ISSN 1827-8817 81104
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di e h c a n cro
ualunque cosa tu possa fare, o sognare di fare, incominciala. L'audacia ha in sé genio, potere e magia. Incomincia adesso.
9 771827 881004
Johann Wolfgang Goethe
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Kinshasa chiede i Caschi blu
L’inspiegabile “assoluzione d’ufficio” degli istituti di credito
Il Congo sul baratro Coprifuoco a Goma
È recessione: ma il crack lo paghiamo noi, non le banche
Sempre più grave la crisi in Congo dopo la rottura delle trattative tra il generale Nkunda e le autorità di Kinshasa che chiedono l’intervento dell’Onu: a Goma c’è il coprifuoco.
di Giancarlo Galli l premier Berlusconi ha assicurato che in caso di necessità lo Stato interverrà a sostegno delle banche in difficoltà con iniezioni di danaro fresco (obbligazioni garantite dal Tesoro) «senza punire i manager». Testuale. In questo modo, l’establishment finanziario può dormire fra due guanciali: a differenza di quel che sta accadendo un po’ovunque nel mondo, i nostri banchieri non corrono pericoli. Le loro poltrone sono salve! Mossa abilissima, ammettiamolo, sebbene non proprio gradita al superministro Giulio Tremonti, che avrebbe in animo di regolare qualche vecchio conto in sospeso. Ne riparleremo. Chiediamoci intanto chi pagherà il prezzo di una crisi, ormai da molti - Tremonti in primis, nonché dal Governatore Draghi - giudicata di gravità pari a quella degli anni Trenta.
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servizi a pagina 4 e 5
Occupazioni e denunce a Milano, Formigoni: «Ritirare il decreto Gelmini»
Ma il governo lo sa che l’Università è un disastro?
se g ue a p ag i na 9
di Luisa Ribolzi li studenti e i docenti che stanno scendendo in piazza per manifestare contro la legge di riforma dell’università, a parte le facezie sull’attacco politico finalizzato a «meglio proseguire nel processo di privatizzazione e stravolgimento delle istituzioni pubbliche» e alla «commercializzazione della cultura e la privatizzazione della scuola» (l’università è decotta peggio dell’Alitalia, e non se la compra nessuno, e la privatizzazione è talmente avanzata che nel Bilancio di previsione dello Stato lo stanziamento previsto per il 2009 per le scuole paritarie viene ridotto di oltre 133 milioni di euro, con ulteriori riduzioni nei due anni successivi), hanno buone ragioni per preoccuparsi. Dato che pochi citano i dati, e per lo più lo fanno a sproposito, ecco alcuni fatti di cui non pare si sia tenuto gran conto: a) l’università italiana è finanziata inadeguatamente rispetto ai parametri europei: la spesa pro capite in Italia per l’istruzione universitaria che include anche la spesa per R&D, è ben al di sotto della media europea (7723 dollari contro 10191, Europa a 9 paesi, dati 2005). Per contro, la spesa nella scuola primaria è di 7390 dollari pro capite, contro una media europea di 5788; b) l’università italiana funziona male: uno studente su quattro non sostiene neppure un esame nel primo anno di corso, meno della metà delle matricole si laurea, e di esse il 54,7% si laurea al di fuori dei tempi prestabiliti (“in corso”). Si tratta del valore più elevato in ambito OCSE, anche se si è ridotto in seguito all’introduzione del 3+2; c) l’università italiana è un paese per vecchi: il personale con 60 anni e oltre era nel 2005 ben il 26% (due volte superiore a Germania e Francia e Svezia, il triplo della Spagna e il quadruplo del Regno Unito).
Piloti verso lo sciopero Hostess verso la Cai
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SPECIALE Oggi l’America vota e finisce l’era Bush: è stata davvero una presidenza da dimenticare o la storia gli darà ragione?
Assemblea infuocata, ieri, a Fiumicino sulla nuova Alitalia: i piloti a un passo dallo sciopero generale. Le hostess, invece, lasciano il tavolo del no e vanno verso l’accordo con la Cai.
di Alessandro D’Amato a pagina 7
Ancora polemiche sull’immigrazione
Bossi-Fini, stavolta Epifani ha ragione
Bye bye C George articoli di: José María Aznar Daniel Pipes Gennaro Malgieri da pagina 12
se gu e a p ag in a 2
MARTEDÌ 4 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
211 •
WWW.LIBERAL.IT
di Giuliano Cazzola
osì dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (dal Libro dell’Esodo). Ma non sono motivazioni etico-religiose quelle che mi inducono a condividere la proposta di Gugliemo Epifani (si veda l’intervista a Sergio Rizzo sul Corriere della Sera di domenica scorsa). Il segretario della Cgil ha suggerito una sospensione temporanea della legge Bossi-Fini per i lavoratori stranieri che dovessero perdere il lavoro a causa della recessione in atto. Le dichiarazioni di Epifani sono state accolte negativamente da autorevoli esponenti della maggioranza, i quali – se non ho male interpretato le loro opinioni – hanno sottolineato in particolare i rischi che una maggiore tolleranza potrebbero determinare sulla sicurezza. s e gu e a pa gi n a 1 0
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Piazze. Blitz di Azione Universitaria al Politecnico di Milano. Partono le prime denunce promesse da Maroni
Separati in classe
La scuola divide la maggioranza: Gasparri se la prende con Calderoli. Formigoni: ci vuole un passo indietro. Veltroni e Casini sono d’accordo ROMA. L’onda non l’ha travolto, ma il Palazzo ha avvertito l’urto. Se fino a qualche giorno fa non c’erano tentennamenti nella maggioranza sulle misure da adottare per l’università, oggi qualcosa è cambiato. Migliaia di studenti in piazza, continue manifestazioni hanno aperto delle crepe, anche abbastanza vistose, nelle granitiche certezze del centrodestra che si è dichiarato disponibile al dialogo con l’opposizione. Niente decreto legge, ma disegno di legge: questo la linea adottata. Anche se il portavoce di Palazzo Chigi, Paolo Bonaiuti, si è affrettato a smentire le voci riportate da Repubblica secondo le quali Berlusconi avrebbe detto: ««Aspettiamo prima che si calmino le acque, inutile forzare la mano». «Il governo non ha nessuna intenzione - ha dichiarato Bonaiuti - di soprassedere ai provvedimenti sull’università annunciati nei giorni scorsi dal ministro Gelmini. Il premier «al contrario è convinto che l’università abbia bisogno di una seria e profonda riforma. Ad essa sta lavorando il governo, primo tra tutti il ministro, in continuo contatto con il presidente del Consiglio». Il vicecapogruppo del Pdl alla Camera, Italo Bocchino, ha annunciato lo slittamento dei tempi: «Il ministro Gelmini presenterà le linee guida della riforma che sarà discussa preventivamente con tutte le parti interessate e solo dopo saranno oggetto di uno o più disegni di legge».
di Franco Insardà
«una riforma universitaria coraggiosa e organica per recuperare competitività su scala internazionale. Una riforma va affrontata con il dialogo con il mondo universitario e l’opinione pubblica. Occorre uscire dal sistema dei fondi a pioggia, puntare sull’autonomia e cercare altre modalità per nuove risorse da destinare, con interventi regionali, agli studenti». Anche il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli si è detto disponibile ad aprire un confronto con l’opposizione chiedendo la collaborazione del segretario del Pd, Walter Veltroni, perché ha spiegato: «So di aver commesso un errore in passato, quando ho fatto di tutto per cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza». Il ministro ha aggiunto che il governo sulla scuola ha: «sicuramente sbagliato in termini di comunicazione. Nelle strade si sta protestando per cose che risalgono a luglio e agosto». Il ministro leghista si è detto «d’accordo con gli universitari quando chiedono più formazione e più ricerca».
Bonaiuti precisa: «Il premier non ha intenzione di soprassedere sui provvedimenti annunciati»
Segnali negativi contro la linea del decreto legge sono arrivati dal governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, all’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Milano. Cerimonia interrotta brevemente da un blitz di alcuni studenti di “Azione universitaria” poco prima che prendesse la parola il rettore Giulio Ballio. «Il mio - ha detto Formigoni - è un invito al ripensamento. Non ci devono essere tagli indistinti, bisogna distinguere le università inefficienti da quelle virtuose. Non si può tagliare nello stesso modo in università in cui ci sono sprechi e dove non ce ne sono. Così si rischia di premiare l’inefficienza e la diseconomia e non chi ha speso meglio». Per Formigoni serve
Che nella maggioranza non la pensino tutti allo stesso modo lo conferma il capogruppo al Senato del Pdl, Maurizio Gasparri: «Non sono d’accordo con Calderoli: non è possibile dialogare con chi mente. Non dobbiamo fare alcuna autocritica. Di fronte
alla mistificazione della sinistra è necessario confrontarsi, ma solo per ribadire la giustezza delle proprie posizioni». Sulla ricerca di fondi per l’università, Gasparri chiede tuttavia più generosità: «Dobbiamo capire che è cambiato tutto il quadro di riferimento europeo, occorrono politiche pubbliche più generose di fronte a regole nuove, pur sempre lottando contro gli sprechi e le inefficienze».
La protesta di questi giorni secondo il senatore Giuseppe Valditara: «Non ha influito sulla
versità. Su questo mi sembra che ci sia l’accordo di tutti: una volta avviato il risanamento bisogna far partire il rilancio». Dal canto suo il ministro Gelmini, ha ribadito la disponibilità al dialogo, ha aperto tavoli di confronto con studenti, docenti e mondo universitario, e ha lanciato l’appello ad abbassare i toni dello scontro, anche se rimane la necessità di interventi in sintonia con quanto disposto dalla legge 133 di conversione del decreto del 25 giugno a firma del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.
decisione di pensare a una legge condivisa anche con l’opposizione. Ne stiamo parlando da tempo e io stesso, qualche mese fa, avevo sollevato il problema. La 133, infatti, se per il 2009 prevede tagli di lieve entità, dal 2010, invece, riduce drasticamente le risorse. È vero si tratta di tagli virtuali, non operativi perché riguardano la Finanziaria prossima che si dovrebbe approvare a giugno e quindi abbiamo tutto il tempo per discutere con l’opposizione, visto che anche nel programma elettorale del Pd erano prevista una riforma per risanare l’uni-
Dagli studenti ai precari
Ec co per ché i nostri sono diventati ate nei dell a terza età di Luisa Ribolzi
Questa apertura, però, viene presa con una certa cautela da parte dell’opposizione. Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha detto chiaramente: «La riforma della scuola e dell’università è necessaria, ma non si può fare con i tagli. Il governo non faccia un decreto sull’università, perché acuirebbe una spaccatura nel Paese che non ha ragione di esistere. Questo è il momento dell’unità, della serietà, del lavoro comune». Il segretario del Pd, Walter Veltroni, detta la linea per riaprire il dialogo con la maggioranza. «Vedo che il governo manifesta sull’università una preoccupazione - ha detto Veltroni - e una attenzione nuova rispetto a quanto ha mostrato sinora. Ma questo sarà possibile solo a condizione che vengano sospesi e resi inefficaci i provvedimenti contenuti nella manovra finanziaria segue dalla prima
Invece, il personale con meno di 30 anni solo l’1% (a fronte del 12% del Regno Unito e del 15% della Svezia). L’età media è altissima, ed è ulteriormente aumentata dal 1998 al 2007 (da 58,5 a 59,2 per gli ordinari, da 51,9 a 52,4 per gli associati e da 51,5 a 51,9 per i ricercatori); d) l’università italiana sta per perdere i suoi docenti: in questo quadro di decrepitezza, tra il 2008 e il 2016 dovrebbero andare in pensione 14267 docenti, pari al 23.3% dei 61970 docenti in servizio. Il tutto, portando il totale dei docenti a circa 50.000, il dato del 1998, quando gli studenti erano circa 300 mila in meno. Se il turn over al 20% perdurasse, verrebbero sostituiti da circa 3.000 ricercatori. Se non si programma accuratamente questo processo, chi manderà avanti l’università assumendosi i compiti di governo, oltre che didattici? I ricercatori a 2800 euro lordi mensili? Le preoccupazioni dei ragazzi per una formazione di qualità mi sembrano
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4 novembre 2008 • pagina 3
Rettori e docenti: vogliamo il confronto ma su un progetto serio
«I tagli indiscriminati uccidono l’università» di Riccardo Paradisi l decreto legge sulla “riforma” dell’università slitta alla prossima settimana. E si trasforma in un disegno di legge sulla cui discussione il governo ora vuole coinvolgere studenti, docenti e ricercatori. “La lotta paga”, dice l’opposizione; “Questione di priorità”, replica la maggioranza: prima vengono i provvedimenti per fare fronte alla crisi economica poi gli interventi sull’università. Sia come sia, qualcosa nel governo è cambiato e non solo nel metodo – meno decisionismo più concertazione – anche nel merito il cambio di rotta è evidente.
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che impediscono, con tagli indiscriminati a scuola e università, ogni intervento necessario per il rilancio del nostro sistema formativo ed educativo».
Anche gli studenti non si fidano. Le minacce lanciate dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni, non sono bastate a fermare la protesta degli studenti milanesi. E così 4 giovani sono stati denunciati per aver organizzato un picchetto all’Istituto Magistrale Agnesi. Ieri sera Italo Bocchino, invece, è stato contestato a Tor Vergata mentre partecipa-
va a una lezione “sulla comunicazione politica” con Ermete Realacci del Pd e il rettore dell’Università, Alessandro Ferrara. «Non sono le contestazioni ha poi commentato il vicecapogruppo alla Camera del Pdl che aiutano il dialogo». Mentre i collettivi della Sapienza hanno annunciato che mercoledì prossimo, in occasione dell’assemblea nazionale dei delegati della Cgil a Roma: «Faremo volantinaggio e prenderemo la parola per chiedere uno sciopero generale di tutte le categorie». L’onda non si è ancora fermata.
francamente giustificate, mentre quelle dei precari sono collegate a mio avviso alla mancanza di chiarezza nella progettazione delle carriere: in tutta Europa i ricercatori sono figure a tempo, ma dopo uno o al massimo due rinnovi diventano professori, o escono dall’università: non ci restano sine die sperando in una pietosa sanatoria o in un concorso, la cui capacità innovativa è stata tale che in dieci anni l’età modale dei docenti italiani è passata da 51 a 60 anni! Se la condizione per migliorare è ridurre la spesa, questo deve avvenire a due condizioni: si deve tagliare dove le situazioni sono improduttive (il Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario, ora Civr, ha prodotto otto rapporti: conterranno pure alcune indicazioni!), si deve tagliare in base ad una serie di interventi coordinati in base ad un obiettivo e collegati al comportamento delle università,e non a spaio, e si deve reinvestire una quota rilevante dei soldi risparmiati.
In alto, un’immagine della protesta studentesca. A destra, dall’alto, Paolo Pombeni, Claudia Mancina e Angelo Panebianco. Nella pagina a fianco, Silvio Berlusconi
Nel prossimo disegno di legge si prefigurano novità importanti che dovrebbero riguardare il sistema di reclutamento dei professori – con l’ipotesi di tornare al vecchio concorsone nazionale al posto di quelli banditi dalle singole università – l’assetto organizzativo degli atenei, bilanciando la possibilità di aprire alle fondazioni private con qualche correzione che consenta di salvare il carattere pubblico delle facoltà – e un turn over più mite sui ricercatori da immettere nel sistema universitario. Un provvedimento, quest’ultimo, teso a riequilibrare la piramide rovesciata, per cui gli ordinari sono cresciuti più dei ricercatori creando un esercito di attempati generali. Sono solo ipotesi, indiscrezioni, che rimettono però in moto il dibattito e la riflessione interna all’università. A partire dalla questione dei tagli. «Quello dell’università italiana – dicono i rettori della Crui – è un sistema sottofinanziato. Però – aggiungono – non ha senso finanziarlo di più se non sotto forma di obiettivi che affrontino la situazione». Insomma, secondo l’associazione dei rettori italiani, il problema non sono i tagli in sè ma la strategia con cui vengono distribuiti. Sta di fatto che se i tagli previsti dalla legge Gelmini nel 2010 dovessero essere confermati non ci saranno i soldi – dice la Crui – per pagare gli stipendi. Mentre infatti i tagli per il 2009, che entreranno in vigore a gennaio, si limitano a 63 milioni di euro – cui vanno aggiunti 218 milioni di risparmi con il blocco del turn over – nel 2010 l’Università avrà 733 milioni di euro in meno. Un’escursione economica che potrebbe essere fatale per il sistema degli atenei. La partita in gioco è alta e la pausa di riflessione in corso potrebbe servire a trovare una piattaforma dove il conflitto tra gli attori che vi sono impegnati sia almeno meno acuto. A dire che si tratta di una pausa di riflessione “molto opportuna”è Claudia Mancina, docente alla Sapienza ed editorialista del Riformista: «Non è interesse di nessuno andare allo scontro frontale sull’università; anche se ora si tratta di capire in che senso vadano queste modifiche. Se si tratta comunque di ammorbidire il blocco del turn over mi sembrerebbe giusto farlo in modo differenziato. Favorire le università virtuose dal punto di vista della gestione economi-
ca e della serietà degli ordinamenti». Il cosiddetto rischio della privatizzazione delle università invece per Mancina è un falso problema: «Uno dei nodi di questo Paese, uno dei più seri, è che i finanziamenti privati alla ricerca praticamente non esistono. Magari ci fossero finanziamenti che aiutino le università senza disimpegnare politicamente ed economicamente lo Stato». Soprattutto però, denuncia Mancina, non s è ancora parlato della «necessità di legare i finanziamenti alla valutazione degli atenei». Tanto più che un’agenzia della valutazione esiste malgrado sia bloccata da anni. È la stessa esigenza che solleva anche Angelo Panebianco quando dice che il dialogo non dovrebbe riguardare “le università non virtuose” e non dovrebbe recedere dalle aperture alle fondazioni private. «Negli ultimi decenni l’università italiana s’è gonfiata di docenti, molti dei quali passati in ruolo ope legis. Ora lo Stato dice che non è più in grado di sostenere il loro onere. Può non piacere ma occorre prenderne atto. lo sapevamo tutti che il sistema universitario non avrebbe potuto continuare a marciare su questo binario all’infinito». Il ragionamento di Antonio Liberatore presidente dell’Uspur, il maggiore sindacato dei professori universitari italiani, è l’ammissione esplicita di una verità palmare che ammette come la festa per l’università sia finita. Sulla gradualità del giro di vite però, pure necessario, è bene discutere secondo Liberatore, ed è possibile trovare un compromesso onorevole: «Invece che sostituire un nuovo docente ogni cinque che vanno in pensione si potrebbe arrivare a immetterne tre. Un turn over più largo consentirebbe di non bloccare il ricambio generazionale». Sull’allarme dei rettori per la chiusura di molti atenei nel 2010 però Liberatore getta acqua sul fuoco: «È anche vero che tutte le sedi universitarie hanno un patrimonio edilizio, possono anche fare cassa con quello».
L’opinione di Angelo Panebianco, Claudia Mancina e Paolo Pombeni
Se Liberatore è ultra-realista Paolo Pombeni, ordinario di Storia dei sistemi politici all’Università di Bologna, è addirittura scettico sulla possibilità di riformare l’università italiana: «Un governo serio dovrebbe trovare centri d’eccellenza al di fuori dell’università, come in Francia dove si sono creati alcuni centri di alti studi e puntare su questi». Per quello che riguarda l’università l’esigenza invece è quella di fare una riforma che sia più discussa possibile e il più possibile razionale: «Gli studenti non hanno tutti torti quando dicono che è un taglio indiscriminato. Se si deve tagliare – e la necessità c’è, e deriva dalla gestione assurda dell’autonomia, con stipendi anche quintuplicati per dirigenti amministrativi e capi settore – sarebbe opportuno farlo con delle piante organiche sotto gli occhi, intervenendo caso per caso. Non alla cieca come si stava facendo».
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Congo. L’Onu invia aiuti umanitari a Rutshuru, ma i villaggi sono vuoti e i profughi già in fuga
L’inferno abbandonato Ue, Unione africana, Cina e Usa non decidono Kouchner chiede di armare i Caschi blu di Stranamore errà il precario cessate il fuoco proclamato unilateralmente dal generale ribelle Laurent Nkunda, le cui truppe hanno sbaragliato senza troppe difficoltà le forze regolari (si fa per dire) del governo congolese, le Fardc, arrivando in prossimità della capitale regionale Goma? L’Occidente e l’Onu lo sperano, perché l’alternativa è una catastrofe umanitaria e il rischio che torni a divampare quel conflitto panafricano che si sperava fosse stato definitivamente scongiurato con gli accordi di pace del 2003. I ministri degli Esteri di Francia e Gran in Bretagna queste ore stanno cercando una via diplomatica, attraverso incontri bilaterali tra Congo e Ruanda, mobilitando l’Unione Africana, chiedendo all’Onu di attivarsi. Ma se il governo di Kinshasa continuerà a rifiutare i colloqui diretti con Nkunda, le formazioni ribelli potrebbero addirittura tentare di rovesciare il governo di Joseph Kabila, nella consapevolezza che le pur consistenti falangi dell’Onu, che operano nel Paese da anni con la missione Monuc, hanno poche intenzioni e scarsa capacità di combattere per proteggere la popolazione civile. Lo ha ben compreso il francese Kouchner, proponendo nuove regole d’ingaggio per i peacekeeper Onu e affremando «che non è possibile avere soldati che non possono sparare e impediti a portare
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avanti missioni difensive». E questo mentre i civili continuano ad essere oggetto di angherie e violenze da parte di tutte le fazioni in lotta, compreso l’esercito congolese.
