ISSN 1827-8817 81118
La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare
he di cronac
Arthur Schopenhauer
9 771827 881004 QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’ultimo discorso del presidente Usa sulla “crisi” e sul futuro dell’Occidente
CRESCE LA PAURA PER IL 2009 Due mesi fa Berlusconi e Tremonti dicevano: “Per noi non ci saranno problemi”. Oggi tutti dicono: “Il peggio deve ancora venire”. Ma nessuno ci informa davvero su ciò che potrebbe succedere
Sarà sempre l’America a guidare il mondo di George W. Bush ome abbiamo visto negli ultimi mesi, il tumulto finanziario generale ha colpito le economie di tutto il mondo. Non solo quella degli Stati Uniti. Proprio per questa ragione, lo scorso fine settimana ho ospitato un vertice sul mercato finanziario e l’economia globale con i capi di Stato delle nazioni sviluppate e di quelle in via di sviluppo, che producono circa il 90 percento dell’economia mondiale. I leader che hanno partecipato a questo incontro erano tutti d’accordo su un obiettivo chiaro: guidare l’attuale crisi e stabilire le riforme necessarie a evitare eventi simili in futuro. Questa crisi non si è sviluppata in una notte e non è risolvibile in un giorno. Ci saranno momenti difficili, ma le azioni intraprese dagli Stati Uniti e dagli altri Paesi stanno producendo i loro effetti. segue a pagina 12
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Ora dite la verità come e per chi userete gli ottanta miliardi di euro?
Miracolo, Air France è tornata in Alitalia!
alle pagine 2 e 3
di Alessandro D’Amato a pagina 7
Il capo dei senatori sempre più isolato
Gasparri imbarazza il Pdl. Soprattutto Gianni Letta
Un’ora di incontro: ma il presidente della Vigilanza non cede
Lo schiaffo di Villari a Veltroni Il neoeletto: «Orlando non va bene, io resto». E il Pd: «Dimettiti» di Riccardo Paradisi
di Francesco Capozza eno Gasparri, più Quagliariello. Questo sarebbe l’ordine di scuderia sussurrato da Gianni Letta nelle orecchie dei mandarini graduati del Cav, e che starebbe facendo il giro del Palazzo e delle redazioni giornalistiche di mezza Italia. Il motivo non è certamente, come si vocifera con altrettanta insistenza, che per Gasparri sarebbe pronto uno strapuntino governativo (che comunque non è da escludere): il vero guaio è che da qualche settimana il capogruppo del Pdl al Senato continua a fare dichiarazioni che mettono in un certo imbarazzo tutti. segue a pagina 9
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l deputato del Pd Riccardo Villari che la riunione di ieri con i numeri esclude l’ipotesi delle dimissioni uno e due del Pd Veltroni e Franceschini che d’accordo con tutto l’uffidalla presidenza di vigilanza Rai. cio centrale del partito avevano proAnzi, l’esponente dell’opposiziospettato a Villari, quale unica alterne, eletto alla vigilanza dalla maggionativa al rifiuto delle sue dimissioni, ranza, già prima dell’incontro in propesanti sanzioni disciplinari. Villari gramma ieri con il segretario del Pd non solo non si dimette ma esce dalVeltroni, definiva se stesso «la solula riunione con i vertici del Pd riafzione, non il problema». «Posso esseRiccardo Villari è rimasto saldamente fermando la sua intenzione di esercire il punto di coesione tra i due schiealla presidenza della Commissione ramenti, un ponte per aprire un diatare il proprio dovere istituzionale parlamentare di Vigilanza sulla Rai logo sul tema. Se poi tra un mese, sei come presidente regolarmente eletto mesi, un anno o non so quando, si trova un accordo, allora, so- alla commissione di Vigilanza. E annuncia anche un passo no pronto a farmi da parte. Ma solo in quel momento. Prima avanti da parte di Veltroni, che avrebbe accolto l’esigenza non avrebbe alcun senso». Inutile, insomma, il pressing che di superare la candidatura di Leoluca Orlando. per giorni i democratici hanno esercitato su di lui, inutile ansegue a pagina 4
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MARTEDÌ 18 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
221 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 18 novembre 2008
Operazione verità. La parola d’ordine era «nessun problema». E ora ci dicono che i guai peggiori devono ancora arrivare
Il «peggio» che avanza
Dalla nuova disoccupazione al blocco totale del credito: ecco tutto quello che Berlusconi e Tremonti ancora non ci dicono di Alessandro D’Amato
ROMA. L’ha detto chiaro e tondo Mario Draghi, governatore di Bankitalia, al G20 in qualità di presidente del Financial Stability Forum: «È verosimile che la maggior parte del rallentamento dell’economia reale debba ancora venire. Dobbiamo continuare ancora ad agire con forza e in modo coordinato per sostenere la domanda, fornire liquidità e rifinanziare il sistema». Ed è indubbio che le condizioni delle economie mondiali e dei sistemi finanziari non abbiano che in minima parte scontato la crisi nata dai mutui subprime, e propagatasi poi in ogni settore e in tutti i paesi. Sia oltreoceano che nel Vecchio Continente. Come Draghi, del resto, molti suggeriscono che «il peggio deve ancora arrivare»: vediamo quale può essere, dunque, questo «peggio che avanza» nella nostra vita quotidiana.
del comparto automobilistico è un tipico esempio di come la crisi finanziaria si è riverberata nell’economia reale: gli acquisti delle vetture (così come, genericamente, quelli di tutti i beni durevoli) sono spesso dipendenti dai finanziamenti delle banche; i rubinetti si stanno via via chiudendo, e General Motors ormai è in grandissima difficoltà, tanto da chiedere l’aiuto dello Stato. Che arriverà, visti i precedenti.
Liquidità e solvibilità. È il lato peggiore della crisi bancaria: gli istituti di credito non si fidano l’uno del-
esortato le banche salvate a ricominciare a prestare, mentre la Banca Centrale Europea nel consueto bollettino mensile ha detto che le banche «dovrebbero tenere in adeguato conto le misure adottate dai governi per risolvere la crisi finanziaria, supportare la fiducia nel sistema finanziario e per ristabilire la fiducia». Un chiaro segnale che il problema oggi non è più tanto la liquidità, ma la paura della non solvibilità. In questo contesto, le continue collocazioni – 20 mld nell’asta swap in dollari Usa a 7 giorni annunciata ieri mattina – aiutano, ma non bastano. Il taglio dei tassi arri-
L’area euro dovrebbe avere crescita zero (+0,3% secondo la Bce) nel 2009. Anche il Giappone, l’Irlanda e l’Italia fanno ormai parte del club. Quando se ne uscirà? Tra gli economisti non c’è accordo, c’è chi pronostica le prime avvisaglie di ripresa già alla fine del prossimo anno e chi pensa che per una ripresa globale della crescita si potrebbe dover aspettare fino al 2012. Anche qui c’è un rovescio della medaglia: sono in netto calo anche le attese di inflazione. La media di quest’anno dovrebbe attestarsi, secondo gli operatori consultati, al 3,4%, contro il 3,6% dell’indagine precedente. Nel 2009 rallenterà al 2,2%, quattro decimali in meno, e nel 2010 si attestera’ al 2%.
Le aziende, grandi e piccole, hanno già cominciato ad aver difficoltà nell’ottenere prestiti dalle banche: tutto questo produrrà una grande contrazione dei posti di lavoro. E allora la recessione arriverà nelle nostre case
Gli Stati Uniti e la prossima bolla. Negli Usa a preoccupare sono soprattutto assicurazioni, credito al consumo e automobili. I primi due settori hanno svolto in questi anni di denaro a costi basso il ruolo di “cinghia di trasmissione” della liquidità dai mercati finanziari ai cittadini, e adesso vivono una drammatica crisi di finanziamento per le proprie attività. C’è chi, come American Express, si è trasformato in banca commerciale per utilizzare la raccolta ed evitare di presentarsi su un mercato dove il denaro costa sempre di più; ma le decine di piccole finanziarie non hanno la stessa possibilità, e il rischio di finire a gambe all’aria c’è, ed è molto serio. La situazione
l’altro e ovviamente nemmeno del cliente. La spirale di crescita di Euribor e Libor si è interrotta, ed è un segnale positivo, per lo meno nel breve termine. Ma è l’atteggiamento ad essere ancora immutato, sia da una parte che dall’altra dell’Oceano. La Federal Reserve ha emesso un comunicato nella scorsa settimana in cui ha
L’economista Luigi Paganetto
« Pri ma t o cch er à a lle a utomob ili. Ma p oi, vedrete, c rol lerann o anc he i telefoni ni» colloquio con Luigi Paganetto di Francesco Rositano
verà a breve termine, e probabilmente con molta velocità il tasso di sconto arriverà a quella soglia del 2% sotto la quale è difficile andare (e nemmeno conveniente: il caso Giappone lo insegna). Poi sarà difficile pretendere altro da Francoforte, se nemmeno a quel punto l’economia reale si sarà ripresa.
La recessione avanza, l’inflazione frena. Dopo averla invocata da più parti, è “finalmente” arrivata. Il Pil tedesco nel terzo trimestre è sceso dello 0,5% rispetto al precedente, contratto dello 0,4%. Con due trimestri negativi consecutivi la prima economia europea è entrata in recessione tecnica. La Germania non vedeva due risultati negativi consecutivi così marcati dal 1996.
ROMA. «Alle famiglie vanno dati messaggi che siano meno traumatizzanti di quelli veicolati in questi giorni. Certo c’è da dire che la crisi è reale e minaccia anche il nostro paese. Non c’è dubbio, però, che essa possa essere tenuta sotto controllo. E questo risultato dipenderà anche dalla capacità del ministro dell’Economia Giulio Tremonti di gestire gli 80 miliardi del piano anticrisi in misure che fungano da moltiplicatore per l’economia reale». Così l’economista Luigi Paganetto legge l’attuale crisi finanziaria, confermando che «il peggio deve ancora venire» e «che l’economia reale potrebbe risentirne», ma aggiungendo che ci siano «ampi margini per tenere la situazione sotto controllo». Certamente, in Italia la situazione è molto diversa dagli Stati Uniti, dove storicamente si conta sui redditi di Borsa. Da noi quindi il problema più grave potrebbe verificarsi se si creasse una situazione di grave difficoltà per le imprese che finirebbe per paralizzare tutto il sistema economico. La soluzione, per l’economista, è quello di studiare un piano di interventi rapidi - su più piani - che coinvolgano le piccole e medie imprese. Professore, che succederà?
L’Italia, le banche e i piani anti-crisi.
