carcere la fedeltà alle sue idee è una lezione che dovrebbe insegnare qualcosa a tutti. A tutte le famiglie politiche e culturali di questo Paese. Per questo il peggior modo per ricordare Vittorio Foa è fare di lui un monumento. Non è stato un monumento in vita – malgrado l’insistito omaggio che gli veniva tributato – e non deve diventarlo da morto. Un monumento lo trovi dove lo hai lasciato,Vittorio Foa invece lo trovavi sempre dove non ti aspettavi. Perché c’è sempre una strada nuova oltre quelle conosciute. «Perché le cose – come diceva – non devono andare come vogliono loro».

Si è messo in discussione fino all’ultimo denunciando i troppi silenzi sull’Urss del Pci e criticando i complessi di superiorità di una sinistra incapace di ascolto dell’altro questo in virtù di un’agilità maggiore rispetto alle forme dell’irrigidimento ideologico del partito: «Nel lavoro della Cgil – ha detto Foa pochi anni fa – c’era qualche verità profonda a cui io continuo ad aderire nel modo più assoluto».

Nell’idea di essere sempre laddove le cose avvengono e in un’ansia vitale di sparigliare nel 1964 Foa è tra i fondatori del Psiup (Partito socialista di unità proletaria), frutto di una scissione a ”sinistra’’del Psi. Nel 1972 dà origine Pdup (Partito di unità proletaria), movimento che ha l’obiettivo di orientare l’estrema sinistra italiana verso una prospettiva «politica» e non «rivoluzionaria». A ben vedere è l’obiettivo di sempre di Foa: nella sua autobiografia Il Cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita (1991) Foa fa chiaramente intendere come il senso di questi riposizionamenti era quello di recuperare i gruppi rivoluzionari a una visione riformista, indurli verso la prospettiva di un un ”governo delle sinistre’’. All’inizio degli anni Ottanta, Foa si allontana dalla politica attiva e si dedica allo studio e all’insegnamento, ma nel 1987, attratto dai fermenti di cambiamento, viene eletto senatore come indipendente nelle liste del Partito comunista. Chiede al Pci di “farsi finalmente partito di governo”e sostiene la trasformazione del Pci nel Pds. Dopo la caduta del muro di Berlino capisce che la storia sta imprimendo un’accelerazione formidabile all’evoluzione della sinistra italiana. In un confronto con Indro Montanelli e Beniamino Placido – siamo nei primissimi anni Novanta – Foa fa un’analisi spietata dei tic e dei tabù della sinistra italiana: «Il Paese – dice – non volta le spalle alla sinistra perché è immaturo. Non si può accusaLA REDAZIONE DI LIBERAL VICINA A RENZO re il Paese della colpa di La r eda zione di libera l si string e a ccanto al pr o votare come gli pare. C’è pri o d ir et to re Renzo F oa i n quest o mo ment o d i d o una malattia della sinistra l or e ed è vi ci na al l a fam ig l ia per l a perd i ta – che pure è un’idea che io d i quel lo che per l o ro , pri ma d i esser e un g ra nd e ho sempre vissuto come d e l N ov e c e n to , e ra u n pa d re e u n n o n n o de l i z io so . speranza e fiducia nel po-

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Lo storico torinese ricorda il percorso di Foa

«Ma la sua lezione non ha più eredi» colloquio con Giovanni De Luna di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. Vittorio Foa «è stato un uomo che non si è mai accontentato del dogma. La sua biografia e i suoi scritti hanno trasmesso a tutti noi un senso di vivacità intellettuale e di rifiuto del monolitismo che ne fanno la sua vera eredità, il vero insegnamento che possiamo trarre dalla sua straordinaria esperienza». Ne è convinto il professor Giovanni De Luna, storico e docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, che in una conversazione con liberal ricorda «il giacobino non rivoluzionario della politica italiana», uno degli ultimi grandi protagonisti del Novecento. Professore, qual è stato il contributo di Vittorio Foa alla storia del Novecento e quale eredità lascia? Si tratta di un’eredità molto difficile da decifrare in termini di attualità, perché Vittorio Foa è stato principalmente un uomo del suo secolo. Appartiene totalmente al Novecento. Si è formato negli anni ’30, quegli anni che qualcuno chiama “del ferro e del fuoco”. Il suo apprendistato politico è del tutto anomalo, anche rispetto a quello dei suoi coetanei. Per quattordici anni, la sua esperienza è quella del carcere e del confino: un curriculum del tutto irripetibile, oggi, legato all’eccezionalità del suo tempo. Credo che questa eccezionalità abbia influito anche sul suo bagaglio teorico. Lui stesso si definiva giacobino – un termine che non appartiene certo alla nostra attualità politica – anche se dava un senso non rivoluzionario al termine. Pensava che essere giacobino volesse dire essere in grado di fare le riforme necessarie senza aspettare che ci siano le condizioni per poterle fare: anticipare i tempi, sempre, attraverso un progetto riformista che incide nella realtà. Non delle riforme fini a se stesse. Come si può tracciare il suo percorso politico, alla luce dei suoi diversi incarichi che attraversano la storia del nostro Paese? Io non collocherei Vittorio Foa né a destra né a sinistra. Per me è sempre stato l’uomo che cerca, che non si è mai accontentato. Ha militato nel Partito d’Azione e da lì non si è mai fermato,

effettuando diverse peregrinazioni politiche e un’importantissima esperienza sindacale. Tutto questo dimostra la sua voglia di cercare, il suo non ritrovarsi nello stato d’equilibrio e nella staticità. Si ritrovava soltanto nella dinamicità, senza mai rinunciare a questa sua curiosità. Non si è mai collocato da alcuna parte e non ha mai smesso di cercare una collocazione. Quindi questo suo posizionamento “ai margini” nel dibattito politico contemporaneo era in un certo senso voluto? Io credo che la realtà sia stata più paradossale. Negli anni Ottanta e Novanta è stato considerato dalla sinistra un padre nobile, proprio dagli eredi di quei comunisti marxisti che invece avevano distrutto il Partito d’Azione per poi cercarvi in un secondo momento una legittimazione politica. È un paradosso che appartiene alla storia della sinistra italiana, un paradosso esclusivamente loro. In extremis, hanno cercato in Foa un padre: e questo a lui non dispiaceva. Però non fece mai alcuna concessione sul piano pratico e teorico a queste persone, anche quando faceva l’elogio del gradualismo. Il suo problema è sempre stato conciliare questo gradualismo con il giacobinismo essenziale per la politica. La sua paura era – da uomo del Novecento – quella di reintepretare l’ennesimo riformismo italiano senza progetto. Lui lo intendeva invece in chiave militante, con al suo interno passione e mito politico. Quanto hanno influito la figura di Foa e il suo stimolo a riportare l’etica nella politica? È ancora troppo presto per valutare in senso storico la caratura del personaggio ed il suo lascito. Io credo che, rispetto alla nostra generazione,Vittorio Foa è stato fondamentale. Direi che, da lui, abbiamo imparato molto: c’era in lui un elemento di curiosità intellettuale, di vivacità, di non appagamento nelle certezze, nel rifiuto del monolitismo, che ha trasmesso direttamente con la sua biografia e con i suoi scritti. Non fermarsi mai, mai sdraiarsi su alcuna certezza. Questa è stata la sua vera eredità.Vittorio Foa non si è mai accontentato del dogma.

Voleva sempre anticipare i tempi, attraverso un progetto riformista che incide nella realtà


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Il documento. Una delle ultime interviste a Vittorio Foa

Il mio (odiato) Novecento «Troppe ipocrisie in Italia sul secolo delle idee assassine» colloquio con Vittorio Foa di Giancristiano Desiderio uesta lunga intervista con Vittorio Foa, completata nel 2002, è una delle sue ultime e assume a tratti il respiro di una confessione. Foa parla del Novecento e dei suoi errori, ma si capisce che parla soprattutto dell’ora e qui, del presente e, con l’autorevolezza e il rispetto che gli conferivano la sua storia personale

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e le sofferenze patite, dice: non ci sono più né il fascismo né il comunismo, dobbiamo uscire dall’antifascismo e dall’anticomunismo. C’è chi sostiene che il Novecento sia stato il secolo dei diritti umani e chi, invece, ad esempio, il filosofo Berlin, che sia stato un secolo di orrori. Che giudizio dà, de Novecento? Un secolo lunghissimo, che non finisce mai. Io non ne posso più. Non vedo l’ora che finisca. È carico di cose orrende e anche di cose molto importanti. È nato nella violenza. Io arrivo con la memoria fino alla mia infanzia, ai tempi che sono anteriori alla Grande Guerra. Ricordo la Grande Guerra giorno per giorno; l’ho vissuta da bambino, ma con una forza straordinaria. C’erano questi paesi che erano i più civili d’Europa, del mondo, erano i paesi più ricchi, avevano elaborato l’arte più avanzata, la letteratura, la scienza, gli ordinamenti politici, la tecnica, la forza, tutto, e si sono massacrati. E di lì sono venute fuori certamente molte cose che hanno segnato almeno metà secolo. Poi, nella seconda metà, almeno in Europa, abbiamo respirato. Intanto, abbiamo avuto la pace che è

durata e dura ormai da 55 anni. Questo ha certamente un po’ cambiato la nostra testa; ha dato respiro, poi le condizioni materiali della vita sono così cambiate. La scienza e la tecnica che avevano operato per la morte hanno operato per la vita. Sono sorti nuovi problemi, nuove angosce, nuove incertezze. Abbiamo tutte queste cose, però tutto sommato, chi ha vissuto la prima parte del secolo, la sua violenza, la sua paura, ecco questo secolo non possiamo condannarlo. La secondo parte è stata anche un riscatto. Lei dice che è stato un secolo lunghissimo, anche se c’è chi lo ha definito il “secolo breve”. Ma il Novecento, poi, è finito veramente? Non lo so. Le ho appena detto che non ne posso più e penso che sia stato molto lungo. Penso, però, che negli ultimi anni stiano cambiando molte cose. Non cambiano solo le cose attorno a noi, cambia anche la nostra testa, il nostro modo di vedere, le nostre categorie analitiche alle quali abbiamo creduto per molti anni stanno certamente subendo dei cambiamenti. La stessa rapidità con cui cambia il progresso tecnico cambia anche il nostro modo di sentire e di vedere. E poi abbiamo avuto in questo secolo degli eventi straordinari. La caduta del comunismo non è una cosa da poco, come del resto non era stata da poco la caduta di Hitler e del nazifascismo. In Italia tutta l’esperienza del cattolicesimo politico - che adesso è entrato in una crisi su cui si può discutere se sia definitiva o no - è stata storicamente molto rilevante.

L’Italia del dopoguerra è vissuta su una direzione cattolica per molto tempo e non è nemmeno sicura che ne sia uscita, ecco. Ci sono, allora, avvenimenti di grande rilievo e la maggior par-

della scelta c’è. La caduta del comunismo è l’esempio più recente che si può uscire dal male. Questo è il secolo della modernità, della tecnica, della scienza, è il secolo, giusto il gioco di parole, della secolarizzazione, ma ecco la contraddizione o il contrasto, è anche un secolo religioso. O no? Non so sia stato un secolo religioso. La religiosità ha degli alti e dei bassi e come fenomeno di massa è certamente presente. Ma io non credo che i mali di questi secolo abbiano un carattere religioso. Voglio dire: è un secolo che certamente è vissuto di miti, ma il mito non è necessariamente religione. La religione instaura un rapporto con Dio; il mito può instaurare dei rapporti con delle cose molto brutte, non c’è nulla di sacro. Stiamo attenti a non pensare che nelle forze del male ci sia dentro anche Dio, ci può anche essere, ma non darei il connotato religioso a queste cose. Il connotato religioso è molto presente in questo secolo e si è accentuato dopo le grandi catastrofi. Oppure no? Non lo so, forse sì, forse no. Sono molto incerto sul grado di secolarizzazione dell’Euorpa oggi, non sono molto in condizione di dirlo. Il comunismo come religione, ossia come fede in cui hanno creduto milioni di persone era solo, dunque, un’illusione? Guardi, di comunisti ce ne sono

Ripensando alle cose più brutte di questo secolo, non appaiono cose che tramontano, ma sforzi di modernità. La morte di massa è un fenomeno moderno, non antico

te di loro ha una doppia faccia. È la doppia faccia della scienza che viene avanti. Se lei pensa anche alle cose più brutte, agli stermini di ogni tipo, di destra e di sinistra, lei vede che non sono fenomeni di un passato che sta morendo, sono fenomeni della modernità. Questo è l’elemento più inquietante. Ripensando alle cose più brutte di questo secolo, tutte le cose più brutte non appaiono come cose che tramontano, ma come sforzi di modernità. La morte di massa è un fenomeno moderno, non antico. È inquietante, ma ovunque ci sia un elemento inquietante c’è anche l’idea che si può evitare il male. Voglio dire che siamo di fronte a delle scelte, possiamo scegliere. Non è fatale. Non era fatale il comunismo, non erano fatali le guerre, potevano essere evitate. Abbiamo commesso degli errori a non evitarle, però l’umanità può evitare i disastri, non sono fatali. Chiudendo questo secolo e la mia vita traggo l’insegnamento che il male si può evitare, la responsabilità


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Istantanee del Novecento. Da sinistra in senso orario: Alcide De Gasperi durante un comizio; Benito Mussolini; le vittime dei lager nazisti; Hitler durante una parata; un comizio di Palmiro Togliatti; Josif Stalin. Nella pagina accanto, Vittorio Foa.

tanti. L’elemento dominante più riconoscibile del comunismo è l’Unione sovietica. Ecco, lì non c’entra nulla la religione, quello è uno Stato totalitario venuto fuori in quel modo, attraverso un processo rivoluzionario in cui c’è stata la presa del potere da parte di una minoranza che ha esercitato il potere in modo oppressivo. La religione non c’entra niente. Così come non c’entra niente la categoria del consenso per ciò che è accaduto in Unione sovietica. Lì c’era un regione oppressivo e gran parte della popolazione avrà pensato che non c’era altro da fare che accettare quello che c’era perché non c’era alcun modo di uscirne. Se si pensa, invece, il comunismo fuori dall’Unione sovietica o fuori dall’area dominata dall’Unione sovietica nei paesi democratici e capitalisti allora il comunismo è un’altra cosa. Lì ci sono dei sogni di trasformazione sociale, di trasformazione dell’umanità e poi ci sono anche dei comportamenti contraddittori. Lì si può parlare di religione, di sogni e trasformazione sociale. Ecco, io distinguerei. Nel comunismo ci sono molte cose diverse. Una è l’ordinamento politico oppressivo dell’Unione sovietica, non solo oppressivo, è distruttivo di vite umane eccetera; il secondo elemento è sicuramente quello ideologico, cioè la teoria, la teoria della trasformazione sociale del marxismo. Ecco, sia l’una che l’altra di queste posizioni io le ho sempre respinte; io non sono mai stato iscritto al partito comunista né mai loro solidale. C’è però un terzo modo di par-

lare di comunismo e di uomini e di donne che sono stati comunisti e che hanno lottato in tutti i modi molto spesso per la democrazia e per la difesa di se stessi e di tutti gli altri. Questo mondo è molto differente e non si può con una parola definirlo. Io mi chiedo: perché il comunismo è finito, perché è finito come dottrina e come esperienza di potere e anche come sogni do massa, e c’è un diffuso, insistente anticomunismo, soprattutto dei media e dei settori dell’intellighentia? Come mai? Quale la ragione di un anticomunismo che sopravvive al comunismo? Come mai? Allora io personalmente credo che ci sia una forma di anticomunismo che è indipendente dal comunismo. Prende nomi diversi nella storia, nella vita. Tutto il secolo decimonono è stato caratterizzato da forti tendenze antigiacobine, verso la fine del secolo antisocialiste, antianarchiche: già prima nel Seicento c’era l’odio verso i puritani, nelle guerre di religione si vedeva nel papista o nel luterano la fonte di tutti i mali. L’anticomunismo senza comunisti non è forse la paura di perdere qualcosa conquistata, la paura dell’ignoto? Che cos’è? Perché escono i libri neri, escono le cose di Forcella, per quali ragioniu queste cose vengono fuori quando non c’è più la fonte del male? Questo è un bel problema per me. Come mai l’anticomunismo sopravvive al comunismo?. Ma è stato così anche per l’antifascismo e il fascismo.

