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ISSN 1827-8817 81106

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on devi mai piegarti davanti a una risposta. Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre Jostein Gaarder

he di cronac

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di Ferdinando Adornato QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’era della Grande Mutazione di Ferdinando Adornato a ragione Barack Obama. Con la sua elezione a quarantaquattresimo presidente, gli Stati Uniti si confermano come la terra del sogno, la nazione capace di far diventare semplice l’impossibile. Il mondo si è svegliato ieri mattina con un sentimento diffuso di eccitazione, un contagio di sorpresa e di speranza che oltrepassa politiche, fedi, ideologie. Un pianeta in apnea, segnato da guerre, terrorismo, catastrofi finanziarie, respira oggi l’aria di una Grande Mutazione. Come se l’umanità volesse rompere le sue attuali camicie di forza e incamminarsi lungo il sentiero di una nuova era. Gli Stati Uniti, come spesso è accaduto, indicano per primi la rotta. Abbiamo apprezzato e sostenuto George Bush, la cui presidenza (pur segnata da tanti errori) non è stata affatto quel“tempo orribile”che oggi, con facile e conformistico oltraggio, si dipinge.

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s e g ue a p a g i na 3

Yes, he can Che presidente sarà l’uomo che fa rivivere il sogno americano DODICI

PAGINE SPECIALI SULL ’ELEZIONE DI

GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

213 •

BARACK OBAMA

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Scenari. Le prospettive di un pianeta che vuole andare oltre l’unipolarismo

Il nuovo Occidente Sarkozy in Europa e Obama negli Usa: sta cambiando tutto e l’alternativa non si misura più tra destra e sinistra di Renzo Foa olo una grande nazione, solo una democrazia in salute, solo una nazione da ammirare poteva offrire la prova che gli Stati Uniti hanno dato al mondo nel martedì elettorale, con quella massiccia affluenza alle urne, con l’ondata di voti a favore di Barak Obama, con un’alternanza nella tranquillità, come sottolineato da John McCain nel suo nobile discorso di sconfitto.Va sempre ricordato che questa è l’America, la grande America, sia che venga eletto un democratico come è successo ora, sia che venga eletto un repubblicano, come è capitato quattro anni fa a George W. Bush con un’altra massiccia affluenza alle urne e una quasi analoga ondata di voti. Non si tratta dunque di una realtà a fasi alterne, buona in certe occasioni e cattiva in un’altra, ma di un mondo pulsante e vitale, capace di credere nel cambiamento e nel futuro, capace di riflettere e di correggersi.

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Barack Obama presidente è l’investimento su cui ha puntato in questo 2008 la maggioranza degli elettori. Delle ragioni di questa scelta si è già parlato a lungo, visto che i sondaggi avevano annunciato da tempo il risultato e visto che le primarie, soprattutto in campo democratico, erano state eloquenti. È necessario però ricordarne due, che paiono essenziali. Innanzitutto il bisogno di innovare comunque la classe dirigente, in particolare dopo la crisi finanziaria la cui responsabilità, come sempre accade, viene scaricata su chi in quel momento governa, anche se le cause possono essere più lontane e complesse. E poi la necessità di accentuare al massimo possibile la discontinuità rispetto al più recente passato, scegliendo una figura quasi inedita e rompendo con le dinastie che hanno dominato l’ultimo ventennio e dimostrando oltretutto che anche le minoranze, forse soprattutto queste, appartengono al «sogno americano». E la grande America è anche la nazione che sa promuovere le minoranze, più di ogni altra. Il presidente eletto è stato caricato di molte attese e non solo da chi lo ha portato con il proprio voto alla Casa Bianca, bensì - direi - da tutto il mondo.Toccherà a lui dare delle risposte precise e compiu-

te. C’è un punto su cui sono concentrate le attese: il possibile divario tra la suggestione che circonda il personaggio Obama e la sua reale capacità di diventare il leader di una grande cambiamento. Ieri McCain ha riconosciuto al suo avversario le doti che lo hanno portato alla vittoria e la sua capacità di parlare a tutta la nazione e a toccare tutte le corde. Il che equivale a riconoscergli uno straordinario seguito, potenzialmente più vasto ancora di quello già fissato dal computo dei voti. Ma - e questo è un altro dato importantissimo - a quel che ha detto McCain occorre aggiungere l’entusiasmo con cui è stato accolto il risultato nel resto del mondo. Già, perché proprio di entusiasmo bisogna parlare, a sottolineare che c’è un bisogno più generale di una nuova leadership a Washington, dopo una lunga stagione di logoramento, dovuta all’unilate-

ralismo di cui è stato caricato George W. Bush e agli errori compiuti nella gestione di una guerra comunque giusta come quella all’Iraq di Saddam Hussein e al terrorismo internazionale.

Ed ecco allora l’altra domanda: la grande America che ha dato una prova di unità e di coraggio eleggendo Barack Obama quanto e come sarà diversa, nel mondo, da quella di Bush jr. alla fine tanto avversata, in particolare dall’area progressista? Ma se l’unilateralismo è considerato la parola-chiave a cui far risalire questa avversione, c’è da ricordare la lunga storia di questo fenomeno politico e di potenza, che è iniziato con la crisi del bipolarismo Usa-Urss, che è dilagato con la fine del comunismo e che è diventato pratica corrente perché nessun altro soggetto è riuscito a diventare un protagonista

attivo della vicenda internazionale. Un fenomeno - va aggiunto - che ha coinvolto in egual misura democratici e repubblicani. E quando appunto si parla di unilateralismo più che a Washington occorre rivolgersi altrove, in primo luogo a Bruxelles, che è la capitale politica di un’Europa che da vent’anni a questa parte non è riuscita ad essere protagonista di nulla, se non nella ricerca di un’identità planetaria contrapposta a quella della grande America. Ecco, allora, la lezione: se gli europei volessero davvero aiutare il nuovo inquilino della Casa Bianca, dovrebbero porre al primo punto dell’ordine del giorno una loro maggiore responsabilità planetaria su tutti i dossier aperti. C’è ancora tempo prima di poter prendere le misure del Barack Obama presidente. Per ora ci dobbiamo accontentare - e non è poco – di misurare la forza suggestiva della sua elezione, che ha proiettato in giro l’idea di una vera e propria svolta. Svolta all’interno dell’America certamente, se non altro perché c’è un afroamericano per la prima volta alla Casa Bianca, capace di garantire cittadinanza a milioni e milioni di persone che si sentivano escluse e poi anche perché, in stagioni di crisi profonde, il cambiamento di leadership può diventare qualcosa di molto più grande se si tratta anche di un cambiamento di generazione. E non è un’immagine da poco il fatto che la grande America sia guidata da un uomo che ha meno di cinquant’anni, cioè da una persona che è obbligata a guardare al mondo del futuro. Se il 2008 è l’anno di questa svolta americana - che prenderà davvero forma con l’insediamento di Obama il prossimo gennaio - non va però dimenticato che il 2007 è stato l’anno dell’Europa che ha prodotto la sua grande svolta con l’elezione all’Eliseo di Nicolas Sarkozy, figlio di immigrati ungheresi, e con il dinamismo che egli è riuscito in qualche modo ad imprimere a tutto il continente. Ecco, forse è giusto tracciare un parallelo tra due uomini che sono riusciti a diventare padroni del presente proponendo le suggestioni del futuro, in un percorso in cui - questo va detto e ripetuto fino alla noia - la sinistra e la destra che abbiamo finora conosciuto non c’entrano quasi nulla.

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Le reazio ni nel mondo

BENEDETTO XVI. «Storica elezione». Il Papa ha prima espresso gli auguri al nuovo Capo della Casa Bianca e alla sua famiglia, quindi ha voluto assicurare «la preghiera a Dio per la sua alta responsabilita» ha riferito padre Federico Lombardi. È stata invocata la benedizione di Dio affinché «si possa costruire un mondo di pace, di giustizia, di solidarieta». DIMITRI MEDVEDEV. Una ripresa dei rapporti è ciò che auspica il presidente russo che ha inviato un tele-

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Il mondo si è svegliato come di fronte a una Grande Mutazione

L’impossibile si fa semplice: è il codice di una “new era” di Ferdinando Adornato segue dalla prima Obama abbia surclassato McCain. E perché, in fondo, chi ama l’America, come noi l’amiamo, non poIl nostro habitat culturale corrisponde con convinzio- tesse far altro che sostenere la carta Obama, la ne alle issues del mondo repubblicano americano, il chance di invertire il destino del declino. mondo della “right nation”. Di più: il percorso di liberal è ormai da molti anni affettuosamente intrecciato Nel nuovo tempo del nuovo secolo l’attacco agli con quello dei cosiddetti “neocon” che, a cominciare Stati Uniti è cominciato aprendo a Manhattan, l’11 da Michael Novak per finire a John Bolton e Daniel settembre del 2001, le porte dell’inferno. George W. Pipes, dividono con noi il medesimo “sguardo sul Bush ha ben guidato la reazione. Ha fatto capire al mondo”: progetti, idee, passione culturale, amicizia. mondo che la guerra scatenata da bin Laden riguarNulla di più lontano, dunque, dalla nostra sensibilità dava tutte le nazioni libere. All’inizio è stato ascoltadi quel cocktail di retorica assistenziale e passatismo to. Poi è stato lasciato solo. Ma Bush ha posto alla ideologico dei quali sono ancora ostaggio i democra- storia di questa generazione il primo obiettivo per vitici americani. vere in un mondo di pace: la“libertà globale”. Finchè Ma John McCain non era un candidato giusto. In fon- la libertà e la democrazia non avranno trionfato in do, lo sapevano anche gli amici repubblicani. No, non tutte le aree del pianeta la convivenza civile dell’uha pesato soltanto l’inevitabile handicap di dover co- manità sarà sempre a rischio. E questo resta il suo munque esibire una “parentela” con un Bush ormai contributo, ancora attuale, alla nuova era. Ma queannegato nel mare della disistima. E sarebbe sbaglia- st’obiettivo non era e non è sufficiente. La mondializto immaginare che le politiche proposte da Obama zazione, con il suo carico di potenzialità e di problesiano risultate più convincenti di quelle del “mave- mi, dal clima alla povertà, dall’economia alla morale, rick” dell’Arizona. Da questo punto di vista entrambi pretende di avvistare altri due traguardi: la “responsabilità globale”e “l’amicizia globahanno balbettato ricette approssile”. Non basta, insomma, come mative. pensava Bush, “l’alleanza delle deNo: mai come in queste elezioni, mocrazie” a guidare questo nuovo secolo. Occorre un coinvolgimento fattore decisivo si è rivelata l’evouniversale di tutte le nazioni per un cazione simbolica. McCain era l’ir“nuovo comune patto di responsariducibile eroe del passato ameribilità”di fronte alla storia del pianecano. Obama era la promessa ta. Traguardo che non si potrà ragchance di un nuovo futuro. Obama giungere se non coltivando un temha vinto perché è più giovane, cerpo di nuova amicizia umana. Una to. Ma soprattutto Obama ha vinGrande Mutazione, appunto. E solo to, non «malgrado fosse nero», ma proprio perché nero. La realtà si è capovolta. Il suo un nero del Kenya, diventato presidente della più presunto handicap, il colore della pelle, è diventato grande potenza mondiale, poteva essere in grado di il principale motivo del suo trionfo. Sta tutta qui la praticare questa illuminante utopia. scintilla della Grande Mutazione. L’impossibile che L’impossibile che diventa semplice è dunque la si fa semplice. Il fatto è che gli americani, nel vento dell’attuale tem- sfida che parte dagli Stati Uniti per cercare di conpo storico, avvertono qualcosa in più dei morsi di una tagiare il mondo. È una sfida grande, forse, appuntravolgente crisi finanziaria o dello sfinimento di una to impossibile. Ma è un segnale che, oltre che nella guerra lunga e costosa. Avvertono il rischio del possi- storia, entra nella nostra vita di tutti i giorni, con la bile declino della loro leadership mondiale, della loro disarmante forza della pura energia. Una forza che egemonia strategica, economica, tecnologica, cultura- invita a cambiare, a non rassegnarsi, a non spavenle. Non è certo che il XXI secolo possa ancora essere tarsi delle “speranze audaci”. Un giorno l’imprevista un “secolo americano”. L’Asia rivendica, attraverso elezione di un papa polacco ha cambiato l’umore impreviste performance di primati, una nuova poten- del mondo invitandoci ad “aprire le porte alla speza geopolitica. L’Islam tiene il pianeta per il collo con ranza”. Oggi l’imprevista elezione di un presidente la carota del petrolio e il bastone del terrorismo. L’Eu- nero ci dice che è giusto tentare di rendere sempliropa è attraversata da pulsioni neutraliste e, comun- ce l’impossibile. Non so se Obama ce la farà a “regque, ha ormai lasciato sola l’America nella difesa dei gere”sulle sue spalle il peso della speranza che egli “valori occidentali”. Non è difficile, allora, capire per- stesso ha evocato o se invece si dimostrerà un “apché gli americani si sentano oggi anoressici di passa- prendista stregone”. Quel che è certo è che da oggi to e bulimici di futuro. Non è difficile capire perché il mondo è già cambiato.

È come quando l’elezione di un papa polacco ha cambiato l’umore dell’umanità invitandoci ad «aprire le porte alla speranza»

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ gramma di congratulazioni. «Conto su un dialogo costruttivo con voi - ha affermato - che si basi sulla fiducia e che tenga conto degli interessi di entrambi». ANGELA MERKEL. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, che ha seguito le elezioni americane fino a tardi, ha confessato di essersi fatta svegliare in piena notte, per un aggiornamento sul risultato. Ieri la Merkel ha ripetuto attraverso la tv le congratulazio-

ni per la vittoria del candidato democratico. «I problemi da risolvere sono tanti, a cominciare dalla crisi dei mercati finanziari e dalla lotta al terrorismo, senza dimenticare le questioni della difesa del clima e del commercio mondiale - ha detto la Merkel - ma sulla base della profonda amicizia che c’è tra la Germania, gli Stati Uniti d’America e l’Europa sono sicura che riusciremo a risolverli».

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Documenti. Il testo del primo discorso del neo-presidente. Un forte richiamo a un patriottismo bipartisan

«America, su la testa» Omaggio a McCain e citazione di Lincoln: un manifesto dell’orgoglio americano di Barack Obama e qualcuno, là fuori, ancora dubita del fatto che l’America sia il posto dove tutto è possibile, che si domanda se il sogno dei nostri fondatori sia ancora vivo ai giorni nostri, che si chiede quale sia il potere della nostra democrazia, stanotte ha ricevuto la sua risposta. [...] È una risposta data da giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, bianchi e neri, ispanici, asiatici, nativi americani, omosessuali, eterosessuali, disabili e non disabili. Americani che hanno mandato un messaggio al mondo: non siamo e non siamo mai stati un gruppo di individui o un gruppo di Stati rossi e Stati blu. Siamo, e saremo

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parte di noi non riesce neanche ad immaginare. [...] Al miglior team mai messo insieme nella storia della politica, dico: siete voi che l’avete reso possibile, e vi sarò per sempre grato per i sacrifici fatti. Ma più di tutto, non dimenticherò mai a chi appartiene veramente questa vittoria. Appartiene a voi. Non sono mai stato il candidato più appropriato per questa poltrona. Non siamo partiti con molti soldi o con molti appoggi. La nostra campagna non è nata nelle sale di Washington, ma è iniziata nei cortili di Des Moines [...]. È stata costruita da donne e uomini che lavorano, che hanno donato alla causa quello che potevano, fossero 5 o

gne dell’Afghanistan, che rischiano la loro vita per noi [...] C’è una nuova energia da imbrigliare, nuovi lavori da creare, nuove scuole da costruire, trattati da onorare e alleanze da riparare. La strada per fare tutto questo è lunga. [...] Ci saranno false partenze e ostacoli. Molti non saranno d’accordo con ogni decisione o con ogni politica che vorrò intraprendere come presidente. E sappiamo che il governo non può risolvere tutti i problemi. Ma sarò sempre onesto con voi sulle sfide che affrontiamo. [...] E, soprattutto, vi chiederò di unirvi a me nel lavoro di ricostruzione di questa nazione, l’unico modo in cui si è fatto in Ameri-

Il senatore McCain ha combattuto a lungo in questa campagna e ancora di più e ancora più duramente per la nazione che ama. Ha fatto dei sacrifici per l’America che la maggior parte di noi non riesce neanche ad immaginare per sempre, gli Stati Uniti d’America. È la risposta che ha convinto quelli che per troppo tempo sono stati convinti da qualcuno ad essere cinici, impauriti e dubbiosi a mettere le mani sull’arco della storia e tenderlo una volta di più verso la speranza di un giorno migliore. C’è voluto molto tempo, ma stanotte – grazie a quello che abbiamo fatto – questa elezione in questo preciso momento storico ha cambiato l’America. Poco fa ho ricevuto una chiamata estremamente gradevole dal senatore McCain. Ha combattuto a lungo e duramente, durante questa campagna. Ed ha combattuto ancora di più e ancora più duramente per la nazione che ama. Ha fatto dei sacrifici per l’America che la maggior

10 o 20 dollari. Ha preso forza dai giovani [...] e da milioni di americani che hanno fatto volontariato e organizzato il tutto, provando che - più di due secoli dopo - un governo del popolo, dal popolo e per il popolo non è scomparso. Questa è la vostra vittoria. [...] So che non l’avete fatto per me. L’avete fatto perché comprendete l’enormità del compito che ci aspetta. [...] Sappiamo che le sfide che ci aspettano sono le più gravi della nostra vita: due guerre, un pianeta in pericolo, la peggior crisi finanziaria degli ultimi cento anni.