Il sistema creditizio italiano è in sofferenza, anche se si è dimostrato infinitamente più solido rispetto a quello di altri paesi come l’Inghilterra. Ma i coefficienti Tier 1 e Coer Tier 1 delle banche più grandi sono comunque in sofferenza; l’ipotesi di entrata dello Stato nel capitale è frenata dall’intenzione dell’esecutivo di “punire” il management («Chi ha sbagliato in galera o a casa», ha detto Giulio Tremonti). Il piano triennale anti-crisi (80 miliardi, di cui 50 a imprese e famiglie, dieci per le infrastrutture e venti per le banche) si scontra però con le difficoltà del bilancio. La Ue ha promesso flessibilità per debito/pil e deficit/pil, ma il rischio è che il debito pubblico vada in sofferenza in modo sempre più marcato. Gli spread tra Btp e Bund in continua ascesa sono un segnale di rischio che non va sottovalutato.
Penso che l’economia reale stia cominciando a risentire gli effetti del crac finanziario. Lo vediamo nella crisi dell’auto, come in quella che ha colpito il settore dei telefonini. Basta pensare che la Nokia, un caso di successo mondiale, sia in difficoltà. In più c’è tutto il capitolo Borsa. Infatti, in particolare negli Stati Uniti, chi percepiva dei redditi dagli investimenti in Borsa, ora non solo non li prende più, ma ha dovuto patire delle perdite non indifferenti. Mi riferisco, in particolare, agli Stati Uniti dove sappiamo che ogni famiglia possiede dei redditi che si compongono anche degli incrementi di valore dei titoli investiti. Cosa accadrà in Italia? Da noi si sente già l’effetto di una riduzione del potere d’acquisto che non nasce da oggi ma da un po’ di tempo a causa delle difficoltà in cui versano i nuclei a reddito medio-basso che ora si fa sentire in maniera forte. In tutto questo l’effetto degli andamenti della crisi finanziaria, ovviamente, colpisce anche le nostre famiglie: non solo quelle americane. Ecco perché si dice che il peggio deve venire. Ciò che scatta è un meccanismo di questo tipo: quando comincia a ridursi la spesa dei consumato-
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Molte promesse (e pochi fatti) dal G20 di Washington
Ottanta miliardi? Dateli alle famiglie di Gianfranco Polillo on il passare del tempo aumenta il nervosismo dei mercati. La crisi non dà tregua. È una goccia che scava la pietra più dura, alimentando ansie e preoccupazioni. I capi di governo, reduci dalla trasferta di Washington, hanno portato nelle loro valigie il sapore amaro dell’impotenza.Tante parole, molti scambi di idee, ma decisioni, almeno per il momento, poche (malgrado la promessa degli ottanta miliardi da spendere per gli italiani). Faranno il possibile ma nessuno si illude. Da questo lungo tunnel, alla fine si potrà uscire, ma ci vorrà pazienza, coraggio e determinazione. Perché tanta incertezza? La spiegazione è relativamente semplice. Paghiamo venti anni di spensieratezza e un’illusione troppo a lungo coltivata. In tutto questo tempo, gli Stati uniti sono vissuti al di sopra delle loro risorse. C’è vissuta l’Amministrazione, incurante del deficit della bilancia dei pagamenti e di quello pubblico. Ci sono vissute le famiglie che hanno visto aumentare enormemente il loro debito: pari oggi ad oltre il 130 per cento delle disponibilità annuali.
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di crescita di tutta l’economia. Quel debito, prima o poi, sarebbe arrivato a scadenza, ma fino a quel momento, come sulla tolda del Titanic, l’orchestra poteva continuare a suonare. Tanto più che cinesi e paesi produttori di petrolio erano più che propensi a trasferire soldi verso la Grande Mela. Ottenendo in cambio quote di mercato per i loro prodotti e l’assicurazione di un crescente benessere. La crisi, progressivamente e dolorosamente, sta mettendo a nudo queste contraddizioni e la debolezza del castello di carta costruito per occultarle. Era, quindi, inevitabile che tra le prime vittime vi fossero proprio coloro – le grandi banche – che su esse avevano prosperato, con guadagni miliardari. Meno scontata, invece, la loro resistenza. Il non voler far rapidamente piazza pulita – come aveva suggerito Mario Draghi diversi mesi fa – negli angoli più bui dei loro bilanci per rimettere in moto il meccanismo della reciproca fiducia. Se si fossero accertate le perdite, pagato quel che si doveva pagare anche in termini di management, oggi le cose sarebbero migliori. E il contagio con l’economia reale sarebbe stato scongiurato.
Scontiamo vent’anni di vita al di sopra delle nostre possibilità. Per fortuna gli italiani hanno puntato molto sul risparmio
ri verso il sistema impresa, questo a sua volta comincia a ripercuotersi sull’economia reale. Faccio un esempio: se si vendono meno automobili, infatti, è chiaro che si ricorra più facilmente allo strumento della cassa integrazione e di conseguenza si produca meno reddito per le imprese. Inoltre, dal momento che allo stato attuale non ci siano possibilità d’espansione, cominciamo a vedere l’effetto al contrario. Come valuta il piano anticrisi del ministro Tremonti? Va valutato quando sarà più dettagliato. Per ora questo piano dà soltanto un numero complessivo: vale a dire gli 80 miliardi. Io credo che molto dipenderà da quanto di questa cifra si rivolgerà a spese con un forte effetto di moltiplicatore sull’economia. Saranno più efficaci, dunque, spese che hanno tempi brevi di realizzazione e coinvolgono una molteplicità di attori: vale a dire piccole e medie imprese che agiscono e ricevono reddito. Viceversa, se ci vuole più tempo, e le spese sono concentrate solo in un settore, è chiaro che ci sarà un minor effetto.
Sopra, l’economista Luigi Paganetto. In alto, il superministro Giulio Tremonti. A destra, la sede di Lemhan Brothers, la banca statunitense da cui è nata la crisi mondiale
Forse era inevitabile. L’esercizio di una funzione di leadership, specie se gestita in solitudine, comporta onori ed oneri. Gli Usa hanno preteso i primi, ma rifiutato i secondi. Né gli altri paesi – se si escludono le nuove potenze finanziarie – hanno dato una mano. Potevano contribuire in modo più sostanzioso al mantenimento della pace nel mondo. Ma questo avrebbe richiesto una condivisione negli obiettivi da perseguire. Ipotesi che la principale potenza occidentale – si ricordi il contrasto con gran parte dell’Europa a proposito della guerra in Iraq – ha ritenuto di dover escludere. Così i costi di quell’esercizio di potenza gli sono rimasti incollati. E il compito del resto del mondo è stato solo finanziario. Prestiti per consentire alla macchina di girare. Ma che, prima o poi, qualcuno avrebbe dovuto pagare. La stessa cosa è avvenuta per le famiglie. L’economia andava supportata. Al cittadino medio non si poteva chiedere di aderire allo sforzo militare ed, al tempo stesso, di stringere la cinta. Il fronte interno andava presidiato garantendo credito. I cittadini avrebbero consumato di più e quindi spinto verso l’alto i tassi
Questo, invece, è il fatto nuovo che impensierisce. Il blocco dell’attività creditizia ha tolto ossigeno alle imprese. I consumatori si guardano attoniti e temono il peggio. La sfiducia cresce e fa da detonatore agli ulteriori sviluppi della crisi. Bisognerebbe interrompere questa spirale perversa, cercando, innanzitutto, di vedere le differenze. Non tutti i paesi sono sulla stessa barca. L’Italia, nonostante tutto, continua ad avere una qualche chance in più che il Governo dovrebbe essere in grado di cogliere. La sua endemica debolezza economica – il basso tasso di crescita di questi ultimi anni – non deve nascondere i suoi punti di forza. La sua sostanziale stabilità finanziaria che non è una caratteristica elusiva delle sole banche, meno esposte ai titoli tossici dei propri concorrenti. Ma delle famiglie e delle stesse imprese, i cui coefficienti patrimoniali non hanno eguali in tutto l’Occidente. Forse è da qui che bisogna partire, per dare un primo segnale di fiducia. Magari anche usando proprio per le famiglie i “famosi” ottanta miliardi.
politica
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Furbetti. L’esponente del Pd resta al vertice della Vigilanza Rai
La politica dei dispetti Villari non si dimette, Veltroni ha due strade: linea dura “ma anche” mollare Orlando di Riccardo Paradisi segue dalla prima E le dimissioni che Veltroni avrebbe dovuto ottenere da Villari? Ecco, l’unica ipotesi per cui Villari potrebbe rassegnare le dimissioni si darebbe solo nel caso di una candidatura condivisa tra maggioranza e opposizione. Fino a quando questo nuovo scenario non si profila Villani resterà alla presidenza. Un cul de sac per Veltroni. Il leader del Pd infatti sembra essere finito in un angolo in questa partita politica fatta di colpi bassi e dispetti. Partita cominciata con l’assegnazione della vicepresidenza della camera all’esponente dell’Udc Rocco Buttiglione a cui nei patti avrebbe dovuto corrispondere la presidenza di vigilanza Rai all’esponente dell’Idv Leoluca Orlando. L’errore politico di Veltroni è stato quello di trattare sul nome, di accettare una rosa di nominativi alternativi a quelli di Orlando. Di non tenere fermo subito. L’intemerata della maggioranza che ha eletto un esponente del Pd è un colpo mancino che ha introdotto nel campo dell’opposizione confusione e discordia. Perchè ora per Veltroni è più difficile recuperare l’intransigenza perduta.
Anzi tutto per il leader del Pd non è semplice spiegare all’opinione pubblica dove stia lo scandalo dell’elezione di Villari visto che dopo sei mesi di stallo istituzionale è stato eletto comunque un uomo del Pd. Opinione pubblica peraltro in gran parte disinteressata ad una vicenda che pare tutta interna al Palazzo. Come afferma un sondaggio diffuso ieri dal quotidiano Affari italiani infatti la questione della vigilanza Rai non sembra proprio rientrare nelle priorità degli italiani, che restano l’economia, la sicurezza, le prospettive per il futuro: ben 8 cittadini su 10 si dicono molto poco interessati al caso Villari. Se poi si entra nel merito ecco che la maggioranza degli italiani si aspetta che una cari-
ca di garanzia come quella di presidente della Commissione di Vigilanza sia presa di comune accordo tra maggioranza e opposizione. Infine la maggioranza degli intervistati non è d’accordo sulle dimissioni di Villari.