Come sempre in Africa, difficile stabilire chi abbia meno torto dell’altro. Nkunda sostiene di combattere per difendere la minoranza Tutsi dalle violenze delle bande armate Hutu dell’Fdlr, che in teoria dovrebbero già essere state smobilitate e disarmate da tempo, ma che al contrario continuano ad imperversare e sembrano go-
mentre i convogli umanitari che a fatica riescono a raggiungere i campi li trovano abbandonati. Non siamo ancora alle mattanze di cui fu protagonista il Ruanda, ma non fa poi molta differenza se in Congo muoiono centinaia di civili ogni giorno per fame. Quanto sta accadendo in Congo dovrebbe costringere la comunità internazionale a compiere un esame di coscienza collettivo: altro che esportare la democrazia, quando non si riesce neanche a fermare gruppi ribelli disorganizzati e male armati. E si che l’Onu con la Monuc è impegnata nella più imponente e costosa missione di pace. Una missione in teoria giunta alle attività di Fase 3 e 4, volte a consolidare il ritorno alla normalità, ma che invece deve fronteggiare nuovi combattimenti su vasta scala.
La missione Monuc ha 17mila uomini, dozzine di aerei, 60 elicotteri, un miliardo di dollari l’anno, ma regole d’ingaggio inadeguate dere di un certo appoggio da parte dell’Esercito, se non altro per ragioni di quieto vivere legato alla spartizione di territori e zone minerarie. Il governo di Kabila da parte sua accusa il Ruanda di appoggiare il generale ribelle e di avere mire annessionistiche sulla parte orientale del territorio congolese, che peraltro ha una connotazione multietnica. Come se non bastasse, si registrano anche le incursioni in Congo dei guerriglieri ugandesi dell’Lra. A fare le spese di questa violenza è la popolazione civile, con migliaia di derelitti costretti ad abbandonare la precarietà delle tendopoli che accolgono i profughi per cercare scampo, nutrendosi di erba e bacche,
Sulla carta gli uomini, i mezzi, i soldi non mancano. Monuc ha quasi 17mila soldati, oltre 700 osservatori militari, 300 poliziotti, vanta un bilancio superiore a 1 mld. di dollari all’anno, può disporre di un paio di dozzine di aerei da trasporto ed una sessantina di elicotteri, due dozzine dei quali armati. Ma in realtà non è in grado né di mantenere né di imporre la pace, malgrado si tratti di una missione ex Cap.VII della Carta della Nazioni Unite, con un mandato molto ampio. Il fatto è che Monuc è il solito puzzle di
contingenti militari di scarsa qualità, con il grosso formato dalle truppe inviate dall’India (4.400), Pachistan (3.500), Bangladesh (1.300), Uruguay (1.300) Nepal (1.000) Sud Africa (1.000), Marocco (800), con comandi inefficaci, non supportati e coordinati. Per di più solo 6mila soldati sono schierati nelle zone calde a nord e nord-est. Inoltre la precarietà delle vie di comunicazione, delle strade e ferrovie richiederebbe una disponibilità ben maggiore di aerei ed elicotteri. Monuc costa molto e serve a poco, come accade a tutte le forze Onu che non devono limitarsi al monitoraggio. Però l’Unione Africana di fatto è impotente, mentre il Sud Africa, che nel subsahara ha le truppe migliori, non è in grado di impegnare più di una forza a livello reggimentale.
Nessun Paese occidentale ha la minima intenzione di farsi coinvolgere in un conflitto in Congo, soltanto la Gran Bretagna ha ventilato la possibilità
di inviare soldati nel quadro di una missione Ue. Missione che pochi in Europa sono disponibili a sponsorizzare. Pur nella consapevolezza che l’impiego di qualche battaglione di parà o fanteria leggera di buon livello, con adeguato supporto aereo, di fuoco e logistico, potrebbe avere risultati straordinari, nel contesto locale. Basta ricordare quanto ha fatto la Francia per salvare il governo del Ciad dall’offensiva scatenata qualche mese fa dai ribelli partiti dal Sudan. Nel caso del Congo però nessuno si muove, al massimo si parla di rinforzare la Monuc. Ma quando e con quali forze per ora non è stato precisato. Difficilmente si tratterà delle “formidabili” e costosissime forze di intervento rapido, vanto della Ue, e che naturalmente non vengono attivate quando serve davvero, per sterilizzare una crisi alle sue prime battute, prima che si trasformi in conflitto aperto. Inutile, infine, appellarsi sugli Usa, che pure con la costituzione dell’Africom, il co-
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Il capo dei ribelli chiede al governo di negoziare. No di Kinshasa
Nkunda non molla Coprifuoco a Goma di Franz Gustincich i combatte solo sporadicamente, al momento, ma il ruolo del protagonista, nella guerra della Repubblica Democratica del Congo, lo stanno facendo la fame, la paura e il colera che imperversano tra i quasi due milioni di profughi dal Nord-Est, diecimila dei quali starebbero cercando rifugio in Uganda ed in Ruanda, secondo le stime dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi e rifugiati. Dallo Zambia si comunica che, sebbene l’area confinante con la RDC non sia interessata dalla crisi, i propri confini saranno aperti ai rifugiati. Il colonnello Laurent Nkunda, che guida i ribelli, mercoledì ha arrestato l’avanzata e ha tenuto domenica una conferenza stampa nella sua roccaforte di Kichanga, 80 chilometri a Nord Ovest di Goma. «Vogliamo negoziati diretti con il governo. Sto aspettando una risposta », ha detto il leader dei ribelli Tutsi, minacciando, in caso contrario, di «cacciarlo dal potere». Il governo di Kinshasa risponde attraverso il portavoce Lambert Mende, rifiutando i negoziati diretti con i ribelli di Laurent Nkunda. «Non ci sono» - ha detto - «piccoli e grandi gruppi armati. Creare un disastro umanitario non da’ diritti speciali nei confronti di altri gruppi che operano nel Nord Kivu... Il governo non vede alcuna ragione di discriminare altri gruppi di congolesi che hanno proposte da fare».
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stanziale responsabilità nell’iniziativa militare di Laurent Nkunda, sebbene la stampa ruandese indichi con chiarezza che proprio da quest’ultimo Paese stiano giungendo i maggiori sforzi diplomatici per convincere il colonnello a desistere dal proposito di occupare la città di Goma, abbandonata dall’esercito. Per venerdì è prevista una marcia di protesta davanti all’ambasciata del Ruanda a Bruxelles organizzata dagli espatriati, ma l’attenzione dei cittadini della RDC è rivolta anche alle Nazioni Unite e all’inefficienza della missione dei caschi blu Munoc. Più di un commentatore di Kinshasa ha chiesto se non sia il caso che la missione delle Nazione Unite venga allontanata dal Paese e sostituita con truppe di paesi amici, sottintendendo soprattutto quelli dell’Africa meridionale.
La dichiarazione di Nairobi del novembre 2007 e l’accordo di Goma del gennaio 2008, firmati dai presidenti di RDC e Ruanda, prevedono anche il disarmo delle milizie. Un organico piano di pace, infatti, non sarebbe necessario per spegnere la crisi: basterebbe far rispettare quelli già esistenti. A questo proposito l’Unione Africana, sta lavorando per portare al più presto allo stesso tavolo, Joseph Kabila e Paul Kagame. Le alternative ad una pace stabile e duratura, raggiunta in tempi brevi, sarebbero tutte devastanti: da un lato c’è il rischio della separazione della regione del Kivu del Nord, e ciò comporterebbe il riaccendersi del conflitto ciclicamente; dall’altro c’è un feroce scontro militare tra i guerriglieri e le deboli forze di un esercito di leva male equipaggiato e peggio addestrato che costa alle casse dello Stato, per questo conflitto, già sei milioni di euro al mese. In entrambi i casi sarebbe la catastrofe umanitaria, da aggiungere alle già martoriate regioni congolesi del Katanga e dei Grandi laghi.
l’Ua sta lavorando per portare al più presto allo stesso tavolo Joseph Kabila e Paul Kagame
mando per lo scacchiere africano, stanno segnalando una volontà di impegnarsi nel continente. Ma da qui a mandare truppe sul terreno ce ne passa. La Cina, che partecipa a Monuc con un piccolo contingente, non si muove e forse è meglio così, e del resto fino a quando le concessioni minerarie che ha ottenuto da Kinshasa non sono messe in discussione…perché scalmanarsi? Quindi, ancora una volta, quel che accade nelle foreste del centro Africa è solo materia per i soliti refrain a base di commozione & auspici. Questa è l’essenza della realpolitik.
Sono oltre un milione e mezzo i profughi in fuga dalla regione di Kivu (foto grande); i mezzi dell’Onu (a sin.) sono stati fatti passare nelle zone presidiate da Nkunda (foto piccola sotto la foto), ma hanno trovato vuoti i villaggi. A destra Joseph Kabila, presidente della Rep. dem. del Congo
Nkunda sostiene di aver fermato i suoi uomini alle porte di Goma, dopo aver visto le sofferenze della gente. Un cessate il fuoco unilaterale per motivi umanitari, insomma. Le sofferenze, tuttavia, non sembrano essersi arrestate insieme all’avanzata: le organizzazioni umanitarie presenti nella zona hanno denunciato che, sebbene le armi crepitino solo occasionalmente, sia i guerriglieri che i soldati regolari, oltre ad alcune bande di delinquenti, stanno saccheggiando la popolazione civile, costringendola ad incrementare il numero dei profughi. Al momento solo la Gran Bretagna ha ventilato l’ipotesi di inviare truppe a sostegno dei 17mila caschi blu e dell’esercito regolare (Fardc), per sventare la catastrofe umanitaria che potrebbe derivare da una tardiva soluzione della crisi. In Europa i 27 hanno deciso di non inviare truppe sotto la bandiera dell’Unione, ma di intensificare le iniziative diplomatiche. Fino ad ora, però, gli incontri diplomatici avvenuti tra Paesi europei e Kigali, capitale del Ruanda, a proposito della crisi, sono stati interpretati come prova della regia occulta del piccolo Paese confinante nell’azione militare dei ribelli. A Kinshasa, infatti, i mezzi d’informazione sembrano concordi nell’attribuire a Paul Kagame, presidente del Ruanda, una so-
Nei prossimi giorni, sulla base delle reazioni del colonnello Nkunda, si potrà redigere un vero piano di implementazione ai già siglati accordi di pace, ma non senza scavare nelle vere motivazioni della guerra, spacciata per etnica, e non senza smascherare i finanziatori di Nkunda, al di là di tutte le speculazioni e leggende che sono circolate in quest’ultima settimana. Fermare la guerra senza investigare a fondo, significherà soltanto preparare il terreno per il prossimo conflitto in RDC, che dalla sua indipendenza nel 1960, non ha mai vissuto periodi di pace abbastanza lunghi per sfruttare a vantaggio della collettività le enormi risorse che possiede, e che fino ad ora sono state privilegio di poche multinazionali.
politica
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Due pesi e due misure. Per le Provinciali di Trento quella dell’Udc fu esclusa per gli stessi vizi di forma
Abruzzo, riammesso il Pdl di Marco Palombi
ROMA. «Mi manda Piccone». Non è un remake del film di Nanny Loy ambientato nel settore edile, ma la battuta che ieri pomeriggio faceva sganasciare gli abruzzesi intenti a godersi lo psicodramma del Pdl alle prese con l’inammissibilità delle sue liste. Piccone, in particolare, di nome fa Filippo, è attualmente senatore del Pdl come prima lo era di Forza Italia e vanta nel suo curriculum anche la guida della sua città, Celano. Ebbene il nostro, in quell’appendice del Bar Sport che è la politica abruzzese, viene indicato come il principale responsabile del pastrocchio che ha rischiato di far escludere il favoritissimo centrodestra dalle elezioni regionali del 30 novembre. Qualcuno, tra un caffè e un amaro, addirittura sostiene che Piccone, tra i responsabili delle pratiche pre-elettorali, abbia incasinato di proposito i moduli per la presentazione delle liste. Motivo: voleva farlo lui il candidato presidente, ma Silvio Berlusconi gli ha preferito il più avvenente Gianni Chiodi («lui è più bello», gli avrebbe testualmente detto il Cavaliere). «E’ una grandissima cazzata – è la risposta di qualificati ambienti del Pdl – Ma se gli abbiamo messo nel listino bloccato il suo vicesindaco a Celano, Antonio Del Corvo! Lui sta a Roma, Del Corvo in Regione, per
Ma il candidato alla presidenza della Regione per La Destra, Teodoro Buontempo, ha subito promesso battaglia e annunciato un imminente ricorso al Tar i cinque anni di questa legislatura i cazzi suoi se li era sistemati alla grande…».
Ora i fatti: domenica l’ufficio elettorale della Corte d’appello - nelle persone dei giudici Pace, Grimaldi e Gargarella - aveva escluso con riserva dalla tornata elettorale tre liste, tra cui quella regionale di sostegno a Chiodi; questa esclusione decapitava di fatto anche le quattro liste provinciali collegate al candidato di Forza Italia cancellando l’intero Pdl dalla competizione. Le
In alto, il candidato alla presidenza dell’Abruzzo per La Destra, Teodoro Buontempo; a destra, quello per il Pdl Gianni Chiodi e, sopra, Filippo Piccone, senatore del Pdl e tra i responsabili delle pratiche pre-elettorali
irregolarità
contestate riguardano le firme di sostegno alle liste: secondo la legge ne servono 1.750, certificate da un soggetto autorizzato. Al Pdl in Abruzzo ne erano state riconosciute valide 1.680, mentre altre 267 erano state annullate, la maggior parte delle quali, circa 190, perché sui moduli è as-
sente, o non visibile, il timbro dell’ente di appartenenza del certificatore (ma c’è la firma e la qualifica), mentre in altre invece non c’è né il numero del documento del firmatario né l’indirizzo. Per Fabrizio Di Stefano, uno dei due coordinatori regionali del Pdl, senatore in quota An, «si tratta di un episodio deprecabile che sarebbe stato meglio evitare» ma «facilmente sanabile» attraverso una dichiarazione formale del certificatore: i magistrati dell’ufficio elettorale, che ieri hanno valutato i chiarimenti del Pdl, gli hanno dato ragione riammettendo la lista Chiodi.
La faccenda però non è finita. Teodoro Buontempo ad esempio, che è candidato alla presidenza per La Destra, ha annunciato un ricorso al Tar e sostenuto di essere in possesso di una sentenza del Consiglio di Stato che prescrive l’annullamento delle liste in caso di mancata apposizione dei timbri. Insomma, a mettere la parola fine su questa vicenda sarà probabilmente la giustizia amministrativa: esiste, pare, anche una ripresa della Rai in cui si vede un addetto del Pdl pregare in ginocchio (letteralmente) un funzionario della Corte d’appello di accettare le liste nonostante il termine ultimo di presentazione fosse scaduto da qualche minuto. Tra una carta bollata e l’altra, ammettono alcuni, si potrebbe anche arrivare ad un rinvio delle elezioni. Il precedente è recentissimo: le ultime provinciali di Trento da cui furono escluse, sempre per ragioni formali, le liste dell’Udc. Da segnalare infine la querelle intorno alla lista provinciale “Rialzati Abruzzo”, che raccoglie i Dc di centrode-
stra. Uno dei candidati, Stefano Vittorini, ha presentato un esposto contro la sua stessa lista perché a l’Aquila avrebbe sostituito, dopo la raccolta delle firme, un candidato con un altro (per la precisione Celso Cioni sarebbe stato cancellato a favore di Antonio Verini). «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente», sosteneva Mao, ma - mutatis mutandis - deve averlo pensato pure Antonio Di Pietro, che ieri si è infatti precipitato in Abruzzo per supportare Antonio Costantini, deputato Idv candidato dal centrosinistra alla presidenza, e già che c’era pure i giudici della Corte d’appello («sciacallo» gli hanno gridato i berluscones).
A Roma, invece, si dice che Berlusconi abbia perso il lume della ragione per la figuraccia rimediata nella regione di Gianni Letta, ma i parlamentari abruzzesi ostentano sicurezza: «Non ci possono escludere, succederebbe il finimondo» minimizza un deputato. Comunque nel Pdl, tormentato dalla brutta situazione e dalle parole di pu-
in breve L’ambasciatore tedesco si scusa con Napolitano L’ambasciatore tedesco a Roma, Micheal Steiner, ha definito «errato» l’articolo apparso sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung in cui l’autore criticava il discorso tenuto ad El Alamein dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il Capo dello Stato italiano aveva citato la sentenza della Cassazione per la quale la Germania dovrebbe un risarcimento per la strage nazista di Civitella di Arezzo del giugno 1944. «In Germania, come in Italia - ha dichiarato il diplomatico tedesco - vige il principio della libertà di stampa, ciononostante l’articolo è errato e completamente inadeguato nei confronti del Presidente Napolitano». Si apprende, intanto, che una lettera formale di scuse è stata inviata a Napolitano dal capo della diplomazia tedesca in Italia.
Alemanno: riuscito l’esperimento militari in città «Un esperimento riuscito che è servito a diminuire i reati nelle nostre città». Così il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in merito alla presenza dei militari in città prevista dal pacchetto sicurezza, al termine della presentazione in Campidoglio degli eventi che caratterizzeranno la giornata delle Forze Armate, cui era presente anche il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. «Ci sono risultati concreti dal punto di vista diretto, ha chiarito il sindaco, con arresti, fermi, reati sventati. Ci sono anche risultati indiretti, come l’aver permesso al personale delle forze dell’ordine di potersi dedicare all’attività di indagine e così aumentare il livello di sicurezza di tutti i cittadini».
Enrico Letta: con Casini rapporto strategico ro odio sibilate dal premier all’indirizzo dei responsabili, si tenta almeno di spegnere la “sindrome del Piccone”, sempre nel senso di Filippo. «Il problema – spiegano in coro gli abruzzesi di Roma – non è la guerriglia interna, che non esiste, il problema vero è proprio che non c’è stato dolo. Qua stiamo parlando di stupidità». Messa così, effettivamente, viene nostalgia del Piccone.
«Penso da sempre che sia strategico il rapporto con l’Udc e quindi dobbiamo continuare a costruirlo. Però il discorso sulle alleanze deve comunque venire dopo un grosso lavoro che noi, come Partito democratico, dobbiamo fare e stiamo facendo». Parola del ministro ombra del Welfare, Enrico Letta.
economia Alitalia. I piloti verso lo sciopero, i rappresentanti delle hostess lasciano il tavolo
Verso la Cai, in ordine sparso di Alessandro D’Amato
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in breve Statali, in 20.000 scendono in piazza Adesione oltre il 30 per cento e 20mila lavoratori in piazza. Sono le cifre sul primo dei tre scioperi ”regionali” indetto dalla Cgil che si è svolto ieri nel Centro Italia per manifestare contro la proposta di rinnovo dei contratti da parte del governo.
Grano, la crisi blocca la Sicilia Il crollo del 60% del prezzo del grano e l’aumento dei costi di produzione rischia di far lasciare incolti molti terreni siciliani. Lo denuncia il capogruppo Udc in Commissione Agricoltura alla Camera Giuseppe Ruvolo. «In molti campi - afferma Ruvolo - si rischia di rinunciare alla semina per gli irrisori guadagni che ne deriverebbero. È il caso di molti terreni della provincia di Enna e di gran parte della Sicilia».