Anche se stasera siamo qui, sappiamo che ci sono dei coraggiosi americani svegli nei deserti dell’Iraq e nelle monta-

ca negli ultimi 221 anni: mattone su mattone [...]Questa vittoria, da sola, non rappresenta il cambiamento che cerchiamo. È soltanto una possibilità di farlo avvenire, ma questo non può succedere se non torniamo al modo in cui le cose erano. [...] Ricordiamo che, se questa crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, è che non possiamo avere una Wall Street prospera mentre Main Street soffre. In questo Paese, cresciamo o cadiamo come una nazione, come un popolo.[...] Ricordiamo come fosse proprio un uomo di questo Stato ad aver portato per primo la bandiera del partito Repubblicano, un partito fondato sui valori di fiducia in se stessi, libertà individuale e unità nazionale. Sono valori

Bush: «Abbiamo fatto la storia» «Ieri abbiamo fatto la storia»: così ha detto il presidente uscente George W. Bush nel suo primo discorso dopo la vittoria di Barack Obama nelle presidenziali. Bush ha anche garantito che la transizione sarà soft e che il suo successore potrà contare sulla sua «completa cooperazione». «La notte scorsa ho avuto un’intensa conversazione con il presidente eletto Barack Obama. Mi sono congratulato con lui e con il senatore Biden per la loro impressionate vittoria», ha affermato il presidente uscente, che rimarrà in carica fino al 20 gennaio, che ha inoltre riferito di aver invitato Obama e la sua famiglia alla Casa Bianca. «So che milioni di americani saranno pieni di orgoglio nel testimoniare questo momento così pieno di ispirazione che così tante persone hanno sognato così a lungo», ha detto Bush nella sua breve dichiarazione nel giardino della Casa Bianca. «Tutti gli americani possono essere orgogliosi di come le elezioni della notte scorsa abbiano fatto la storia».

che tutti noi condividiamo. [...] Come disse Lincoln a una nazione molto più divisa della nostra, non siamo nemici ma amici. Anche se la passione può averci tesi, non deve rompere i nostri legami affettivi. E, a quegli americani di cui mi devo ancora guadagnare il sostegno, dico: posso anche non aver ottenuto il vostro voto, stasera, ma vi ho ascoltato. Ho bisogno del vostro aiuto. E sarò anche il vostro presidente. A coloro che ci guardano da posti che sono aldilà dei nostri confini, dai Parlamenti ai palazzi, a coloro che sono riuniti attorno alle radio in posti dimenticati del mondo, dico: le nostre storie sono singole, ma il nostro destino è comune. [...] A coloro che vorrebbero mettere il mondo in ginocchio: vi sconfiggeremo. A coloro che cercano pace e sicurezza: vi sosteniamo. [...] Democrazia, libertà, opportunità e una speranza che non può essere scalfita. Questo è il

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ JOSÉ ZAPATERO. Il nuovo presidente degli Stati Uniti avrà nella Spagna un «amico e un alleato fedele». Lo ha assicurato il primo ministro spagnolo, José Luis Rodriguez Zapatero, dicendosi convinto che l’elezione di Barack Obama «influirà sulle relazioni bilaterali» che diventeranno più «intense». Il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq all’indomani della vittoria elettorale del premier iberico, nel 2004, aveva inciso pesantemente sui rapporti tra Washington e Madrid e in questi anni Zapatero non

ha mai avuto alcun incontro bilaterale con George W. Bush. Intervenendo alla Moncloa, Zapatero ha quindi dato atto al candidato repubblicano John McCain di aver ammesso la sconfitta con «un discorso splendido e un atteggiamento esemplare». HOSNI MUBARAK. «Contributo costruttivo per risolvere il problema palestinese» è il contenuto principali del messaggio inviato al neopresidente degli Stati Uniti, da quello egiziano, Hosni Mubarak. «Ci aspettiamo una partecipazione costruttiva da parte sua - scrive Mubarak, secondo quanto riferisce l’agen-

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Storia di un ragazzo nero che divenne presidente

Kenya, Indonesia, Hawaii una vita da leader globale di Riccardo Paradisi l Kenya e il blackberry, le Hawaii e il Kansas, il mito di Kennedy e quello di Martin Luther King: ha ragione chi dice che Barack Obama non è un’altra America ma il senso compiuto dell’America: luogo dell’anima più che spazio geopolitico. La stessa vita di Obama è la trama di un patchwork culturale e politico che fa di lui un presidente globale. Obama è nato a Honolulu, nelle isole Hawaii, il 4 agosto 1961 da padre kenyota e madre americana, del Kansas. I genitori si erano conosciuti e sposati a Honolulu dove si erano trasferiti per inseguire il loro americano diritto alla felicità. Ma dura poco: il padre di Obama, che non regge alle accuse della famiglia di disonorarli mettendosi con una bianca, se ne torna in Kenya lasciando la moglie e il figlio a se stessi. Nel 1964 Ann, la madre di Obama, sposa un manager indonesiano di una compagnia petrolifera.

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vero genio dell’America: che può cambiare. [...] Questa elezione ha avuto molte prime assolute e molte storie che verranno raccontate per generazioni. Ma una che mi rimbalza in testa stasera riguarda una donna che ha votato ad Atlanta. È come gli altri milioni di persone che hanno fatto sentire la loro voce in questa elezione, tranne che per una cosa: Ann Nixon Cooper ha 106 anni.

È nata soltanto una generazione dopo la schiavitù, in un periodo in cui non c’erano macchine per strada o aerei nei cieli. Quando una persona come lei non poteva votare per due ragioni: perché è donna e per il colore della sua pelle. E stasera, penso a tutto quello che ha visto nel corso del suo secolo americano: [...] i periodi in cui qualcuno diceva che non potevamo farcela, mentre qualcun altro incitava gli americani con il loro credo: sì, possiamo. [...] E

quest’anno, in questa elezione, ha toccato con il dito uno schermo, ha consegnato il suo voto, perché dopo 106 anni in America, attraverso il nostro periodo migliore e le ore più buie, sa che l’America può cambiare. Sì, possiamo. America, siamo arrivati lontani. Abbiamo visto molto. Ma c’è molto altro da fare. E così, oggi, chiediamo a noi stessi: se i nostri figli riusciranno a vivere per vedere il prossimo secolo, [...] che cambiamenti vedranno? Che progressi avremo fatto? Questo è il momento di rispondere. [...] Reclamare il sogno americano e riaffermare quella fondamentale verità secondo cui noi siamo uno solo. Che mentre respiriamo, viviamo. E quando incontriamo il cinismo e i dubbi e coloro che ci dicono che non lo possiamo fare, risponderemo con quel credo senza tempo che riassume in sé lo spirito di un popolo: sì, possiamo.

La nuova famiglia va a vivere a Giakarta, in Indonesia dove il piccolo Obama conosce la povertà di un mondo altro da quello conosciuto. Una breve parentesi, perché la madre lo rimanda in Kansas, nella pancia dell’America, dai nonni. In pochi anni – quelli decisivi, che ti danno l’imprinting esistenziale – Barack ha già conosciuto la complessità multiculturale e multietnica, ha vissuto su livelli culturali sovrapposti: è un bambino nero, nato in una famiglia bianca del Kansas, che cresce sulle spiagge di Honolulu per poi conoscere la miseria indonesiana prima di tornare in America. In embrione, a dar retta alla teoria della ghianda dello psicanalista James Hillman, suo sostenitore, in questi primi anni di vita c’è già in nuce avvolta come in una pellicola, la trama della sua mission. Obama ci dà sotto con gli studi ma non senza sbandare: nella biografia scritta a soli trent’anni Dreams From My Father, Obama confessa che in gioventù ha fumato marijuana e tirato cocaina. «È successo a parecchi giovani – scrive – io però ho imparato dai miei errori e sono andato avanti». Si iscrive alla Facoltà

di Antropologia della Columbia University di New York poi si trasferisce a Chicago, per lavorare nel Developing Communities Project, un gruppo di assistenza sociale gestito da una chiesa. Qui aiuta i poveri di South Side, il ghetto nero della città. Ma Obama capisce che l’assistenza non basta: occorre agire a livello politico, più in alto. Punta ad Harvard, dove si laurea. «Appena uscito dall’università fui assunto in una finanziaria, per occuparmi di investimenti e fui sbalordito dal vedermi subito assegnata una segretaria, un ufficio, un ottimo stipendio». Tra i colpi bassi riservati ad Obama c’è anche stato quello della smentita di questo racconto. «Non aveva nessun ufficio e nessuna segretaria – rivela un suo collega di allora – era pagato malissimo come tutti noi e il lavoro consisteva nel tagliare e incollare rapporti economici fatti da altri per presentarli in una cartellina ai superiori». Una piccola bugia, si è detto, per accreditare l’approdo all’avvocatura militante accanto alle vittime della discriminazione come un atto di resistenza alla tentazione del successo privato.

È nato a Honolulu, ha vissuto a Giakarta e in Kansas, ha geni kenyoti. Dalle droghe passa ad Harvard. E finisce a Washington

In questi anni si sposa con Michelle, e ha due bambine. Il salto in politica è del 1996 quando un amico gli propone di candidarsi al senato dell’Illinois. È la sua rampa di lancio per la scalata al partito democratico. Alla convention democratica di Boston nel luglio del 2004 Obama dice di se stesso: «Sono nato a Honolulu, il mio accento viene dal Kansas ed il mio nome viene dal Kenya». Il 28 giugno 2006 tiene un altro discorso dove critica il partito per avere lasciato il monopolio della religione ai repubblicani. Già da mesi la sua candidatura alla Casa Bianca è diventata un’ipotesi molto credibile all’iinterno del mondo democratico: un articolo del dicembre 2005 sulla rivista The New Republica scrive che il 2008 sarebbe il momento in cui Obama avrebbe le maggiori possibilità di vittoria. Obama annuncia ufficialmente la sua candidatura per la corsa alla Casa bianca nel febbraio 2007. Il resto è cronaca. E storia naturalmente.

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ zia Mena - per la realizzazione di una pace giusta, che è la condizione più importante per la sicurezza e la stabilità in Medio Oriente». DESMOND TUTU. L’elezione di Obama alla Casa Bianca è «un evento che segna la storia, che diffonde nel mondo intero la speranza che un cambiamento è possibile e che dice ai neri che l’unico limite è il cielo». Con queste parole l’arcivescovo sudafricano e Premio Nobel per la pace Desmond Tutu ha commentato l’elezione alla Casa Bianca del primo Presidente afro-ame-

ricano. «Abbiamo una nuova primavera davanti a noi e le nostre spalle sono dritte - ha aggiunto - è quasi come quando Nelson Mandela divenne presidente del Sudafrica nel 1994». NELSON MANDELA. Il primo presidente nero del Sudafrica ha inviato una lettera di congratulazioni a Barak Obama, in cui scrive che la sua vittoria dimostra con evidenza che bisogna sempre «credere nel sogno di cambiare il mondo e farne un posto migliore».

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Economia. I proclami “statalisti” della campagna elettorale non hanno futuro: contro la crisi servono nuovi strumenti

Il rischio del protezionismo di Gianfranco Polillo

arà ancora il “secolo americano”? O, dopo aver raggiunto il suo apogeo – un micidiale concentrato di potenza economica, finanziaria e militare – quel mito perderà forza sotto l’incalzare di avvenimenti ancora difficili da decifrare? È stato questo il brivido che ha percorso la defaticante campagna elettorale. Che ha spinto milioni di americani – la più alta affluenza elettorale degli ultimi 100 anni – a dare a Obama, il giovane, una vittoria leggendaria. Con un distacco nei confronti del suo diretto concorrente quasi imbarazzante. Specie se si considera la vittoria striminzita e contestata, negli anni precedenti, di Bush junior: figlio e ombra pallida di George Herbert Walzer. Il 41° presidente americano che ebbe la ventura di assistere al crollo del muro di Berlino e alla scomparsa dell’impero del male.

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Quel brivido, nelle ultime settimane della campagna elettorale, si era trasformato in un incubo. Mentre la più grave crisi finanziaria del secolo demoliva

il mito del mercatismo, facendo emergere le responsabilità di chi – manager e banchieri – avevano approfittato della deregulation per portare a casa guadagni milionari. Nella semplificazione, che è tipica della politica, l’America aveva bisogno di trovare un responsabile. E il partito repubblicano, alla fine, ha pagato anche per colpe che non sono solo le sue. Le responsabilità di Greenspan e del suo lassismo monetario. Quelle di Bill Clinton, reo di aver sottratto le five big – le grandi banche d’affari, tutte fallite o assorbite dalle banche tradizionali – al controllo della Fed ed affidate alle cure, molto meno penetranti, della Sec: l’organismo che controlla la normale attività di borsa. Come se il risparmio non fosse un materiale da maneggiare con cura. Bush, anche a voler essere generosi, ha comunque le sue colpe. Dante Alighieri lo avrebbe considerato tra «color che mai fur vivi»: gli ignavi costretti a girar nudi nell’Antinferno, punti da vespe e da mosconi, perché incapaci di schierarsi a favore del bene o del male. Immagine solo in apparenza con-

traddittoria. Se in politica estera il Presidente era stato fin troppo decisionista – si pensi alla vicenda irachena e alle bufale inventate per portare l’affondo contro Saddam Hussein – sul piano interno era stato eccessivamente accomodan-

Adesso dovrà fare i conti con il colosso cinese e trovare un accordo con le realtà emergenti del grande universo asiatico te. Per Fannie Mae e Freddie Mac, i due grandi carrozzoni pubblici che garantivano i subprime, e per Aig, il colosso assicurativo che ne copriva il rischio, aveva ceduto all’atteggiamento compassionevole. Consentendo loro di alimentare la spirale perversa del debito fino alle sue estreme conseguenze.

I repubblicani hanno pagato tutto questo, con gli interessi. E ora Obama, il giovane, ha il

compito di tracciare una nuova rotta. Che rimuova gli errori del passato e consenta all’America di vivere in un mondo che, nel frattempo, è profondamente cambiato. Non basterà mettere in pratica il suo programma elettorale. Come sempre accade, esso è servito per vincere. Ma il governo è un’altra cosa. Lo è in generale, lo è, ancor di più, in questo specifico frangente: a causa di una crisi che solo, in queste ultime settimane – e non è detto che non vi siano altre sorprese – ha mostrato il suo volto devastante. Con questo scenario inedito dovrà misurarsi il neo presidente. Il primo dato riguarda proprio un elemento centrale del suo programma elettorale: le suggestioni protezionistiche. Riuscirà Obana a mettere in pratica le sue promesse? Ne dubitiamo seriamente. Il mondo di oggi non è più quello degli anni ’30, quando le politiche del beggar my neighbor – tanto peggio per il mio vicino – potevano avere qualche chance. Oggi, la fabbrica moderna, specie nei paesi occidentali, è il punto terminale di una catena di montaggio che non conosce confini.

Il prodotto finale è un assemblaggio di componenti prodotti nei quattro angoli del Pianeta. Interrompere questa catena, significa privarsi di un approvvigionamento strategico. Basterebbe questa considerazioni per comprendere il velleitarismo di ogni posizione isolazionista. Ma per gli Usa c’è qualcosa in più. L’ossigeno, che è indispensabile alla sua sopravvivenza, viene soprattutto dalla Cina. Con i suoi 2 trilioni di riserve in dollari, il valore del biglietto verde dipende dalla benevolenza delle autorità di quel paese. Finora il compromesso ha funzionato. I cinesi avevano le mani libere nell’esportare i loro prodotti, utilizzando i canali della grande distribuzione – Wall Mart è la più grande azienda americana - in quel ricco mercato. In compenso finanziavano il suo doppio deficit: quello della bilancia dei pagamenti e del Governo federale. Grazie a questo enorme riciclaggio, al dollaro veniva garantito un adeguato sostegno che gli consentiva di continuare ad essere moneta di riserva internazionale: con tutti i vantaggi conseguenti. Si può tor-

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ JAAP DE HOOP SHEFFER. «Le sfide e la sicurezza oggi esigono una cooperazione e una solidarietà ancora più forti tra gli Alleati», questo il messaggio del segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer per il nuovo presidente. Ha anche sottolineato l’importanza della cooperazione tra Washington e i suoi alleati europei per far fronte alle minacce attuali. Nel messaggio il rappresentante della Nato afferma che «il legame transatlantico, basato sulla condivisione dei valori che hanno

fondato quasi 60 anni fa la nostra Alleanza, resta essenziale». «Gli Stati Uniti continueranno a giocare un ruolo in questa prospettiva sotto la guida del presidente eletto Obama». ABDULLAH BIN ABDULAZIZ. Il re saudita Abdullah bin Abdulaziz ha augurato ad Obama di poter «affrontare con successo le nuove responsabilita». Ha quindi ricordato le forti relazioni tra Riad e Washington, sottolineando come i due Paesi siano impegnati nel rafforzare i pilastri della stabilità e della sicurezza in Medio Oriente e nel resto del mondo.

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prima pagina nare indietro e, per di più, con un atto unilaterale? È difficile che questo possa avvenire, conoscendo i cinesi. Una politica protezionista che ne bloccasse le esportazioni avrebbe riflessi immediati su quell’economia, che deve, invece, crescere a ritmi sostenuti. Un tasso di sviluppo inferiore al 7% annuo – questo è almeno nelle corde di quella potente burocrazia politica – aprirebbe drammatici conflitti interni di difficile gestione. Che poi questo possa avvenire senza un adeguato negoziato, non solo di tipo economico ma politico – non si dimentichi Taiwan – è cosa che è fuori di ogni realismo. Tanto più che l’America ha bisogno di un afflusso di capitali esteri ancora maggiore.

Le ultime previsioni della Commissione europea indicano che il deficit di bilancio americano sarà nel 2008 pari al 5,3% del Pil, per raggiungere il 9% nel 2010. In compenso, grazie anche alla recessione, quello della bilancia dei pagamenti scenderà dal 4,6 al 2,8% del PIL. Gli americani, quindi, al pari di tutto l’Occidente, per uscire dalla crisi devono consumare meno e produrre di più. Altro elemento che mal si concilia con le promesse elettorali di venire incontro alle classi più povere, con politiche di redistribuzione del reddito. Senza l’aiuto internazionale, quadrare il cerchio diverrà impossibile, aprendo la strada a possibili ed ulteriori fallimenti. Obama non potrà sfuggire a questa logica. Finora la strada individuata è stata quella di sostituire il debito privato – quello medio delle famiglie è pari al 140 per cento del proprio reddito disponibile – con quello pubblico. Alla crescita del deficit federale, infatti, dovrebbe corrispondere – sempre secondo le previsioni europee – un aumento del risparmio privato pari al 3%. Tutto si tiene, come si vede. Ma proprio perché tutto si tiene, l’orgoglio di un tempo non è più moneta corrente. Insomma, si apre una nuova fase densa di incognite e di incertezze. Un compito difficile per il neo-presidente, cui non dovrà mancare l’appoggio di tutto l’Occidente. Che potrà essere dato solo le politiche che vorrà seguire tenderanno ad includere gli antichi alleati, evitando inutili chiusure.

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L’intellettuale neo-con ammette che Obama è un grande leader e gli rivolge due suggerimenti

Aborto e Corte Suprema: non proceda, signor presidente N

on dimenticherò mai il giorno in cui, nel gennaio del 1961, John F. Kennedy prestò giuramento. Stavo seguendo il suo discorso inaugurale nella caffetteria della Harward Law School, quando le lacrime cominciarono a scendermi sulle guance. Ero stato colto di sorpresa; non me l’aspettavo. Era così sorprendente essere testimone dell’elezione a presidente di un cattolico, sembrava impossibile immaginare una cosa del genere in un Paese così protestante. All’Università di Harward un cattolico si sentiva come un uomo dai capelli verdi, una persona bizzarra, ma non più dopo che Kennedy divenne presidente. Per questo, è facile per me immaginare la gioia della popolazione afro-americana. Molti occhi brilleranno di felicità, la gente sentirà crescere nel petto un nuovo senso di orgoglio, realizzazione e dignità pubblica. Si sentiranno apprezzati come mai prima, e questo è il primo grande risultato di queste elezioni, ma cosa comporterà l’elezione di Obama per la politica estera?

tare a termine un programma di assistenza sanitaria pubblica, ma già sotto Clinton un progetto del genere naufragò.

di Michael Novak

Una grande nazione è come una grande compagnia aerea: può cambiare strada solo molto lentamente, un gradino o due alla volta, quindi dubito che l’azione all’estero del Presidente Obama assomiglierà a qualcuna delle sue battaglie e dei suoi discorsi durante la campagna elettorale. Obama ha vinto le primarie democratiche andando a sinistra di Hillary Clinton e di tutti gli altri in politica estera, perché l’ala più attiva e più appassionata del partito democratico è quella sinistra, e solo dopo averla conquistata Obama si è gradualmente spostato verso il centro, rendendo la sua visione della guerra in Iraq a malapena distinguibile, in pratica, da quella del senatore McCain. In ogni caso, la questione di politica estera che ha dominato la stagione delle primarie ha perso presto di interesse, appena è diventato chiaro che la violenza in Iraq stava diminuendo molto rapidamente, e che qualcosa come la“normalità” era sempre più vicina. La stampa ha praticamente smesso di occuparsene perché il suo obiettivo era umiliare Bush, e quando le cose sono cambiate non se ne è più interessata. Riguardo alla politica interna, la vittoria della sinistra nel 2008 comporterà che il Presidente Obama cercherà di rendere gli Stati Uniti più simili a una nazione euro-socialista? Tutti i segnali che ci ha dato da candidato suggeriscono che, entro determinati limiti, tenterà di farlo. In particolare, cercherà sicuramente di por-

Gli Stati Uniti sono una grande nazione con una straordinaria varietà di popoli, regioni, climi e culture. Proviamo a immaginare di tentare di organizzare un unico sistema sanitario continentale che abbracci Germania e Portogallo, Scandinavia e Grecia, Albania e Belgio. È un’immagine che suggerisce quanto difficile sarà gestire un unico sistema sanitario che vada da Washington, dal Maine e dalla Florida fino all’Alaska e all’Arizona, compreso tutto ciò che c’è in mezzo. Gli Stati Uniti sono culturalmente più uniformi dell’Europa, ma sono lontani da questo tipo di uniformità. Inoltre, gli americani non nutrono molto rispetto per gli uffici pubblici. Piuttosto che avere a che fare con un ufficio postale inefficiente, per le questioni importanti preferiscono pagare un po’ di più per avere l’affidabilità, l’educazione e la disponibilità di compagnie private come la Fed-Ex e la United Parcel Service. Il servizio è molto migliore di quello statale. Le due cose che mi preoccupano riguardano una sua proposta del passato e una attuale. La prima è il suo essere stato il più estremo sostenitore dell’aborto al Congresso. Dato che il 35 percento di tutti gli aborti in America sono subiti da donne afro-americane, è sorprendente che in qualità di senatore Obama sia stato un tale difensore dell’istituzione dell’aborto, che dal 1973 ha impedito la nascita di 43 milioni di bambini. Per molti di noi, l’aborto è un abuso di potere ancora più grave della schiavitù, e discutere della “scelta” di abortire un altro essere umano non è moralmente più plausibile che difendere il diritto di “scegliere” di schiavizzare qualcuno. Il secondo fatto preoccupante è la sua promessa di nominare giudici di estrema sinistra, favorevoli all’aborto, alla Corte Suprema. Potrebbe avere tre giudici (su un totale di nove) da nominare durante il suo mandato, e la loro influenza peserebbe sulla nostra nazione per venti o più anni a venire. Questo tuttavia non è il momento di coltivare i forti dubbi su Obama che sono parte della battaglia partigiana degli ultimi due anni. Barack Obama ora è il Presidente di tutti noi, ed è tempo di elogiare la brillante, audace e straordinariamente sorprendente campagna che il Presidente ha condotto. Ha superato molti ostacoli. Ha retto meglio di quanti molti di noi si aspettassero. Merita molte lodi.