È la stessa mozione che hanno portato in punta di lancia i radicali italiani con Marco Pan-
Di Pietro non può abbandonare il ruolo di vittima: per questo insiste sul candidato dell’Italia dei Valori nella che domanda se un accordo tra partiti possa essere prevalente rispetto ai compiti istituzionali della Vigilanza: «È possibile che se non si mettono d’accordo i partiti un organismo di rilievo costituzionale non funzioni? Dopo sei mesi di stallo, dopo gli appelli del presidente della Repubblica, dopo le nostre iniziative nonviolente, dirci che Villari si deve dimettere è inaccettabile». Senonchè Di Pietro, non ha alcuna intenzione di rinunciare alla candidatura di Orlando senza imbastire su questo sacrificio una retorica politica vittimistica.Verso un centrodestra che l’Idv definisce autoritario ma anche verso gli alleati del Pd che offrendo alla maggioranza nuove ”rose”di nomi gradite a Berlusconi si presterebbero al gioco di quello che il magistrato molisano definisce un premier argentino. Insomma un impasse quella di Veltroni, che rischia di restare im-
pigliato in una trappola che potrebbe non avere vie d’uscita se non quella ipotizzata nella lettera firmata con Pier Ferdinando Casini giovedì scorso in cui si chiede a Di Pietro di abbandonare Leoluca Orlando e di scegliere dentro l´Idv un altro candidato alla Vigilanza. Ma è questa una strada che prevede il recupero di un dialogo con la maggioranza: nella rosa infatti dovrà esserci un nome che il Pdl può digerire e difficilmente potrebbe essere un dipietrista.
Ma si tratterebbe di una strategia diversa da quella linea dura che il Pd preannunciava alla vigilia dell’incontro tra Veltroni e Villari per bocca di Giorgio Tonini, esponente Pd vicinissimo al leader: «Non siamo boyscout: se Villari non lascia la presidenza nessuno dovrà sindacare sugli eventuali provvedimenti disciplinari. La maggioranza si che pure è un tema rilevante, ma lo è certamente meno della crisi, che invece dovrebbe costituire il fuoco della riflessione politica». Ma l’elezione furba di Villari non costituiva un vulnus alla civile convivenza democratica? infila nelle tue linee e tu glielo lo lasci fare? Nessuno nel Pd può accettare questo». Tra le minacce del Pd c’era anche quella di alzare il tono del confronto in Parlamento, di impedire la funzionalità della commissione, una lotta senza quartiere per vanificare il colpo mancino della maggioranza. Invece è lo stesso Veltroni che dopo l’incontro con Villari, a differenza di altri esponenti del Pd, abbassa i toni della polemica: dedicando solo un breve accenno critico all’argomento, mentre conclude il seminario organizzato dal Pd sulla crisi economica e le elezioni Usa: «Siamo un Paese strano che discute molto della commissione parlamentare di Vigilanza,
Se però Veltroni è low profile gli esponenti del Pd arroventano la polemica: «La maggioranza ha scelto il presidente della Commissione di Vigilanza, assegnata per prassi all’opposizione – dice Antonello Soro, capogruppo del Pd alla Camera – O Villari è presidente di maggioranza o è presidente di opposizione. Nel primo caso può restare al suo posto, nel secondo no. La vicenda ha i caratteri del degrado del costume politico». E Paolo Gentiloni responsabile Comunicazione del Pd: «Senza le dimissioni di Villari e senza un Presidente della Vigilanza Rai scelto dalle opposizioni dice l’ex ministro - i rapporti tra le forze parlamentari sono destinati a deteriorarsi: se la maggioranza sceglie la guerriglia, non venga a chiedere fair
politica
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Per Pombeni, l’affaire Villari dimostra la mediocrità della nostra classe dirigente
È il trionfo dei furbi, una brutta commedia dell’arte colloquio con Paolo Pombeni di Susanna Turco
play e collaborazione all’opposizione». È chiaro che nelle aspettative di gran parte del Pd le dimissioni di Villari dovrebbero arrivare nei prossimi giorni dopo che l’esponente Pd avrà compiuto il suo giro di consultazioni tra martedì e giovedì con i presidenti di Camera e Senato. «Solo in questo modo – dice Andrea Orlando, portavoce del Partito Democratico – diventerebbe possibile individuare una soluzione condivisa, nel rispetto del principio che è l’opposizione e non la maggioranza a esprimere il nome del presidente della Commissione. Per il PD altre soluzioni e rinvii non sono possibili».
Insomma delle due una a questo punto: o Veltroni sceglie la linea della trattativa cedendo sulla candidatura di Leoluca Orlando oppure sceglie la linea dura preannunciata e ancora non praticata prima dell’incontro con Villari inducendolo alle dimissioni o espellendolo dal Pd. Sapendo che ognuna di queste due decisioni avrà non lievi effetti collaterali.
Sopra, Riccardo Villari eletto alla presidenza della Vigilanza Rai dalla maggioranza e per questo al centro della polemica. A destra, Paolo Pombeni e, a sinistra, il leader del Pd Walter Veltroni
ROMA. «Il giudizio più benevolo che si può dare è che si tratta di una bruttissima commedia dell’arte, piena di maschere in disarmo». Sulla vicenda della Commissione di vigilanza Rai, in pratica, il professor Paolo Pombeni, non risparmia nessuno. Né la maggioranza, né l’opposizione, né tantomeno Villari medesimo. Per l’ordinario di Storia dei sistemi politici europei all’Università di Bologna, il teatrino di questi giorni è «la Weimar dei momenti peggiori»: «Da una parte c’è la capacità totale dell’opposizione di capire come funziona il mondo, a partire da quell’atto politicamente insano che è stata l’impuntatura di Veltroni su Orlando. Dall’altra parte c’è una maggioranza che fa della goliardia, si stufa dello stallo e decide di rompere le uova nel paniere nella maniera più fracassona possibile, scegliendo il candidato giusto, quello che non si dimette e che addirittura invoca la difesa delle istituzioni. Complessivamente? Non sono dei bei segnali da dare al Paese. Si è perso il senso del significato delle nomine fatte a larga maggioranza, e bisognerebbe lavorare per ritrovarlo: perché dovrebbe davvero trattarsi di nomi su cui c’è un consenso vasto, e non di persone imposte dalle segreterie. Beh, il sistema politico basato su una legge elettorale che prevede liste bloccate è un po’ tutto così. O no? Prendiamo l’insistenza su Orlando: il problema dei personaggi imposti dalle segreterie dipende da quanto i gruppi dirigenti sono responsabili, e capaci. Questo potere non può servire a fare giochettini di alleanze, dovrebbe portare invece a scegliere il meglio per il paese. Quando le segreterie perdono di vista questo scopo, delegittimano loro e tutta la politica. E per quel che riguarda Villari? Oltre a ritrovare il significato delle nomine a larga maggioranza, bisognerebbe anche che ciascuno si assumesse le proprie responsabilità. Il che vale anche per chi è diventato l’oggetto fortuito del quarto d’ora di visibilità. E invece? Fa impressione che dica di star lì per difendere le istituzioni. Lui sta dove sta in funzione di una provocazione, è suo diritto correrle dietro, ma dovrebbe sapere che di provocazione si tratta e niente di più. Il sistema delle nomine a larga maggioranza è antico. Come mai adesso non funziona più? Il sistema era stato immaginato per la Corte costituzionale, perché si trattava di indicare nomi anche di parte, ma non partigiani. E devo dire che ha funzionato a lungo, in ottima maniera. Oggi un equilibrio non si trova più perché la politica è diventata una cosa muscolare, è in mano a persone che non si muovono secondo ideali, che si limitano a mettere in scena puri bracci di ferro. Penso che, fra venti o trent’anni, gli storici misureranno su una vicenda come questa di Villari la modestia di una classe dirigente. Modestia generalizzata? Ma sì, sono solo giochi di piccolo cabotaggio, sembra Weimar nei suoi momenti peggiori. È la politica dei furbetti.
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Quale elemento la colpisce di più? L’insipienza di questo gruppo dirigente del Pd, che prima si è autocucinato la frittata, e adesso vuol rimandarla in cucina dandone la colpa al cuoco. Si capisce che al populista Antonio Di Pietro le sconfitte facciano bene, perché aumentano il suo credito di martire. Dall’altra parte, però, ci dovrebbe essere un’opposizione che ha come vocazione mostrare ai suoi potenziali elettori quanto è seria, per riguadagnare consensi e vincere alle prossime elezioni. Invece il Pd ha preso una posizione inimmaginabile, quando per mettere alle strette la maggioranza sarebbe bastato avanzare un nome credibile. Pensiamo soltanto a cosa sarebbe successo se avessero proposto un membro dell’Udc: i berlusconiani avrebbero fatto fatica a digerirlo, ma avrebbero trovato difficile dire di no. Quale dovrebbe essere, a questo punto, la via d’uscita? L’unica strada seria è che Villari accetti che il suo quarto d’ora di celebrità è finito e si dimetta, ma che contestualmente l’opposizione candidi un nome di altissimo livello. È proprio ciò che va sostenendo anche lui. Già, ma è paradossale che sia proprio Villari a dirlo. Quale effetto ha tutto ciò sull’opinione pubblica? Un impatto disastroso. È una vicenda difficilmente comprensibile dai non addetti ai lavori. quindi dà l’impressione che si tratti della solita politica, e dall’altro lato restituisce l’idea che alla fine sono tutti pari e quindi che non si capisce il perché di tutta questa confusione. E così va a finire che la classe politica si dà la zappa sui piedi. L’opposizione ne esce male, abbiamo detto. E la maggioranza? Alla fine ha fatto il suo gioco. Ne sarebbe uscita male se non avesse mollato su Pecorella, ma in fondo in quel caso è stata disposta a fare un passo indietro. Su un candidato, peraltro, un po’ più titolato di Leoluca Orlando, e anche molto vicino agli interessi del premier. Sulla vigilanza Rai, in altri tempi, anche la maggioranza avrebbe giocato a un altro livello, però. Ma che altro avrebbe dovuto fare? Accettare una chiara provocazione nei suoi confronti? Dal momento che il presidente del Consiglio è persona giustamente sotto la lente di ingrandimento in quanto proprietario di tv, su una funzione così delicata andava posto un accento diverso. L’opposizione doveva partire dall’idea di fare un nome di altissimo profilo: non si trattava di spartirsi gli incarichi diretttivi della Camera, ma di indicare chi avrebbe gestito il problema della garanzia delle regole per la politica in Rai per le prossime amministrative ed europee, e per le regionali del 2010. Non proprio un tema secondario. Prima ha spiegato come si dovrebbe uscire dal groviglio Vigilanza. Dica, adesso, come se ne uscirà? Questo non riesco a immaginarlo. Si può farlo quando la realtà è governata da un minimo di razionalità, ma questa manca, ipotizzare il futuro è impossibile.