Sì, anche l’antifascismo è sopravvissuto molti anni al fascismo. Il fascismo era stato distrutto e l’antifascismo è sopravvissuto molto anni, la Repubblica italiana ha avuto come suo punto di riferimento l’antifascismo. Allora questi fenomeni di sopravvivenza velano qualche cosa di più profondo. Un bisogno di sicurezza a cui non si sa dare una risposta. Qualcosa di questo genere. Perché ha paura? Di che cosa si ha paura? Perché si ha paura del comunismo oggi che non ha più alcuna possibilità di venir fuori per chè sotto terra come dicono

diciamo, “ingraiano”: credo di essere nei miei limiti, perché questo so che è anche un limite sul piano culturale, un erede dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese e cioè un razionalista. Penso di essere questo. So che questo è un limite perché nella realtà non ci sono solo realtà razionali, ma anche irrazionali, ma le rispetto, quando le vedo le rispetto profondamente, ma non ne sono partecipe. Ricordo una frase, forse di Woody Allen. Gli chiedevano: ma lei crede? E lui: credere in Dio sarebbe un po’ troppo, diciamo che lo stimo. Ecco, io stimo coloro che credono, li rispetto, li comprendo, li capisco, non mi sognerei mai di cercare di togliergli la fede, per nulla. Però, io non ce l’ho, credo nella ragione, ecco. So che questa concezione ha dei limiti, ma ho questi limiti Crede negli uomini. Io credo molto negli uomini. Gli uomini sono capaci di fare molto male, ma sono anche capaci di fare il bene. Io ci credo molto. Siccome penso che di fronte al male bisogna rispondere, bisogna darsi da fare, devo partire da un minimo di fiducia nel prossimo. Se io mi chiudo nel fatto che l’umanità è cattiva, io abdico dall’idea di voler fare qualcosa. Se io voglio fare qualcosa devo pensare che quello che guardo in questo momento negli occhi è capace di fare qualcosa. Devo cercare nella sua testa il versante positivo, sapendo che c’è anche l’altro, ma io devo aiutare a sviluppare i versanti positivi dell’umanità. Essere ottimisti in questo senso non vuol dire credere che le cose vadano bene, anzi vuol dire spesso che vanno molto male, ma che è possibile darsi da fare per cambiarle. Io credo a queste cose qui, molto. Anche se, devo dire, in questo momento, Dio mio, non è che le cose vadano così male. C’è una speranza di pensiero unico in Italia, non c’è nessuno che abbia il coraggio di dire “non voglio andare in Europa”. Molti hanno paura di andarci, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Tutti la pensano allo stesso modo. Prima o poi avremo di nuovo la destra e la sinistra. Cerchiamo di averle nel modo più civile, senza l’idea di dover distruggere l’altro. Torniamo all’egemonia della sinistra. Quando “tutti pensano la stessa cosa” perché si segue la corrente, qual è il compito di un intellettuale? Avere coraggio a pensare diversamente?

Credo negli uomini. Sono capaci di fare molto male, ma anche di fare del bene. Siccome penso che di fronte al male bisogna rispondere, devo avere fiducia nel prossimo i russi, è dieci metri sotto terra. Come mai? Non lo so. Lei crede in Dio, Foa? Lei pensa che uno possa essere sicuro di credere o di non credere? Io non so se uno è sicuro, se un credente è veramente sicuro di credere o un non-credente, come sono io, è sicuro di non credere. Premessa questa incertezza, io non sono un credente. Non sono un credente né in senso specificamente religioso, cioè di pensare a un Dio personale che trascende la nostra vita perché credo completamente alla libertà personale alla costruzione del futuro: e anche in senso traslato, in senso,

Senz’altro sì. Ma avere coraggio non dipende dal pensarsi come intellettuale. Io non mi sono mai pensato come intellettuale. Quando ho pensato che bisognava avere coraggio l’ho fatto come italiano. Lei ha sostienuto che i comunisti tacciono sul loro passato. Un intellettuale polacco come Gustaw Herling nel libro postumo Breve racconto di me stesso dice che gli intellettuali comunisti italiani negavano la situazione che c’era in Unione Sovietica anche al cospetto di quegli italiani che erano stati lì e lì avevano sofferto. Sì mi ricordo questa sua posizione e aveva ragione. Personalmente non l’ho mai conosciuto. Lui aveva sposato la figlia di Croce. Sarebbe necessario che i comunisti ricordassero il loro passato perché se si vuol guardare davanti bisogna avere il coraggio di tenere gli occhi aperti dietro. Questo è certo. Ma c’è tanta altra gente che dovrebbe ricordare. Mica solo loro E penso al decennio degli anni Novanta. Lasciamo stare il centrodestra che è al governo e non ha interesse. Ma i socialisti, anche loro non dicono niente. Giuliano Amato, che è una persona intelligente, che ha parlato al recente congresso dei Ds mostrando anche una grande capacità emotiva di rispetto verso il passato socialista, non ha detto una sola sugli anni Novanta. Sul perché negli anni Novanta sono scomparsi i socialisti, i comunisti, i democristiani, la Prima Repubblica. Al congresso dei Ds non uno ha detto una parola di domanda sul perché è scomparsa la Prima Repubblica. La sinistra non ricorda nulla degli anni Novanta, sono molto colpito da questo e sono molto interessato alla domanda perché i comunisti stanno zitti? Ci sono molte ragioni. C’è la rimozione del lutto che è faticosa prima di arrivare al distacco. Che cosa hanno perduto i comunisti? Ecco questo mi domando. Qual è la ragione per cui soffrono al punto di non parlarne? Perché hanno perduto delle certezze? Delle speranze? Hanno perso anche l’identità. Allora cos’era questa identità individuale? Questa identità collettiva? Forse ha contribuito al silenzio un imbarazzo per aver cambiato idea, come se cambiare idea fosse una cosa imbarazzante; quando io penso che cambiare idea, avendone consapevolezza, è la condizione della coerenza. Se l’uomo vuole essere coerente deve poter cambiare idea. Queste sono un po’domande che riguardano un po’ il presente per il futuro; ma poiché sono molto vecchio penso che si debba pensare un po’ al proprio passato.


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politica

Retroscena. C’è chi teme che il leader Pd voglia scalzare Veltroni per ”celebrare” i 10 anni della propria caduta

2010, D’Alema verso la vendetta? di Antonio Funiciello

d i a r i o ROMA. Che c’è di vero nelle voci che vogliono D’Alema candidato premier di un nuovo centrosinistra nel 2013? A sentire quanto si mormora in giro, toni e argomenti, parrebbe più un desiderio dei dalemiani che un’idea di D’Alema medesimo. Non che quest’ultimo non ci pensi; tuttavia considera la scadenza delle prossime politiche troppo lontana (e il IV governo Berlusconi troppo solido per anticiparla). In mezzo, poi, una serie interminabile di turni elettorali che logorerebbero pure il velista più tenace e solitario. No, a succedere a Veltroni dopo le europee, che senz’altro registreranno un ridimensionamento per il Pd, al momento D’Alema non pensa affatto. Nello stesso tempo, però, dalle parti del Pd se ne trovano ormai pochissimi a pensare che lo stesso Veltroni possa conservare la leadership fino alle politiche del 2013. La questione è più complessa di quanto la presentazione di un semplice match race tra i due possa rappresentare. Attiene alla natura stessa del progetto del Pd e ai rapporti con il mondo cattolico e con l’Udc.

Il Pd pensato mesi fa da Veltroni era un partito «a vocazione maggioritaria». Locuzione altisonante che puntava su quattro scommesse fondamentali, che ne snocciolano ancor oggi il senso politico. Anzitutto, il rafforzamento del bipolarismo con un accordo di gentlemen’s agreement con Berlusconi; quindi, l’obiettivo dell’autonomismo da alleanze che snaturino il progetto democratico, da perseguire in un paio di turni elettorali nazionali; poi, la coincidenza tra leadership del partito e premiership del Paese; in ultimo, l’idea del Pd partito dei cattolici, alla maniera del Labour inglese e del Pd americano, allo scopo di procedere credibilmente alla conquista del mainstream della società italiana. Ne conseguivano delle scelte politiche precise: l’adesione a un modello elettorale di tipo francese, la costruzione di un moderno partito del leader e l’alleggerimento dalle zavorre tardo ideologiche di cui erano pieni zeppi gli ex ds; ma che pure costituivano l’identità vera e lo zoccolo duro di quel partito. Alleggerimento molto più facile a dirsi, che a praticarsi. Ebbene, Massimo D’Alema tutta questa roba in testa non ce l’ha mai avuta. D’Alema traghettò

d e l

g i o r n o

Maroni: ’Ndrangheta fattura 3 punti di Pil Quarantacinque miliardi di euro, «quasi tre punti di Pil nazionale». Questo il fatturato annuale della ’ndrangheta secondo i dati diffusi ieri dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni che ha ribadito la necessità di aggredire i grandi patrimoni della criminalità organizzata. Parlando ad un convegno di Confindustria a Catanzaro, il responsabile del Viminale ha sottolineato come «questo è il contesto in cui ci muoviamo e si muovono le forze dell’ordine e la magistratura, una straordinaria potenza economica, quella della ’ndranghera, che investe, crea innovazione, condiziona i mercati ed ha anche una componente militare. Questa potentissima macchina criminale è diversa dalle altre». «L’attacco vero che può segnare la svolta - ha sottolineato il ministro - è l’attacco ai patrimoni. È l’insegnamento di Falcone».

Caro-mutui: cala l’Euribor In calo gli interessi sui mutui. L’Euribor a tre mesi, il tasso interbancario di riferimento per la maggior parte dei prestiti sull’acquisto della casa, è stato fissato oggi al 5 per cento, il livello più basso dell’ultimo mese (18 settembre). L’Euribor (Euro interbank offered rate) viene calcolato una volta al giorno dall’associazione delle banche europee. se stesso alla guida dell’Italia, divenendo il primo presidente del consiglio ex comunista, proprio in seguito al naufragio del vascello ulivista. Mentre l’embrione del progetto democratico affogava nelle acque alte che circondano il Transatlantico, D’Alema s’accordava col neoeletto segretario popolare Marini, dando vita al centro-sinistra. Correva l’anno 1998 e l’invenzione dalemiana del famigerato “trattino”tra le parole centro e sinistra sferrava un colpo durissimo a quell’ulivismo che si fondava sulla neutralizzazione di quel trattino stesso.Trattino che oggi, similmente, fa a cazzotti col Pd «a vocazione maggioritaria». Come allora quel trattino fu indispensabile a D’Alema per aprire, una volta scaricata Rifondazione, l’alleanza del suo centro-sinistra a nuove componenti centriste come l’Udr di Cossiga, Mastella e Buttiglione, oggi - passati dieci anni - torna utilissimo per la sua strategia di alleanza con l’Udc di Casini.

Letta al partito, se stesso al governo: l’ex ministro degli Esteri punterebbe a separare i ruoli di segretario e candidato premier

Mutatis mutandis, insomma, la strategia di D’Alema è la stessa di dieci anni fa: la sinistra faccia la sinistra e il centro si occupi prendere i voti nel cuore della società italiana, che di sinistra in senso stretto non vuole sentir parlare. Da qui l’adesione al sistema elettorale tedesco e l’apertura all’ipotesi di alleanze da costruire dopo le elezioni, per istituzionalizzare l’approccio del

’98 che costruì una maggioranza di governo a Camere insidiate da due anni, che non rifletteva punto l’esito elettorale. Ideatore e migliore interprete di questa linea, D’Alema pretende di piazzare il suo trattino dove crede, provocando l’irritazione degli ex popolari. La riproposizione del centro-sinistra col trattino è una strategia di legislatura. Che D’Alema forzi la mano già l’anno prossimo per scalzare Veltroni dalla guida del Pd è poco probabile. Anche perché, come detto, alla coincidenza tra leadership e premiership lui non crede e non ha mai creduto: nel breve periodo il segretario può continuare a farlo Veltroni; nel medio può farlo qualcun altro. Chi? L’ipotesi Bersani non è mai stata presa seriamente dal suo capocorrente. Letta, invece, avrebbe il profilo giusto. È un leader popolare isolato dalla sua corrente di provenienza e al vertice di un piccolissimo cartello di consenso interno al partito. È perfetto per accontentarsi di fare il segretario del Pd e lasciare che il candidato premier lo faccia D’Alema. Già, ma quando? Non dopo le europee, non al congresso che il Pd dovrà tenere entro l’autunno del 2009. La scadenza migliore è quella delle regionali del 2010 quando è presumibile che il Pd perda al Sud e non conquisti importanti regioni del Nord. D’Alema si dimise dalla presidenza del consiglio proprio dopo la bruciante sconfitta del centrosinistra alle regionali del 2000. Quale occasione migliore delle prossime Regionali per rivendicare quel gesto e costringere Veltroni, a quel punto plurisconfitto, all’uscita di scena? A D’Alema piacciono le “vendette” si sa, specie se servite fredde.

Sacconi: Sblocchiamo moratoria su Ogm Il ministro del Lavoro della Salute e delle Politiche sociali, Maurizio Sacconi, ritiene che l’Italia debba sbloccare la «moratoria di fatto» imposta negli ultimi anni sugli Ogm. Una politica da attuare, ha detto a margine del convegno ’Ogm e biodiversità’ legato al Festival dell’alimentazione, «senza rinunciare alle caratteristiche della nostra produzione qualitativa e tradizionale che merita sempre etichettature trasparenti che la facciano riconoscere e per la quale la bioingegneria può dare anche contributi quando moderatamente impiegata». «Credo si debba applicare anche in Italia - ha concluso Sacconi - il principio della coesistenza fra diverse tecniche produttive».

In Italia 61mila in cura per l’alcol In Italia l’età del primo contatto con l’alcol è la più bassa d’Europa. Dati preoccupanti nella fascia 11-15 anni, alta la percentuale di consumatori giornalieri (31 per cento), fra i maschi delle classi di età media e di anziani. I servizi alcologici del servizio sanitario nazionale hanno preso in carico oltre 61mila alcol-dipendenti. Questi dati sono stati presentati ieri alla prima Conferenza nazionale sull’alcol, organizzata da tre ministeri: lavoro, salute, politiche sociali. L’incidente stradale è la prima causa di morte fra i giovani dai 21 ai 29 anni, molto spesso è causata proprio dall’abuso di sostanze alcoliche. Allarmante secondo gli esperti alla sbornia come comportamento “di moda”, con conseguenze spesso tragiche, come dimostra la morte del giovane trevigiano dopo la manifestazione “Ombralonga”.

Bersani: meno tasse per i redditi bassi «La strada è quella di detassare i redditi più bassi: lo spazio c’è». Il ministro ombra del Pd dell’Economia, Pierluigi Bersani, rilancia la proposta del presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo. L’idea, spiega, «è tra gli 11 punti che presenteremo come emendamenti al decreto del governo sulle banche per allargarlo a famiglie e piccole e medie imprese». Certo, il momento è delicato ma, continua Bersani, «uno 0,5 per cento di Pil, pari a 7-8 miliardi di euro, messo subito nell’economia per i redditi medio bassi è compatibile con la tenuta di strategia di pareggio del bilancio al 2011 al netto di un peggioramento della congiuntura, visto che l’Ue sta dicendo di voler usare lo strumento Maastricht con la massima flessibilità».


società

Bioetica. Benedetto XVI parla ai chirurghi di terapie terminali e partecipazione umana

ROMA. I medici non devono cedere alla tentazione di «abbandonare il paziente nel momento in cui si avverte l’impossibilità di ottenere risultati apprezzabili». Lo ha detto ieri il Papa, ricevendo in Vaticano i partecipanti al Congresso della Società italiana di chirurgia. «Se anche la guarigione non è più prospettabile - ha affermato Benedetto XVI durante l’udienza - si può ancora fare molto per il malato: se ne può alleviare la sofferenza, soprattutto lo si può accompagnare nel suo cammino, migliorandone in quanto possibile la qualità della vita». Un intervento significativo, quello del Pontefice, che rende inequivocabile la posizione del Vaticano sulle cosiddette questioni di fine vita. I malati, anche quelli terminali, hanno una dignità che va tutelata fino all’ultimo istante di vita. E soprattutto, è indispensabile trovare un corretto equilibrio tra il principio di autoderminazione del paziente e il ruolo del medico cui bisogna lasciare la facoltà di trovare le soluzioni più adeguate in base alla sua storia clinica. Insomma, il Papa invoca quella che è stata più volte definita l’alleanza terapeutica tra medico e paziente. «È nel contesto di questa relazione che, sulla base della stima reciproca e della condivisione degli obiettivi realistici da perseguire, può essere definito il piano terapeutico: un piano - ha precisato - che può portare ad arditi interventi salvavita oppure alla decisione di accontentarsi dei mezzi ordinari che la medicina offre». Decisione che, insomma, alla fine spetta solo ed esclusivamente al medico. «Anche l’insistenza con cui oggi si pone in risalto l’autonomia in-

«Il malato non è una cosa» L’appello del Papa ai medici di Francesco Rositano L’intervento del Papa ai partecipanti al Congresso della Società italiana di chirurgia ribadisce la contrarietà della Chiesa all’eutanasia e all’abbandono terapeutico del malato. E pone l’accento sull’ultima tentazione di una società altamente tecnologizzata nella quale il paziente rischia in qualche modo di essere “cosificato“ dividuale del paziente - ha detto Benedetto XVI- deve essere orientata a promuovere un approccio al malato che giustamente lo consideri non antagonista, ma collaboratore attivo e responsabile del trattamento terapeutico». E ha ribadito: «Bisogna guardare con sospetto qualsiasi intromissione dall’esterno in questo delicato rapporto medico-paziente». L’autodeterminazione - spiega - va

Il monito sulla ricerca

Ratzinger, la scienza e la solita stampa oscurantista di Luca Volonté

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Per il Pontefice, il compito dei familiari è «evitare l’alienazione che il paziente subisce quando viene affidato ad una medicina altamente tecnologizzata, ma priva di una vibrazione umana» rispettata, pur tenendo conto che «l’esaltazione individualistica dell’autonomia» può portare fuori strada, e che è il medico la persona più indicata a

«

l 90% di ciò che chiamiamo nuove idee sono semplicemente vecchi errori. Uno dei principali compiti della Chiesa Cattolica è far si che la gente non commetta questi vecchi errori, in cui è facile ricadere, ripetutamente, se le persone vengono abbandonate, sole, al proprio destino. La verità concernente l’atteggiamento cattolico nei confronti dell’eresia o, si potrebbe dire, nei confronti della libertà, può essere rappresentata dalla metafora di una mappa. La Chiesa Cattolica possiede una mappa della mente che sembra la mappa di un labirinto, ma che in realtà è una guida per orientarsi nel labirinto. Questa mappa è stata compilata utilizzando conoscenze che, nel mondo della scienza umana, non hanno paragoni. Non vi sono altri casi di istituzioni intelligenti che hanno, con continuità, pensato sul pensiero per duemila anni».