Come ai tempi di Kennedy, l’elezione del rappresentante di una “minoranza” produce emozioni impreviste

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ AMR MOUSSA. «Un giorno storico che risponde all’esigenza di cambiamento nell’approccio americano alla questione palestinese». Così il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, ha commentato la vittoria elettorale. Per risolvere il conflitto tra israeliani e palestinesi - ha osservato Moussa intervenendo davanti alla commissione esteri del’Europarlamento, «abbiamo bisogno di una politica americana basata su una mediazione onesta. Abbiamo, senza dubbio, necessità dell’influenza americana, ma occorre che sia riformulata, per

tornare a svolgere un ruolo costruttivo». HUGO CHÀVEZ. Anche il presidente venezuelano, Hugo Chàvez, ha inviato le sue felicitazioni per la sua «storica» vittoria nelle presidenziali, ribadendo il desiderio di un cambiamento nelle relazioni bilaterali e con la regione. «La storica elezione di una persona che ha origini africane - si afferma ancora - potrebbe essere sintomo di un cambiamento di un’epoca nelle relazioni internazionali e della costruzione di un mondo di equilibrio e di pace».

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Transatlantico. I Paesi della Nato che contestavano la dottrina-Bush adesso applaudono Obama, ma presto dovranno schierarsi

L’Europa non ha più alibi La Casa Bianca chiederà più soldati per Kabul e una vera partnership planetaria di Enrico Singer er Barack Obama la priorità delle priorità sarà l’economia: la crisi finanziaria che proprio dagli Usa è partita col bubbone dei mutui subprime, che dalle banche ha contagiato le Borse, le imprese e i consumi e che soltanto negli Usa potrà trovare una chiave efficace di soluzione. Ma subito dopo ci sono le crisi internazionali: i conflitti in Iraq e in Afghanistan, i rischi di nuova guerra fredda con la Russia, lo stallo nel dialogo tra palestinesi e israeliani. La Washington Post ieri ha scritto che «dopo una vittoria dalla portata storica, Obama sarà chiamato a fronteggiare problemi di proporzioni altrettanto storiche» e ha ricordato che «era dai tempi in cui Franklin Delano Roosevelt fu eletto nel 1933, nel bel mezzo della Grande Depressione, che un presidente Usa non è chiamato ad affrontare sfide così importanti fin dall’inizio del suo mandato». E in queste sfide entrerà anche l’Europa. Non tanto perché Barack Obama abbia per il Vecchio Continente un interesse particolare – tra l’altro è il primo presidente americano che non ha un antenato tra i Padri Pellegrini salpati nel 1620 da Plymouth a bordo del Mayflower, né tra gli immigrati europei sbarcati nel Nuovo Mondo nei secoli successivi – quanto perché l’Europa si troverà di fronte un interlocutore al quale sarà più difficile dire di no.

P

Bush il texano, il cowboy dalla pistola facile, il conservatore unilateralista, il teorico della guerra preventiva che ha messo all’indice i Paesi dell’asse del male è stato per molte capitali europee un comodo alibi per prendere le distanze dall’America. L’America di Bush, s’intende. Perché nessuno è mai arrivato a mettere in discussione l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti, tantomeno l’appartenenza alla Nato che ne è l’espressione organica. Ma più d’uno ha rivendicato il diritto - che peraltro è rispettabile e sacrosanto - di criticare le scelte di una Amministrazione americana. Quella di Bush, appunto. Anche se,

alla fine, la confusione tra posizioni anti-Bush e anti-americane è stata inevitabile e ha provocato non pochi equivoci. Adesso, come testimoniano i messaggi di congratulazioni che sono arrivati a Obama da ogni angolo d’Europa, si è come ricompattata una nuova unità transatlantica. Per alcuni governi, in nome di un impegno di solidarietà che non è mai venuto meno e, per altri, in nome della svolta promessa da Barack Obama in campagna elettorale rispetto alla linea Bush. Un cambiamento che ci sarà senz’altro. Ma che sarebbe ingenuo misurare con il metro della politica europea dove spesso alternanza significa capovolgimento di obiettivi e di strumenti.

Gli schieramenti politici americani non propongono valori alternativi, ma diverse strategie per realizzare quel modello di società libera e liberale che è condiviso da tutti i cittadini, siano democratici o repubblicani. Come è testimoniato dalla storia di questo

Lo scatto ufficiale del recente meeting di Parigi del G4: con l’elezione di Obama l’Ue si troverà costretta ad assumersi le proprie responsabilità di potenza globale

Paese che ha eletto presidenti di uno o dell’altro schieramento (18 repubblicani e 19 democratici da quando esistono questi due partiti), ma che è rimasto sempre fedele agli stessi ideali. In politica internazionale, soprattutto. Sulle due crisi più esplosive - Iraq e Afghanistan - Obama si è già pronunciato. Con Baghdad la nuova Ammini-

strazione, che entrerà alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo, ha intenzione di chiudere in tempi brevi il protocollo che già lo staff di Bush stava trattando per un ritiro sostanziale delle truppe nel 2011 «se le condizioni sul terreno lo consentiranno» e per un nuovo status del contingente Usa sulla base di un trattato bilaterale di as-

Il padre della deuxième gauche avverte: si apre una opportunità, bisogna saperla cogliere

«Adesso può davvero finire l’unipolarismo» colloquio con Michel Rocard di Francesca Giannotti

PARIGI. «Rischierò di sembrare banale, ma sì, l’elezione di Barack Obama mi rende felice». Michel Rocard sorride e applaude alla scelta degli americani.A 78 anni, il padre della deuxième gauche francese, il primo dei socialdemocratici, l’ex primo ministro di François Mitterrand poi segretario del partito socialista, è ancora in prima linea, a Bruxelles, al suo posto di eurodeputato. È alla fine del suo terzo mandato e annuncia: «È l’ultimo, non mi ripresento più». Nemmeno l’elezione di un nero alla Casa Bianca, questo nuovo sogno progressista che arriva d’oltreatlantico, riesce a farle cambiare idea?

Innanzitutto non esageriamo. Né sulle virtù taumaturgiche di Barack Obama né sulla fine della mia carriera politica elettiva. Sono fiero di quello che ho fatto in questi anni e ho la ferma intenzione di continuare a partecipare al dibattito delle idee, a scrivere. È un’altra “nuova sinistra” quella che sta arrivando alla guida degli Stati Uniti? Intanto bisognerebbe mettersi d’accordo su quello che significa sinistra. In Europa l’idea è stata a lungo dominata dall’equivalenza con il comunismo. Oggi il comunismo non esiste più. Il vero divario tra destra e sinistra si basa ormai sulla con-

cezione del mercato, tra chi crede alle virtù del mercato e considera un ostacolo, inutile se non dannoso, ogni tipo di regola, e chi sostiene un mercato, ma canalizzato da regole. Obama è certamente nel campo dei regolatori. Sarà per questo di sinistra, o complice della sinistra europea? Questa è un’altra faccenda: bisogna vederlo all’opera e analizzare le sue scelte. Non basta dire che ci vogliono delle regole, bisogna anche vedere quali. Direi che la sinistra, oggi, deve difendere l’idea che la finanza deve essere al servizio dell’economia e non il contrario. Ci sono comunque alcune lezioni che gli europei possono già tirare

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Le reazio ni in I t alia

GIORGIO NAPOLITANO: «È un gran giorno. Siamo profondamente impressionati dall’ineguagliabile prova di forza e di vitalità che la democrazia americana ci ha dato, grazie a una partecipazione senza precedenti alla campagna elettorale e al voto, e grazie alla larghissima adesione a un programma ricco di idealità e di impegni di rinnovamento. Per noi italiani che ci sentiamo intimamente legati sul piano storico e politico, culturale e umano, al popolo americano e agli Stati Uniti d’America, questo è un grande giorno: traiamo dalla sua vittoria e dallo spiri-

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sistenza militare. Osama, insomma, non sarà Zapatero, né Prodi. E per l’Afghanistan è previsto addirittura un aumento dell’impegno militare e politico per battere la rinnovata offensiva dei talebani.

All’Europa Barack Obama si prepara a chiedere - come, del resto, aveva da questa campagna presidenziale? E da questa elezione? È bene sottolineare che queste elezioni americane sono state le prime da quando è esplosa la crisi finanziaria. La crisi ha modificato molti parametri e dunque non è escluso che quello che è successo negli Stati Uniti sia un segnale di quello che può accadere anche in Europa. Con l’elezione di Barack Obama, molti si aspettano una rivoluzione nella politica estera americana e nelle relazioni euro-atlantiche. È così? Obama è prima di tutto un patriota americano. Ma sono convinto che a differenza di quanto avvenuto con l’amministrazione Bush, il nuovo presidente accetterà e cercherà di discutere con il resto del mondo. È la fine dell’unilateralismo, condizione indispensabile per poter elaborare nuove regole collettivamente.

fatto anche Bush - uno sforzo maggiore in termini di soldati da inviare in Afghanistan sotto la bandiera della Nato. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, lo ha anticipato ieri notando che l’Italia ha il terzo contingente, dopo Usa e Gran Bretagna, in termini di uomini e mezzi impegnati. Come dire che le sarà difficile fare di più. Ma che cosa faranno gli altri Paesi europei, quelli che finora hanno ignorato le richieste degli Usa perché era stato Bush a formularle? Dopo ogni elezione presidenziale americana, ci si domanda che cosa l’Europa si può aspettare dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Per una volta, rovesciando il punto d’osservazione, ci si potrebbe chiedere che cosa Washington si attende dagli europei. E in questo caso la risposta è semplice: più cooperazione. Che si tratti della lotta al terrorismo o dell’impegno per convincere il regime iraniano a rinunciare ai suoi piani nucleari o degli sforzi per rimettere in marcia la road map del processo di pace tra palestinesi e israeliani. Molti osservatori americani sono convinti che se fosse stato Clinton, e non Bush, a dichiarare guerra a Saddam, l’Europa lo avrebbe seguito. Forse. Di sicuro Osama bin Laden avrebbe ordinato la strage delle Torri Gemelle anche se alla Casa Bianca ci fosse stato un presidente democratico. Perché il Grande Satana, nella mente di chi vuole la fine dell’Occidente e dei suoi valori, sono gli Stati Uniti e non chi li guida dallo studio ovale. Tra 75 giorni in quella stanza ci sarà Barack Obama e l’augurio che si può formulare oggi è che il suo arrivo faccia cadere gli alibi di chi in Europa non ha ancora scelto da quale parte stare.

Il cambiamento non si riduce però ad una questione di sola forma. Il vero e profondo disaccordo tra l’America di Bush e l’Europa e il resto del mondo è stato sulla guerra in Iraq. Gli altri dossier sono stati “inquinati”da questo dissenso primordiale. È molto probabile che con Obama si riuscirà a discutere con calma di un piano occidentale concertato per mettere fine all’occupazione in Iraq. Il vero problema nuovo, che Bush non ha visto arrivare, è quello della crisi finanziaria. Su questo si aprono alcune possibilità di poter lavorare meglio e soprattutto insieme. Parlo di possibilità: la mia felicità nel vedere arrivare Barack Obama alla Casa Bianca, è la felicità che possono ispirare delle nuove opportunità. Ancora incerte.

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Geostrateghi a confronto sulla futura politica estera

Sulle orme di Bush o cambio di rotta? di Franco Insardà

ROMA. «Una cosa sono le dichiarazioni za di quello che avrebbe fatto McCain, in campagna elettorale, un’altra le decisioni che vengono prese in politica estera». Il generale Carlo Jean, presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica (Csge), si dice convinto che l’elezione di Barack Obama non modificherà le decisioni geopolitiche degli Usa. «I fattori - dice il generale Jean - che le determinano sono di carattere oggettivo, di reazione. I democratici sono tradizionalmente portati a esportare la democrazia e Bush ironizzava su questa propensione del suo predecessore Clinton, ma poi ha fatto lo stesso. Penso che Obama a differenza di Bush spingerà per un rapporto privilegiato con l’Europa rispetto all’Asia, ma dovrà dimostrare all’opinione pubblica americana che si spinge per il multilateralismo». Con il generale Jean concorda anche il direttore della Rivista italiana Difesa, Andrea Nativi: «I margini di manovra sono limitati, quindi non credo che ci saranno cambiamenti sostanziali. La classe media americana è concentrata soprattutto sull’Iraq, dove sono impegnati circa 150mila soldati e Obama, dopo l’iniziale annuncio di voler ritirare subito le truppe, ha stilato un piano che prevede il rientro graduale entro il 2011. Ma, come ha dichiarato, vuole uscire dalla ”distrazione”Iraq per concentrarsi sull’Afghanistan e la lotta al terrorismo. Sarà durissimo con l’Iran per smentire le illazioni della campagna elettorale e molto prudente anche sull’Africa. Dal punto di vista militare è stato già annunciato un ridimensionamento della difesa antimissilistica e una riduzione della spesa militare che farà registrare uno scarto del 10, 15 per cento. Ma ci sarà una crescita quantitativa nel programma delle Forze armate».

tenterà un recupero, utilizzando anche gli alleati europei che da tempo hanno incrementato le relazioni politico-economiche con la Russia». Roberto Menotti, ricercatore di Aspen Institute Italia, sottolinea lo stile differente di Obama rispetto a George W. Bush: «La crisi finanziaria porterà inevitabilmente a scelte più rapide che influiranno sul bilancio della difesa, sulle missioni e sulla ricostruzione in quei Paesi dove gli Stati Uniti sono intervenuti: l’Afghanistan prima di tutto. Ci sono le premesse per un miglioramento, soprattutto per la disposizione ad ascoltare gli alleati europei ai quali, si chiederà un impegno maggiore».

Le opinioni Carlo Jean, Andrea Nativi, Germano Dottori e Roberto Menotti sulle prossime mosse del Presidente Usa

Secondo il professor Germano Dottori, cultore di Studi strategici alla Luiss ”Guido Carli” di Roma, invece ci sarà un cambio di strategia nella politica estera Usa e soprattutto nei rapporti con la Russia. «Mosca è il vero convitato di pietra - dice Dottori - e Obama, a differen-

Anche nel rapporto tra Europa e Stati Uniti ci potrebbero essere dei cambiamenti, visto il gradimento di molti Paesi e leader europei per il prossimo inquilino della Casa Bianca. Sarkozy in testa. «Proprio il presidente francese - sottolinea Andrea Nativi - è l’elemento dinamico di questa Europa che con la sua azione riporterà la Francia nella Nato entro la prossima primavera, abbandonando quello sciovinismo che ha sempre caratterizzato i transalpini». «Sul ruolo della Nato - secondo Roberto Menotti - non c’è da aspettarsi un miracolo. Spero che nel primo anno ci sia uno sforzo perché riprenda la sua posizione nello scacchiere internazionale». Sulla figura e il ruolo di Sarkozy concordano in molti. «Con Obama, ma anche con Medvedev - dice il professor Dottori - ci sono similitudini caratteriali e anagrafiche che possono portare alla modernizzazione della politica. Tra l’altro il presidente francese, in questi giorni, ha ottenuto a Marsiglia un successo diplomatico straordinario per l’Unione del Mediterraneo che apre ottimi scenari sul ruolo dell’Europa nella vicenda mediorientale». Roberto Menotti è ottimista sul futuro di Sarkozy: «lui vuole essere il portavoce dell’Europa e ci può riuscire se avrà il mandato del Vecchio continente, altrimenti potrebbe diventare un problema».

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ to di unità che l’accompagna nuovi motivi di speranza e di fiducia per la causa della libertà, della pace, di un più sicuro e giusto ordine mondiale». SILVIO BERLUSCONI: «Con la vittoria di Barack Obama, nei rapporti tra Usa e Italia non cambia nulla.Abbiamo lavorato benissimo con Clinton, benissimo con Bush, lavoreremo benissimo con Obama. Mi auguro che possa realizzarsi e continuare a realizzare i sogni degli americani che riguardano tutto il mondo.Al nuovo presidente Usa posso dare dei consigli perchè sono più

anziano. Aspetto di farlo quando potrò abbracciarlo». FRANCO FRATTINI: «Siamo convinti, e continueremo ovviamente ad esserlo, che gli Stati Uniti sono e saranno il primo partner internazionale dell’Italia. Con il presidente Obama noi continueremo su una strada di collaborazione e di condivisione, e certamente di sostegno reciproco nelle più grandi regioni di crisi dove l’Italia è fortemente impegnata accanto agli Stati Uniti».

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Ambiente e sicurezza. Le scelte obbligate della Casa Bianca contro i “grandi inquinatori” e i fondamentalisti islamici

Le due spine: clima e Iraq La sua presidenza si giocherà su questi temi e non gli sarà facile mantenere le promesse elettorali di Mario Arpino redo che tutti possano concordare sul fatto che essere Presidente degli Stati Uniti d’America sia l’avventura più straordinaria capace di coinvolgere – o travolgere - un essere umano. Improvvisamente, questa persona si trova all’origine dei sogni e delle speranze, oppure dei timori, delle ansie e delle angosce di una larga porzione dell’umanità. Sì, è Presidente degli Stati Uniti, ma le sue responsabilità, specie nella finestra temporale che si è ormai spalancata sugli eventi globali, vanno ben oltre. È per questo che deve avere una visione coerente e realistica, non già messianica ma comunque globale, del ruolo degli Stati Uniti nell’arena internazionale. L’uomo a cui oggi tocca in sorte questo evento straordinario è Barack Obama. È a lui che oggi tutti nel mondo volgono lo sguardo, chi con preoccupazione e chi con sollievo. Già nel secondo quadriennio del suo predecessore, si era capito che il prossimo Presidente avrebbe avuto il compito probabilmente più difficile tra tutti quelli succedutisi dopo la seconda guerra mondiale. L’America, infatti, pur rimanendo la nazione più ricca e più potente del mondo, non era più potenza egemone. Per la prima volta nella sua storia, la fortezza America era stata violata, e lo aveva fatto un nemico inafferrabile, asimmetrico nei modi, nel credo e nei comportamenti, minaccioso come un for-

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te Stato nemico, ma pur tuttavia non costituito in entità statuale, e perciò non direttamente punibile e non sanzionabile. La guerra contro questo nemico, dichiarata dal precedente Presidente con un discorso alla Nazione di sette minuti, è tuttora in corso. Colpa di ciò, se di colpa si può parlare, va certamente ascritta alla natura del conflitto (ma anche a errori di condotta) provocati, come spesso accade, da errori di valutazione che il “resto del mondo” ha stentato a comprendere, e quindi a giustificare. Ne è conseguita una sorta di calo di credibilità globale dell’intero “sistema America”, il cui ombrello protettivo non è più ritenuto né sufficientemente ampio, né abbastanza impermeabile.