Più di tutto mi colpisce l’insipienza dei vertici del Pd, che prima si sono autocucinati la frittata, e adesso vogliono rimandarla in cucina dandone la colpa al cuoco
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politica
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ROMA. A Domenico Delle Foglie - portavoce di Scienza e Vita, l’associazione che tutela la vita, dal suo concepimento alla morte naturale - chiediamo, prima di tutto, quale obiettivo debba avere la legge sul fine vita che in tanti auspicano dopo l’«entrata in campo» dei giudici nel caso Englaro e la possibilità concreta, quindi, che sia la magistratura a determinare le norme che in questa materia possano valere per la generalità degli individui. A suo avviso è possibile dar vita ad una legge che sia il frutto di un largo e vasto consenso parlamentare? È difficile, ma non impossibile, pur tenendo conto che ci sono punti di vista completamente diversi. È inutile negarlo. Uno su tutti: l’indisponibilità del bene vita. Per noi, questo è un punto imprescindibile. In alcune proposte di legge – penso a quelle di Ignazio Marino e di Umberto Veronesi, ad esempio – la vita è considerata un bene disponibile. La proposta Marino, in particolare, sostiene che la parola spetti sempre e in tutti i casi all’individuo. «Ora per allora», si dice: oggi sono giovane, in buona salute, in buone condizioni ed esprimo volontà che dovranno essere rispettate in maniera assoluta. Quella stessa proposta – ma anche altre - ritiene che l’alimentazione e l’idratazione siano terapie. Noi non possiamo accettare che cibo e acqua debbano essere negati. Per una ragione molto semplice: non ci sognerem-
Testamento biologico. Parla Domenico Delle Foglie di Scienza e Vita: «Mai più un caso Englaro»
La parola al Parlamento Una legge dopo il dramma di Ernesto Capocci Ci sono dei punti in cui laici e cattolici sono d’accordo? C’è un presupposto dal quale sono partiti ampi settori del governo. Nell’individuare un tra-
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Noi, che amiamo la democrazia, crediamo che in Parlamento si debba cercare una condizione condivisa, rispettando tutta una serie di paletti. Uno su tutti: l’indisponibilità della vita umana
mo mai di togliere acqua e cibo ad un bambino che ha bisogno di essere imboccato o ad un malato di Alzheimer. Mi chiedo, ci chiediamo: perché, allora, dobbiamo considerare artificiale questa assistenza per Eluana Englaro?
”
gitto per costruire la legge, hanno considerato l’unico dato unitario del dibattito pubblico di questi anni in questa materia: il testo del Comitato Nazionale di Bioetica del 2003 (il 18 dicembre 2003, il Cnb espresse all’unanimità un parere sulle “dichiara-
zioni anticipate di trattamento”, che, tra l’altro, stabilì che queste “non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche”, ndr), che trovò l’assenso di laici e cattolici. In quel testo – che si richiama alla Convenzione di Oviedo (adottata dal Consiglio d’Europa nel 1997, è la “Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina”, ndr) - sono elencate tutta una serie di norme di garanzia; in particolare, l’articolo 9 della Convenzione, che definisce semplici “desideri” del paziente le dichiarazioni anticipate di trattamento. Quali sono le condizioni di una legge ad avviso di
Scienza & Vita irrinunciabili? Noi, che amiamo la democrazia, crediamo che in Parlamento si debba cercare una condizione condivisa, rispettando tutta una serie di paletti, vincolanti rispetto alla nostra comune antropologia. Con il rischio di essere didascalico, è bene elencarli: l’indisponibilità della vita umana; né accanimento terapeutico né eutanasia; l’esclusione dell’alimentazione e dell’idratazione da eventuali “dichiarazioni di volontà”, in quanto sostegni vitali, mai riconducibili nell’orbita delle terapie; la non vincolatività delle dichiarazioni; l’alleanza terapeutica e il rafforzamento del rapporto
Secondo il dottor Defanti, è sbagliata la posizione del cardinal Ruini: la ragazza «non soffrirà»
Il medico di Eluana: «La usano per ideologia» ROMA. È «poco informato» il cardinale Camillo Ruini, che paragona il caso di Eluana Englaro a quello di Terri Schiavo avvenuto in America. Il problema, nel caso statunitense, era relativo al conflitto fra l’ex marito, favorevole all’interruzione dell’alimentazione artificiale, e i genitori, che invece erano contrari. Quello di Eluana è diverso. Lo sostiene il suo medico curante, Carlo Alberto Defanti che ieri ha sottolineato: «Eluana viene usata per una battaglia ideologica che non la riguarda». Secondo il neurologo ed ex primario del Niguarda di Milano, che dal 1995 ha in cura Eluana Englaro, la ragazza «non soffrirà durante la rimozione del sondino che la tiene in vita: è come se fos-
se in anestesia totale». Resta incerta la posizione dell’opinione pubblica: c’è chi si appella ad un ripensamento di Beppino Englaro, chi invece affida la sua speranza ad una pronuncia della Corte europea di Strasburgo sui diritti dell’uomo. In particolare aumenta l’angoscia del cosiddetto “fronte del no”, che si oppone alla sentenza della Corte di Cassazione che autorizza l’interruzione del trattamento di nutrizione e idratazione cui da sedici anni è sottoposta la ragaza di Lecco. Il cardinal Camillo Ruini, presidente emerito della Cei ha parlato di «una sentenza tragicamente sbagliata», mentre Antonio Allori, 42 anni, appuntato dei carabinieri oggi costretto in un letto a causa
della sclerosi laterale amiotrofica, invece, si rivolge direttamente al papà di Eluana, sperando che ci ripensi: «Signor Englaro si chieda se veramente lei ha il potere di togliere la vita ad un essere umano? Se lo Stato permette questo significa dare un input a chi vuole morire anche per malattie di piccola entità». Intanto il governatore della Lombardia Formigoni fa sapere che le strutture della regione sono ”indisponibili” ad assistere Eluana Englaro nel caso la famiglia decidesse di applicare la sentenza della corte d’appello e togliere il sondino che alimenta la giovane donna. Decisione che ha spinto il papà della ragazza a rivolgersi ad una struttura di Udine.
medico-paziente; il fatto che l’ultima parola debba spettare al medico; no all’autodeterminazione assoluta. Cosa auspica che si verifichi su questa materia in Parlamento? Un largo, duro, serio, approfondito dibattito, che dia conto della sensibilità del Paese, che intercetti il senso comune degli italiani. Da questo punto di vista, credo che gli italiani siano prudenti e comunque sono convinto che alla prospettiva che la loro vita possa essere decisa dal magistrato, preferiscano una legge scritta dal Parlamento, ma con tutta una serie di paletti e precauzioni che li mettano al riparo da scelte frettolose e avventate. Penso, in particolare, alla faciloneria con la quale la Corte di Appello di Milano ha ricostruito le volontà di Eluana. Nessuno di noi, credo, possa augurarsi che il proprio destino possa essere deciso da una conversazione al bar fatta trenta-quarant’anni prima di un evento terribile come quello del proprio ingresso in uno stato vegetativo. Mi scuso per il paradosso, ma è proprio quello che è avvenuto per la vicenda di Eluana. Allora, le volontà, se proprio fosse necessario prevederle, dovranno essere contenute in dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, con tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, che non deve mai essere abbandonato e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, al quale è riconosciuto il compito di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza.
economia
18 novembre 2008 • pagina 7
Alitalia. Gli aeroporti sono sempre bloccati, ma ormai è quasi certo: la Cai si alleerà con i francesi
Miracolo, torna Air France! di Alessandro D’Amato
ROMA. I passeggeri di Alitalia restano a terra, ma almeno vola Air France. Nel senso che il vettore francese, uscito dalla porta principale della trattativa per l’acquisto di Alitalia, è sul punto di rientrare (sia pure dalla porta di servizio) come salvatore della patria. Italiana, naturalmente.
Insomma, il caso Alitalia ha vissuto ieri l’ennesima giornata di passione, con una settantina di voli cancellati (addirittura quaranta nella tratta tra Roma e Milano), e per oggi si replica ancora, con il vettore che prevede altre 45 soppressioni. Sotto accusa ancora la rigida applicazione delle norme di volo da parte di piloti e assistenti, che costringe, secondo via della Magliana, a lasciare gli aerei a terra, mentre
tranno rivolgersi direttamente i viaggiatori aerei vittime di scioperi, cancellazione di voli, ritardi prolungati o overbooking, per far valere i propri diritti.
Ma la questione che ha tenuto banco nel dibattito di ieri è quella della Nuova Alitalia. Dovrebbe arrivare entro fine mese, conclusa la querelle con Bruxelles, l’annuncio del nuovo partner. Individuato - da Roberto Colaninno e Rocco Sabelli nell’Air France di Jean Cyril Spinetta della quale i sindacati avevano respinto l’offerta lo scorso aprile. Decisivo il segnale della scelta dell’advisor da parte di Parigi: Mediobanca, che curerà la messa a punto dell’alleanza alla quale, probabilmente, seguirà allo scadere
pitolo. Intanto ieri c’è stato un incontro tecnico tra i sindacati di Alitalia e il commissario straordinario Augusto Fantozzi, reduce da una comparsata a Che tempo che fa nella quale ha precisato che l’esposizione debitoria della compagnia dovrebbe arrivare a 2,3 miliardi di euro, dopo la decisione della Ue. I rappresentanti dei lavoratori, alla fine dell’incontro, hanno fatto sapere che Cai potrà procedere all’assunzione dei dipendenti della nuova Alitalia soltanto dopo che si saranno concluse le procedure, ancora aperte, per la messa in cassa integrazione straordinaria dei dipendenti, ovvero il 24 novembre. Fantozzi, non ha ancora proceduto all’invio delle lettere per la messa in Cigs proprio
Ma è proprio nell’ufficio di Fantozzi che si gioca in questo momento la partita decisiva, quella che definirà il valore (e quindi il costo) degli asset Alitalia e permetterà, se tutto andrà come previsto, il decollo di Cai. Dice il professor Ugo Arrigo dell’università di Milano Bicocca: «Molto probabilmente Banca Leonardo, l’advisor scelto dal governo, darà un valore pari a zero per gli slot, i diritti di atterraggio negli aeroporti, e questa è la ragione per la quale l’offerta Cai potrebbe risultare pari al valore “di mercato” valutato dall’advisor. Questa decisione potrà essere impugnata da una qualunque compagnia aerea qualora risultasse aver presentato un’offerta maggiore per tali asset della fallimentare
Il grande mediatore per il ritorno di Spinetta al tavolo con Colaninno è Mediobanca. Tutti hanno tirato un sospiro di sollievo, solo Formigoni ha protestato: per noi era molto meglio Lufthansa
in breve Morti bianche, 2 vittime a Bologna Un’ esplosione è avvenuta in un industria a Sasso Marconi, la ”Marconi Rubber”, fabbrica di materiali in gomma in provincia di Bologna. Due persone sono morte carbonizzate mentre altre quattro sono rimaste ferite, tra le quali uno in gravi condizioni. I due morti sono il direttore dello stabilimento, Marconigomma, Fabio Costanzi, 56 anni, e un operaio indiano di 45, Iadav Ramjaz. Secondo la prima versione del comandante dei vigili del fuoco di Bologna, Tolomeo Litterio, si è trattato dell’esplosione di un silos che contiene materiali per la produzione di gomma.
