ISSN 1827-8817 81107
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he di cronac
er non essere gli straziati martiri del Tempo, ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare
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CHARLES BAUDELAIRE
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Trichet porta il costo del denaro al 3.25%, ma le Borse continuano a perdere
Giù i tassi europei. Giusto, ma non basta
IL TEST DELLA VERITÀ In Italia Pdl e Pd saltano sul carro del vincitore. Vediamo se hanno ragione
E tu sei obamiano?
di Carlo Lottieri
1) È giusto che il premier del centrodestra sia lo stesso da 15 anni? 2) Che il centrosinistra abbia proposto lo stesso leader per 12 anni? 3) Che in Italia i partiti non siano democratici e dunque “scalabili”? 4) Che i parlamentari non siano scelti dagli elettori? 5) Che la R ai sia co ntr ollata d ai p ar titi? 6) Che go verno e o pp osizio ne no n collabo rino mai t ra loro ?
Se rispondete sì ad almeno quattro domande, e non fate niente per cambiare la situazione, non prendeteci in giro dicendo che il vostro modello è Obama alle pagine 2, 3, 4 e 5
a decisione di Jean Claude Trichet e della Banca centrale europea di tagliare i tassi di interesse al 3,25 per cento era prevista e prevedibile. Anzi, quasi annunciata la scorsa settimana quando il Presidente della Bce aveva parlato di novità dopo le elezioni americane. Fin dall’inizio, la crisi finanziaria è stata caratterizzata dal rarefarsi del prestito interbancario e, in sostanza, dal venir meno della fiducia tra le banche, le quali temono di dare risorse a chi poi potrebbe non essere in condizione di restituirle. In parte, il problema viene aggirato usando la Banca europea (a cui si prestano capitali e da cui li si ricevono), ma è chiaro che una riduzione del costo del denaro può favorire la ripresa del credito. Si tratta, però, di una strategia miope: per la semplice ragione che serve solo nel breve periodo.
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L’Europa batta un colpo per il Congo di Luca Volontè • pagina 15
Religioni sulla via del dialogo
Il Papa all’islam: «Siamo una stessa famiglia» di Francesco Rositano ano tesa di Benedetto XVI ai partecipanti al primo Forum islamo-cristiano che hanno concluso la prima sessione di lavori. Incontrandoli al termine di questa due giorni, dedicata al tema L’amore di Dio, amore del prossimo, il Papa ha detto: «Siamo una sola famiglia». Una dichiarazione importante che fa capire come il Pontefice abbia preso sul serio la “sfida” lanciata un anno fa dai 138 leader islamici che, in una lettera indirizzata ai capi cristiani, invitavano ad una «parola comune» delle religioni per la pace e la fratellanza.
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Il presidente della Camera avvisa Berlusconi: niente fiducia sulla finanziaria
Lo schiaffo di Fini di Errico Novi ROMA. Non ha un partito. Ha solo il fragile salvacondotto del ruolo istituzionale, ma politicamente Gianfranco Fini non è mai stato così leggero. Eppure ha trovato uno spazio. Lo ha intravisto, ha esitato qualche settimana prima di occuparlo e adesso ci si infila con modi tutt’altro che prudenti.
forse consentirgli di riemergere dal grigiore di questi mesi. Chi ha avuto modo di ascoltarlo negli ultimi giorni lo ha definito «preoccupato per il modo di procedere dell’esecutivo: innanzitutto perché viene messa sempre più in pericolo l’utilità del Parlamento, ma anche per una valutazione politica di parte». Fini, spiegano, «intuisce che un decisionismo Al primo sguardo il presidente delche comincia a prescindere dal con«Porre la fiducia sulla legge finanziaria la Camera che definisce «deprecabisenso può trasformarsi in dispotisarebbe deprecabile», queste le parole le» l’eventuale ricorso del governo alsmo». E non è solo una questione di di Fini contro il governo la fiducia sulla Finanziaria appare tetenuta democratica. Il leader della merario. Gioca scoperto, apre le ostilità con un presidente del quasi disciolta Alleanza nazionale teme un’imprevedibile Consiglio che marcia come un bulldozer, incurante della sua replica, un circolo vizioso analogo a quello che si innescò stessa maggioranza, come dimostra l’over rule in commissio- per il precedente governo Berlusconi con l’articolo 18. ne Bilancio. Eppure Fini ha individuato una strada che può s eg ue a p a gi na 8
VENERDÌ 7 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
214 •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Paradossi. Dopo le presidenziali Usa, tutti i «vecchi» leader italiani si sono scoperti seguaci del «nuovo» corso
Gli Obamiani immaginari Chi sale (senza crederci) sul carro del vincitore Né Berlusconi né Veltroni supererebbero il nostro test di Rernzo Foa utti o quasi, sono saliti sul carro del vincitore Barak Obama. Ma chi ne ha veramente i titoli, aldilà di Walter Veltroni che è stato tra i primi ad accorgersi della novità? Un po’ per gioco e un po’ sul serio si può provare a risponde ponendo delle domande che definiscono l’immobilismo italiano, soprattutto se messo a confronto con il dinamismo che ha dimostrato un’America dove, in quattro anni, un quarantenne
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e la raffigurazione, in secondo luogo, di una condotta molto concreta, forse apprezzata per questo, ma senza prospettare grandi orizzonti al proprio elettorato e all’opinione pubblica in generale: se quindici anni fa promise una rivoluzione liberale, di questa rivoluzione restano solo piccole tracce.
Pensiamo poi all’altro presidente del Consiglio, quello che è stato a Palazzo Chigi fino alle elezioni dello scorso aprile.
Una dichiarazione da Mosca
Gaffe volontaria del Cavaliere: «Obama? Giovane, bello e abbronzato»
Il premier «scese in campo» nel 1994, dopo che era da tempo uno dei maggiori protagonisti del mondo dell’impresa: quindici anni, durante i quali ha vinto tre volte le elezioni (e ha governato) e per due volte le ha perse brillante, coraggioso e pieno di idee, ma del tutto sconosciuto, è riuscito a dare la scalata alla Casa Bianca, dopo essere riuscito a scalare un partito politico, divenendo una delle grandi figure del pianeta.
Pensiamo innanzitutto alla longevità politica del presidente del Consiglio che siede oggi a Palazzo Chigi. Silvio Berlusconi «scese in campo» nei primi giorni dell’ormai lontanissimo 1994, dopo che era da tempo uno dei maggiori del protagonisti mondo dell’impresa e della finanza. Si tratta di un periodo di quindici anni durante i quali ha vinto tre volte le elezioni, mentre per due volte le ha perse e che è stato alla guida del governo una prima volta per otto mesi, una seconda volta per cinque anni e ora, superati i settanta di età, lo è da sei mesi. Si tratta di un personaggio che sta dando di sè la raffigurazione in primo luogo di un potere personale senza alternative, all’interno dello schieramento che rappresenta;
Romano Prodi era in primo piano sulla scena dal 1996, quando vinse le elezioni con il simbolo dell’Ulivo, ma da una lunga stagione era già protagonista della vita pubblica come presidente dell’Iri e come ministro. Anche lui nel suo schieramento, il centrosinistra, non ha avuto per tredici anni grandi alternative, tanto è vero che è stato rchiamato in servizio per le elezioni del 2006. È stato, nella stagione bil’eterno polare, duellante con Berlusconi, che ha battuto per ben due volte, anche se nel 1998 venne sostituito dal suo compagno di schieramento Massimo D’Alema e se il successo di due anni fa fu effimero e di stretta misura.
Anche il leade r del Partito democratico, di una generazione più giovane di Berlusconi e di Prodi, è un eterno protagonista della vita politica italiana. Walter Veltroni, pur essendo una delle figure più dinamiche del centrosinistra, era già una vera e propria promessa nella Prima Re-
MOSCA. Silvio Berlusconi ha un debole per la semplicità della politica e gli piace trattare anche i temi più spinosi, come frammenti di conversazione amabile in Piazzetta, magari in Costa Smeralda. Una pacca sulla spalla e una verità: «Barack Obama? Giovane, bello e abbronzato». Non ha aggiunto che forse s’era fatto la lampada - Obama - ma forse lo ha chiosato in silenzio, ridendo fra sé e sé. Non c’era sole, ieri, a Mosca, dove ha fatto questa sua battuta spiritosa, ma se ci fosse stato forse il nostro presidente del Consiglio si sarebbe presentato sulla Piazza Rossa con la sua simpatica bandana. E sicuramente abbronzato. Comunque, il tono colloquiale dell’incontro con il presidente russo Dmitri Medvedev - sia pure in un contesto ufficiale - consentiva qualche fuori programma. Se poi sia di buon gusto o no sottolineare l’“abbronzatura” di Obama, è un dilemma che lasciamo alle opinioni di ciascuno. Certo è che nel nostro centro-destra il tema dell’abbronzatura altrui è piuttosto controverso. Fu l’attuale ministro Roberto Calderoli, due anni fa, a definire Rula Jebreal, la giornalista italo-palestinese «quella signora abbronzata, quella che diceva del deserto e del cammello». Lo fece in diretta televisiva (a Matrix) e non sentì il bisogno di scusarsi dell’ineleganza dovua al fatto che s’era in inverno e che la signora in questione non aveva l’abitudine di farsi la lampada. Possiamo solo intuire quale fosse lo spirito della “battuta” di Calderoli; più complesso è capire il senso di quella di Berlusconi. Voglia di conquistare un titolo sui giornali di mezzo mondo? Voglia d minimizzare quella che tutto il pianeta ha considerato una svolta epocale? Insomma, un nero alla guida della più grande potenza è una novità inaccettabile da chi partito per cambiare l’Italia non è ancora riuscito a farlo?
pubblica, quando poco più che ragazzo aveva assunto incarichi di primo piano nel Pci, per diventare poi nell’era del bipolarismo vice presidente del Consiglio con Prodi, segretario
dei Democratici di sinistra e, nel 2001, sindaco di Roma, per assumere finalmente nel 2007 la guida del Pd, essendo rimasto in quell’area il personaggio più rappresentativo dell’inno-
vazione politica, nonostante una già lunga carriera alle spalle.
Sono storie esemplari da cui risulta che ormai in Italia i partiti, dove esistono e se esistono, sono in realtà organismi chiusi ed esclusivi, ridotti al rango di centri di potere e di lobbies, ma sostanzialmente chiusi alla società. L’era del bipolarismo, di un bipolarismo malato, ha trasformato una democrazia articolata in tanti partiti, che svolgevano una grande e capillare funzione di rappresentanza di interessi sociali e di mediazione, in una democrazia fondata sulla priorità assoluta dei leader, in una democrazia dai partiti fragili, come è il Partito democratico, o non ancora esistenti, come è il Popolo della libertà. Con il risultato dell’eternità della leadership, come nel centrodestra con Berlusconi, o della quali paralisi, come è nel centrosinistra, dove «i capi» possono anche ruotare, ma sono sempre sostanzialmente gli stessi. Partiti dunque non solo non scalabili, come invece è successo tra i democrats americani, ma nemmeno aperti ad una innovazione di sostanza. Ma si tratta comunque di partiti che detengono un fortissimo potere di cotrollo su alcuni centri vitali del paese. Ad esempio, la stagione del bipolarismo ha consentito al centrosinistra, fin dal suo inizio, di aver un rapporto speciale con le banche. Ma - ed ecco un altro esempio, forse il più importante - ci trasciniamo dalla Prima Repubblica uno stretto controllo dei partiti sulla principale industria culturale e dell’informazione che c’è in Italia, cioè la Rai, con eterne lottizzazioni e spartizioni di reti e di testate. Il tutto in un regime della comunicazione viziato dall’assenza di una reale concorrenza. Con il risultato di rendere asfittico ogni dibattito. C’è qualcuno che ha sentito in Italia un duello come quelli a cui ha assistito nell’ultima campagna elettorale l’America? Ma anche - e questo è il risultato complessivo degli assetti che ci sono - con l’effetto di un logoramento complessivo del ceto politico. Si sa che
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Per Stefano Folli il nostro è un sistema politico infantile
«Imitazioni lontane dalla svolta americana» colloquio con Stefano Folli di Franco Insardà
ROMA. «Il dichiararsi obamiani non è del tutto
Anche il segretario del Pd ha una lunga carriera alle spalle: con il Pci era una promessa della Prima Repubblica. Poi è stato vice presidente del Consiglio con Prodi, segretario dei Ds e sindaco di Roma, fino ad assumere la guida del partito ormai, in virtù della legge elettorale, i parlamentari più che eletti dal «popolo sovrano» sono nominati dai leader che in realtà non devono rispondere a strutture dirigenti di partito o agli iscritti. Si sa poi - per continuare a fare un confronto con l’America, dove uno sconosciuto afroamericano può arrivare alla Casa Bianca nel giro di soli quattro anni - che al governo c’è un partito come la Lega, che ritiene impossibile che in Italia possa essere eletto un presidente o un primo ministro di colore. E si sa ancora che è impossibile da noi l’epilogo di un confronto elettorale, come quello di martedì notte, con quei due straordinari discorsi di Obama e di McCain che hanno sottolineato l’esistenza di comuni interessi dopo la
competizione, nel nome del futuro della nazione.
Non c’è da stupirsi allora, se questa è la politica, che i giovani in Italia pensino di avere un futuro soprattutto andando all’estero, certo un futuro di lavoro, ma anche un orizzonte, lasciandosi alle spalle un paese bloccato. Bloccato appunto nella vita pubblica e bloccato nei suoi centri formativi se le università sono ormai considerate luoghi di produzione di disoccupati. Un paese bloccato e chiuso a differenza di quello che ha dimostrato di essere la grande America, tanto criticata dal progressismo mondiale durante la presidenza di George W. Bush, ma capace di rifare irruzione nel mondo con un presidente inatteso come Barak Obama.
negativo. Anzi». Stefano Folli, editorialista del Sole 24 Ore, analizza questa ventata di novità che viene dagli Stati Uniti. In Italia, quindi, sono diventati tutti obamiani? Si tratta essenzialmente di un aspetto emotivo, perché il nostro sistema politico è completamente differente da quello americano che ha meccanismi elettorali diversi. Risulta, quindi, molto difficile fare un paragone con l’Italia. E allora come spiega questo fenomeno? C’è un forte desiderio di identificazione con questa fase storica che sta cominciando. E basta? Sì. Non si può applicare in modo razionale quello che è successo negli Stati Uniti alla nostra realtà politica. Parliamo di imitazioni che poco hanno a che fare con il senso della svolta americana. Ma il nostro sistema si sta avviando al bipartitismo. Siamo ancora in una fase infantile, immatura, del bipolarismo. Si tratta piuttosto di un’alchimia elettorale che ha certamente semplificato il quadro politico, ma da questo a paragonarci agli Stati Uniti ce ne passa. Il candidato repubblicano John McCain dopo la sconfitta ha detto: «Farò di tutto per aiutare il mio ex avversario che sarà il mio presidente». In Italia, invece, i leader degli opposti schieramenti sono in continua polemica. Qual è il comportamento corretto? Questa è l’esatta riproduzione della realtà. Dagli Stati Uniti arriva una lezione di democrazia e di rispetto delle regole. Stiamo, cioè, parlando di un sistema maturo. Da noi, invece, i comportamenti pubblici sono conflittuali e non c’è rispetto reciproco da parte dei politici. C’è soltanto una corsa a salire sul carro dei vincitori? Non direi questo e comunque distinguerei tra centrosinistra e centrodestra. In che senso? La nostra sinistra in questo momento è frustrata e intravede la speranza di poter sfruttare la scia dell’entusiasmo legato alla vittoria di Barack Obama. Ma la cosa va presa per quella che è. Il fatto, però, che il nostro Partito democratico si identifichi con questo non mi scandalizza. E il centrodestra e Berlusconi? In questo caso la situazione è completamente diversa. Silvio Berlusconi non è il tipo che cerca modelli esteri da imitare. Il Cavaliere guarda a se stesso, il prototipo è lui.
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Infatti a botta calda ha detto: «Sono più esperto, gli darò qualche consiglio». Appunto. Berlusconi è più politico degli altri e per opportunità è capace facilmente di in sintonia con tutti. Basta ricordare come si relazionò con Tony Blair. Il primo ministro inglese è stato il simbolo del riformismo, eppure con il Cavaliere, leader del centrodestra italiano, aveva ottimi rapporti. A proposito di leader europei Nicolas Sarkozy si sta proponendo come l’interlocutore principe di Obama. Ha alcune cose che lo accomunano al prossimo inquilino della Casa Bianca: l’anagrafe e una certa dinamicità politica. Questo, secondo lei, può essere un problema per Silvio Berlusconi? Barack Obama considererà il peso politico dei vari Paesi europei. È innegabile che la Francia di Sarkozy conti più dell’Italia. Silvio Berlusconi è consapevole di tutto ciò e quindi cerca di entrare in sintonia con i potenti utilizzando la tecnica della “pacca sulla spalla”. In questo spirito va intesa anche la visita del Cavaliere a Mosca: proporsi come mediatore tra Stati Uniti e Russia? Vorrebbe. Ma una cosa sono i rapporti personali che ha con Putin basati sulla sua simpatia, altra cosa è il potere effettivo dell’Italia del quale il nostro premier ha consapevolezza. Pensa che questa ventata di entusiasmo e di cambiamento possa influire sulle nuove generazioni di politici. Qualcuno potrà trovare il coraggio di osare? Speriamo di sì, ma non esiste un nesso meccanico tra la novità che è giunta da Oltreoceano e la nostra politica. Non è la prima volta che accade. Negli anni ’60 l’elezione di John Fitzgerald Kennedy fu altrettanto importante, ma non comportò riflessi importanti in Italia. Anche la leadership decennale di Blair ha segnato un’epoca, eppure... Per me Tony Blair è stato un personaggio importantissimo per la politica europea e mondiale, però la sua influenza qui da noi è stata relativa. Anche in quel caso fu visto come modello riformista, ma la cosa finì lì. Perché? Il nostro sistema politico è ingessato. I partiti sono bloccati e la scelta della classe dirigente è fatta da pochi. Il Pd ha celebrato le primarie, ma non hanno nulla a che vedere con quelle americane. Insomma potrà nascere in Italia una figura giovane e preparata come Obama? Onestamente non ci metterei la mano sul fuoco.