Terrorismo, crisi energetica, Kyoto: ecco le sfide che Obama deve vincere per dare un segnale di forza

Restituire credibilità, speranza e consenso all’esterno e all’interno è, oggi, la prima responsabilità del nuovo eletto. In un suo saggio che risale a tempi non sospetti Richard Holbrooke – che molti lettori ricorderanno come il diplomatico artefice degli accodi di Dayton ai tempi della crisi bosniaca – scriveva che «…le aspettative che il Presidente possa risolvere ogni problema sono ovviamente non realistiche, ma tuttavia queste sono una realtà e con esse egli ha il dovere di confrontarsi». Obama queste aspettative in campagna elettorale le ha alquanto alimentate, rendendo il “sogno americano” il principale fattore di persona-

le successo. Un Presidente di successo – continuava Holbrooke – «deve saper identificare obiettivi significativi e raggiungibili, renderne ragione in modo chiaro davanti alla Nazione ed al mondo, e poi saperli conseguire esercitando una leadership e un’abilità che saranno messe a dura prova da pressioni non immaginabili da chi non ha “provato” a fare il

Gaffe di Gasparri: «Ora al Qaeda festeggerà» Il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri si è reso protagonista di un incidente, ieri, a proposito dell’elezione di Obama. Intervistato dal Gr3 ha detto: «Sul piano della lotta al terrorismo internazionale dobbiamo vedere Obama alla prova, perché questo è il vero banco di prova. Su Obama gravano molti interrogativi. Con Obama alla Casa Bianca al Qaeda forse è più contenta. Credo che l’Europa debba ora assumersi maggiori responsabilità perché non sappiamo cosa farà il nuovo presidente degli Stati Uniti».

Un soldato americano per le strade di Baghdad. Barack Obama ha dichiarato di voler incrementare l’esercito di 65mila unità e di voler rafforzare i marines con altri 27mila uomini Presidente degli Stati Uniti». Durante la campagna elettorale Barack Obama ha dichiarato tutto ciò che vuole realizzare, e ha ottenuto dai cittadini il mandato per farlo. I problemi sono enormi se si pensa ai tempi realmente a disposizione di un Presidente per operare con efficacia: nei primi due anni può realizzare con piena libertà, purchè, come recita la Dichiarazione di Indipendenza, si tratti di azioni «…che siano decentemente rispettose delle opinioni dell’Umanità». Nel secondo biennio è già condizionato, perché di fatto si trova in campagna elettorale per vincere il quadriennio successivo. Il tempo quindi non è molto per, come egli stesso si è espresso, «ricostruire la reputazione degli Stati Uniti nel mondo». Perché ciò avvenga, oltre a mettere mano ai problemi sociali che cominciano ad intaccare la serenità all’interno del Grande Paese, dovrà affrontare subito tre temi di politica estera, economica e di sicurezza che, pur essendo di natura globale, hanno sicure ricadute anche in politica interna. Si tratta della crisi economica, del problema del climate change (protocollo di Kiyoto, etc.) e della guerra al terrorismo. Della crisi econo-

mica non è il caso di continuare parlare, dato che viene analizzata ogni giorno. Dei cambiamenti climatici si parla più raramente, con veemenza ma a singhiozzo, in occasione dei vari Vertici. Virtuale o reale che sia, il problema per gli Usa è anche politico, in quanto la riluttanza a fare la propria parte è senz’altro uno degli elementi che ha contribuito ad alienare all’America molte simpatie. In ogni caso, Obama è obbligato a dare subito un segnale di discontinuità, tanto più che in campagna elettorale ha voluto dimostrare di avere un piano migliore di quello di McCain, con traguardi ambiziosi.

Ora che la campagna è terminata e le aspettative si sono create, è necessario dare presto il segnale che gli Usa sono passati all’azione. La “guerra infinita” al terrorismo dichiarata da Bush il giorno dopo l’11/9 continua ad essere la madre di tutte le guerre. Questo, che è forse il tema di confronto più importante, stranamente in campagna elettorale ha avuto poca attenzione. Non è che i due candidati non avessero a cuore il problema: è noto che, democratici o repubblicani, negli Usa su sicurezza, difesa e

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ GIANFRANCO FINI: «L’importanza storica dell’elezione di Barack Obama non sta solo nel fatto che è il primo presidente afroamericano, quanto nella partecipazione al voto, senza precedenti, di cittadini tradizionalmente indifferenti rispetto alla politica. La democrazia statunitense ha dimostrato di essere un modello difficilmente uguagliabile. Sarà sulle questioni relative alla crisi economico-finanziaria, su un approccio multilaterale alle crisi internazionali e su una maggior attenzione a quanto previsto

dal protocollo di Kyoto che si misurerà il tasso di novità della nuova Amministrazione democratica. A Barack Obama le sincere felicitazioni e gli auguri di buon lavoro di tutta la Camera dei deputati». RENATO SCHIFANI: «L’elezione di Barack Obama come 44esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, rappresenta un elemento di forte novità nella storia di quel Paese amico, e di speranza per un futuro di pace e di sicurezza nel mondo. In apertura della seduta del Senato, il Presidente Renato Schifani ha voluto ri-

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Sarà breve la luna di miele con gli Stati islamici. Poi dovrà fare come Bush

Nessuno si illuda, non è Zapatero di Ayaan Hirsi Ali a nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama avrà come prima cosa una luna di miele con il mondo musulmano: una continuazione, a dirla tutta, della luna di miele che si è goduto in quanto uomo nero elevato ai vertici della nazione più potente del mondo. Ma Obama ha detto di voler trovare e uccidere Osama bin Laden. Ha dichiarato che la frontiera nella guerra al terrore è oggi l’Afghanistan, un posto sicuro per i jihadisti sin dai primi anni ’70, dove vuole mandare altre truppe. In altre parole, continuerebbe la politica di Bush: soltanto, con maggior competenza. Non credo che porterà via le truppe dall’Iraq in 16 mesi, a meno che non voglia vedere i fondamentalisti mentre ballano di gioia. Per dirla in breve, queste decisioni accresceranno la presenza statunitense nell’area, e i danni collaterali che questo provocherà in Afghanistan e nel resto della regione faranno finire la luna di miele di Obama. Questo ricorderà agli islamisti e ai loro simpatizzanti nel mondo arabo che Obama non ha intenzione di essere solidale con persone che hanno il suo stesso colore di pelle, o che provengono dal Kenya. Come comandante in capo, vorrà proteggere come prima cosa gli interessi della sua nazione. Il risultato di questa decisione sarà un rapido declino della sua popolarità. Forse, arrivando ai margini di George W. Bush jr. Sono sicura che molte persone arriveranno a ritenerlo un traditore. Obama ha criticato il suo predecessore per non aver «parlato con il nemico», in particolare per quanto riguarda l’Iran. Dunque, il mondo si aspetta che Obama rispetti tutte le regole del traffico diplomatico, perseguendo ogni via per persuadere il presidente Mahmoud Ahmadinejad e le autorità iraniane ad abbandonare il progetto di costruire una bomba nucleare.

D

interessi nazionali non si transige. Ci possono essere divergenze sui metodi e sui tempi, ma certamente non nel merito. È noto che entrambi i candidati hanno promesso di ricostruire le forze armate, di prendersi miglior cura dei feriti in Iraq e in Afghanistan e di essere più “proattivi” nella difesa di Israele. In ogni caso, Obama non ha certo la tempra di pacifista cosi come questo ruolo è inteso dai nostri instancabili “marciatori della pace”. Anche a costo di deluderli, è bene sottolineare che, se egli ritiene - per esempio - che il governo iracheno verrebbe incentivato nella capacità di risolvere autonomamente i propri problemi interni iniziando un careful (attento) ritiro dei soldati americani, per quanto riguarda l’Afghanistan è invece convinto che, sebbene la soluzione non vada ricercata solamente per via militare, è necessario un sostanzioso incremento delle truppe sul terreno. Con poche truppe non si controlla il territorio e non è possibile alcun efficace intervento di ricostruzione o di pacificazione. Non è improbabile che una delle prime azioni di Obama sia di richiedere anche agli alleati europei e della Nato un sostanzioso potenziamento

delle forze. Lo chiederà Barack Obama, non più George Bush: come saprà reagire l’Europa? Per capire come la pensi Obama in sicurezza e difesa, basti ricordare che, all’inizio della campagna elettorale, aveva detto che «per rinnovare la leadership americana nel mondo, dobbiamo metterci all’opera per rivitalizzare il nostro assetto militare [...] Dobbiamo prepararlo alle missioni future, riguadagnando la capacità di sconfiggere rapidamente ogni minaccia al nostro Paese ed ai nostri interessi [...]Dobbiamo anche considerare l’uso della forza militare in circostanze diverse da quelle di auto-difesa.» Nemmeno il perdente, il repubblicano McCain, aveva osato tanto!

Che dire? L’America di Jefferson, di Lincoln, dei Roosvelt, di Truman, di Eisenhower e di Kennedy è ora anche l’America di Barack Obama. Un antico saggio diceva che solo chi sa far sorgere le più grandi aspettative è in grado di infliggere le più amare delusioni. Noi, invece, auguriamo al nuovo Presidente di riuscire davvero a restituire all’America il suo “sogno”, e a noi un po’ di serenità.

adesso. Questo non lo renderà popolare fra gli iraniani, o fra coloro che si oppongono all’utilizzo della forza militare da parte degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, l’impeto originale della campagna democratica è nato dal ritiro delle truppe dall’Iraq in 16 mesi.

Non ci sono dubbi che, se Obama dovesse rispettare questo impegno, i jihadisti iracheni e del resto del mondo – che leggono la storia nell’ottica di una campagna millenaria contro i crociati – si sentirebbero vincitori. Nel corso della campagna elettorale, Obama ha enfatizzato che il ritiro dovrà avvenire «in maniera responsabile». E questo termine lascia ampio margine all’interpretazione. Non credo che sia responsabile portare via le truppe dall’Iraq in 16 mesi, se non si vuole darla vinta ai fondamentalisti. Il messaggio che ne ricaverebbero gli estremisti islamici sarebbe lo stesso di quello consegnato dal primo ministro spagnolo, Josè Luiz Rodriguez Zapatero, quando ha ritirato le sue truppe dalla coalizione nel marzo 2004, subito dopo le elezioni nel suo Paese: se rimani impegnato a lungo, puoi scacciare e spaventare l’Occidente. Ancora più importante di tutto questo è il consenso che Obama si è guadagnato in patria quando ha detto che gli Stati Uniti dovranno fare a meno del petrolio del Medio Oriente entro 10 anni. E questo scatena diverse, profonde domande sul futuro dell’ordine mondiale liberale. Quando e se gli Usa dovessero effettuare questo strategico ritiro dal Medio Oriente, lascerebbero la regione in mano a Cina e Russia, entrambi affamati di energia. Due governi pronti a venire a patti anche con il più repressivo regime islamico. A differenza di Washington, Mosca e Pechino non si interessano minimamente di democrazia, diritti umani, confini o limiti, fintanto che il petrolio scorre nei loro oleodotti. Gli Stati Uniti possono uscire dal conflitto scatenato in Medio Oriente per tante ragioni. Ma a pagarne il prezzo saranno le popolazioni che vivono nella regione, ed in particolare le donne.

Obama, comandante in capo Usa, vorrà proteggere come prima cosa gli interessi della sua nazione. Non chi ha il suo stesso colore di pelle

Ma quando Teheran si rifiuterà di farlo, nonostante l’eloquenza del nuovo presidente americano, Obama potrebbe essere costretto a usare la forza per convincerla. Così, dopo aver dialogato con l’Iran, ritornerà al punto in cui si trova Bush

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ volgere ad Obama gli auguri più convinti, da parte mia e della nostra assemblea, di buon lavoro». PIER FERDINANDO CASINI: «Ha vinto Obama, viva Obama e viva gli Stati Uniti. Anche se pure McCain rappresentava discontinuità in campo repubblicano. In ogni caso spero nell’ amicizia tra Stati Uniti e Europa: l’unilateralismo non serve, bisogna cambiare visione. L’Occidente ha un’identità comune che comprende gli Usa e l’Europa. Serve quindi “multilateralismo”, perché in questi anni ci sono stati momenti di incomprensione e l’u-

nilateralismo è stato un grande limite di Bush e si è dimostrato sbagliato. Bisogna invece affrontare in altro modo le grandi sfide del millennio, il Medio Oriente, l’Iraq, l’Afghanistan. Le elezioni americane indicano poi sempre una vitalità della democrazia e rappresentano una lezione per l’Italia dove il giorno dopo il voto si parla di brogli.Vedere McCain che si inchina davanti al suo presidente, al suo concorrente è un segno di forza e di grande vitalità».

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a Città del Vento, la Seconda, il Mattatoio, la Città dalle Spalle Larghe, la Città che Lavora, la Bianca, la Città del Lago, del Secolo, il Cuore dell’America… Tra gli innumerevoli soprannomi di Chicago, quello che in apparenza è il più folle ed è invece il filologicamente più corretto è The Big Onion La Grande Cipolla, in contrapposizione alla Grande Mela di New York. Chicago non è infatti che un tentativo di translitterazione in francese dell’algonchino Shikaakwa: “Puzza a Strisce”, dalle lunghe trecce di cipolla selvatica che crescevano lungo il fiume che si butta nel lago Michigan, e che ha poi trasferito il proprio nome all’emporio che per commerciare con gli indiani aveva stabilito poco dopo il 1770 Jean Baptiste Point du Sable. Che poi era un haitiano, figlio di un pirata francese e di una schiava negra, che per farsi accettare si era sposato con una donna algonchina della tribù dei Potawatomi. Un altro gruppo di tribù della zona, sempre di lingua algonchina, erano invece gli Illiniwek, “quelli che parlano in modo regolare”. Ribattezzati in francese Illinois, con un’ulteriore passaggio alla pronuncia inglese avrebbero dato il nome allo Stato dove Chicago si trova, anche se il capoluogo è invece a Springfield; e che ora ha dato agli Stati Uniti il loro primo presidente di colore, e con un pedigree etnico curiosamente variegato almeno quanto quel-

Miti. Tra politica, sport e musica, ritratto di una città-culla di eventi e

L

Sweet hom

lo di quell’haitiano che fu ufficialmente riconosciuto nel 1968 “Padre di Chicago”sia dallo Stato che dal municipio. Ma quella di produrre Presidenti dall’identità territoriale un po’ mobile sembra essere una sorta di specialità locale. Il primo presidente Usa associato all’Illinois, nient’altri che Abraham Lincoln, era infatti sì residente a Springfield al momento della sua elezione, ma era nato nel Kentucky ed era cresciuto nell’Indiana. Ulysses Grant, il secondo, risiedeva nella cittadina di Galena, ma era nato nell’Ohio. Al contrario, era nato in Illinois nel villaggio di Tampico Ronald Reagan, il terzo; ma poi aveva fatto tutta la sua carriera artistica e politica in California.

Una nota dinastia politica dell’Illinois che la Casa Bianca l’ha spesso sfiorata è stata poi quella degli Stevenson: vicepresidente tra 1893 e 1897 il nonno Adlai Ewing I; Segretario di Stato dell’Illinois e candi-

dato alla nomination democratica del 1928 il padre Lewis Green; governatore dell’Illinois tra 1949 e 1953 e candidato democratico sconfitto alle presidenziali del 1952 e del 1956 il figlio Adlai Ewing II; senatore dell’Illinois dal 1970 al 1981 e candidato sconfitto a governatore nel 1982 e nel 1986 il nipote Adlai Ewing III. Ma prima dei Lincoln, Grant, Stevenson, Reagan e Obama, l’Illinois e Chicago sono stati una delle prime “Frontiere” del Far West. Distrutto nel 1812 dagli indiani il forte che nel luogo era stato costruito nel 1803, ceduta formalmente dagli stessi indiani la terra al governo Usa nel 1816, quella che con i 3 milioni di abitanti del suo municipio ed i 9,7 milioni di abitanti della sua Area Metropolitana estesa anche a Wisconsin e Indiana è la terza metropoli degli Usa dopo New York e Los Angeles fu riconosciuta ufficialmente come città il 12 agosto 1833, quando di abitanti ne aveva 350. E ancora nel 1840 non aveva oltrepassato i 4000. Nel 1848, 82 commercianti costituiscono allora il Chicago Board of Trade, dove nel 1851 è stipu-

Lincoln, Al Capone, Roosevelt, M la “Grande Cipolla” è da sempre

di Maurizio lato il primo contratto a termine sul mais. Sempre nel 1848 arriva a Chicago la prima ferrovia. Il 1865, anno della fine della Guerra Civile, è anche quello in cui Chicago inventa i futures: un nuovo tipo di contratto in cui i periodi di negoziazione e di consegna delle merci possono essere fissati in anticipo, le garanzie sono pure prefissate, il rischio di insolvenza è ridotto, e anche la liquidabilità è maggiore. Sempre nel 1865 a Chicago sono realizzati quegli immensi Union Stock Yards che fino alla loro chiusura nel 1971 faranno della città la capitale mondiale della carne in scatola.

ti sul lavoro finivano anch’essi nelle scatolette spinse il governo federale a costituire la Food and Drug Administration apposta per controllare la qualità di alimenti e medicine. Un ritratto lirico è invece quello di Frank Sinatra nella canzone del 1964 My Kind of Town. A Chicago i simboli erano il grande grattacielo degli anni ’20 della Wingley Company e i mattatoi. Oltre 50mila persone erano impiegate in

Un ritratto sinistro dell’industria della carne di Chicago lo diede nel 1906 Upton Sinclair con quel suo romanzo La jungla, la cui denuncia che gli operai caduti nei macchinari per inciden-

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ WALTER VELTRONI: «Caro senatore Obama la sua vittoria può cambiare il mondo. La straordinaria affermazione da lei conseguita nel voto per la Casa Bianca ci ha riempito di gioia: è un evento straordinario, un vero e proprio cambio destinato a riflettersi nella storia del suo paese ed insieme a modificare, come un grande vento, le speranze e gli assetti del mondo. Noi, democratici italiani, abbiamo seguito con passione la sua campagna elettorale, l’affermarsi di una

nuova leadership e di nuove idee capaci di conquistare i cuori e la mente degli americani e di affermare una visione del mondo fatta di progresso, solidarietà, uguaglianza, sviluppo compatibile. Tra l’Italia e gli Stati Uniti c’è una lunga tradizione di amicizia che ha al suo centro la vittoria contro il fascismo e il nazismo e la difesa dai totalitarismi. La sua vittoria e il suo arrivo alla Casa Bianca sono accolti dal popolo italiano come una positiva possibilità di rafforzare questa amicizia e collaborazione. A questo noi ci impegniamo, vo-

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e personaggi sempre decisivi per gli Stati Uniti: fino a Barack Obama

me, Chicago

Milton Friedman, Michael Jordan: e al centro della storia americana

o Stefanini quella struttura, che fu tra le prime ad utilizzare il sistema della catena “taylorista”di montaggio: anche se in qualche modo a rovescio.