Crac Parmalat, Tanzi si difende «Non ho mai ideato, non ho mai avuto la consapevolezza di aver architettato la grande truffa ai danni dei risparmiatori. Non ho mai pensato che ci fosse una diffusione così estesa di titoli nelle tasche di privati». È questo uno dei passaggi salienti e finali delle dichiarazioni spontanee rese ieri in aula a Milano dall’ex patron di Parmalat, Calisto Tanzi, imputato per aggiotaggio, ostacolo all’attività degli organi di vigilanza e concorso in falso dei revisori.
Thyssen, il gup: «Omicidio volontario»
la compagnia ha annunciato sabato una riduzione dei voli a causa del persistere del“comportamento anomalo”dei personale di volo e dell’aumento delle assenze per malattia. I sindacati autonomi continuano a ribadire la loro innocenza, e segnalano che Alitalia sta approfittando delle situazioni di disagio anche per cancellare voli vuoti o in perdita, dove non si raggiunge un adeguato coefficiente di riempimento delle cabine. Da segnalare anche che a Palermo, dopo un’assemblea sindacale, che si è da poco conclusa, i lavoratori Alitalia e Air One hanno occupato i check-in all’aeroporto di Punta Raisi, lasciandone aperti soltanto due, uno per ogni area dello scalo. Mentre il commissario Ue ai Trasporti, Antonio Tajani, ha attivato un’email cui po-
della clausola di lock up, l’acquisto della maggioranza relativa del pacchetto azionario. Ma i francesi non piacciono al Nord: il Presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, ha ribadito che «il socio naturale che avevamo indicato era Lufthansa», ma viste le recenti evoluzioni che hanno riportato in scena Air France, bisogna vedere «qual è il piano industriale che ci presentano. Ma abbiamo sempre dichiarato con chiarezza che Alitalia, qualsiasi sia il suo partner, deve privilegiare il mercato cioè gli aeroporti del Nord». Mentre il ministro Altero Matteoli ha ribadito che la scelta del partner spetta alla Cai, e che il governo non ha alcuna voce in ca-
Omicidio volontario: per la prima volta nella storia, in Italia qualcuno dovrà rispondere dell’accusa più grave in un processo per le morti sul lavoro. Lo ha deciso il giudice Francesco Gianfrotta, rinviando a giudizio i sei imputati per il rogo della Thyssen Krupp, che costò la vita a sette operai.
Erba, Castagna non vuole l’ergastolo perché le procedure sono ancora aperte. «Cai non potrà procedere alle assunzioni – ha riferito il rappresentante della FiltCgil Antonio Cepparulo – fino alla conclusione delle procedure». C’è spazio quindi arrivare ad un accordo entro di quella data. Nel frattempo, pare ancora sul filo il destino di Atitech, la società di manutenzione degli aerei di Alitalia. Pierfrancesco Guarguaglini, presidente Finmeccanica, indicato come l’acquirente scelto dal governo, ha fatto un mezzo passo indietro: «Saremo coinvolti ma non come primi azionisti, altre società prenderanno la guida».
Alitalia». Intanto, il rappresentante comune degli obbligazionisti di Alitalia, Gianfranco Graziadei, ha depositato il 12 novembre scorso presso la cancelleria del Tribunale di Roma la domanda per l’insinuazione al passivo per conto di tutti i possessori di bond targati via della Magliana. Ma la lista dei debitori vedrà in ogni caso privilegiati i gestori aeroportuali. Che in caso di decurtazioni dei loro debiti sono già pronti a far partire le rivalse legali. A danno, come sempre, dei cittadini. Che saranno sempre e comunque i pagatori in ultima istanza del conto.
Durissima la requisitoria del pm Massimo Astori che ieri in aula ha chiesto l’ergastolo per Olindo Romano e Rosa Bazzi, accusati della strage di Erba, vicino Como, dove persero la vita tre persone, tra cui un bambino di due anni. Raffaele Castagna, padre, marito e nonno di tre delle vittime, invita i due coniugi a pentirsi, affermando di non volere che siano condannati al carcere a vita.
panorama
pagina 8 • 18 novembre 2008
Piazze. Il Pd non ha deciso se partecipare allo sciopero della Cgil o puntare sull’unità sindacale
Indovina chi va con Epifani di Antonio Funiciello
ROMA. Lo sciopero generale indetto dalla sola Cgil per il prossimo 12 dicembre si farà. Dalle parti del Pd speravano proprio che tra crisi globale e pasticciaccio sulla vigilanza Rai, Epifani e compagni dessero un po’ di respiro al partito amico. Ancor più in tempi di rottura d’unità sindacale, che nel Pd mette in ansia tutti, specialmente Veltroni. Sull’unità sindacale il segretario democratico ha puntato parecchio; lo dimostra la valorizzazione degli ultimi tempi di ex dirigenti Cisl e Cgil. A un uomo Cgil, il senatore Achille Passoni, Veltroni ha delegato “esternalizzandola”- l’organizzazione
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
dell’ultima manifestazione al Circo Massimo e l’ottima riuscita dell’evento suggerisce che si servirà ancora di Passoni, scavalcando il dipartimento organizzazione del partito. Al deputato Pierpaolo Baretta, invece, segretario generale aggiunto Cisl al momento d’essere candidato, il Pd ha affidato la relazione di minoranza sulla legge finanziaria, votata alla Camera dalla maggioranza la scorsa settimana. Veltroni vorrebbe continuare a muoversi così, tenendo unite le due maggiori organizzazioni sindacali, ma la spaccatura tra Bonanni ed Epifani gli complica maledettamente la vita.
Domenica il segretario della Cgil è tornato per la terza volta alla trasmissione Rai della dalemianissima Lucia Annunziata a tuonare non tanto contro il presidente del Consiglio che non invita alle riunioni la sua organizzazione, quanto contro le altre sigle sindacali che ci vanno. Il patto di ferro con la Cgil rientra nel progetto di D’Alema di
unito e le rivendicazioni della Cgil. A fine ottobre ha inaugurato una stagione di protesta popolare con la manifestazione del Circo Massimo e con l’appoggio alla protesta studentesca, che lo ha portato addirittura ad annunciare un improbabile referendum sulla scuola di cui nessuno ormai più parla. Sia al Circo Massimo che contro la Gelmini, la Cgil ha dato un contributo decisivo alla straordinaria riuscita dell’effetto piazza. La liaison col sindacato di Corso Italia sarebbe dovuta continuare ancora alcuni mesi, fino all’ipotesi di candidare capolista Epifani alle prossime elezioni europee, anticipando di nemmeno un anno la sua successione al sindacato. Ora la Cgil aspetta al varco Veltroni, chiedendogli di ricambiare quel favore che l’organizzazione sindacale gli ha rivolto sostenendo le sue iniziative contro il governo. Tuttavia appoggiare lo sciopero generale del 12 dicembre equivarrebbe a misconoscere quella discontinuità col passato cheVeltroni continuamente richiama per il Pd e sui cui vorrebbe in futuro rafforzare la sua leadership.
Nel mondo laico, ma anche nella Chiesa, molti continuano a ripetere che a questo punto si deve rispettare il dolore: chi pensa alle conseguenze?
Il 12 dicembre la Cgil tenterà a prova di forza contro il governo, cercando di caratterizzarsi agli occhi del paese, come l’unica vera opposizione a Berlusconi. È un po’ lo schema di Cofferati, che da quando ha dichiarato di non volersi ricandidare a sindaco di Bologna, è sì tornato a fare il papà, ma più della Cgil che di suo figlio. La linea dura e pura della Cgil ha nel Pd più di uno sponsor tra le file dalemiane.
fare del Pd il partito della “sinistra” italiana che si allea con il nuovo centro cattolico messo su da Casini. E l’amicizia di questo tipo di Pd con la Cgil è un elemento strutturale del futuro centro-sinistra che D’Alema ha in mente. Molto critici verso Epifani sono, d’altro canto, gli ex popolari che difendono la linea della Cisl e intendono portare tutto il Pd su una posizione di critica distanza dalla piazza scioperante del sindacato rosso.
Veltroni, da par suo, è stretto tra la giustezza di una linea che punta alla collaborazione col sindacato
Da Bassolino a Riccardo Villari: istantanee da un Paese dove nessuno passa la mano
Dimettersi, lo sport meno praticato d’Italia è una parola in Italia che nessuno conosce più: dimissioni. Il suo significato è diventato ignoto per lo scarsissimo uso della cosa. Da noi c’è, forse, qualcuno che si dimette? Nessuno. Appunto. Ecco perché quando Riccardo Villari è stato eletto alla presidenza della commissione di Vigilanza sulla Rai, contro il volere del suo partito, non ha pensato neanche per un attimo alle dimissioni. Walter Veltroni lo ha chiamato e gli ha detto: «Ti devi dimettere». Ma Villari non si è dimesso: non perché non ha voluto, ma perché non ha capito. Perché mai, infatti, Villari - eletto in modo legittimo - si deve dimettere se neanche Veltroni si è dimesso dopo la batosta della sconfitta elettorale? Se non si è dimesso Veltroni che ha perso, perché si deve dimettere Villari che ha vinto? Il napoletano Villari proprio fatica a capire.
C’
Questa vicenda può sembrare una delle tante cosucce da poco della politica italiana. Un poltrona neanche così importante, ma che è diventata un luogo ambito da quando il presidente del Consiglio è quel signore che si chiama Silvio Berlusconi ed è proprietario di qualche televisione e, soprattutto, da quando la politica si è
trasferita dal Palazzo e dai Partiti al Piccolo Schermo. Una poltrona che non ha alcun potere operativo - per questo c’è il Cda di viale Mazzini - e ha solo quel potere censorio e morale che le è affidato dallo stesso nome della commissione: vigilanza. Un potere, dunque, che gli italiani, presi da altri piccoli problemucci per mettere insieme il pranzo con la cena, ignorano e se non ignorano trascurano. Insomma, se ne fottono.