I

Forse questa saggia riflessione di Chesterton è la migliore introduzione alla comprensione di quel che capita, ogni-

scegliere il «vero bene del paziente». Dalla relazione terapeutica non va, comunque, estromesso,“il contesto esistenziale” del malato, in particolare

qualvolta il Papa parla di ragione e fede, scienza ed etica. Insomma sarà per invidia maligna o per disonesta pavidità,da Ratisbona a Roma (Sapienza), dai “Bernardini”di Parigi alla Roma della fides et ratio, quando Ratzinger amorevolmente invita a usare ragione, scienza, fede e cuore spunta sempre un qualche pazzo che straparla. Il Papa giovedì ha commemorato la Enciclica Fides et Ratio, venerdì il solito festival della strumentalizzazione, confezionando titoli “ad effetto” che poco o nulla hanno a che vedere con le parole effettivamente pronunciate dal Papa. Prendere vocaboli qua e là ed unirli per formare una frase è un giochino da anagrammi della settimana enigmistica. La Repubblica di Scalfari dà la parola a Bernardini, uno dei firmatari della famosa lettera contro l’invito del Papa alla Sapienza, anche lui ignora le parole del Papa e quindi...Benedetto XVI sarebbe più arretrato del suo predecessore che, con la Fides e Ratio, considerava fede e ragioni compatibili fra loro. Permettete l’ironia amara, Bernardini? Sì,quello che in-

la sua famiglia. «Per questo puntualizza il Papa - occorre promuovere il senso di responsabilità dei familiari nei confronti del loro congiunto». Il loro principale compito, è quindi quello di «evitare l’ulteriore alienazione» del malato, che «quasi inevitabilmente subisce se affidato ad una medicina altamente tecnologizzata, ma priva di una sufficiente vibrazione umana».

vestì in auto la moglie di Npolitano, l’ex senatore del Pci e già scienziato criticone del Papa alla Sapienza. Ma se non per i direttori di gironali, almeno per i professori universitari non sarebbe obbligatorio informarsi e documentarsi prima di parlare?

Il precedente più eclatante è per l’appunto accaduto in Italia, precisamente nel romano inizio anno e in occasione della visita del Papa alla Sapienza. Allora come oggi, giornaloni rinomati per la loro obiettiva indipendenza,si fecero dapprima megafoni e poi censori degli squinternati scienziati privi di scienza e coscienza.In questi giorni la riprova, amara presa d’atto,del disamore e del pregiudizio che colpisce in Italia il Pontefice Benedetto, siamo l’unico paese al mondo dove sussiste un gruppuscolo di laicisti rivoluzionari e giacobini che, per di più,«vanno in pagina» nei più grandi quotidiani a criticare ciò che non conoscono. Disabitudine a usare il cervello? E poi si acusa il Papa di essere invadente,irrazionale od oscurantista.


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mondo

Inquinamento. Il vertice in Lussemburgo non placa la crisi

Europei sì. Ma con riserva Ambiente, l’Italia chiede una clausola di revisione del pacchetto della Ue di Enrico Singer avanti ai fotografi c’è anche un sorriso. Ma in privato il tono cambia. Al vertice dei ministri europei dell’Ambiente, che si è aperto ieri e che si concluderà oggi in Lussemburgo, Stefania Prestigiacomo e Stavros Dimas sono rimasti fermi sulle loro posizioni. L’Italia si dichiara armata di «buone intenzioni» e si conferma «europeista». Ma pretende «modifiche sostanziali» e pone la riserva di ottenere una «clausola di revisione» dell’accordo 20-20-20 (il 20 per cento in meno di emissioni di Co2 e il 20 per cento in più di energia rinnovabile entro il 2020) che dovrebbe essere firmato nel Consiglio europeo del prossimo dicembre. O con le modifiche che chiede il governo Berlusconi sulla ripartizione degli oneri del piano. Oppure con l’intesa, messa nero su bianco, di rivedere tutti i calcoli entro il 2009. Altrimenti l’Italia «è pronta a non firmare», dice la Prestigiacomo. Ma il commissario Dimas difende i suoi calcoli e li definisce «vantaggiosi» per il nostro Paese. Il dissidio tra l’Italia e la Ue, insomma, non ha trovato una soluzione in questo primo round negoziale. Anzi, si è inasprito. Con soddisfazione del pacchetto dei nove Paesi dell’Est europeo contrari al 20-20-20 che si sono ritrovati come alleato uno dei padri fondatori dell’Unione. E con l’irritazione degli altri ”grandi” - Germania in testa - che vogliono chiudere la partita in tempo per presentarsi alla Conferenza mondiale dell’Onu sul clima, che si terrà nel novembre del 2009 a Copenaghen, con un piano europeo accettato da tutti per spingere Stati Uniti, Russia, Giappone, Cina e India a fare altrettanto.

D

combattendo sembrerebbe soltanto una guerra di numeri. Il pacchetto studiato da Dimas, e già approvato negli obiettivi e nelle linee generali dai Ventisette - Italia compresa - nel marzo del 2007, costerà davvero all’Italia tra i 9 e i 12 miliardi di euro l’anno, come sostiene Bruxelles? Oppure il prezzo da pagare sarà di 18, 25 miliardi, come ha ripetuto anche ieri Stefania Prestigiacomo dicen-

Il ministro Prestigiacomo propone un ”tavolo tecnico” per ricalcolare i costi del piano che definisce insostenibili, ma Dimas e la presidenza francese non vogliono riaprire il vaso di Pandora delle quote nazionali

Ad ascoltare le parole dei protagonisti, quella che si sta

dosi «ben sicura» dei suoi calcoli? E inella innegabile situazione di crisi economica generale, queste cifre sono comunque sostenibili? Ma se ci si ferma ai numeri - che pure sono molto importanti perché si

tratta di miliardi e non di astratte cifre - si rischia di entrare nel campo minato delle stime e di come si tengono in conto gli effetti positivi in termini di sviluppo della ricerca e di risparmio in importazioni di idrocarburi. La Prestigiacomo ieri ha detto che «se la Commissione europea lo riterrà opportuno creeremo un tavolo tecnico per verificare i costi», ma la presidenza francese e l’esecutivo di Bruxelles appaiono poco propensi a riaprire il vaso di Pandora delle quote di riduzione delle emissioni in obiettivi nazionali differenziati. Così come non sono disposte ad accettare le obiezioni di tipo sistemico al pacchetto: non solo quelle italiane, come l’opposizione di principio alla compravendita dei diritti di emissione, già in vigore con il Protocollo di Kyoto, ma soprattutto quelle dei Paesi dell’Est che pretendono di calcolare le riduzioni obbligatorie di Co2 non a partire dal 2005, ma dal 1990 quando il loro sistema industriale di modello sovietico era ancora più inquinante in modo da calcolare i risultati positivi già ottenuti.

L’ex commissario europeo all’Ambiente

La verità sulla guerra del clima di Carlo Ripa di Meana

segue dalla prima Era la direttiva che avevo presentato come Commissario Europeo all’Ambiente nella Commissione Délors, nei mesi precedenti di quell’anno. Al Gore, candidato come Vicepresidente di Bill Clinton, il 18 maggio 1992, al Parlamento Europeo a Strasburgo relatore in quella sede prima di me sul tema, pochi giorni prima dell’apertura dei lavori a Rio, disse che non vi era la più lontana possibilità che il Presidente George Bush, sotto la pressione dei petrolieri e dei gruppi automobilistici, aderisse alla nostra proposta di carbon tax. Bush, aggiunse Al Gore, avrebbe cercato di cavarsela con molto lip service e con nessun impegno. Gore aggiunse che «l’illusione della vostra carbon tax verrà tenuta lontana dalle conclusioni di Rio con una pressione massima della diplomazia americana, e con la rassegnazione europea». Così infatti accadde. Per la ve-

rità storica devo però aggiungere che anche dopo la vittoria del ticket Clinton-Gore per i due mandati di quella presidenza, le buone intenzioni del Vicepresidente Gore non riuscirono a modificare alcunché negli otto anni in cui fu il secondo uomo di potere nel suo paese. Oggi l’Unione Europea, riprendendo e estendendo la linea che mi aveva portato a preparare la Direttiva «Energy-carbon tax» lungo quindici anni di confronti, incontri internazionali e messe a punto formalizzati, infine, nel Protocollo di Kyoto, in attesa dell’era multilaterale senza eccezione, ha scelto di percorrere intanto l’era, generosa ma carissima, e alla fine inapplicabile, unilaterale. Ma guidati dall’Italia, altri paesi europei esitano a impegnarsi in quote vincolanti, binding agreements. Riconosco oggi, e come testimone e come persona che ha sempre seguito questo dossier anche dopo il mio tempo a


mondo

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Proprio questa richiesta del blocco dell’Est rende difficile un’alleanza effettiva con l’Italia contro il piano Ue. Perché se mai venisse portato al 1990 l’anno di riferimento, emergerebbe subito che lo sforzo richiesto all’Italia è, in realtà, molto minore di quello chiesto a Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, al contrario di quanto ha affermato in questi giorni il governo Berlusconi. Questo perché il riferimento al 2005, previsto da Dimas, fotografa una situazione in cui quasi tutti i grandi Paesi europei hanno diminuito le emissioni rispetto al 1990 così come stabilito dal Protocollo di Kyoto, mentre l’Italia le ha aumentate notevolemente: un più 7 per cento, anziché un taglio del 6,5 per cento. In sostanza, se lo sforzo chiesto all’Italia entro il 2020 rispetto al 2005 è in qualche caso maggiore di quello degli altri Stati membri, è solo perché in questo modo non viene calcola-

Molto critica la Germania: la crisi finanziaria non deve diventare una scusa perché tagliare le emissioni di Co2 si tradurrà in un maggiore risparmio di energia e di spese

Bruxelles, che è quella italiana del Governo attuale una posizione che ha un forte fondamento. Per tre ragioni: primo, perché la linea del Commissario Stavros Dimas non solo impone spese maestose per ottenere il risultato, ma vede ricaricare sulla produzione industriale dei paesi “osservanti”gravami che sono destinati a metter fuori mercato molte imprese e moltissime produzioni. In assenza di misure analoghe assunte dalla globalità delle nazioni, e in particolare dalle grandi potenze economico industriali e commerciali di questo momento storico. In secondo luogo, perché dietro il fervore spacciato come illuminato, virtuoso e apostolico, si fanno sentire all’interno dell’Unione Europea i vastissimi interessi produttivi, in particolare di Germania, Francia e Regno Unito, che hanno negli ultimi decenni puntato e costituito una gigantesca realtà produttiva e industriale, quella della “green industry”, pronta a

portare in tutto il mondo impianti e tecnologia, sempre più affinati e costosi, per abbattere gli inquinamenti e ridurre drasticamente qualsiasi emissione. L’Italia è rimasta molto indietro, insieme agli altri nove paesi che in questa realtà temono di perdere spazio economico e mercati. E infine, naturalmente, per amore di onestà intellettuale e scientifica, va ricordato che sull’apporto antropico al riscaldamento globale, “global warming”, permangono opinioni differenziate in sede scientifica. E come molte altre volte nel corso dei secoli, la qualità della scienza non può essere affidata alla maggioranza delle Commissioni scientifiche, formate politicamente nelle sedi delle più diverse Istituzioni. Siamo pur sempre il paese che dovrebbe saperne qualcosa, essendosi svolti da noi i processi a Galileo con le maggioranze scientifiche del tempo che ne chiedevano, metaforicamente, il rogo.

to il nostro enorme ritardo sugli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto. E l’alleanza tattica con i Paesi dell’Est, che Stefania Prestigiacomo ha sottolineato anche ieri - «non siamo soli nel criticare il piano 20-20-20» - rischia addirittura di rivelarsi controproducente. Che alla base ci sia il problema degli impegni mancati, lo conferma anche quanto ha detto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, il quale ha anticipato che il governo chiederà anche di «rinviare o di rinegoziare il Protocollo di Kyoto». Lo scontro sul clima, quindi, non riguarda soltanto gli impegni futuri, ma anche il passato. Per il momento le reazioni della Francia, presidente di turno della Ue, sono caute. «Si ha l’impressione che un’intesa sia complicata, ma, in realtà, si tratta di discutere tre o quattro punti di disaccordo», ha detto uno sherpa della presidenza francese. Più duro il ministro tedesco dell’Ambiente, Sigmar Gabriel: «La crisi finanziaria non può essere usata come una scusa, al contrario deve portare a una maggiore protezione in fatto di clima che si traduce in un maggiore risparmio d’energia».

Non si può non avere un piano energetico

Ma l’Italia dice sempre (e solo) di no di Luisa Arezzo on è il fatto che l’Italia si sia accodata a nove Paesi dell’Est che fa rabbrividire. Personalmente, credendo nel progetto europeo, non soffro questa pruderie e Bulgaria, Lettonia, Estonia, Polonia, Ungheria, Lituania, Romania e Slovacchia fanno ormai parte della Ue a tutti gli effetti, godendo dello stesso diritto di voto e di veto. Il punto è che l’approvazione con riserva del pacchetto clima ha delle giustificazioni se avanzata da questi Paesi che, entrati di recente (fra il 2004 e il 2007) nell’Unione, hanno portato con sé il loro carico di industria obsoleta e vecchie centrali che sia dismettere che riconvertire risulta - anche al netto dell’attuale crisi finanziaria – incredibilmente oneroso per delle economie poco solide come le loro. A farmi rabbrividire è il continuo cercare una giustificazione, con annessa dilazione temporale, da parte di questo governo che già ai tempi del Berlusconi Ter, vedeva Matteoli, ai tempi titolare dell’Ambiente, teso all’aggancio del dissente di turno (allora era la Russia, che si rifiutava di ratificare il Protocollo di Kyoto) per cercare di allontanare il fantasma delle riduzioni di gas serra. Ma non è solo questo: l’Italia ha ratificato il protocollo di Kyoto nel 2002. E da allora avrebbe dovuto mettere in moto un circolo virtuoso per transitare verso un’economia a basse emissioni di CO2. Non è stato così. E negli ultimi anni abbiamo continuato ad importare combustibili fossili (i maggiori emettitori di CO2, nell’ordine, in una top 3 virtuale: carbone, petrolio, gas) per soddisfare sia l’incremento di domanda di natura domestica e di trasporto sia per l’industria. E questo ha comportato che l’Italia, basandosi su un’impresa manifatturiera che è quella più energy consuming ha dovuto incrementare in modo esponenziale la propria dipendenza dall’estero. E allora non c’è proprio niente di cui andare fieri nei pugni battuti dal nostro governo, perché le sue motivazioni affondano nell’assenza di obiettivi energetici e ambientali che gli 8 Paesi dell’Est negli anni passati non hanno mai né avuto né millantato. Mentre ricordo una dichirazione - correva il 2004 - di Altero Matteoli dopo uno dei tanti vertici internazionali su Kyoto: «Abbiamo mosso un altro passo nella giusta direzione: quello della tutela dell’ambiente globale. Compierlo è stato possibile ancora una volta grazie al ruolo propulsivo dell’Europa che ha saputo parlare a una sola voce». Evidentemente, oggi, lo hanno scordato.