Gli animali venivano smontati, secondo un preciso rituale. La divisione etnica del lavoro favorì il boom demografico e il carattere multietnico che la città ancora conserva. Alle donne, circa il 20% della forza lavoro, spettava il taglio della pancetta, l’affumicatura delle salsicce e la preparazione delle confezioni. Nel frattempo, il 1869 aveva visto l’inaugurazione di quella First Transcontinental Railroad da Omaha a Sacramento che mette in contatto diretto l’Est e l’Ovest degli Stati Uniti. Chicago divenne dunque contemporaneamente il centro di una delle aree agricole più fertili del mondo; il fulcro di un sistema di comunicazioni che tra ferrovia

e vie d’acqua si spinge verso la California e il Pacifico; e, conseguenza di ciò, anche un centro di elaborazione di tecniche finanziarie avveniristiche. I 4 “Martiri di Chicago”, anarchici di origine tedesca accusati di un attentato in appoggio a lavoratori in sciopero e impiccati nel 1887, ci ricordano la crescita del primo movimento operaio nella città, oltre ad aver dato origine alla Festa del Primo Maggio: data in cui nel 1886 lo sciopero era iniziato. La comunità nera, prima ancora di incubare leader del calibro di Jesse Jackson e Obama, favorì lo sviluppo di una tradizione musicale in cui stanno il Chicago blues, il Chicago soul, il Chicago jazz, il Chicago gospel, la nascita della House music, il complesso dei Chicago, i Blues Brothers, Anastacia. L’immigrazione italiana ha dato a Chicago Al Capone, ma anche la deep-dish pizza.

Stando al censimento del 2007, la prima etnia di Chicago sono oggi i neri col 36,77% della popolazione, seguiti da un 26,02% di ispanici.Vengono poi irlandesi e tedeschi, con circa il 7% l’uno: i tedeschi erano ancora il 22% negli anni ’20, e spiegano la sede a Chicago della principale chiesa luterana negli Usa.

Un 6,5% è costituito da polacchi: la seconda città polacca al mondo dopo Varsavia. Un altro 6,5% è di arabi: quasi la metà cristiani iracheni assiri, che è il motivo per cui il capo mondiale

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della loro chiesa risiede proprio a Chicago. Un 3,4% a testa li fanno gli italiani e romeni.

E un 2,1% è di cittadini di origine inglese. Naturalmente, Chicago è anche le sue famose 15 squadre sportive professioniste, un record tra le città Usa: White Sox e Cubs nel baseball; i Bulls già di Michael Jordan nel basket; i Blackhawk, i Wolves e gli Hounds nell’hockey su ghiaccio; i Bears nel football americano; i Rush nel football americano indoor; i Fire nel calcio; gli Storm nello showbol; i Machine e i Shamrox nel lacrosse. Chicago è, ancora, la Borsa Agricola più importante del mondo. E quella Scuola di Chicago che dalla locale Università si sviluppa a partire dagli anni ’50: associata soprattutto al nome del Nobel per l’Economia Milton Friedman, rappresenta per il liberismo del XX secolo quello che la Scuola di Manchester aveva rappresentato per quello del XIX secolo. Chicago Boys vengono non a caso chiamati i giovani economisti formati a Chicago grazie a un programma di scambi, e che sono protagonisti del decollo economico cileno. Talmente grande è la fama della Scuola di Chicago economica che ha finito per oscurare la fama delle altre Scuole di Chicago che esistono, e che sono in tutto ben otto. Accanto a quelle di sociologia urbana, critica letteraria, psicologia, scienza politica, televisione e analisi matematica,

forse la più importante è la Scuola di Chicago di Architettura, nata dopo il grande incendio che nel 1871 distrusse la città proprio sviluppandosi dai grandi mattatoi e alimentato dai terribili venti che spirano dal lago. Proprio questa Scuola di Chicago architettonica inventò i grattacieli: primissimo la torre di dieci piani della Chicago Home Insurance, costruita nel 1883, e purtroppo demolita nel 1927.

Fu

l’architetto-ingegnere

William Le Baron Jenney a utilizzare per la prima volta il sistema dello scheletro metallico poi utilizzato da tutti i grattacieli. E furono i quattro giovani architetti che erano stati i suoi assistenti nell’impresa a diventare i leader intellettuali di questa corrente: Louis Sullivan, Daniel Burnham, William Holabird, Martin Roche. Allievo di Sullivan, in seguito, quel Frank Lloyd Wright, guru dell’architettura del XX secolo. E a Chicago è ancora quella Sears Tower che con i suoi 527 metri alla guglia è stato l’edificio più alto del mondo tra 1973 e 1997, ed è tuttora l’edificio più alto degli Usa. Non solo Obama, dunque.

★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★★ lendo anche rafforzare i legami che da sempre ci uniscono al Partito democratico degli Stati Uniti. Le invio i miei più cordiali saluti e i nostri complimenti». ANTONIO DI PIETRO: «Con tutto il rispetto per chi festeggia Obama, i problemi italiani non si risolvono con una festa in più. L’Italia ha bisogno di sollevarsi di per sé. Non sogniamo che Obama risolva i nostri problemi di crisi economica e credibilità delle istituzioni vicina allo zero. Dobbiamo risolverceli da soli».

GIANNI ALEMANNO: «Quando un popolo si esprime, bisogna rispettare la sua decisione e il popolo americano ha scelto Obama. Io tifavo per McCain ma prendo atto della vittoria di Obama e la rispetto. Mi auguro che il presidente americano operi per il bene non solo degli Stati Uniti ma del mondo intero. C’è disperatamente bisogno di una grande attenzione ai temi della globalizzazione e di una grande volontà di fare una politica comune per governare i grandi problemi che abbiamo di fronte».

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panorama

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Autunno caldo. I trasportatori sul piede di guerra: cinque giorni di blocco a dicembre

Un Tir sulla strada del governo di Irene Trentin

ROMA. Sull’autunno già caldo del governo, rischia di abbattersi una nuova tegola. Dopo scuola e statali, incombe ora il blocco degli autotrasportatori, che minacciano cinque giorni di blocco a inizio dicembre. Sarebbe una sorta di par condicio: lo scorso 10 dicembre fu il traballante governo Prodi a dover fronteggiare la paralisi del settore quando per giorni interi gli scaffali dei supermercati rimasero vuoti e i distributori di benzina a secco. L’intesa che sbloccò la vertenza non è mai decollata, poi ci si è di messa mezzo l’impennata dei prezzi del petrolio. E anche la mediazione portata avanti quest’estate dal ministro Matteoli

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

per “raffreddare” l’incidenza dell’aumento del gasolio non è andata a buon fine, e ora i “padroncini” potrebbero decidere per il blocco. Sul piede di guerra l’Unatras: una settimana fa aveva chiesto il tavolo separato a Matteoli, ma le altre associazioni (Anitra e Confetra, aderenti a Confin-

altre 25-30 mila associazioni del mondo cooperativo, per un totale di circa 120mila associati e 900mila mezzi in grado di fare molto male, riproponendo gli scenari di un anno fa. «Rivogliamo un appello al presidente del Consiglio Berlusconi e al ministro dei Trasporti Matteoli perché riapra-

Tariffe, prezzi del gasolio e sicurezza: la trattativa con il ministro Altero Matteoli non è mai decollata e le promesse - almeno per ora - non bastano dustria) si sono opposte e così il nuovo tentativo di mediazione del governo è fallito prima di iniziare. Unatras ha convocato il consiglio nazionale e ha deciso il blocco, appunto, dal 9 al 12 dicembre.

Snobbata dai media (come dalla politica che conta) la trattativa viaggia su un pericoloso piano inclinato. L’Unatras, infatti è un cartello imponente, che unisce gli aderenti a Confartigianato Trasporti, Fita-Cna e Conftrasporto, circa 90mila, appoggiati da circa

no subito la trattativa», dice Francesco Del Boca, presidente di Confartigianato Trasporti, nominato dallo scorso giugno anche presidente di Uetr, l’Unione europea degli autotrasportatori di merci che riunisce otto Federazioni nazionali delle imprese di autotrasporto. Lo scorso 25 giugno, nel pieno della crisi petrolifera, si era giunti a un protocollo d’intesa con Matteoli, che aveva poi dato luogo a un decreto legge, ratificato con la legge 133 lo scorso 6 agosto. Una norma rima-

sta però senza gambe per camminare, non essendo mai stati approvati i decreti di attuazione, in particolare quello che riguarda il costo minimo, la tariffa che i committenti debbono riconoscere ai padroncini, tra costo chilometrico, orario massimo di guida, e carico del mezzo. L’organo che avrebbe dovuto determinarlo, l’Osservatorio sull’autotrasporto, non si è mai riunito.

Unatras, forte dei suoi argomenti e degli iscritti, non allenta la presa: «Dei 116 milioni a favore dell’autotrasporto, è stato approvato un solo decreto attuativo che concede 40 milioni per la riduzione della tassa di possesso», ricorda Del Boca. Altri punti rimasi disattesi: i 30 milioni per la riduzione dei contributi per le ore di straordinario, altri 30 milioni per l’aumento delle trasferte in busta paga, 9 per favorire l’aggregazione di imprese, 7 per corsi di formazione e aggiornamento «Il sospetto - conclude Del Boca - è che vogliano tirare per le lunghe per non determinare i costi e quindi le nuove tariffe».

Edmondo Berselli, i «democratici» e il complesso di superiorità

Anatomia dei sinistrati sinistrorsi eggi la storia sentimentale di una catastrofe politica annunciata e non sai se ridere, piangere, pensarci un po’ su e dire: «Però, questo pirla di Berselli è bravo eh». Adesso io vorrei qui riportare interi brani del libro di Edmondo Berselli, Sinistrati (Mondadori) per condividere con il lettore il piacere della lettura. Intendo dire proprio il piacere di leggere, di leggere una prosa che si fa leggere, perché a tutti è chiaro che non tutte le cose scritte si fanno leggere. Prendete l’articolo domenicale di Eugenio Scalfari: sarà anche Scalfari, sarà anche intelligente, sarà anche tutto quello che volete voi, ma non si fa leggere (e infatti passo oltre). La scrittura di Berselli, invece, ti chiama e ti dice: «Vieni, leggi, facciamoci quattro passi e scambiamo due parole tra amici». Ma mentre ti invita alla lettura con uno stile semplice e diretto eppure tutt’altro che fesso e presuntuoso, ti piazza tra capo e collo alcune verità cartesiane chiare e distinte.

L

È vero, parla anche di Romano Prodi come l’ultimo degli statisti, che è andato due volte al governo e tutte e due le volte ha risanato nientemeno i conti in rosso che aveva ereditato

da quella cosa cattiva ma fatta da gente normale che è la destra. Ma è un dettaglio o un’astuzia della ragione hegelo-berselliniana che serve a meglio far risaltare la stupidità del mondo a parte dei sinistrati: perché «abbiamo sbagliato dappertutto, noi sinistrati, noi sinistrorsi, noi poveri sinistronzi». Ora io vorrei precisare che non sono un sinistrato. Non sono neanche un destrorso, se non per il gusto di non pensarla come i sinistrati che sanno sempre tutto, che ti spiegano la politica e l’etica, la società complessa che è liquida e non solida, s’intendono naturalmente anche di letteratura e arte contemporanea ma al contempo capiscono alla perfezione la condizione dei precari, degli operai che non ci sono più e se ci sono non votano più per i sinistrorsi che sanno essere sinistronzi, ma questo i sinistrati non lo sanno o fanno finta di non saperlo, ecco perché il libro semplice semplice di questo gran pezzo dell’Edmondo è istruttivo e piace a me che sono solo un provinciale e quando penso alla politica e ai politici ragiono come la gente normale: ci fa o ci è?, è capace o un fesso?, mi frega o mi posso fidare?, lavora o è un parassita?, è pratico o un finto rivoluzio-

nario? La sinistra è fatta di fighetti, di intellettuali, di schizzinosi, che non sono neanche la maggioranza dei sinistrati, ma che fanno opinione e con le loro opinioni ti fregano.

Ecco perché il libro di Berselli è istruttivo: perché dice la verità sulle opinioni del cavolo degli intellettuali

sinistronzi. Il primo capitolo che allora dovete leggere non è il primo, ma il XXIII che inizia così: «La prima cosa che la sinistra deve fare è impa-

rare a dire la verità. Il che non è semplice, perché la sinistra crede di essere la verità, e quindi non sente il bisogno di dirla». Ma fino a quando la sinistra crederà di essere la verità e si presenterà al cospetto del mondo come il sale della terra sarà destinata alla sconfitta. Fatemi una cortesia: leggetevi il capitolo, non fatemelo riassumere. Sono meno di dieci paginette che vanno via che è una meraviglia: da pagina 159 a 167. Ora qui io per concludere voglio solo dire che, se volete, il libro non siete obbligati a prenderlo sul serio. Però, non siete neanche obbligati a dire che è puro cazzeggio. Le cose più vere si dicono quando si cazzeggia. Ora, cari fighetti della sinistra, mettetevelo bene in testa: voi della società italiana, liquida o non liquida, Zygmunt o non Zygmunt, non capite un emerito cacchio. Dice Berselli: «È tutta colpa nostra. Perché abbiamo creduto di poter combattere contro la destra dall’alto di una superiore qualità morale e culturale. Perché non abbiamo saputo capire com’è fatta davvero la società italiana. Perché non abbiamo voluto vedere in faccia la realtà. Perché non guardiamo la televisione, e se la guardiamo facciamo finta di non guardarla». Amen.


panorama

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Rotture. L’ex leader della Margherita correrà da solo per la conquista dei centristi. Partendo da Roma

È in arrivo il Partito romano di Rutelli di Antonio Funiciello

ROMA. Se il Pd nazionale ha dei problemi, quello romano sta messo addirittura peggio. Il più grande alleato del nuovo sindaco Alemanno è proprio il gruppo dirigente del Pd romano, che dopo la disfatta elettorale di sei mesi fa, non fa che litigare e moltiplicare le correnti al suo interno. Se si aggiunge poi la necessità, eletto presidente della provincia l’ex segretario regionale Zingaretti, di nominare il suo successore nel partito, ecco che i litigi tra i capi corrente sfociano ormai in una vera e proprio rissa. Francesco Rutelli, candidato sindaco sconfitto che non ha deciso però di disinteressarsi della sua città, lunedì scorso ha riunito i suoi per fare il punto della situazione. La lista civica “Rutelli per Roma”, presentata a sostegno della sua candidatura al Campidoglio, raccoglieva espressioni di ceti produttivi e sociali della capitale non direttamente riconducibili al Pd, che nel nuovo contesto venutosi a creare dopo la sconfitta, sono stritolati dalle gradi correnti democratiche. Contro questo stritolamento, lunedì Rutelli ha tuonato deciso, invitando i

suoi a muoversi nei prossimi mesi anche oltre i confini del Pd. Un «tana libera tutti» non privo di importanti conseguenze.

All’origine del nuovo corso rutelliano c’è il saltato accordo per i nuovi assetti del partito romano e laziale. L’intesa che Rutelli aveva stretto con Goffredo Bettini, gran visir dei democratici romani, era chiara e soddisfacente per tutti: elezione del veltroniano Roberto Marassut alla segreteria regionale e conferma del rutelliano Riccardo Milana alla guida del Pd comunale. Posizione di rincalzo per il dalemiano Piero Latino (che sfidò il veltroniano Zingaretti nella conta per la segreteria regionale) come presidente del partito laziale. Tutto ciò in un contesto di assoluta anarchia normativa, mancando uno statuto regionale che regoli, legittimi e istituzionalizzi questi delicati passaggi e procrastinando la sua stesura a data da destinarsi. Insomma, sembrava davvero tutto risolto. Peccato che D’Alema in persona abbia fatto saltare il tavolo, mandando in avanscoperta il suo luogotenen-

Il pretesto è la leadership del Pd della Capitale, ma in realtà l’ex vicepremier vuole creare una squadra personale. Senza agganci col partito te romano forse più potente, l’assessore regionale allo Sviluppo economico Claudio Mancini, che ha dichiarato: «A me la candidatura di Roberto Morassut non convince sin dall’inizio. Troppo continuismo». Con co-

sa? Ma col famigerato “modello Roma”, naturalmente.

Coi dalemiani di traverso, Bettini si è ritrovato in una secca da cui ha provato ad uscire scaricando l’opzione del rulettiano

Conti. Dal 2001, il deficit pubblico è sceso solo del 4,9%: l’Europa ci chiede di più

Chi ci difenderà dal debito? di Alessandro D’Amato

ROMA. Un fantasma ritorna ad aggirarsi per l’Italia. Quello del debito pubblico. Dopo anni nei quali non sembrava più un problema, soprattutto grazie all’introduzione dell’euro, tanto da spingere qualche tempo fa un gruppo di economisti a firmare una petizione per spingere l’allora governo Prodi a non ridurlo più – perseguendo soltanto l’obiettivo di rendere stabile il rapporto – oggi sono molti i campanelli d’allarme che suonano a ripetizione. Il più significativo è l’aumento dello spread (il differenziale di rendimento) tra bund tedeschi e BtP italiani, che torna sopra l’1,3%. Un valore che non si vedeva dal 1997, ai bei tempi della lira fluttuante in balia dei cattivoni speculatori.

fica che il debito/pil nel 2008 non scenderà, restando al 104,1% dello scorso anno, ma nel 2009 tornerà a salire dopo molto tempo, attestandosi al 104,3%, prima di calare al 103,8% nel 2010. Numeri non terribili, ma che andrebbero visti in prospettiva, invece che con la miopia della politica nostrana. Perché è vero che l’Italia oggi, in quanto a spesa pubblica, non è irresponsabile più di altri paesi; ma è anche vero che noi dobbiamo affrontare un calo demografico rilevan-

ni, più che razionalizzare ciò che c’è già. Mettiamoci anche che la produttività italiana è quella che è, e avremo un quadro completo della situazione.

Ed ecco allora che il rischio che pare profilarsi è piuttosto concreto, dando un’occhiata alla situazione internazionale. Che vede molteplici governi pronti ad agire (e qualcuno l’ha già fatto) per rafforzare il fronte bancario, utilizzando i risparmi dei tempi di vacche “grasse” (Germania) oppure raschiando il fondo di un barile ancora comunque lontano da raggiungere (Francia). Ricordiamo invece che al nostro governo farsi prestare soldi costa più di quanto non costi al governo tedesco, oggi più di ieri. Il Financial Times dice che l’anno prossimo gli Stati inonderanno il mercato di 2600 miliardi di nuovo debito; di questi, 220 saranno targati Italia. E cosa dice la legge della domanda e dell’offerta, a questo proposito?