Epp ur e , q ue sta poltrona di secondo piano, che sta a cuore ad Antonio Di Pietro (che è il vero capo dell’opposizione) e al presidente del Consiglio (che è l’unico capo della maggioranza), è il riassunto del nostro paese in cui ogni politico, piccolo o grande o insignificante, ogni uomo di potere di ogni ordine e grado, non è mai sfiorato dall’idea di togliere il disturbo. Le dimissioni si chiedono, ma non si danno. Le di-
missioni riguardano sempre gli altri, mai me stesso. Tu devi dimetterti, ma io non ci penso proprio. Anzi, io chiedo le tue dimissioni perché così devo fare, ma tu non ti dimettere: resisti, rimani dove sei, perché la prossima volta toccherà a te chiedere le mie dimissioni ma spetterà a me resistere.
Il campione di questa strategia della resistenza a oltranza per evitare di dimettersi è mesi stato, addietro, Antonio Bassolino. Napoli era sommersa dalla spazzatura perché in città era esplosa la seconda grande crisi - la prima si ebbe nell’estate del 2007 e in quell’occasione il capo dello Stato disse la storica frase: «Sono i giorni peggiori della storia di Napoli» -, era scoppiata la “guerra di Pianura”, ma Bassolino fece sapere: «Non ho intenzione di dimettermi perché sarebbe un atto irresponsabile: c’è ancora bisogno di me».
Non solo allontanò da sé l’amaro calice delle dimissioni, ma rigirò la frittata dicendo che se si fosse dimesso sarebbe in pratica scappato dalle sue responsabilità. Un capolavoro. Infatti, Bassolino è ancora lì pronto a chiedere le dimissioni dei suoi avversari (interni ed esterni al Pd).
Se, con tutto quello che è successo e con un bel po’ di processi e accuse sulle spalle, non si è dimesso Bassolino, perché si dovrebbe dimettere Villari? Il medico napoletano, che in questi giorni ha sentito un po’ tutti gli amici della vecchia scuola democristiana Mastella, De Mita, Mancino - e nessuno, ma proprio nessuno gli ha detto: «Ricca’, dimettiti!». In casi come questi la tradizione insegna che bisogna restare al proprio posto, perché prima di tutto c’è un dovere istituzionale da testimoniare, poi la politica farà il suo corso e si troveranno degli accordi e degli equilibri. Tutte cose che Villari già sapeva, che si è sentito ripetere dai suoi maestri e che ha anche ripetuto al segretario o presidente del suo partito democratico: «Non capisco che senso ha chiedere le mie dimissioni» In fondo, questa vicenda dimostra una sola cosa: che il Pd di Veltroni chiede le dimissioni di uno dei suoi invece di dimettersi dal dipietrismo.
panorama
18 novembre 2008 • pagina 9
Grandi manovre. Il capogruppo del Pdl al Senato è sempre più isolato
Gasparri imbarazza. Soprattutto Gianni Letta di Francesco Capozza segue dalla prima Un imbarazzo che contagia tutti coloro i quali, malgrado le apparenze, vogliono che quel sottilissimo filo del dialogo ancora non definitivamente spezzato resista. Quei pochi che hanno accesso alle ”sacre stanze”, raccontano che nella mente di Gianni Letta quelle uscite imbarazzanti rese alle agenzie la scorsa settimana da Gasparri («Veltroni mi sembra in evidente crisi, contestato nel suo partito perché, in effetti, è una persona stupida e incapace» e «non vorrei che la sua faccia - sempre quella del segretario del Pd, ndr - finisse sulla carta igienica del suo partito») rimbombino ancora con la veemenza di una robusta carica di tritolo.
Il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, stando a quei pochi accoliti che riescono a saggiarne gli umori, sarebbe andato su tutte le furie perchè, nonostante la grave crisi innescata tra maggiornaza e opposizione dall’elezione di Riccardo Vil-
«Per tutte le questioni che riguardano l’attività del Senato, rivolgetevi a Quagliariello»: è la linea ufficiosa del sottosegretario lari alla Vigilanza Rai, vorrebbe che il filo del dialogo non si spezzasse. Prova ne è il fatto che lo stesso Veltroni si sarebbe sentito con Letta, sebbene il clima sia infuocato, più di una volta nell’ulti-
mo fine settimana e che, in fondo in fondo, anche il segretario del Pd sarebbe spaventato da una chiusura definitiva dei rapporti con la maggioranza. Lo scenario per lui potrebbe essere ag-
ghiacciante: messo nell’angolo da Antonio Di Pietro e rosolato a fuoco lento da Massimo D’Alema che non vede l’ora di far fuori sia Veltroni che i suoi sherpa. Dunque per il segretario del partito del Nazareno è assolutamente necessario, se non vitale, mantenere un rapporto privilegiato con palazzo Chigi (e non con palazzo Grazioli, attenzione). Le dichiarazioni del presidente dei senatori pidiellini è stato però come un pugno di terra gettato negli occhi sia di Veltroni che di Letta, e, presumibilmente, in una delle telefonate dello scorso week end, i due avranno analizzato anche il ”Lodo Gasparri” traendone una soluzione precisa: evitare che ”gola profonda” rovini i piani di entrambi. La notizia è di quelle che scottano certamente, ma molti giornalisti della carta stampata e della televisione sono già stati avvertiti: «Per qualsiasi dichiarazione inerente allo svolgersi di trattative al Senato, rivolgersi al capogruppo vicario, il senatore Gaetano Qua-
gliariello». Detto, fatto. Gli affezionati del tubo catodico si saranno certamente accorti che da qualche giorno a questa parte le telecamere della Rai e di Mediaset hanno a più riprese immortalato proprio Quagliariello e non Gasparri.
L’operazione Letta è quindi iniziata, e con successo. Rimane solo un rebus da risolvere: quale sarà il prezzo (e la ricompensa) per il silenzio imposto a Maurizio Gasparri? C’è chi pensa già ad un ruolo di sottosegretario o, più probabilmente, di ministro senza portafoglio in un prossimo rimpasto con ampliamento governativo. D’altronde, mentre il ruolo di capogruppo parlamentare richiede quasi istituzionalmente che si dichiari e ci si confronti con la stampa, quello di ministro no, almeno alla corte di Re Silvio che il bavaglio ministeriale l’ha istituzionalizzato con circolari e reprimende: a parlare sarà solo Paolo Bonaiuti. Sempre finchè Mara dei Miracoli-Carfagna non gli soffierà il posto di portavoce del governo.
Ricordi. L’America degli anni Sessanta e quella di oggi
C’era un ragazzo che come me... di Angelo Sanza rano gli anni della guerra fredda: di mezzo c’era la lotta al comunismo, un periodo che fu per me un’esperienza meravigliosa. Erano gli anni dell’America di Kennedy e si voltava pagina verso una nuova stagione: quella del cambiamento profondo. Avevo solo 18 anni quando dopo una notte di ansia mi son tuffato per una intera giornata nelle strade affollate di New York, per scoprire l’emozione di ritrovarmi tra tanti visi di colore diverso, di luci e bagliori tante volte pensati, tra gli inafferrabili grattacieli. Quella gente di colore era libera: poteva diventare ricca ma non aspirare di essere alla guida del Paese. C’erano ancora sacche di discriminazione razziale. L’elezione di Barack Obama chiude per sempre la triste pagina dei pregiudizi verso la gente di colore. E l’America ha superato l’ultimo tabù. Il valore dell’Indipendenza, dell’autonomia personale e della buona salute della collettività dipendono dal comportamento di ognuno, dal rispetto verso il prossimo e dalla fiducia in se stessi, dall’essere parte di una società che ha scelto di non discriminare per ceto, religione, ideologia e colore della pelle. Questo Paese non ha limiti, non teme nulla. Eppure tutti credevano che aldilà di dove era arrivato Colin Powell sarebbe stato difficile, quasi impossibile. Powell è il primo nero che diventa, nel 1989, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate e poi nel 2001 Segretario di Stato, numero tre del governo, oggi brillantemente
E
occupato da una donna di colore: Condoleezza Rice. Con Obama alla Casa Bianca si conclude la lunga corsa della popolazione afro-americana, che si pone per sempre alla pari con i bianchi sui campi di battaglia e nei banchi del potere.
Un nero alla guida degli Usa rappresenta un radicale cambio d’epoca per tutto il mondo. È la dimostrazione che l’America è ancora la terra delle grandi opportunità. Credevamo che il sogno dei Kennedy non fosse più ripetibile. Invece, con Obama,
Con Obama alla Casa Bianca si conclude la corsa della popolazione afro-americana, che si pone per sempre alla pari con i bianchi l’America dimostra ancora una volta che è capace di girare pagina e di “shockare”il mondo per accendere su di se quei riflettori che andavano affievolendosi per mille ragioni a causa di una crisi latente in tutti i campi della sua leadership. Oggi Obama è solo un simbolo, ma in politica i simboli contano. E questo può servire per la rinascita di una speranza. La sua elezione suona davvero alla opinione pubblica come l’ultima prova della leggendaria capacità di rinnovamento attribuita alla più grande democrazia della storia legando un evento politico ad un immenso valore simbolico. Le responsabilità mondiali degli Usa fanno di questo giovane il protagonista di un cambiamento senza precedenti: le “minoranze”
di ogni natura, colore, ceto sociale, di genere e di generazione potranno prendere coraggio e forza per diventare protagonisti del proprio futuro. I “bianchi”cedono lo scettro della loro“prepotenza” e del loro potere, e i giovani sono i nuovi protagonisti per costruire un“domani”che meglio li interpreti e li rappresenti. Dopo Lincoln e Kennedy, Obama rappresenta nell’era della globalizzazione un Paese leader - l’Homo Globalis - che avvicina gli Usa a miliardi di esseri umani sparsi per tutto il mondo. Nell’incapacità di pronosticare ne il futuro ne la sua presidenza una cosa è certa: con Obama questo XXI secolo riparte dando all’America una credibilità che era andata perduta. Su di essa saranno puntati gli occhi di tutto il mondo e tutti potremo sperare di avere, bianchi o neri, ricchi o poveri, uomo o donna, un mondo più giusto, più umano, più ispirato a valori di convivenza, di rispetto reciproco di opportunità per tutti. Nel falso bipolarismo italiano e da politico militante avrei scelto i valori che rappresentano i Repubblicani dell’America più profonda. La vittoria di Obama non è solo la vittoria dei Democratici, ma di una nuova America, alla quale si richiamerà un nuovo sentire di questa società localizzata. L’altra notte, son tornato ad essere il ragazzo degli anni ‘60 che negli Usa aveva vissuto l’orgoglio della stagione aperta dell’arrivo alla Casa Bianca di Kennedy e delle testimonianze di Martin Luter King.
società
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Edilizia. Calano i prezzi di abitazioni e negozi (-7%), crolla il numero delle trattative (-15%). E gli affitti aumentano
Il ballo (triste) del mattone Il mercato immobiliare ristagna. L’unica speranza sono le compravendite degli immigrati di Francesco Pacifico iente più mutui a tassi inferiori all’inflazione per comprare la casa né circuiti finanziari che vedono nel mattone l’unico bene rifugio al mondo. Per non parlare delle crescite a doppia cifra inanellate dal 2001 al 2007, ormai un pallido ricordo, e che lo sarà per almeno un altro biennio. Dopo aver portato a quota 80 per cento il numero di italiani proprietari della propria abitazione, il mondo dell’immobiliare fa fatica a trovare nuovi sbocchi.