La sinistra è frustrata e spera di sfruttare questa vittoria. Berlusconi, invece, non cerca modelli da imitare, ma proverà a entrare in sintonia con Obama
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Diplomazie. Se i russi fossero stati tranquilli ancora per un po’ la nuova amministrazione avrebbe potuto eliminare lo Scudo
Mosca ha paura di Barack Dopo l’elezione del candidato democratico il Cremlino schiera nuovi missili. Non a caso di Stranamore on c’è ovviamente nulla di casuale nel fatto che il presidente russo Dimitri Medvedev abbia voluto annunciare lo schieramento di nuovi missili balistici a breve raggio SS-26 Tender nell’enclave di Kaliningrad, come peraltro aveva già minacciato e come in realtà era già previsto da tempo. Il “timing” rappresenta una prima mossa per sondare il terreno nei confronti della nuova amministrazione statunitense, che peraltro si insedierà solo a gennaio. Una iniziativa che, come ha giustamente rilevato il primo ministro polacco Donald Tusk, ha una valenza più politica che strettamente militare. Il partito Democratico infatti non ha mai negato la scarsa simpatia nei confronti dei piani varati dall’amministrazione Bush per realizzare in Europa un segmento del sistema di difesa antimissile Usa. In particolare entro il 2014 nella Repubblica Ceca sarà costruito un enorme radar di scoperta e tracciamento dei missili e in Polonia saranno installati 10 missili intercettori bistadio. I russi considerano, in evidente mala fede, questo progetto come un tentativo di mettere in discussione il proprio deterrente nucleare missilistico, gli Usa insistono che si tratta di un sistema rivolto verso l’Iran, la Siria o magari la Cina, ma certo non la Russia.Negli Usa poi i democratici non amano affatto i programmi per la difesa anti-
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missile che invece hanno avuto priorità e ricchi stanziamenti nell’era Bush.
Se i russi fossero stati tranquilli ancora per un po’, avrebbero potuto sperare nel riesame della politica di difesa e sicurezza e della allocazione dei
Agitare i missili balistici rappresenta proprio quello di cui la lobby della difesa antimissile Usa ha bisogno per continuare
fondi che la nuova amministrazione sarà chiamata ad effettuare tra pochi mesi. Mosca ha invece preferito chiarire e ribadire che non c’è nessuna apertura di credito “al buio”, nessuna honeymoon nei confronti del nuovo Presidente. E sì che
Il premier cerca appoggi per il G8
Berl usco ni in Russia fi r m a cont r at t i e c ald eg g ia il di s ge lo c on la N at o di Massimo Fazzi
al Cremlino dovrebbero festeggiare, perché se McCain fosse stato eletto l’atteggiamento degli Stati Uniti verso la Russia sarebbe diventato ancora più rigido e duro. Mosca ha giocato la “carta” missili balistici ed ora aspetta di scoprire quale sarà la reazione. Per ora Nato e Ue hanno espresso preoccupazione, il Pentagono ha confermato che i piani vanno avanti (posto che i parlamenti di Polonia e Repubblica Ceca devono ancora approvare il via libera alla costruzione dei siti antimissile statunitensi). Obama ha altro a cui pensare. La azione di Medvedev, in stile Guerra Fredda, rischia però di essere controproducente su più livelli. Da un lato Obama non può certo mostrarsi “debole” e cedere ad un ricatto russo su un tema di sicurezza nazionale. Obtorto collo la nuova amministrazione potrebbe essere forzata a continuare con lo spiegamento del sistema antimissile in Europa, a meno di ottenere una contropartita strategico-politica che i russi non sembrano proprio voler concedere, non certo dopo le vicende belliche in Georgia e la reazione UsaOccidentale.
In secondo luogo, una Russia che agita il bastone dei missili balistici rappresenta proprio quello che la lobby della difesa antimissile statunitense ha bisogno per chiedere al nuovo Presidente di non tagliare gli stanziamenti alla Mda, Missile Defense
Agency, ed ai suoi programmi. E può rafforzare il convincimento tra i Paesi Nato che anche l’Alleanza Atlantica debba al più presto dotarsi di sistemi di difesa antimissile per la protezione non solo delle proprie truppe e installazioni militari, ma anche dei rispettivi territori nazionali. Sotto il profilo tecnico-militare, va notato che la Russia già mantiene a Kaliningrad missili balistici tattici a breve raggio SS-21 Tochka. L’arrivo degli SS-26, lunghi 7,3 metri e pesanti quattro tonnellate, che nella versione “domestica”hanno una gittata di quasi 400 km e possono portare una testata pesante tra 500 e 700 kg, a seconda delle versioni, offre a Mosca la possibilità di lanciare un attacco preventivo contro il sito missilistico polacco,
MOSCA. «L’Italia vuole diventare il primo partner della Federazione russa». Si è presentato così il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ai giornalisti che seguivano ieri il vertice interministeriale italo-russo di Mosca. Nel corso del summit, infatti, è prevista la firma di circa 40 accordi di natura economico-commerciali, oltre all’incontro tra il premier e il presidente del Cremlino, Dmitri Medvedev. Berlusconi, che in serata ha incontrato anche il suo omologo russo – l’amico Vladimir – ha incassato i complimenti del neo presidente, che in conferenza stampa lo ha ringraziato «per la posizione equilibrata assunta durante la crisi caucasica dello scorso agosto». Sul piano politico, il governo italiano spera di favorire la ripresa della cooperazione tra Ue e Russia e tra Nato e Russia. Per quest’ultimo obiettivo, a dire il vero, l’Italia ha già dato, convincendo il Patto atlantico a salvaguardare buone rela-
ma anche di “battere”quasi tutta la Polonia.
Gli SS-26 sono missili che hanno preso il posto degli SCUD e hanno una elevata precisione, 10-30 metri. Però i Tender non arrivano alla Repubblica Ceca, per raggiungere la quale occorrerebbero armi a braccio più lungo. Ma passando la soglia dei 500 km di gittata Mosca andrebbe a violare un trattato, l’Inf, che ha limitato proprio questo tipo di armi (i famosi“euromissili”). Mosca ha già detto che intende denunciare il trattato, ma non è ancora il momento per salire questo nuovo gradino nella esclation bellicista. Certo né a Varsavia né a Washington fa piacere l’idea di avere le proprie città e i propri missili sotto
zioni con Mosca almeno riguardo a due aree di collaborazione cruciali: l’Afghanistan e la lotta al terrorismo. Berlusconi ha poi definito «indispensabile» un rilancio del dialogo tra Mosca e l’Occidente per affrontare adeguatamente molte questioni che minano la stabilità internazionale: la crisi del Caucaso, la proliferazione della armi di distruzione di massa, la lotta al terrorismo e al narcotraffico, la sicurezza energetica e i dossier relativi ad Afghanistan, Pakistan, Iran, Medio Oriente e Balcani.
Molto rilevante per l’Italia è poi la preparazione del G8 del 2009, di cui il nostro Paese eserciterà la presidenza. In particolare, Palazzo Chigi ha articolato la preparazione del G8 sulla riforma della governance economico-finanziaria globale, sulla sicurezza energetica, i cambiamenti climatici, la lotta alla povertà, la sicurezza alimentare e il dialogo
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Scenari geostrategici: il generale Jean abbozza una previsione sui rapporti Usa-Russia
«Se Medvedev alza la voce, lui non starà a guardare» colloquio con Carlo Jean di Francesco Rositano
ROMA. Barack Obama non è ancora ufficialmente il
tiro russo. E proprio per questo idonee contromisure sono già state prese, anche se pochi commentatori lo hanno evidenziato. Varsavia infatti ha chiesto ed ottenuto in cambio della concessione del proprio suolo che gli Usa schierino in Polonia anche batterie di missili antimissile Patriot. Che, guardacaso, sono particolarmente idonei, specie nella versione PAC-3, a intercettare i missili balistici a breve raggio come gli Scud… ed i Tender. Quindi si tratta davvero di un“gioco”diplomatico. Che però sta facendo studiare a molti Paesi Europei, e non solo, se il bilancio consenta l’acquisto di qualche sistema di difesa antimissile. Per intercettare quelli che potrebbero arrivare da Est, invece che da Sud-Est.
Il nuovo primo ministro della Federazione russa, Putin, che ha ceduto la presidenza a Dmitri Medvedev. A destra, il generale Carlo Jean. Nella pagina a fianco, un commerciante cinese osserva nel suo negozio un discorso di Barack Obama
rafforzato con i Paesi emergenti. Al summit hanno partecipato anche i ministri Giulio Tremonti (Economia), Claudio Scajola (Sviluppo economico), Roberto Maroni (Interno) e Sandro Bondi (Cultura), oltre al sottosegretario Carlo Giovanardi. Proprio quest’ultimo, che ha la delega sulla famiglia, ha firmato con il suo omologo un accordo sulle adozioni; Maroni un memorandum d’intesa sulla lotta al narcotraffico, mentre Scajola si è dedicato alla stipula di una dichiarazione d’interni per la collaborazione nel settore nucleare. Bondi, infine, firmerà un protocollo sullo scambio di mostre ed esposizioni.
Prevista infine la firma di una serie di accordi privati: quello tra Erg e LUKoil per l’avvio di una cooperazione industriale; quello tra Fiat e Sollers per la creazione di una joint-venture e quello tra Pirelli e Rosstekhnologij per la produzione di pneumatici.
presidente degli Stati Uniti d’America. Lo sarà solo a dicembre quando i “Grandi Elettori” si riuniranno per determinarne la nomina. Eppure alla Casa Bianca già arrivano, oltre ai numerosissimi auguri, anche le prime patate bollenti. È stato il presidente russo Dmitrij Medvedev a consegnarla, indirettamente, al nuovo leader degli Usa, attaccando il suo predecessore: George W. Bush. Commentando l’elezione di Obama, Medvedev infatti ha detto che «bisogna lavorare a un nuovo ordine mondiale ed economico» e non ripetere gli errori dell’amministrazione dello statista repubblicano che «per egoismo» e «unilateralismo» hanno portato il mondo alla guerra nel Caucaso e alla crisi finanziaria. Errori che se non corretti - ha precisato l’inquilino del Cremlino - potrebbero costringere Mosca a «ritorsioni». Ma per il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica, la Russia commetterebbe un errore non indifferente sfidando gli Usa sul terreno della corsa agli armamenti. «Mosca - sostiene - può fare una buona retorica, ma non molto più di questo: sinceramente non sarebbe in grado di fronteggiare gli Stati Uniti su quel terreno. Comunque - a meno di grossi cambiamenti - si riuscirà a trovare un equilibrio». L’attacco di Medvedev comuque aveva ragioni precise: prima su tutte la decisione di Bush di schierare i cosiddetti antimissili Bdm in Polonia. Una mossa interpretata chiaramente come una mancanza di volontà di dialogo, che a sua volta a spinto Medvedev all’offensiva, tanto che ha minacciato di installare testate nucleari nell’enclave di Kaliningrad, l’ex Prussia orientale. I razzi Iskander saranno affiancati da apparecchiature elettroniche per disturbare i sistemi d’arma americana basati in Polonia. Inoltre la Russia ha deciso di sospendere lo smantellamento di tre reggimenti missilistici basati nei pressi della capitale russa. Generale, il clima si sta surriscaldando. A suo avviso che succederà. E soprattutto: che farà dunque? Cercherà di guadagnare tempo. È sempre stato contrario alla Bmd, ma non può mettere in difficoltà il governo polacco, che dopo lunghe esitazioni e pressioni americane, aveva accettato lo schieramento, durante la crisi della Georgia della stessa estate. Se gli Usa ritirassero il progetto, la loro garanzia militare perderebbe ovunque ogni credibilità. Ma il nuovo presidente - se tiene in considerazione tutti gli elementi a suo favore - potrebbe condurre bene la partita. Bush ha sospeso l’accordo preso con Putin a Sochi nell’aprile
di quest’anno sulla riduzione delle armi strategiche. Ma a suo avviso, qualora il clima si surriscaldassse ulteriormente, Mosca sarebbe in grado di reggere un faccia a faccia con Washington? Il punto è proprio questo e la Russia sa benissimo che non potrebbe sostenere una corsa al riarmo con gli Usa, i quali a loro volta non ci stanno assolutamente ad essere una ”banderuola”a loro disposizione. Bush lo ha già dimostrato nei mesi scorsi; ora anche Obama dovrà far vedere di essere un duro anche lui. Quanto a Obama non è ancora presidente degli Stati Uniti, potrebbe essere che il nuovo presidente farà qualche dichiarazione, cercando di prendere tempo e dando alcune rassicurazioni sulla possibilità concreta di riuscire realmente a prendere un accordo. Sicuramente il nuovo presidente può contare sul fatto che Bush ha sospeso gli accordi sulle armi strategiche con Putin e che, qualora gli Stati Uniti cominciassero a fare sul serio, la Russia si troverebbe schiacciata da un’amara constatazione: quella di non poter per niente sfidare gli Usa sul campo della ”voce grossa”. Quindi qualora il gioco si facesse duro? Parliamoci chiaro: se il gioco si facesse duro, la Russia può fare un po’ di retorica, ma non più di tanto non potrebbe. Ma secondo lei, quale sarà il piglio di Obama rispetto a Bush. In sostanza cosa cambierà? Sicuramente la prima cosa che bisogna far presente è una considerazione di tipo geopolitico. E la geopolitica insegna che quello che determina la politica estera di due Stati non è certamente l’ideologia dei suoi presidenti o il partito d’appartenenza degli inquilini della Casa Bianca. Insomma, potremmo quasi azzardare che Obama o McCain sarebbe stato quasi lo stesso. E questo possiamo affermarlo perché le relazioni internazionali sono determinate dagli interessi in gioco. E gli interessi rimangono gli stessi? Rimangono gli stessi. Obama comunque ha già fatto capire quali saranno le direzioni in cui si sarebbe mosso se fosse stato eletto. Sicuramente l’ex senatore dell’Illinois cercherà di ottenere l’allargamento della Nato a Ucraina e alla Georgia; il suo vice Biden ha promesso due miliardi di dollari per la ricostruzione della Georgia. Di conseguenza bisognerà capire cosa avverrà. Quindi che tipo di scenario si sente di poter disegnare? A mio avviso, allo stato attuale, mi sento di dire che non si può parlare di scenari di lungo periodo, ma bisognerà vedere volta per volta cosa succederà. Sicuramente il primo scenario che mi sento di poter disegnare è il fatto che ci sarà una risposta colpo per colpo oppure se gli americani faranno finta di niente e daranno “la botta” quando gli capita. Quali saranno gli appuntamenti di breve termine che potranno fare da banco di prova sullo stato delle due relazioni? Il primo grosso appuntamento nel breve termine è il vertice Nato del 10 dicembre. Ma in quell’occasione non ci sarà Barack Obama ma George W. Bush. Quindi ci vuole ancora tempo? A mio avviso le decisioni che prenderà Bush saranno concordate con Obama. Ma bisognerà stare a vedere.
Per ora Barack seguirà Bush nella linea dura. E, a meno di colpi di scena, i due Stati troveranno un accordo. Conviene a tutti
politica
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Atenei. Il governo concede solo borse di studio e turn over più morbido per i ricercatori
Università, restano i tagli di Riccardo Paradisi
è il tempo per arrivare ad una riforma dell’Università che sia condivisa». Il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini prende tempo per sè e per il governo dopo il consiglio dei ministri che ha approvato le linee guida su scuola e università. «Vogliamo discutere con il mondo universitario, con il Paese, perchè la sfida è nazionale». Non si tratta di un’inversione di marcia rispetto ai provvedimenti annunciati nelle scorse settimane quanto di un moderato ammorbidimento di linea e di metodo. I tagli all’università infatti resteranno praticamente invariati. e le scelte quelle annunciate: diverso reclutamento dei docenti, diversa impostazione delle scuole di dottorato, diversa governance degli atenei.
«C’
Non ci sarà alcun blocco dei concorsi universitari ma cambierà il meccanismo di composizione delle commissioni di valutazione introducendo il sorteggio. Cambia anche la percentuale del turn over per l’ingresso all’università: previsto inizialmente al 20% passa al 50%: per ogni docente che andrà in pensione le università potranno assumere due e in alcuni casi 3 ricercatori a costo inalterato. «Questo – ha spiegato il ministro Gelmini – per favorire il ricambio generazionale». Nel decreto sono stati stanziati anche 135 milioni di euro da destinare alle borse di studio di ragazzi meritevoli e 500 milioni di euro per le università più virtuose senza distribuzioni a pioggia. Il ministro conferma però i tagli nel 2010 previsti dalla finanziaria: «Sono tagli molto doloroso (più di 700 milioni di euro, Ndr) ma riteniamo che dalla razionalizzazione dei corsi di laurea, che non vuol dire impoverimento dell’offerta formativa ma semplicemente l’andare ad eliminare i corsi inutili e anche da un utilizzo migliore delle risorse, noi abbiamo la possibilità di realizzare risparmi e rendere quel taglio meno doloroso». Eppure se parte dell’opposizione rende atto al governo di aver scelto un atteggiamento più interlocutorio – Maurizio Ronconi (Udc): «Un’ opposizione non preconcetta deve essere pronta anche a riconoscere i meriti di un governo che non si è blindato nella auto referenzialità» – gli studenti da parte loro non cessano la protesta: rilanciando la manifestazione del 14 novembre a Roma e le manifestazioni
Svolta tra religioni
Il Papa tende la mano all’islam: «Siamo una famiglia» segue dalla prima
lire il livello per accedere ai concorsi, compreso il numero di pubblicazioni.
locali previste per oggi in ogni città italiana. Mentre il 15 e 16 novembre alla Sapienza si terrà una assemblea delle facoltà in lotta, perché il movimento, promettono gli studenti, non si arresterà fino al ritiro totale dei tagli contenuti nella legge 133 e del decreto 137.
Resta aperta la questione dei criteri e del metodo con cui dovrebbero essere valutati gli atenei sia sotto il profilo della gestione amministrativa sia dal punto di vista della produttività scientifica. La struttura per la valutazione voluta dall’ex ministro dell’Università Fabio Mussi infatti era rimasta solo sulla carta, una fortezza Bastiani burocratica che non ha mai visto un regolamento attuativo. Il nuovo ministro Gelmini aveva definito l’Anvur «una costosissima struttura ad alto tasso di burocrazia e rigidità destinata a controllare anche i più piccoli meccanismi e procedure, caricata di eccessivi compiti». Ma ammesso che l’Anvur corrisponda alla descrizione della Gemini un ente che affronti concretamente la questione della valutazione è necessaria tanto più se il governo, come ha annunciato, vuole «assegnare una parte delle risorse sulla base dei risultati ottenuti».
Alla valutazione e all’individuazione di un sistema di criteri scientifici ad essa applicabili sta lavorando sotto il coordinamento del professor Battiston dell’università di Perugia anche un gruppo di docenti universitari e ricercatori del Cnr dove sono al vaglio indici e numeri che possano servire a valutare la produttività scientifica di enti e gruppi. Sta di fat-
Finanziamenti mirati agli atenei più virtuosi ma non c’è ancora un progetto per l’agenzia che dovrebbe valutarli. Gli studenti vanno avanti con le proteste. Oggi ancora manifestazioni Il ministro Gelmini per la verità ha già nominato una commissione di sei saggi (Francesco Giavazzi, Roberto Cingolani, Luigi Biggeri, Franco Cuccurullo, Antonello Masìa e Tito Varrone) che hanno l’incarico di mettere a punto la nuova agenzia di valutazione ma ancora non c’è niente di concreto. Sulla valutazione anche il Consiglio universitario nazionale ha detto la sua formulando una proposta sui criteri di valutazione dei candidati ai concorsi e per rendere questi ultimi rigorosi e trasparenti. Per ogni area disciplinare il Cun vorrebbe costruire degli indicatori di qualità scientifica e di ricerca che dovrebbero servire a stabi-
to che quello della valutazione è un problema non più rinviabile. In una classifica stilata dal Times due settimane fa, l’Alma Mater di Bologna è scivolata dal 173mo al 192mo posto, superata dalle università di Hong Kong, Mosca e Bombay. Mentre La Sapienza e la Bocconi non rientrano nemmeno nella lista delle prime duecento. Forse per questo il rettore del Politecnico di Torino, Francesco Profumo ha parlato della necessità di un’intervento straordinario per l’università: «Come nel dopoguerra è stato lanciato il piano Gescal per l’edilizia popolare, ora ci vuole un piano l’emergenza formazione e ricerca».