I “colossi” del Vecchio Continente guardano con sospetto sempre maggiore i nostri bilanci e il Financial Times ormai ci mette in castigo

Di certo, la lotta al debito pubblico non è stata una priorità della politica italiana: in sette anni, regnanti Amato, Berlusconi e Prodi, è stato ridotto di 4,9 punti percentuali. Una scelta comprensibile, politicamente parlando, se si va a leggere il dato sulla crescita del Pil, mai oltre il 2% in questi anni e sempre trainata dall’Europa (tanto per intenderci, Mario Baldassarri dice che l’incremento del benessere italiano dipende ormai per due terzi da come va l’economia del Vecchio Continente). Oggi però i segnali che arrivano non sono buoni: la Ue certi-

te, un deficit imbarazzante e la tendenza innata dello Stato a tirar fuori più di quanto entra in cassa, soprattutto a causa di spese come le pensioni e i costi della pubblica amministrazioni: due voci sulle quali il governo di centrodestra, nonostante l’ispirazione “liberale”che dovrebbe muoverlo, non sembra abbia intenzione di andare ad incidere. A questo si aggiunga l’enorme pressione fiscale – dati del Dpef alla mano, Tremonti ha intenzione di toccarla solo tra quattro anni – e una riforma come quella del federalismo fiscale, che rischia ad oggi di creare nuovi pozzi di spesa per le regio-

Milana per la segreteria del Pd romano, che ha provocato la reazione di Rutelli nella riunione a cui si faceva cenno. Mentre, però, gli stessi dalemiani rifiutavano le sue avance, tentando di aprire un canale privilegiato diretto con Rutelli. Nel quadro di discontinuità auspicato dal luogotenente dalemiano Mancini, non sarebbe quello di Riccardo Milana il nome preferito per la segreteria comunale, ma quello del presidente del I municipio romano Orlando Corsetti. Il «tana libera tutti» di Rutelli di lunedì scorso risulterebbe così finalizzato da un lato a un’apertura all’esterno del Pd verso legami più strutturati con l’Udc, dall’altro a saldare un’alleanza diretta coi dalemiani, scavalcando l’eterna mediazione di Bettini. Un’operazione non di poco conto, visto che l’ideatore ed ex presidente della Festa del Cinema è l’inventore del “modello Roma”. Quel modello di cui Rutelli è stata la prima incarnazione, ma che adesso lui stesso vorrebbe archiviare siglando con D’Alema e l’Udc un nuovo patto. Da non tenere necessariamente relegato nei confini della capitale.


mondo

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Crisi. Gli operatori di Borsa colpiti dalla crisi finanziaria mondiale si riciclano in polizia

Eri banchiere? Fai il bobby di Silvia Marchetti

LONDRA. I banchieri della City sono in fuga verso un posto di lavoro più sicuro, sebbene meno redditizio: nei corpi speciali della polizia criminale inglese. Un cambiamento di pelle arrivato all’improvviso con la mannaia della crisi finanziaria, che ha lasciato gli istituti di credito senza fondi e personale con davanti un futuro incerto. Per molti banchieri e guru finanziari l’unica via di salvezza è adattarsi e restare a galla, magari con un nuovo impiego più nobile che li salvi dallo spettro della disoccupazione. Sta di fatto che non dovranno troppo faticare né preoccuparsi, non si ritroveranno in mezzo a una strada perché a soccorrere i colletti bianchi della finanza londinese ci sta già pensando la polizia criminale economica di Londra, proprio quella che ha l’obiettivo di perseguire i reati finanziari e di fare piazza pulita degli avvoltoi creditizi, i responsabili principali dello tsunami che ha travolto le banche. Gli sbirri si sono lanciati nella cooptazione dei banchieri con assunzioni lampo. Obiettivo: integrare nei reparti polizieschi degli “insider”che abbiano un know-how e una conoscenza approfondita della finanza, qualità oggi ricercate per mettere ordine nella City devastata dal credit crunch e risollevare le sorti degli istituti di credito. La polizia londinese ha intenzione di raddoppiare il suo organico, e dove meglio cercarlo se non tra i dipendenti di banche al collasso? In Europa l’onda dello tsunami finanziario ha messo in ginocchio il Regno Unito: colossi bancari falliti da un giorno all’altro, con il governo costretto a iniettare milioni di sterline nel sistema finanziario dando il via libera a fusioni, acquisizioni e nazionalizzazioni pilotate. Lavoratori che si sono ritrovati in mezzo a una strada, senza più lavoro dietro agli sportelli. Insomma, preziose risorse umane che ora fanno comodo a chi è stato messo a “controllo”della situazione. I banchieri – insieme ai loro colleghi analisti – presto faranno dunque carriera all’interno della polizia criminale, a grande sgomento dei cittadini che oltre a dover pagare di tasca propria il piano di salvataggio governativo ora devono anche chiudere gli occhi di fronte a quella che considerano come “un’ingiustizia”. Stando a quanto riporta il Financial Times, il sentimento diffuso è che la cooptazione degli “avvoltoi” sia una sorta di “amnistia bancaria mascherata” a favore di chi dovrebbe pagare e invece alla fine verrà graziato. Il passaggio agevolato dal settore privato a quello pubblico diventa così per mol-

ti banchieri un’occasione ghiotta da non lasciarsi fuggire. Finalmente ora la polizia criminale del dipartimento economico avrà i cervelli adatti per le operazioni delicate. Fino ad oggi i banchieri hanno sempre snobbato di lavorare per le forze dell’ordine, nonostante le numerose proposte e i continui corteggiamenti. «Due o tre anni fa era impossibile reclutare queste persone - spiega il capo dipartimento della polizia Steve Head – non lo vedevano come un lavoro adatto a loro. Ma adesso invece è molto più facile reperire le figure giuste che ci servono». Oggi per gli esperti finanziari un posto sicuro nel pubblico impiego è un’opzione molto più allettante rispetto a ieri. L’obiettivo degli investigatori contro i crimini economici è quello di attingere al settore privato creditizio e reclutare banchieri e analisti

per poter fare fronte a una prevedibile crescita nei reati di frode finanziaria, qualora le condizioni economiche dovessero ulteriormente peggiorare.

Il terremoto avvenuto nei mercati finanziari non solo ha portato alla luce reati commessi nel passato: ne sta già incentivando altri. I manager degli istituti di credito, pur di salvarsi la pelle e continuare a fare business, sono pronti a qualsiasi operazione, anche illegale. Nelle ultime settimane sono aumentate le frodi sui mutui, le clonazioni di carte di credito e altri simili reati ad opera di gente interna alle istituzioni bancarie. Lo stesso governo inglese negli ultimi anni ha stanziato numerosi fondi a favore dell’offensiva anti-frode, rafforzando i poteri della City Police e incrementandone il personale.

Un “bobby”, poliziotto tipico nella City londinese. Per sfuggire alla disoccupazione provocata dalla crisi finanziaria mondiale, molti analisti e tecnici di banca si sono riciclati nella polizia economica della capitale del Regno Unito, che da anni cercava personale specializzato in materia per contrastare le frodi

in breve L’Iran accusa: Usa troppo vicini A poche ore dall’elezione di Barack Obama scoppia la prima grana con l’Iran. Teheran ha denunciato che elicotteri americani volano «troppo vicini» allo spazio aereo iraniano lungo il confine iracheno. Lo riferisce la radio della Repubblica Islamica. L’Iran ha avvertito Washington che risponderà a ogni violazione del proprio spazio aereo.

Messico, incidente aereo: 13 vittime Il ministro dell’Interno messicano, Juan Camilo Mourino, è morto a bordo di un aereo precipitato a Città del Messico, su un viale. Nello schianto ha perso la vita anche Josè Luis Santiago Vasconcelos, ex viceprocuratore generale della Repubblica e uno degli artefici della lotta al narcotraffico messa in atto recentemente dal governo. L’aereo tornava da una visita istituzionale a San Luis de Potosì. In totale sono 13 le vittime.

Malasanità: in Italia nasce la Commissione

L’operazione già criticata dalla popolazione inglese, che la considera una sorta di amnistia che salva dal carcere gli “avvoltoi” del crack Presto entreranno in azione nuove squadre di intervento, in cui uno specialista finanziario affiancherà gli investigatori di polizia. Ma il vero scopo della cooptazione esterna è quella di poter finalmente condividere nella lotta anti-frode informazioni sensibili e strategiche tra mondo bancario e autorità pubbliche, cercando di neutralizzare barriere fisiche, sospetti reciproci e segreti finanziari. La nuova sinergia tra banchieri e sbirri aiuterà a restaurare la fiducia della gente nelle istituzioni bancarie messe in crisi dal credit crunch e nel ruolo della polizia criminale. «Nei prossimi mesi il nostro lavoro sarà quello di creare un rapporto di stima e collaborazione reciproca tra noi e i banchieri, per poi trasmetterlo ai cittadini – conclude il comandante Head – e di sicuro non è qualcosa che si può fare da un giorno all’altro».

I neonati morti all’ospedale di Viareggio. Il paziente trapiantato a Bari che avrebbe ricevuto un organo infetto. Lo scandalo dell’ospedale di Vibo Valenzia. Se fosse già operativa potrebbe indagare immediatamente su questi episodi la Commissione d’inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi regionali istituita oggi alla Camera. La legge, proposta dall’ex ministro della Salute Livia Turco, Pd, e poi abbracciata dalla maggioranza, è stata approvata ieri dall’aula di Montecitorio. La Commissione avrà poteri ispettivi, potrà agire a 360 gradi intervenendo anche «a caldo» con indicazioni raccolte su fatti di particolare gravità.


mondo rocesso di Barcellona: Unione per il Mediterraneo parte seconda. A conclusione del summit parigino del 13 luglio scorso, Jacques Attali aveva affermato, a proposito del rilancio della cooperazione tra le due sponde del Mare Nostrum: «Sarà sufficiente credere nell’utopia di questo progetto?» Ebbene, trascorsi tre mesi e mezzo, l’impressione è quella che luci ed ombre si contendano equamente la scena. È certamente corretto ricordare, come ha fatto il Ministro degli Esteri francesi Bernard Kouchner - padrone di casa al vertice tra i Ministri degli Esteri dei 43 Paesi dell’Upm svoltosi a Marsiglia il 3 e il 4 novembre - che l’impresa è di quelle ambiziose e di conseguenza le possibilità di fallimento aumentano in maniera esponenziale. Ma i più scettici non hanno esitato a ricordare come le attuali difficoltà fossero ampiamente preventivabili e ascrivibili ad un progetto che non ha fatto i conti con le caratteristiche peculiari di una delle aree geopolitiche più instabili del pianeta. In realtà la grande kermesse mediatica del 13 luglio scorso aveva avuto anche un importante significato simbolico. Al di là dei pur importanti incontri riservati tra Autorità palestinese e Israele, tra Siria e Libano e tra Siria e Israele (grazie alla mediazione turca), da Parigi era giunto un messaggio importante: l’Unione europea, nonostante le sue inefficienze, rimane un polo di attrazione regionale.

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Riuscire a far sedere attorno ad un tavolo i 27 Paesi membri e 16 Paesi della sponda sud del Mediterraneo (dall’Albania alla Turchia passando per Croazia, Libano, Siria, Israele, Marocco e Tunisia, ecc.) significa certificare la capacità di Bruxelles di muovere passi importanti nel complicato percorso di costruzione della nuova governance globale, all’interno della quale la pace e la sicurezza nel Mediterraneo saranno sempre più fondamentali. Spente le luci del Grand Palais di Parigi il buio più profondo è parso però scendere sull’Unione per il Mediterraneo e in rapida successione la conferenza sull’acqua da svolgersi in Giordania e le discussioni informali a livello di Ministri degli Esteri in vista dell’appuntamento di Marsiglia sono stati rinviati. L’esplosione del conflitto russo-georgiano nel Caucaso e il definitivo dispiegarsi della crisi finanziaria hanno completato il quadro: l’Upm è finita nel dimenticatoio. Paradossalmente proprio l’attivismo europeo, grazie alla presidenza Sarkozy, nelle due crisi del periodo agosto-novembre 2008 ha mostrato tutte le possibilità dell’Unione qualora decida di non abdicare alle proprie responsabilità, a maggior ragione nella delicata fase di vuoto di potere dovuta alle ele-

Successi. Dopo il Patto di Barcellona, riprende slancio il piano dell’Unione per il Mediterraneo

Sarkozy, il nuovo principe del Mediterraneo di Michele Marchi zioni Usa e alla fine del mandato di Bush, ai minimi storici del gradimento sia interno che all’estero. Dunque la posta in gioco della due giorni di Marsiglia era elevata ma allo stesso tempo chiara. Ancor più che occuparsi dei sei progetti concreti che l’Upm dovrebbe dispiegare e del reperimento dei finanziamenti adeguati per farli partire, l’obiettivo era quello di mettere a punto una serie di questioni tecniche riassumibili in tre punti principali. La sede del segretariato generale, la titolarità dello stesso e il problema Lega

stato preferibile. Inoltre è abbastanza inquietante che la candidatura di Tunisi sia stata ritirata su pressione di Siria e Libano, contrarie all’idea che un Paese arabo potesse ospitare il segretariato di un’organizzazione che accoglie al suo interno Israele.

A quel punto i Paesi arabi coinvolti avrebbero potuto essere accusati di riconoscere lo Stato ebraico. Secondo punto: i Paesi della sponda sud hanno ceduto sulla sede del segretariato ottenendone in cambio la

torità Palestinese e naturalmente Israele, forse il risultato più rilevante della due giorni di Marsiglia. I 43 Ministri degli Esteri hanno scongiurato la rottura più volte ed entro la fine dell’anno dovrebbe partire un segretariato nel quale siederanno un rappresentante palestinese e uno israeliano, all’interno di un’organizzazione che vede tra i suoi membri anche la Lega Araba. Prima di dedicarsi al summit sull’Upm, i Ministri degli Esteri dei 27 (con l’Alto rappresentante Solana e il Commissario per le relazioni

Dopo i colloqui di Marsiglia, sembra più concreta la possibilità che l’Europa prenda in mano il suo destino. Ennesimo successo per Parigi, che riesce a far sedere al tavolo Siria, Libano e Israele. Ma cede su Tunisi

Nella foto grande, l’incontro dell’Unione per il Mediterraneo. Il gruppo è stato definito “un’utopia che deve divenire realtà”. Sopra, Nicolas Sarkozy

Araba-Israele. Rispetto al primo punto Barcellona ha ottenuto ciò che la diplomazia spagnola da almeno un mese reclamava. La sede del segretariato dell’Upm resterà laddove aveva sede quello del Processo di Barcellona varato nel 1995. Senza nulla togliere all’importanza dello sforzo diplomatico spagnolo (si tratta peraltro di una boccata d’ossigeno per la diplomazia di Zapatero, alquanto marginale nelle recenti questioni europee), rompere anche da un punto di vista simbolico con il passato per nulla glorioso del Processo di Barcellona sarebbe

titolarità. Ora si apre la non facile contesa per scegliere a chi toccherà l’importante nomina. Terzo punto: la questione del difficile rapporto Lega ArabaIsraele è stata risolta aggiungendo al posto di segretario generale cinque segretari aggiunti, tre dell’area europea e due per quella sud, con l’obbligo che uno di questi, almeno per i prossimi tre anni, sia israeliano. Solo così Tel Aviv ha accettato la presenza della Lega Araba come partecipante a tutti gli effetti. Per il “primo mandato” i segretari generali aggiunti saranno Italia, Malta, Grecia, Au-

esterne Ferrero-Waldner) hanno redatto un documento sui rapporti euro-atlantici da consegnare al nuovo inquilino della Casa Bianca. Tra i pilastri cruciali della nuova partnership è citato, oltre alla governance finanziaria, all’Iran e all’Afghanistan, proprio il processo di pace in Medio Oriente. Se l’Unione per il Mediterraneo diventasse realtà, l’annosa questione arabo-israeliana potrebbe avere qualche possibilità in più di vedere la luce in fondo al tunnel. L’Europa delle utopie si sta forse tramutando in quella dei progetti concreti?


cultura

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L’intervista. Parla lo scrittore e professore di Oxford accusato di essere «la quinta colonna del fondamentalismo islamico»

Le confessioni di Ramadan Da Sant’Agostino a Socrate. Un confronto sui temi che legano ragione e fede al percorso della modernità di Pierre Chiartano ersonaggio “ambiguo” e controverso, dal doppio linguaggio, “quinta colonna” del fondamentalismo islamico. Sono tantissime ormai le definizioni che accompagnano il nome del professore di Oxford, Tariq Ramadan, già consigliere di Tony Blair, poi bandito dalle università americane. Lui si difende e ribatte ai suoi detrattori, a ognuno poi il compito di farsi un’idea delle ragioni dell’uno o degli altri. Si definisce così: «È il mio ruolo di mediatore culturale a suscitare l’animosità e le reazioni negative. Numerosi occidentali pensano che sia troppo musulmano, mentre certe correnti musulmane mi definiscono troppo occidentale».

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Si considera un pontiere fra due civiltà che anziché scontrarsi dovrebbero cercare un dialogo, pur fra mille difficoltà. Ma non è un buonista della 25ma ora. Ciò che è certo è che non ama le semplificazioni. Non si ferma ai modelli interpretativi della realtà, agli stereotipi. Scruta in profondità i meccanismi identitari, la natura spesso ambigua del pensiero umano. Convinto che la cultura islamica abbia dato il suo contributo alla nascita del pensiero razionale in Europa e all’Illuminismo. Non ama il dogmatismo laicista, ma non vede un cambiamento negli equilibri tra ragione e trascendenza a favore di quest’ultima. Non sempre condividiamo le sue analisi, ma è sicuramente un interlocutore impegnativo. Da Socrate a Sant’Agostino si è snodato un confronto appassionato con liberal sui temi che legano ragione e fede al percorso della modernità. Alla domanda se l’etica musulmana andrà a scontrarsi con l’eredità socratica del pensiero critico, Ramadan ribalta i termini del problema agganciandosi all’altro aspetto del pensiero del filosofo greco, che lega la conoscenza del vero al comportamento secondo il bene. In buo-

na sostanza passando dalla “critica” all’etica. «Penso che non sia questa la domanda da porsi, perché l’eredità socratica del pensiero critico non è aliena al pensiero musulmano. Credo che la filosofia di Socra-

L’Europa ha le sue radici in un razionalismo che contraddistingue l’Islam, il cristianesimo e l’ebraismo. Religioni accomunate da un’etica condivisa

te riguardi anche l’etica nei suoi aspetti pratici. Non è una questione che possa dividere il pensiero greco, musulmano o ebraico. Questi tre gruppi hanno contribuito, a modo loro, alla formazione del pensiero razionale. Quello che cerco di spiegare con le mie parole è che l’Europa ha radici in un razionalismo che contraddistingue sia l’Islam che la religione cristiana che quella ebraica. Esse hanno prodotto due cose. Un modo di pensare che chiamiamo razionalismo e un’etica condivisa. L’idea che ci siano due correnti di pensiero, due

gruppi d’appartenenza uno che fa riferimento all’elemento critico socratico e un altro dogmatico sull’interpretazione della verità scritta è semplicistico». Durante la conferenza stampa al Circolo dei lettori di Torino, il 21 ottobre scorso, su di un progetto contro i matrimoni imposti, però, è stato evidenziato il problema sul fronte della comunicazione. Ogni proposta riformista nel mondo islamico ha un suo codice. Quando si parla in Occidente, parole come coscienza, diritti civili e dignità della persona funzionano bene. Ai musulmani serve avere come riferimento dei «testi», altrimenti ogni proposta viene percepita come imposta dall’esterno della cultura islamica. È il riconoscimento di un metodo diverso rispetto a quello «critico» cui facevamo riferimento. Ma Ramadan prosegue prendendo le distanze forse più dall’approccio metodologico che dalla sostanza. In riferimento alla presenza o meno nella tradizione islamica di una figura paragonabile a Sant’Agostino e alla sua visione della persona umana e del rapporto tra fede e ratio, risponde: «Più che la persona penso che Sant’Agostino abbia posto al centro l’unione, la non contrapposizione, fra ragione e trascendenza. Ci sono teologi islamici che hanno sacralizzato la vita umana, come per la dimensione razionale possiamo trovare in molti studi giuridici nel Medioevo. La tensione fra queste due autorità, ragione e fede, dogma e verità razionale non è un’esclusiva della tradizione cristiana e dell’Illuminismo. In Occidente lo stesso secolarismo giunge dall’incontro fra tradizione e cristiana e ebraica». L’infelicità araba citata da Samir Kassir potrebbe essere nata dal processo di secolarizzazione delle società che ha separato modernità e religione.