Chiesto rinvio a giudizio per Stasi
ROMA. «Noi non abbiamo nessuna intenzione di riconoscere un interlocutore che fin da subito si è dimostrato inaffidabile. La Cai non ha né le capacità né la forza di investire per fare una compagnia di trasporto aereo». L’assemblea di piloti ed hostess dell’Alitalia non manda segnali positivi nella trattativa infinita che vede governo, confederali e imprenditori da una parte, il personale di volo dall’altra. Il fronte si spacca ufficialmente, con l’Anpav che lascia l’assemblea, ma le altre sigle non hanno alcuna intenzione di retrocedere. «Il contratto che Sabelli ha proposto è peggio di quello di Ryan Air, non prevede nemmeno la possibilità di passare le notti a casa per chi ha figli più piccoli di 8 anni. Questa è roba che nemmeno in Cile», dice un lavoratore ai microfoni di radio e tv prima dell’inizio. Il fronte, almeno per ora, sembra avercela soprattutto con Cgil, Cisl, Uil e Ugl: «I confederali vorremmo proprio capire cosa hanno firmato, visto che sembrava non vedessero l’ora di prendere la penna in mano. Epifani ci invita ad essere ragionevoli? Ma quanti iscritti ha la Cgil qui, ve lo siete chiesto? A noi risulta che quei pochi che tenevano hanno mollato dopo la firma di settembre», dicono ancora. E ne hanno anche per la Cisl: «Non ho ancora capito perché voi giornalisti ci avete trattato da terroristi quando abbiamo festeggiato il primo abbandono di Cai, ma non avete detto nulla quando Bonanni ha dichiarato di aver stappato lo champagne il giorno dell’abbandono del tavolo da parte di Air France. Almeno Spinetta metteva 2,5 miliardi nella compagnia e si accollava tutti i debiti. Questi qui non fanno nulla di tutto questo». La sala mensa di Alitalia è stracolma, piloti e assistenti di volo si sono portati anche i bambini. Ma i giornalisti non possono entrare: «Tanto
scrivete solo cazzate», dicono due hostess. Un rappresentante dell’Sdl spiega che il sindacato vuole tutelare qualche collega che potrebbe dire qualcosa di sbagliato. «Perché la situazione è drammatica per noi», aggiunge chi esce dalla sala gremita e off limits, dove partecipano 2mila lavoratori. Parla l’Sdl, poi l’Avia, poi Notaro dell’Unione Piloti: gli applausi si sentono fino in strada.
Il presidente dell’Anpac, Fabio Berti, arriva alle 15.40. Sui muri esterni ai locali appaiono cartelli con messaggi inequivocabili: “Cai contro la famiglia e contro le donne”,“Piano nano, Alitalia nanna”. Qua e là lo sfogo di alcuni lavoratori: «Le mamme lavoratrici con bambini sono penalizzate dalle decisioni di Cai di non riassorbire
aziendale non si toccava», spiega qualcuno a voce alta. Ma gli strali peggiori sono per Colaninno e soci: «Hanno detto che manderanno a casa il contratto da firmare ad ogni lavoratore? E come faranno, di grazia? C’è una legge sulla privacy che lo impedisce, loro sono una nuova azienda e non possono accedere ai database della vecchia». Poi arriva la spaccatura. Il presidente dell’Anpav, Massimo Muccioli, viene contestato e abbandona la sala, denunciando però di aver subito un vero e proprio “agguato”. «L’Anpav resta sul fronte del no, ma personalmente lascio questa assemblea perché mi è stato impossibile parlare e sono stato contestato solo per il fatto di aver firmato, a settembre, l’accordo con la Cai qualche ora prima dei miei colleghi sindacalisti», spiega Muccioli. Secondo il presidente dell’Anpav, che conta 580 iscritti degli assistenti di volo, «questa assemblea non è espressione reale della totalità della categoria o del pensiero dei lavoratori, ma è un’espressione pilotata. Ci riserviamo di decidere nelle prossime ore, in piena autonomia, se aderire o no al piano di salvataggio».
Giornalisti tenuti fuori dall’assemblea dei tecnici, impegnati più a scontrarsi che a cercare una soluzione concreta. Accuse a governo, Bonanni e Cai: vogliono solo sfruttare i lavoratori chi, con bambini piccoli, è esonerata da lavoro notturno - spiega Silvia, assistente di volo da 23 anni, due figli - La smentita di Cai? Io credo solo a quello che vedo scritto e che è stato firmato: le parole volano». Un comandante, da 20 anni in servizio in Alitalia, sottolinea che «da questa assemblea ci attendiamo una presa di posizione della base sul futuro dei lavoratori, nella speranza che ci sia una condivisione della maggioranza degli stessi: c’è stata una chiusura troppo forte da parte della Cai verso i lavoratori, una mancanza del rispetto degli accordi firmati a Palazzo Chigi; a questo punto anche la Cai deve fare un passo indietro». Qualche critica anche per gli autonomi: «All’indomani della rottura con Air France dovevano dire che la continuità
E non si contano le urla – “buffone, buffone”– al suo indirizzo, mentre il clima della riunione diventa fortemente acceso, con qualche battimano e molti fischi e urla nei confronti degli oratori. La Fit Cisl esprime solidarietà all’Anpav: «Impedire al presidente di parlare la dice lunga sul clima di faziosità intorno alla vertenza». Poi l’assemblea finisce e arriva la conferenza stampa di piloti e assistenti. Che ribadiscono il loro “no” alla Cai e iniziano a parlare di sciopero generale. Anche se il comitato è stato già formato: si prospettano tempi duri per chi subentrerà al ministero nella gestione dell’azienda.
La Procura di Vigevano ha chiesto di rinvio a giudizio nei confronti di Alberto Stasi, il giovane accusato dell’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, commesso il 13 agosto dell’anno scorso a Garlasco. Da quanto si è saputo la richiesta è stata firmata dal pm Rosa Muscio, titolare dell’inchiesta, dopo la scadenza dei 20 giorni dalla chiusura delle indagini e il deposito degli atti, come prevede il Codice di procedura penale.
Anche in Vaticano arriva il ”cartellino” Nei prossimi mesi verrà applicata nelle diverse strutture del Vaticano la nuova organizzazione delle classi di merito introdotta da una norma risalente a circa anno fa. È questo il più rilevante dei cambiamenti in atto nella vita amministrativa dei Sacri Palazzi, mentre riguardo all’uso del famoso ”cartellino” per registrare gli orari di ingresso e di uscita in Vaticano si fa notare che è già in uso in molte strutture e da diverso tempo. Non si parla invece di cartellino per gli uffici della Segreteria di Stato e in alcuni pontifici consigli, una sua introduzione riguarderebbe infine alcune delle maggiori Congregazioni.
economia
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Grande freddo. L’altalena delle Borse non influisce sui consumi. E l’Europa arriva impreparata all’appuntamento
Il generale inverno Saranno mesi di sofferenza energetica E il gas salverà Putin dalla crisi di Enrico Singer
Q
uando gli chiesi che cosa avrebbe potuto fare l’Europa per aiutare il cammino della democrazia nell’allora Unione Sovietica in pieno cambiamento, Andreij Sakharov mi rispose: «Liberarsi dalla dipendenza del gas e del petrolio di Mosca». Era l’aprile del 1989. Nelle prime elezioni a più candidati della storia dell’Urss, il 26 marzo, Sakharov era stato eletto deputato di quello che si chiamava ancora Congresso del Popolo. Il 14 dicembre dello stesso anno sarebbe morto lasciando un vuoto che ha pesato come un macigno sul futuro politico del suo Paese. Il padre della bomba atomica sovietica, il fisico premiato con il Nobel per la pace nel 1975 che aveva preso le distanze dal regime già nel ’68 col suo famoso saggio «Riflessioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà di pensiero» che circolava come samizdat, in quell’intervista parlava di molte altre cose. Soprattutto delle speranze nel tentativo riformatore di Mikhail Gorbaciov che, nel 1986, lo aveva fatto tornare a casa dall’esilio interno dove era stato spedito sei anni prima perché aveva pubblicamente preso posizione contro la guerra in Afghanistan. Ma, ricordata oggi, quella risposta è di assoluta attualità.
Ancora una volta Andreij Sakharov aveva visto lontano: finché con la Russia, ieri sovietica, adesso di Putin, si tratta con la paura di perdere i rifornimenti energetici è difficile battere i pugni sul tavolo. E la vicenda dell’intervento militare in Georgia di quest’estate lo ha dimostrato. Anche l’incontro Ue-Russia della scorsa settimana a San Pietroburgo ha confermato che l’Europa è ormai pronta a «superare la crisi», come ha detto il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, che rappresentava la presidenza di turno. Già entro questo mese riprenderanno i negoziati per arrivare a un nuovo accordo di pertenariato che Nicolas Sarkozy immagina addirittura come «un’unione economica Ue-Russia». Certo, Sarkozy ha precisato che, prima, è necessario che Mosca si
I dati ufficiali della Commissione europea
L’Italia è in recessione STRASBURGO. Per l’economia italiana il 2008 si chiuderà male e il 2009 potrebbe andare anche peggio. Questo in sintesi il giudizio della Commissione europea, che nelle sue «Previsioni d’autunno» diffuse ieri prevede per il nostro Paese «un’ulteriore perdita di competitività». Nella seconda metà del 2008 l’Italia «è entrata in una recessione tecnica» che le farà chiudere l’anno con una crescita zero. La stagnazione durerà anche nel 2009, mentre una leggera ripresa è prevista nel 2010 con un Pil allo 0,6%» ha spiegato la Commissione Ue. «Nonostante il livello di indebitamento relativamente basso del settore privato in Italia, esistono ri-
«avvicini ai valori europei di democrazia e di libertà» e il suo ministro degli Esteri ha spiegato che l’Europa aveva sospeso i colloqui perché voleva che la Russia realizzasse gli impegni presi sul ritiro delle sue truppe dalla Georgia: cosa che, nel complesso, Mosca ha fatto. Così come si è seduta al tavolo della trattativa di Ginevra sul futuro del Caucaso: «una trattativa che è cominciata male, ma è cominciata», per usare la formula di Bernard Koucner. Da parte europea, insomma, c’è una gran voglia di voltare pagina e di ricominciare. Ma perché proprio adesso? I russi lo sanno bene: il “generale inverno” li ha sempre aiutati. Quando le guerre si combattevano sul campo, è stato decisivo per battere prima le armate di Napoleone, poi, più di cento anni dopo, quelle tedesche e italiane.
Oggi, per fortuna, la guerra è a colpi di forniture di gas. Ma il “generale inverno” funziona sempre, perché è all’arrivo della stagione fredda che i consumi aumentano. E questa volta a Roma come a Berlino, anche se nessuno lo ammette apertamente, i timori di una crisi
schi di un impatto significativo della crisi finanziaria sull’economia reale». Inoltre, «il maggior rischio è legato alla fiducia dei consumatori» che dovrebbe rimanere «a livelli molto bassi o ancora peggiori». «L’accentuato rallentamento dell’economia italiana - conclude il documento - risale già alla metà del 2007, ben prima dell’impatto della crisi dei mercati sull’economia europea». La crescita è tornata col segno meno nel secondo trimestre del 2008, e «per la seconda metà dell’anno più indicatori, in particolare quelli sulla produzione industriale e sulla fiducia delle imprese, mostrano come il Paese sia entrato in una recessione tecnica».
energetica sono più forti perché c’è già la tempesta della crisi finanziaria che ha fragilizzato i sistemi economici innescando una stagnazione che, come ha detto lo stesso governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, durerà fino alla metà del 2009. I maggiori Paesi europei hanno di fronte almeno otto mesi molto duri e non potrebbero sopportare che alle fluttuazioni delle Borse si aggiungessero anche le fluttuazioni dei prezzi del gas. O, peggio, che i Paesi esportatori – Russia in testa – decidessero di
Qui accanto, da sinistra, il ministro per l’energia del Qatar Abdallah ben Mamad al-Attiah, il suo omologo iranaino Gholam Hossein Nozari e il presidente di Gazprom Alexei Miller
chiudere i rubinetti o di ridurre la produzione. L’andamento positivo dei prezzi del petrolio che, finalmente, sono tornati a scendere attorno ai 70 dollari al barile, non deve trarre in inganno. È vero che i prezzi del gas sono legati di fatto a quelli del greggio, ma proprio il 21 ottobre scorso, al termine di un summit a tre a Mosca – di cui poco si è parlato da noi – il presidente di Gazprom, Alexei Miller, ha dichiarato che «la fluttuazione dei prezzi del petrolio non mette in discussione la tesi fondamentale: l’era degli idrocarburi a basso costo è finita». Con Miller c’erano il ministro iraniano dell’Energia, Gholam Hossein Nozari, e il suo omologo del Qatar, Abdallah ben Hamad al-Attiah. Russia, Iran e Qatar da soli rappresentano il 64 per cento della produzione mondiale di gas e il vertice convocato a Mosca aveva una scopo ben preciso: gettare le basi di una “Opec del gas”. Dell’Opec del gas si parla
ormai da anni. In un intredccio di annunci e di smentite.
L’idea fu lanciata da Vladimir Putin, allora presidente russo, nel 2006, quando l’attuale capo del Cremlino, Dmitri Medvedev presiedeva proprio Gazprom. Ma è dal febbraio di quest’anno che le cose si sono messe in movimento più in fretta. Tanto che Putin ha preso contatto anche con gli altri produttori di oro blu. Compresa l’Algeria che è il quatro produttore di gas e grande fornitore dell’Italia. Un incontro tra Vladimir Putin e Abdelaziz Buteflika c’era già stato prima dell’incontro a tre e con Algeri la troika potrebbe diventare un quartetto. L’obiettivo, naturalmente, è quello di organizzare un cartello capace di fissare prezzi e livelli di produzione, proprio come fa l’Opec per il petrolio. E lo strumento sarebbe la trasformazione dell’attuale Gas Exporting Countries Forum (Gecf) che comprende tutti i 14 principali produttori di gas. Per il
economia
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Crisi. Le banche, le abitudini degli italiani e il costo del denaro
Non si uccide così anche il risparmio? di Giancarlo Galli segue dalla prima La risposta, che in alto loco si nasconde, è semplice: milioni di risparmiatori italiani dopo avere subito i danni di investimenti disastrosi patrocinati dalle banche (dai bond argentini e Parmalat ai Fondi sino alla debacle della Borsa) vengono defraudati della possibilità di vedere quanto meno portati sul banco degli imputati alcuni di quei personaggi che, al contrario, continuano a pontificare. Eppure, quest’idea strumentalmente “buonista”fa a pugni con la realtà. Coloro che stanno in plancia di comando delle banche, manifestano stupore e sgomento per le dimensioni di una crisi epocale definendola imprevista, imprevedibile. Sarà vero? Ma ciò non depone a favore della loro credibilità professionale; avendo clamorosamente sbagliato, come ritengono di conquistare quella fiducia che è, storicamente, il patrimonio più prezioso di un banchiere?
Il repentino abbassamento dei prezzi del petrolio in queste settimane non deve trarre in inganno: le economie europee continuano a rimanere appese alle forniture russe e algerine momento, il Gecf è poco più di un circolo di discussioni che non ha alcun potere di prendere decisioni operative. C’è da notare che proprio la Russia – che non fa parte nemmeno dell’Opec, nonostante sia il settimo produttore al mondo di petrolio – è stata a lungo contraria alla creazione dell’Opec del gas perché ha preferito tenere le mani libere sia per quanto riguarda il livello dei prezzi che quello della produzione. Ma adesso che l’Occidente, e in particolare l’Europa, sta tentando vie alternative di rifornimento anche con la costruzione di nuovi gasdotti, Mosca ha cambiato strategia.
Un cartello dei produttori – che sarebbe molto probabilmente egemonizzazto da Mosca – rafforzerebbe il controllo del Cremino sugli approvvigionamenti europei di gas. Del resto la lezione dell’Opec ha fatto scuola in Russia e non è un caso che il vicepremier, Igor Secin, ha proposto di sviluppare la cooperazione tra il Cremlino e l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. La decisione è emersa alla riunione dell’Opec che si è tenuta in mese scorso a Vienna alla quale era stata invitata anche la Russia. L’Opec del gas potrebbe nascere già il prossimo 18 novembre quando a Mosca si riunirà il Gecf. Anche se non tutti gli attuali 14 membri del Gas Expor-
ting Countries Forum vi parteciperanno. E se non sarà facile trovare l’accordo sulla sede della nuova organizzazione: sia la Russia che l’Iran e il Qatar hanno proposto le loro capitali, ma c’è che giura che alla fine si troverà un compromesso su una “città terza” (probabilmente in Svizzera) così come l’Opec ha sede a Vienna. Ma questi sono dettagli di un terremoto negli equilibri energetici che si annuncia molto forte. Per questo il ritorno della Ue alla realpolitik dopo il sussulto anti-russo dei giorni di fuoco della crisi del Caucaso non sorprende.
Come non sorprende la posizione morbida dell’Italia che teme il “generale inverno”più degli altri Paesi europei che – come la Germania, per non parlare della Francia – hanno nel nucleare fonti energetiche alternative consistenti. L’Italia, poi, ha anche un altro capitolo in gioco: il progetto comune Eni-Gazprom del gasdotto “South Stream” che potrebbe slittare dal 2012-2013 a oltre 2015 per la crisi nel Caucaso. La Russia sta cercando addirittura di cambiare la rotta sostituendo la Bulgaria con la Romania. La prospettiva della nascita del “cartello del gas” ha innervosito e fatto preoccupare ancora di più i Paesi importatori. Ma Putin va avanti e il consiglio di Abdreij Sakharov, per il momento, rimane inascoltato.
C’è dell’altro. Nelle ultime stagioni abbiamo assistito ad un top management che, con decisionismo autoreferenziale, si è assegnato bonus, stock options, benefits da capogiro. Sommando milionari stipendi ad altrettanto milionarie straordinarie ricompense per meriti rivelatesi millantati, poiché inesistenti. A pensar male, spesso ci si azzecca, ha sempre sostenuto Giulio Andreotti. Non sarà allora che alle avvisaglie del ciclone, molti banchieri si sono premurati di mettere in salvo i loro personali portafogli? Proseguiamo. Gran clamore per legare il “rilancio” dell’economia in panne al ribasso dei tassi d’interesse. Sulle orme della Federal Riserve Usa, la Bce li sta riducendo. D’un colpo, pur in presenza di un’inflazione che continua a viaggiare, prendendo per buone le cifre Istat, a ridosso del 4 per cento, i rendimenti di Bot e Cct sono scesi a poco più del 2 per cento. Una manna per il Tesoro, alle prese con un debito pubblico in costante ascesa. Una tegola su tantissime famiglie che, per arrivare a fine mese, fanno assegnamento sulla cedola. In non casuale concomitanza, con giri di parole, frasi buttate là, all’insegna del detto-non detto, le maggiori società quotate in Borsa si apprestano a mutilare i dividendi. Ulteriore mazzata su 5 milioni di famiglie che avevano ceduto alla diabolica suggestione: portare direttamente o indirettamente i propri risparmi in Borsa per partecipare “allo sviluppo”. Anticipo l’obiezione: anche i grandi azionisti ne patiranno. In qualche misura sì, ma viaggiano su altre rotte. Stando nei consigli d’amministrazione e lautamente gettonati, possono attendere tempi migliori. Che senza dubbio verranno, poiché la ciclicità della finanza è ormai un dogma. Da tre secoli in qua. Quindi evitiamo di mettere sulla stessa barca i “soliti noti”del potere con le
masse dei risparmiatori. Autentici cirenei, obbligati a cantare portando la croce.Torniamo al taglio dei tassi. Negli Usa all’1 per cento, in Europa ancora sopra il 3. Dovremmo spiegare come gli americani vivano principalmente di credito al consumo mentre in Europa, soprattutto in Italia, sussiste la parsimoniosa e nobile virtù del risparmio: ancora il 12 per cento del Pil. Riducendo all’osso la sua remunerazione, lo si vorrebbe dirottare sugli acquisti, nel tentativo di mettere in moto la macchina, inceppata, dell’iper-consumismo. Che la gente sia frastornata, impaurita è comprensibile, financo con la tentazione di nascondere un gruzzoletto (non si sa mai!) nel materasso. Chi ha generato questa sindrome dovrebbe tuttavia evitare di impartire lezioni. Il “Grande Crack del 2008”, annata che passerà alla Storia della Finanza, come sono ormai obbligati ad ammettere anche i soloni di Bruxelles, della Banca centrale europea (in proposito: non farebbero bene, dando buon esempio, a ridurre i loro faraonici costi?), sta mettendo in luce anche altre distorsioni del sistema creditizio italiano. Il pensiero va alle Fondazioni bancarie. Concepite nel 1990, attraverso la privatizzazione
Tra le misure prese in queste settimane per salvare gli istituti di credito, il più pericoloso è l’abbassamento dei tassi che, di fatto, azzera i guadagni degli investimenti familiari delle secolari e benemerite Casse di Risparmio, dovevano servire, coi loro patrimoni, a garantire il sostegno ad una moltitudine di iniziative sociali. Invece col trascorrere degli anni le Fondazioni sono divenute un pilastro parapolitico e talvolta clientelare del sistema bancario. Adesso, orbate di dividendi, ci si chiede in che modo riusciranno ad “elargire”. Eppure il legislatore aveva previsto che si dovessero staccare dalle banche d’origine. Non lo hanno voluto fare, e sarà ancora la collettività a pagarne il prezzo.
Conclusione. Sommando errori ad errori, ambizioni personalistiche ad ambizioni societarie, impegnandosi in scommesse rivelatesi fallimentari, questa “Repubblica italiana fondata sulle banche” è prossima al capolinea. Il futuro più che probabile sta in un revival keynesiano, come negli anni Trenta. Con i corollari di autarchia, autoritarismo. Allora, ai vertici di Banche e Finanza vi fu un gran ribaltone. Adesso, tutti assolti?
panorama
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Lavoro. Dal Nordest al Mezzogiorno, gli extracomunitari sono una risorsa
Immigrati: perché Epifani ha ragione di Giuliano Cazzola segue dalla prima Alcune osservazioni sono dunque necessarie. La legge Bossi-Fini è un provvedimento complesso, i cui contenuti non sono riconducibili soltanto all’idea centrale (rivelatasi giusta) di condizionare il rilascio del permesso di soggiorno (in base alle quote ammesse) all’esistenza di un rapporto di lavoro regolare.
rivolte a reprime comportamenti scorretti ed illegali. Il problema è quello di salvaguardare, con un minimo di flessibilità, proprio quel principio dell’integrazione attraverso il lavoro che è il cuore della legge in parola. Che senso avrebbe rimandare al suo paese un immigrato (inserito da anni con la sua famiglia in una delle nostre comunità) che perde il lavoro a
sono occupati in prevalenza in occasioni di lavoro che gli italiani – anche i più diseredati – rifiutano.