L’apertura del Papa, che si è trattenuto a lungo a stringere mani e a scambiare battute con i delegati, è stata accolta con favore anche dagli esponenti islamici, alcuni dei quali hanno definito il Forum come «la dimostrazione che ciò che era accaduto con il discorso di Ratisbona è superato». Ora, lo sguardo, infatti, è tutto rivolto al futuro. Un futuro in cui la parola collaborazione non è più esclusa. Lo ha detto papa Ratzinger che ha chiarito cosa si aspetta da questo Forum: pur muovendo da visioni antropologiche e teologie diverse, «solo partendo dal riconoscimento della centralità della persona e dalla dignità di ogni essere umano, rispettando e promuovendo la vita, possiamo trovare un terreno comune per un mondo in cui le differenze siano pacificamente affrontate, e sia neutralizzato il potere devastante delle ideologie». Il Papa, naturalmente, non poteva non inserire un intervento sulle persecuzioni religiose. Fatti, ha aggiunto il Papa, «ancora più inaccettabili e deplorevoli se fatte in nome di Dio». L’ultimo appello è stato all’unità.«Risolviamoci - ha detto Benedetto XVI - a superare i pregiudizi passati e correggere le immagini spesso distorte degli altri che anche oggi creano difficoltà alle nostre relazioni; lavoriamo per educare tutti, specialmente i giovani, a costruire un futuro comune. E non limitiamo il dialogo ai gruppi di esperti ma facciamolo fruttificare per tutti». Particolarmente significativo il documento finale del Forum che traccia gli obiettivi per il futuro. Nello specifico, si sancisce l’impegno a «esplorare la possibilità di stabilire un comitato permanente cattolico-musulmano per coordinare le risposte ai conflitti e altre situazioni di emergenza e a incontrarsi nuovamente entro due anni in un Paese a maggioranza musulmana». Altri punti sottoscritti: la persona umana per cattolici e musulmani è «maschio e femmina»; le minoranze religiose vanno protette e rispettate; insieme si può lavorare per la spiritualità in un mondo «secolarizzato e materialistico». E soprattutto: «cattolici e musulmani sono chiamati ad essere strumento di amore e armonia tra i credenti e per l’intera umanità». Francesco Rositano
economia
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ROMA Nel 2009 le parole chiave dell’economia rischiano di essere disoccupazione e recessione (se non depressione). Così da far svanire l’allarme inflazione che ha accompagnato il mondo nell’ultimo anno e mezzo. Quest’analisi sembra aver attecchito anche all’Eurotower, tanto da far cambiare abitudine anche all’ultimo guardiano del rigorismo, Jean Claude Trichet. Come era nell’aria da giorni, ieri la Banca centrale europea ha abbassato i tassi d’interessi di mezzo punto percentuale, portandoli dal 3,75 al 3,25 per cento.Trichet ha confermato che «nell’Eurozona l’inflazione è in calo ed è prevista intorno al 2 per cento nel 2009. E resterà così a causa di una domanda apatica per un periodo prolungato». Anche se ha smentito «il rischio di deflazione». Timori invece per la crescita: «Sono, invece considerevolmente aumentati», ha aggiunto, «i rischi di recessione». Anche perché «le turbolenze dei mercati finanziari si stanno facendo sentire sempre di più sull’economia reale».
Questa misura rischia di essere meno significativa della riduzione di 50 punti base concordata tra tutte le banche centrali l’8 ottobre scorso. I mercati, infatti, scommettevano su un taglio di almeno 100 punti. Non a caso le Borse europee, che hanno bruciato 300 miliardi, ieri hanno chiuso tutte in segno negativo (Francoforte -6,84 per cento, Londra 5,70, Parigi -6,38 e Milano -5,06). Nella stessa giornata di ieri la Banca d’Inghilterra ha deciso una sforbiciata record di un punto e mezzo – al 3 per cento il costo del denaro – mentre la svizzera Snb ha ridotto il costo del denaro di mezzo punto. Così agli operatori non basta neanche la promessa di Trichet, che «non esclude un nuovo taglio» nella riunione di dicembre. «Tutto dipende», ha spiegato, «dai dati e dalle cifre in arrivo su crescita e inflazione. La Bce è pragmatica e non si impegna in anticipo sulle proprie mosse». Sono in molti a dubitare che l’ultimo intervento deciso a Francoforte possa avere benefici sulle famiglie gravate dai mutui o dalle aziende che risentono del credit crunch. Dal mondo delle banche si fa notare che restano comunque alti il tasso marginale sui rifinaziamenti (al 3,75 dal 4,25 per cento) e quello sui depositi (al 2,75 dal 3,25). Il che non aiuta a superare la crisi di sfiducia in atto tra gli istituti – che faticano a prestarsi sol-
Monete. Costo del denaro al 3.25%, ma le Borse continuano a perdere
Trichet attacca tassi e banche ma non convince i mercati di Francesco Pacifico di – o a ridurre i rischi di insolvenza. Di riflesso ne fa le spese l’Euribor, che pure ieri ha visto il tasso a tre mesi, al quale sono legati la stragrande maggioranza dei nostri mutui, scendere al 4,2 per cento. Al livello più basso dal marzo scorso. Se soltanto il tasso di refinanziamento fosse portato al 3,25, l’Euribor a tre mesi calerebbe fino al 3,50. Si guarda e si spera in un nuovo intervento della Bce. Ben sapendo però che l’Eurotower ha tempi di reazione troppo lenti rispetto alla crisi mondiale.
Non a caso gli analisti notano la differenza tra la scelta della Banca centrale britannica e quella di Francoforte: nelle stesse ore a Londra si è optato per un calo di un punto e mezzo percentuale, a Francoforte non si è andati oltre il mez-
Il numero uno dell’Eurotower non esclude nuovi tagli e attacca gli istituti: «Si assumano le loro responsabilità». Ma il mondo del credito chiede misure più incisive. Saltano i benefici per le famiglie e per le imprese afflitte dal credit crunch?
A questo punto, un eccesso di liquidità può produrre nuove bolle speculative
Ecco perché è una decisione piena di rischi di Carlo Lottieri segue dalla prima Negli Stati Uniti, come ha riconosciuto perfino il primo responsabile di tutto ciò (Alan Greenspan), il disastro finanziario dei mutui subprime è stato in larga misura l’effetto di una politica monetaria espansiva, specie a partire dall’anno 2000. Con il costo del denaro all’1%, tutti si sono indebitati e le risorse sono affluite ad iniziative che non meritavano finanziamenti e a famiglie che non potevano offrire garanzie. In questo senso, la crisi globale attuale assomiglia almeno in parte a
quella giapponese, dove per anni il costo del denaro è stato perfino nullo: con le conseguenze che è facile immaginare. Ora, sulla spinta degli opportunismi dettati dalla politica, tanto in America come in Europa si torna a commettere il medesimo errore. Come è ovvio, abbassare il tasso del denaro significa colpire il risparmio e favorire un processo inflazionistico. Quando si è creata la Bce, ci si è illusi di poter dotare l’Europa di una Banca centrale sul modello della Buba (la banca tedesca), riproducendo l’indipendenza e la forza di quel marco che – nel paragone con le
zo punto, facendo cadere la proposta di una riduzione di 75 punti base. Ma non c’è soltanto la partita sul livello dei tassi d’interesse. I consumatori sperano che si apra un altro fronte: uno scontro tra le vigilanze europee e le loro
altre monete europee – aveva sempre saputo dare ottimi risultati. Ma le pressioni della politica, le richieste delle organizzazioni degli imprenditori e lo stesso conformismo dei commentatori hanno fatto venir meno la vecchia diga costruita a Francoforte. Ora il timore è che con la riduzione dei tassi si generino altre bolle e non si avvii quel processo di purificazione del sistema finanziario il quale esige, tra le altre cose, che qualche banca mal gestita ne paghi le conseguenze e che le vecchie regole del merito – premi e punizioni – tornino a dettare la loro dura legge.
controllate, le banche, per spingerle verso migliori condizioni per l’utenza. E ieri Trichet ha fatto intendere che i rapporti sono molto tesi.
Il presidente della Bce prima ha ricordato agli istituti che «in un mese abbiamo tagliato il costo del denaro di un punto percentuale, forniamo liquidità alle banche a tasso fisso e per quantità illimitate, mentre i governi hanno posto forme di garanzie statali sul mercato interbancario». Quindi, in relazione all’Euribor, ha aggiunto: «Il comportamento delle banche dovrebbe riflettere pienamente quanto fatto dalle Bce e dai governi europei. Non è una minaccia, ma un incoraggiamento affinché si assumano le loro responsabilità». La scorsa settimana il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, ha chiesto agli istituti italiani di legare i mutui ai tassi della Bce e non più all’Euribor. Ieri la Bpm ha lanciato un prodotto con queste caratteristiche, ma è difficile sapere se altri istituti faranno altrettanto.
politica
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Scatto di reni. Basta con la mortificazione del Parlamento, dice il presidente della Camera. E apre la prima vera crepa nella maggioranza
Lo schiaffo di Fini «Non mettete la fiducia sulla Finanziaria» Il leader di An frena Berlusconi di Errico Novi segue dalla prima All’epoca le proteste irrobustirono l’opposizione con la forza aggregatrice del sindacato. Oggi si ripresenta la stessa trappola. Convinto com’è di avere un consenso inattaccabile, il governo Berlusconi sfida la piazza, tira dritto senza considerare i rischi. E si avvia così a perdere parte dell’eccezionale patrimonio accumulato in questi mesi, grazie anche alla simmetrica crisi del Pd e del suo leader. Questo pensa Fini, e il ragionamento lo porta a rivedere la strada della leadership. Accantonata finora con rassegnazione. Il premier e il suo esecutivo sembrano impegnati in una singolare corsa a ritroso. Si sono assicurati il successo elettorale grazie alle profezie di Giulio Tremonti, alle sue visioni apocalittiche accompagnate da un rassicurante paternalismo protezionista. Ora imboccano la strada del rigorismo intransigente. Procedono ad una spietata
na. Già in quel passaggio si può attribuire a Fini un ruolo pesante, incisivo come non era mai accaduto dall’inizio della legislatura. Adesso il presidente della Camera affonda i colpi ancora più duramente.
Non è un caso che l’inequivocabile giudizio sulla sessione di bilancio sia stato pronunciato ieri mattina da Fini a corollario della rimostranze dell’opposizione. «Così non si può andare avanti», ha detto il democratico Gianclaudio Bressa, e il numero uno dell’assemblea non ha fatto nulla per smorzare i toni. Anzi. Con la Finanziaria blindata in Aula con la fiducia «si toglie al Parlamento il diritto-dovere di discutere», tenuto conto che «l’approvazione in commissione Bilancio senza alcun emendamento del testo presentato in Parlamento rappresenta un’anomalia rispetto alla prassi». È una sconfessione ideologica bella e buona. La più dura che si potes-
Un decisionismo senza ricerca del consenso diventa dispotismo. E con la scuola si rischia un errore analogo a quello dell’articolo 18. Sono questi i timori che spiegano la reazione di ieri operazione di macelleria sociale con i tagli alla scuola. Devono fermarsi un attimo prima di schiacciare il bottone sull’università, anche per l’esplicito dissenso della componente aenni-
se immaginare, perché colpisce l’esecutivo nel punto chiave, l’efficienza dei tempi record, della manovra orgogliosamente compressa in tre soli articoli. Berlusconi ha reagito subito citando i
Le reazioni a Montecitorio
La squ adr a de gl i s c ont e nt i s i len zios i ha trov ato il s uo le ad er di Marco Palombi
«Sarebbe politicamente deprecabile se il governo ponesse la fiducia sulla manovra», ha detto ieri Fini. Berlusconi ha replicato: «Si fa fatica a comprendere che l’assalto alla diligenza è finito» deprecabili assalti alla diligenza del passato. E Fini, con un riflesso che svela un dissenso non solo istituzionale, ha evocato la differenza che c’è tra un assalto e una discussione.
Contro le granitiche certezze dei berlusconiani, Fini sceglie dunque di schierarsi a petto in fuori. Chi glielo fa fare? Proprio la sensazione che Berlusconi, Tremonti e i loro obbedienti mi-
ROMA. «Il fatto che la commissione Bilancio abbia approvato senza alcun emendamento la Finanziaria presentata dal governo rappresenta un’anomalia rispetto alla prassi. Un’anomalia che, come hanno rilevato gli esponenti dell’opposizione, non contrasta con i regolamenti, ma che deve tuttavia essere oggetto di valutazione, soprattutto perché qualora il governo ponesse, legittimamente, la questione di fiducia, ci troveremmo in presenza di una situazione anomala e politicamente deprecabile, perché si toglierebbe al Parlamento il diritto-dovere di discutere». Alla fine Gianfranco Fini l’ha detto. Erano settimane che il presidente della Camera taceva, rifiutava interviste e intanto rifletteva sull’emarginazione - eufemizzando - a cui il Parlamento è costretto rispetto ai processi di governo del Paese. Basti un solo dato: l’unica legge di iniziativa parlamentare approvata in questa legislatura è quella che istituisce la
nistri stiano sconfessando le promesse della campagna elettorale. Il profluvio di consensi raccolti dalla maggioranza persino tra gli operai del Nord sono arrivati anche grazie agli errori di Prodi. All’insopportabile regime di oppressione fiscale instaurato proprio mentre si vedevano i primi segnali della crisi. Adesso l’esecutivo imita paradossalmente il predecessore: mentre avanza il fantasma della
povertà e i ceti medi dell’intero Occidente si impoveriscono a vista d’occhio, in Italia si gioca la carta del rigore inesorabile, della lotta agli sprechi che punta a lasciare sul campo centinaia di migliaia di insegnanti precari. Il Tremonti che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita di intellettuale a puntare l’indice contro la Banca centrale europea sembra imitarne ora lo stile e la freddezza.
commissione Antimafia. Ora, davanti ad una Finanziaria che entra ed esce dalla Camera come attraverso una porta girevole, Fini lancia il suo “avviso ai naviganti”: questo andazzo è “politicamente deprecabile”.
La preoccupazione dell’ex leader di An, fa sapere chi gli è vicino, non ha niente a che fare con la voglia di assaltare la diligenza dietro cui si è nascosto a Mosca Silvio Berlusconi, né col riesplodere di un vecchio duello con Tremonti, ma riguarda una situazione di fatto che nessuno dovrebbe sottovalutare, nemmeno il premier e il suo superministro: uno spostamento di potere così netto dal Parlamento al governo costituisce una modifica della Costituzione materiale che sarà poi difficile sanare garantendo i diritti di tutti, come sempre accade quando i confini si tracciano col sangue. La verità è che questa situazione è subita an-
politica
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Guzzanti: «Si ritaglia un ruolo nel Pdl? È legittimo»
Repliche al veleno e molti applausi di Susanna Turco
ROMA. Il Fini della ruptu-
Ed è proprio nello spazio lasciato improvvisamente sguarnito dal superministro che Fini può sperare di giocarsi la partita. Tornare al protezionismo compassionevole della primavera scorsa e provare a coniugarlo con un’idea di governo meno presuntuosa: qui possono esserci sponde, non solo nella sempre più dubbiosa An, ma anche tra i tanti che in Forza Italia non parlano per timore di essere scaraventati fuori dal palco. Se davvero il presidente della Camera proseguisse nella strada lasciata intravedere con il passaggio sull’università e con l’inedita reprimenda di ieri si creerebbe nella maggioranza
una forma di critica interna, elemento finora considerato improponibile. Potrebbe non essere casuale la stessa iniziativa di Farefuturo, che con la dalemiana Italianieuropei organizza un workshop su “Federalismo e riforme istituzionali”. Nell’editoriale su Charta Minuta, il mensile della fondazione, Fini parla per la prima volta in modo davvero convinto della decentramento invocato dalla Lega come di una riforma «necessaria e possibile». Oltre che sul futuribile, l’intesa con la Lega può arrivare anche sul terreno contingente. Contemporaneamente all’intervento del presidente della Camera, il nu-
che da molti eletti del Pdl, specialmente quelli più preparati e ambiziosi. In molti, ad esempio, hanno visto la deputata Laura Ravetto, in Transatlantico, sbottare con un sottosegretario all’ennesimo no ad un emendamento di maggioranza: «Quando la smettete di trattarci come bambini?». Un altro parlamentare del Pdl, Mario Pepe, dopo aver mandato sotto il governo con un suo ordine del giorno, commentava soddisfatto: «Un po’ di batoste gli fanno bene».
Gli episodi di insofferenza sono decine ed è questo clima che Fini ha inteso rappresentare con le sue parole, anche perché non deve essere piacevole trovarsi ad essere il capo di una istituzione scientificamente svuotata del suo significato. L’ex ministro degli Esteri, in questi mesi, è divenuto un punto di riferimento per quei parlamentari che avvertono come in questo delirio di decreti e deleghe governative sia
mero uno della commissione Bilancio di Montecitorio Giancarlo Giorgetti, pupillo di Bossi, ha avvertito ieri che al disciplinato atteggiamento del suo organismo deve corrispondere uguale serietà da parte del governo, «che a questo punto non può chiudere la vicenda chiedendo semplicemente la fiducia». Il Carroccio scalcia di fronte all’imperturbabile avanzata di Palazzo Chigi. Fini può approfittarne, può coltivare l’aspirazione ad essere leader non di un partito ma di una corrente di pensiero trasversale a tutta la maggioranza, se solo non si lascerà dissuadere dal sospetto della solitudine.
in discussione anche la funzione e la dignità personale dei parlamentari. Consapevolezza minoritaria, va riconosciuto. Chiosava giorni fa Paolo Cirino Pomicino: «L’80% dei deputati attuali, con le preferenze, non entrerebbero neppure in consiglio comunale». Per riacquistare un minimo di spazio la strategia di Fini prevede varie strade: moral suasion rispetto al governo fin dove è possibile, qualche difesa dura del ruolo del Parlamento quando è inevitabile, recupero della credibilità della Camera attraverso efficienza e moralità (impronte contro il voto dei “pianisti”, lista delle presenze sul sito, riforma del calendario dei lavori). Finora gli effetti di questo attivismo sono pressoché nulli, il che dovrebbe preoccupare ulteriormente un leader politico che rischia l’irrilevanza, ma almeno Fini sta diventando il capo del Pdpl, il popolo dei parlamentari della libertà. Chissà che non gli torni utile in futuro.
re, che si erge a difensore delle prerogative del Parlamento, piace a tutti. A Massimo D’Alema, innanzitutto, ma anche a Italo Bocchino e Paolo Guzzanti, a Enrico Letta e Mario Landolfi e Felice Belisario. Persino Enrico La Loggia, prudentissimo, confida: «Mi ha colpito». Piace il piglio parlamentar-garantista, naturalmente. «Le continue forzature del governo», spiega l’ex vicepremier diessino, «rischiano di creare un profondo malessere nel Parlamento. Berlusconi è convinto che così arrivi al Paese un messaggio di sicurezza, ma in realtà calpesta le regole fondamentali». Bene, dunque, il Fini che si fa garante dei lavori: «Perché non si può sempre dire di sì», plaude la Velina Rossa, «sarebbe il colmo se il presidente della Camera diventasse un semplice “ascaro” al servizio del presidente del Consiglio». Già, niente ascari.