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politica

Somalia. Il contrammiraglio Gumiero nominato capo delle forze marittime Nato per proteggere le navi dai corsari

Un italiano contro i nuovi pirati di Antonio Picasso

d i a r i o obiettivo è controllare le acque del Mar Rosso e garantirne la sicurezza. Tuttavia, se una flotta della Nato si sposta verso un’area fuori dalla sua competenza, non è solo per preservare dai pirati una delle rotte commerciali più trafficate al mondo. Dietro un’operazione avallata dalla comunità internazionale, ci possono essere interessi geopolitici ben più particolari. È previsto per oggi l’attracco a Gibuti della Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2), la squadra navale della Nato incaricata di effettuare un’attività di pattugliamento e prevenzione contro gli atti di pirateria che, soprattutto negli ultimi tre mesi, si sono susseguiti nel tratto di mare fra il Corno d’Africa e lo Yemen. All’inizio di questo mese, il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon aveva lanciato l’allarme del pericolo che gli aiuti umanitari inviati in Somalia dal World Food Programme (Wfp), potessero cadere vittima di atti di pirateria. In conseguenza di questi timori, e dimostrando un’infrequente tempestività nel prendere una decisione all’unanimità, il Consiglio di Sicurezza aveva approvato la Risoluzione numero 1338, con cui chiedeva un intervento,“con tutti i mezzi necessari”, per far fronte al fenomeno. L’Alleanza Atlantica è stata la prima a rispondere a questa richiesta. Appena una settimana fa, ha dato l’ok per l’invio della sua flotta permanente, l’Snmg2 appunto, composta da sette navi di sei Paesi membri. Obiettivo della missione è proteggere i mercantili del Wfp diretti in Somalia e il transito di tutte le navi provenienti dall’Estremo oriente e dirette nel Mediterraneo. E viceversa. In questo senso, è stata fondamentale la pressione effettuata dall’Italia in sede Onu, affinché la missione non assumesse sembianze puramente militari, ma fosse capace di affrontare il problema secondo tutte le sue sfaccettature: politico, umanitario e quindi di sicurezza. Il comando dell’Snmg2 è stato assegnato al contrammiraglio italiano Giovanni Gumiero, noto alle cronache italiane purtroppo per l’assassinio di sua moglie Giovanna Reggiani, la donna aggredita nei pressi della stazione romana di Tor di Quinto praticamente un anno fa. La task force è composta da sette fregate. La nave bandiera è il cacciatorpediniere italiano “Durand De La Penne” e al suo seguito ci sono due fregate tedesche, più una singola rispettivamente per Gran Bretagna, Grecia, Turchia e Usa. Per quanto sia previsto un comando a rotazione, della

L’

d e l

g i o r n o

Francia: morta suor Emmanuelle È morta ieri all’età di 99 anni suor Emmanuelle, la “Madre Teresa francese” conosciuta in tutto il mondo per aver dedicato la sua vita ad aiutare poveri ed emarginati. Madeleine Cinquin, questo il vero nome di quella che è stata un’autentica icona mediatica della carità, si è spenta nel sonno nella casa di riposo di Callian, in Provenza. A darne notizia è stato un portavoce della Asmae-Association Soeur Emmanuelle, l’associazione che porta il suo nome. I funerali si svolgeranno domani. La notizia ha suscitato grande commozione: il presidente francese, Nicolas Sarkozy, l’ha definita «la sorella di tutti», mentre il suo predecessore Jacques Chirac e sua moglie Bernadette hanno dichiarato di «aver perso una grande amica». Suor Emmanuelle era nata a Bruxelles il 16 novembre 1908 - tra un mese avrebbe compiuto 100 anni - ma aveva trascorso la maggior parte della sua vita tra la Francia e i Paesi di Asia e Africa in cui ha prestato il suo servizio caritatevole. Entrata nell’ordine religioso a soli 21 anni, tra il 1971 e il 1991 si era stabilita in Egitto, vivendo tra le famiglie di un poverissimo sobborgo del Cairo. Rientrata in Francia nel 1993, all’età di 85 anni, si era ritirata in una casa di riposo per religiose della Provenza. Nel frattempo l’associazione che aveva fondato ha continuato ad aprire scuole e cliniche in tutto il mondo, portando avanti il suo prezioso lavoro in molte aree disagiate del pianeta. L’Ammiraglio Giovanni Gumiero ai funerali della moglie, Giovanna Reggiani, uccisa a Roma da un romeno nel quartiere di Tor di Quinto

durata di un anno per ciascun Paese, il fatto che la missione sia iniziata sotto la responsabilità italiana è un chiaro riconoscimento dei risultati positivi raggiunti dalla nostra Marina in operazioni precedenti, quando le acque del Mar Rosso rientravano nel comprensorio del Mediterraneo allargato, sotto il controllo dalla Squadra Navale italiana, guidata dal Cincnav, l’ammiraglio Giuseppe Lertora. E l’incremento dei casi di pirateria

Lo Standing Nato Maritime Group è composto da sette navi provenienti da sei Paesi del Patto: Italia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Turchia e Stati Uniti si è avuto proprio in questi ultimi mesi di interregno, quando l’attenzione occidentale si è rivolta ad altre aree di crisi. Con un bilancio parziale di 60 navi attaccate o sequestrate, infatti, il 2008 si presenta come l’anno di maggiore intensità della pirateria locale. In questa escalation, il sequestro del mercantile ucraino, con a bordo un carico di munizioni e 33 cari armati “T-52”, è apparso come il caso più eclatante. La posizione strategica dello Yemen e del Corno d’Africa è palese a tutti. Anche per coloro che, conducendo la propria guerra asimmetri-

ca, tendono a destabilizzare gli equilibri geopolitici.

I pirati, solitamente di provenienza somala, cercano di guadagnare denaro contante e materiale da rivendere, entrambi utili per mantenere in vita la guerriglia nel proprio Paese. D’altra parte, ci sono anche altri interessi in gioco. Il Corno d’Africa è un passaggio obbligato – ma soggetto a scarsi controlli da parte delle autorità di ogni singolo Stato – tra il Sudan, la Penisola arabica e da lì ai due epicentri dell’instabilità mediorientale: Afghanistan e Pakistan. E infatti, ancora nella passata primavera, “al-Qaeda nello Yemen”, percependo la rilevanza economico-commerciale della zona, inneggiava i suoi mujahidin a una sorta di “jihad del mare”. Tuttavia, al di là delle derive terroristiche, è interessante notare che nell’Oceano Indiano, anche l’India ha inviato una sua nave. Proprio a sottolineare la nuova cooperazione militare tra New Dehli e l’Occidente. Ma la mossa della Nato non è passata inosservata nemmeno a Mosca. I recentissimi accordi tra il Cremlino e il governo yemenita, per la riapertura di una base navale di origine sovietica nel Paese, fanno pensare che la “questione pirati” interessi un po’ tutti. Sia i combattenti di ogni tipo locali sia chi, a Bruxelles come a Mosca, ha una visione più classica delle operazioni navali. *Analista Ce.S.I.

India, Mosca costruirà 4 reattori nucleari La Russia si è impegnata a costruire quattro nuovi reattori nucleari nello Stato meridionale indiano del Tamil Nadu. È uno degli elementi più importanti di un accordo definito ieri dai ministri degli esteri dei due Paesi, Sergei Lavrov e Pranab Mukherjee, che apre la strada alla firma di un trattato di cooperazione bilaterale nel settore nucleare il prossimo mese di dicembre, quando il presidente russo, Dimitry Medvedev sarà a Nuova Delhi per una visita di Stato. L’India ha definito accordi di cooperazione nel settore anche con Stati Uniti e Francia, finalmente autorizzati lo scorso settembre anche dal Gruppo dei Pasi fornitori di equipaggiamenti e materiali nucleari (Nsg) che ha cancellato il precedente embargo contro Nuova Delhi che non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione nucleare.

Walesa: «Rimuovere Kaczynski» L’ex presidente polacco e Premio Nobel per la pace Lech Walesa ha sollecitato ieri la rimozione dall’incarico dell’attuale capo dello stato Lech Kaczynski argomentando che la sua attività «fa ridere e nuoce alla Polonia». Walesa, 65 anni, che ha presentato a Danzica ai giornalisti un suo nuovo libro, un’autobiografia, ha detto che «bisogna fare il possibile per accorciare al più presto il mandato» di Kaczynski, eletto presidente nel 2005 per un periodo di cinque anni. Il fondatore di Solidarnosc, nominato di recente nel gruppo dei “saggi” dell’Unione europea, ha fatto anche capire che potrebbe ricandidarsi alle presidenziali del 2010. «Vedremo, ma lo farò solo se ci sarà la possibilità di realizzare alcune idee», ha detto l’ex presidente, in carica dal 1990 al 1995.

Afghanistan, attentato contro truppe Nato Cinque bambini e due soldati tedeschi sono rimasti uccisi ieri in un attentato suicida a Kunduz, nord dell’Afghanistan. Un’autobomba è esplosa al passaggio di una colonna di mezzi militari dell’Isaf (la Forza internazionale di assistenza per la sicurezza sotto comando Nato), provocando anche diversi feriti. Lo ha confermato il portavoce del ministero della Difesa di Berlino, che ha anche annunciato di «non poter escludere la morte di altri soldati».


mondo

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Foto grande: Ankara: parata militare per il giorno della Vittoria e, nel riquadro, il premier Erdogan. A Ergenekon potrebbero essere attribuiti l’assassinio del giudice Mustafa Ozbilgin, ucciso nella sede del Consiglio di Stato nel maggio 2006, l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, forse anche quello del sacerdote italiano Don Andrea Santoro, freddato a Trebisonda il 6 febbraio 2006. Secondo molti anche la strage di Malatya, il 18 aprile 2007, quando e tre cristiani presbiteriani, furono sgozzati nella sede della Casa editrice Zirve, autorizzata a stampare la Bibbia e altri testi afferenti al Cristianesimo

i è aperto in Turchia il processo destinato a restare nelle pagine della storia anatolica contemporanea (e forse anche a riscriverle). È il processo contro Ergenekon, l’organizzazione segreta di stampo ultra kemalista accusata di aver insanguinato il Paese per dieci anni. All’organizzazione andrebbero imputati alcuni fra i maggiori atti di violenza, diventati più frequenti ed efferati dopo che il leader islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan e il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) hanno preso il potere nel novembre del 2002. L’udienza si svolgerà nel tribunale di Silivri, a 70 chilometri da Istanbul, vicino al carcere dove sono detenuti 46 degli imputati che finiranno in questi giorni alla sbarra. L’accusa è terrorismo e tentato colpo di Stato. Detto in parole povere, aver cercato per 10 anni di attuare una strategia della tensione per cercare di rovesciare l’ordine costituito e, dal 2002 appunto, il governo guidato da Recep Tayyip Erdogan, regolarmente eletto dal popolo.

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Fra gli imputati ci sono molti nomi eccellenti. C’è il generale in pensione Veli Kucuk, che secondo l’accusa sarebbe una delle principali menti dell’organizzazione, considerato il fondatore dello Jitem, il servizio di informazioni e antiterrorismo della gendarmeria sospettato negli anni Novanta di essere responsabile delle esecuzioni extragiudiziali di numerose personalità curde. C’è Kemal Kerincsiz, avvocato ultra nazionalista che trascinò il premio Nobel Orhan Pamuk, il giornalista armeno Hrant Dink e la scrittrice Elif Shakaf davanti al tribunale, accusandoli di aver offeso il vecchio articolo 301, che puniva l’insulto all’identità nazionale. C’è Dogu Perincek, segretario del Partito dei lavoratori e c’è Kemal Alemdaroglu, ex rettore dell’Università di Istanbul, da sempre uno degli atenei più laici della Turchia moderna. C’è

Terrorismo. Al via l’udienza contro l’organizzazione ultra kemalista

Sul processo Ergenekon la Turchia si spacca in due di Fabrizio Draghi Tolon, che non sono nella lista degli incriminati inoltrata ieri perché arrestati quando la presentazione delle accuse era già stata consegnata, verranno aperte due posizioni a parte. La presenza di alti gradi delle forze armate ha causato un notevole

no ha commesso degli errori ne risponderà a un giudice». Il Tribunale di Silivri è blindato. L’udienza si svolge lì perché poco lontano si trova il carcere dove sono reclusi una parte degli accusati. I giudici avranno un dossier di oltre 2400 pagine. I giornalisti che hanno voluto assistere all’udienza si sono dovuti fare accreditare da tempo per motivi di sicurezza. Nei corridoi del tribunale sono stati installati schermi al plasma perché i posti all’interno della sala dell’udienza sono limitati.

86 le persone imputate di far parte del gruppo eversivo. Una trentina le accuse, fra cui organizzazione terroristica, incitazione alla rivolta e tentativo di rovesciare il governo di Erdogan anche Umit Erenol, la portavoce della Chiesa Ortodossa Turca, un’istituzione fondata dal nonno nel 1922 con l’obbiettivo di essere concorrente della Chiesa Ortodossa greca. E proprio in una chiesa di Istanbul, secondo quanto scritto da alcuni giornali, Ergenekon avrebbe pianificato le proprie azioni. Rimangono fuori da questo processo altri ufficiali dell’esercito. Per l’ex capo della Gendarmeria Sener Eruygur e l’ex primo comandante dell’esercito Hursit

imbarazzo all’esercito, tanto che, nel luglio scorso, dopo la presentazione delle accuse da parte della magistratura, l’allora capo di Stato Maggiore, Yasar Buyukanit, era stato costretto a dichiarare: «In ogni ambiente ci sono persone che infrangono la legge, nei loro confronti è la giustizia a decidere... Anche in questa occasione c’è chi cerca di stabilire un legame tra questi fatti e le forze armate. Ma quest’ultime non sono un’organizzazione criminale. E se qualcu-

La bolla di Ergenekon è scoppiata ufficialmente nella primvaera 2006, dopo un’inchiesta aperta dalla procura di Istanbul, che aveva trovato 27 bombe a mano nel quartiere di Ümraniye, nella parte asiatica di Istanbul. Si trattava di bombe dello stesso tipo di quelle piaz-

zate nel maggio dello stesso anno sotto la sede del quotidiano laico e kemalista Cuhmuriyet. La prima grande retata nel gennaio 2008, alla quale hanno fatto seguito operazioni ripetute a intervalli più o meno regolari, soprattutto di pari passo con il processo che ha visto l’Akp accusato dal Procuratore generale della Repubblica, Abdurrahman Yalcinkaya, di attività antilaiche, accusa per cui ha rischiato la chiusura. Tempistica che in molti nel Paese hanno catalogato come la risposta del governo islamico-moderato all’ennesimo attacco della parte più laica dello Stato turco, nella fattispecie la magistratura. Il premier Erdogan ha più volte dichiarato che la Turchia avrà presto tutta la verità riguardo alla sua storia recente. A Ergenekon potrebbero essere infatti attribuiti l’assassinio del giudice Mustafa Ozbilgin, ucciso nella sede del Consiglio di Stato nel maggio 2006, l’assassinio del giornalista armeno Hrant

Dink, forse anche quello del sacerdote italiano Don Andrea Santoro, freddato a Trebisonda il 6 febbraio 2006. Secondo molti anche la strage di Malatya, il 18 aprile 2007, quando Necati Aydin, UgurYüksel e Tilman Ekkehart, tutti e tre cristiani presbiteriani, due turchi e uno tedesco, furono sgozzati dopo essere stati torturati per ore nella sede della Casa editrice Zirve, a Malatya appunto, autorizzata a stampare la Bibbia e altri testi afferenti al Cristianesimo.

Nel Paese c’è grande attesa per il processo, ma anche grande timore. Una parte dell’opinione pubblica ritiene, infatti, che alcuni imputati, a volte passati anche come “eccellenti”, siano in realtà estranei ai fatti e implicati nel caso per essere diffamati o almeno resi “inoffensivi”. Questa è l’accusa della parte più laica dello Stato, secondo la quale Erdogan starebbe usando un momento importante della storia del Paese come Ergenekon, per rafforzare il suo potere ed arginare quello dei suoi avversari, politici e non.Turchia spaccata davanti al momento della verità, anche fuori dai cancelli del tribunale. L’emittente Ntv e il quotidiano Zaman hanno annunciato che sono attese diverse proteste. Chi manifesterà contro colpi di Stato e il regime del terrore e chi contro l’inserimento nel processo di persone che non hanno nulla a che vedere con l’organizzazione.


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il paginone

La civiltà occidentale è tale solo perché abbiamo elaborato l’idea dell’Oriente. Due realtà che andrebbero comprese non alla luce di una cultura dell’aut-aut, bensì dell’et-et. Nasce con questo proposito, a Firenze, il Centro di Studi sulle Arti e le Culture dell’Oriente i Oriente e Occidente si parla davvero troppo, da qualche anno a questa parte; e spesso se ne parla con leggerezza, come se si trattasse di due realtà concrete, obiettive e contrapposte anziché di due espressioni culturali e convenzionali, di “parole” dietro alle quali si celano “cose” in continua evoluzione, di valori dinamici e relativi da comprendere alla luce di una cultura non già dell’aut-aut, bensì dell’et-et. Altrimenti si finisce come con il tormentone destrasinistra: il cane è di destra e il gatto di sinistra, la vasca da bagno è di destra e la doccia di sinistra e così via.

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D’altra parte, il “nostro Occidente”è tale, da quando è tale – l’uso del termine con significato di civiltà non è vecchio di oltre due secoli - appunto perché abbiamo elaborato l’idea dell’Oriente, anzi forse degli “Orienti”. E i nostri molteplici modi d’immaginare l’OrienteOrienti hanno dato vita all’orientalismo, un affascinante, lussureggiante e disordinato fascio di immagini, di gusti, di luoghi comuni che non sempre la severa scienza dello studio metodico e ordinato dei mondi “orientali”, vale a dire l’orientalistica, riesce a ordinare e a gestire. Eppure, fin dai turchi e dai cinesi immaginari che hanno popolato i nostri sogni, le architetture dei nostri giardini e le musiche dei nostri teatri almeno dal Settecento in poi, noialtri non saremmo quelli che siamo. Un grande studioso ch’era comunque anche un uomo di parte e che non ha mai nascosto di esser tale, Edward W. Said, nel suo fondamentale Orientalismo (Feltrinelli, 1999) ha descritto, con profondità di dottrina e ricchezza di erudizione ma con un atteggiamernto di fondo alquanto paleomarxista, l’orientalismo come la sovrastruttura e in qualche modo l’alibi del colonialismo. Ma, nonostante il grande fascino del suo lavoro, la sua è una visione schematica e riduttiva. In realtà, la cultura che non senza molta genericità definiamo “occidentale” ha espresso, con le “mode”orientalistiche, la coscienza d’un millenario debito nei confronti delle

Senza i turchi e i cinesi immaginari che hanno popolato i nostri sogni, le architetture dei giardini e le musiche dei nostri teatri, noi non saremmo quelli che siamo

grandi civiltà soprattutto asiatiche. Un debito che, per l’Europa convertita al cristianesimo nel corso del I millennio d.C., comincia molto presto: dalla cristianizzazione, appunto.

Considerazioni di questo tipo, connesse anche con la necessità di far conoscer un patrimonio artistico finora piuttosto

trascurato e magari di facilitare il dialogo tra genti diverse in questi tempi di frequenti scontri e d’integrazione difficile, hanno condotto Francesco Gurrieri, direttore dell’Università Internazionale dell’Arte di Firenze – un istituto specializzato anzitutto nelle tecniche di restauro delle opere artistiche – ad attivare all’interno di essa un Centro di Studi sulle Arti e le Culture dell’Oriente (Csaco) che si propone, attraverso un’attività di conferenze, mostre e giornate di studio, di approfondire la conoscenze relative ai mondi diversi da quello occidentale ma anche alla storia della cultura orientalistica e di segnalare agli enti competenti e all’opinione pubblica eventuali situazioni di sofferenza bisognose di essere risolte (monumenti obsoleti o danneggiati, musei ignorati o dimenticati, tradizioni da riscoprire e da riportar in auge).