N
Così la filiera (costruttori, immobiliaristi e agenti immobiliari) sta provando a riscoprire segmenti dimenticati come le compravendite degli immigrati e l’edilizia popolare. E se sul primo versante si spera nelle nuove tipologie di mutui che con fatica sta studiando il mercato bancario, sull’altro si attende il piano casa da 100mila alloggi promesso dal governo Berlusconi. Per capire il peso della congiuntura sul settore, è suffi-
ciente guardare alle stime fornite dai centri studi indipendenti o quelli legati al settore. Al riguardo sono emblematici i numeri forniti dalla Fiaip, l’associazione di categoria degli agenti immobiliari. Dal loro osservatorio privilegiato hanno evidenziato nei primi dieci mesi del 2008 un calo dei prezzi in media tra il 7 e il 7,5 per le abitazioni e i negozi. Diminuzione che si attesta attorno al 9,7 per il direzionale.
nostante il calo delle quotazioni il mercato però resta al palo. L’indagine ha rilevato una diminuzione percentuale delle trattative che passa dal 10 per cento dei capannoni al 14 circa delle abitazioni e dei negozi. E che sale fino a circa il 15 per gli immobili a uso ufficio.
«Ci sono proprietari di casa che non si sono resi conti che il mondo è cambiato», nota Fran-
Dopo aver portato a quota 80 per cento il numero di italiani proprietari di una casa, gli operatori faticano a trovare nuovi sbocchi. L’inversione di tendenza, forse, soltanto nel 2010 Non andrà meglio l’anno prossimo. Per il 2009 le stime parlano di «una diminuzione per le compravendite ad uso residenziale, con particolare attenzione alle aree centrali ed un aumento degli affitti a uso abitativo». Soltanto nel 2010 potrebbe esserci un’inversione di tendenza. No-
I sindacati bocciano il piano casa del governo: «Non serve a chi è in difficoltà» di Vincenzo Bacarani
co Arosio, il presidente della Fiaip, «Senza fare difese di categoria, il differenziale tra il calo dei prezzi e quello delle operazioni è troppo rilevante per dare tutta la colpa agli agenti immobiliari. E così alcuni proprietari lasciano invariati i prezzi, non capendo che non venderanno
mai i loro beni». Non a caso il tempo delle compravendite è passato nell’arco di un anno da una media di 90 giorni a 180 giorni. La crisi dei salari prima e quella di liquidità che ha colpito le banche dopo finiscono quindi per profilare la domanda e l’offerta ancora più verso il basso. E tanto basta per riscoprire l’housing sociale, dimenticato in anni di boom della domanda. Intanto, ma con prezzi più bassi degli attuali, si guarda agli oltre 3,5 milioni di immigrati regolari, che spesso finiscono per portare nuova linfa a quartieri periferici e spesso degradati. «Gia negli anni scorsi», aggiunge Arosio, «le operazioni concluse
ROMA. I sindacati sono nettamente contrari al piano casa elaborato dal governo Berlusconi. Le motivazioni sono molteplici da parte delle organizzazioni del settore (Sunia-Cgil, Sicet-Cisl e Uniat-Uil), ma l’argomentazione che trova più ampi e diffusi consensi è che - visto nella sua globalità - il piano è un piano pensato più per i costruttori che per le famiglie. Scendendo nel dettaglio, i sindacati vedono anche un tentativo da parte dell’esecutivo di ledere la titolarità degli enti locali sull’edilizia residenziale e sulla destinazione delle risorse. Non a caso alcune regioni (in testa Piemonte e Umbria) hanno inoltrato ricorso alla Corte Costituzionale contro il governo proprio su questi argomenti.
«Va comunque detta una cosa preliminare e fondamentale - afferma Daniele Barbieri, segretario nazionale Sunia - e cioè che noi un piano per la casa lo vogliamo. Ma, detto questo, la verità è che quello del governo Berlusconi presenta aspetti che
dagli extracomunitari avevano contribuito a valorizzare il mercato tout court. In alcune fasi si è anche toccato il 20 per cento delle compravendite totali. Ma al momento siamo lontani da questi numeri. Eppure questo segmento è destinato a essere rinvigorito non appena il sistema bancario riprenderà a correre e a lanciare soluzioni ad hoc verso nuclei familiari dove c’è soltanto una busta paga».
Più complesso il discorso sull’edilizia popolare, di fatto bloccata in Italia almeno da un ventennio. Al piano annunciato da Silvio Berlusconi per la costruzione di 100mila alloggi nei prossimi dieci anni– e oggi di-
del Sunia fa un esempio: «Il Comune di Roma con la nuova giunta, tanto per fare un esempio, ha subito attivato un censimento delle aree agricole da poter destinare a uso abitativo».
non condividiamoı. Secondo il Sunia, il piano non ha risorse. Il miliardo di euro di cui si parla - spiega Barbieri - è composto per l’80 per cento da interventi già programmati che vengono ora sospesi. Un altro aspetto che non ci piace è che c’è la tendenza a sorpassare gli strumenti urbanistici. In pratica verranno decisi centralmente alcuni interventi anche in deroga ai piani regolatori». Il segretario
Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Nella pagina a fianco: Berlino, la porta di Brandeburgo
Un’aggressione all’ambiente? Un altro tentativo di urbanizzazione senza regole rigide? Per il Sunia, sarebbe più utile riqualificare i quartieri già esistenti, recuperare aree edificate abusivamente e destinarle a servizi e infrastrutture. «Un altro aspetto negativo - prosegue Barbieri - è rappresentato dall’utilizzo che si intende fare delle aree demaniali che erano state destinate a uso di edilizia sociale con uno stanziamento, parliamo del governo Prodi, di 100 milioni. Di questo nel nuovo piano casa non c’è traccia». Quale potrà essere allora la detinazione di queste aree demaniali (ex-caserme, ex-istituti di monopolio ecc.)? I sindacati temono che verranno usate come “scambio”con i privati. «Rendiamoci conto - conclude Barbieri - che questi edifici demaniali sorgono in zone commer-
società Titolo V della Costituzione da pieni poteri in materia agli enti locali.
ventato il fulcro dell’intervento monster da 80 miliardi euro per rilanciare l’economia – manca ancora il regolamento attuativo.
La diatriba tra Palazzo Chigi e governatori è proprio su una delle introduzioni del piano casa, che più interessano il settore immobiliare: il governo, per ovviare al problema del costo delle aree, ha promesso di mettere a disposizione i suoli demaniali. E questo potrebbe ridisegnare le direttrici immobiliari e di riflesso i piani regolatori, sui quali hanno ultima parola le giunte regionali. Al riguardo aggiunge Franco Arosio: «Non mi sembra che nelle grandi città, quelle dove c’è un deficit di offerta a prezzo calmierato, ci siano molte aree demaniale disponibili. Quindi si deve fare un passo avanti, utilizzando le aree standard”. Ma questo vuol dire dover convincere i Comuni. Di conseguenza bisogna dare maggiori certezze legislative e operative all’operazione. Soprattutto se si vogliono coinvolgere i privati nella gestione degli stabili e non soltanto nella costruzione. «Altrimenti», conclude Arosio, «creeremo altri ghetti, soprattutto se si
La crisi dei salari e quella di liquidità che ha colpito le banche finiscono per spingere la domanda e l’offerta ancora più verso il basso. E rispunta il fenomeno dell’housing sociale Il ministro Giulio Tremonti garantisce che a breve il Cipe sbloccherà i fondi, fatto sta che finora non è ancora chiara la disponibilità complessiva. Poi c’è lo scontro, per quanto tenuto sottotono, tra Stato centrale e Regioni, visto che la riforma del
guarderà soltanto all’affitto. Bisogna invece dare garanzie sulla possibilità di vendere gli appartamenti dopo alcuni anni e quindi sulla proprietà». Proprio quello che non si avvenuto al Corviale di Roma o al Gratosoglio di Milano.
cialmente appetibili, difficilmente si trovano nelle periferie e potrebbero venire utilizzati per edilizia residenziale, creando ai confini delle grandi città nuove aree per quartieri popolari emarginanti”. «Nel piano del governo - spiega Guido Piran, segretario generale del Sicet-Cisl - non c’è chiarezza sulle risorse pubbliche disponibili. Ed è un errore, secondo noi, distogliere fondi da programmi che erano già attuativi. In questo modo nasce un conflitto con gli enti locali». Anche per il Sicet, si tratta di un piano che potrà favorire soltanto l’imprenditoria privata e non i cittadini.
giungono i 14 mila euro all’anno di reddito e vanno dai 450 euro mensili delle piccole città ai 600-650 euro delle grandi. E si parla di minimi. «Questo spiega il segretario del Sicet - è un piano casa fatto non per chi ha necessità di prendere in affitto un appartamento, ma per chi vuole comperarlo». E secondo i sindacati non è proprio questo il momento in quanto il mercato edilizio è già in crisi da diversi mesi e accendere un mutuo oggi, con la crisi finanziaria e la crisi delle banche, è quantomeno non consigliabile. Conclusione? «È un piano dice Piran - che non funzionerà, anche perché è strutturalmente sbagliato. Deve essere ripreso e rivisto in alcuni punti fondamentali. E poi, ripeto, vista la congiuntura attuale deve andare incontro alle esigenze di chi è in difficoltà: giovani coppie che cercano un primo alloggio, immigrati in regola. Persone, cioè che oggi sono anche a rischio per il posto di lavoro e, di conseguenza, per lo stipendio».