Eppure, è del resto ovvio, la ferma posizione assunta da Fini - il quale non si risparmia nemmeno la puntuta contro-replica alle osservazioni del ministro Elio Vito - viene letta anche come un modo per riposizionarsi all’interno del Pdl, in attesa di ciò che verrà, se verrà. Una leadership, magari. «Non so se Fini abbia anche un disegno politico», dice il parlamentare azzurro Paolo Guzzanti, «ma se ha fatto questa mossa pensando alla sua immagine in vista di sviluppi futuri, penso che faccia bene. Invece di apparire un opaco notaio di decisioni prese sempre altrove, scolpisce l’immagine di uno che sa gestire in autonomia il potere che gli è stato affidato». Un po’ come ha fatto Casini due legislature fa? «Sì, così. Del resto», prosegue Guzzanti, «che un leader come lui abbia un disegno politico mi pare un fatto dovuto, non una cosa losca. Quello fa: il politico». Non tutti la vedono così, però: l’aennino del Pdl Mario Landolfi, per
esempio, ritiene che istituzione e politica siano due piani completamente diversi. «Quel che Fini ha detto è nella fisiologia di una dialettica tra governo e Parlamento. Lui ha il dovere istituzionale di far rispettare le prerogative della Camera, mi meraviglierei se non lo facesse», spiega.
D’altra parte, la presa di posizione del presidente della Camera dà la stura a tutta una serie di pettegolezzi e supposizioni, non del tutto campati in aria, che si colgono qua e là. La Velina rossa, per esempio, bolla come «meschinità da parte dei rappresentanti della maggioranza, il tentativo di ridurre il comportamento del presidente della Camera nella tutela delle prerogative del Parlamento all’eterna controversia tra Fini e il ministro dell’Economia». E così facendo porta alla luce la (velenosa) ricostruzione
In questo modo, invece di apparire un opaco notaio di decisioni altrui, scolpisce l’immagine di uno che sa gestire in autonomia il suo ruolo secondo la quale Fini avrebbe alzato la voce non tanto perché compreso nel suo ruolo istituzionale, o perché inteso a dare il via a un disegno politico di rottura rispetto alla monarchia berlusconiana, ma soltanto per una sorta di invidia verso il ministro dell’Economia. È del resto vero che l’opposizione Tremonti-Fini è stata un passaggio fisso nel canovaccio della legislatura 2001-2005. E allora, si domanda nel Pd il ministro ombra del Welfare Enrico Letta, «Siamo al “Fini contro Tremonti 2, la Vendetta”?».
panorama
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Proposta. Un’assise dei centristi per ridefinire le affinità con gli attuali colleghi di opposizione
Il Pd può davvero andare al centro? di Alessandro Forlani a possibile evoluzione del rapporto tra Pd e Udc si annovera ormai tra i temi ricorrenti del dibattito politico. Si avvertono da più parti sollecitazioni più o meno esplicite verso una sorta di prove tecniche di alleanza. Da ultimo D’Alema e, ancor più esplicitamente, Rutelli mostrano una decisa volontà di apertura all’Udc.
L
L’ex presidente della Margherita dichiara che i centristi sarebbero ormai gli interlocutori privilegiati del Pd, almeno secondo la sua concezione del ruolo e delle prospettive di tale partito. Ma il punto è proprio questo: quale identità possiamo, al momento, attribuire al composito partito guidato da Veltroni e verso quali modelli sembri, al momento, orientato. Al Circo Massimo abbiamo ascoltato le striscianti e stucchevoli evocazioni di una deriva au-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
toritaria del governo in carica, le semplicistiche ricette su scuola, fiscalità ed economia quanto meno sorprendenti da parte del maggior partito di un esecutivo che meno di un anno fa ha dovuto gettare la spugna, la consueta demagogia troppo vecchia e ripetitiva per risultare convincente. E che dire di Di
essa – il sanguigno ex pm strappa emozioni certamente più forti rispetto a quelle suscitate dagli equilibrismi dei propri dirigenti.
Nessun ricordo della prepotenza con cui Italia dei valori ha imposto le sue condizioni sul candidato presidente in
La rottura fra Veltroni e Di Pietro è sempre di più una pregiudiziale per le alleanze: lo dimostrano l’Abruzzo e la Vigilanza Rai Pietro, cui Veltroni aveva pochi giorni fa indirizzato, dagli studi del programma di Fazio, una sorta di disdetta retroattiva dell’alleanza incautamente conclusa prima delle elezioni? Il leader dell’Italia dei Valori che, a giudizio del fantasioso Walter, si rivelerebbe carente di alfabetizzazione democratica, era poi accolto entusiasticamente dai militanti del Pd al Circo Massimo, con invocazioni all’unità contro il nemico comune e, da parte di alcuni, anche alla galera per lo stesso. Alla base del Pd – o a parte di
Abruzzo e su quello alla presidenza della vigilanza Rai o delle esasperazioni e degli insulti di Piazza Navona. Piace, peraltro, a molti aderenti al partito di Veltroni l’antiberlusconismo di Di Pietro, quello pregiudiziale e demonizzante, con gli accenti del 1994, come se quasi tre lustri non fossero trascorsi e Berlusconi non avesse ottenuto per ben tre volte, nel frattempo, il mandato degli italiani a governare! Lo stesso referendum annunciato da Veltroni per abrogare il decreto Gelmini evoca forme di opposizione
barricadiere e distruttive. Sarebbe ora di voltare pagina, esercitare una critica ragionevole e non pretestuosa sui concreti provvedimenti, sulla base di limiti e carenze che siano veri, dimostrabili e non meri artifizi propagandistici. L’Udc ha scelto da tempo questa strada. Il Pd sembra orientato, a dispetto delle migliori intenzioni, in un’altra direzione, succube degli umori profondi della vecchia base comunista e di una cultura di mera contrapposizione.
Le distanze ideali, dialettiche e di metodo tra l’ambigua identità del Pd e quella dei centristi appaiono ancora evidenti e ancor più dei dirigenti restano distanti le rispettive basi elettorali. E la persistente preoccupazione di Veltroni di mantenere aperti i collegamenti, oltre che con Di Pietro, con i Verdi e l’estrema sinistra, certo non aiuta. A questo punto sarebbe importante un’assise dei centristi per ridefinire le intese preferenziali e individuare i compagni di strada sulla base di autentiche affinità.
Nelle intercettazioni dei boss, un modello di vita tra aperitivi e omicidi
Premiata ditta Camorra Napoli revi in cronaca camorristica. Il padre scrive al figlio perché impari a sparare con «mitra, fucile e Kalashnikov». La vicina di casa chiede alla cognata del boss un posto da “palo” per il figlio in una piazza di spaccio. Il pentito rompe il patto di omertà e gli massacrano due fratelli, uno era invalido. I camorristi estorcono ai negozianti il pizzo in natura: carne, pesce, frutta, verdura, dolci, champagne. Sembra un film, è realtà. È nero su bianco nell’ordinanza di custodia cautelare che rivolta Torre Annunziata e i suoi padroni: il clan Gionta. Ma c’è un altro piccolo dettaglio che fa risaltare ancora di più il dramma politico e sociale: i provvedimenti giudiziari sono 88, ma ben 28 riguardano detenuti. Tra questi anche il boss Valentino Gionta in carcere da molti anni ma che, evidentemente, dalla galera continua a lavorare.
B
Già, lavorare. Perché la Camorra dà lavoro. La Camorra produce. La Camorra funziona. A tutti i livelli. I ragazzi vedono come va il mondo. Meglio: l’unico mondo che conoscono è questo in cui vivono da sempre e nel quale hanno imparato a nuotare come i pesci nell’acqua sporca del golfo di Napoli. Vogliono soldi, vogliono fa-
re, vogliono iniziare. Vogliono. E la mamma si rivolge ad Antonietta Donnarumma, sorella di Gemma che è sposata con Valentino Gionta, e le chiede un posto da spacciatore o aiuto spacciatore per il figlio disoccupato. La donna, Antonietta, parla in casa con i figli, Carmine e Pasquale, e li avvisa di quanto accaduto, mentre le “cimici” piazzate dalla polizia registrano: «Pasquale, adesso ti avviso di una cosa. Vedi che io sopra da me non ci voglio a nessuno per il fatto di questa roba. Non sia mai se la cantano, si cantano a me: ieri è venuta la mamma di Enrico, da sotto al balcone. Dove sta Carmine, ci sta un ragazzo, vuole fare il palo… Manco se tieni la ditta». Paolo Cirino Pomicino commentando il fatto dice: «Una volta le agenzie di collocamento erano i partiti. Adesso la camorra. Colpa della scomparsa della presenza organizza-
ta delle forze politiche sul territorio». Come dire: tra partiti e camorra ha vinto la camorra. E ora il grande mercato delle raccomandazioni è gestito dai boss, dalle famiglie dei boss, dalle moglie, dai figli, dalle cognate, dai nipoti. Quindi c’è il capitolo del pizzo pagato in natura. Le intercettazioni sono particolareggiate.
Scendono nei dettagli. Diciamo pure nelle ordinazioni: astici, frutti di mare, gamberetti, frutta e verdura, dolci con torte e mignon, pasticcini vari, spumante e champagne. Con l’avvicinarsi delle feste, Natale e Pasqua, le ordinazioni diventano più pressanti e prelibate. Ma per fare festa bisogna anche figurare: «Mi serve una cambiata, devo andare a una cerimonia. Dammi un pantalone marrone, mettici una camicia sopra e un paio di scarpe Hogan. Tengo da fare una cerimonia».
La polizia ha sequestrato ai Gionta di Torre Annunziata beni per cinquanta milioni di euro. Un tesoro. I camorristi non spendevano un soldo, neanche per la spesa. Tutto gratis: spesa, ristorante, aperitivo, vestiario. Poco prima di Natale 2006: un aperitivo, per desinare meglio. «Allora, se ci puoi preparare un aperitivo per una quindicina di persone - dice Liberato Guardo detto Baduccio - stiamo tutti compagni qua e ci vogliamo pigliare un aperitivo fatto da te». Il barista chiede tempo: «Un’oretta la tengo?». È troppo: «Una mezz’oretta, ce la fai? Ce ne vogliamo andare, la verità… Ci mangiamo questo aperitivo… e manda pure un paio di bottiglie di spumantino».
I camorristi non sono solo dei camorristi. Sono dei modelli. I ragazzi che vogliono iniziare a fare gli spacciatori sognano una vita spericolata, una vita facile, una vita potente. Gli altri lavorano e tu ti prendi la fatica loro, i soldi loro, la vita loro. La camorra come stile di vita. Questa non è solo criminalità. Qui c’è il fallimento di tutto: Stato, Chiesa, Scuola. Il Bene è stato sostituito dal Male. Lo sanno tutti, del resto, il male è più facile del bene. E poi se il modello era quello ricordato da Pomicino, il sistema camorristico è più efficiente.
panorama
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Rumors. Pronto un diversivo in Toscana per l’unico vero competitor di Veltroni alla segreteria del Pd
Qualcuno ha paura di Enrico Letta di Francesco Capozza
ROMA. Nessun particolare nome in codice per l’operazione che starebbe tramando Valter Veltroni, ma un obiettivo ben preciso: evitare che Enrico Letta possa sfilargli da sotto il naso la poltrona di segretario del Partito democratico. Il giovane ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Prodi, infatti, imperversa da mesi in molte trasmissioni televisive carambolando con circense destrezza dal salottino tutto bianco di Vespa allo studio di Ballarò, passando, ovviamente, per Matrix e Omnibus. Quasi ogni giorno il ministro ombra del Welfare rilascia interviste e colleziona pagine intere su tutta la stampa nazionale. Ancora, Enrico Letta ha saputo conquistarsi la fiducia di un interlocutore speciale: Pier Ferdinando Casini. È lui, infatti, che il leader dell’Udc ha da tempo come punto di riferimento principale all’interno del Pd. Ma una cosa preoccupa più di tutte Veltroni: che il suo ministro possa avere alle spalle uno sponsor più ingombrante di qualsiasi altro, che possa, cioè, aver intessuto un rapporto del
La mossa del leader servirebbe a parare l’ennesima trama di D’Alema per riuscire a togliergli il governo del partito tutto particolare con il nemico giurato di sempre: Massimo D’Alema.
Nei corridoi di Montecitorio, così come nella sede del Pd al Nazareno, si parla da mesi di un certo feeling che sarebbe
nato tra l’ex margheritino ed enfant prodige del centrosinistra italiano e l’ex numero uno della Farnesina. C’è chi va oltre, ipotizzando che D’Alema abbia già in mente un progetto specifico: stare alla finestra fino alle elezioni europee e am-
ministrative della prossima primavera e, nel caso (non improbabile) che per il Pd le cose vadano male, mettere sotto accusa il segretario e portarlo in qualche modo alle dimissioni. Per la successione, sempre secondo indiscrezioni, l’ex ministro degli Esteri starebbe pensando ad un colpo di mano degno del migliore Richelieu: modificare lo statuto del partito e scindere la carica di segretario da quella di candidato premier, in modo tale da candidare il giovane Letta alla prima e se stesso alla seconda nelle elezioni del 2013. Anche se questa potrebbe sembrare fantapolitica pura, c’è chi è pronto a scommettere (anche tra i fedelissimi del leader democratico) che non sia poi così impensabile come scenario e Veltroni, che conosce bene D’Alema, sarebbe pronto a correre ai ripari per arginare il pericolo. Come fare?
L’idea sarebbe venuta a Lapo Pistelli, probabile candidato a palazzo Vecchio nell’elezione per il nuovo sindaco di Firenze nel 2009 e l’avrebbe
suggerita a Veltroni: candidare Enrico Letta (toscano di Pisa) alla guida della regione, nel 2010. Chi, infatti, meglio di lui potrebbe ricucire gli strappi consumatisi negli ultimi tempi all’interno del partito toscano? Ma soprattutto, con Letta candidato a diventare il governatore della Toscana (e visto il suo notorio low profile non c’è nemmeno da temere che possa diventare un Granduca), i progetti, o presunti tali, di Massimo D’Alema fallirebbero clamorosamente e per l’ex capo della diplomazia italiana sarebbe davvero difficile trovare un’altro competitor veltroniano con le caratteristiche di Letta. Non c’è da dimenticare, e Veltroni di certo non lo fa, che nelle primarie del 14 ottobre 2007, Enrico Letta riportò un regale 11% di preferenze, attestandosi al secondo posto per la corsa alla leadership del partito. Per questo, dicono, prima di iniziare il vero e proprio pressing sul ministro ombra del Welfare, Veltroni starebbe sondando il terreno toscano per capire la fattibilità dell’operazione.
Privatizzazioni. La vendita della compagnia pubblica di navigazione si trasformerà in un nuovo caso Alitalia
Sta per scoppiare la bomba «Tirrenia» di Alessandro D’Amato
ROMA. Sarà la volta buona? Visti i precedenti, c’è da stare attenti agli entusiasmi; ma l’impegno in commissione Trasporti è stato preso: la Tirrenia verrà privatizzata entro il 2009. O meglio: entro quella data avverrà la cessione delle società locali alle Regioni (Caremar in Campania, Siremar in Sicilia, Toremar in Toscana, Saremar in Sardegna) e il rinnovo della convenzione con lo Stato per quattro anni per le rotte con la Sardegna da Napoli, Civitavecchia e Genova. Il percorso però non sembra privo di ostacoli: Confitarma ha già espresso parere contrario, mentre la Toscana ha già detto il suo no a prendere la Toremar.
E le ragioni dell’opposizione sono comprensibilissime. L’assessore regionale toscano ai Trasporti Riccardo Conti ha ribadito di «non avere alcuna intenzione» di rilevare e gestire diretta-
mente Toremar. «La Regione non è un armatore, non ha la competenza per farlo, e non ci si può improvvisare. Non lo farà». Applausi per l’onestà intellettuale, in tempi in cui gli enti locali pensano di poter fare tutto. Anche se, a dirla tutta, la Toscana ha anche sollevato un problema di soldi: «Se si considerano le decurtazioni previste nel caso di Toremar, a fronte di un sussidio per l’equilibrio economico negli ultimi anni intorno ai 18 milioni, il trasferimento sarebbe di soli 8-9 milioni ed inoltre nessuna previsione di spesa è destinata al
rinnovo della flotta». Per questo la regione Toscana ha deciso di impugnare la disposizione in quanto non prevede l’integrale copertura finanziaria dei servizi alla Regione delegati. Insomma,
Prima di cederla ai privati, lo Stato deve coinvolgere le Regioni: ma la Toscana ha già annunciato che di traghetti non ne vuole sapere se lo Stato sborsa qual cosina in più, ci potrebbero anche ripensare.
Molto più arrabbiato, e giustamente, il presidente di Confitarma, Nicola Coccia: «Le regole Ue non consentono un’altra convenzione con Tirrenia senza una gara pubblica. Siamo l’unico Paese europeo da venti anni in una situazione di continua deroga alle regole, un nuovo provvedimento in questa direzione sarebbe assolutamente
illegittimo». Gli armatori fanno i loro interessi, giustamente: da anni cercano di acquistare la compagnia di Stato, e ogni volta che si torna a parlare di gara, fanno presente la loro disponibilità, per poi finire regolarmente delusi. E grazie alla rendita di posizione garantita dal servizio universale, perdono anche molti possibili introiti. Ma per fortuna le regole Ue non sono mai state un problema, in questo paese. Il ministro Altero Matteoli ha fatto sapere di essere pronto a chiedere la classica deroga. Difficile dargli torto: con tutto quello che sta accadendo in questo periodo,Tirrenia non è certo una priorità. Ma il servizio pessimo, gli sprechi ormai proverbiali e i bilanci regolarmente in rosso dovrebbero spingere a una maggiore sollecitazione i protagonisti. Se non altro, per evitare che arrivi il momento di pensare a Tirrenia come una nuova Alitalia. E sarebbe l’ennesima.