Interi settori dell’economia (l’agricoltura, il turismo, le costruzioni, i servizi alla persona, alcuni comparti manifatturieri) fanno fronte alle loro esigenze soltanto grazie al lavoro degli stranieri. Chi lavora da anni nelle nostre fabbriche, parla la nostra lingua, vive nelle nostre città e manda i suoi figli nelle nostre scuole ha acquistato un know how professionale e sociale che sarebbe un delitto contro l’economia e il corretto vivere civile disperdere, a causa di una congiuntura sfavorevole destinata – ce lo auguriamo – a cambiare di segno entro breve. Ovviamente non sarebbe il caso di sottilizzare sugli strumenti normativi da adottare per risolvere il problema. L’importante è consentire ad un lavoratore straniero, regolarmente impiegato, di avere a disposizione il tempo e l’opportunità di cercare un nuovo lavoro o di aspettare che l’economia riparta, avvalendosi, se ne ha diritto, della tutela fornita dagli ammortizzatori sociali.
Non ci sono rischi per la sicurezza: i “regolari” che mandano avanti le aziende o hanno mansioni che gli italiani rifiutano, vanno tutelati dalla crisi
Nessuno – tanto meno chi scrive – propone di “sospendere” l’applicazione delle norme (recentemente rese più severe)
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
causa della recessione, quando la componente dei lavoratori stranieri, soprattutto nelle regioni del CentroNord, sono ormai una componente strutturale del mercato del lavoro? In quelle realtà, infatti, gli stranieri sfiorano ormai – mediamente – il 20 per cento della manodopera occupata, mentre sono disoccupati soltanto gli italiani che scelgono di non lavorare o non hanno voglia di farlo. Nelle regioni della Padania vi è da anni uno scarto di almeno 100 mila unità tra chi esce dal mercato del lavoro per andare in pensione e chi entra. Gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno persino nel Mezzogiorno, poiché
Pino Pelosi partecipa alle commemorazioni di Pier Paolo Pasolini
Può il carnefice celebrare la sua vittima? l carnefice che commemora la vittima è una contorsione tutta italiana. Pino Pelosi trentatrè anni fa uccise Pier Paolo Pasolini a Ostia. La prima domenica di novembre, trentatre anni dopo, invitato dalla Lipu al “Giardinoletterario” intitolato all’autore di Ragazzi di vita, Pino Pelosi detto Pino “la rana” è tornato sul luogo del delitto. Perché?
I
La vita della coscienza interiore conosce significati e sofferenze che la vita della coscienza sociale spesso ignora. Quando Pelosi, nel buio della notte, pestò di botte Pasolini e passò sul suo corpo con l’automobile, aveva 17 anni. Avrà portato dentro di sé rabbia, sofferenza e dolore e avrà nutrito il bisogno del perdono? La sua presenza lì, sul luogo dell’omicidio, ha il senso di una conversione? Forse. Ma perché, allora, fare tutto in pubblico? Un gesto così personale ha bisogno più di Dio che degli uomini. Così l’altro giorno a Ostia, quando Pelosi è arrivato per la commemorazione, si è sentita la voce di Fabrizio La Venia: «Tu qua non dovevi venire, con le tue mezze verità e le tue bugie ci hai preso in giro per trent’anni». Con calma e nervi saldi, Pino Pelosi, non più un ragazzo di 17 anni ma un uomo di 50 primavere, ha risposto: «Tu non puoi parlare così, non conosci la
mia storia, io ho già pagato. Se non ho parlato prima è perché i miei genitori sono stati minacciati di morte. Devi prendertela con chi in tutti questi anni non ha mai voluto la verità». Ci risiamo. Eccola qui ancora una volta la parola che sembra fare a pugni con tutta la nostra storia nazionale: la verità. Fu Alberto Arbasino ha curare e scrivere il libro Un Paese senza: senza tante cose e soprattutto senza verità. Ma qual è la verità della morte di Pier Paolo Pasolini? Non sarà che, a volte, la verità non si vuole vedere? Non sarà che, a volte, la verità è sotto i nostri occhi e la si vela per non vedere la faccia nuda e cruda della realtà? È il caso anche della morte di Pier Paolo Pasolini? Quando Pasolini morì, a Milano su un muro comparve una scritta: «Pasolini come Matteotti: ucciso dai fascisti». La verità non venne fuori subito, ma già aveva a portata di mano una certezza
ancora più vera dei fatti: delitto politico a opera dei fascisti. Non era stato, dopotutto, proprio lo stesso Pasolini nei suoi Scritti corsari a dire che lui sapeva bene chi metteva le bombe? E se lui sapeva perché «sono un intellettuale» era “logico” che qualcuno lo volesse morto. La verità del delitto politico era fin troppo vera, addirittura banale. Al funerale del regista di Uccellacci e uccelAlberto lini Moravia disse: «Il poeta non si tocca, perché il poeta è sacro». Ma la verità della morte di Pasolini era ancora più banale. A rileggere oggi la sua opera poetica e letteraria, così piena di contrasti e contraddizioni - decadente e realista, comunista e anticomunista, storicista e antistoricista, moderna e antimoderna - vi si può leggere anche la sua vita e la sua morte.
Dopo la sua drammatica morte, la figura di Pier Paolo Pasolini - di PPP - è
stata mitizzata. Ma coloro che fanno di Pasolini «una sorta di santo laico - ha scritto con spirito di giustizia Luperini - immolatosi sull’altare del sacrificio (e non assassinato nell’atto di una dolorosa contraddizione) lo uccidono una seconda volta non meno di quelli che il 2 novembre 1975 hanno tirato un sospiro di sollievo e si sono affrettati a voltare pagina». La morte di Pasolini è nella sua vita e nei suoi libri che di quella vita sono nutriti. Il mondo del sottoproletariato romano, i ragazzi di vita delle borgate romane erano per lo scrittore il simbolo di una beata esistenza libera e istintuale, arazionale e sensuale, priva di ogni costrizione morale. Qui c’era il desiderio di eresia e libertà di PPP. La letteratura di Pasolini, come la cinematografia di Pasolini, vanno giudicate con i criteri classici del giudizio estetico: pagine belle o brutte, pellicole belle o brutte. Ma se non si accetta la vicenda biografica di Pasolini e la sua fine in una notte di vita, allora, la sua opera diventa anche un modo per capire come viveva e come incontrò la morte l’autore di La meglio gioventù. A noi, oggi, resta la domanda: il carnefice che celebra la vittima è un “atto di dolore” o ancora una volta è un tentativo maldestro di non fare i conti con la verità?
panorama
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Tabù. Come la gauche in pochi anni ha perso l’esclusiva sulle lotte per la tutela del paesaggio
L’ambientalismo non è più di sinistra di Gabriella Mecucci ambientalismo – si diceva in tempi persino recenti – non può che essere di sinstra: è lì che si trovano i fautori della lotta contro la speculazione immobiliare, contro le fabbriche che inquinano, contro i superprofitti, a danno della salute e della bellezza del paesaggio. All’estero questa mitologia era già caduta da tempo: basti pensare ai conservatori inglesi e alla scelta «verde» di Cameron. Ma in Italia, i luoghi comuni politically correct durano sempre un po’ più a lungo che altrove. Epperò, alla fine, anche qui arrivano pezzi di verità.
medioevale. Alla faccia della difesa del paesaggio. Se in Val D’Orcia la rottura c’era stata con Asor Rosa, in quel caso ci fu con l’associazione ambientalista più antica e blasonata: Italia Nostra, guidata da un supercombattivo Carlo Ripa di Meana . Nonché col proprietario dello splendido maniero che si voleva deturpare: nientemeno
L’
La prima plateale rottura fra ambientalismo e sinistra si ebbe a fine 2006 quando persino un «barone rosso» come Alberto Asor Rosa ruppe con le amminstrazioni toscane, tutte di sinistra, sul caso Monticchiello. I suoi ex compagni infatti volevano inondare la splendida Val D’Orcia con una bella colata di cemento fatta di villette assai bruttine che infestavano le basse e dolci colline di una delle più belle campagne del mondo. Un
Dalla sfida contro il cemento in Val d’Orcia alla battaglia per il parcheggio al Pincio: ormai l’ecologismo è cambiato radicalmente caso? Nemmeno a pensarci. Poco dopo la Lega Ambiente, associazione collaterale ai futuri soci fondatori del Pd (Democratici di sinistra e Margherita) si mise a difendere il progetto di impiantare delle gigantesche pale eoliche presso di scavi di Saepinum e – ancora più incredibile – proprio sopra uno stupendo castello
che quel Biondi Santi, gran produttore di straordinari vini, Brunello in testa, con qualche simpatia verso il centrodestra. Ma sin qui ancora erano solo segnali. Il vero cambiamento di rotta dell’ambientalismo italiano si è verificato a Firenze e a Roma. Nella prima città è stato bocciato, grazie ad un referen-
dum, lo sconsiderato progetto di una tramvia che passava a tre passi dal Duomo e dal Battistero. Gli amministratori «rossi» lo volevano a tutti i costi, ma i cittadini sono stati convinti dalla battaglia di pezzi del centrodestra: importanti esponenti di Forza Italia, il capogruppo Udc al Comune e altri. Contraria naturalmente Italia Nostra, ma anche molti intellettuali di sinistra o altri che la sinistra l’hanno «mollata» da tempo. Ma il caso più clamoroso è avvenuto a Roma quando Italia Nostra, con il solito Ripa di Meana in testa, ha raccolto un ampio fronte di alleanze, ed è riuscita a scagliarlo contro l’infausta idea di costruire un megagarage sotto il Pincio. Alla fine si sono mossi anche il ministro dei Ben culturali Bondi e il sindaco Alemanno per scongiurare quell’obbrobrio che avrebbe ferito il Colle più bello di Roma e la splendida risistemazione che ne fece il Valadier.
Mentre succedeva tutto questo e il movimento di difesa dell’ambiente, del paesaggio, dei centri storici progressivamente
Proposte. La rottura del patto di solidarietà e un coordinamento tra le Regioni
Il Sud paga il (finto) federalismo di Mario de Donatis hi vuole cogliere la reale “portata storica” del “federalismo fiscale” non può ignorare la genesi di tale riforma. Quanti hanno partecipato ai processi decisionali relativi al decreto legislativo 56/2000 dovrebbero testimoniare che la “redistribuzione delle risorse tra le Regioni”ha registrato poco di “nobile”e ricordare che le relative elaborazioni normative e le stesse proiezioni finanziarie sono state avviate e valutate in sedi istituzionali lontane sia da Roma, sia dal Mezzogiorno e sanno bene, anche, che le Regioni meridionali, prive di una sede di raccordo politico e burocratico, hanno rincorso grafici e tabelle, in un gioco di simulazioni, né “solidale”, né” istituzionale”, conclusosi con i ricorsi alla Corte Costituzionale prodotti dalle Regioni Campania e Puglia.
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’90 ha significato una rottura del “patto di solidarietà” tra il Mezzogiorno ed il resto del Paese. Oggi, con il federalismo in “salsa Calderoli”, ribollito con i migliori ingredienti del doroteismo, si è pervenuti ad un risultato che: a) permette alla Lega di esultare per l’accoglimento dei “principi fondativi” del federalismo; b) consente alle Regioni meridionali – nel breve periodo – con terapie di mantenimento, assicurate
A ben vedere la “delega al Governo”, in materia di federalismo fiscale, è un riconoscimento del ruolo politico della Lega. Un riconoscimento molto grave sull’altare della governabilità, per i principi imposti dalla Lega, ma che è ininfluente sui bilanci dell’intero sistema delle Autonomie, almeno fino al 2011. Come mai un risultato che sembrerebbe deludente per la Lega, perché rinvia l’attuazione del federalismo fiscale a chi sa quando, viene valutato positivamente? Solo per i “principi”che la “delega al Governo”contiene? Molto probabilmente c’è un piano alternativo che permetterà alla Lega – in attesa del “federalismo fiscale”– di conseguire grandi benefici con politiche di intervento che privilegeranno il Nord-Est del Paese. Tanto impone l’attivazione di una sede per il raccordo politico delle Regioni meridionali, con la creazione di un “osservatorio” per monitorare la spesa dello Stato, da subito.
Il governo assicura che ci saranno tutele per sanità, istruzione a assistenza: perciò bisogna imparare a leggere i “conti” con più attenzione
Il “federalismo fiscale” – oggi presentato quale “strumento fiscale” per “frenare” gli sprechi della spesa pubblica, responsabilizzando la classe dirigente del Mezzogiorno – è un voler nobilitare una “opzione politica”, peraltro, di dubbia efficacia. Gli addetti ai lavori sanno bene che il “federalismo fiscale” nella sua configurazione di fine anni
dal Governo centrale, di far fronte alle patologie note da tempo (spesa sanitaria ed altre emergenze); c) tranquillizza – nel medio periodo – le Regioni meridionali, con la “perequazione” in materia di sanità, istruzione e assistenza e, più ancora, per i “tempi lunghi” necessari per pervenire ai “costi standard”, immaginati per superare la “spesa storica”; d) concede alla maggioranza di centro-destra un lungo respiro di due anni, tempo necessario per lo svolgimento delle consultazioni elettorali (amministrative, europee e regionali).
si sganciava dal centrosinistra e costruiva i primi rapporti col centrodestra, scendeva in campo un’altra forza per decenni storicamente assente da questo tema: la Chiesa. Da Oltretevere venivano numerosissimi segnali della volontà papale di difendere il Creato. Già da tre anni è stata istituita una vera e propria giornata di rflessione su questo argomento, e le prese di posizione di Benedetto XVI, dei vescovi e degli intellettuali cattolici si moltiplicano. Ed è proprio da questo ambiente cristiano – sia esso cattolico o protestante - che ci si attende nel prossimo futuro un massiccio impegno in difesa della Creazione. Non è un caso che uno dei più grandi bilogi del mondo, Edward Wilson proprio domenica scriveva sul Sole 24 ore una lettera a un pastore battista americano sostenendo che «scienza e religione devono allearsi per proteggere il mondo vivente dall’attività distruttiva dell’uomo». E così, dall’Italia siamo tornati all’estero. Perché ormai non c’è luogo dove la nuova speranza ambientalista non trovi il suo humus più naturale fra religiosi e conservatori.
speciale • bye bye bush
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Bush non ha mai goduto di una buona reputazione. Texano, repubblicano e neo-cristiano, è stato dipinto fin dall’inizio come un inetto, guerrafondaio e fanatico. Solo la Storia potrà cambiare questo giudizio nei tempi dovuti
Caro George, l’Europa l mio caro amico George W. Bush non ha mai goduto di una buona reputazione tra gli europei. Essendo texano, repubblicano e neo-cristiano, è stato dipinto fin dall’inizio come un inetto, guerrafondaio e fanatico. A pochi giorni dalla fine della sua era, probabilmente, solo la Storia potrà cambiare questo giudizio nei tempi dovuti. È vero che la personalità conta in politica, e la politica estera non fa eccezio-
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ne, ma è anche vero che non tutto dipende da questo. Ci sono forze, fattori e tendenze che vanno ben oltre il tempo di un leader, e questo è vero anche per i due mandati di Bush.
È mio profondo convincimento che coloro che lo biasimano per tutti i problemi del mondo, o per i cattivi rapporti tra Europa ed America, siano semplicemente in errore, e che si sentiranno davvero molto frustrati una volta che il nuovo presidente degli Stati Uniti entrerà in carica alla fine di gennaio 2009. L’Europa e l’America si trovano nella situazione attuale a causa di fenomeni storici che precedono Bush e che ci accompagneranno ben oltre la sua presidenza. Dal 9 novembre all’11 settembre – cioè dalla caduta del muro di Berlino alla distruzione delle Torri Gemelle da parte d al Qaeda – sono accadute molte cose importanti: la fine di un mondo organizzato in un sistema bipolare; la dif-
di José Maria Aznar rispetto alle questioni preminenti del nostro tempo. È un paradosso messo in evidenza dal successo contro il comunismo, ma - una volta che la minaccia sovietica è scomparsa – altre regioni sono entrate in scena, dal Medio Oriente all’Asia meridionale.
Tutto questo è accaduto molto prima degli attacchi dell’11 settembre, ai quali l’America doveva rispondere. Il presidente Bush ha capito immediatamente la pericolosità del nemico e la lunga guerra che sarebbe stata necessaria per eliminarlo come minaccia esistenziale al nostro modello di vita, alle nostre istituzioni e alle nostre libertà. Ma in una
l’unica superpotenza rimasta – era inaccettabile. L’America può essere riconosciuta una grande potenza non in un mondo unipolare, ma in uno multipolare, dove le altre nazioni sono altrettanto importanti. Ma la verità è che finora non è emerso nessun altro polo in grado di rimpiazzare o di sfidare gli Stati Uniti. Per lo meno non in Europa. In realtà, invece di godere di una nuova era di prosperità e accettare una maggiore condivisione di responsabilità nel tentativo di organizzare il mondo in modo pacifico, l’Europa è rimasta intrappolata per troppo tempo nei suoi stessi dilemmi istituzionali, nell’espansione, riforma ed approfondimento delle sue istituzioni e procedure. Ha guardato per troppi anni a se stessa, a danno del resto del mondo.
È mio profondo convincimento che coloro che biasimano Bush per tutti i problemi del mondo siano semplicemente in errore. E se ne accorgeranno con il nuovo presidente Usa fusione della globalizzazione; l’insorgenza di un islamismo politico dogmatico; la minaccia di un terrorismo mondiale e catastrofico; la decadenza dell’Occidente, e – soprattutto – l’ascesa di nuove potenze autocratiche. Il mondo di oggi non è il sogno che volevamo lasciare quando pensavamo che l’Occidente avesse vinto la guerra fredda, nel 1989.
Le promesse post-moderne di un paradiso liberale in terra sono state in realtà vanificate da un sorprendente livello di barbarismo. La globalizzazione ha portato molte nuove opportunità, ma ha anche un lato oscuro. L’Europa, il luogo in cui per tanti anni si sono concentrate tutte le forze geopolitiche e l’attenzione strategica, è diventata sempre più marginale
guerra le cose raramente vanno come pianificate. Gli europei, una volta ripresisi dallo shock, si sono divisi sul problema di come combattere contro un nemico nuovo e invisibile e sull’importanza di rimanere in Afghanistan, per non parlare dell’attacco all’Iraq di Saddam Hussein.
Così gli Stati Uniti, per la prima volta, non hanno avuto la solidarietà che si aspettavano dai loro alleati naturali. Penso che dovremmo essere chiari sulle ragioni di questo e sulle differenti motivazioni che stanno dietro le posizioni di alcune potenze europee, perché credo che la questione irachena sia stata il problema minore. Per qualche europeo, la prospettiva di un’egemonia americana – dovuta al fatto di essere
Ma anche se gli europei cambiassero il loro approccio alle questioni internazionali, ci sono ancora troppi problemi da risolvere prima che l’Europa possa agire con decisione oltre i suoi confini. Per esempio, il corpo militare europeo è vasto ma arrugginito; le capacità necessarie per agire all’estero sono scarse e le spese per la difesa non sono sufficienti a garantire l’acquisizione del materiale
speciale • bye bye bush cili da realizzare, se non del tutto impossibili.
Questa è l’Europa con cui il nuovo presidente americano avrà a che fare, non un vecchio ma ricco e attivo continente che potrebbe agire insieme all’America quando necessario. Gli Stati Uniti hanno il problema opposto. Hanno la volontà, il potere e il dinamismo necessari a qualsiasi superpotenza, ma un’antica società democratica non è ben
stra liberà sarà meglio assicurata se l’America verrà rispettata.
A prescindere dal fatto che la percezione della sua debolezza, incertezza o isolamento sia corretta o meno, non è difficile prevedere che gli Stati Uniti combatteranno tutti i loro nemici prima invece che dopo, sebbene a caro prezzo. È successo in passato, e non c’è nulla oggi che faccia pensare ad un corso diverso.
a non ti ha capito richiesto dai moderni conflitti, anche quando si tratta di operazioni di pace come in Afghanistan. Inoltre, l’Europa sta attraversando un periodo di disagio come di confusione. Confusione riguardo la propria identità, disagio a causa dei problemi creati da tanti anni di multiculturalismo.