Ma potrà sembrare strano che un’iniziativa del genere sia nata proprio a Firenze, che non sembra avere particolari “affacci” sul mondo orientale. Non sarebbero state più adatte città come Venezia, Bari, Napoli, magari – a voler restare in Toscana – Livorno? Invece, a un esame più attento, la scelta di Firenze si rivela ben giustificata. La lacuna che il

L’Occidente di Franco Cardini Csaco intende colmare riguarda appunto, per cominciare, la storia intellettuale e accademica della città di Firenze, nella quale durante la metà dell’Ottocento l’orientalistica trovò un punto fermo nelle istituzioni accademiche e culturali fiorentine, mentre il gusto orientalistico, accogliendo ma anche genialmente elaborando, le sollecitazioni provenienti da altri centri della penisola ma anche e soprattutto da altri paesi europei (Francia, Inghilterra, Germania, Spagna), si affinava e si trasformava in una delle componenti essenziali della vita cittadina, profondamente incidendo anche sul gusto architettonico, sugli spettacoli, sulla produzione artigianale, sull’organizzazione espositiva e museale, sulla vita quotidiana.

Nel 1878 si tenne in Firenze un celebre Congresso Internazionale degli Orientalisti; in Firenze vissero e lavorarono orientalisti celebri e cultori intelligenti di cose orientali quali Michele Amari, Angelo De Gubernatis, Paolo Mantegazza, Paolo Emilio Pavolini, Aldobrandino Malvezzi, si aprirono cattedre di sanscrito, di sinologia e di iamatologia, si avviò un vero e proprio Museo Indiano, preziosa collezione di oggetti raccolta nei locali dell’allora Istituto di Studi Superiori (poi Università degli Studi) e per lungo tempo di pubblica fruizione, oggi purtroppo conservata nei locali del Museo di antropologia ma inagibile ai visitatori. Senza questo straordinario background non si comprende come Firenze potesse essere il “luogo”privilegiato del-


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A sinistra, una stampa del famoso pittore giapponese Katsushika Hokusai. A fianco, un ritratto di Pietro Mascagni e, sotto, uno scatto del regista Luchino Visconti. Nella pagina a fianco, in alto, un’immagine dell’opera “Turandot” di Giacomo Puccini (in basso)

monio culturale oggi ancora fortunatamente, almeno in parte, presente in città, ma disperso e sconosciuto, o quasi, non solo al grande pubblico e ai mass media, ma perfino a molti pubblici amministratori e addetti ai lavori.

e? Sorge ad Est orientalista come la Sinagoga di Via Farini, il Teatro dell’Alhambra (distrutto con criminale stolidità negli Anni Sessanta) e il castello di Sammezzano, oggi a sua volta inagibile ai vi-

(1843-1920), Stefano Sommier (1848-1922) o il conte di Torino, la collezione del quale si trova nel palazzo della Meridiana del giardino di Boboli ed è inagibile ai visitatori.

Quest’ampia e profonda attività scientifica e culturale, che s’irradiò in tutta la Toscana, fu

Esistono senza dubbio orientalisti valorosissimi, specie in campo linguistico-letterario, attivi nell’Università di Firenze; sussistono i preziosi fondi librari e oggettistici in molti musei e biblioteche pubbliche e private (come quella della Facoltà di Scienze Politiche, la quale custodisce il preziosissimo Fondo Malvezzi); sono ancora attivi istituti prestigiosi, ricchi di dotazioni librarie e museali, oggi semisconosciuti e inutilizzati per la cittadinanza fiorentina (citiamo il caso dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare, Iao); restano le tracce documentarie di spettacoli come l’ormai leggendaria edizione dell’Oberon di Franz Maria von Weber nel giardino di Boboli, all’inizio degli anni Cinquanta, con la geniale regia del Visconti; materiale prezioso è custodito nel Centro di Documentazione sul Romanticismo e nella Collezione Maraini,

La cultura che con molta genericità definiamo “occidentale” ha in realtà espresso, con le “mode” orientalistiche, la coscienza d’un millenario debito nei confronti delle grandi civiltà asiatiche

le sperimentazioni e delle innovazioni architettoniche dei Coppedè né come in essa o nei suoi dintorni potessero sorgere capolavori dell’eclettismo

sitatori e da anni bisognoso di urgenti e radicali restauri nella generale indifferenza. Nel contempo, Firenze e la Toscana furono i centri di partenza di numerose spedizioni scientifiche a loro volta occasioni per importanti collezioni: da citare i casi di esploratori come Odoardo Beccari

ricca di conseguenze: la “vena” orientalistica di Giacomo Puccini e di Paolo Mascagni, l’attività fiorentina di Maestri quali Luchino Visconti, i “cartelloni” di molte edizioni del maggio Musicale, i Convegni mediterranei di Giorgio La Pira, la vocazione di personaggi indimenticabili quali Fosco Maraini e Tiziano Terzani sono frutto di questo clima e di questo patri-

ospitati entrambi in Palazzo Strozzi. Tutto ciò potrebbe costituire la base per una serie infinite di attività: convegni pubblicazioni scientifiche, ricerche sostenute da borse di studio, nuove iniziative artistiche e museali, incentivi originali per l’indirizzo del flusso turistico di qualità. Ma questa ricchezza potenziale giace oggi inagibile e sconosciuta, priva perfino d’un

suo sia pur elementare sistema di censimento e di catalogazione generale che consenta di quantificarne l’entità e di gerarchizzarne il valore artistico e scientifico. Ciò essenzialmente, ci pare, perché manca un centro propulsore che gestisca e organizzi la necessaria attività di reperimento e di organizzazione; che identifichi gli obiettivi necessitanti un urgente e immediato intervento e quelli invece bisognosi di studio e di sistematica ricollocazione; che si faccia carico della ricerca dei fondi e del reperimento dei soggetti responsabili adeguati a sostenere tale attività; che informi in modo tempestivo e adeguato mass media e opinione pubblica; che promuova attività quali cicli di conferenze e di seminari, convegni, esposizioni, atte a diffondere e ad approfondire le conoscenze relative alle discipline orientalistiche, allo sviluppo della cultura orientalistica e alle prospettive sia culturali, sia promozionali che tale cultura è suscettibile di aprire nel XXI secolo.

Tutto ciò in una prospettiva eminentemente vòlta alla ricerca e alla valorizzazione di uno straordinario patrimonio storico e artistico, senza mai tuttavia dimenticare nemmeno un alto fine civico senza il quale lo Csaco non sarebbe mai nato: cioè la progressiva integrazione tra i popoli e le culture, l’abbattimento dei pregiudizi e delle barriere, lo sviluppo d’una convivenza non solo pacifica bensì fraterna, fondata sul riconoscimento degli obiettivi comuni a tutto il genere umano e del comune bisogno di libertà e di giustizia, senza le quali non possono esistere né prospettive di sviluppo futuro, né garanzie di avvenire per tutti.


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Etica & Affari/5 L’ambivalenza di un sistema oggi sotto tiro

I mercati sono due Il laissez-faire peggiora alcuni aspetti del carattere umano, ma ne migliora altri di John N. Gray l libero mercato corrode alcuni aspetti del carattere mentre ne migliora altri. Che il risultato sia buono ed equilibrato dipende dall’idea della vita che si ha, ed anche dal fatto di credere o meno che altri sistemi economici possano dare risultati migliori. La domanda può essere posta solo comparando alternative realistiche e comprendendo come sistemi differenti promuovano diversi tipi di carattere. È importante evitare di pensare in termini di modelli ideali. Negli ultimi anni c’è stata una tendenza a credere che il libero mercato nasca spontaneamente quando l’interferenza statale nell’economia viene rimossa, ma i mercati liberi non sono solo assenza di governo, dipendono anche dai sistemi giuridici che stabiliscono cosa può essere commercializzato come prodotto e cosa è vietato.

I

Nelle moderne economie di mercato, ad esempio, la schiavitù - come l’estorsione o la pornografia infantile - è proibita. I mercati liberi implicano sempre restrizioni morali di questo tipo, sulle quali vigila lo Stato. Più generalmente, i liberi mercati si basano sui diritti di proprietà, che sono rafforzati anche - e spesso creati - dai governi, quindi il libero mercato così come lo abbiamo conosciuto nell’Inghilterra vittoriana si è verificato non perché lo Stato si fosse ritirato dall’economia, ma piuttosto in quanto il potere pubblico venne usato per privatizzare terreni che erano stati sotto varie forme di comproprietà, o del tutto liberi. L’economia del laissez-faire che c’è stata per qualche decennio nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo fu resa possibile dagli Enclosure Acts. Queste leggi, emanate dal Parlamento a partire dalla

seconda metà del diciottesimo secolo, spostarono i lavoratori agricoli dalla campagna e crearono la classe operaia, che fu la base umana del libero mercato, ma - con l’estensione dei diritti civili alla fine del diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo - questi lavoratori cominciarono a chiedere che l’attività economia fosse sottoposta a vari tipi di regolamenti, e il risultato finale fu l’economia di mercato che esiste oggi in Gran Bretagna e in molti altri Stati.

Una prospettiva storica è utile perché ci rende in grado di capire che i sistemi economici sono soggetti vitali. Nella realtà raramente i liberi mercati procedono secondo i modelli costruiti dagli economisti. Ci sono impennate e cadute, frenate e crolli. Solo nei manuali i mercati si regolano da soli. In questo contesto, il rapporto tra etica ed economia può essere visto più chiaramente. Le peculiarità del carattere maggiormente premiante dal libero mercato sono il coraggio imprenditoriale, la volontà di speculare e rischiare, e la capacità di cogliere o creare nuove opportunità. Vale la pena notare che queste non sono le caratteristiche più apprezzate dai conservatori moralisti. Prudenza, parsimonia e la voglia di andare pazientemente avanti in un contesto di vita familiare potrebbero essere qualità ammirabili, ma solitamente non portano al successo. Quando i mercati sono altamente instabili, queste caratteristiche conservatrici potrebbero essere la strada per la rovina, mentre riorganizzare le proprie capacità, trasferirsi e cambiare carriera sono azioni rischiose che aiutano le persone a sopravvivere e a prosperare nelle economie di mercato, ma questo comportamento non è necessariamente compatibile con i valori

bandonare rapporti che non sono più proficui. Una società in cui le persone sono costantemente in movimento è improbabile che abbia famiglie stabili o che sia particolarmente rispettosa della legge.

La libertà economica non è solo assenza di governo, ma dipende anche dai sistemi giuridici che stabiliscono cosa può essere commercializzato come prodotto e cosa deve essere vietato

tradizionali che sottolineano l’importanza di legami umani duraturi. Adam Smith, uno degli ideatori dell’economia di mercato, era anche un astuto critico della società commerciale. Temeva che il sistema che si stava affermando al suo tempo avrebbe lasciato i lavoratori

allo sbando in città dove mancavano comunità coese.

Come aveva percepito, il dinamismo sovversivo del mercato non può essere confinato all’attività commerciale. I mercati liberi richiedono un alto grado di mobilità e una grande disponibilità ad ab-

Alla fine, la risposta a questa domanda dipende da come si concepisce la vita. Quello che un moralista tradizionale vede come il crollo della famiglia potrebbe essere visto da un liberale come espressione dell’autonomia personale. Per un liberal la scelta personale è l’ingrediente più importante della vita, mentre i conservatori potrebbero ritenere più importante la conservazione di istituti valoriali. Con rispetto per le società occidentali contemporanee, io tendo per la visione liberal, ma la questione importante non è tanto quali di queste concezioni venga adottata, quanto la seguente: i mercati liberi premiano alcuni tratti morali ma


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Qui sopra, un’immagine della rivolta di Budapest del 1956. Nella pagina a fianco, un ritratto di Adam Smith. Il filosofo scozzese, uno degli ideatori dell’economia di mercato, era anche un astuto critico della società commerciale, perché temeva che il sistema che si stava affermando avrebbe lasciato i lavoratori allo sbando in città dove mancavano comunità coese

L’autore John N. Gray, nato il 17 aprile del 1948 a South Shields, in Inghilterra, è uno dei più autorevoli filosofi della politica della scuola britannica ed è stato anche docente alla London School of Economics. Gray scrive regolarmente per il Guardian, il New Statesman e per il supplemento letterario del Times, oltre ad essere stato l’autore di numerosi (ed influenti) saggi di teoria politica, come “False Dawn: The Delusions of Global Capitalism” (1998), “Two Faces of Liberalism” (2000)e “Straw Dogs: Thoughts on Humans and Other Animals” (2003). Sostenitore della New Right negli anni Ottanta e del New Labour negli anni Novanta, oggi Gray dice di non credere che la divisione classica destra/sinistra abbia più senso nel pensiero

politico contemporaneo. Nel mondo accademico, Gray è soprattutto conosciuto per il suo lavoro sulla difficile relazione tra pluralismo dei valori e liberalismo nell’opera di Isaiah Berlin (provocando più di una polemica) e per la sua forte critica al “neoliberalismo” e alla globalizzazione dei mercati. Più recentemente, Gray ha concentrato la sua attenzione sulla critica all’umanismo (e ad altri capisaldi del pensiero filosofico occidentale), abbracciando posizioni molto ambientaliste, vicine alla “Teoria di Gaia” sviluppata da James Lovelock. Anche in questo campo, il lavoro di Gray è stato oggetto di molte controversie (soprattutto riguardo alla critica nei confronti dell’umanismo contenuta in “Straw Dogs”).

ne compromettono altri; se liberano le possibilità di scelta individuale, allo stesso tempo corrodono alcune tradizionali virtù. Non si può avere tutto.

I rischi morali del libero mercato non significano che gli altri sistemi economici siano migliori. I sistemi a economia pianificata hanno corroso i caratteri in modo molto più dannoso e con minori benefici in termini di efficienza e produttività. Le economie pianificate dell’ex blocco sovietico funzionavano solo – nell’ambito del livello che raggiunsero – perché erano piene di mercati neri e grigi. La corruzione era onnipresente. Nel modello marxista, l’avidità alimentata dall’anarchia del mercato è sostituita dalla pianificazione basata sull’altruismo, ma la vita reale nelle società sovietiche era più simile ad una caricatura estremizzata del capitalismo laissezfaire, un ambiente caotico e di-

I rischi morali del libero mercato non significano che gli altri sistemi economici siano migliori. L’economia pianificata ha corroso i caratteri in modo molto più dannoso spendioso nel quale ogni persona combatteva per rimanere a galla. Homo homini lupus era la regola, e l’altruismo l’eccezione. In queste condizioni, stavano meglio le persone con capacità di sopravvivenza più sviluppate e minori scrupolo morali. Nessun sistema economico può migliorare ogni aspetto del carattere morale.Tutti si rifanno in qualche misura a ragioni che sono moralmente discutibili. L’avidità e l’invidia sarebbero vizi, ma sono anche stimoli economici. Un sistema economico è buono nella misura in cui mette le imperfezioni umane al servizio del benessere generale. La scelta non è tra modelli astratti come

il libero mercato e la pianificazione economica.

Nel mondo reale, niente è mai esistito nella forma immaginata dai suoi promotori. No, la vera scelta è tra diverse combinazioni di regole e mercato, nessuna delle quali sarà mai totalmente moralmente benefica nei suoi effetti. Una combinazione sensata non può essere raggiunta applicando un modello ideale di come l’economia dovrebbe essere. Miscele diverse daranno risultati migliori in contesti storici differenti, ma una cosa è certa: una moderna economia di mercato non può funzionare senza un certo grado di corrosione morale.


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cultura

Scrittori rimossi. L’autore del “Clandestino” e “Le libere donne di Magliano”

Il “vecchio” e il mare Mario Tobino aveva un interesse spasmodico verso tutti gli elementi fondamentali. A cominciare dall’acqua... di Filippo Maria Battaglia ario Tobino e la critica letteraria non hanno avuto un rapporto facile. Certo: c’è stato un periodo, dagli anni Sessanta agli Ottanta, in cui lo scrittore viareggino è stato osannato e celebrato, ha ottenuto premi (Strega, Viareggio, Campiello) e lodi, ha perfino flirtato con giornalisti e recensori. Epperò, non ha mai fatto parte della società letteraria, non ne ha mai condiviso i riti e non si è mai piccato di saperne parlare i linguaggi.

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Perché per Tobino, più che per altri scrittori europei (Louis Ferdinand Céline, Friedrich Durrenmatt, Giuseppe Berto) è valsa la pericolosa (e aurea) regola dell’inscindibilità tra vita e opera. Un legame insidioso, scabroso, che all’autore del Figlio del farmacista è costato ostracismo e traumi di ogni tipo e che persino nei momenti di maggiore seguito non ha smesso di rievocare. E tale idiosincrasia, emerge nettamente sia nel carteggio privato che nelle sue più note opere. È in questa direzione che va letta ad esempio una lettera datata il 2 gennaio 1943. La sera prima ha conosciuto Paola Levi, sorella di Natalia Ginzburg e moglie di Adriano Olivetti. Scrivendo a Elena Franchetti, una giovane viareggina dalle aspirazioni culturali con cui da tempo ha una relazione, fa fatica a contenere la sua avversione: «Le donne letterarie sono ripugnanti, e questa in più non scrive neppure». Un giudizio tranchant che nasconde un rapporto di attrazionerepulsione: nei mesi a seguire, lo scrittore inizierà una relazione proprio con la Levi ma al tempo stesso resterà ossessionato per le loro «differentissime educazioni», per il «suo essere popolano» fino a scriverle: «La mia non è letteratura, è vita… Mi pare inoltre che prenda i moti del mio animo come mezzi, e soltanto mezzi, per fare della letteratura. Per me però non lo sono; sono la mia vita». E poi, più avanti: «Non posso più sop-

portare, attendere le recensioni, che gli altri mi stimino ecc; gli altri facciano quel che credono. Se non sono un maledetto io ti prego di non ostacolarmi».