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Il conflitto fra l’individuo e la fede continuerà a segnare l’umanità, anche in un futuro dominato dalla Tecnica e dalla Ragione. Il vero problema continuerà a essere quello della relazione fra l’unità della persona e l’onnicomprensività di Dio. Anticipiamo un libro-intervista con il grande storico tedesco Esce in questi giorni il libro Storia, Europa e modernità, intervista di Luigi Iannone con Ernst Nolte, pubblicato da Le Lettere. Ne anticipiamo un brano su Religione e Laicità. Sembra persistere l’inarrestabile espansione e il pericolo dell’ateismo che incombe sull’umanità\u0300 e di una Chiesa cattolica destinata a recitare non si sa piu\u0300 quale ruolo. Condivide la tesi di Augusto Del Noce per cui la storia della Modernità coincide con l’espansione dell’ateismo? La storia della Modernità è la storia della secolarizzazione e ciò vuol dire che Dio non è più il centro della società ma solamente un Dio di una parte e questa parte, è evidente a tutti, si sta rimpicciolendo sempre di più. Peraltro, quella per la quale la Chiesa si sarebbe dissolta
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nel giro di pochi anni, è un’idea antica, visto che già nel secolo XVIII gli illuministi la pensavano in questo modo, così come qualche tempo dopo la stessa previsione fu fatta dal marxismo.Visti gli esiti successivi furono previsioni errate. In realtà una secolarizzazione in senso totale, cioè un’umanità senza Dio, non è un fatto che empiricamente possiamo provare. In questo senso non sarei d’accordo con Del Noce quando asserisce che la società ateistica è la fine necessaria della Modernità mentre piuttosto ho definito la nostra società come una società “auto-secolarizzantesi”. Nell’Islam non c’è una auto-secolarizzazione, ci sono solo influenze esteriori che danno un impulso alla secolarizzazione. Diversa è la situazione dell’Europa dove questi sussulti vengono dall’interno della società, ed è proprio questo fattore a non poterci far esprimere sui risultati finali. L’Europa è una
Durante la gran parte della Storia, il ruolo del particolare è stato molto importante: gli uomini si sacrificavano per la patria concreta e in questo rifondevano le loro grandi passioni
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società molto complessa e flessibile e non è escluso che da qualche parte l’influenza della Chiesa invece di scemare possa diventare più forte. Gli esempi non mancano. In Polonia durante la prima guerra mondiale c’è stata una tendenza alla secolarizzazione che con il comunismo raggiunse le sue forme estreme. Tuttavia il comunismo dominò ma non conquistò gli spiriti del popolo e per questa ragione, dopo l’89, c’è stata una sorta di rinascita della religione e della Chiesa. Pur tuttavia la forza della secolarizzazione è apparsa di nuovo, e oggi, in Polonia, questo processo di secolarizzazione sembra si ripresenti anche se non ancora nelle forme amplissime di Germania o Italia. Lei ha detto: «Non è più possibile una cristianizzazione dell’Europa, ma si può ritrovare l’impeto della fede. Ma a una condizione: essere preparati a vivere come isole, piccoli gruppi in un mare assolutamente non cristiano». L’ho detto ma ho parlato di “ricristianizzazione”. Non è possibile una “ri-cristianizzazione” dell’Europa ma si può trovare da qualche parte l’impeto sin-
Il Dio del cero della fede e sviluppi sorprendenti. Sono convinto che la Chiesa debba certamente rinunciare alla pretesa di essere una potenza onnipresente e credo che alcuni sviluppi molto avanzati, per esempio quelli di sottolineare soprattutto i diritti umani, come ha fatto Papa Giovanni Paolo II, sono anch’essi un fenomeno della secolarizzazione. Un cristiano non deve parlare dei diritti dell’uomo ma dei diritti dati da Dio all’uomo. Lei riconosce un altro tipo di totalitarismo, quello del mercato, con l’alienazione dell’individuo, l’onnipotenza dell’economia e la disumanizzazione dei rapporti sociali. Può divenire un totalitarismo ma non lo è ancora. Questi diritti individuali sono tanti da essere l’uno per l’altro un contrappeso ma confluiscono tutti nel concetto di “società dei supermercati”. Di fronte a questo evento c’è la fine di ciò che potremmo definire l’Europa cristiana. Non c’è dunque via d’uscita per la Chiesa? Secondo me, la Chiesa dovreb-
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Qui accanto, fedeli islamici in preghiera rivolti alla Mecca. Nella pagina a fianco, fedeli cattolici in pellegrinaggio a San Pietro: il rapporto fra uomo e religione continuerà a essere centrale anche nel Terzo millennio
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e credo che la maggior parte dei cristiani abbia amato piùà altri esseri particolari con un amore, quello si\u0300, che proveniva da Dio. Ma Dio come un essere omnicomprensivo è molto difficile da amare nonostante da secoli il cristianesimo ci inviti a farlo. In questo senso potrei essere d’accordo con Dahrendorf se aggiungesse che questo mondo universale deve essere una preoccupazione di tutti i liberali presupposto però che non distrugga il mondo individuale, particolare, nazionale. Questa sintesi è il postulato massimo di un futuro non ancora realizzato. Anche perche\u0301, come lei stesso ha scritto: «Il rischio è che per ottenere una pace perpetua si arrivi alla guerra perpetua». Sì, ma è una vecchia frase degli anti-cosmopoliti, degli anti-internazionalisti americani, «guerra eterna per la pace immaginata eterna». Questa è una verità incontrovertibile perché in questi nostri tempi vediamo che il tentativo più forte di unificare il mondo, di creare cioè la pace universale, produce sempre nuove guerre. In Heidegger e la rivoluzione conservatrice lei ha scritto che la rivoluzione liberale non conosce limiti. Sì, c’è una tendenza permanente, ci sono sempre state fino a
l Terzo millennio colloquio con Ernst Nolte di Luigi Iannone be accontentarsi di essere un gruppo relativamente piccolo fra altri. Se vuole essere una potenza mondiale deve parlare la lingua del mondo contemporaneo ma seguendo questo percorso non potrà mantenere la sua identità. Dahrendorf ha detto che «un governo mondiale, una società civile mondiale, regole che valgano al livello mondiale, un autentico diritto internazionale, sono tutti fini che, per utopici che possano talvolta apparire, a un li berale stanno a cuore, devono stare a cuore. Facciamo ancora una volta riferimento a Kant: l’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e anche il piccolo scritto Per la pace perpetuascaturiscono direttamente dalla visione filosofica di fondo di Kant. Condivido in pieno l’opinione, secondo cui non possiamo esser paghi fin quando non avremo trovato regole che valgano a livello mondiale».
Un uomo che ha la concezione della trascendenza, e specialmente della “trascendenza pratica”, non può essere in una posizione difensiva contro i risultati principali di questa “trascendenza”, tuttavia non deve neanche esaurirsi in questa relazione. Io credo che la “trascendenza” sia una caratteristica essenziale di ciascun uomo che parla, che pensa, che trascende la vicinanza immediata. è solo degli uomini primitivi ri-
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un punto di vista particolaristico. Durante la gran parte della Storia il ruolo del particolare è stato sicuramente più importante: gli uomini si sacrificavano per la patria concreta e in questo era anche riconoscibile il contenuto delle grandi passioni dell’umanità. Al momento non c’è per esempio un’emozione comparabile nemmeno riguardo all’Europa e al mondo. Non c’è nessuno uomo che si sacrificherebbe per il mondo.
Ho molti dubbi sul fatto che un universalismo connesso strettamente con un particolarismo molto pronunciato possa realmente imporsi, in futuro, come una vera forza vincitrice conoscere “un certo Dio”magari come autore di una tempesta. L’uomo come tale, come un corpo finito, è un essere particolare, e in molti casi vuole essere un essere particolare, che ama la sua patria e che non vuole essere separato dalla sua terra. E la vita genuina del mondo è sempre stata una sintesi tra il punto di vista universalistico e
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Si preoccupa per le sue sorti ma non si sacrificherebbe per esso, perché non è una realtà che può appassionare. Ma senza passione un uomo non vive realmente e tutte le passioni sono legate a realtà particolari. Lo stesso cristianesimo ci ha sempre invitato ad amare Dio cioè “un essere non particolare”, ma è stato sempre difficile,
ora restrizioni, e libertà significava indebolimento. L’infinità reale distruggerebbe la persona che è essenzialmente un essere delimitato e finito. Invece, il pensiero dell’infinità appartiene alla natura dello spirito umano. Perché il carattere dell’umanità è il misto di trascendenza e di concretezza e di particolarità. E se si vuole distruggere la particolarità si distrugge anche l’umanità. L’esempio calzante riguarda l’aspirazione dell’umanità a cancellare il dolore in ogni sua forma: per esempio eliminare il dolore connesso alla natalità, un evento legato alla sofferenza e al sangue. Si può cambiare molto in tal senso, si può fare il parto indolore, ma ho l’impressione che si scenda per un crinale senza più limiti, e tale da imporci una genetica non antropologica ma tecnica. Ho un ricordo tremendo di una foto artificiale della Frankfurter Allgemeine che mostrava embrioni artificiali sviluppati in un recipiente. Questa è una visione assolutamente terroristica del futuro. Il dialogo tra Occidente e Oriente forse non è stato
mai interrotto anche se negli ultimi decenni sembra offuscato e torna prepotentemente alla ribalta il tema delle differenze culturali. Un grandissimo scrittore come Thomas Mann ha rivendicato per la Germania una collocazione a metà strada tra Occidente e Oriente. Ma quale futuro ci attende? Credo bisogna intenderci sulle differenze e sulle identità. L’Islam è forse la religione piu\u0300 universale nel senso pratico. L’ebraismo è una religione con un’idea universalistica: tutti i popoli verranno a Gerusalemme per adorare Javè, dio degli ebrei. Ma questa concezione è strettamente connessa con l’idea di dominazione degli ebrei sulla terra, ma non è realmente universalistica. Il cristianesimo prospetta invece un universalismo di un mondo non più terreno, di un mondo del l’aldilà. A questo punto il pericolo è che l’islamismo, che vuole conservare la situazione del primo Islam, quello con Maometto e dei quattro califfi perché subito dopo intravede la decadenza, si presenti come un universalismo capace di convertire gli uomini perché è una religione assai facile, senza dottrine complesse, come lo puo\u0300 essere magari la Trinità nel cristianesimo. Ho però molti dubbi sul fatto che un universalismo connesso così strettamente con un particolarismo molto pronunciato potrà realmente imporsi come una forza vincitrice. Qual è il suo rapporto con Dio e con la religione? Qualche tempo fa la redazione della rivista Liberal mi ha pregato di scrivere un saggio sul tema: «Che vuol dire la parola Dio per l’uomo moderno». E io ho scritto che ci sono tre diverse concezioni di Dio che hanno connessioni necessarie tra loro. Uno può dirsi ateo: però dirsi ateo, nel senso di essere indipendenti da questo mondo gigantesco in cui viviamo e dalla sua essenza, è un’assurdità. La prevalenza e la prepotenza della forza della natura è tanto evidente che nessuno può negarla: Spinoza dice «Dio ovvero la natura» e questo Dio della forza naturalista non può essere negato. Ma c’è un’altra concezione di Dio, quella di un Dio giusto che collabora, corregge gli errori della natura: questo è un Dio etico che riguarda la fede e rispetto a questa concezione i miei dubbi rimangono inalterati. C’è poi una terza concezione, quella del Dio che garantisce l’armonia del mondo, che fa in modo che gli esseri del mondo non si auto-distruggano ma vivano in una certa coesistenza e armonia. Una concezione molto diffusa nell’antichità. Io confesso di essere uno scettico, o meglio, un uomo che vorrebbe credere e non può.
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Guerra. La Farnesina stanzia 900mila euro per la popolazione ma gli aiuti passano solo tramite i ribelli
I mercenari di Nkunda L’Onu non riesce a frenare il conflitto mentre a Goma la gente è disperata di Franz Gustincich i ritorna a combattere nel Nord Kivu. Ieri mattina, le truppe dei fiancheggiatori paramilitari dell’esercito governativo MaiMai hanno riaperto il conflitto rompendo il cessate-il-fuoco unilaterale proclamato dal leader dei ribelli Tutsi una settimana prima. Sono stati esplosi alcuni colpi di mortaio dalle linee dei Mai-Mai all’alba, verso le postazioni dei guerriglieri a Rutshuru, a nord di Goma, ha dichiarato alla stampa il generale Laurent Nkunda, che guida le truppe dei guerriglieri. I Mai-Mai si definiscono “truppe di autodifesa”, e in passato non hanno disdegnato di attaccare lo stesso esercito del quale sono oggi alleati contro Nkunda. Anche Nyangale è stata presa d’assalto dai Mai-Mai, proprio mentre il Primo ministro della Repubblica Democratica del Congo, Adolphe Muzito, si trovava a Goma per portare conforto alla popolazione. Sempre i Mai-Mai hanno sequestrato, martedì, due giorna-
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listi: il belga Thomas Sheen (che lavora per il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine), e il congolese Charles Ntyiricha, reporter di Radio Okapi, l’emittente dell’Onu.
I due sono stati catturati con il loro autista a Kiwange e sono stati trasferiti nel villaggio di Kinyandoni. Il generale dei Mai-mai Lafontaine è stato contattato dall’Onu per ottenerne il rilascio. I ribelli hanno intanto consolidato la propria nella città di posizione Kiwanja, snodo importantissimo per i commerci ma anche per gli aiuti umanitari che hanno ottenuto il permesso di transitare sotto il rigido controllo delle milizie. I giornalisti dell’Associated Press diretti in questa città hanno incontrato migliaia di profughi lungo la strada per Goma. In questa condizione di caos l’emergenza umanitaria che sembrava uno spettro soltanto ieri, è oggi una realtà, inoltre l’Unicef ha diffuso una nota in cui si sostiene
I ribelli hanno consolidato la propria posizione nella città di Kiwanja, snodo importantissimo per gli aiuti umanitari, che passano solo sotto il controllo delle milizie
che le milizie hanno ricominciato il reclutamento coatto di bambini soldato. La Farnesina, intanto, ha erogato i primi fondi da destinare agli aiuti umanitari: 900mila euro per sostenere l’emergenza più immediata. Anche la Croce Rossa ha avuto il via libera per la distribuzione di aiuti alle 25mila persone rifugiatesi a Kibati, 8 chilometri a Nord di Goma.
Dal Palazzo di vetro di New York, ieri mattina è arrivata la conferma dell’ampliamento del Roe (Rule of Engagement), le regole alle quali si devono attenere i militari in missione: i caschi blu potranno sparare anche se non direttamente attaccati, sebbene non sia loro consentito prendere l’iniziativa di un assalto. A Goma, capoluogo del Nord Kivu, la gente è disperata. I negozi sono ancora aperti, ma le merci scarseggiano ed un nuovo esodo si sta preparando. Le organizzazioni internazionali, che sono state allontanate dalle aree più calde del conflitto, hanno riferito di un forte incremento nel numero degli stupri che, purtroppo, in queste zone sembrano essere un fatto endemico. Ieri in Kenya, mentre si festeggiava l’elezio-
ne di Barack Hussein Obama, venivano portati a termine i preparativi per la conferenza che si tiene oggi: la situazione in Kivu sarà discussa al vertice di Nairobi, che vedrà riuniti i Presidenti di Congo e Ruanda, Joseph Kabila e Paul Kagame, il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, l’Unione africana e i leader di Kenya, Uganda, Tanzania, Burundi e Sudafrica. Alla domanda se chiederà a Kabila di avviare un dialogo
diretto con Nkunda, Ban ha risposto: «Lo incoraggerò sicuramente a dialogare con tutti, incluso Nkunda. Discuterò la questione con il Presidente Kabila». Nkunda aveva minacciato di marciare su Kinshasa e rovesciare il governo se non avrà un incontro con il presidente. Bertrand Bisimwa, portavoce di Laurent Nkunda, ha dichiarato «riprenderemo a combattere e continueremo fino a quando non avremo preso
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L’Unione europea dia un segnale all’Africa
Solo parole per il Congo di Luca Volontè in corso a Marsiglia il vertice informale dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea. Oggetto della discussione, oltre alle relazioni transatlantiche, anche l’emergenza nel Congo. Nei giorni scorsi i responsabili degli esteri di Francia e Inghilterra hanno visitato i campi profughi di Goma e incontrato i responsabili del governo. Il ministro degli Esteri Uk, David Milliband, non ha escluso l’invio di truppe nella Repubblica democratica nell’ambito di un’eventuale forza di pace dell’Ue. Ed è proprio di questo che discutono oggi e domani a Marsiglia. Non ci importa dove, come e con chi abbia trascorso il weekend Frattini: apprezziamo che i suoi colleghi francesi e inglesi l’abbiano passato sul terreno, nel cuore di una tragedia umanitaria. «È una catastrofe». Così i volontari italiani di Avsi e Vis descrivono la situazione nella provincia orientale Nord-Kivu della Repubblica democratica del Congo. «Nelle strade si spara con i mortai, mentre l’epidemia di colera e la mancanza di viveri mettono a rischio centinaia di migliaia di persone. In Congo ci sono più fosse comuni che in Ruanda, l’esercito e i ribelli trasformano in macchine di morte i bambini, costringendoli ad ammazzare un familiare. Tutti, incluso l`esercito regolare, schierano soldati dagli 8-9 anni in su, spesso ubriachi e drogati, rapiti da casa dalle armate che rivaleggiano». Ma il fallimento ha radici lontane, l’approccio umanitario dell’Onu non funziona, i programmi durano troppo poco, poi finiscono i soldi e questi bimbi tornano nelle bande armate. A Goma in questi giorni è un fuggi fuggi: morti lapidati, spari per strada, mortai. Un popolo tra due fuochi, esercito e ribelli. Chi riesce scappa, gli altri si rintanano nella foresta o fuggono. Guerra e tragedia, frutto amaro del veleno ancora ben presente, fuoriuscito dalle viscere di Hutu e Tutsi, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali diventa poi la ben-
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I profughi congolesi, costretti dalle milizie ribelli a nascondersi nella giungla per sopravvivere. A lato, una vittima. Nella pagina a fianco: a sinistra, il leader dei ribelli Nkunda, che minaccia di occupare Kinshasa il controllo di Kinshasa», nel caso non venisse soddisfatta questa richiesta.
Uno degli aspetti più preoccupanti, che potrebbe sfuggire a qualsiasi tentativo di negoziato, è anche la presenza consistente di alcuni gruppi armati stranieri, tra i quali val la pena di citare il primo che ha aperto le ostilità, oltre agli attori già sul campo: il Lord Resistance Army, un esercito di ribelli guidati da un uomo che crede di essere Dio e che è il responsabile delle più crudeli efferatezze compiute in Africa. Quali sono, però, le ragioni della guerra? È dal 1996 che nell’ex Zaire si alternano guerre e conflitti. La prima guerra recente si è protratta dall’ottobre 1996 al maggio 1997, conclusasi con la fuga del dittatore Mobutu. Nell’agosto del 1998 è esplosa la seconda guerra, che è durata fino al 2003 con gli accordi di pace,
Quella in corso non è una vera guerra etnica: si combatte per le immense risorse minerarie e di rutilio, componente principale dei microchip che vengono utilizzati nei telefonini ma la tensione non si è mai sopita, in particolare nella parte orientale. Non si tratta di una vera guerra etnica: l’etnicità è una questione strumentale. Il vero nodo sono le immense risorse minerarie, l’oro, i diamanti, il rutilio – o coltan – componente principale dei microchip che vengono utilizzati nei telefoni cellulari e nei videogiochi, i cui giacimenti si trovano proprio nella parte orientale.