In apertura, lo scrittore e professore Tariq Ramadan, autore del discusso libro “Islam e Libertà” (a sinistra, la copertina). Sotto la foto di Ramadan, un’immagine del filosofo greco Socrate e, più a destra, quella di Sant’Agostino

Ora sembra che il percorso della storia stia cambiando direzione. Fede e antisecolarismo sembrano crescere nella Umma come in Europa. «L’infelicità è uno stato legato alla condizione sociale. Ci si deve confrontare quotidianamente con discriminazioni di ogni genere. Il senso d’appartenenza è frustrato dalla mancanza di un reale processo democratico. Riguardo a un pendolo della storia che torni verso una rivincita della trascendenza rispetto alla ragione ho qualche dubbio. Penso sia una moda, anche se c’è qualcosa di reale, legato alla paura che cresce nelle persone. Quando hai paura tendi a ritornare agli aspetti meno razionali e più emozionali. Accetto questa lettura, ma non quella di un ritorno alle accezioni fondamentaliste della religione. Mi occuperò di questi aspetti in un mio prossimo libro che uscirà in marzo, dove, tra l’altro, tratto del rapporto tra filosofia e religione».

La questione del velo in alcuni casi, come quello degli studenti turchi, può essere considerata un comportamento di determinazione politica. Una ma-

niera per far entrare l’identità religiosa all’interno di una sfera pubblica fortemente laicizzata? «È un comportamento dai molteplici significati. Può essere un atto di resistenza verso un sistema che non vuole riconoscere alcuni aspetti della tua identità. Non è facile rispondere, credo comunque che si principalmente un problema d’identità che si può estrinsecare con un atto di determinazione politica. Dipende dal contesto. Può essere anche semplicemente una protesta nei confronti della famiglia o del proprio genitore. Non è comunque un’azione facile da perseguire in molti Paesi dove la tolleranza riguardo certi canoni è bassa, come in Turchia. Ma non è l’unico Paese a creare certi problemi». Nel suo ultimo libro Islam e libertà lei si difende anche dalle accuse di aver usato un «doppio linguaggio». Ci può spiegare meglio? «È chiaro che


cultura

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La filosofia di Tariq Ramadan nel suo (molto criticato) libro “Islam e Libertà”

Il «pontiere» tra le culture d’Oriente e Occidente T

ariq Ramadan è uscito in Italia con Islam e Libertà. È un «libro introduzione», come lo definisce l’autore, che tenta di rispondere alle accuse d’ambiguità e di essere «un intellettuale controverso». Il Corriere della Sera del 23 ottobre scorso titolava: «L’ambigua autodifesa di Tariq Ramadan», piazzando una sorta di pietra tombale sul pensiero dell’intellettuale. Mai intervento fu meno tempestivo. Se c’è un libro dove finalmente Ramadan risponde a tono a tutte le accuse d’ambiguità, questo è Islam e Libertà. Nei suoi precedenti lavori il linguaggio accademico e una certa “melina” intellettuale, lasciavano aperti molti dubbi sull’interpretazione del concetto di modernità interno al mondo musulmano. Come se l’autore volesse lasciare aperte troppe porte.

il linguaggio cambi a seconda degli interlocutori. Cambia la forma, ma non la sostanza, che si parli a gente istruita o meno. Non c’è una sola accusa di “doppio linguaggio” che sia sostanziata da prove. Non esiste un solo testo di miei interventi in inglese, in francese come in arabo che possa dimostrare ambiguità. Ho pubblicato ventisei libri ormai, dove è possibile capire il mio pensiero. Dov’è in quelle pagine il doppio linguaggio? L’intelligence francese mi accusa di predicare male nei sobborghi, di cambiare approccio a seconda delle lingue che uso. Portatemi una sola registrazione che lo dimostri. Se così fosse lei crede che potrei andare in Arabia saudita, in Tunisia o in Siria?». Però è stato bandito dagli Usa, dove avrebbe dovuto insegnare religione alla Notre Dame university. La risposta che ho ricevuto dagli Stati Uniti è un bell’esempio di ciò di cui parlavo. In passato ho dato dei soldi ad alcune associazioni islamiche. Quando ho fatto l’application per andare negli Usa su richiesta di una loro università, io stesso ho dichiarato, scrivendone i nomi, di aver versato denaro a diverse organizzazioni. Tra queste alcune palestinesi. Una in particolare la conoscevo perché aveva collaborato col ministro francese Martin Aubrey. Allora avrei dovuto conoscere in anticipo che erano sospettati di connessioni con Hamas. Tanto che sono stati inseriti nella black list solo nel 2003. Il versamento l’ho fatto nel 2002. Ma che cifra ha versato? «Settecento euro. Se poi mi chiedono della politica mediorientale di Bush, posso solo criticarla, ma penso faccia parte

Una conferma al sospetto di Taqiyya, la dissimulazione ammessa dalla cultura musulmana, con l’obiettivo poi di islamizzare la modernità e l’Europa. Ora invece Ramadan non si tira indietro e risponde, con linguaggio finalmente chiaro e semplice. L’intervento di Battista avrebbe avuto ragione per i libri precedenti, come Essere mussulmano europeo o altri ancora. Un po’ criptici, diretti a un pubblico che necessariamente doveva conoscere la cultura del Profeta. Il punto è che l’intellettuale ginevrino centra molti nodi dell’analisi culturale che spiega il rapporto controverso fra Occidente e Islam. Quando individua nei «laici molto dogmatici» alcuni avversari che temono «i vecchi demoni di un ritorno alla religione», ha ragione. Una visceralità anti-spirituale che viene letta anche nella Francia di Sarkozy, che però, con la recente visita del Santo Padre, ha ribaltato questa prospettiva e lo stesso inquilino dell’Eliseo è testimone di un approccio alla questione religiosa del tutto rivoluzionario rispetto al dogmatismo laicista dei volterriani d’Oltralpe. Ma la Francia con gli oltre 6 milioni di musulmani è un caso a parte, molto complesso da leggere. Che però ha un parallelo nella Turchia kemalista, o post-kemalista, in piena crisi identitaria. Incapace di utilizzare i vecchi strumenti del secolarismo culturale per arginare l’avanzata islamica. Dove sbaglia è, invece, quando non comprende le vere ragioni del discorso sulle radici dell’Europa sostenuto dal Santo Padre (cita anche il discorso di Ratisbona). Una sottolineatura su identità e tradizione che Ramadan teme pongano steccati rispetto a quel movimento di post-integrazione che i musulmani europei starebbero animando. La sintesi fra leggi degli Stati e shari’a. Ma non è così. È la reazione a due secoli in cui la matrice cristiana dell’Europa è stata, nei migliori dei casi, dimenticata se non scientemente cancellata. È una difesa proprio dall’i-

per-laicismo che lega la modernità all’affrancamento da qualsiasi fede. Seguendo la logica, dovrebbe diventare una battaglia comune rispetto ad una visione dell’uomo multidimensionale, fatta di ragione e trascendenza. «Sentivo di dovermi fare carico della mia religione, di doverla spiegare, e soprattutto di dover spiegare quanto essa abbia in comune con l’ebraismo e il cristianesimo, ma anche con valori sostenuti da tanti umanisti, atei e agnostici», spiega andando poi alla radice fondamentale che anima le nostre paure: «Cosa vogliono in fondo (i musulmani): integrarsi o islamizzare l’Europa?». Il libro è un tentativo di risposta che potrà non piacere, non essere esaustivo, in parte non condivisibile, ma è una risposta chiara. L’identità islamica viene ricondotta a un processo che fa riferimento al singolo, alla persona, per la costruzione di una nuova cittadinanza di «post-integrazione» e «partecipativa», con l’obiettivo di creare un terreno comune del «vivere insieme». Si capisce anche che Ramadan conosce a fondo Socrate, Aristotele, Schopenauer, Cartesio, Spinoza, Kant e Nietzsche. Un esempio di chiarezza è la posizione sul velo alle donne: «è anti-islamico imporre il velo ad una donna ed è un attacco ai diritti dell’uomo imporre loro di toglierselo». Un altro esempio è la sua posizione circa le nuove correnti di antisemitismo, in cui la componente musulmana favorirebbe la rinascita dei vecchi demoni dell’antisemitismo in Europa. «L’antisemitismo è per sua natura anti-islamico», sentenzia Ramadan e sembra voler ricordare il rapporto simbiotico che le comunità ebraiche ebbero con l’Impero ottomano e i molte realtà musulmane. Sulle capacità e possibilità d’integrazione fra cultura islamica e stili di vita occidentali il professore è ottimista. «Hanno avuto un’evoluzione rapida e impressionante (...) sono stati sanciti dei principi che rappresentano altrettante conquiste». In pratica il vecchio concetto binario di «casa dell’Islam» e «casa della guerra» sarebbe stato sostituito con quelli di «casa del contratto» e «casa della pace o della predicazione».

L’obiettivo dello scrittore è quello di creare un terreno comune in cui diventi possibile il «vivere insieme»

della libera espressione di un’opinione. Questa è la mia posizione».

Su cittadinanza, omosessualità e finanza islamica Ramadan non si è sottratto al confronto. «Come musulmano non posso certo promuovere l’omosessualità, ma rispetto le identità altrui, anche sessuali. Sul concetto di cittadinanza ho sempre ripetuto che non dobbiamo agire come minoranze guidate dal vittimismo. Dobbiamo avere maggiore fiducia nei nostri mezzi ed esprimerci come cittadini per essere riconosciuti come valore dalla comunità. Valore che può significare anche un’etica condivisa. L’etica islamica potrebbe supportare un nuovo modo di fare affari e finanza, ma ciò vale anche per quella cristiana o ebraica. È la mancanza d’etica che ha provocato il disastro attuale».

E se l’Europa è attraversata da una forte crisi identitaria, dovuta alle dinamiche della globalizzazione, come l’indebolimento dello Stato-nazione, perché le comunità islamiche europee non dovrebbero patire le stesse fragilità di quelle europee? sembra chiedersi il nipote del fondatore dei Fratelli musulmani. La violenza è una risposta sbagliata alla paura per tutti. Quindi, fin qui, seguendo la logica dell’analisi sui contenuti ci sarebbe coerenza rispetto ad un’immagine di «pontiere» fra le due culture, che Ramadan rivendica. Rimane la prova dei fatti e il giudizio che ognuno può formarsi. Il libro, almeno, apre finalmente un terreno comune di confronto, ci fornisce qualche strumento in più per comprendere il «personaggio controverso». La verità, invece, è (p.c.) una continua ricerca.


spettacoli

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er dare l’idea di chi fosse Saul Bellow, nel giorno dell’elezione di Obama a presidente degli Stati Uniti d’America e mentre in Italia esce il secondo Meridiano Mondadori che raccoglie la sua opera, si può ricordare un aneddoto di quaranta e più anni fa. È il 1965 e gli Us sono impegnati in Vietnam nell’operazione Rolling Thunder, con l’obiettivo di piegare la resistenza della guerriglia Viet Cong. Lo storico di Princeton Eric Goldman, consulente del presedente Lyndon Johnson, organizza un incontro culturale alla Casa Bianca per allentare la tensione dell’opinione pubblica sul governo. Sono invitati i maggiori esponenti culturali della nazione e Saul Bellow è, naturalmente, nella lista. Il poeta Robert Lowell, dopo aver inizialmente accettato, scrive a Johnson e per gradita conoscenza al New York Times - declinando l’invito e biasimando la sua politica estera. Apriti cielo. Il NYT pubblica in prima pagina una petizione di venti scrittori a sostegno del rifiuto motivato di Lowell. Bellow, che pure è contro la guerra in Vietnam, se ne infischia e accetta l’invito alla Casa Bianca, attirandosi le critiche aspre del jet set letterario newyorkese. A cui risponde in questo modo: «Non vedo come il fatto di pensarla così (sua contrarietà alla guerra in Vietnam, ndr) mi debba imporre di trattare Johnson come un Hitler. Johnson non è Hitler. Sarà una bestia in molte cose ma è il Presidente. […] Sarebbe ora che gli intellettuali, specie gli ex marxisti, decidessero una buona volta che cosa è secondo loro lo Stato».

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Che nessuno tra i grandi scrittori americani di oggi abbia reagito con la stessa lucida risoluzione di Bellow alla continua, assillante associazione propagandistica tra George W. Bush e Hitler, è un segno dei tempi. Un brutto segno dei tempi. A Bellow, Bush non piaceva molto, almeno quanto non piaceva Lyndon Johnson. Ma più di tutto a lui, campione letterario del pensiero razionale, non piaceva questo modo isterico e umorale con cui l’uomo occidentale globalizzato reagisce alle cose che gli capitano. I romanzi raccolti nel Meridiano Mondadori - più degli altri, i tre capolavori: Her-

Libri. Tre romanzi dello scrittore americano nel nuovo “Merdiano” Mondadori

A spasso nella letteratura democratica di Saul Bellow di Antonio Funiciello

È forse il più “politico” dei letterati occidentale del Novecento: lo spazio fisico delle sue opere è imprescindibilmente quello della democrazia

zog del ’64, Il dono di Humboldt del ’75 e Ravelstein pubblicato nel 2000 - riflettono sull’isteria dilagante e sulla fatica che fa l’uomo kantiano ad averci a che fare. Questo rapporto è talmente gravoso e conflittuale da arrivare a sovvertire l’ordine dei termini, per cui l’isteria globalizzata si normalizza e la razionalità dell’uomo kantiano diventa patologia. I protagonisti dei romanzi di Bellow non possono così che diventare dei loser, proprio nella misura in essi escono continuamente sconfitti dalla sfida con

l’isteria normalizzata. Eppure sono tutti uomini tenaci, orgogliosi soprattutto, e non riescono proprio a darsi definitivamente per vinti: «Se sono matto, per me va benissimo» è il celeberrimo incipit di Herzog.

In alto, una famosa foto di Saul Bellow. Sopra, le copertine di tre dei romanzi raccolti nel nuovo “Meridiano” Mondadori: “Il dono di Humboldt”, “Herzog” e “Ravelstein”

Bellow è forse il più “politico” degli scrittori della letteratura occidentale del Novecento. Lo è non già perché nelle sue storie le idee politiche assumono parte dominante su tutto il resto, per usare il paradigma del critico Irving Howe, amico dello scrittore. Ma perché lo spazio fisico

dei suoi romanzi di idee (novels of ideas) è imprescindibilmente quello della democrazia, entro cui continuamente s’inscena lo scontro tra isteria collettiva e ragione del singolo. Le vicende dei protagonisti dei suoi libri non sono pensabili se non nello libertà dello spazio democratico. Non le trame delle loro storie: nei romanzi di Bellow, di narrativo in senso tradizionale, accade poco o niente. Bene ha detto il giallista Scott Turow scrivendo che la trama in Bellow può sempre riassumersi nella formula elementare «c’è un tizio che va in giro». Tuttavia proprio questo “andare in giro” è impensabile fuori dall’ambiente democratico e, in special modo, in quel particolare ambiente dell’eccellenza democratica che sono le grandi metropoli americane. Gli antieroi di Bellow si muovono alla ricerca del bandolo della matassa, sconfortati dalla confusione che la volgarizzazione isterica del nichilismo ha prodotto e pure certi che, recuperando il capo del filo, tutto tornerà chiaro e distinguibile.

Saul Bellow pubblica il suo ultimo romanzo, Ravelstein, nel 2000, a 75 anni suonati. È un atto d’amore verso l’amico Allan Bloom, l’autore di un testo centrale della contemporaneità, La chiusura della mente americana, che in Italia ha avuto una sola edizione nell’88 grazie a Frassinelli e poi, come la gran parte dei libri che fanno discutere il mondo, non è stato più riedito. Allan Bloom, nel romanzo di Bellow, è il professore di filosofia politica Abe Ravelstein che quando tossisce ti fa sentire «l’eco di un pozzo in fondo a una miniera». Coi suoi studenti discute appassionatamente del parallelo che c’è «tra i fenomeni delle grandi città e la confusione mentale degli Us, i vincitori della Guerra Fredda, l’unica superpotenza rimasta». Li ascolta, li interroga, li inquieta, gli scarica addosso un’enormità di dubbi come un camion betoniera che rovescia il suo cemento. Gli chiede: «Con che cosa, in questa democrazia moderna, andrete incontro alle esigenze della vostra anima?». Ecco, nella domanda del professor Ravelstein è racchiusa tutta l’affascinante libertà dell’invenzione letteraria di Saul Bellow e l’abbrivio di ogni suo romanzo.


spettacoli

6 novembre 2008 • pagina 21

Miti incrollabili. A 82 anni (sì, “suonati”) torna a stupire con l’album nuovo di zecca “One Kind Favor”

B.B. King, il Re Mida del blues di Federico Zamboni l blues è per sempre. Tante altre musiche no: nascono dalle circostanze, dagli abbagli di un momento, dalle mode passeggere; e tramontano in fretta, naturalmente. Il blues è nato nella notte dei tempi. O, per lo meno, si è venuto preparando da tempi immemorabili, come un lago sotterraneo che si forma a poco a poco, e che custodisce nell’oscurità il suo immenso deposito di acqua benefica. Non purissima, e men che meno distillata. Benefica: piena di minerali che a prima vista possono darti da pensare, per come intorbidano il liquido, ma che in un modo o nell’altro ti aiuteranno. Senza che tu nemmeno te ne accorga. B.B. King è nato il 16 settembre 1925, ed è cresciuto con quell’acqua. Ci si è abbeverato fin dall’inizio, come ogni individuo dovrebbe abbeverarsi all’identità del popolo al quale appartiene.

B.B. King è ormai da tempo una vera e propria leggenda. Un artista celeberrimo non solo negli Usa ma in tutto il mondo. Amatissimo sia dal pubblico che dagli altri campioni della chitarra blues, a cominciare da Eric Clapton che ne parlava come di un maestro già negli anni Sessanta e che finalmente, nel 2000, è riuscito a realizzare con lui l’album (buono, non eccezionale) Riding With The King. Questa fama smisurata non dipende solo dalla sua bravura. Non implica che lui sia il migliore di tutti – definizione che ha poco senso di per sé e che, comunque, è esplicitamente rifiutata dall’interessato, prodigo di apprezzamenti per molti altri musicisti e convinto che un’eventuale leadership spetti semmai a Stevie Ray Vaughan, che se non fosse morto a neanche 36 anni in un incidente aereo, accaduto il 27 agosto 1990, «avrebbe potuto fare per il blues ciò che Elvis fece per il rock’n’roll» – ma attesta uno straordinario miscuglio di talento e di dedizione, di perizia da professionista e di entusiasmo da fan. Nonché, senza nulla togliere all’arte, l’accorto e infaticabile lavoro di marketing svolto dal manager Sid Seidenberg. Non si è mai fermato, B.B. King. Dal lontanissimo 1949 in cui pubblicò il primo disco, ha inanellato una miriade di album e di concerti. Un ritmo di lavoro abnorme, che si spiega soltanto col fatto che non si tratta certo di solo lavoro ma di inesauribile passione. Il blues che accende sul palco, in fondo, è lo stesso blues che accenderebbe per se stesso.