L’immigrazione sta raggiungendo livelli mai visti prima, e un islam militante, diffuso tra molti immigrati, sta creando fermenti sociali che possono soltanto crescere, in mancanza di leaders ovunque decisi a una svolta radicale nelle politiche sull’immigrazione. Un vecchio sistema as-
preparata ad affrontare il nuovo barbarismo che si sta diffondendo nel mondo. Potrebbe essere una potenza imperialista, ma le manca lo stomaco per questo.
E per buone ragioni, aggiungo. In ogni caso, penso sia ora di riflettere sinceramente sull’ambiente internazionale e strategico che si sta delineando, e di dedicare meno tempo a cercare di prevedere chi farà cosa e come. È fondamentale ricordare a noi stessi che la libertà di cui godiamo oggi non solo in America, ma nel mondo - è stata garantita, se non creata, dall’azione americana, e dovremmo chiederci,
Otto anni (molto duri) fra guerre e crisi economica Gennaio 2001 – Giura da 43mo presidente degli Stati Uniti dopo aver vinto l’elezioni nell’autunno del 2000. Giugno 2001 - Durante la sua prima visita presidenziale in Europa, George W. Bush viene criticato dai leader europei per il suo rifiuto di aderire al protocollo di Kyoto, per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Ottobre 2001 - Promuove l’azione Nato, su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (anche se l’autorizzazione è stata successiva all’inizio delle ostilità), per l’intervento contro l’Afghanistan per abbattere il regime talebano che ospita il quartier generale di al Qaida, autrice dell’attacco dell’11 settembre. Il 26 ottobre promulga il Patriot Act. Gennaio 2002 - Con il celebre discorso sullo Stato dell’Unione, introduce l’espressione «Asse del Male» per riferirsi alle nazioni sospettate di sostenere il terrorismo internazionale e minacciare la pace mondiale. Sono Iraq, Iran e Corea del Nord. Nasce la «dottrina Bush» sulla guerra preventiva, influenzata dal movimento neocon Project for the New American Century. Marzo 2003 - Dichiarazione di guerra all’Iraq. Francia, Germania e Russia sono contrari all’ntervento militare. Non riuscendo ad ottenere l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dellìOnu, voluta dal Segretario di Stato Colin Powell, Bush riesistenziale, insieme ad una cultura burocratica in molti settori della sfera pubblica, stanno aggravando le difficoltà di un’economia che sta persistentemente dando chiari segni di non adattamento alle regole del gioco di un mondo globale, e le riforme, quando contemplate, sono molto diffi-
con lo stesso grado di sincerità, che mondo sarebbe senza gli Stati Uniti. La Cina sarebbe la potenza dominante e l’Islam governerebbe le nostre vite? La Russia deciderebbe quanta energia dobbiamo usare? Abbiamo bisogno di un mondo in cui gli Usa abbiano un ruolo preminente. La no-
Abbiamo bisogno di ricreare, insieme, quello che è stato il più importante contributo al nostro tempo moderno: l’Occidente. Mentre i leaders siedono insieme in una miriade di incontri, ai vertici di vecchie istituzioni, le forze del mondo sembrano poco interessate a ciò che dicono e ai loro richiami. Sembra di vivere in un’era di irrilevanza per l’Occidente, e questa è una cosa che mi preoccupa molto. Un Occidente in calo significa maggiore distanza tra America ed Europa, e – ancora peggio – un mondo a-polare dove nessuno ha l’influenza sufficiente per stabilire le regole del buon governo che sono
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che il nuovo presidente degli Stati Uniti dovrebbe cercare di coinvolgere gli europei. Ci sono così tante aspettative, ovunque, su queste elezioni che è probabile che la frustrazione con la vittoria dell’uno o dell’altro emergerà rapidamente. In Europa, perché l’America continuerà a fare qualsiasi cosa necessaria per proteggere il suo interesse nazionale, e in America, perché gli europei parleranno molto, sorrideranno molto, si impegneranno molto, ma produrranno molto poco in termini di soluzioni effettive ai problemi odierni. Politicamente, economicamente e militarmente. In ogni caso, dovremmo anche ricordare che solo quando l’America e l’Europa hanno agito insieme il mondo intero ne ha tratto beneficio. Quindi, se vogliamo rimanere una forza determinante per il bene – come l’Occidente è stato in passato – il nostro compito reciproco non è ricadere nella disputa tra America ed Europa, ma impegnarci in una cooperazione costruttiva.
Gli anni scorsi hanno dimostrato piuttosto brutalmente che l’America e l’Europa possono andare in direzioni diverse, e non è il caso che ciò si ripeta in futuro visto cosa è in gioco. In realtà, dovremmo cercare di ristabilire il contatto il prima possibile. Se l’Europa farà il suo dovere, gli Stati Uniti dovranno riconoscere che noi siamo i loro
sce a raccogliere una «coalizione di volenterosi» che includeva Spagna, Polonia, Gran Bretagna e Italia (solo per il peacekeeping). Settembre 2003 - Il giorno 3 firma lo United States-Chile Free Trade Agreement Implementation Act e lo Us-Singapore Free Trade Agreement Implementation Act. Una svolta rispetto al multilateralismo. Febbraio 2004 - Spinge per una modifica della Costituzione che definisca il matrimonio naturale come quello contratto tra un uomo e una donna. Giugno 2004 - Trasferimento dei poteri al governo iracheno. Nei mesi successivi comincerà la guerriglia. A settembre saranno mille i caduti americani dall’inizio della guerra. Marzo 2005 - Promulga una legge che interviene direttamente sulla vicenda di Terry Schiavo, la ragazza in coma cui si voleva interrompere il supporto clinico. Agosto 2005 - Uragano Katrina: aspetta due giorni prima di recarsi nella città di New Orleans colpita dal disastro.Verrà criticato anche per la lentezza della macchina dei soccorsi. Ottobre 2006 - Vara una legge che permette il dispiegamento dell’esercito con compiti di polizia, in caso di emergenza nazionale (John Warner Act) Giugno 2007 - Pone per tre volte il veto sul finanziamento federale alla ricerca sulle cellule staminali Settembre 2008 - Al minimo nei sondaggi nella sua permanenza alla Casa Bianca, affronta una delle peggiori crisi finanziarie dal 1929.
terribilmente necessarie. Dunque, cosa ci aspettiamo dall’America con un nuovo presidente? Non troppo se noi europei non cogliamo l’occasione, non cambiamo la nostra visione limitata degli Usa e del mondo, e non ci impegniamo a combattere a favore della democrazia, ma è ovvio
partners naturali, anche per le questioni che si svolgono ben oltre i confini europei, ma - se non lo faremo - non credo nessuno potrà biasimarli per il loro unilateralismo, quando necessario. Sfortunatamente, nessuna potenza, oggi – nemmeno l’America – può imporre la sua volontà.
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speciale • bye bye bush
Obama o McCain, il nuovo inquilino della Casa Bianca non muterà i connotati della politica estera Usa. Negli States esiste un grande sentimento di continuità che ha nella presidenza il simbolo più alto
L’America non cambia di Gennaro Malgieri America non cambierà. Obama o McCain non muteranno i connotati di una grande democrazia capace di metabolizzare l’avvicendarsi di leadership senza traumi. E neppure la presidenza di George W. Bush, comunque vadano le cose, sarà considerata un cumulo di nefandezze, come si legge su molti giornali europei. Negli Stati Uniti, a parte alcuni circoli radical animati spesso da scrittori in disarmo ed alla ricerca di qualche postuma gloria, persiste da oltre due secoli un sentimento della continuità che ha nella presidenza il simbolo più alto.
L’
Ciò non significa che ogni inquilino della Casa Bianca non cerchi di dare una personalissima impronta al suo mandato, ma mai è accaduto che la “guerra” elettorale si sia spinta, dopo il 4 novembre, oltre la porta dello Studio Ovale, a dimostrazione che i contendenti, consapevoli del loro ruolo, accettano il responso popolare e non marcano la discontinuità con il predecessore come la vittoria di una visione del mondo sull’altra. Perciò Obama, se dovesse prevalere, non metterà in discussione Bush, perché consapevole che il presidente uscente ha interpretato, in un momento convulso e complesso della vita americana, lo spirito del tempo e le istanze della stragrande maggioranza del suo popolo al punto di risultare quattro anni fa il più votato nella storia degli Stati Uniti. Dunque, sono in errore o, più probabilmente in malafede, coloro i quali si accapigliano sulla bontà di questa o quella scelta contrapponendola al bushismo che per otto anni ha segnato la vicenda americana. Oggi, il contesto è diverso rispetto al 2000 e al 2004. Obama e McCain lo sanno bene. Chi lo ignora sono, invece, molti dei commentatori italiani per i quali le elezioni americane assomigliano ad una partita di calcio, e desiderano fortemente l’annientamento di uno dei due contendenti al punto di dare all’uno e all’altro qualificazioni
improprie che non rispondono alle categorie della politica americana. Il problema non è di capire in che misura McCain è conservatore ed in che modo Obama interpreta il “sentire”dei democratici. Ma di sapere l’uno e l’altro quale idea hanno dell’America. E, da questo punto di vista, scorrendo i programmi di entrambi emerge una verità difficilmente negabile: la loro America, certo non per volere di nessuno dei due, sarà la stessa, non arretrerà di fronte alle sfide che la mettono in pericolo, non si rassegnerà al declino economico-finanziario, cercherà di reagire alla crisi che l’attanaglia, non si ritirerà dai teatri di guerra dove è protagonista. Semmai comprenderà, ma anche in questo non si distaccherà dal secondo mandato di Bush, che non è più la superpotenza universale di qualche
re un senso di smarrimento negli statunitensi che né Obama né McCain riusciranno a placare, ma non certo il ritiro sotto la tenda di tutto un Paese che comunque ha potenzialità enormi sulle quali costruire decisioni che implicheranno conflitti o convergenze. Obama, per dirla tutta, non è affatto un rinunciatario, a differenza di McCain che sarebbe un interventista. Entrambi ritengono che l’America non possa piegarsi a svolgere un ruolo secondario. Il senatore dell’Illinois, ha citato, nella sua autobiografia, un brano tratto da uno dei libri ispiratori (e non è assolutamente paradossale) del conservatorismo del dopoguerra: “Ritratti del coraggio” di J.F. Kennedy, non a caso pubblicato in Italia dalle edizioni del Boghese agli inizi degli anni Sessanta. Il brano fa riferimento alla
Finora, i contendenti hanno accettato il responso popolare e non hanno mai marcato la differenza con il predecessore come la vittoria di una visione del mondo sull’altra anno fa e che l’unipolarismo è tramontato per sempre. Non tanto per responsabilità dei conservatori, ma perché il mondo è profondamente cambiato ed altre potenze stanno emergendo, nuovi soggetti reclamano spazi vitali, economie più dinamiche e non sempre raccordate con le logiche globaliste hanno guadagnato terreno. L’America, comunque vadano le cose, sarà ancora la più grande potenza militare del mondo e continuerà a credere che con il terrorismo non si potrà venire a patti: dunque il problema della sua sicurezza e di quella del Pianeta sarà prioritario. Obama o McCain piuttosto saranno impegnati (ed anche questo non è un elemento di discontinuità) nel rimodulare la fisionomia di una nazione che per novant’anni all’incirca è stata protagonista (per un lungo tempo assoluta) della politica mondiale, ma anche del costume, degli stili di vita, nella determinazione dei comportamenti di massa. Se di un declino si dovrà parlare sarà quello culturale per cui il XXI secolo non sarà un altro secolo americano. Il chè potrà suscita-
“temerarietà”dell’uomo politico capace di andare perfino contro il suo elettorato e segnare la sua fine politica quando assume una decisione che ritiene funzionale al bene del Paese. Obama si comporterà allo stesso modo? E così farà MacCain? Bush l’ha fatto.
E lo hanno fatto Clinton e Reagan quando sono stati messi in discussione i diritti dell’America, da parte di chiunque. Qualche giorno fa il New York Times ha scritto che di fronte alle minacce di Ahmadinejad, «Obama ha la stessa durissima strategia enunciata dall’amministrazione Bush» e che «più di McCain» è propenso ad inviare in Pakistan truppe per raid terrestri. E davanti alla Russia che diventa sempre più arrogante, il favorito per la presidenza non ha, dice l’autorevole quotidiano, mai mostrato indulgenza, tanto che in occasione della crisi georgiana è stato molto vicino alle posizioni di Bush. È prevedibile che l’America non cambierà, dunque. Neanche con Obama. Se dovesse vincere, è verosimile che assumerà tendenze conservatrici e
le mescolerà con qual tanto di radicalismo democratico fatto di populismo e inevitabile “nuova frontiera”, ma la sostanza della politica statunitense resterà la stessa.
Da qui l’equivoco che molti europei “di destra”(quanto logora soprattutto in questo caso tale categoria) nutrono su Obama reputandolo uno di loro. Non è di nessuno. Mentre McCain interpreta, a suo modo (vale a dire in maniera piuttosto discutibile) valori conservatori nel momento in cui il conservatorismo sta cambiando profondamente. Anzi è cominciato a cambiare, al punto di non riconoscersi più, quando ha assecondato politiche di sviluppo prescindenti dall’etica; una religiosità secondaria, cioè di facciata, che nulla ha a che vedere con la fede; quando ha teorizzato una politica di potenza senza fare i conti con la ricerca dell’equilibrio. Sono stati i peccati (mortali?) dei cosiddetti neo-con, fedeli atei che hanno fatto perdere credibilità
al conservatorismo incarnato dal Grand Old Party. Insomma, quando i trotzkisti di Berkeley degli anni Sessanta hanno occupato le adiacenze della Casa Bianca, Russell Kirk e Barry Goldwater sono stati sfrattati. Ma il tempo di Edmund Burke tornerà, poiché se le radici non gelano, dopo il grande inverno nuovi frutti verranno raccolti. Nel primo secolo dell’età contemporanea “non americano” un diverso conservatorismo è possibile. Forse non porterà i nomi di John McCain e di Sarah Palin, ma anche a loro si dovrà la rinascita, come a quel geniale senatore dell’Arizona che nel 1964 venne brutalmente sconfitto da Lyndon Johnson, ma rinnovò il conservatorismo inaugurando una nuova èra. Quella di cui Bush è stato il tardo e controverso epigono.
speciale • bye bye bush
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Medio Oriente. Come e perché le buone intenzioni di un grande presidente si sono trasformate in un disastro
Islam, i quattro errori di Daniel Pipes e strategie politiche di George W. Bush per il Medio Oriente e l’islam occuperanno una posizione di primo piano quando gli storici giudicheranno la sua presidenza. In particolare, la sua peculiarità consiste nella disponibilità a rompere con posizioni bipartisan da tempo stabilite e ad adottare delle politiche straordinariamente nuove. A partire dalla fine del 2005 egli aveva esposto il suo nuovo approccio in quattro aree importanti: Islam radicale. Prima dell’11 settembre, le autorità americane consideravano la violenza islamista come un piccolo problema criminale. Definendolo “guerra al terrorismo”, Bush ampliò la portata del conflitto. La precisazione dell’esatto rapporto di forze che si collocavano dietro il terrorismo raggiunse l’apice nell’ottobre 2005, quando il presidente lo definì “radicalismo islamico”, “jihadismo militante”e “islamofascismo”. Guerra preventiva. La deterrenza è stata a lungo la politica scelta contro l’Urss e altre minacce, ma nel giugno 2002 Bush aggiunse una seconda linea politica: la prevenzione. La sicurezza americana «necessiterà che tutti gli americani siano lungimiranti e risoluti, disposti a un’azione preventiva,
L
se necessario, a tutela della nostra libertà e delle nostre vite». Nove mesi dopo, questa nuova dottrina funge da base per l’invasione dell’Iraq ed eliminare Saddam Hussein prima che quest’ultimo potesse sviluppare armi nucleari. Conflitto arabo-israeliano. Bush ha evitato la diplomazia da “processo di pace”vecchio stile e controproducente e, nel giugno 2003, tenta un nuovo approccio stabilendo l’obiettivo di “due Stati in pace e sicurezza”. Inoltre, egli ha abbozzato la sua visione dello status finale, ha stabilito un calendario e ha perfino tentato di marginalizzare un recalcitrante leader (Yasser Arafat) o sostenerne uno prossimo (Ehud Olmert). Democrazia. Schernendo il fatto che «per 60 anni i Paesi occidentali abbiano giustificato e accettato la mancanza di libertà in Medio Oriente», nel novembre 2003 Bush annuncia «un’avanzata strategia per la libertà in Medio Oriente», intendendo indurre in tal modo i regimi ad aprirsi alla partecipazione dei cittadini.
Io rispetto le benevoli motivazioni e le buone intenzioni di Bush, ma sul Medio Oriente ha sbagliato. Non ha senso negarlo
Ma se questa è stata la sua esatta e determinata visione, non si può dire che la sua attuazione sia stata altrettanto lungimirante e di successo. Tanto per cominciare, già alla fine del suo primo mandato
avevo rilevato che le politiche di Bush avevano delle buone possibilità di riuscita. Oggi, avverto un fallimento in tutte e quattro le aree. L’interpretazione di Bush dell’islam radi-
cale è migliorata, per poi essere ribaltata, al punto che egli utilizza eufemismi lunghi e ineleganti per evitare di dare un nome al problema, contando su formulazioni del tipo «un gruppo di estremisti che tenta di utilizzare la religione come una strada per raggiungere il potere e come uno strumento di dominio».
La guerra preventiva necessita di convincere gli osservatori che la prevenzione era in verità giustificata, un qualcosa che l’amministrazione Bush non è riuscita a fare. Solamente metà della popolazione americana e pochissimi in Medio Oriente accettano l’idea che l’invasione dell’Iraq sia stata necessaria, creando divisioni intestine e ostilità esterne senza precedenti dai tempi della guerra del Vietnam. Tra i tributi pagati si annovera una maggiore difficoltà a lanciare un’azione preventiva contro il programma nucleare iraniano. La visione di Bush di risolvere un secolo di conflitto arabo-israeliano consacrando Mahmoud Abbas come leader di uno Stato palestinese è illusoria. Una Palestina sovrana a fianco di Israele prosciugherebbe l’odio antisionista e porrebbe fine alla guerra irredentista contro Israele? No. Il dannoso obiettivo di creare una Palestina
infonderebbe maggior fervore alla causa volta ad eliminare lo Stato ebraico. Incoraggiare la democrazia è un nobile obiettivo, ma se in Medio Oriente la forza popolare dominante è l’islam totalitario, è un’ottima idea buttarsi a capofitto in ciò? Eppure, il buttarsi a capofitto ha caratterizzato l’approccio iniziale di Washington, finché il danno inflitto dalla politica agli interessi americani è divenuto troppo evidente per essere ignorato.
All’epoca in cui Bush attira attacchi così intensi tra i suoi critici, qualcuno che gli augura ogni bene, come me, lo critica con riluttanza. Ma occorre muovergli delle critiche; pretendere che tutto vada bene o rimanere fedele a una persona malgrado i suoi trascorsi non le fa un favore. Un franco riconoscimento dei propri errori deve precedere il farne ammenda. Io rispetto le benevoli motivazioni e le buone intenzioni di Bush, pur deplorandone lo sperpero di una percentuale record del 90 % di consensi successivo agli eventi dell’11 settembre e il retaggio che trasmetterà al prossimo presidente. I conservatori, comunque vadano le elezioni, hanno molto lavoro da fare per ricostruire la loro politica per il Medio Oriente.
speciale • bye bye bush
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I democratici hanno utilizzato a piene mani il fattore razza, mentre i repubblicani non hanno potuto neanche sfiorarlo. Pena la scomunica senza appello da parte dei sacerdoti del politically correct
Che razza di svolta! di Andrea Mancia
RICHMOND, VIRGINIA. C’è un fantasma che si aggira, inquietante, tra i corridoi della campagna elettorale americana. È il fantasma della razza. Un argomento che i democratici hanno utilizzato a piene mani, fin dalle primarie che hanno visto Obama battere la Clinton, ma che i repubblicani non hanno potuto neppure sfiorare, pena la scomunica senza appello da parte dei soloni del politically correct. Eppure si tratta di un fantasma che, almeno potenzialmente, può essere in grado di stravolgere pronostici ormai scontati. La sorpresa potrebbe arrivare dal cosiddetto Bradley Effect, cioè dalla presunta tendenza degli istituti di ricerca a sopravvalutare le performance dei candidati neri. Il nome di questo fenomeno risale al 1982, quando il candidato afro-americano Tom Bradley fu inaspettatamente sconfitto nella sua corsa per la poltrona di governatore della California dopo essere stato largamente in testa in tutti i sondaggi. Più che di un razzismo ATLANTA,
“latente”, si tratterebbe di una disposizione negativa a rivelare ai sondaggisti la propria volontà di non votare un nero, per paura di essere etichettati come razzisti. Soltanto a voti scrutinati scopriremo se, nel ciclo elettorale 2008, il Bradley Effect è ancora in agguato o se ha ragione chi parla addirittura di un effetto inverso,manifestato durante le primarie democratiche. Non c’è dubbio, però, sul fatto che il colore della pelle di Obama sia stato un fattore decisivo della campagna elettorale.
segnale della difficoltà incontrata da alcuni settori della popolazione americana – per esempio nelle zone rurali della Western Pennsylvania nel votare per un candidato di colore. Se invece ha ragione chi prevede una vittoria landslide di Barack Obama, spinta dal successo democra-
sia stato praticamente ignorato dai media statunitensi.