A contendersi queste risorse sono state soprattutto le numerose bande armate che hanno infestato la zona, e da una di queste è emerso Laurent Nkunda. Il Congo ha sofferto indiret-
tamente del genocidio ruandese, le milizie sconfitte si sono riversate nel Kivu, dove hanno posto le loro basi operative, finanziandosi con i traffici di minerali preziosi. Il Congo è il secondo paese più grande dell’Africa, con una popolazione limitata se comparata con quella degli affollati Paesi confinanti, Uganda, Ruanda e Burundi. I piccoli Paesi, inoltre, non dispongono di materie prime in misura così importante come il Congo. Il controllo delle materie prime è la risposta principale alla domanda. E la soluzione a questa ennesima crisi è da trovare proprio tra le miniere del Congo.
zina sul fuoco. Gli scontri proseguono da anni nel nord Kivu: nella regione di Goma, solo gli italiani volontari di Avsi e Vis sono rimasti impavidi. L’Onu non ha più nessuna autorevolezza: il 13 agosto scorso il capo dei caschi blu, generale Babacar Gaye, si è scusato pubblicamente per gli abusi sessuali su minori commessi da alcuni suoi soldati di nazionalità indiana negli ultimi anni.
La speranza non può venire da lì. I presidenti dei due Stati confinanti, Kabila e Kagame, potrebbero annientare i ribelli in “quattro e quattr’otto”, ma la diffidenza e un incrocio di interessi reciproci li frena. Così i ribelli saccheggiano e danno alle fiamme i campi degli sfollati di Goma, dove ci sono almeno 50mila disperati. I disperati sarebbero almeno 1,6 milioni. L’Europa, taciturna e distratta ai tempi della carneficina tra Tutsi e Hutu, non può più permettersi di nascondere le proprie responsabilità dietro al “paravento” dell’Onu. La tragedia ci riguarda, interroga direttamente la responsabilità di ciascun italiano e del Governo intero, i nostri volontari sono laggiù e aspettano da noi non solo preghiere ma azioni forti e rapide. In questi giorni c’è un vertice. C’è sempre un vertice in o per l’Africa - massacri in Katanga, in Somalia, in Darfur, in Kenya, Zimbawe - ma mai una soluzione vera e duratura. Molti Paesi africani avranno pure un crescente debito economico con noi occidentali, debito di cui dovremmo vergognarci, ma noi dobbiamo loro molto di più. La tragedia del Congo ci dà l’occasione di dimostrare a noi stessi e al mondoquanto gli europei siano uomini: senza aggettivi, fieramente uomini. L’Africa è casa nostra,tra i volontari italiani ci sono amici miei, la vera speranza in Congo ha i volti e i nomi dei nostri volontari, potrà rafforzarsi con la azione politica europea ma chiede a ognuno di noi qualcosa di più di una preghiera. Finiamola con lo sciopero dalla responsabilità.
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Allarme. La grande Fiera dei giocattoli di Canton denuncia: fra crisi e scandali, produzione ferma
Babbo Natale fugge da Pechino di Vincenzo Faccioli Pintozzi e non questo, almeno il prossimo Babbo Natale rischia di viaggiare con la slitta vuota. Colpa della crisi finanziaria, certo, ma anche della mancanza di produttori di giocattoli. Gli elfi della tradizione, infatti, non possono competere con le migliaia di industrie cinesi che hanno preventivato un 2009 “di crisi nera”. Le prime avvisaglie della catastrofe dei giocattoli vengono dalla 104ma Fiera di Guangzhou (Canton) per l’esportazione e la produzione di giocattoli, che si è conclusa ieri nella capitale della provincia meridionale del Guangdong. Si tratta di un appuntamento leader per il commercio mondiale, che si svolge ogni primavera ed autunno, a cui partecipano esperti e commercianti di articoli di intrattenimento per bambini. Secondo i dati ufficiali, per questa edizione si sono riunite circa 22mila ditte cinesi, il 20% in più rispetto all’edizione dello scorso aprile. A cui si devono aggiungere le circa 850mila imprese estere invitate dal mini-
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Dei 424 esibitori presenti al padiglione internazionale ce ne erano solo 4 provenienti dagli Stati Uniti: un anno fa erano 22. Inaugurata nel 1956, la Fiera è esplosa nel 1984 con un giro d’affari pari a 10 miliardi di dollari e 50mila partecipanti da più di 140 Paesi. Nel 2004 ha raggiunto i 555mila metri quadri d’esposizione, seconda Fiera più estesa al mondo. Ad aprile 2008 si sono concluse esportazioni per 38,23 miliardi di dollari, con 190mila operatori di oltre 210 Paesi. Qui sono concluse un quarto delle esportazioni cinesi annuali. Zhang Bin, manager dello Haier Group, leader per gli articoli domestici, osserva che «c’è un forte calo di acquirenti da Usa ed Europa. I compratori Usa ormai non frequentano simili fiere nemmeno nel loro Paese». David Liu, capo operativo di una ditta di Pechino di software, spiega al quotidiano South China Morning Post che “oltre il 90% dei nostri clienti proviene dagli Usa. Ci appaltano i loro progetti. Ora stiamo perdendo questo mercato, per cui abbiamo iniziato a rivolgerci al mercato interno»”. Il viceministro al Commercio Gao Hucheng ammonisce che «le turbolenze finanziarie possono avere un impatto relativamente forte sulle esportazioni cinesi. Dobbiamo stare molto all’erta». Anche le ditte estere che partecipano alla Fiera guardano ora al mercato cinese, più che alla possibilità di portare qui la produzione. Progettano di aprire negozi ora che le vendite sono in calo negli Usa e in Europa. Joey Ye, diret-
Kosovo: Armentani nuovo comandante Si è svolta ieri a Pec, presso il Villaggio Italia, la cerimonia di passaggio di consegne della Multinational Task Force West e del contingente italiano in Kosovo. Il generale di brigata Giovanni Armentani, in patria comandante della brigata “Granatieri”di Roma, è subentrato al pari grado Agostino Biancafarina, comandante della brigata “Pinerolo” di Bari. Sono sei i mesi trascorsi dagli uomini della “Pinerolo”che si trovano in Kosovo dal mese di aprile 2008. «È stato un periodo intenso che, grazie alla professionalità di tutti voi, abbiamo superato senza difficoltà», ha detto il generale Biancafarina durante il suo intervento
Mosca, arrestato assassino gesuiti
In declino la presenza di aziende straniere all’appuntamento annuale dell’industria cinese. Complice la paura per i veleni presenti nelle vernici dei giochi stero per il Commercio di Pechino. Wen Zhongliang, direttore commerciale dell’evento, ha confermato la presenza di 53mila stand, 10mila più della precedente. Ma questi dati nascondono una delusione: appare in declino la presenza delle aziende straniere, in particolar modo di quelle provenienti dagli Stati Uniti.
in breve
tore alle vendite della ditta elettronica Enping del Guangdong, stima una perdita addirittura «del 70% degli usuali partecipanti. Molti dei miei clienti di Usa ed Europa hanno detto che non verranno. Ma confido negli ordini di altri Paesi asiatici e del Medio Oriente».
C’è maggiore attenzione anche al mercato asiatico, che però risponde con cautela. Naghi Yasil, acquirente di Dubai di materiali edili, spiega che da anni ha qui comprato materiali per milioni di dollari ogni volta, ma
ora, vista l’incertezza del mercato al consumo e i prezzi per materie prime e merci, «farò soprattutto contratti a breve termine». Ma la crisi affonda le sue radici nell’estate scorsa, quando un milione e mezzo di giocattoli della Mattel made in China e con il marchio Fisher Price sono stati ritirati dal commercio in tutto il mondo perché verniciati con una sostanza illecita, contenente piombo. La vernice è altamente tossica per i bambini e può provocare gravi danni celebrali. La Mattel, accortasi del problema ai primi di luglio, è corsa ai ripari bloccando i carichi di forniture e chiedendo ai rivenditori e ai consumatori di restituire i giocattoli. L’operazione ha provocato il rientro in patria di circa 967mila pezzi destinati al mercato americano e 533mila prodotti spediti in altri Paesi, tra cui Gran Bretagna, Messico e Canada. Negli Stati Uniti, i pupazzi tossici erano in commercio da maggio. Pechino si è difesa per bocca del ministro del Commercio, Bo Xilai, che ha dichiarato: «Oltre il 99% delle esportazioni cinesi è buono e sano». In una nota contenuta nel sito del ministero, Bo si è rivolto ai partner commerciali: «Speriamo che i prodotti cinesi siano trattati in modo obiettivo, giusto e razionale. Non lasciate che venga danneggiato il normale sviluppo dei commerci». Ma, almeno secondo i risultati della grande Fiera, i suoi appelli sono caduti nel vuoto. E ora Babbo Natale ha sicuramente meno sacchi da trasportare.
Le autorità russe hanno arrestato un sospetto che ha confessato l’assassinio di due preti gesuiti nel loro appartamento di Mosca, lo scorso 28 ottobre. L’uomo, 38 anni, di cui non è stato reso noto il nome, ha precedenti per reati sessuali e viene indicato come dedito alla prostituzione. I corpi dei due gesuiti erano stati trovati con profonde ferite da coltello e il cranio fracassato. L’ordine dei gesuiti ha precisato che Betancourt è stato ucciso per primo il 25, mentre Messner è stato assassinato tre giorni dopo, al suo ritorno da un viaggio in Germania.
Pakistan, raid aereo: almeno 14 morti Almeno 14 persone sono state uccise ieri in un altro attacco aereo delle forze armate pakistane contro presunti rifugi di talebani in una zona tribale del Nord Ovest del Pakistan, al confine con l’Afghanistan. Lo hanno detto responsabili locali. Nella stessa regione un attacco aereo aveva fatto 15 morti fra i ribelli integralisti islamici, secondo un responsabile dell’amministrazione locale.
mondo
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Drammi. Il Cairo non commenta i viaggi della morte e non affronta il problema emigrazione IL CAIRO. Prima della stagione estiva, sembrava che i tentativi di raggiungere clandestinamente la costa italiana via mare partendo dalle spiagge egiziane si fossero arrestati del tutto, in virtù del rapido e radicale intervento della polizia egiziana, allarmata dalla nascita di un traffico di esseri umani nella regione del Delta del Nilo. Ma solo poche settimane fa, un “barcone della morte”– così sono chiamate, su entrambe le sponde del Mediterraneo, le imbarcazioni di fortuna su cui viaggiano migliaia di aspiranti migranti – con un centinaio di passeggeri è tornato sulle prime pagine delle testate indipendenti del Cairo, con il suo carico di vittime della miseria e della disperazione. Il viaggio in direzione Nord-Est segue una rotta lunga migliaia di chilometri, alquanto rischiosa: nel migliore dei casi può durare una decina di giorni, ma le probabilità di successo – cioè di raggiungere sani e salvi il Meridione italiano, senza trovare ostacoli sul proprio cammino, e di far perdere le proprie tracce sul territorio - sono pressoché nulle. Le intercettazioni da parte delle guardie costiere di Malta, Grecia, Libia o Italia sono continue, ma è ancora più alto il rischio di fare naufragio in pieno Mediterraneo, senza scorte di carburante né di viveri. L’emigrazione di natura economica non è un fenomeno nuovo per gli egiziani, partiti a centinaia di migliaia negli anni ’70 del secolo scorso in cerca di lavoro nei paesi del Golfo: un flusso regolato da accordi fra paese di partenza e paese ospitante, un fiume tenuto sotto controllo costante e vantaggioso per tutti. Ancora oggi, prendendo in considerazione il fenomeno dell’immigrazione “inter-araba”, cercano lavoro nei paesi del Golfo soprattutto gli egiziani, presenti nella vicina Libia e in Arabia Saudita con due milioni e mezzo di lavoratori [Dati forniti dallo Iom, International organization for migration, con riferimento alla fine del 2005, ndr]. L’emigrazione clandestina, però, ricercata con ogni mezzo al pari di chi, al di
Ripartono dall’Egitto le carrette del mare di Federica Zoja
Le “carrette del mare”, mercantili riconvertiti al trasporto di immigrati clandestini dalle coste africane a quelle italiane. Ma le probabilità di raggiungere sani e salvi il Meridione italiano, senza trovare ostacoli sul proprio cammino, e di far perdere le proprie tracce, sono quasi nulle. A lato, Hosni Mubarak
bilizzare l’opinione pubblica anche rispetto ai rischi dei viaggi dalle coste libiche, di cui le famiglie sanno poco e perdono presto le tracce. Le autorità politiche sdrammatizzano, forse nel timore di dover discutere apertamente le cause dell’esodo: inflazione oltre il tetto del 20% anno su anno, crescita dei prezzi dei generi di sussistenza superiore al 60% rispetto alla fine del 2007, disoccupazione e incremento demografico al galoppo in parallelo.
Riferisce una fonte accreditata, vicina al dossier immigrazione clandestina verso l’Italia: «Rispetto a un anno fa il fenomeno delle partenze dal Delta del Nilo è in flessione,
Secondo il Gran Muftì d’Egitto chi muore per raggiungere un Paese europeo clandestinamente «si è votato volontariamente alla morte. L’avidità e il desiderio di denaro erano le loro motivazioni» sotto del Sahara, scappa da guerre e persecuzioni, è emersa solo negli ultimi anni, resa più virulenta dalla crisi dell’economia egiziana. Fanno sempre più rumore le partenze di giovani egiziani dai lidi “sotto casa”, in particolare dai governatorati come Daqhalyia e Kafr El Sheikh, a dimostrazione che qualcuno privo di scrupoli ha messo gli occhi su un possibile business. Ma si cerca di sensi-
soprattutto grazie alle forze di sicurezza egiziane, ma l’attenzione rimane alta». Ci manca solo che le organizzazioni criminali italiane mettano le mani su questa nuova rotta clandestina in embrione, sviluppandone le potenzialità, riflettono gli osservatori a Roma: «No, a quanto risulta al momento – prosegue la fonte cairota - si tratta di un piccolo gruppo di criminali locali, au-
toctoni. Questo non toglie, però, che siano determinati e privi di scrupoli, anche armati». Un focolaio da tenere sotto controllo, dunque, anche perché non troppo lontano dal confine con Gaza né dal Sinai, dove le tribù beduine controllano traffici illeciti di vario genere. E mentre il fronte politico prende tempo, le gerarchie religiose scelgono di giocare la carta dell’anatema contro le
società occidentali, che seducono i giovani con i loro falsi modelli. Il Gran Muftì d’Egitto Ali Gomaa, la cui carica dipende dal potere politico, ha sollevato polemiche rifiutando alle vittime dei naufragi lo statuto di martiri e, di conseguenza, l’accesso al paradiso. Secondo Ali Gomaa, coloro che muiono nel tentativo di raggiungere un Paese europeo clandestinamente «si sono votati volontariamente alla morte e l’obiettivo del loro viaggio non era servire Dio». E ancora: «L’avidità e il desiderio di denaro erano le loro motivazioni».
Nel caso specifico di uno degli incidenti in mare più gravi dell’ultimo anno occorso nel mese di febbraio, ogni passeggero aveva pagato l’equivalente di 4.500 dollari per partire, frutto delle economie di un intero villaggio. Di parere opposto la moschea universitaria sunnita di Al Azhar, che condanna i trafficanti, ma non le vittime. Nessuna autorità, tuttavia, commenta le radici del fenomeno: parlano da sè i dati allarmanti delle Nazioni unite, secondo cui il 40% degli egiziani vive al di sotto del livello di povertà [percentuale diffusa all’inizio di questa settimana, ndr].
scienza
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Trapianti. Si possono effettuare solo in assenza di funzioni dell’encefalo, di attività elettrica nell’organismo e di qualunque altro riflesso vitale del donatore
Se il cervello lo consente... La morte cerebrale è la condizione essenziale per procedere all’espianto degli organi di Ernesto Capocci l 5 agosto 1968, una commissione ad hoc, istituita l’anno precedente presso la Harvard Medical School, pubblicò il suo rapporto finale, nel quale si indicava l’encefalo come organo critico dell’integrazione corporea e la morte cerebrale come criterio corretto per individuare la morte, intesa come «momento in cui il sistema fisiologico dell’organismo cessa di costituire un tutto integrato».
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Il 5 agosto 1968,
no, la conseguenza è la morte cerebrale del paziente. La morte si identifica, quindi, con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Le conclusioni della Commissione di Harvard sono poi state confermate da autorevoli istituzioni, da società scientifiche, da gruppi di stu-
Fino a 40 anni fa, la morte veniva diagnosticata usando “criteri cardiologici”. Oggi è legata alla perdita irreversibile delle funzionalità cerebrali
la prestigiosa rivista Journal of the American Medical Association pubblicò il documento messo a punto dai medici dell’Università americana, coordinati dall’anestesista Henry Knowles Beeker, che introdusse invece le tre condizioni che determinano la morte cerebrale e quindi il decesso dell’individuo: il coma; la perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale; l’impossibilità di respirazione autonoma. Sono questi i
driano Pessina è docente di Filosofia Morale, di Filosofia della prassi umana, Bioetica e Filosofia della persona nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica. Qual è la sua valutazione sul recente dibattito sulla morte cerebrale? L’opinione espressa da Lucetta Scaraffia è in realtà la recensione di due libri, che riportano considerazioni ampiamente superate dal dibattito attuale sulla morte cerebrale, perché si rifanno alla prima definizione del rapporto di Harvard, senza tener conto delle riflessioni successive. Occorre considerare due questioni centrali: il rigoroso accertamento della morte dell’intero cervello; se quest’accertamento c’è, si ha la certezza che la persona in morte cerebrale è un cadavere. Quando si ha questa certezza? Quando viene staccata la testa
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criteri che quarant’anni fa spostarono il concetto di morte dal cuore al cervello; prima di allora, la morte veniva diagnosticata usando criteri cardiologici. Il rapporto di Harvard stabilì che la fine della vita è definibile con la morte di tutto il cervello e il documento è considerato dalla maggioranza degli esperti uno spartiacque, rivestendo un’importanza determinante per i
trapianti: la morte cerebrale, infatti, è la condizione essenziale per procedere al prelievo.