Una relazione, quella con la Levi, che ne rappresenta bene un’altra, ugualmente odiosa e pericolosa, nei confronti di una società letteraria che lo guarderà sempre di sottecchi e nei cui confronti Tobino non smetterà mai di nutrire un profondo complesso d’inferiorità. Datata 1966 è una nota al suo Diario, con gli stessi toni precedenti. Il pretesto è dato dalla morte di Elio Vittorini. All’uomo Tobino tornano i patemi e le idiosincrasie di due decenni prima: così, l’autore di

certi, anime malferme, realtà poco conosciute. Di qui, il suo frequente rapporto con la malattia mentale, l’avvicinamento critico graduale anche se per nulla circospetto che lo porterà a scrivere uno dei suoi libri più intensi, Le libere donne di Magliano, un romanzo sotto forma di diario di un medico psichiatra in un manicomio femminile del lucchese.

E sempre da qui nasce la sua attenzione nei confronti della Resistenza (un’esperienza - e non è un fatto casuale - vissuta in prima persona e che tornerà nel romanzo Il clandestino), con un interesse spasmodico verso tutti gli elementi fondamentali, a cominciare dalla terra e dall’acqua: «Ora osò guardare il mare. Era come una tolda che si tronca all’orizzonte, una tolda sgombera di alberi e sartie, pesante, indecifrabile, non sembrava liquida, non composta di acqua, pareva sdegnare i raggi della luna. Adriatico ritornò un attimo su Medusa, alle pinete, alle righe della darsena. Riaffrontò il mare. Forse perché non ci ho mai navigato, non lo conosco, non lo comprendo. Non sapevo che fosse così, l’orizzonte è un baratro». Il mare placido diventa, nella narrativa di Tobino, mare solidificato e dunque terra disumana e indecifrabile, ma anche luogo di atterrimento e di indagine analitica. Sempre da questo sostrato prende le mosse il racconto L’angelo Deliponard che la casa editrice Mursia ha di recente dato alle stampe in una collana interamente dedicata ai «Libri del mare» (pp.83, euro 14). Una storia cupa e ossessiva, il cui baricentro ruota attorno a Fernanda, la gio-

Si definiva «un fanciullo, incosciente di sé stesso, mai frugatore nella sua natura, mai terrorizzato dal mistero umano. Un infantile, entusiasta di una sua immagine di gloria letteraria, del tutto avulsa dalla sua realtà» Conversazione in Sicilia diventa l’ipostasi di tutti i mali delle belle lettere, lo scrittore radical-chic ultraelitario, vezzoso e capace di intuire (e di determinare) il successo di un libro, in fin dei conti «un fanciullo, incosciente di sé stesso, mai frugatore nella sua natura, pochissimo conoscitore degli uomini, mai terrorizzato dal mistero umano… un infantile, entusiasta di una sua immagine di gloria letteraria, del tutto avulsa dalla sua realtà».

Di episodi simili, la vita di Mario Tobino è piena ed è su questo leitmotiv che scorre e si dipana gran parte della sua opera, come si evince del resto anche dalla lettura del Meridiano Mondadori da poco pubblicato per le cure di Paola Italia (pp.2064, euro 55). Così, tutta la sua produzione è una lunga, profonda auscultazione dei «veri problemi che ci affliggono», e quindi di territori in-

Sopra, lo scrittore Mario Tobino. A destra, Natalia Ginzburg (sorella della sua compagna Paola Levi) e, sotto, Elio Vittorini. In alto, un’immagine della Resistenza italiana, argomento trattato in diverse opere da Tobini

vane moglie del capitano di un barcobestia diretto a Medusa. Un intreccio narrativo filtrato da un gorgo intensissimo, e sorvegliato a malapena da uno stile asciutto e incalzante. Complice la traumatica fine di suo marito, Fernanda si ritroverà (suo malgrado?) ad essere dapprima soggetto vitale e dinamico, e poi oggetto di desiderio e di concupiscenza.

E la bonaccia del mare, sul quale l’imbarcazione si ritroverà come in ostaggio, rallenterà il tempo fino a cristallizzarlo, dilatando i gesti e le pulsioni dell’equipaggio. Come scrive Claudio Marabini nella nota al libro, «L’angelo del Liponard rimane un grande racconto che allo stesso tempo figura come a sé stante e legato al filone principale della narrativa dello scrittore, qualcosa di autonomo


cultura

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Dal premio Strega alla cena di Donna Francesca

Quella volta che esclamò: «Oste della malora! Vino!» di Leone Piccioni o conosciuto Mario Tobino negli anni Cinquanta: ammiravo già lo scrittore e sentii una forte simpatia per lui e per il suo carattere. Era un «medico dei pazzi»: dirigeva un manicomio vicino a Lucca. Era un bravissimo psichiatra: seguiva i suoi malati con amore (tanti profili sono finiti nei suoi romanzi), esultò alla diffusione degli psicofarmaci che tanto alleviavano i dolori dei malati, reagì con grande violenza (e penso che abbia avuto ragione) contro le teorie di Basaglia.

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ma anche misteriosamente unito alla maggiore vena, densa e fortunata, dell’autore che sappiamo. Un grande racconto di mare, come è giusto dire, ma anche una forte commedia umana e un altrettanto forte colpo del destino sulla pochezza degli uomini davanti alle cose più grandi di loro. Su tutto la figura di una giovane donna che, lei stessa fattasi destino, infine lo domina, forte della sua bellezza e della sua carne. Ma forte anche di quella notte che, unita alla bonaccia, cambia ogni cosa. Fernanda diviene motore immobile, divinità inconsapevole, davanti alla quale non esistono più la morte del marito e il lungo tradimento, ma soltanto l’immenso mistero della morte e della carne».

Temi, questi, che nella Brace dei Biassoli trovano una particolarissima declinazione. Stavolta non c’è il mare ma il fiume, ed è Mario, il

protagonista più piccolo, a raccontare: «Ma intanto, ogni volta, mentre i piedi fuggivano timorosi, qualcosa, ogni volta inaspettata, mi toccava l’animo, come una dolcezza mi prendesse furtivamente per mano. Alzavo la testa; i monti, cupi di viola, si erano avvicinati, e da quell’acqua, dalle sponde, da tutto intorno, unico caldo

sceva. Facevo un altro passo, la pena fisica ormai trascurata, mi fermavo; desideravo di nuovo udire, i monti mi parevano essersi di più avvicinati e, morbidi, affettuosi, si occupassero soltanto di me, si rivolgessero a quel soffio che avevo nel petto, facendolo vico, sicuro, presente».

In questa pericope c’è tutto Tobino: l’attenzione agli ele-

Aveva un’autentica avversione per le «donne letterarie», che arrivò a definire «ripugnanti». Fin quando poi non ne conobbe una che scelse come compagna: Paola Levi; sorella di Natalia Ginzburg bosco, udivo provenire verso di me, dentro il petto, nel mio animo, una voce mai udita, tenerissima. Mi fermavo in mezzo al fiume, in abbandono e attentissimo. Avrei voluto prolungare, essere solo. Era una voce che a tratti mi sembrava comprendere, un linguaggio che si rivolgeva a un altro dentro di me, lo chiamava, lo ricono-

menti atavici e primordiali (l’acqua, la terra, il fuoco), la ricerca ossessiva dell’interiorità, il rapporto labile con la malattia, il ricordo che si trasforma in lirica biografica. «La mia non è letteratura, è vita» aveva scritto nel 1943. Ed è forse anche per questo che con la critica letteraria Mario Tobino non ha mai avuto un rapporto facile e benevolo.

Due romanzi almeno di Tobino fanno parte della migliore scelta delle sue opere: nel ’53 Le libere donne di Magliano (le sue malate appunto) e nel ’56 quello che forse è il suo capolavoro La brace dei Biassoli. Nel ’62 con Il Clandestino (dedicato alla Resistenza) vinse il Premio Strega presentato da me e, se ricordo bene, da Carlo Bo. Per lo Strega fu festa e Tobino reagiva con gioia e con confidenza insieme agli amici. Fu il periodo in cui lo vidi più spesso. Credo che fosse egualmente legato alla letteratura e alla medicina. Aveva antipatie grandi e ammirazioni. Non ho mai capito perché fosse per un lungo periodo così polemico nei confronti di Enrico Pea (Pea nato a Serravezza in Versilia, Tobino a Lucca). Ma un ricordo devo inserire in queste brevi note. Esisteva a Montalcino (zona regina del Brunello) un premio indetto dalla Contessa Francesca Colombini che amministrava una grande proprietà agricola per la produzione di molto Brunello: si davano come premi non danari ma bottiglie in quantità. Un anno chiedemmo a Tobino di accettare questo premio e Tobino venne, sobrio, gentile, modesto. Era certo felice anche - lui grande estimatore del vino e grande bevitore - di essere nella zona di Montalcino-Montepulciano che per i vini è veramente un regno. La cena organizzata da Donna Francesca era squisita ed elegante: Tobino parlava e si infervorava e… beveva. Le bottiglie si succedevano ma la sua zona a tavola doveva essere rifornita di continuo: «Oste della malora! Dammi vino!» diceva, e batteva i pugni sul tavolo. E se quelle vigne erano le regine del vino, sicuramente quella sera Tobino ne fu il re!


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oltissimi non lo sanno, e lo troveranno inverosimile: Ivano Fossati ricorda alla perfezione tutte le sue musiche, e chissà quante di quelle degli altri autori che ama, ma non i suoi testi. Le parole è bravo a trovarle quando viene il momento, ma non a memorizzarle. Le scrive, le incide, le lascia andare via. Sono emerse da chissà dove, rifluiscono da dove sono venute. Come immagini di un viaggio che continua e che spinge altrove. Come ricordi di territori che si sono già attraversati e in cui non c’è motivo di fermarsi più a lungo. Men che meno per sempre. Fossati pensa a se stesso e vede innanzitutto un musicista. Vede il ragazzino che è stato – quello che si incantava ad ascoltare la musica altrui e, forse, temeva che si trattasse di un mondo talmente pieno di magia e di segreti da restargli inaccessibile – e l’unica cosa che sa con certezza, al di là di qualsiasi soddisfazione che possa provare e di qualsiasi complimento che possa ricevere, è che c’è ancora tantissimo da imparare, da esplorare, da raggiungere. «Penso che per fare buona musica si debba soprattutto studiare, studiare e non soltanto mettersi al pianoforte, come dietro qualsiasi altro strumento, per scrivere una canzone. Ma sedersi davanti alla tastiera tante volte, tutte le volte che si può. Certo, dipende dalle giornate, ma anche fare le scale in tutte le tonalità aiuta».

musica Qui accanto e sotto, due immagini di Ivano Fossati. È appena uscito il suo nuovo cd «Musica moderna», mentre sta per partire una lunga tournée che lo porterà in tutte le grandi città italiane

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Lavoro assiduo, attento, disciplinato. Di stampo artigianale. Lontano dal mito, o dal luogo comune, dell’artista tutto genio e sregolatezza che compone di getto, illuminato dalla grazia, sia pure intermittente, di un’ispirazione che esplode di colpo e porta dritta allo scopo. Al lavoro finito. All’opera d’arte che si farà ammirare, o invidiare, per la sua qualità superiore e la sua enigmatica riuscita. Giorgio Gaber, affettuosamente, definiva Fossati «il complicatore». E in effetti, nel suo lavoro, non c’è nulla che dia l’impressione di essere nato in fretta, di essere venuto alla luce bell’e pronto per la pubblicazione. Un grosso pregio, per chi apprezza la densità. Un difetto pressoché insormontabile per chi pretende l’immediatezza, ritenendola l’obiettivo fondamentale di ogni forma di comunicazione e scambiandola, stupidamente, con la “prova provata”della chiarezza di idee e della capacità di esprimerle. Fossati se ne infischia, e fa bene. Forte del seguito che si è conquistato negli anni, e del fatto

Cantautori. «Musica moderna», nuovo cd dell’artista

La poesia quotidiana di Ivano Fossati di Federico Zamboni che dall’ormai lontanissimo 1983 è l’editore di se stesso, modella i suoi album con l’indipendenza e il rigore di chi non pensa alla quantità dei possibili ascoltatori ma alla loro qualità. Perché un nuovo album non è la stessa cosa di un nuovo prodotto, che si pianifica e si realizza nel tentativo di conquistare nuove fette di mercato. Un nuovo album è un ulteriore capitolo di una storia che pro-

per così dire, Ivano Fossati dava l’idea di traslocare spesso, cambiando insieme alla casa buona parte del mobilio. Ora, questo lunghissimo “ora” che si perpetua da una ventina d’anni, sembra invece che abbia trovato la sua dimora definitiva e che, per quante modifiche possa apportare, non vi saranno mai più cambiamenti (ripensamenti) sostanziali. Musica moderna, così, è un’al-

dittorie, sconosciute, quasi insondabili. «Che vita è questa, che vita è stata / Mai più saggezza, mai più / Se c’è un rimedio io corro da te / Senza una mano che mi sfiori io corro da te». Il potere, invece, non migliora nessuno. Il potere politico e quello economico (ammesso che oggi li si possa ancora distinguere e separare) non incentivano alla conoscenza interiore ma al know-how. Non all’empatia ma alla strumentalizzazione. A una sorta di marketing permanente: ti osservo per manipolarti, non per comprenderti. Ti vendo quello che mi conviene, non quello che ti servirebbe davvero.

«Per strada ho visto l’angelo del bene / Il lavoro mi ripaga, mi ha detto / È un cretino di una multinazionale, a cui le cose vanno dritte / Vuole stare in cima, vuole viaggiare la vita su una limousine / (…) Se sei un uomo non dire bugie / Parla dritto agli orfani della Terra / La guerra dell’acqua è già cominciata, in qualche modo e da qualche parte / E poi tocca a noi, e poi tocca a noi». Fossati non ha né ideologie da applicare né partiti in cui identificarsi, ma sa ancora guardare al di là delle apparenze. Potrà anche darsi che non ci siano soluzioni preconfezionate, ma di sicuro ci sono problemi enormi e sottaciuti, di cui si parla poco e solo a sprazzi. Non si tratta di essere schierati a priori: si tratta di vivere a occhi aperti e senza lasciarsi distrarre dall’incessante girandola dei media. Cercando di avere la stessa intelligenza, e lo stesso desiderio di lealtà, di armonia, di bellezza, sia per la sfera privata che per quella pubblica. Fossati ci prova da tanto tempo. Spesso ci riesce.

Giorgio Gaber lo definiva con affetto “il complicatore”. Anche in questo nuovo lavoro non c’è nulla che possa sembrare fatto in fretta: tutto diventa canzone dopo lunghi ripensamenti segue. Un aggiornamento su quello che è successo all’autore nel frattempo, nel tempo trascorso dal disco precedente.

“Musica moderna” arriva a un paio d’anni da L’arcangelo. E a venti, esatti, da quell’indimenticabile La pianta del tè che aprì la stagione della maturità artistica, dopo una lunga serie di dischi sempre coraggiosi, e orgogliosi, ma non sempre riusciti. Fossati l’ha dovuto cercare a lungo, il punto di equilibrio tra le sue tante curiosità. Il punto in cui lo stile si consolida senza cristallizzarsi. La base comune che permette sempre un altro sviluppo ma che non contrappone mai il nuovo al vecchio. Un tempo,

tra ala dello stesso edificio. Può cambiare qualche effetto di luce, ma il paesaggio resta il medesimo. Soprattutto, restano inalterate le distanze dalle altre cose del mondo. Da ciò che è vicino – come l’amore, come il bisogno d’amore – e da ciò che è lontano, come il potere politico ed economico. L’amore può condurre a essere migliori, ma solo se parte da un atto di sincerità verso se stessi, prima ancora che verso gli altri. Se ami quella determinata persona, specie se nel rapporto non c’è solo gioia ma anche, o soprattutto, sofferenza, dovresti capire che nessun legame è casuale. Incontri chi devi incontrare. Ti avvicini, e ti allontani, per ragioni precise, benché contrad-


polemiche

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Amarezze. Quasi un simulacro di se stesso, dà piuttosto l’impressione di essere divenuto un non-luogo inconsistente

Nel Palazzo non c’è più politica di Gennaro Malgieri

segue dalla prima È pur vero che vi si continuano a celebrare riti come in un tempio sconsacrato, ma non producono effetti. La distanza con la sua funzione è incolmabile. Certo, vi si aggirano soggetti che a diverso titolo lo frequentano, ma nessuno vi coglie la vocazione per la quale nell’immaginario della gente è assurto a dimensione quasi metafisica. Ormai stancamente ci si trascina su pavimenti logorati, inutilmente tirati a lucido. E chi, tra le sue mura, cercasse frammenti di politica perderebbe il proprio tempo.

Forse la politica è altrove;

antiche e nuove povertà, di saperi e di intelligenze artificiali, di ricerca di fonti energetiche alternative e di preservazione dell’ambiente combinato con lo sviluppo, di decrescita e di avidità (ancor prima della catastrofe finanziaria). In qualsiasi Palazzo sono i linguaggi nuovi che risuonano e richiamano alla realtà governanti e popoli, perfino i più disperati, quelli verso i quali dovremmo esportare la “nostra” democrazia, senza neppure chiederci se la vogliono. Da noi, invece, evoluti democratici, ci si incanaglisce da mesi, sull’elezione un “vi-

legge del più forte. Non ci sono nuovi Cesari all’orizzonte; non s’intravedono nuove èlites; non c’è neppure un’organizzazione del consenso tale da farci sperare in un futuro non tanto lontano in una compiuta partecipazione democratica alla gestione della cosa pubblica. L’assenza o il vuoto, ci avvolgono come in una crisalide. È vero, restano le oligarchie, ma sono nude. Tendono a perpetuare se stesse, ma sono pur sempre terminali di poteri forti. E quando i poteri forti scompaiono o sbiadiscono, come in

eletti; di quelle che ci raccontano (quando ce lo raccontano) dell’espulsione del dibattito e della discussione tra e nelle famiglie politiche poiché i partiti sono stati azzerati e quelli che sono nati o stanno per nascere non sono partiti, ma aggregazioni occasionali, cartelli elettorali, listoni destinati a durare brevi stagioni; di altre ancora che ci raccontano che le istituzioni sono salde, ma della libertà, della dignità, della privacy dei cittadini non sembra importare molto a nessuno degli inquilini del Palazzo quando non è in discussione la loro libertà, la loro dignità, la loro privacy.