Tra i commentatori di un certo rilievo nella stampa Usa, infatti, soltanto uno ha avuto il “coraggio” di affrontare la questione senza peli sulla lingua. Stiamo parlando di Jay Nordlinger, caporedattore
Il colore è un elemento cruciale nella politica statunitense. Il problema è che la frattura non è solto tra neri e bianchi, ma anche tra donne e uomini e tra liberal e conservatori
Se hanno ragione gli irriducibili repubblicani, che prevedono la vittoria del ticket McCain/Palin in stati come la Pennsylvania e il New Hampshire (vinti da John Kerry nel 2004), sarà un
tico in stati come la Virginia o la North Carolina (vinti largamente da Bush nel 2004), allora sarà un segnale che Obama è riuscito effettivamente a mobilitare massicciamente la comunità afroamericana, portandola a votare come nessun altro candidato democratico prima di lui. In ogni caso, a decidere la partita potrebbe essere stato il colore della pelle di Obama.Lascia sbigottiti, dunque, il fatto che questo argomento
MISSOURI.
La notte di Halloween è appena finita. ”Scherzetto o dolcetto?” hanno urlato i bambini bussando le porte. Le ville di midtown sono ancora addobbate con finte ragnatele sulle siepi ben tenute e con le zucche illuminate sul portico. Un ottobrata insolita ha scaldato in questi giorni Peachtree, la via principale di Atlanta. Siamo nel profondo del profondo Sud, nella città distrutta dal celebre incendio del 1864, quello iconizzato da ”Gone with the wind” con Clark Gable che fugge sul calesse dalle case in fiamme, e poi ribruciata nel 1917.
Atlanta, profondo del profondo Sud. Il cielo è smaltato. Dall’alba al tramonto non c’è una sola nuvola che scalfisca l’azzurro immenso sopra i grattacieli. Come un fondale, il cielo prosegue uguale fino all’orizzonte. Di notte invece è un telo nero trapuntato dalle luci dei building, luci che non si spengono mai, le luci degli uffici dove l’America fortifica il suo spirito protestante a suon di dollari. Siamo nella provincia, in quel-
la che da lontano viene chiamata Deep America, che poi forse è la Real America. Atlanta, 5 milioni di persone e nemmeno un’anima in giro a piedi. Le macchine sfilano in ingorghi controllati. Malgrado il caldo inaspettato nessuno passeggia, nessuno si attarda nei tavolini del bar esterno dello High Museum of Art, nella piazzetta disegnata da Renzo Piano per la felicità degli sponsor. Cinque milioni di abitanti e nessuno in giro che uno si domanda dove viva tutta questa gente, come passi il tempo a parte stare in macchina.
della National Review, settimanale storico della destra americana, che ha scritto un lungo articolo in cui l’impatto della razza nella campagna elettorale viene preso di petto, senza fare sconti a nessuno. «C’è un vecchio detto – scrive Nordlinger – secondo cui l’America è l’unica nazione in cui una donna bianca può mettere al mondo un bambino nero, ma una donna nera non può mettere al mondo un bambino bianco». Si tratta di
Il taxista spiega che la città si estende per chilometri. E dobbiamo credergli. In certe zone la foresta di pini sembra prendere il sopravvento sulle belle architetture razionaliste anni Sessanta. Ma quando ti affacci dal trentesimo piano di un edificio vedi che la township prosegue a perdita d’occhio. Poi, più in là, all’orizzonte c’è il verde che si confonde con l’azzurrino dell’aria frapposta. Atlanta è il posto giusto per capire se l’America è pronta per un presidente nero. Proprio qui dove fu combattuta e persa la guerra civile, prevalsero gli Yankees sui Dixies, proprio qui dove Martin Luther King lanciò la sua battaglia, proprio qui nella città che fu la prima ad esprimere un deputato di colore al Congresso, la prima ad avere un sindaco di colore. Da uno schoolbus giallo scende una scolaresca. Sono tutti bambini afroamericani. Non so se sia una classe ponte in attesa di metterci qualche bianco, oppure una sorta di razzismo all’incontrario. In ogni caso, sono stupendi nella loro rumorosa felicità, poi si allineano uno dopo l’altro dietro le maestre in attesa di visitare il museo.
una “asimmetria culturale” che di fatto ha impedito alla comunità afro-americana di dare vita a leader potenzialmente in grado di aspirare alla presidenza. Jesse Jackson, ma anche Al Sharpton e prima di loro Shirley Chisholm hanno tutti partecipato alle primarie democratiche ma, dice Nordinger, «non stavano davvero correndo per la presidenza; stavano correndo per diventare presidenti dell’America nera». Cosa che ciascuno di loro è riuscito, in qualche modo, ad ottenere. Poi è arrivato Obama, come spiegò il suo vice durante le primarie: il «primo candidato nero articolato, intelligente, pultito e di bell’aspetto». Il prototipo, insomma, di quelli che Sharpton definiva i “negri da cocktail”, non tentando neppure di nascondere il proprio disprezzo. «Per molti anni – continua Nordlinger – molti di noi hanno pensato che il primo presidente nero sarebbe stato un conservatore; qualcuno sulla falsariga di
carta buttata. Gli edifici tirati su nelle splendide geometrie razionaliste. Perfino alcuni muratori che stanno sistemando la strada sembrano partecipare alla commedia dell’ordine e nel silenzio irreale spostano pesanti oggetti. Qui la provincia americana, culla del melting pot sfrenato, sembra un cantone della Svizzera tedesca. Cinque milioni di abitanti e non un rumore di troppo. A cento metri da midtown, dagli hotel più chiccosi, dalle strade trafficate, un quartiere di basse ville, coi giardini rasati e senza steccati, con gli scoiattoli che saltellano sul prato. Puoi camminare in mezzo alla strada e attraversare fuori dalle strisce senza timore. Ad un passo carraio, un camion fa retromarcia per lasciar transitare i pedoni. Non so se sia frutto del capitalismo, che noi disprezziamo, questo modo di vivere così educato: ne è convinto il grasso taxista camerunense che mi dice che no, non voterà Obama, “io non sono socialista - ride un po’ sguaiato - sono capitalista”. Anche Rositza, una signora che proviene dalla Bulgaria e fa di mestiere la cameriera al Four Seasons, cerca di spiegare nel suo stentato inglese che l’America non è pronta per Obama. Forse
Qui la provincia americana, culla del melting pot sfrenato, sembra un cantone svizzero. Cinque milioni di abitanti e non un rumore di troppo
Qui tutto è allineato. Gli alberi che sembrano finti, anche adesso che il maturo autunno ne colora le foglie. I marciapiedi puliti senza neppur una
speciale • bye bye bush Clarence Thomas. E pensavamo la stessa cosa della prima donna presidente. Sarebbe stata una conservatrice come Margaret Thatcher. Ma il 2008 ha smentito tutte queste teorie». Ma un candidato nero e conservatore sarebbe stato considerato “autenticamente black” dal mondo liberal?
Sopra, Sarah Obama: la “nonna nera” del senatore democratico e candidato alla presidenza Barack
O avrebbe subito la stessa sorte a cui è andato incontro proprio Clarence Thomas, la cui nomina alla Corte Suprema fu contrastata violentemente proprio dalla comunità afro-americana? E quanta parte dell’America nera ha colto la straordinaria novità della nomina di Condoleezza Rice al vertice del Dipartimento di Stato? Donna e nera (nera sul serio, non come Obama), sarebbe dovuta essere accolta dalle grida di giubilo di tutto il gotha del politicamente corretto – almeno in teoria – ma le mancava una caratteristica essenziale per ottenere questi onori: non era una donna nera “di sinistra”. E per questo motivo, soltanto per questo motivo, il mondo liberal non l’ha mai considerata né una donna né un membro a tutti gli effetti della comunità nera. Un nero un po’“sbiadito”come Obama, invece, è stato subito considerato come “The One” (Oprah Winfrey) o “il Messia” (Louis Farrakhan). Perché era uno di loro e non uno “zio Tom” venduto al mercante di schiavi bianco (com’è stata più volte etichettata la Rice). «I repub-
Viaggio nella“Deep America”
Nell a c i ttà dov e n ac q ue il so gno di Lut her K ing: «No n s ia m o pro nti per un p residen te nero » di Angelo Crespi in futuro. Ma adesso meglio McCain. Lei d’altronde interpreta bene l’american dream che resiste anche con l’attuale crisi economica. Un tempo ingegnere civile ora spazza le camere in hotel, ma è orgogliosa che anche la figlia si è laureata ed ora è assunta nella Silicon Valley: “In Bulgaria lavoraro, lavoravo, ma non avevo mai soldi”. È difficile capire perché in Italia molti odino l’America. La destra estrema e la sinistra, fanno l’errore del Duce che volle dichiarare guerra agli Usa senza esserci mai stato, oppure di Togliatti che preferiva l’Hotel Lux di Mosca al Plaza di New York. Se uno invece lasciasse perdere Hollywood e si attardasse negli Stati meno cono-
sciuti, si accorgerebbe che l’America è l’Europa che non abbiamo mai avuto, una sorta di mito che nel fondo presagiamo come possibile: ordinata, ospitale, perfino ingenua, pragmatica, convinta dei propri valori fino al punto di combattere per essi. Quando plani all’Hartsfield-Jackson International Airport, il più trafficato del pianeta per numero di passeggeri, tutti ti raccontano la stessa storia. Atlanta è la città della Delta, della Coca Cola, della Cnn, della Ups. Città ricca, al centro del mondo. D’altronde Cnn, fondata nel 1980, è forse il più influente network informativo del pianeta, a cui sono collegate oltre 90 milioni di famiglie e 890 mila camere
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blicani – scrive Nordlinger – si trovano ora in una posizione terribile, anche mettendo da parte da crisi finanziaria e l’impopolarità dell’amministrazione Bush. Sono l’unico ostacolo sulla strada della ‘storia’, visto che vogliono impedire l’elezione del primo presidente nero. E questo è il ruolo, molto sgradevole, dei guastafeste. Se voto per McCain/Palin, mi toccherà indossare la grande lettera scarlatta ‘R’ riservata ai razzisti?». Qualcuno, naturalmente, ha già risposto affermativamente a questa domanda. Ad agosto, il direttore di Slate Jacob Weisberg, scrisse un editoriale il cui titolo era “Se Obama perde. Il razzismo è l’unica ragione perché McCain possa batterlo”. Si può essere più espliciti di così? Si tratta di una lezione che la destra americana è stata costretta ad imparare durante tutta la campagna elettorale. McCain accusa Obama di essere “socialista”? “Socialismo” diventa un epiteto razzista. La Palin prende in giro i community organizers nel suo discorso alla convention repubblicana? Razzista. Proprio come “razzisti” erano stati Hillary e suo marito Bill nelle fasi più concitate delle primarie democratiche. Nessuno, ricorda Nordlinger, ha accusato gli
elettori del Maryland di essere razzisti quando, nel 2006, hanno bocciato la candidatura del repubblicano nero, Michael Steele, al Senato.
E perché la stampa si è eccitata moltissimo, nel 1989, quando Douglas Wilder in Virginia sarebbe potuto diventare (come accadde) il primo governatore nero dopo la Reconstruction, mentre nessuno si eccitò quando – qualche anno prima – poteva accadere la stessa cosa con William Lucas in Michigan? Semplice: il primo era democratico, il secondo repubblicano. Nordlinger continua poi a snocciolare una serie di episodi della storia recente degli Stati Uniti che da soli varrebbero l’abbonamento a vita alla National Review. Ma il nodo della faccenda è semplice da spiegare. La razza è un elemento cruciale nella politica statunitense. Il problema è che la frattura “razziale” non è soltanto quella tra neri e bianchi, ma anche quella tra donne e uomini, e tra liberal e conservatori. E soltanto a chi capita di stare dalla parte “giusta” della terza barricata si merita il sostegno delle élite culturali e mediatiche che, di fatto, governano l’America. Una bella fortuna per Barack Obama.
McCain rischia di indossare la brutta maschera del guastafeste. Un ruolo che non piace a nessuno
d’albergo. Il quartier generale è un edificio immenso il cui pavimento interno rappresenta il globo. Il Cnntour dura un’oretta e puoi vedere dai vetri le redazioni che macinano notizie e influiscono sulla nostra percezione delle cose. Cnn e Coca Cola, pensare e bere, questa è Atlanta. Ad Atlanta molti votano McCain. Forse qui vincerà McCain. Lo staff dell’High Museum of Art al contrario preferisce Obama. Tutti gli intellettuali del mondo preferiscono Obama. Più giovane, più energico, vincente. Soprattutto all’estero, da noi in Italia, vorremmo prevalesse Obama. Giusto per fortificare il nostro pregiudizio del sogno americano, di una nazione progressista che sa evolvere dal di dentro. McCain invece è troppo vecchio, troppo americano, troppo conservatore, troppo eroe di guerra per piacere al jet set della cultura e della comunicazione. L’ultimo sondaggio del New York Times lo dà spacciato: l’80% degli intervistati è convinto infatti che Obama alzerà le tasse ai grandi business, il 54% che Obama migliorerà l’economia, il 66% che allargherà le coperture sanitarie a più persone. La campagna elettorale più costosa di tutti i tempi, one billion dollars, è finita. Oggi, come al solito di martedì, gli americani andranno a votare. Obama ha speso 640 milioni di dollari per convincere l’America che lui è la persona giusta. Intanto nel Mall più chic di Atlanta c’è il deserto. Rari clienti
camminano tra le luci dei negozi. Da BrookBrothers c’è un solo acquirente che sonda il prezzo di una camicia. Abercrombie & Fitch è vuoto. La crisi si sente, fin nella provincia più ricca. Tutti aspettano l’election day e molti vedono Obama come il nuovo. Ad Atlanta il sole si alza sonnecchiando su questo primo novembre. Anche oggi non c’è una sola nuvola nel cielo azzurro. Questa è la città dove Marthin Luther King crebbe il suo sogno, dove l’integrazione sembra perfetta, e forse non lo è, le strade pulite, anche le persone di colore hanno introiettato i valori della vecchio Sud e oggi sono più americani degli americani, Gentlemen of the Deep South, Gentiluomini del Profondo Sud.
Michelle Lewis è una giovane ranger che pattuglia il Martin Luther King Memorial. Dentro il museo immagini di repertorio in bianco e nero ripercorrono la brutta storia dell’apartheid. Lei fuori ci racconta i problemi dell’integrazione. Il suo essere fiera della divisa, suo padre militare, il suo stipendio onorevole: 54 mila dollari all’anno, lordi. E’ una bella ragazza di colore, i denti incredibilmente bianchi e la lingua rosata che s’intravede mentre impartisce una piccola lezione di educazione civile. Questa è l’America. Ovviamente Michelle voterà per Obama. Chissà quanti come lei “hanno un sogno”. Chissà se questo epocale cambiamento partirà proprio da qui.
cultura
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La Grande Guerra. Soffrirono, faticarono, morirono. Ma i soldati italiani si comportarono con assoluto e indiscusso valore. Fino alla fine
Il giorno della Vittoria Il 4 novembre 1918 rappresenta, più di qualunque altra data, il compimento dell’Unità nazionale di Massimo Tosti differenza di quanto avvenne in altre occasioni della sua vita (nelle quali si mostrò colpevolmente incerto e indeciso), Pietro Badoglio in quella circostanza fu fermo e determinato. Tenne «un atteggiamento dignitoso ed energico». Fece la voce grossa, puntò i piedi, non cedette di un millimetro. Badoglio, allora generale e vicecapo di Stato Maggiore delle Forze Armate italiane, fu incaricato di guidare la delegazione italiana che – a Villa Giusti, vicino Padova – trattò la fine delle ostilità con gli austriaci, ai primi di novembre di quel fausto 1918. L’epilogo lo vide protagonista assoluto. Ecco come lo raccontava, nel 1936, Ugo Caimpenta (in una biografia ormai introvabile): «La discussione, siccome i delegati austriaci insistevano nella loro tesi, divenne concitata e il generale Badoglio, alzatosi in piedi, con voce ferma e decisa faceva presente che non l’Intesa, ma l’Austria aveva chiesto l’armistizio e che se l’accettazione delle clausole non fosse stata pronta, l’Esercito italiano continuando le operazioni avrebbe fra qualche giorno imposto delle condizioni ben più onerose».
A
Inflessibile e minaccioso. Era andata esattamente così: dopo la travolgente avanzata delle nostre truppe fino a Vittorio Veneto, la mattina del 29 ottobre si era presentato alle linee italiane in Val Lagarina il capitano austriaco Camillo Ruggera, latore di una lettera per il comando supremo, nella quale si preannunciava l’arrivo del generale Viktor Weber von Webenau con la richiesta di armistizio. Weber giunse nel pomeriggio del giorno seguente, ma non fu ricevuto per un difetto di credenziali. Finalmente, il giorno successivo (31 ottobre) la delegazione austriaca – guidata da Weber, e composta dal colonnello
colonnello Vidossich, dal tenente colonnello Seiller, dal capitano di fregata principe del Liechtenstein, dal capitano di corvetta Zwierkowski, dal tenente colonnello Nyethegji e dal capitano Ruggera – fu ricevuta nel Quartier generale di Abano.
Al negoziato di Villa Giusti presero parte (da parte italiana), oltre a Badoglio, il maggiore generale Scipione Scipioni, i colonnelli Tullio Marchetti, Petro Gazzera, Pietro Maravigna e Alberto Pariani, il capitano di vascello Francesco Accinni e il capitano Trenner (cognato di Cesare Battisti) in qualità di interprete. La determinazione di Badoglio a Villa Giusti – nel rispetto del mandato ricevuto dal comandante supremo delle forze armate, generale Armando Diaz – offrì dell’uomo un’immagine diametralmente opposta a quella che lo stesso Badoglio, capo del governo, mostrò il 7 settembre 1943 al generale americano Maxwell Taylor, giunto clandestinamente a Roma per organizzare un lancio di paracadutisti sulla capitale alla vigilia dell’annuncio dell’armistizio, già firmato 4 giorni prima a Cassibile. Badoglio lo ricevette in pigiama e vestaglia.
bito la città e vi insedieranno un regime fascista». Chiese una proroga per l’annuncio, che – da Algeri – Eisenhower negò. Parti invertite, rispetto a 25 anni prima, e atteggiamento opposto. È più facile vincere che perdere. Nel 1918 l’Italia vinse. L’armistizio con gli sconfitti fu firmato il 3 settembre, alle ore 18,30 (con tre ore e mezzo di ritardo sul previsto). Il cessate il fuoco avrebbe avuto effetto alle ore 15 del giorno successivo, con l’annuncio ufficiale. Nel resto d’Europa la pace arrivò una settimana più tardi, con l’armistizio di Compiègne, che pose fine al conflitto sul fronte occidentale. Il bollettino della Vittoria – firmato da Armando Diaz – si conclude così: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disce-
Sopra, la “Firma dell’armistizio a Villa Giusti” di P. Francesco Cinelli. A sinistra, il generale Armando Diaz e, a sinistra, un’immagine del bollettino datato 4 novembre 1918 a sua firma. Nella pagina a fianco, un ritratto della regina Margherita. La casa editrice Le Lettere ha ripubblicato, nella Piccola Biblioteca di Nuova Storia Contemporanea, la biografia di Manlio Lupinacci (a destra, la copertina del libro)
La storiografia l’ha ormai accolta quasi in modo unanime: fu l’ultima guerra d’Indipendenza. E il quesito se sia valsa la pena di entrare nel conflitto trova ormai una risposta pressoché obbligata. Sì, ne valse la pena so con orgogliosa sicurezza». Dal Trattato di pace, firmato il 29 giugno 1919, l’Italia ottenne meno di quel che si attendeva e – soprattutto – meno di quel che le era stato promesso all’inizio della guerra, nel Trattato di Londra, proprio allo scopo di convincerla a schierarsi con le potenze dell’Intesa contro Austria e Germania. Le furono negate Fiume e la Dalmazia, ma ebbe Trento e Trieste. Si chiuse così, in modo definitivo, la pagina del Risorgimento, aperta settanta anni prima con le guerre d’indipendenza. «Le nostre truppe», farfugliò al suo interlocutore, «non sono in grado di difendere Roma. Se l’armistizio viene annunciato ora, i tedeschi occuperanno su-
I soldati italiani si comportarono con grande valore durante la Grande Guerra. Soffrirono, faticarono, morirono. Alla fine
della guerra si contarono da parte italiana 650mila caduti, 947mila feriti, 600mila fra prigionieri e dispersi. Le settimane e i mesi trascorsi in trincea, in mezzo al fango, misero in luce lo spirito di sacrificio e il coraggio dei nostri uomini. Non altrettanto si può dire per lo Stato Maggiore. Giulio Dohuet, storico militare, calcolò che durante la guerra erano stati rimossi 983 alti ufficiali: questo creava uno stato di insicurezza a tutti i livelli di comando. E quando un generale veniva chiamato in causa, e sapeva di rischiare il posto, scaricava le colpe sui suoi inferiori. Accadde anche dopo Caporetto, la disfatta dell’infausto autunno 1917. Alla fine fu rimosso il numero uno, il capo di
Stato Maggiore Luigi Cadorna, sostituito da Armando Diaz. Ma in quei giorni molti furono chiamati in causa per non aver retto l’urto nemico (fra gli altri, lo stesso Badoglio). Alla vigilia dell’entrata in guerra, Giovanni Giolitti (che per anni era stato capo del governo) espresse le proprie perplessità riguardo alle capacità belliche del nostro Paese: riteneva che i soldati non fossero sufficientemente motivati e gli ufficiali superiori fossero tecnicamente impreparati.