Fu riconosciuta nel cervello l’origine di tutti i processi vitali: il respiro, il battito cardiaco, la termoregolazione, la fame, la sete. Quando, a causa di un danno cerebrale, le cellule che generano tali funzioni muoio-
dio. In un documento sull’argomento approvato dal Comitato Nazionale per la Bioetica il 15 febbraio 1991 si legge che, senza escludere la possibilità di adottare criteri basati su altri parametri, «per quanto riguarda i criteri neuro-
Il recente dibattito sulla morte cerebrale come condizione di “finis vitae” passa la palla a un tema altrettanto delicato e dibattuto: quello sui criteri che regolano l’espianto degli organi logici, il Comitato ritiene accettabile solo quello che fa riferimento alla cosiddetta “morte cerebrale”». Molte legislazioni nazionali, tra le quali quella italiana, accolsero la definizione di morte indicata dalla dichiarazione di Harvard. Secondo la legge italiana, questa è causata da una totale assenza di funzioni cerebrali, dipendenti da un pro-
lungato arresto della circolazione per almeno 20 minuti, o da una gravissima lesione che ha colpito in maniera diretta il cervello. Diversa la situazione dello stato di coma, dove il paziente è vivo, anche se la coscienza è assente. In questo caso i riflessi sono presenti, l’attività elettrica dell’organismo si può rilevare, così come la risposta agli stimoli.
Il 2 settembre scorso, Lucetta Scaraffia, sull’Osservatore Romano, ha posto interrogativi sul rapporto dell’Harvard Me-
L’opinione del docente di Filosofia Morale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
«Basta filosofeggiare,abbiamo dati empirici» colloquio con Adriano Pessina
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È necessario che la morte cerebrale sia accertata in maniera scrupolosa. La legge italiana è tra le più rigorose oggi esistenti
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di una gallina, questa può continuare a camminare, ma di lì a poco sarà cadavere. Una persona morta cerebralmente è come se fosse decapitata, pur potendone tenere in vita gli organi. Quando a un essere vivente cessa il battito cardiaco possiamo rianimarlo, ma se anche il cervello è morto, non
possiamo più farlo. Nello stato vegetativo invece la persona è viva, ha lesioni a parti del cervello che non sono incompatibili con la vita. La morte cerebrale non è un criterio antropologico, non è una nuova definizione di morte, ma è un criterio per definire la morte di una persona. Alcuni sostengono che il rapporto di Harvard sia servito solo a consentire i trapianti di organi vitali. Oggi non è più solo questa la motivazione, perché la morte cerebrale serve per cessare ogni trattamento che altrimenti si configurerebbe come vilipendio di cadavere. Quali critiche muove alla posizione che è stata espressa?
La confusione: la morte cerebrale non è uno stato di fine vita e non è da confondere con lo stato vegetativo o il coma. La cosa, invece, che mi sento di sottoscrivere è il fatto che è necessario che la morte cerebrale sia accertata in maniera scrupolosa: si deve avere la certezza che la persona sia morta, che si ha di fronte un cadavere, per espiantare gli organi o terminare le cure. La legge italiana, da questo punto di vista, è tra le più rigorose attualmente esistenti. Nel mondo scientifico c’è stato dibattito in questi decenni su questa questione? Non sono stati mai portati fatti che smentiscano il criterio adottato. Chi ha espresso una
posizione contraria l’ha fatto con un’impostazione di carattere ideologico, quella di negare che la morte cerebrale indichi la morte di una persona per dire – l’hanno fatto, tra gli altri, Harris e Singler - “considerato che preleviamo gli organi da chi ancora non è morto, perchè non allarghiamo anche a coloro che sono in stato vegetativo”. Inconsapevolmente, Lucetta Scaraffia ha fatto il gioco di coloro che separano la persona umana dall’essere umano. Può spiegare meglio? Il criterio è scientifico, non filosofico. Il criterio di accertamento della morte con parametri cerebrali (dell’intero cervello) è un paradigma scientifico che allo stato delle cono-
scienza
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Il professore di Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Genova
«Prima l’etica,poi la scienza» colloquio con Paolo Becchi aolo Becchi è professore Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza delle Università degli Studi di Genova e Lucerna ed è autore del libro La morte cerebrale e il trapianto di organi, edito nel 2008 da Morcelliana, citato nell’articolo di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano dello scorso 2 settembre. Lei da tempo si occupa di morte cerebrale. Può spiegare perché? Mi fa piacere che lei me lo chieda, perché la ragione è precisa e non ho ancora avuto modo di raccontarla. Nel 1995-96, l’editore Einaudi mi chiese di curare l’edizione italiana – che poi uscì nel ’97 - di Tecnica, medicina ed etica, di Hans Jonas. Un capitolo di quel libro mi lasciò sconvolto: riguardava il trapianto di organi e aveva questo titolo: “Morte cerebrale e banca di organi umani”. La mia riflessione e il mio interesse sul tema sono inziati in quella circostanza e da allora ho scritto molto sull’argomento, al di là del volumetto citato più volte nelle scorse settimane, che era esaurito già prima dell’articolo dell’Osservatore Romano, perché nell’opinione pubblica c’è molto interesse relativamente a questo tema. Che cosa la colpì allora? Innanzitutto un fatto: la dichiarazione di Harvard è del luglio ’68; a distanza solo di un mese, Jonas espresse la sua prima presa di posizione, nella quale avanzò delle considerazioni critiche sulla necessità di definire il criterio di morte, distinguendo i due problemi legati all’eutanasia e al prelievo di organi. In parole povere, Jonas affermava che se i soggetti sono ancora vivi, non si possono prelevare gli organi ed aggiungeva che avrebbero dovuto trascorrere almeno trenta minuti dall’arresto cardio-circolatorio. Su quest’ultimo punto non sono mai stato d’accordo, perché sarebbero impossibili i trapianti di molti organi. Allora, lei è favorevole ai trapianti? Perché, ne dubitava? Il mio libro - scritto per un pubblico vasto - intende solo aprire il dibattito ed è aperto alla discussione. Si conclude con la proposta, che mi sembra ragionevole, che a determinate condizioni, il prelievo si può effettuare anche con la morte cerebrale. Non sono contro i trapianti. Certo, ci sono alcuni gruppi di persone che vogliono negare la possibilità di trapiantare alcuni organi - soprattutto il cuore - a “cuore battente”. Vorrei che del problema si discutesse. Non si può dire “se diciamo certe cose, non ci saranno più donatori”. Può essere che all’inizio la reazione emotiva sia questa, ma è comunque necessario affrontare a viso aperto la questione, così come all’inizio si era iniziato a fare con l’articolo benemerito di Lucetta Scaraffia. Perché dice all’inizio? Perché poi è stato quasi decretato il black out dell’informazione, tanto che quando lei mi ha chiamato per quest’intervista, mi sono meravigliato.
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dical School e sostenuto: «Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l’idea che la persona cessi di esistere quando il cervello non funzio-
scenze attuali, se eseguito con scrupolo, ha la medesima plausibilità dei criteri di accertamento della morte con parametri cardio-polmonari ed è ‘assolutamente compatibile’ con una visione personalistica dell’essere umano. Il mondo cattolico ha dibattuto su queste tematiche? Certo ed è anche giusto che il dibattito continui. Sono però del parere che debbano essere usati in modo corretto i dati empirici che abbiamo. Qual è la Sua posizione sui trapianti? La questione della cosiddetta donazione degli organi è complicata . Più che di donazione – che è un termine equivoco – parlerei piuttosto di permettere che gli organi del cadavere siano utilizzati anche da altri, con generosità. Il rischio è anche quello di fare dell’essere umano una risorsa biologica, penso per esempio all’idea di distruggere gli embrioni per
na più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale - è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente». L’opinione espressa da Lucetta Scaraffia ha suscitato un animato dibattito nelle scorse settimane, che in queste pagine vogliamo riprendere.
fare cellule staminali. Nella nostra società si ha paura di parlare della morte? No, si ha paura del tempo della malattia, specie se cronica. Si teme di più questo che la morte. E’ diventato più difficile dare significato non tanto alla malattia, ma al tempo in cui una persona, convive con la malattia. Il segno evidente è dato dal fatto che tutti sono entusiasti dalla continua conferma che le persone possono rinunciare a farsi curare, mentre fino a qualche tempo fa si faceva valere il diritto ad essere curato. Trovo paradossale ed inquietante che si insista, da parte dei mass media e di alcuni intellettuali, di rinunciare alle cure anche quando sono proporzionate. Non vorrei che di questo passo avvenga da noi quel che è già avvenuto in altri paesi e si cominci a dire che ci sono vite non degne di (e.c.) essere vissute.
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Sa, a noi piace approfondire le questioni. Come tutti dovrebbero fare, senza tacciare nessuno di oscurantismo e avendo l’obiettivo di affrontare il dibattito, trasformandolo da scientifico – com’è stato presentato - in problema etico, facendo partecipare filosofi, teologi. Se accadesse, la discussione potrebbe essere molto interessante. Affrontato il problema etico, c’è poi quello delle leggi e dei regolamenti. Quali sono i termini del problema etico, a suo avviso? Nella nostra società c’è bisogno di un’etica complessiva e di un’etica anche in questo settore. Negli anni ’50, le tecniche rianimatorie avevano contribuito a salvare tante persone. Negli anni successivi, con il perfezionamento della tecnica della respirazione artificiale, in altri casi con la rianimazione, il cuore continuava a battere e consentiva la funzionalità degli organi, ma il cervello era spento. Ci si chiese: cosa facciamo delle persone che hanno un cervello che non funziona, ma per il resto delle loro funzioni vitali devono considerarsi persone? Fu allora che si pensò di formulare una definizione, quella della morte cerebrale, prescindendo dall’affrontare la questione etica. Poi, nel ’68, a gennaio, iniziarono i primi trapianti di cuore… ricordiamo che il rapporto Harvard nasce proprio in quel periodo, nel luglio del ’68. E’questo il contesto che si deve tenere presente. Le tesi scientifiche che confutano il rapporto di Harvard quali sono? Nel libro cito un famoso articolo di due professori dell’Università di Harvard, Robert Truog e James Fackler, che sostengono che i criteri adoperati per la definizione di morte non necessariamente presentano la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali. Molti hanno detto: si tratta solo di un articolo. Rispondo: sì è un articolo che ha creato dibattito, ma non ci sono state smentite, così come non ci sono state smentite per altre prese di posizione di questi ultimi anni, che ci sono state in molti paesi. La chiusura della discussione che ha avvertito a quali ragioni la attribuisce? Si è restii a parlare della morte, su questo non ci sono dubbi. Della morte si ha paura, c’è resistenza a parlarne; c’è la solitudine della morte e oggi non si muore più nelle proprie case. C’è da considerare, però, che il morto può divenire il migliore amico del vivo. Bisognerebbe parlarne ed affrontare il problema. Ma c’è anche un’altra ragione, la stessa per la quale il mio libro è stato rifiutato da tutti i maggiori editori italiani. Quale? C’è un argomento – mi è stato detto - su cui i bioetici laici e quelli cattolici sono d’accordo e lei vuole creare una frattura proprio su questo? Ho risposto: io sono un filosofo e mi occupo della verità e voglio scandagliarla. Un piccolo editore ha avuto il coraggio di pubblicare il mio libro, che aveva, ripeto, una sola ambizione: porre un problema e consentire una discus(e.c.) sione civile e serena.
Affrontato il problema morale, c’è poi quello altrettanto importante delle leggi e dei regolamenti
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cultura
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Ritratti. Il medico prestato alla scrittura che con i suoi libri ha dato vita a successi letterari e cinematografici mondiali
L’ultimo sequel di Michael Crichton di Alessandro Boschi A destra, lo scrittore Michael Crichton, scomparso lo scorso 4 novembre. Grazie al suo straordinario talento, ha scritto libri da cui nel tempo sono stati tratti successi cinematografici mondiali, come il film “Jurassic Park” (sotto), la serie televisiva “E.R.” (a sinistra), o la pellicola “Twister” (in basso)
morto giovane, John Michael Crichton, a soli 66 anni, stroncato da un tumore che combatteva da tempo e di cui niente era mai trapelato. Ma come si dice in Eutanasia di un amore, «la morte arriva sempre senza essere invitata». Per questo la morte, come hanno comunicato i familiari, anche in questo caso è giunta «inaspettata e improvvisa». Michael Crichton rappresenta la sintesi perfetta dello scrittore sceneggiatore, tanto è vero che molti lo hanno accusato di scrivere i suoi libri pronti già per il cinema (la stessa accusa è stata recentemente rivolta, mutatis mutandis, a Niccolò Ammaniti per Come Dio comanda, di prossima uscita per i “tipi” cinematografici di Gabriele Salvatores).
È
Non sappiamo se questo sia un difetto, ma se questo vuol dire adeguare consapevolmente lo stile narrativo alla declinazione cinematografica allora Michael Crichton è un vero asso. Anche perché egli stesso è regista, e film come Coma profondo e Il mondo dei robot portano la sua firma. Sono, questi due, film importanti che come al solito precorrono i tempi, o forse, drammaticamente, li narrano in contemporanea. Il mondo dei robot, del 1973, è la storia di un parco divertimenti a tema, dove varie epoche storiche vengono ricostruite fin nei minimi dettagli, persone comprese. Che sono ovviamente degli androidi, i quali non rispondono più ai comandi dell’uomo, come se diventassero consapevoli del loro esistere. Semplicemente, è uno dei primi raffinati esempi di macchina che si ribella contro il genere umano e il futuro del film, che colloca la storia nel 2000, appartiene già al nostro passato. Inquietante, forse è successo qualcosa del genere e non ce ne siamo accorti, o forse non del tutto. Coma profondo, del 1978, è ancora più calato nel nostro tempo, nella attualità più stretta: alcune persone, che si sottopongono a interventi chirurgici di routine, cadono misteriosamente in coma. Si scoprirà che i loro organi vengono venduti e per di più al mercato nero. Questi due film, se nel cinema esistessero degli archetipi, non potrebbero che appartenere a questa categoria. Sono esemplari nella chiarezza della realizzazione e, come solo gli americani sanno fare, raccontano senza preoccuparsi della metafora. Come pure i libri e i film di Michael Crichton, diretti ed immediati. Anche i meno cinematograficamente riusciti come Congo, consigliato alla sua
Il suo talento è stato supportato da una profonda conoscenza scientifica, dovuta allo scrupolo con cui ha sempre reso plausibile anche quella parte di racconto che invece è pura invenzione uscita anche al leader del Pd Walter Veltroni. L’indubbio talentaccio di Crichton è sempre supportato da una profonda conoscenza scientifica, vuoi per la sua laurea in medicina, vuoi per lo scrupolo con cui si vuole sempre rendere plausibile anche quella parte di racconto e quindi di film che invece è pura invenzione.
Più o meno giustamente lo scrittore nativo di Chicago viene quasi sempre associato solo e soltanto a Jurassic Park che, portato sullo scher-
mo da Spielberg, ha avuto un successo planetario. Anche in questo caso la storia, decisamente improbabile, è resa plausibile dalla messe di dati che vengono propinati ad ascoltatori (e lettori): in fondo CSI ci insegna che dal dna si può risalire al suo donatore, quindi risulta plausibile ricrearlo in provetta, questo donatore. Che poi esso sia un dinosauro, beh, tanto meglio, le dimensioni non contano. Però stiamo facendo un errore, perché sem-
mai è stato Jurassic Park, eventualmente, ad “insegnare” il dna a CSI. Quello che vogliamo dire è che questi scatti scientifici che avvengono nell’immaginario collettivo sono davvero importanti, perché permettono di spostare in avanti la consapevolezza (o la sua illusione) tecnica dello spettatore: uno scrittore che sa questo ha molte più frecce al suo arco. Quindi anche CSI ha un debito verso Crichton, che peraltro la sua bella serie se l’è prodotta e scritta insieme al fidato Steven Spielberg, la mitica E.R. inauguratrice (perché più importante di altre anche precedenti) del filone seriale medico. Per la proprietà transitiva anche noi siamo creditori (o debitori, dipende dai punti di vista) di Crichton, in quanto sappiamo chi dobbiamo ringraziare per ritrovarci George Clooney.
Ma per dimostrare quanto il talento di Crichton sia stato eclettico ricordiamo che anche Twister, diretto dal micidiale Jan De Bont, è frutto della sua creatività. Trattasi di un film sui tornado e su un gruppo di ricercatori che studia il metodo per prevederli e contenerli. Curiosamente Crichton è morto lo stesso giorno in cui uno dei più impetuosi si è abbattuto sugli Stati Uniti. Certi tornado, chiedere a Mc Cain, sono davvero incontenibili.
cultura appuntamento è per domani nell’area archeologica di Ostia Antica. L’occasione è la chiusura delle Campagne di scavo 2008 nell’ambito del “Progetto Paikuli”, finanziato dal ministero degli Esteri con la task force Iraq e organizzato dall’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (Isiao). Due campagne di scavi a Ostia Antica sono state rivolte alla formazione del personale della regione curda irachena e una terza aggiuntiva, sponsorizzata dalla fondazione “Mario Moderni”, è stata invece rivolta agli studenti di archeologia della facoltà di Lettere e Filosofia dell’ università “La Sapienza” di Roma. Obiettivo: eseguire ricerche per una più ampia conoscenza dei rapporti fra Ostia, che era il porto di Roma, e l’Oriente.