All’orizzonte non ci sono nuovi Cesari;non s’intravedono nuove élites; non c’è neppure un’organizzazione del consenso tale da farci sperare in un futuro non tanto lontano in una compiuta partecipazione democratica alla gestione della cosa pubblica

fuori dal Palazzo è probabile che qualcosa che le assomigli si riesca ancora a trovarla. Magari nei movimenti sociali, nelle aggregazioni collettive, nella spontaneità di gruppi di dissenso o di consenso, nei fenomeni post-moderni di ricerca pre-politica delle ragioni dello stare insieme e dell’agire, nella combinazione di forum mediatici sull’immensa piazza di internet, nella rete multiculturale e multimediatica che ormai ci possiede e nella quale, volenti o nolenti, finiamo tutti. Ovunque è possibile cercare e trovare la politica, ma non nel Palazzo. Almeno in Italia. Dappertutto nel mondo, infatti, si discute di e-democracy, di egovernment, di intervento diretto nelle decisioni da parte dei cittadini, delle opportunità e dei rischi della democrazia elettronica, del diritto di voto a distanza con l’ausilio delle nuove tecnologie. E ancora: di sovranità culturali, religiose, alimentari, climatiche, etiche. E poi di

gilante”della Rai e sulla mancata elezione di un giudice costituzionale. Come contorno, il massimo della politicità è l’insulto, il baratto, la schizofrenia di chi pretende di essere l’ombelico del mondo senza accorgersi che il mondo gira da tutt’altra parte.

E ci si chiede, in questo stato, magari tornando da un viaggio in un deserto del vicino Oriente o da una capitale dell’avanzato Occidente, a che cosa serve, se ancora serve, la politica. Interrogativo che provoca qualche angoscia ritenendo che se non è la politica lo strumento con il quale si costruiscono e si mantengono le società, siamo votati all’anarchia, alla brutalità dei poteri diversi che configgono tra di essi senza regole, all’imposizione della

questi tragici giorni in cui i veleni dell’avidità li stanno uccidendo, che cosa resta delle oligarchie stesse?

Il quadro meriterebbe il pennello di un David capace di rendere la fine di un mondo, come la morte di Danton, attraverso colori lividi e torbide rappresentazioni, ma la nostra epoca è priva di chi dello smarrimento spirituale e del furore intellettuale è capace di farne i veicoli della drammatizzazione del disagio. Ed allora accontentiamoci delle cronache che ci raccontano di un Palazzo dal quale il respiro affannoso della politica si esprime nel negare ai cittadini la possibilità di scegliersi i propri rappresentanti in Italia o in Europa perché così gli oligarchi possono comprimere la volontà degli

Se nel Palazzo non si fa politica, se cioè le idee, le tesi non si confrontano, se tutto viene coperto dalla “necessità” e dall’“urgenza” nel varare disposizioni pur importantissime, a che cosa serve il Palazzo? Se lo stanno chiedendo in molti. Nella maggioranza e nell’opposizione. Ma a nessuno viene in mente che una democrazia decidente è possibile, senza umiliare il diritto all’espressione e senza limitare il dovere di assumere orientamenti? Forse la domanda è impertinente perché tutto questo implica che si ragioni su come fare per ottenere il miglior risultato nel contesto dato al fine di poter avvicinare i cittadini alle scelte che si compiono nelle istituzioni pubbliche e rappresentative, perché li si faccia partecipi del loro destino. Significa, in altri termini, tornare alla politica. Nel Palazzo possibilmente. Prima che crolli del tutto.


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televisione

Fiction. Dal 26 ottobre su Raiuno la vita del grande astrofisico

L’ingegnere dell’universo Liliana Cavani porta in tv Albert Einstein «Racconto l’uomo, non le sue teorie» di Francesca Parisella l’autunno del 1948 quando, in una piccola città del New Jersey, Albert Einstein rincontra la prima moglie Mileva Maric. Un incontro quasi casuale che, dopo sedici anni, porta lo scienziato della relatività generale a ripercorrere le tappe della sua vita. Un tuffo nel passato, così inizia la miniserie in due puntate Einstein, diretta dalla regista Liliana Cavani e prodotta da Ciao Ragazzi e Rai Fiction. Quindici settimane di preparazione e nove di riprese per realizzare la fiction su uno degli scienziati più conosciuti e discussi, che andrà in onda, in prima serata su Raiuno, domenica 26 e lunedì 27 ottobre. Nata da un’i-

È

dea della stessa regista, che ha collaborato anche alla stesura della sceneggiatura insieme a Massimo de Rita e Mario Falcone, questo lavoro è stato in corso d’opera soggetto a continue evoluzioni e cambiamenti.

«I mutamenti ci sono stati ogni volta che girando una nuova scena notavo un calo drammaturgico», ci racconta Liliana Cavani, la nota regista cinematografica prestata per l’occasione alla fiction dopo lo strepitoso successo di pubblico ottenuto con la miniserie televisiva Alcide de Gasperi. «In questo progetto racconto uno scienziato, ma anche la persona». Infatti la fiction Einstein,

oltre a trattare dello scienziato tedesco e dei suoi importanti studi, è un ritratto per indagare e portare alla luce aspetti meno conosciuti di quest’uomo il cui nome nella cultura popolare è diventato sinonimo di intelligenza e di grande genio, «un uomo che è stato molto importante anche in ambito civile. In molti non ricordano che fu il primo pacifista, l’inventore dei sit in, proprio in occasione della protesta contro la prima guerra mondiale; tanti aspetti che lo hanno reso importante non soltanto dal punto di vista scientifico», ci tiene a precisare Liliana Cavani.

«Albert Einstein è un personaggio noto a tutti, ma che in molti non conoscono veramente, tranne gli addetti ai lavori» sottolinea la regista autrice di ritratti memorabili tra cui quello di San Francesco. Dalle biografie consultate sullo scienziato tedesco, Nobel per la Fisica nel 1921, la Cavani ha scoperto «un personaggio stimolante e interessante, un uomo che condizionò la prima metà del 1900». Anni difficili, segnati da due conflitti mondiali, anni cupi in cui la figura di Einstein risplende, perché «ci sono rare persone come lui. Infatti Einstein è un personaggio a sorpresa che in realtà non è mai stato raccontato abbastanza», aggiunge Liliana Cavani.

Già applaudita in occasione del Fiction Fest - svoltosi a Roma lo scorso luglio - la minise-

rie Einstein ha anche una versione cinematografica destinata al mercato americano, russo e francese e forse non è un caso che a vestire i panni del più celebre fisico e mate-

Liliana Cavani: «Amato è capace di essere leggero e intelligente allo stesso tempo, una personalità piena di humor, l’attore ideale per impersonare Albert Einstein… Lo ricor-

Quindici settimane di preparazione e nove di riprese per raccontare il premio Nobel della fisica interpretato, nella miniserie, da Vincenzo Amato matico della storia della scienza sia Vincenzo Amato, un attore già conosciuto dal pubblico cinematografico esordì sul grande schermo nel 1997 con Once we were strangers di Emanuele Crialese - e che, con questa fiction, debutta ora anche sul piccolo schermo. Una scelta dettata dalla bravura e dalla capacità che Amato ha dimostrato nei suoi film - ricordiamo Nuovomondo di Emanuele Crialese e Il dolce e l’amaro di Andrea Porporati - come conferma anche

do sul set sempre allegro e di corsa, perché ogni mattina doveva trascorre molto tempo al trucco per passare dalle scene in cui raccontavamo Einstein giovane a quelle ambientate nel periodo della sua vecchiaia».

Che Einstein - lo scienziato che contribuì anche alla nascita della meccanica quantistica - fosse un personaggio complesso era prevedibile, infatti nella fiction «tutte le scene sono state difficili e impe-


televisione

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Le sue teorie risentono della ricerca contemporanea. Breve critica di un «greatest plagiaris»

Ma quale scienziato, il suo apporto fu...“relativo” di Emilio Spedicato lto nel piedestallo dei grandi della scienza, giudicato dal Time il più grande scienziato del ’900 (ma il Financial Time propose Von Neumann), sta Albert Einstein, simbolo anche del pacifismo e dell’amore per l’umanità. Ebbene questi valori sono ora assai traballanti. Partiamo dai due ultimi. Nel dopoguerra Einstein partecipò a movimenti pacifisti, ma è certo che la lettera che scrisse a suo tempo a favore della costruzione della bomba atomica ebbe il suo peso: due bombe atomiche sul Giappone, di cui curiosamente una su Nagasaki, dove viveva almeno il 90% dei cattolici giapponesi, e non esistevano obiettivi di interesse militare. Strane decisioni, come quelle relative ai bombardamenti su Milano, concentrati su case civili, scuole, chiese, musei, teatro della Scala, e mai sulle fabbriche di armi, come Breda o Falk…

A

gnative, perché Einstein è un personaggio molto particolare. Una delle difficoltà era rendere semplice e comprensibile al pubblico il racconto delle sue scoperte fondamentali», scoperte che cambiarono il mondo e, come nel caso di Hiroshima e Nagasaki, segnarono il destino di molti uomini.

A volte descritto come un visionario che credeva in ciò che cercava e sapeva superare la diffidenza della scienza con l’ironia, la fiction su Albert Einstein è un racconto di formazione e informazione per chi conosce poco la sua figura e tutte le vicende che si susseguirono in quegli anni. Un lavoro che potrebbe incuriosire qualcuno e portarlo a sapere di più, un lavoro che la regista spera «stimoli a vivere con curiosità, cercando di sfruttare l’occasione unica del nostro viaggio che è la vita».

A sinistra, il grande scienziato e premio Nobel per la Fisica, Albert Einstein. In alto, un’immagine della fiction a lui dedicata e interpretata dall’attore Vincenzo Amato, in onda su Raiuno a partire dal prossimo 26 ottobre

Quanto poi al senso umanitario, è noto ma si tace, che Einstein e la prima moglie, una serba di grandi capacità matematiche, forse superiori alle sue, ebbero una bambina che rifiutarono di allevare (decisione di chi?); fu affidata a una famiglia di contadini e del suo destino mai più si interessarono. Atteggiamento che i più condannerebbero. E pensare che Odifreddi, invitato a Paderno Dugnano dove io vivo a parlare di Einstein, ha taciuto di questo fatto, prendendosela invece con Sant’Agostino, che non si sarebbe curato della madre e della moglie, affermazione falsa, perché con la madre del figlio, curatissimo, intelligente ma morto giovane, mai era stato sposato, e della propria madre si occupò forse sin troppo.Ma passiamo ora agli aspetti scientifici, notando che almeno una dozzina di libri e un centinaio di articoli hanno evidenziato come Einstein nello sviluppare le sue teorie, molte delle quali ora da gettare nel cestino della spazzatura della storia della scienza, abbia saccheggiato a piene mani da lavori di altri; Einstein, the greatest plagiarist, è il titolo di una recente monografia apparsa negli Stati Uniti. Elenchiamo i punti in discussione: - la relatività ristretta, essenzialmente contenuta in lavori di Poincaré, pare fosse la tesi di dottorato della moglie, presentata al Politecnico di Zurigo, ma non accettata. Curiosamente il lavoro depositato è scomparso, come avviene con le cartelle giudiziarie di molti processi di mafia. La moglie avrebbe concesso la paternità del lavoro ad Albert in cambio dei soldi del Nobel, che fu assegnato però per i risultati, non soggetti a discussione, sul moto browniano e sull’effetto fotoelettrico. Ma di estremo interesse è la nota relazione

energia=massa per velocità al quadrato della luce. La dimostrazione data non è rigorosa. Alcuni anni prima a Milano Olinto De Pretto, amico del padre di Einstein e attivo nel suo stesso settore, aveva ottenuto lo stesso risultato, con una dimostrazione corretta all’interno di una teoria che spiegava perché due masse si attirino. Teoria dove De Pretto aveva riscoperto quella di Eulero e Le Sage, a lui ignota, come fatto presente dal referee, il grande Schiaparelli, che ne autorizzò la pubblicazione, prima del lavoro di Einstein, sugli Atti del Reale Istituto Veneto etc. Ben difficilmente Albert poteva ignorare tale risultato. - relatività generale, la teoria utilizzante solo la gravità su cui due generazioni di fisici si sono bruciate nel vano tentativo di unificarla con le altre forze (ma quante sono le altre?). Ebbene nel citato libro su Einstein come grande plagiario si afferma che tale teoria è un rifacimento dei lavori di Hilbert, le cui capacità matematiche erano ai vertici della matematica del Novecento.

Diventato famoso per il Nobel e per le pretese rivoluzionarie conseguenze filosofiche delle sue teorie della relatività, Einstein ebbe a Princeton una cattedra con il solo impegno di pensare. Sposatosi in seconde nozze con una cugina cui non importavano le sue numerose scappatelle, non produsse quasi nulla, salvo l’importante lavoro sulla cosiddetta statistica di Bose-Einstein (e qui sarebbe interessante sapere quanto fosse a lui dovuto e quanto a Bose) e un lavoro con un coautore sperimentale, che aveva ottenuto dati confermanti una sua teoria. Ma nessuno riuscì a ritrovare i dati e il coautore confessò di esserseli inventati, peccato veniale, visto che è pratica normale degli sperimentali… ma mai Einstein ebbe a dire qualcosa. Intanto il mondo dei satelliti e delle telecomunicazioni va avanti con la relatività di Lorentz, non di Einstein (o signora). E la scoperta della superluminalità, dovuta in gran parte a Erasmo Recami, fisico italiano ben degno di un Nobel, nonché del fatto che Michelson e Morley usarono errate equazioni dell’ottica nell’analisi del loro esperimento (vedasi un recente clamoroso articolo negli Annali dell’Università di Kazan… Ma in fisica nove articoli su dieci non sono letti da nessuno), ha posto una pietra tombale sul mito dell’insuperabilità della velocità della luce. E apre alla possibilità di futuri veloci viaggi dalla Terra ai confini della galassia, o dalla galassia alla Terra, se altri pianeti sono abitati. Quindi, Albert Einstein, anche per te il destino delle statue che cadono dai piedistalli, come quella di Vladimir Ilich Lenin.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

La crisi cambia le abitudini a tavola.Che ne pensate? CORSI E RICORSI DELLA STORIA La storia dell’alimentazione può essere utile per avere una chiave di lettura dei profondi mutamenti sociali avvenuti in Italia. Il rapporto fra alimentazione e società ci appare del tutto intuitivo, infatti, attraverso l’analisi della prima si può ottenere una visione della seconda, poiché le abitudini alimentari possono essere rappresentative di una fascia sociale o territoriale ben determinata. Particolare attenzione va, inoltre, alle mutate tecniche di produzione agricola e di conservazione del cibo, alle influenze di altri stati sui nostri bisogni, e non ultimo al ruolo dei mass media, che tanta parte hanno nella diffusione di nuovi prodotti alimentari, che il più delle volte conservano la funzione nutritiva come elemento di contorno, tutti fattori che hanno un ruolo determinante in questi cambiamenti. A tutto questo si aggiunge la crisi finanziaria che oggi sta investendo tutti i mercati occidentali. Dopo l’entrata devastante dell’euro ora è arrivata la stagnazione economica e la crisi finanziaria. Tutto ciò, secondo me, non può che portare dei benefici all’individuo e alle economie locali, in quanto si ritorna ad un sistema alimentare, quindi una cucina, più locale. Dalla “global economy culinaria”, alla local economy della cucina con i vari vantaggi che essa comporta. Rivalutazione delle specialità e dell’e-

LA DOMANDA DI DOMANI

Clima, l’Italia lancia la sfida all’Unione europea. Siete d’accordo? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

conomia locali e meno spreco per la distribuzone delle merci. Meno traffico e meno intasamento nelle autostrade. Un ritorno alle tradizioni che porterà giovamento anche nelle famiglie, perché si mangerà sempre di più a casa.

Laura Sanpietri - Genova

ANCHE GLI AMERICANI NON SONO MESSI BENE Un articolo su Msnbc racconta come anche gli americani stiano cambiando le loro abitudini alimentari, mentre i prezzi al supermercato aumentano vertiginosamente. È finita l’era dello spreco: ci si pensa due volte prima di comprare tre dozzine di uova (che finiscono nella spazzatura) o 5 litri di latte. I bambini poi devono rinunciare alle merendine e alle bibite, ma quel che cambia radicalmente è il modo di mangiare. Addio alla tradizionale abitudine di consumare quasi tutti i pasti al ristorante, si cucina in casa: studenti e impiegati hanno rispolverato lo scaldavivande. Tutto questo potrebbe portare ad un’alimentazione più sana? Non è detto: molti rinunciano al droghiere e comprano prodotti scadenti al discount per risparmiare. Una famiglia media spende oggi oltre 900 dollari al mese per i generi alimentari. D’altronde, col grano triplicato di prezzo negli ultimi 10 mesi per via della produzione di biodiesel, lo scontrino non può che gonfiarsi. Molto indaffarate sono le mense pubbliche e i banchi alimentari, che distribuiscono cibo ai bisognosi. America’s Harvest, una delle più importanti organizzazioni, stima che la “clientela”è aumentata di ben il 20 per cento nei soli ultimi 4 mesi del 2007. Anche in Italia la crisi finanziaria ha provocato un cambiamento delle abitudini alimentari di quattro italiani su dieci (37 per cento) e si è così trasferita dalle borse alla tavola, facendo sentire i suoi primi effetti concreti sull’economia reale. Da uno studio si evidenzia che la crisi economica finanziaria fa più paura della guerra ma rimane comunque alta la preoccupazione per la contaminazione dei cibi per effetto dei recenti scandali alimentari come la melamina nel latte cinese e i formaggi contraffatti. Sono proprio la necessità di risparmio e il bisogno di sicurezza i fattori che spingono al cambiamento ma in negativo.