I

B.B. King è nato a Itta Bena, un posto così piccolo che non è riportato su nessun atlante, e che non è facile trovare neanche sulle carte geografiche del Mississippi. Famiglia povera, com’era la regola per i neri d’America, e in particolare per quelli del Sud, in quella lunga, lunghissima fase di transizione che comincia alla fine della Guerra di Secessione. La schiavitù che viene legalmente abolita, ma che continua nella forma ipocrita della mezzadria: il proprietario bianco che vive come un feudatario; i fittavoli negri (negri, non neri; niente “politicamente corretto”, allora) che dipendono completamente da lui per la sopravvivenza e che, quindi, non hanno quasi mai la forza, e per lo più neppure l’intenzione, di ribellarsi a questo stato di cose, sopraffazioni comprese. «Ogni piantagione – ricorda lo stesso B.B. King nella sua gustosissima autobiografia Blues All Around Me – era un piccolo mondo a sé stante. I proprietari erano come piccoli sovrani assoluti di piccoli regni, e agli sceriffi non piace-

Fin da piccolo si abbevera nella benefica acqua della musica “spiritual” dei neri. E l’ultima fatica mostra l’artista nella sua luce migliore va violarne i confini, anche quando questo significava rinunciare alla cattura di un malfattore. La cosa ti dava una duplice sensazione – ti faceva sentire protetto, ma anche impotente, come se non fossi stato in grado di cavartela da solo una volta uscito nel mondo». Ma a B.B. King va bene, tutto sommato. I suoi “padroni” sono gente tranquilla, che esercita il proprio potere senza abusarne. Accettate le regole del gioco – molto lavoro e pochi soldi – la vita scorre calda e intensa, mescolando nello stesso crogiuolo carnalità primitiva, animismo africano e cristianesimo acquisito. Anche se la sua famiglia si

disgrega in fretta, coi genitori che si lasciano presto e sua madre che muore quando lui è ancora un bambino, la solitudine è impossibile: la rete delle parentele è vasta, la comunità si stende tutto intorno in cerchi concentrici che mantengono qualcosa della condivisione tribaTorna a 82 anni il re indiscusso del blues: B.B. King. E lo fa nella forma migliore, col nuovissimo album “One Kind Favor“

le, la realtà contadina avvicina le persone in ogni fase della vita, dai lavori agricoli agli svaghi collettivi, dalla dimensione profana a quella religiosa. E il filo conduttore, spessissimo, è la musica. La musica che si fa in chiesa: lo spiritual. La musica che si fa nei campi, nelle case, nei locali di intrattenimento, nelle strade: il blues. B.B. King la ascolta, la assorbe, la ammira. Guarda i musicisti e sogna di diventare come loro. La sua prima chitarra la ottiene a dodici anni. Quindici dollari «e anche se in seguito appresi di essere stato fregato non me ne importò più di tanto – ero assolutamente innamorato di quella chitarra». Più di settanta anni dopo, oggi,

Il nuovo album si chiama One Kind Favor. Prodotto dal sagacissimo T-Bone Burnett, che un annetto fa aveva firmato, ingigantendone le doti, il sorprendente Raising Sand della“strana coppia” rock-bluegrass Robert Plant & Alison Krauss, mostra B.B. King nella sua luce migliore. I moltissimi anni, di vita e di arte, non sono un fardello che grava sulle spalle e rallenta il passo ma una riserva, pressoché infinita, di energia e di consapevolezza. Il blues che viene proposto è solido come uno standard e vitale come un inedito. Blues di quello che non ce n’è mai troppo, per quanto gli scaffali siano riforniti e l’ascolto attento. Blues che sgorga dal terreno e zampilla sicuro, come acqua liberata dal sottosuolo. Buona da bere. Fresca sulla pelle. Meravigliosa da guardare in controluce, attraversata e benedetta dai raggi virili del Sole o da quelli romantici della Luna.


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da ”Le Monde” del 04/11/2008

In Cina tutti a scuola di urbanistica di Grégoire Allix on si sarebbe potuto immaginare un luogo più appropriato. Siamo a Nanchino, in Cina, un Paese che più di tutti ci mostra la follia dei nuovi trend urbanistici mondiali. Sotto l’egida del programma dell’Onu «Habitat», si è svolto il Quarto forum mondiale di urbanistica (dal 3 al 6 novembre). Se molto spesso le città cinesi sono un modello da incubo, mostri color grigio annegati nell’inquinamento, con anonimi grattacieli e attraversate da autostrade, l’Onu e la Banca mondiale vorrebbero, ciascuno per le sue competenze, vorrebbero costruire, in Cina, un modello d’urbanizzazione di qualità. Il Forum urbanistico mondiale, che si tiene ogni due anni, si è imposto come un tradizionale appuntamento per gli esperti di tutto il pianeta. Si è passati dai mille e 200 partecipanti al primo appuntamento di Nairobi nel 2002, ai 4mila e 400 di Barcellona nel 2004, fino agli 11mila e 400 dell’appuntamento del 2006, a Vancouver. Tradizionalmente le Nazioni Unite premiano le iniziative e le politiche in materia abitativa. Quest’anno sarà il turno di tre metropoli del gigante asiatico: Nanchino, Shaoxing e Zhangjiagang.

N

È solo diplomazia? Non proprio, dichiara la direttrice del programma Habitat, Anna Tibaijuka: «Le autorità cinesi hanno profuso notevoli sforzi per equilibrare il rapporto fra aree rurali e quelle urbane, permettendo, in venticinque anni, a oltre mezzo miliardo di persone di superare il reddito di sopravvivenza di un dollaro al giorno, e a costruire alloggi a prezzi accessibili... Potete fare un confronto con l’India. In Cina non ci sono persone che dormono per strada». Per la signora Tibaijuka «possiamo impara-

re dai buoni risultati ottenuti in Cina, soprattutto in questi tempi di crisi finanziaria mondiale.Tutti i vincitori, premiati dalle Nazioni Unite, dimostrano che sono i governi che devono prendere l’iniziativa in materia abitativa». Il tema del quarto Forum «l’urbanizzazione armoniosa», fa eco alla visione di una «società dell’armonia», paradigma della politica del Partito comunista cinese. «Un tema che include non solo aspetti sociali, economici e ambientali, ma anche l’armonia e l’equilibrio tra le zone rurali e quelle urbane, tra l’antico e il moderno», spiega Jiang Weixin, ministro per le Politiche abitative e lo sviluppo urbano e rurale. Anche se l’argomento potrebbe far sorridere in un Paese che ha costruito le sue città a marce forzate, facendo tabula rasa del suo patrimonio culturale e con il trasferimento forzato di milioni di abitanti. Lo sviluppo demografico cinese ha trasformato il fenomeno in qualcosa di vertiginosa. Sotto l’effetto di un esodo di massa dalle regioni rurali, la popolazione urbana è passata dai 77 milioni del 1953, ai 190 milioni del 1980, ai 470 milioni del Duemila, fino a raggiungere il numero di 650 milioni di oggi, se si dovesse includere la popolazione di 150 milioni di pendolari. Circa 246 città sono state edificate dal 1990 e altre 400 lo saranno fino al 2020, per riuscire ad assorbire il flusso continuo d’emigranti dalle campagne. Alcuni piccoli centri come Shenzen e Chongquin sono diventati delle megalopoli tentacolari, che superano i 10 milioni d’abitanti. Nel Paese ci sono 89 città con una popolazione che

supera il milione – di questi 49 sono sorte negli ultimi venti anni. Oggi l’indice di urbanizzazione della popolazione è del 45 per cento, ma entro il 2020 dovrebbe raggiungere il 60 per cento. A quel punto le aree urbane avranno assorbito altri 300 milioni di cinesi. Il buon ranking della Cina tiene conto del fatto che è riuscita ad evitare le baraccopoli. «La Cina è riuscita a controllare i flussi e a moderare il tasso di inurbamento – spiega Shahid Yusuf, economista della Banca mondiale che ha pubblicato un rapporto sull’urbanizzazione della Cina Grazie alla crescita economica la povertà urbana è stata contenuta tra il 4 e il 6 per cento, un indice molto basso rispetto ad altre zone». Per Yusuf il fatto che le città cinesi manchino totalmente di fascino è un fatto secondario. Oltre il 10 per cento del Pil nazionale viene investito in strutture e servizi per le città. Queste sono il cuore dello sviluppo economico della Cina, producono il 60 per cento del Pil. Giusto per uscire un po’dall’elencazione laudatoria dobbiamo dire che il Paese conta fra le trenta città più inquinate al mondo.

L’IMMAGINE

Scuola e Università sono troppo serie per lasciarle nelle mani dei governi Il governo sembra stia pensando un po’ meglio al da farsi per l’Università. I tagli restano ma saranno mirati: solo le spese inutili e dannose. Nella nostra università, c’è solo l’imbarazzo della scelta: migliaia di corsi di laurea inutili, che servono solo ai docenti che non hanno nulla da insegnare. In questi giorni, con lo sciopero per la scuola e l’università, abbiamo assistito a uno spettacolo che non credo di aver mai visto in nessun altra nazione mediamente decente. Il governo che invece di prepararsi bene e dire cosa taglia e perché si presenta impreparato e con una serie di tagli indistinti; dall’altra parte, i docenti che difendono solo i loro interessi e privilegi; gli studenti che non si avvedono di essere strumentalizzati da docenti e politici. La scuola e l’università sono delle cose troppo serie per lasciarle nelle mani dei governi, dei baroni, dei sindacati, dei professori senza professionalità. La “scuola libera”, che il suo giornale sostiene, è l’unica strada per risollevare le sorti del sistema scolastico nazionale, ma non c’è nessun politico o un accademico di fama che sia capace di spiegare cosa sia.

Lucio Signori - Roma

PIÙ FIDUCIA AGLI ELETTORI Nel seguire le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, ho potuto constatare che, contrariamente a quanto avviene in Italia, negli Usa è consentita la diffusione di sondaggi o lo svolgimento della campagna elettorale addirittura ad urne aperte (in diversi Stati si vota con largo anticipo). Perché da noi non si può fare lo stesso? Perché abbiamo tanta sfiducia nell’elettore?

Antonio Massioni - Milano

ARBITRAGGI SCORRETTI Dopo aver visto l’arbitraggio di Milan-Napoli, possiamo chiederci se il Napoli è da scudetto? Se continuano ad arbitrare certi personaggi inquisiti per Calciopoli, che avrebbero addirittura patteggiato

la pena e quindi colpevoli, come si può sperare in un futuro migliore per il calcio e per il nostro Napoli, che è vittima di certi meccanismi che esistono ancora?

Gennaro Esposito - Napoli

PROPOSTA PER I REFERENDUM In riferimento ai referendum mi piacerebbe che venisse varata una legge che, qualora non si raggiunga il quorum, addebbiti le spese ai promotori ed ai firmatari, anziché gravare sulle tasche dei contribuenti.

Anna Cavallari - Bologna

UNO STUDIO SUL SORRISO DI CIRCOSTANZA Il sorriso di circostanza è un espediente quasi involontario per ”sal-

Specchio d’acqua Guai a separarli! Del resto sarebbe impossibile, visto che queste due tilapia del Nilo (Oreochromis niloticus) sono gemelli e per di più siamesi. Nuotare attaccati per la pancia non dev’essere il massimo, ma dopo 8 mesi di convivenza “forzata” - questa è infatti la loro età - i pesciolini hanno raggiunto un’intesa perfetta

vare”le cosiddette ”apparenze”. Lo utilizziamo regolarmente quando ci sentiamo in imbarazzo e/o quando vogliamo dissimulare la nostra antipatia nei confronti di un’altra persona. Espediente tipico di una società fondata sulla menzogna e l’ipocrisia - come quella di cui facciamo ahinoi parte - sul sorriso di circostanza è stato realizzato uno studio da parte della Miami

University che ha dimostrato come gli individui abituati ad essere emarginati e/o discriminati dalla massa siano maggiormente ricettivi in fatto di sorrisi di circostanza: loro li smascherano subito! Ciò è spiegabilissimo in quanto l’“escluso”, l’“emarginato”, è una persona di per sé ricettiva in quanto anelante ad emanciparsi, a raggiungere uno stato di completa accetta-

zione da parte dell’altro suo simile. Coloro i quali, diversamente, non hanno mai vissuto esperienze simili, sono inevitabilmente prede di un inconsapevole “assopimento” derivante proprio dalla mancata esperienza. E così, costoro, preferiranno “fare massa”, aggregarsi al pecorume, e proseguire nel loro “hobby discriminatorio”

Luca Bagatin


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Non siamo il centro della natura, lo scopo della creazione È una delicata attenzione, la tua, inviarmi ogni mattina il racconto della giornata precedente. Per quanto uniforme sia la tua vita hai almeno qualcosa da raccontarmi. Ma la mia è un lago, una palude stagnante che nulla smuove e dove nulla appare. Posso dire quel che farò fra un mese, fra un anno. E considero tutto ciò non con rassegnazione ma con gioia. Non ricevo nessuna visita, nulla penetra dall’esterno fino a me. Non c’è orso bianco sul suo lastrone di ghiaccio polare che viva in un più profondo oblio della terra. La mia natura mi porta a ciò con forza, e inoltre per arrivarci ci ho messo dell’Arte. Mi sono scavato il mio buco e ci sto dentro attento che ci sia sempre la stessa temperatura. Sono poco curioso delle notizie, la politica mi uccide, il romanzo a puntate mi appesta. Mi parli di un terremoto a Livorno. Quand’anche aprissi la bocca sull’argomento per lasciarne uscire le frasi consacrate all’uso: «Che peccato! che orribile disastro! oh mio Dio!», questo restituirebbe forse la vita ai morti, i beni ai poveri? C’è, in tutto ciò, un senso nascosto che non capiamo e senza dubbio d’una utilità superiore, come la pioggia e il vento. Facciamo di noi il centro della natura, lo scopo della creazione e la sua ragion suprema. Tutto quel che non ci sembra conforme ci stupisce, tutto quello che ci è opposto ci esaspera. Gustave Flaubert a Louise Colet

ACCADDE OGGI

GLI ITALIANI VOGLIONO IL RIGORE MA POI CRITICANO BRUNETTA Che strano Paese l’Italia. Prima ci si lamenta della nostra scarsa attitudine al rigore e al rispetto delle leggi, si biasima la nostra tendenza a cercare sempre la scappatoia per aggirare ogni divieto. Poi, quando i ministri Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini cercano di assicurare ai propri dicasteri una decisa inversione di rotta, con maggior rigore e severità, apriti cielo. Critiche a non finire, cortei e manifestazioni contro il giro di vite anti assenteismo, lassismo e scarsa efficienza. Siamo proprio incorreggibili.

Mauro Luglio – Monfalcone

CENSURA AUTOMATICA DEI DATI AUDIO Microsoft ha depositato il brevetto di un’invenzione denominata «censura automatica dei dati audio». Secondo i tecnici dell’azienda statunitense, il sistema può sostituirsi all’uomo nell’opera di controllo e permetterà l’eliminazione automatica di parole offensive anche durante i programmi radiofonici o televisivi in diretta. Se questo sistema verrà adottato in Italia, le interviste ai telegiornali dell’onorevole Antonio Di Pietro andranno in onda sicuramente senza audio.

Maurizio Tempesti – Novara

SOLO BUSINESS PER TRENITALIA La società Trenitalia Regionale, del gruppo FS, in vista del nuovo orario che sarà varato il 14 dicembre prossimo, ha dato il via alla “battaglia d’ in-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

6 novembre 1789 Papa Pio VI nomina padre John Carroll come primo vescovo cattolico degli Stati Uniti. 1860 Abraham Lincoln viene eletto come 16° Presidente degli Stati Uniti, è il primo repubblicano a detenere la carica. 1869 A New Brunswick (New Jersey), si disputa la prima partita ufficiale di football tra college. 1913 Mohandas Gandhi viene arrestato mentre guida una marcia di minatori indiani in Sudafrica. 1942 Seconda guerra mondiale: i resti della Divisione Folgore, in ritirata da El Alamein, si arrendono agli inglesi dopo aver distrutto le proprie armi rese inutili dall’esaurimento delle munizioni. 1965 Inizio dei Freedom Flights: Cuba e gli Stati Uniti concordano formalmente per dare il via ad un ponte aereo per i cubani che vogliono andare negli Usa. 1975 Inizia la Marcia Verde: 300.000 marocchini disarmati convergono sulla città meridionale di Tarfaya

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

verno”. Un’azione che vede come nemico unico il pendolare e l’utenza regionale in genere. Le Ferrovie dello Stato, giorno dopo giorno dimenticano le esigenze del “servizio pubblico”. Per quei dirigenti esiste solo il business, l’ Alta Velocità, la improbabile concorrenza con l’aereo, un maquillage tecnico-politico. Lauti stipendi ai vertici, liquidazioni d’oro ad amministratori delegati fallimentari che, dopo aver abbandonato le Ferrovie dello Stato, hanno trasferito la vocazione ai fallimenti in altre aziende pubbliche. I viaggiatori degli sgangherati treni regionali, indispensabili per lavoro e studio, sono un popolo bue che disturba lorsignori.

Giovanni Miele - Salerno

ITALIA, EX CENERENTOLA Cerchiamo di capire i politici e la politica: se il ministro Giulio Tremonti afferma che la crisi nella quale l’Italia si trova è di tutta Eurolandia, significa che il problema non è interno al calmiere nostrano ma parallelo a quello delle altre nazioni dell’Europa, in un periodo internazionale notoriamente critico per tutti. Ciò è già molto perché significa che la destra è riuscita a togliere l’Italia dal ruolo di Cenerentola: in passato, infatti, quando tutti i Paesi europei ballavano sui carboni, l’Italia non poteva neanche uscire allo scoperto per la sua quota parte di recessione che era spaventosa.

dai circoli liberal

DOVE SONO I VOLTI NUOVI DELLA POLITICA? Introdurre nuovi volti accompagnati da nuovi cervelli in politica, dovrebbe essere una delle tante priorità del sistema politico di una Nazione, per avere sempre una classe dirigente al passo con i tempi. Ma spesso questo non accade. Basti pensare alla campagna elettorale scorsa, il Pd e il Pdl due contenitori che hanno per ora fallito nella mission del bipartitismo perfetto, gareggiavano alla ricerca di giovani da candidare e immettere nel circuito del palazzo del potere o del servizio alla comunità. Dopo pochi mesi, possiamo ben dire a ragion veduta che il progetto della creazione di un bipartitismo perfetto è un progetto politico che mal si cuce sulla storia culturale del nostro paese: in Italia può esserci solo un bipolarismo regolato da una chiara legge elettorale che garantisca la governabilità e il voto popolare. La politica deve rinnovarsi? Come? Gli spot elettorali sono restati tali, nei posti chiave di governo sono ancora troppo pochi i giovani trentenni o quarantenni, questo a dimostrazione che nel nostro Paese solo un serio percorso decennale potrà portare i giovani ad avere spazi sia a livello locale che nazionale. È necessario costruire percorsi culturali e formativi, per far sì che si abbiano dei rappresentanti che siano uniformati alle istanze delle varie quotidianità, per avere legislatori che legiferino, per promuovere sviluppo, legalità, occupazione. Oggi i giovani sono fuori da ogni circuito di potere e di reale decisione. Abbiamo una Nazione sempre più povera e sempre meno in concorrenza con tutti gli altri paesi europei, e il problema sarà ancora più evidente quando i nuovi entrati nella Ue inizieranno a far sentire la loro voce mettendo in difficoltà le Nazioni anagraficamente vecchie dell’Europa, tra cui l’Italia. Credo quindi che non sia più rinviabile una politica per le famiglie a sostegno delle nascite e una politica che promuova i giovani nel sistema pubblico e privato del nostro Paese. In assenza avremo nei prossimi decenni una gravissima recessione sociale che è ancor più grave di una mera recessione economica o finanziaria. Non siamo dinanzi ad una semplice presa di posizione culturale e generazionale ma che certe scelte sono dovute, per avere un sistema paese funzionante ed efficiente. Naturalmente, ben si possono comprendere le ragioni di chi strenuamente difende le proprie rendite, perché in molti casi tali sono rendite vitalizie tramandate di padre in figlio, tutto questo ha di fatti costruito una Nazione-Casta con un’economia bloccata. Luigi Ruberto CIRCOLO LIBERAL MONTI DAUNI

APPUNTAMENTI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 2008, ALLE ORE 11, PRESSO PALAZZO FERRAJOLI A ROMA Riunione Nazionale con i coordinatori regionali, provinciali e comunali dei Circoli liberal

Bruno Russo - Napoli

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO

Se qualcuno ancora dubita

del fatto che l’America sia il posto dove tutto è possibile, e si domanda se il sogno dei nostri fondatori sia ancora vivo ai giorni nostri, e si chiede quale sia il potere della nostra democrazia, stanotte ha ricevuto la sua risposta.

Non siamo e non siamo mai stati un gruppo di individui o un gruppo di Stati rossi e Stati blu. Siamo, e saremo per sempre, gli Stati Uniti d’America.


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