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L’
Archeologia. Due campagne di scavi per conoscere i rapporti fra Roma e l’Oriente
Posta fra Roma e il mare Tirreno, Ostia era l’unico porto naturale della costa occidentale fra La Spezia e Gaeta e assunse un’importanza vitale per la capitale dell’impero, per il suo approvvigionamento e per le sue spedizioni militari. La posizione strategica, che permetteva alla città non solo di commerciare con tutto il Mediterraneo, ma anche di controllare le vie di comunicazioni che da questo risalivano attraverso il fiume sino a Roma, favorì a Ostia uno sviluppo commerciale ma anche “culturale” che rivaleggiava con quello della capitale. Come spesso accade, infatti, insieme alle merci viaggiavano idee, tecnologie e nuove credenze che, dalle sconfinate e remote aree dell’Asia approdavano nell’Impero. Città di mercanti, soldati, mercenari, Ostia doveva a questa mescolanza di lingue, culture e razze, la sua speciale vocazione cosmopolita, testimoniata anche dalla presenza di diversi culti di origine orientale, attestati con abbondanza al suo interno: dalla Magna Mater Cibele proveniente dalla Frigia, all’Iside egizia, fino ai Misteri di Mitra, di indubbia ascendenza persiana. Proprio ai culti e agli edifici legati a Mitra, particolarmente numerosi nel sito, sono rivolte le attenzioni di questo Alcune immagini dei reperti specifico progetto ritrovati durante gli scavi di ricerca ideato effettuati a Ostia antica: dall’Isiao allo scopo il Mitreo delle Sette Porte, di riprendere gli il Mitreo delle Terme del Mitra studi di questo pare il Mitreo dei Serpenti ticolarissimo aspetto della vita cultua-
Nel Kurdistan iracheno passando da Ostia antica di Rossella Fabiani le dell’antica città portuale attraverso la collaborazione di specialisti di archeologia classica e orientale. A questo primo progetto di ricerca all’interno del territorio ostiense si univano poi le esigenze di un secondo progetto portato avanti dal-
struzione nel quartiere di Aqaree. La sistemazione attuale, dal 1979, in via Salim, una delle arterie principali, copre un’area di seimila metri quadrati. Nei pressi sorgo-
Domani il professor Carlo Giovanni Cereti illustrerà i risultati delle ultime ricerche effettuate nell’area, dove sono stati riportati alla luce il Mitreo delle Sette Porte, quello delle Terme del Mitra e quello dei Serpenti l’Isiao. L’istituto, infatti, è fin dal 2006 impegnato in programma di ricerca nel territorio del Kurdistan iracheno, e più esattamente nella provincia di Suleymania, dove negli ultimi anni sono state portate a termine una serie di missioni incentrate sullo scavo, il restauro e la valorizzazione della torre sasanide di Paikuli. Nella stessa provincia, poi, si trova il museo archeologico Slemani che è per importanza il secondo dell’Iraq dopo quello di Baghdad, depredato nei giorni della caduta del regime. Prima l’edificio era una piccola co-
no l’università e l’ospedale di Emergency. Il giovane direttore del museo, Hashim Hama Abdullah, è entusiasta dell’impegno dell’Italia con le autorità locali per la salvaguardia del patrimonio iracheno. Racconta della partnership italiana con il professore Carlo Giovanni Cereti, dell’università “La Sa-
pienza” e con l’Isiao, dal 2006 impegnato in scavi in Iraq, principalmente nel recupero della torre sasanide di Paikuli a est di Suleimaniya, verso il confine con l’Iran. Così come del corso di formazione a Ostia Antica al quale ha partecipato la Direzione delle antichità di Suleimaniya. E il giovane direttore non riesce a credere che l’Isiao (fondato nel 1933 dal filosofo Giovanni Gentile e dall’archeologo Giuseppe Tucci) era stato messo nel novero degli enti “inutili” da sopprimere con la manovra finanziaria del nostro governo. I mitrei di Ostia, luoghi di culto e ponte culturale fra oriente e occidente, sono sembrati la scelta più naturale per svolgere i corsi di formazione per gli archeologi iracheni.Tra l’autunno 2007 e l’autunno 2008, nel sito di Ostia sono state portate avanti tre campagne di scavo all’interno di tre distinti mitrei: Mitreo delle Sette Porte, Mitreo delle Terme del Mitra e Mitreo dei Serpenti.
Di remota origine indoiranica, le prime attestazioni della divinità conosciuta col nome di Mitra risalgono alla metà del II millennio a.C., quando in un trattato di pace suggellato fra il regno Ittita e quello di Mitanni, compare il nome del dio come garante del patto. Fortemente radicato nell’apparato militare, il culto di Mitra, conobbe grande successo nelle regioni dove erano stanziate le legioni a guardia dei confini, ad esempio in quella danubiana, renana, in Britannia, in Africa e naturalmente nel centro dell’impero, a Roma e a Ostia dove sono stati scoperte la maggior parte delle iscrizioni funerarie, dei sarcofagi e dei mitrei legati al dio. E domani il professor Carlo Giovanni Cereti illustrerà i risultati delle ultime ricerche effettuate nell’area di Ostia Antica.
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da ”Asahi Shimbun” del 06/11/2008
Giappone, piccole città crescono er rendere la vita migliore ad una popolazione sempre più anziana e arginare la fuga dai piccoli centri, il governo centrale del Giappone avvierà, nel prossimo anno, un ambiziosa iniziativa per la creazione della teiju jiritsu-ken, ovvero un progetto per consorzi di servizi, che dovrebbero incoraggiare la popolazione residente a restare, grazie allo sforzo e all’azione delle amministrazioni locali. Non è facile per i borghi e i paesi, anche per le cittadine, provvedere a tutti i servizi necessari, senza un aiuto esterno. Il governo nazionale si è reso conto del problema e cerca una soluzione attraverso la creazione di «zone» speciali, nelle aree intorno a zone urbane con circa 50mila abitanti. In questa maniera, anche le zone scarsamente abitate del circondario, potrebbero condividere servizi e ripartire oneri e responsabilità. L’esperimento dovrebbe coinvolgere 18 «zone» già selezionate.
P
Responsabilità e divisione dei compiti verranno decise localmente, mentre il ministero degli Interni e delle Comunicazioni dovrebbe fornire il supporto amministrativo e fiscale, compreso il trasferimento d’autorità necessario. L’idea è quella di concentrare in ogni cittadina un «polo di servizi», con tutte le funzioni necessarie per elevare la qualità della vita, in modo che possano essere sfruttate dai centri satelliti. In tale maniera anche nella provincia si potranno godere di quegli standard qualitativi che caratterizzano le città moderne. Il governo è convinto che l’iniziativa dovrebbe frenare la fuga verso i grandi centri e le metropoli. Uno studio dello stesso ministero denuncia la gravità del problema, che anche legato al decremento demografico di molte regioni già a bassa densità di popolazioni (genkai senkaku) e altre aree con problemi simili.
«Oggi è diventato impossibile per molti comuni poter garantire certi servizi», ammettono fonti ufficiali. L’obiettivo è quello di creare un modello uniforme di crescita e sviluppo, per controbilanciare centri urbani troppo spinti in avanti nella crescita e altre aree sempre più povere. Dividendo compiti, responsabilità e benefici. Più di trenta amministrazioni hanno fatto richiesta per partecipare al programma pilota.
Ad esempio la città di Iida nella prefettura di Nagano, vorrebbe migliorare i servizi sanitari. Si vorrebbero concentrare tutte le funzioni di un grande ospedale, nel centro cittadino, mentre i vari reparti e le cliniche verrebbero dislocati nei centri satelliti. I posti letto dovrebbero essere destinati, in via preferenziale, ai residenti della «zona». Il piano comprende anche l’incrementati i servizi di trasporto, sia per l’accesso alle strutture mediche che per quelle commerciali. Nella città di Hikone invece si è optato per la costruzione di una mensa scolastica che possa servire una vasta area di utenti. Verrebbero utilizzati prodotti locali per il confezionamento dei pasti, in ossequio al concetto di filiera corta. Ciò che hanno in comune tutti questi progetti è l’intenzione di creare nei cittadini senso di sicurezza, soprattutto per gli abitanti delle zone più marginali e periferiche. Si ha la consapevolezza, comunque, che il sistema migliore per frenare l’abbandono di queste aree sia quello di creare nuovi posti di lavoro. Molti dei centri prescelti sono fra i 50 e i 100mila abitanti, e sarà veramente difficile riuscire a stimolare a sufficien-
za un mercato del lavoro già in crisi. Questo è il solo punto debole dell’intera iniziativa. Non fare nulla, comunque, provocherebbe un’accelerazione del fenomeno di depopolamento. Un merito del piano, invece, è quello di promuovere ulteriormente il decentramento amministrativo.
Problemi come questo, quello legato alla scarsità di medici e di badanti per persone anziane e disabili, insieme con la scarsa sosteniblità della pressione fiscale in aree a basso reddito e molti altre difficoltà legate alla marginalità di queste regioni non potranno essere risolte facilmente. Certamente non nottetempo. L’unica chance per queste comunità, destinate ad una lenta quanto inesorabile scomparsa, è quella di lavorare alacremente per vincere la sfida che il presente ed il futuro gli lanciano, cavalcando l’attuale onda lunga di riforme e di decentramento amministrativo.
L’IMMAGINE
Gli antiamericani italiani? più americani di quelli veri Dove sono finiti gli antiamericani? Il primo miracolo di San Obama è la conversione in massa degli antiamericani. Non ce n’è uno neanche a pagarlo profumatamente. E sì che l’Italia è sempre stato un Paese con una cultura antiamericana ostentata. I comunisti erano per definizione contro l’America. Ma anche i fascisti vedevano negli Stati Uniti un nemico. E ora? Silenzio. I comunisti e gli ex comunisti e i post comunisti si spellano le mani per l’elezione del presidente afroamericano e - ecco dove è finito il loro antico antiamericanismo - dicono che Barack Obama cambierà l’America e il Mondo. Senza rendersi conto che proprio l’America - questa America - ha consentito l’elezione dell’“uomo nero”. Gli antiamericani si scoprono più americani degli americani, nascondendo però il loro desiderio di antiamericanismo. I soliti italiani che vedono il Mondo come il loro ombelico.
Sergio Benedice - Agrigento
L’AMERICA E LA RECITA DELL’ITALIA Che gran paese l’America. Ha vinto Obama, ha perso McCain, va bene. Ma i discorsi del nuovo presidente e di chi gli ha conteso la Casa Bianca andrebbero stampati in un volumetto e regalati alle forze politiche di casa nostra. Davanti alle parole di McCain, alla sua sincerità, alla sua forza morale, alla sua fedeltà alla sua patria ci si alza in piedi. Davanti alle parole di Obama, al suo riconoscimento dei sacrifici di McCain, ci si alza in piedi. Quei discorsi non solo sono importanti per ciò che dicono, ma per come lo dicono: con semplicità e chiarezza. Niente retorica. Quei discorsi sono veri. Come è lontana l’America in Italia. La differenza è tutta nella forma, prima che nei contenuti: il di-
scorso pubblico italiano suona falso, retorico, ipocrita, finto. Gli italiani fanno finta di credere ai politici che fingono di credere in ciò che dicono ma che sanno che gli italiani stanno a loro volta fingendo di credere alle loro parole. L’Italia è solo una recita. Anche nel giudicare quel grande paese che è l’America.
Lorenzo Giusti - Milano
UNA SENTENZA DEL TAR È UN ATTO PUBBLICO? È oramai una costante, quando si parla della provincia casertana, quella di evocare luoghi comuni come criminalità, corruzione, camorra, malcostume e tanto altro ancora. Avrei quindi volentieri evitato di segnalare l’ennesima bruttura che potrebbe fare da appendice al libro di Roberto Saviano, Gomorra. Ad Orta di Atella,
Girotondo di luce L’autunno è buio e nebbioso un po’ dappertutto… ma non a Berlino! Ogni angolo della capitale si “accende” in occasione del Festival delle Luci. Neon colorati decorano le facciate dei palazzi, che diventano un po’ psichedelici. Questa foto ritrae la Porta di Brandeburgo. L’effetto deformante è dato da una speciale lente, capace di trasformare la Berlino by night in luminoso cerchio di luce
ex centro agricolo della provincia di Caserta, una azienda che produce compost da rifiuto organico, nonostante ripetute ordinanze di chiusura, riesce, non si sa ancora come, a riaprire i battenti infestando l’aria anche dei paesi limitrofi (ben 8 i comuni colpiti dalla puzza) con un lezzo
nauseabondo. Il Tar (Tribunale amministrativo regionale), puntualmente, annulla le ordinanze prefettizie e consente alla azienda in questione (Eurocompost Srl) di ammorbare nuovamente l’aria rendendola irrespirabile. I cittadini esasperati, si sono rivolti a giornali e tivvù, ma non sono
mai riusciti a conoscere le motivazioni con le quali il Tar delibera sistematicamente per la ripresa di una attività inquinante, e per giunta, senza darne comunicazione alla cittadinanza. Domanda: Una sentenza del Tar è o non è un atto pubblico?
Grazia Casaburi – Orta di Atella
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Ti ricordo come un prigioniero la patria e la libertà Che io possa dirti una volta nella mia lingua, nella tua lingua che mi sei cara, che ti amo disperatamente, che né tempo, né altro farà mai che io t’ami meno, che penso a te sempre, che sogno di te, che vivo per te, che ti ricordo come un prigioniero la patria e la libertà, che da te sola mi vien gioia e dolore. Cara tanto, Angiolo mio, di’, m’ami tu ancora? Potresti dirmelo ancora con vera gioia? Un mio bacio ti farebbe piacere, e tu dandomi un bacio, un lungo bacio, vedresti sfumar tutto, tutto dimenticheresti, tutto fuorché il nostro bacio? Se tu sapessi, Giuditta, con che profonda melanconia ti dico queste cose: se tu sapessi come mi vien voglia di piangere, scrivendoti! Vedi, v’è tanta devastazione nella mia anima, che tu, se avessi potuto vederla tutta questa mia anima come io te la recava quella notte quando tu mi dicesti: ah! resta, quando io ti diedi un bacio sulla testa, ti ritireresti oggi di spavento. Era un amore la mia anima, era un bacio, era un profumo che io voleva versar tutto a’ tuoi piedi – ora è una rovina. Io l’ho detto, non spero più nulla per me; vedi, ho deciso che, se anche potessi un giorno riunirmi con te, nol farei. Ho deciso che ti stringerò al mio core forte una volta, e se non morissi in quella stretta convulsa, e nulla fosse cangiato, io mi strapperei da te, e fuggirei non so dove. Giuseppe Mazzini a Giuditta Sidoli
ACCADDE OGGI
ITALIANI, POPOLO DI TRASFORMISTI Siamo diventati tutti BarackObaniani, da Bushiani-McCainiani che eravamo fino a ieri. Siamo diventati tutti trasformisti: Depretis, Crispi, Giolitti e Berlusconi. Con sano realismo!
Angelo Simonazzi – Poviglio
LA MORTE SUL LAVORO È INDEGNA DEI PAESI CIVILI Sono semplicemente inorridito dal numero sempre crescente delle morti sul lavoro nel nostro Paese. Non riesco a farmene una ragione. Possibile che non si sia fatto e non si faccia concretamente qualcosa per arrestare questa carneficina, indegna di una nazione civile? Al di là dei tanti bla-bla d’occasione, vorrei solo non dover più sentir notizie di nuove disgrazie di questo genere. Che poi disgrazie non sono: c’è sempre sotto qualche responsabilità.
Antonella Bellini – Pisa
AUMENTIAMO I SALARI Sono un dipendente comunale, ho 50 anni e sono abbastanza soddisfatto dell’operato del governo (vedi Napoli, sicurezza, scuola). L’unico rammarico sta nel constatare che per i salari ancora non è stato fatto niente. Chi, come me, vive con un solo stipendio (1.200 euro) e con una famiglia a carico, deve fare i salti mortali per arrivare al 27 del mese. Credo anche il ministro Brunetta stia facendo un buon lavoro nel tentativo di eliminare gli sprechi nella pubblica amministrazione, ma ora è giunta l’ora di intervenire sui salari – soprattutto quelli più bassi – ed incentivare
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
7 novembre 1504 Cristoforo Colombo torna dal suo quarto ed ultimo viaggio per le Americhe. 1917 Russia: esplode la Rivoluzione d’Ottobre 1929 A New York, il Museum of Modern Art apre al pubblico 1932 Buck Rogers in the 25th Century viene trasmesso per radio per la prima volta 1956 Crisi di Suez: l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta una risoluzione che chiede a Regno Unito, Francia e Israele di ritirare immediatamente le loro truppe dall’Egitto 1987 In Tunisia, il presidente Habib Bourguiba viene rovesciato e sostituito dal primo ministro Zine El Abidine Ben Ali 1988 Pugilato: a Las Vegas, Sugar Ray Leonard batte per k.o. Donnie LaLonde 1989 David Dinkins diventa il primo sindaco afro-americano di New York 2000 Hillary Rodham Clinton viene eletta al Senato degli Stati Uniti, diventando la prima First Lady ad ottenere un incarico parlamentare
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
meglio i dipendenti pubblici: quelli che lavorano ovviamente.
Pasquale De Cristofaro – Afragola
IL MANCATO AVVENTO DELLA MERITOCRAZIA Dati i troppi talenti sprecati, occorre riconoscere il merito come criterio di selezione sociale. Sull’effettiva affermazione del merito – specie nella pubblica amministrazione – interviene il sarcasmo del caustico Indro Montanelli: «In Italia, i regimi politici passano. I somari restano, trionfanti… Il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto».
Gianfranco Nìbale – Padova
QUEL VOTO IGNORATO SUI MAGISTRATI Nel novembre 1987 si votò un referendum sulla responsabilità dei magistrati e detto referendum passò con l’80,20 per cento dei voti favorevoli. Non se ne fece niente. Perché? Il popolo è sovrano e la sua volontà va rispettata alla lettera. Parole vuote vero? Non si potrebbe riprendere quel risultato o quanto meno farne oggetto di dibattito? Io faccio parte di quelli (più di ventidue milioni) che votarono per il “sì”e sono stati presi letteralmente per i fondelli.
dai circoli liberal
ECONOMIA IN CRISI Il risparmio mondiale è in crisi. Le banche non hanno saputo prendere decisioni che anticipassero l’effetto della crisi e la subiscono. Con effetto a cascata anche le famiglie e le imprese vivono momenti di ansia. A causa della incredibile crisi americana, sta cambiando tutto un mondo di relazioni ed interessi che si sono radicati negli ultimi ottanta anni. I risparmi azionari, in particolare, continuano a dare segnali poco incoraggianti. I risultati societari negativi e i timori di recessione fanno sprofondare i listini. La caratteristica che prevale in questi mercati è la “volatilità”, rendendo impossibili previsioni sull’andamento dei listini. La velocità della caduta dei prezzi, nelle ultime settimane, è stata eccessiva. Infatti nel breve periodo, poiché prevale la paura, sia i grandi investitori che i piccoli vendono di tutto. Sembra un processo inarrestabile. I governi dei Paesi degli Stati Uniti e dell’Europa non hanno messo in campo azioni di politica economica tali da arginare il fenomeno e successivamente dare fiducia agli operatori economici. Sarebbe stata auspicabile una riforma generale del governo dell’economia per difendere il ruolo fondamentale del risparmio. Quest’ultimo alimenta il prelievo fiscale destinato a finanziare la spesa pubblica; attraverso le imposte, infatti, il risparmio dei cittadini si trasforma in beni e servizi a vantaggio della collettività. Secondo il nostro Presidente del Consiglio, sarebbe necessaria una politica di erogazioni pubbliche a banche, imprese private e pubbliche. Appare però difficile e pericoloso cercare di “finanziare” tutti coloro che sono coinvolti in questa crisi drammatica. Un concetto condiviso da alcuni economisti limita il “soccorso” statale attraverso le erogazioni pubbliche a condizione che esse non risultino perverse rispetto alla capacità del risparmio di attivare un circolo virtuoso di produzione di beni pubblici. Da questo punto di vista l’afflusso di “capitale straniero” verso banche (Unicredito), aziende (Alitalia) o infrastrutture (Autostrade, Telecom) italiane è ben visto e significa economia di capitale pubblico e tutela del ruolo attivo del risparmio. Solo in questo modo si possono creare le condizioni reali per un buon governo dell’economia che sia capace di controllare i rischi della congiuntura. Francesco Facchini CIRCOLO LIBERAL LEVANTE BARI
APPUNTAMENTI
Giuseppe Balzan
BENVENUTO MR. PRESIDENT
VENERDÌ 7 NOVEMBRE 2008, ALLE ORE 11, PRESSO PALAZZO FERRAJOLI A ROMA
Un nero alla Casa Bianca: è il caso di dire che la storia americana si conclude con un finale in bianco e nero più che a colori.
Riunione Nazionale con i coordinatori regionali, provinciali e comunali dei Circoli liberal
Giulio Cisotta
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
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