L’UDC È PRONTA PER IL CENTRODESTRA? La questione delle alleanze in Abruzzo tiene banco in queste ultime ore. Tra non poco, diverse importanti amministrazioni comunali entreranno nel caldo del clima pre-elettorale. Tra queste, nella prossima primavera, c’è la città di Bari viatico per la Presidenza regionale dell’anno dopo. La scelta delle alleanze è strategica ma non può essere sicuramente fatta esclusivamente in base ad un criterio di convenienza.Vi sono tutta una serie di variabili in gioco: c’è la base del partito, gi elettori, i dirigenti. Il leader Casini conosce bene l’agone politico e le possibili ferite che la soluzione del rebus delle alleanze potrebbe determinare. Una soluzione al quesito potrebbe rinvenire nella risposta alla seguente domanda che sorge provocariamente scontata: l’Udc è pronta per il centrodestra? La lunga e feconda esperienza dell’Udc in alleanza con il centrodestra si è conclusa, poco prima delle ultime elezioni politiche, non per scelta di Casini ma in ragione della scelta improvvisa di Berlusconi e Fini di sciogliere

ELEFANTI DEL DESERTO Guardate questi cactus, sono così giganteschi (arrivano fino a 13 metri di altezza) perché “bevono” tanto. I saguari, infatti, subito dopo le rare piogge - nel deserto del Sonora in Arizona - succhiano dal terreno, attraverso le potenti radici, 5 tonnellate di acqua

SUSSIDIARIETÀ E POLITICA Provate a digitare sussidiarietà e, sullo schermo del vostro pc, vedrete comparire una sottolineatura che evidenzia l’errore. Neanche i computer riconoscono questo termine come corretto. Figuriamoci l’umano buonsenso. Ciononostante questa espressione gergale è entrata nell’intercalare quotidiano dei nostri ministri. Indica l’affidamento ai privati di funzioni costituzionalmente spettanti allo stato. Leggi sicurezza, sanità ed istruzione. Servizi subappaltati a ronde di squadristi locali, cliniche politicamente lottizzate, diplomifici e scuole confessionali. Concessioni, più elargizioni pubbliche, in cambio di voti e, più spesso, di tangenti. Una partita di giro. Così il contribuente diventa cliente e non è più cittadino detentore di diritti. In tal modo pa-

dai circoli liberal Giovanni Tridezzi - Verona

i rispettivi partiti per formare l’indistinto contenitore denominato Popolo delle Libertà. L’Udc ha resistito all’ingiustificata ed inammissibile imposizione dello scioglimento, pagando un prezzo altissimo, per salvare un’identità ed una storia politico-culturale che ha contribuito decisamente allo sviluppo ed alla ricchezza del nostro Paese. In alleanza con l’Udc il governo di centrodestra sarebbe stato più forte ed equilibrato, rappresentando appieno i cittadini italiani e le varie componenti territoriali, in special modo del Mezzogiorno. Oggi l’Udc svolge a livello nazionale un’opposizione consapevole e costruttiva al Governo Berlusconi: ferma sulle questioni che attentano alla democrazia, ma aperta a tutti i provvedimenti condivisi per lo sviluppo del Paese. All’area di centrodestra l’Udc guarda, ovviamente, con molta attenzione in vista delle alleanze che impegnano i rispettivi schieramenti nelle prossime importanti tornate elettorali amministrative. Tutto ruota intorno ai progetti che si vorranno costruire perchè l’Udc è pronta per le alleanze, a

ga due volte. Dapprima - anche se non se ne avvale - attraverso la fiscalità ordinaria con la quale il governo sostiene gli erogatori dei servizi privatizzati. Un’altra volta, quando ne usufruisce. In un sistema liberista – dove si realizzi la libera iniziativa e si garantisca la corretta concorrenza - potrebbe anche starci. Ma così non è. Non da noi. Il culto dell’impresa da noi è solo una grande presa per... Abbiamo una classe politica che venera la managerialità e celebra l’imprenditoria. È da lì che proviene e non fa nulla per nasconderlo. Anzi, dice di essere in prestito alla politica, solo per adempiere ad una missione. Ma chi sono i suoi idoli? Manager che falliscono con destrezza ed impunità in cambio di ingiustificate retribuzioni e scandalose liquidazioni.

Gianfranco Pignatelli - Novara

patto che si discuta innanzitutto dei programmi e dei problemi da risolvere nelle differenti realtà locali che si vorrà andare insieme a governare. A patto, per intenderci, che non si riparli di scioglimenti e, conseguenti, annessioni ! Su questo piano di discussione l’Udc è pronta per il Pdl ma c’è un’altra domanda a cui è più difficile trovare una risposta: il Pdl è pronta per questa Unione di Centro ! Ignazio Lagrotta COORDINATORE LIBERAL REGIONE PUGLIA

APPUNTAMENTI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 2008, ALLE ORE 11, PRESSO PALAZZO FERRAIOLI A ROMA Riunione Nazionale con i coordinatori regionali, provinciali e comunali dei Circoli liberal


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L’amore è una questione di punti di vista Vieni Sophie, in modo che possa tormentare il tuo cuore crudele ed essere a mia volta altrettanto spietato nei tuoi riguardi. Perché dovrei fartene grazia, dal momento che invece tu mi privi della ragione, dell’onore e della vita? Perché dovrei consentirti di trascorrere in pace quegli stessi giorni che a me tu rendi intollerabili? Ah, se tu mi avessi trafitto il cuore con una spada, invece che con quel dardo fatale che ora mi uccide, saresti stata molto meno ingiusta. Guarda com’ero e come sono ora; guarda come mi hai mortificato. Degnandoti di essere mia, mi avevi elevato al di sopra della condizione umana; da quando mi hai cacciato via, sono diventato il più piccolo degli uomini. Oh Sophie! Dopo tutti quei dolci momenti, è terribile il pensiero di una rinuncia totale per colui che soffre profondamente di non poter essere tutt’uno con te. Quale cuore, quale dio può resisterti dopo averti conosciuto? Jean-Jacques Rousseau a Sophie d’Houdetot

SCUOLA E STUDENTI AL BIVIO Con sempre più frequenza si sente parlare di bullismo, di violenza fra i giovani, di ragazzi che dopo la discoteca concludono la serata con un incidente automobilistico, quando non è la loro vita concludersi lì. I giornali e i servizi giornalistici vari, riportano percentuali allarmanti sul consumo di droga e di alcol fra i giovani. Spesso mi chiedo se stiamo veramente facendo il possibile per evitare che i nostri ragazzi vadano a finire in un tunnel così pericoloso. Sono un’insegnante e non ho bisogno di leggere statistiche per sapere che molti studenti fanno uso di droga e non è neanche una novità, è da anni, decine di anni e anche più che la droga circola nelle scuole, anche se ora forse più massicciamente e fra studenti di età inferiore rispetto a prima. Ci si sente impotenti di fronte ad un fenomeno che viene sottovalutato e spesso ignorato. Ne parli con gli studenti e sembra che tu sia l’unica a non saperlo. Alcuni li vedi il lunedì mattina dormire sui banchi, oppure più distratti del solito, a volte euforici o con la testa chissà dove, stanno ancora smaltendo gli effetti di quanto assun-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

21 ottobre 1081 Battaglia di Durazzo: i Normanni di Roberto il Guiscardo sconfiggono l’esercito bizantino dell’imperatore Alessio I Comneno 1781 Il generale George Washington sconfigge definitivamente gli inglesi nella battaglia di Yorktown 1810 Viene fondata la Scuola Normale Superiore di Pisa 1867 Gli Stati Uniti prendono possesso dell’Alaska (Alaska Purchase) 1922 Viene fondata la Bbc 1968 Bob Beamon, con 8.90m, stabilisce il record del mondo di salto in lungo all’Olimpiade di Città del Messico. Diventerà il più duraturo record nella storia dell’atletica leggera, resistendo per ben 23 anni 1975 In Italia nasce ufficialmente il Fondo per l’Ambiente Italiano (Fai) 1989 Il leader della Repubblica Democratica Tedesca Erich Honecker si dimette 1663 nasce Eugenio di Savoia, generale sabaudo

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

to in discoteca la sera prima? Si sono fatti uno spinello prima di entrare a scuola? O sono andati a letto tardi? Qualsiasi tipo di insegnamento in una condizione del genere è destinato a fallire, non ci dovrebbe sorprendere se i nostri alunni fanno fatica a capire , se sembrano stupidi, o se a volte alcuni sono violenti ed hanno delle reazioni eccessive. Se il livello di preparazione dei nostri studenti si sta abbassando sempre di più, quanto si sta tenendo conto della variabile droga nell’analizzare i risultati della nostra istruzione? Per mia esperienza gli interventi che hanno realmente coinvolto i miei alunni, li hanno fatti riflettere ed hanno influito positivamente su di loro, sono stati quelli fatti da ragazzi che avevano vissuto in prima persona gli effetti negativi di queste sostanze, volontari dei centri di recupero Narconon per tossicodipendenti, che stanno portando avanti campagne informative in diverse città d’Italia. C’è un grosso business su alcol e droghe, ci sono campagne di marketing e false informazioni per allargare ed incrementare il mercato, chi sono i clienti o potenziali clienti? Non si può stare a guardare mentre il lupo mangia le pecore.

Margherita Pellegrino - Milano

PUNTURE Veltroni rompe con Di Pietro. Da Mani Pulite a Mani Libere.

Giancristiano Desiderio

Corri dietro alla fortuna, ma non correre troppo! Tutti cercano la fortuna che è alle spalle di chi corre BERTOLT BRECHT

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani,Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Roselina Salemi, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di VELTRONI E IL SIGNOR NESSUNO Walter Veltroni ha affermato che l’alleanza con Di Pietro è finita. In questi giorni i giornali commentano questa dichiarazione ma ciò che è stupefacente, ciò che suscita meraviglia ed anzi indignazione, è il fatto che ci sia voluto tanto tempo per riconoscere l’errore commesso accettando l’ex-pm nell’alleanza. E che come un grave errore apparisse sin dal primo momento, io l’ho scritto il 18 aprile 2008 in un articolo - dal titolo «L’errore del Pd» - comparso su un paio di blog . Ecco alcuni passaggi. «L’Idv è puramente e semplicemente il partito di Di Pietro e questo signore, oltre ad avere la caratteristica di apparire rozzo sia nell’espressione che nei programmi, dev’essere discutibile, come approccio umano, se la maggior parte di coloro che si sono messi con lui l’hanno presto abbandonato. È dunque un alleato pericoloso, sia per il suo prevedibile comportamento futuro, sia per l’immagine del Pd. Già oggi, a meno di una settimana dalle elezioni, Veltroni si trova a dover mettere pezze al mancato ingresso dell’Idv nel gruppo unico, contrariamente a quanto promesso. E c’è di peggio. Il Pd doveva sapere che, lasciando a Di Pietro il simbolo sulla scheda per effetto del “voto utile” ne avrebbe gonfiato la rappresentanza parlamentare. Mentre lo salvava dall’insignificanza, e forse dalla sparizione – chi è sicuro che da solo avrebbe raggiunto il 4 per cento? - ne aumentava il potere di tribuna e di ricatto. Un’estrema imprudenza. Per giunta senza apprezzabili vantaggi. Se il Pd si fosse presentato alle elezioni veramente da solo, come si è vantato di fare e come non ha

fatto, i suoi elettori avrebbero saputo che la scelta era secca: o Berlusconi o Veltroni. Il partito avrebbe forse perso qualche voto, ma non molti: forse che gli elettori di Di Pietro avrebbero votato per Berlusconi? Comunque, avrebbe mantenuto la coesione e l’unità d’azione. Invece, accettando l’Idv, ha permesso a molti elettori che non amavano né Berlusconi né il Pd di votare per l’Idv, rassicurandoli che così non avrebbero disperso i loro voti. In altri termini, il Pd ha “gonfiato” l’Idv non diversamente da come Berlusconi ha gonfiato la Lega, fino a farle avere il più grande successo. Ma mentre Bossi, da parecchi anni ormai, si è dimostrato un fedele alleato, Di Pietro è una mina vagante. Un uomo più interessato alle proprie ubbie e ai propri interessi che al programma della propria coalizione. Il Pd si è allevata la serpe in seno. Anzi, l’ha fatta crescere fino ad essere un grosso pitone: persino nel momento in cui si tratta soltanto di fare opposizione, l’ex-pm pretende già di essere il Ministro della Giustizia del Governo Ombra. E comunque il dominus della materia giudiziaria. La conclusione è mesta. Un liberale è lieto della nascita di un grande partito laburista e dell’avvento di un bipartitismo perfetto. Ma non può che essere triste all’idea che questo partito, nel momento della propria nascita, si procuri un inutile inquinamento interno. Rimane solo da sperare che se il Pd dovesse vincere, in futuro, vinca da solo. Possibile che ciò che fu chiaro a un nessuno a casa sua, in una regione lontanissima, non fosse chiaro a chi viveva a Roma, al centro della vita politica?

Gianni Pardo

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PAGINAVENTIQUATTRO L’ex First Lady “fiuta” la vittoria di Obama e torna a fare campagna elettorale per Barack

Adesso arriva anche Hillary,la... RABDOMANTE di Guglielmo Malagodi segnato di non essere troppo “overconfident” durante una campagna elettorale. «Ho imparato una buona lezione dalla mia amica (sic!) Hillary Clinton in New Hampshire - ha detto Obama qualche giorno fa - che non bisohna fidarsi troppo di quello che dicono i sondaggi, ma che invece bisogna continuare a battere sul tasto del cambiamento per convincere quanti più elettori possibile».

utti insieme, appassionatamente. Hillary Rodham Clinton e Barack H. Obama tornano ad abbracciarsi su un palco. Ed è la prima volta da giugno, quando l’ex First Lady pronunciò il suo endorsement a favore del senatore dell’Illinois durante un comizio organizzato, non a caso, nella cittadina di Unity (New Hampshire). Ieri Obama è volato in Florida per inaugurare il primo giorno di “early voting” nello stato che - nel novembre del 2000 - regalò a George W. Bush un’inaspettata vittoria nei confronti di Al Gore. «Potete votare oggi, martedì, mercoledì, giovedì - ha detto Obama ai suoi supporter della North Carolina - È importante che voi votiate il prima possibile». Poi in serata è volato verso Orlando (in Florida, appunto), dove ha incontrato la sua ex avversaria alle primarie democratiche per il primo comizio “congiunto” degli ultimi quattro mesi.

T

Anche per questo, Obama - stavolta in compagnia della signora Clinton - continua a fare campagna in stati e contee che nel 2004 hanno votato repubblicano. Per dipingere la massima parte possibile della mappa di “blu” e, contemporaneamente, mettersi al riparo da una difficile, ma non impossibile, rimonta da parte di John McCain. Mentre, però, la Speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, si dice «sicura al cento per cento» della vittoria di Obama in Virginia (e dunque, con certezza quasi matematica, delle elezioni), sul Washington Post, Howard Kurtz mette in guardia gli obamiani dagli eccessi di entusiasmo. «I sondaggi cambiano scrive Kurtz - come molti giornalisti hanno avuto modo di ricordarsi quando hanno sbagliato la loro previsione sulle primarie democratiche in New Hampshire, quando Hillary Clinton era data in grande vantaggio su Barack Obama». E, per la verità, un certo “movimento” a favore del candidato repubblicano nei sondaggi degli ultimi giorni(almeno quelli condotti a livello nazionale) è innegabile. Il distacco di Obama nei confronti di McCain, non più tardi di una settimana fa, secondo la media elaborata da RealClear Politics era superiore agli 8 punti percentuali. Ieri, era scesa al di sotto del 5 per cento. Obama, in ogni caso, conserva un vantaggio invidiabile nella mappa dei grandi elettori (quasi sempre viene stimato al di sopra dei 300, quando 270 sarebbero sufficienti), ma l’eccesso di ottimismo non è mai un buon viatico per la Casa Bianca. Ne sanno qualcosa i fan (soprattutto europei) di John Kerry.

Dopo l’endorsement di Colin Powell e il record (150 milioni di dollari) nella raccolta dei fondi, il candidato democratico sembra inarrestabile nella sua corsa verso la Casa Bianca. Anche se i sondaggi nazionali iniziano a scricchiolare Segno, sussurra più di un analista, che i democratici pensano ormai di avere vinto, se possono permettersi il “lusso” di sparare due cartucce così preziose in un colpo solo. E segno, forse, che dopo l’endorsement a favore di Obama reso pubblico in diretta televisiva dall’ex segretario di stato repubblicano, Colin Powell, e dopo i confortanti dati sulla raccolta di fondi (150 milioni di dollari in un solo mese), Hillary si è ormai “rassegnata” all’inevitabilità della presidenza Obama, mettendo da parte qualsiasi progetto di rivincita per il 2012. Progetto che passava, necessariamente, per la vittoria di McCain a novembre. Da ormai qualche settimana, del resto, Obama stava citando sempre più spesso Hillary durante i suoi discorsi, svelando alla gente che proprio l’ex First Lady gli aveva in-


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