Le valutazioni di Giolitti non erano campate in aria. In quasi settant’anni di storia e di battaglie (fra il 1848 e la Grande Guerra), i comandi militari piemontesi (prima) e italiani (poi) avevano fornito scarse prove di efficienza e di capacità strategica. Nelle tre guerre di indipendenza il nostro esercito ottenne una sola importante vittoria (a San Martino nel 1859), agevolata dal contemporaneo
cultura
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Vizi e virtù. La regina Margherita nella biografia di Manlio Lupinacci
La prima dama di Roma fra cardinali e cortigiane P
er Roma – che pure è capitale dalla notte dei tempi – rappresentò una novità assoluta. Una principessa e poi una regina. Non era mai accaduto. La città «aveva visto, nelle sue vicende millenarie, fra pontefici epicurei e cardinali guerrieri, fra conquistatori e tribuni, anche cortigiane sontuose, e regine esuli che con quelle avevano gareggiato: ma per la prima volta adesso le veniva imposto o proposto il regno di una donna».
successo dei francesi a Solferino, sullo stesso terreno di scontro. Molti capi di Stato Maggiore furono esautorati e uno (l’ammiraglio Persano) fu addirittura degradato dopo la sconfitta di Lissa. Ad Adua, nella prima impresa coloniale italiana, non andò meglio. In Libia, i nostri militari non riuscirono a conquistare con la necessaria rapidità quello che Gaetano Salvemini definì «un immenso e inutile scatolone di sabbia».
La vittoria del 1918 maturò soprattutto in conseguenza del disfacimento dell’Impero Austro-Ungarico. I cechi, gli slavi meridionali e i polacchi dichiararono – proprio in quei giorni – la loro indipendenza e si schierarono al fianco degli alleati. Lo stesso fecero, nell’ultimo momento utile, i rumeni. Persino gli ungheresi proclamarono la repubblica. L’esercito che combatteva ancora contro gli italiani non era più sorretto alle spalle da uno
Stato. Non si sapeva più in nome di chi combatteva, e per che cosa. Quando Armando Diaz decise (il 24 ottobre) di sviluppare la sua offensiva dal Piave in direzione di Vittorio Veneto, le sorti della guerra potevano apparire già segnate. In quattro giorni il fronte austriaco fu sfondato. Era fragile, fragilissimo. Ma il fatto che la prima resa degli imperi centrali fu chiesta e firmata sul fronte italiano, dimostra che i nostri soldati si comportarono con grande valore, suscitando l’ammirazione degli alleati, ampiamente documentata dagli encomi che arrivarono da tutti i Comandi.
Fu in quei giorni – nel fango delle trincee – che si cementò l’unità nazionale. La storiografia ha ormai accolto quasi in modo unanime la definizione della Grande Guerra come ultima guerra d’Indipendenza. E il quesito se sia valsa la pena di entrare in guerra, un anno dopo l’esplosione del conflitto, trova ormai una risposta pressoché obbligata. Sì, ne valse la pena. Nonostante il tributo altissimo di sangue, nonostante le delusioni patite a Versailles, al tavolo della pace. Nonostante la vittoria “mutilata” dal Trattato dal quale non ottenemmo tutto quel che si attendeva. Nonostante la crisi degli anni successivi che favorì l’avvento del fascismo. Il 4 novembre – a novant’anni dall’armistizio – rappresenta ancora, più di qualunque altra data del calendario il compimento dell’Unità nazionale.
La regina Margherita, moglie di Umberto I, sul trono dal 1878 al 1900 quando Umberto fu assassinato a Monza dall’anarchico Bresci, e poi regina madre (amatissima dagli italiani) per un quarto di secolo, fino alla morte (a Bordighera) nel 1926. Il racconto della primazia è di un grande giornalista, Manlio Lupinacci, che si cimentò come biografo della sovrana quando il ricordo era ancora vivo, una quindicina di anni dopo la sua scomparsa. Poi rinunciò al progetto, lasciando ai posteri soltanto un breve saggio che viene adesso pubblicato nella Piccola Biblioteca di Nuova Storia Contemporanea della casa editrice Le Lettere (La Regina Margherita, 74 pagine, 9,50 euro), insieme con un altro saggio dedicato a Una crisi parlamentare sotto re Umberto. Lupinacci era un liberale e un monarchico convinto. Scriveva articoli colti e acuti sulle pagine del Corriere della Sera, era nel giro stretto delle amicizie di Giovanni Malagodi, frequentava i salotti romani, quelli che non avevano ancora ceduto all’assalto del“generone”. Era un signore d’altri tempi, Lupinacci, con un tratto aristocratico e demodé, ma con una straordinaria capacità di cogliere (sia pure con un’ombra di disgusto) il mutamento dei tempi e dei costumi. Morì, sulla soglia degli ottant’anni, nel 1982. La sua ammirazione per la regina Margherita è evidente in ogni pagina del suo saggio, ma sempre sorretta da fatti e circostanze storicamente ineccepibili. Margherita, scrive Lupinacci, «scelse per la sua regalità l’abito più difficile a portarsi: la signorilità. Anche altre regine hanno potuto, come lei, incoraggiare poeti e musicisti», ma «non è qui che bisogna cercare il senso originale del suo fascino e del tipo regale che essa ha creato. È nella maniera lieve e imprecisabile con la quale seppe diventare in pochi anni il primo personaggio femminile, la prima dama di Roma, riconosciuta come tale da tutti e da tutte; nell’abilità di conservare, intorno alle conversazioni del suo circolo privato, la grazia femminile come una atmosfera leggera che tutti respiravano a loro agio, professori celebri, e gentiluomini di corte; nel modo di suscitare, lei, nuora del “sopraggiunto Re”, e con gli scarsi mezzi scenici di una corte costituzionale, quel prestigio che si rifletteva indiscusso, dopo pochi anni di regno, su tutte le dame di palazzo che portavano la sua cifra in brillanti
nei salotti più alteri, da quelli dei patrizi veneti a quelli dei feudatari di Sicilia: nella grazia con la quale ricevendo le signore del terzo stato burocratico, mogli di commendatori con la serva a tuttofare, sindachesse di provincia, trasformava magicamente il loro disagio nella felice baldanza di essere state pure loro gran dame. E soprattutto nell’equilibrio con il quale sapeva esistere come regina anche per il popolano più umile, senza ricorrere né alla facile messa in scena della pompa sovrana, né alla fittizia cordialità a buon mercato di una presidentessa coronata, ma soltanto con quella semplice, e pur preziosa abitudine datagli di vederla passare al trotto rapido della sua pariglia, segnalata da lungi dalle livree scarlatte, per i viali di Villa Borghese nei giorni di apertura al pubblico, per il Corso, per la strada delle Capannelle il giorno illustre del Derby». Un altro giornalista, biografo di Margherita, Carlo Casalegno, fu meno generoso. Scrisse di lei che era «talora pettegola, superficiale, suscettibile, troppo orgogliosa», esprimendo dubbi sul suo spessore culturale, e denunciando il suo scarsissimo interesse per la politica e per gli affari di Stato. E un terzo giornalista di razza (l’interesse della categoria è una riprova di quanto la prima regina d’Italia fosse popolarissima), Domenico Bartoli, propose – a sua volta – un ritratto con luci ed ombre. «Con tutte le sue limitazioni», scrisse, Margherita «resta l’ultima e forse l’unica figura regale dell’Italia moderna. La donna aveva grandi difetti ma, accanto a un marito mediocre, in un periodo agitato e convulso, di miseria e di rivolta, seppe incarnare un mito, consolare molti dolori e illudere molte angosce».
Il senso originale del suo fascino va ricercato nel modo lieve e imprecisabile con esisteva come regina anche per il popolano più umile
D’altronde, a testimoniare l’affetto (se non addirittura la venerazione) che gli italiani le riservarono, più del tributo dei pizzaioli napoletani (che le dedicarono la loro specialità, nella versione senza acciughe), vale la pena di ricordare le lodi di due contemporanei. Antonio Fogazzaro la chiamò «purissima perla di Savoia, amore e vanto del Paese nostro, fiore e lume di ogni gentilezza». Giosuè Carducci la definì «stella ferma, candida, propiziatrice» per la storia d’Italia. Tutta l’opinione pubblica concordò nell’elogiarne la misura regale in occasione dell’assassinio del marito, a Monza, dove abitava anche la duchessa Eugenia Litta, che con il sovrano aveva una relazione di lunga data: Margherita la mandò a chiamare e la lasciò sola, per qualche minuto, a vegliare il corpo del defunto. Fu una regina, nel vero senso della parola, più della nuora Elena di Montenegro. E più di Maria Josè, che non ebbe il tempo di dimostrare la propria regalità, accanto all’ultimo sovrano d’Italia, Umberto II, che fu re soltanto nel mese di maggio del 1946, quando la monarchia si preparava a lasciare l’Italia per l’esilio. (m.t.)
spettacoli
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Torna la cantautrice folk più apprezzata in America. Dopo gli indiscussi successi degli anni passati, Catie Curtis stupisce col nuovissimo album “Sweet life”
icuramente il 2008 non è stato un anno favorevole per l’economia e la politica americana. Ma è stato un anno estremamente fruttuoso per il mondo della musica. Sopratutto al femminile. L’anno di Duffy, Joan Osborne, Lucinda Williams, Jenny Lewis, Shelby Lynne, Tift Merritt, Laura Marling, Sharon Little, Shannon McArdle, Amy Ray, Abigail Washburn, Veda Hille. Per menzionare solo alcune artiste. E Catie Curtis, accattivante personalità della musica folk americana, occupa i primi posti della lista. Sopratutto dopo il suo ultimo album Sweet life in uscita dal 9 Settembre.Tipico mix di introspettiva riflessione, ritmato folk e una voce calda e coinvolgente, l’album viene realizzato a Nashville, dalla Compass Records.
S
Undicesimo album dell’artista, è il risultato della collaborazione di musicisti veterani: George Marinelli alla chitarra, Alison Prestwood al basso, Shannon Forest alla batteria, Phil Madeira e Mark T.Jordan alle tastiere e Erick Jaskowiak alle percussioni. Ad accompagnare la voce di Catie, le voci di Andrea Zonn, Ingrid Graudins, Scat Springs e Jon Randall Stewart. Musicisti già eccelsi e noti per le loro collaborazioni con i grandi del pop e del blues da Bonnie Raitt al country man Emylou Harris, da Mary Chapin Carpenter a altre star della musica internazionale. Un album meno cerebrale dei precedenti. Una Catie meno riflessiva e dai toni soft. Questa volta, suoni nuovi, caldi, radiosi e positivi caratterizzano le sue canzoni. Una sincera emotività incastonata in un album ottimistico in cui arrangiamenti e testi sembrano comunicarsi tra loro un entusiasmo, un’energia coinvolgente e frizzante. Sweet life è un coinvolgente viaggio attraverso le gioie e i dolori della vita. Canzoni aperte, confidenziali, piene di energia e luce, che cercano di cogliere il significato di ogni momento. E trarre la bellezza e la forza interiore anche dalle negatività. Attraverso la musica, Catie invita ad apprezzare quanto di positivo risiede in ogni cosa. La title track inizia con la chitarra acustica, mandolino e tastiere. La cantante sottolinea la necessità di non scordarsi della bellezza e della dolcezza di certi momenti. Nonostante l’amarezza che inquina il nostro animo nel corso della vita. Allo stesso modo la luminosa e ritmata Everything Waiting to Grow conferisce un pizzico di saggezza metaforica, familiare a chi è stato in un deserto. Convinta che prima o poi i fiori sbocceranno e il deserto si ricoprirà di splendida vegetazione. L’ allegoria caratterizza anche Are You Ready to Fly. Lo stam-
Musica Folk. La cantautrice statunitense torna con l’atteso Sweet life
La “dolce vita” secondo Catie Curtis di Valentina Gerace po retrò anni ’70 della band tennessiana lascia il segno in brani come For Now e Lovely. Splendide la languida What You Can’t Believe, ricca di chitarre e tastiere e la cover Soul Meets Body dei Death Cab for Cutie.
Fin dai suoi esordi è stata definita dalla critica una versione al femminile di Tom Petty. Una voce che è un incrocio tra Jenny Lewis, Dusty Springfield
qualcosa dentro. Nata nel 1965 nel Maine, si afferma ai tempi del college prima come batterista e solo in un secondo momento come chitarrista acustica e cantante. A 25 anni si traferisce a Boston e decide che la musica è ciò a cui vuole dedicarsi a tempo pieno. Suona in vari concerti e rinomati festival, tra cui il Newport Folk Festival. Partecipa alle performance di grandissimi artisti come Mary Chapin Carpenter,
re con gli altri. Tutti i suoi album ne sono la prova. I suoi testi aperti, la sua voce calda e coinvolgente e la sua energica e carismatica personalità hanno fatto di lei un mito della musica folk.
Undici album di successo, che si riconoscono per una semplicità, una confidenzialità ma anche per i loro suoni chic, all’avanguardia, resi eterni dal suo toccante falsetto. Dal suo de-
Canzoni aperte, confidenziali, piene di energia, che cercano di cogliere il significato di ogni momento. E trarre la forza interiore anche dalle negatività. Attraverso la musica, invita ad apprezzare quanto di positivo risiede in ogni cosa e Joan Osborne, pur restando unica e inimitabile. I vari dischi da lei incisi in questo decennio hanno evidenziato in modo molto chiaro la sua crescita artistica e in parallelo il suo tentativo di esplorare linguaggi poetici e musicali nuovi, innovativi. Tutti i suoi album sono estremamente onesti, sinceri. Frizzanti nel loro raccontare la vita con un’energia e una positività che non può non lasciare
Dar Williams, Girlyman, Bonnie Raitt e Lilith Fair. La sua musica viene utilizzata per vari film e telefilm come “Alias”, “Dawson’s Creek”, “Felicity”, “Chicago Hope”, “Grey’s anatomy”.
Dal primo momento in cui le è stata regalata la sua prima chitarra, Catie ha sempre visto la musica come un veicolo per avvicinare la gente. Comunica-
butto Dandelion del 1989 al succesivo From Years to hours (1991). Da Truth From Lies (1995), al successivo del 1997 Catie Curtis nominato album dell’anno e vincitore di un Award al Gay and Lesbian American Music. Il 1999 è l’anno di A crash course in roses che contiene il brano What’s the matter, un’aspra critica al suo Stato, il Maine, per non aver accettato la sua omoses-
sualità. Al disco collaborano la cantante Mary Chapin Carpenter e Melissa Ferrick. Nel 2001 è la volta di My Shirt Looks Good On You (2001) una collezione folk-rock che esplora l’amore nella visione idealistica alla Curtis. Canzoni toccanti che percorrono il sentimento amoroso in tutte le sue forme. Dall’amore materno, all’amore sessuale, a quello amicale. Nel 2003 pubblica Acoustic Valentine e From Years to Hours ... The Early Recording. Dreaming in Romance Language (2004) sempre caratterizzato dalla sua chitarra acustica e da un occasionale organo hammond, accoglie delle canzoni catartiche sul mondo e sulla crudeltà di tante cose.Nel suo penultimo disco Long Night Moon del 2006 Catie è affiancata da un ottimo cast di strumentisti come Kevin Barry (che ha suonato con Jonatha Brooke) e Mark Erelli alle chitarre, Elizabeth Steen al pianoforte e da una sezione ritmica eccellente composta da Mike Rivard e John Sands (già batterista di Aimee Mann). Ai cori Mary Chapin Carpenter, Kris Delmhorst, Erin McKeown, e Mark Erelli.
Il racconto di un mondo fatto di passione, speranza e aspirazioni ma anche di rimpianto e tristezza attraverso una scrittura densa di sensibilità che emerge in tutta la sua forza nel suo caldo tono vocale. Parla dell’esperienza della maternità descrivendola come emozionante e stimolante che porta a reagire a ogni ingiustizia e a lottare per migliorare le cose. Long Night Moon contiene il singolo People Look Around, scritto subito dopo l’uragano Katrina con Mark Erelli. Una critica al governo americano distratto da futili tematiche come il matrimonio gay e la guerra invece di preoccuparsi della gente e dei veri problemi, la guerra, la povertà,la libertà dell’individuo. «A volte tendiamo a nasconderci e a non esprimere completamente quello che siamo. Ma la vita è breve. Dobbiamo essere presenti. Non dobbiamo vivere nella paura» esorta la cantante. Catie Curtis oltre a essere un’eccelsa musicista e cantante è anche un’attivista nel campo sociale e della lotta contro i pregiudizi nei confronti delle unioni gay. Ha partecipato a vari concerti per sensibilizzare la gente riguardo ai matrimoni gay e all’importanza di potersi esprimere liberamente in una società bigotta e dominata da rigidi schematismi e convenzioni.
sport duardo Galeano ha proprio ragione: «Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto». E un imprevisto è stato, un lampo improvviso che nessuno avrebbe mai potuto immaginare: domenica sera tragedia e commedia, dolore e gioia sono passati in pochi attimi nei volti di tutti i presenti allo stadio San Siro di Milano ma, soprattutto, nei volti di un campione affermato Ronaldinho (Milan), e di uno che sta cercando la sua di affermazione, Denis (Napoli). La cronaca è nota: un autogol del centravanti napoletano su calcio di punizione dell’asso brasiliano dal sorriso eternamente stampato sul volto e il Milan va in testa al campionato battendo il Napoli. La danza con la quale il campione carioca ha poi avvolto il suo gesto sportivo aveva un involontario gusto macabro. I suoi passi sembravano mossi sul volto perso e affranto del suo rivale, Denis professione bomber.
E
Colpisce e sembra innaturale allora che a segnare, ma nella porta sbagliata, sia uno come lui, uno che di professione fa l’attaccante e i gol, l’oggetto del desiderio di ogni giocatore e di ogni tifoso, la vera ragione sociale di chi pratica questo sport, beatamente seduto in poltrona o sudando sui campi, il gol per l’appunto, dovrebbe consegnarlo a favore dei suoi colori. Ma German Gustavo Denis, uno dei pezzi pregiati del mercato argentino di quest’anno, detto
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L’antieroe della domenica. German Gustavo Denis
Elogio dell’autogol e del bomber a ogni costo di Francesco Napoli
di cui ha certamente la stazza, ma ha messo il piede in fallo, ha avuto uno sgraziato (e disgraziato) salto davanti la sua porta e ha deviato di testa il pallone sotto la traversa. Abile, ma era la sua di porta. Peccato per lui che la profezia tecnica di Gianni Brera preconizzante uno 0-0 quale risultato perfetto di una partita o il sogno di Eugenio Montale che aveva in mente un giorno nel quale «nessuno farà più gol in tutto il mondo» non siano stati realizzati e né sono realizzabili. Come il suo, di sogno, non si è potuto compiere, quello di tenere lontano il Milan così come era prima dell’incontro. Da quel sogno, oggi, certamente si è svegliato. Ancora affranto, probabilmente. Il calcio resta allora per tutti «un mistero senza fine bello», come, parafrasando Gozzano, scriveva il più grande dei suoi cantori, sempre Gianni Brera.
stato in Italia, ma come un emigrante di prua (colui che guarda sembra dietro quando torna alla sua terra) e sperava di poter nuovamente approdare all’America del calcio di questi anni, a quell’Italia che nella sua prima esperienza (al Cesena) era stata decisamente ingenerosa. Arriva quest’anno al Napoli che lo vuole e lo ottiene da un glorioso club argentino, l’Independiente dove nel frattempo Denis si era rifatto muscoli e animo. E Napoli era il solo porto dove potesse approdare: la piazza dove Maradona aveva deliziato il suo popolo con irripetibili giocate (e vittorie), un club ambizioso certo, ma prudente, un amico, Ezqueviel Lavezzi, nuovo idolo dei cuori calcistici partenopei, come partner. Il sogno si rinnesta: il duo d’attacco De-La (Denis-Lavezzi) sulle orme della Ma-GiCa (Maradona-Gordano-Careca) dei tempi di Ferlaino.
Il calcio è una metafora della vita, sentenziò Jean-Paul Sartre. La vita è una metafora del calcio, corresse il filosofo Sergio Givone. Non so proprio chi abbia ragione e per Denis, centravanti sbagliato per una domenica, penso conti davvero poco. E oggi come oggi non c’è neppure un Giovanni Arpino, che fece conoscere all’Italia, regalando Triste, solitario y final ai giovani apprendisti cronisti dei suoi tempi, Osvaldo Soria-
Un destino d’incontro in parte segnato nella prima sillaba dei due argentini, quel De-La che è il diminutivo affettuoso dell’attuale focoso presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis. Denis ha una sembianza apollinea con quel capello biondo, ma una forza erculea in grado com’è di conquistare e tenere palloni, di superare in dribbling con inattesa agilità il suo avversario diretto. E anche domenica sera, con la sua squadra ridotta da un espulsione in 10, si è sobbarcato, novello Enea, gran parte del peso dell’uomo in meno. È andato su e giù per le praterie dello stadio milanese, lottando come un gladiatore
no, ex centravanti in Patagonia e narratore di vicende calcistiche tra i più ironici e sensibili. Forse il più ironico e sensibile. I suoi personaggi, da Constante Gauna a el Gato Díaz (protagonisti del racconto-cult Il rigore più lungo del mondo), da Peregrino Fernández e le sue memorie al figlio di Butch Cassidy arbitro in Patagonia, rappresentano punti di riferimento indiscussi per la poesia di un gesto calcistico. Il grande scrittoregiornalista piemontese avrebbe forse suggerito all’amico Soriano di dare un volto letterario al Denis di Milano, compatriota sfortunato e comunque con un destino eroico da compiere.
Una rete è sempre una rete, anche se nella porta sbagliata: un gesto estremo che nel suo contrario manifesta la propria poesia
Qui sopra e in alto, l’esultanza di Denis, dopo la tripletta contro l’Udinese. A destra, invece, l’autogol di domenica sera a vantaggio del Milan
“El Tanque”, il carrarmato, non ci ha pensato certo e non l’ha voluto, ma come un cingolato senza pietà ha distrutto ogni sogno napoletano residuo tenuto ancora in piedi dalla prodezza del suo portiere in grado di fermare un rigore (generosamente concesso) di Kakà appena un minuto prima. Denis era già
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”Financial Times” del 02/11/ 2008
Una nuova Bretton Woods di Ben Hall e Jean Eaglesham icolas Sarkozy e Gordon Brown hanno avviato una improbabile alleanza in previsione del summit di Washington della prossima settimana (il 15 novembre) dove si dovranno prendere misure di contrasto alla crisi finanziaria mondiale. L’obiettivo del Presidente francese e del primo Ministro britannico è quello di raggiungere un accordo al prossimo G20 negli Usa. Un patto fra i leader dei Paesi avanzati e delle economie emergenti. Un tentativo di ridisegnare l’architettura della finanza mondiale, come era uscita dal secondo dopoguerra: una «Nuova Bretton Woods».
N
I signori Brown e Sarkozy cercheranno, già questo venerdì a Bruxelles, al vertice dei leder dell’Unione europea, un appoggio al loro progetto. Gli inglesi non si aspettano che il 15 novembre si trovi una soluzione per tutti i problemi – neanche per i più importanti – ma sono convinti che serva lanciare un segnale all’esterno, impegnarsi in azioni che possano incominciare a ristabilire fiducia nei mercati disastrati dal terremoto finanziario. Ci sono ancora delle grandi differenze fra le posizioni di Londra e quelle di Parigi, sulla lezione da trarre da questa crisi. L’Eliseo teme che Brown voglia ancora mantenere la mano leggera su normative e regolamenti che non vorrebbe imbrigliassero la City londinese. Mentre fonti ufficiali francesi dichiarano che il miglior risultato che potrebbe scaturire dal summit di Washington, sarebbe la fine del regime di competizione normativo, che oggi esiste tra America, Europa e Inghilterra, e ne derivasse una politica di convergenza. Ma sono anche consapevoli che è improbabile che accada. Su entrambe le sponde della Manica sono con-
vinti che i due leader abbiano messo da parte le differenze di vedute, a favore dell’armonizzazione delle regole, così da potere ambedue cantare vittoria. I francesi affermano che il vertice G20 ha due obiettivi. Il primo è quello di arrivare ad una decisione sugli argomenti di cui si è discusso alacremente, fra legislatori e controllori, nell’anno appena trascorso. In questo pacchetto è incluso un maggior controllo sulle agenzie di rating, nuove “norme contabili di congruità”, più responsabilità per la valutazione degli assetti non legati alla liquidità e delle operazioni di pagamento e quelle premiali delle banche, nella valutazione del rischio. «È arrivato il tempo di impacchettare questa discussione», ha affermato una fonte ufficiale di Parigi.
Il secondo obiettivo è quello di trovare un accordo su alcuni principi guida per la riforma che verrà presa in esame al summit. La Francia vorrebbe ospitare un secondo meeting, in febbraio a Parigi, in modo da poterne discutere col nuovo inquilino della Casa Bianca. Fra i temi principali, ci saranno i cambiamenti nell’architettura generale della finanza internazionale.Entrambe, Francia e Inghilterra, vorrebbero un Fondo monetario internazionale (Fmi) dotato delle risorse necessarie per essere il pronto intervento di ogni emergenza finanziaria. Concentrandosi sulle linee generali della riforma finanziaria mondiale e su argomenti come i paradisi fiscali, molti credono che Brown riuscirà a driblare le questioni più spinose che riguardano la
regolamentazione standard della City. La visione di una riforma del sistema finanziario internazionale di Brown non corrisponde propriamente all’entusiasmo di Sarkozy per un meglio armonizzato sistema normativo europeo. «Ho visto i leader avere un atteggiamento diverso rispetto a quello tenuto solo sei mesi fa» la chiosa di fonte francese che allude al premier britannico. «Ma sono veramente cambiati? Se riuscissimo ad ottenere un accordo che stabilisca che gli interessi generali prevalgono su quelli dei singoli mercati, sarebbe già un grande risultato. Ma non sono sicuro - prosegue la fonte – che raggiungeremo un simile obiettivo».
La crisi ha reso difficile, per il governo inglese, una difesa della City. Il precedente mantra politico della “mano leggera” sulle regole, è stato sostituito dalla difesa di regole “efficaci”. Ma entrambi i principali partiti inglesi sono convinti che il fatto che l’Inghilterra abbia evitato una normativa di controlli più rigida ha dato a Londra un indubbio vantaggio rispetto alla rivale New York. Un vantaggio a cui mr. Brown non rinuncerà facilmente.
L’IMMAGINE
Il mondo è cambiato: la politica italiana non può più influenzare quella del mondo La nostra politica economica non è più determinata da Roma. Pensare che l’Italia possa, da sola,influenzare quello che succede nel mondo, è solo utopia. Acqua calda. Mi limiterò a dire che solo dando più poteri all’Europa, modificando per esempio le norme che limitano l’azione della Bce facendone una vera Fed, potremmo “contare”di più. A voler essere ancora più ottimisti si possono immaginare modifiche del Fmi e dell’Onu. Il mondo è cambiato: nel suo La paura e la speranza,Tremonti ci offre un’intelligente chiave di lettura dell’economia mondiale. La globalizzazione c’è e non è solo negativa potendo consentire un miglioramento di tanta parte dell’umanità. Lavorare a 100 $ al mese è inconcepibile per noi europei, ma è un gran salto di qualità e di apertura per un paese come la Cina. I dollari passeranno poi a 200 e, nel tempo, i suoi abitanti avranno condizioni da “figli di Dio”come noi. Non ho una salda fede con certezze provvidenziali, ma anche da laico spero in un miglioramento della vita degli altri “io”e sono sicuro che questo favorirà pure quella dei nostri figli in termini di libertà, cultura e sicurezza.
Dino Mazzoleni - Gualdo Tadino
DOVE VA IL NUOVO LIBERAL Il nuovo liberal è più bello del vecchio liberal. Più grande, più puntuale, con più notizie e commenti. Si sentiva la mancanza di un quotidiano di approfondimento nell’area di centro. Il problema, ora, è capire dove si deve voltare questo centro: al governo no, perché liberal è di fatto all’opposizione, anche se opposizione moderata e ragionante; a sinistra neanche, perché in fondo da quella parte c’è non solo il primato del dipietrismo, ma anche un cultura post-comunista che il riformismo lo vede con il cannocchiale. Dunque, non resta che restare dove si è, condurre le proprie battaglie volta per volta e attendere di vedere cosa sarà e come nascerà il partitone unico del centrodestra.
Antonio Marotta - Napoli
ROBERTO SAVIANO E LA SCONFITTA NAZIONALE La camorra spara ai ragazzini e lo scrittore anticamorra Roberto Saviano annuncia che andrà via dall’Italia. Il fenomeno della criminalità organizzata è andato da molto tempo al di là del vecchio fenomeno camorristico. Si finge di non sapere che intere aree del Mezzogiorno sono controllate dal crimine e lo Stato è un ospite. La decisione di Saviano è una sconfitta per tutta la nazione: lo scrittore pensava di essere apprezzato dicendo la verità, ma ha scoperto di essere disprezzato. Il vero motivo della sua decisione è questa.
Luca Pellizzari - Milano
NO ALLE PROTESTE VIOLENTI Ciò che sta accadendo fra gli stu-
Tra sacro e profano Questo uccello in realtà è un monaco buddista sotto mentite spoglie e... in trance. Tra un attimo ballerà tra migliaia di persone stando attento a non sbagliare nemmeno un passo, perché per coloro che lo stanno guardando lui è un dio. O meglio impersona in questa giornata di festa (il Tsechu) una divinità protettrice denti estremisti contro la Riforma Gelmini è increscioso e deprecabile. La violenza non è mai ammissibile e quella fra i giovani fa accapponare la pelle. Non ritorna il ’68 con la “fantasia al potere” bensì la violenza di piazza gratuita. Antidemocratiche ed incivili sono le occupazioni abusive delle stazioni dei treni, delle strade e delle scuole. Si contestano i
tagli alla scuola come se questi non ci fossero mai stati con i governi precedenti. Il sottoscritto si batté a suo tempo e continua a farlo contro i finanziamenti diretti ai diplomifici ed alle scuole private confessionali. Lo fece e continua a farlo democraticamente, cercando di spiegare che è uno spreco di risorse in quanto coloro i quali hanno i mezzi per andare
nelle cosiddette scuole private, è corretto che ci vadano a spese loro. Diversa è la questione di chi sceglie di andare alla scuola privata, ma ha un reddito famigliare che non gli consente questa possibilità di scelta. A quel punto si intervenga pure, ma con un semplice bonus scuola sul servizio. ò nessuna protesta.
Luca Bagatin
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dai circoli liberal
Scuola: la libertà che crea il suo ordine Kahlil amatissimo, la scuola si è aperta il 26 settembre. Quando avrò firmato questa lettera tornerò a Neurologia, Educazione come scienza esatta e Storia greca per i giovani lettori, e al Tesoro della lirica americana, nonché alle Poesie brevi di William Wordsworth e all’Atlante completo del mondo più un ricco opuscolo pieno di chiese del Massachusetts; poi agli Elementi di scienza, e ai quaranta libri a dieci centesimi l’uno che ho preso di seconda mano come biblioteca di attrazione per le due o tre debolucce della scuola, il cui basso livello mi dà ansia. È quasi terminato il primo periodo, quando la pressione è più intensa, e ora le cose procedono di nuovo spedite. Ma per un verso anche la fatica sembra far parte di ciò che contribuisce a creare qualcosa di splendido. A un certo grado d’intensità di vita si accompagna un aspetto, un comportamento, come un’esalazione, che coinvolge insegnanti e ragazze. Quasi un sottile Essere, come un giovane fatto di luce, sembra fluttuare a mezz’aria nella scuola. Le altre lo creano, e io lo vedo. La sua presenza è il nostro successo: il lavoro trasformato in estasi, in vita. Naturalmente la scuola non è mai stata così felice e diversa. Tutte le ragazze dicono che è molto più grande benché, a conti fatti, non sia cambiata! Certamente è molto più bella, con imprevedibili migliorie e semplificazioni. È come una corrente di vita lasciata libera, che crea un delizioso ordine per suo conto. Mary Haskell a Kahlil Gibran
ACCADDE OGGI
GUAI ITALIANI Ogni italiano è gravato da oltre 20mila euro di debito pubblico. Lo spreco privilegia il Sud, a danno del Nord: lo Stato versa annualmente 2.111 euro per abitante alla Sicilia, 2.105 alla Sardegna; solo 694 al Veneto e 603 alla Lombardia. L’esercito d’impiegati della regione Sicilia ammonta a oltre 20mila, contro i 3mila del Veneto. L’Italia è stata superata dalla Spagna nella graduatoria della ricchezza per cittadino e, inoltre, è ultima per produttività del lavoro, nella classifica dei 30 paesi più industrializzati. Nel Belpaese sono assai elevati, oltre al debito pubblico, i costi di politica, pensioni e Chiesa cattolica. Circa mezzo milione di persone campa di politica. Alla proclamazione del Regno d’Italia (1861), le province erano 59; ora sono 110 e rischiano d’aumentare (mentre converrebbe abolirle). Sono notevoli la corruzione, l’evasione fiscale e i poteri d’interdizione delle categorie. La giustizia è spesso lenta. Nella pubblica amministrazione in genere si notano carenze ed assenteismo. Gli imprenditori sono oppressi da fardelli burocratici: secondo la Confindustria, sono 49 gli adempimenti annui per lavoro, previdenza e ambiente, per un costo complessivo di 13,5 miliardi. La scuola di massa ha dequalificato gli studi. Alcuni studenti spacciano la scarsa preparazione per lotta al nozionismo. Scarseggia la responsabilità. Con lo spoil system, si moltiplicano i contratti di consulenza, a beneficio di clienti e amici politici. La faziosità si manifesta nella veemente contrapposi-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
4 novembre 1869 Pubblicazione del primo numero della rivista scientifica Nature. 1918 Prima guerra mondiale: il bollettino della vittoria annuncia che l’impero austro-ungarico si arrende all’Italia, in base all’armistizio firmato a Villa Giusti, nei pressi di Padova. 1921 Le Sturmabteilung (o SA) vengono formate ufficialmente da Adolf Hitler. La salma del Milite Ignoto viene inumata nell’Altare della Patria del Vittoriano di Roma. 1922 In Egitto, l’archeologo britannico Howard Carter e i suoi compagni, trovano l’ingresso della tomba di Tutankhamen, nella Valle dei Re. 1948 Thomas Stearns Eliot vince il Premio Nobel per la letteratura. 1960 Iniziano le riprese de “Gli spostati”, con Marilyn Monroe e Clark Gable (per entrambi sarà l’ultimo film). 1995 Dopo aver partecipato ad una manifestazione per la pace nella Piazza dei Re di Tel Aviv, il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin viene ferito mortalmente.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
zione politica; mentre il trasformismo costituisce altra rilevante piaga sociale. I gaudenti considerano la produzione della ricchezza meno onorevole della sua spesa, per scarsa religione del lavoro, mancanza d’etica protestante e predisposizione alla bella vita.
Gianfranco Nìbale - Padova
RIBELLISMO INGIUSTIFICATO DI STUDENTI PRIVILEGIATI Indro Montanelli frenò un adolescente che accampava pretese e diritti, dicendogli che – così facendo – sarebbe diventato un anziano insaziabile. Il ribellismo d’alcuni studenti è ingiustificato: sono infatti dei privilegiati, che beneficiano quasi gratuitamente del servizio pubblico dell’istruzione, finanziato in gran parte da chi utilizza poco tale servizio, ossia dalle famiglie povere a bassa scolarità. Comunque,“scioperi”, manifestazioni, occupazioni e veemenze studentesche risultano rituali ripetitivi, organizzati e pilotati da caporioni e professionisti della contestazione, collegati a movimenti e partiti fortemente ideologizzati.
Lettera firmata
DOCENTI IRRESPONSABILI E STUDENTI STRUMENTALIZZATI Vergogna, amarezza, indignazione: non possono esserci altre parole di fronte al dilagare della protesta del movimento studentesco contro il provvedimento della Riforma scolastica. Una contestazione legittima, ma fin troppo violenta e strumentalizzata da chi forse preferisce in un momento di gran confusione e di crisi economica mondiale alimentare la politica del tanto peggio tanto meglio. Molti studenti nelle diverse città si sono associati alle manifestazioni attraverso forme sicuramente più civili, rispetto a quelle viste a Roma, ma che comunque hanno finito per generare solo caos e troppi disagi al resto della comunità. Nessuno può pensare minimamente di vietare le forme di protesta in un Paese civile e democratico come il nostro, ma ad ogni cosa ci deve essere un limite. Sono giorni ormai che i nostri ragazzi marinano la scuola, non tanto per contestare la Riforma, di cui non conoscono nemmeno i contenuti, ma al sol fine di trascorrere qualche giorno di vacanza in più in un autunno fin troppo “caldo”, tra i silenzi dei docenti. Che il mondo della scuola e dell’Università siano in crisi da tempo non lo apprendiamo solo oggi e chiunque si è trovato ad apportare modifiche o ipotizzato riforme sia da parte di esponenti della sinistra che di centro-destra, sono sempre stati messi in discussione e contestati impropriamente. La cosa che non riusciamo a comprendere è il silenzio delle Istituzioni e della Politica che ancora una volta rischiano di ritrovarsi a gestire una vicenda esplosa in tutte le sue forme senza arrivare ad un punto di mediazione e forse di non ritorno. Credo che ciascuno di noi a cominciare dagli studenti, dai loro genitori e dallo stesso corpo docente si attenda una Scuola capace di formare ragazzi “validi” da inserirli poi nell’organizzazione sociale e nel mondo del lavoro. Ed invece, purtroppo assistiamo da anni a giovani che non studiano, che si applicano poco e che preferiscono vivere nel loro qualunquismo, inascoltati da tutti a cominciare dalle rispettive Famiglie. Sono i “valori”, di una società sempre più opulenta ed egoista in cui i centri Educativi, dalla Famiglia, alla Scuola, all’Università non riescono più ad assolvere al loro ruolo, che sono in profonda crisi. Tra le novità del nuovo Decreto apprezziamo e condividiamo soprattutto il ritorno al voto di condotta, essenziale per formare ragazzi molto più educati, civili e rispettosi del prossimo. Gianluigi Laguardia COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL BASILICATA
UNA STORIA ISTRUTTIVA La Moto Guzzi è sull’orlo del fallimento. Il ragioniere Colaninno avrebbe dovuto salvarla. Ma a quanto pare egli salva sempre solo se stesso. Colgo l’occasione per farLe una domanda: perché non raccontate la storia di questo personaggio? Credo che risulterebbe istruttiva.
APPUNTAMENTI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 2008, ALLE ORE 11, PRESSO PALAZZO FERRAJOLI A ROMA Riunione Nazionale con i coordinatori regionali, provinciali e comunali dei Circoli liberal
Diego Mormorio
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato,Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
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PAGINAVENTIQUATTRO Processi. La Corte Costituzionale ribadisce: sì alla discriminazione
Corea: solo i ciechi possono fare
massaggi di Vincenzo Faccioli Pintozzi
massaggiatori, se vogliono una regolare licenza per svolgere la loro professione, devono essere maschi e non vedenti. Quanto meno in Corea del Sud, dove l’autorità giudiziaria ha mantenuto in vigore un antico testo di legge che limita lo svolgimento della professione ai ciechi. Lo ha ribadito la Corte Costituzionale di Seoul, che in una sentenza datata 30 ottobre dà ragione alle richieste dell’Associazione coreana dei massaggiatori. Questi, dice una legge del 1912, devono essere per forza ciechi. Per vari motivi. La controversia nasce circa un anno fa, quando un pannello composto da massaggiatori abusivi (perché vedenti) si rivolge all’autorità giudiziaria per chiedere l’abolizione del decreto, eredità del periodo coloniale in cui il Paese era sotto l’egida dei giap-
I
ponesi. La richiesta dei vedenti si basa su un articolo della Costituzione che impone la libertà commerciale in ogni sua forma e aspetto: discriminare chi vede, sostengono i massaggiatori abusivi, è un reato.
disabili della vista di mantenere uno stile di vita dignitoso e alla loro portata. Esso difende inoltre la morale e il pudore di chi va a farsi massaggiare. La legge, dunque, deve essere mantenuta».
Questi, stimati in circa 200mila unità, si sono persino riuniti nella capitale per sostenere le loro richieste con un’imponente manifestazione, cui ha risposto una contro-protesta dei non vedenti – circa 7mila in possesso di licenza – che hanno picchettato la Corte Costituzionale durante le ultime fasi del processo. I giudici costituzionali, dopo una camera di consiglio durata più di dodici ore, hanno affermato invece che «il massaggio è, a tutti gli effetti, l’unica occupazione che permette ai
Il governo militare statunitense, che ha governato la Corea del Sud subito dopo la II Guerra mondiale, aveva abolito la legge. Questa è tornata in vigore nel 1963 su richiesta della popolazione, che ha sottolineato al governo l’aumento indiscriminato di una professione che in Asia, sempre più spesso, nasconde un giro di prostituzione illegale. Come accaduto in Thailandia e Indonesia. Un rischio che, limitando la professione a maschi non vedenti, è comunque molto più limitato.