«La situazione dell’edilizia popolare in Italia - prosegue Piran è grave. Basti pensare che quasi l’ottanta per cento degli sfratti è dovuto a morosità. Quindi si tratta di gente che non ha i soldi per pagare l’affitto». Ma anche le case popolari, non hanno canoni tanto popolari. I minimi sono comunque alti per nuclei familiari o persone singole che non rag-
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L’unica “isola felice” nell’Europa della bolla che scoppia
Perché funziona il modello tedesco on ci sarà un eccesso di offerta come in Spagna, anche perché si è costruito meno di quanto previsto. I prezzi sono bassi come negli anni che hanno preceduto la riunificazione tra Est e Ovest del Paese. I tedeschi, si sa, preferiscono vivere in affitto. Non ci saranno file in banca di clienti spaventati e imbufaliti per contrattare condizioni migliori ai loro mutui: lo strumento di mutuo più diffuso nel Paese, il Bausparvertrag, garantisce tassi bassi in cambio di un prestito molto contenuto. La Germania, lo stesso Paese che è finito in recessione nel terzo trimestre dell’anno, è un’isola felice mentre tra i componenti del G8 si diffonde l’allarme per lo scoppio di una bolla immobiliare. Di più, la stabilità del sistema immobiliare è l’unico fondamentale positivo in una fase che lascia poche speranze ai tedeschi. La cosa poi è ancora più indicativa in un Paese che dovrà impegnare 400 miliardi di euro pubblici per ripianare i debiti delle banche e che ha visto due grandi istituzioni finanziare (Hypo Real Estate e Ikb) fallire miseramente. Non a caso il rigore della Cancelleria verso gli istituti in crisi (liquidità statale in cambio di congelamento dei dividendi e degli stipendi dei manager) è stato approvato dai tedeschi proprio per gli errori fatti dalle banche: le perdite di colossi come Commerz o Deutsche bank sono dovute a speculazioni a livello internazionale sui subprime, non certo all’esposizione sui mutui destinati alla loro clientela interna. Infatti il livello di esposizione per questo tipo di prodotti supera di poco l’1 per cento dei crediti. erogati Il Bausparvertrag infatti prevede che, prima di firmare il contratto con la banca, l’acquirente dell’immobile abbia già messo da parte una quota rilevante della somma per comprare la casa.
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gistrato una perdita vicina all’8 per cento (soltanto le nuove costruzioni hanno beneficato di un +1%). Ma quest’anno le cose sono andate ancora peggio: le stime più prudenti parlano di un calo vicino al 3 per cento soprattutto sul versante delle vendite.
In questo clima soltanto poche città come Amburgo, Norimberga e Monaco hanno registrato un certa attività, che nel primo semestre del 2007 ha toccato una crescita del 6 per cento. Per il resto è tutto un continuo calo, che in parti dell’Est del Paese si tramuta in una sproporzione tra offerta e domanda. A differenza di quanto avviene in Italia come in Gran Bretagna, in Spagna come in Francia, i tedeschi non vedono nella casa uno dei problemi cogenti per arrivare a fine mese. In un Paese dove il caro euro ha limitato il potere d’acquisto dei salari che comunque superano in media i 1.700 euro al mese - si può acquistare un monolocale in una zona semicentrale di Berlino per 150mila euro, mentre in periferia si può anche spendere la metà per la stessa metratura. Una villetta con giardino vicino ai centri industriali non supera i 250mila euro. Ancora più convenienti gli affitti. E non è un caso che il 60 per cento dei tedeschi sia in locazione. Un monolocale in una zona semicentrale - al netto delle poche eccezioni come Amburgo o Monaco - si può trovare anche a 500 euro. Al momento non si intravede alcuna ripresa dei prezzi. E più in generale sono le condizioni di mercato che fanno escludere un’esplosione delle speculazioni. E che pure sarebbero prevedibili visti i prezzi. Intanto l’aumento dei tassi di interesse ha fatto crescere negli ultimi tre anni i costi fissi del 10 per cento per sottoscrivere un mutuo. L’Iva poi è passata nel 2007 dal 3 al 19 per cento, cosa che colpisce soprattutto i nuovi immobili. Così la rendita immobiliare non va oltre il 6,5 per cento all’anno. Poi c’è il freno della proprietà pubblica. Nell’ultimo decennio Laender, municipalità ed enti non profit hanno venduti immobili per una quota di 1,3 milioni cespiti. Ma in mano statale restano almeno 4,5 milioni di immobili. E ci sono realtà, come il comune di Berlino, che non hanno intenzione di dismettere neppure un (f.p.) pezzettino del loro patrimonio.
Il 60 per cento dei cittadini preferisce l’affitto all’acquisto. E un monolocale in una zona centrale di una grande città si può trovare anche a 500 euro. Uniche eccezioni: Amburgo e Monaco
Gli istituti poi, garantendo tassi molto bassi e quindi rate meno onerose per il contraente, vedono ridurre in maniera rilevante i rischi dovuti a un’eventuale insolvenza. Non a caso ci sono in offerta almeno 26 tipologie dei prodotti di questa gamma.Già nel 2007, quando la locomotiva non sembrava subire frenate improvvise, i prezzi delle case esistenti hanno re-
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Pubblichiamo l’ultimo discorso del presidente statunitense sul crack finanziario e sul
«L’America guiderà il mondo o di George W. Bush segue dalla prima Il mercato del credito sta cominciando a scongelarsi, le imprese stanno ottenendo l’accesso ai finanziamenti essenziali nel breve periodo, e nel mercato finanziario si stanno riaffermando misure di stabilità, ma - oltre a guidare la crisi - avremo anche bisogno di fare grandi riforme per rafforzare l’economia globale nel lungo termine. Per esempio, le nazioni devono rendere i propri mercati finanziari più trasparenti e meglio regolati; il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale dovrebbero considerare l’ipotesi di estendere il potere di voto alle nazioni in via di sviluppo, specialmente in relazione al loro contributo a queste istituzioni, e dovrebbero anche essere più trasparenti, responsabili ed efficienti. Il Fmi dovrebbe accettare di lavorare più strettamente con i Paesi membri per accertarsi che le loro politiche sul tasso di cambio siano chiare e orientate al mercato, mentre la Banca Mondiale dovrebbe assicurarsi che il suo programma di sviluppo rifletta le priorità delle persone che deve servire, e concentrarsi su risultati constatabili. Tutti questi passi richiedono azioni decise da parte dei governi del mondo, ma dobbiamo riconoscere che gli interventi statali non sono l’unica cura. Alcuni sostengono che la crisi sia determinata da una regolazione insufficiente del mercato americano dei mutui, ma molti Paesi europei hanno regolamenti più ampi, eppure hanno sperimentato problemi praticamente identici ai nostri. La storia ha dimostrato che la maggiore minaccia alla prosperità economica non è lo scarso coinvolgimento dei governi nel mercato, ma l’eccesso opposto. Lo abbiamo visto con il caso di Fannie Mae e Freddie Mac. Dato che queste società erano privilegiate dal Congresso americano, molti credevano che fossero sostenute dalla piena fiducia e dal credito del governo. Gli investitori mettevano enormi quantità di denaro in Fannie e Freddie, che usavano per aumentare irresponsabilmente l’ampio portafoglio di titoli di mutui ipotecari, ma quando il mercato immobiliare è entrato in declino questi titoli, ovviamente, sono crollati.
C’è voluto un salvataggio finanziato con i soldi dei contribuenti per evitare a Fannie e Freddie un collasso che avrebbe devastato il sistema finanziario globale. È una chiara lezione: il nostro obiettivo non deve essere un maggior coinvolgimento statale, ma un coinvolgimento più intelligente.Tutto questo ci porta al principio più importante che dovrebbe guidare il nostro lavoro: sebbene le riforme nel settore finanziario siano essenziali, la soluzione di lungo periodo ai problemi attuali è sostenere la crescita economica, e la strada più sicura per questo scopo è la libertà dei mercati e delle persone. Sulla scia della crisi finanziaria, voci di sinistra e di destra hanno equi-
parato il sistema della libera impresa all’avidità, allo sfruttamento e al fallimento. È vero che in questa crisi ci sono stati dei fallimenti da parte di prestatori, debitori e società finanziarie, e anche di governi e organi indipendenti, ma la crisi non è stata un fallimento del sistema basato sul capitalismo.
Bisogna capire il problema, fare le riforme e andare avanti con i principi del libero mercato, che hanno portato prosperità e speranza alle persone in tutto il mondo. Il capitalismo non è perfetto, ma è in assoluto il modo più efficace di strutturare un’economia, perché offre alle persone la libertà di scegliere dove lavorare e cosa fare, l’opportunità di comprare
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Il capitalismo non è perfetto, ma è il modo più efficace di strutturare un’economia, perché offre alle persone la libertà di scegliere cosa fare, i beni da comprare o vendere e la dignità che proviene dai risultati delle proprie capacità o vendere i beni che vogliono e la dignità che proviene dai risultati delle proprie capacità e del proprio lavoro. Il libero mercato produce gli incentivi al lavoro, all’innovazione, al risparmio, all’investimento sensato e alla creazione di posti di lavoro, e quando milioni di persone perseguono questi obiettivi tutta la società ne beneficia. Il capitalismo del libero mercato è ciò che rende
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possibile ad una coppia mettere su una propria attività, o ad un immigrato aprire un ristorante, o ad una madre single tornare all’università e costruirsi una carriera migliore.
È ciò che ha consentito agli imprenditori di Silicon Valley di cambiare il modo di vendere prodotti e cercare informazioni nel mondo; è ciò che ha trasformato l’America da una frontie-
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futuro che attende l’Occidente
oltre la crisi» «È vero che in questa crisi ci sono stati dei fallimenti da parte di prestatori, debitori e società finanziarie, e anche di governi e organi indipendenti, ma la crisi non è stata un fallimento del sistema basato sul capitalismo. Bisogna capire il problema, fare le riforme e andare avanti con i principi del libero mercato, che hanno portato prosperità e speranza alle persone in tutto il mondo. Le nazioni che hanno perseguito altri modelli hanno sperimentato risultati devastanti. Il comunismo sovietico ha affamato milioni di persone e fatto fallire un impero. Cuba, una volta conosciuta per i suoi vasti campi di canna da zucchero, è ora obbligata a razionare il prodotto, mentre in Iran c’è addirittura scarsità di benzina» ra selvaggia in una nazione che ha dato al mondo la nave a vapore e l’aeroplano, il computer e la Tac, internet e l’iPod. Il libero mercato ha permesso al Giappone, un’isola con poche risorse naturali, di riprendersi dalla guerra e di crescere come la seconda maggiore economia del mondo; ha consentito alla Corea del Sud di fare di se stessa una delle società tecnologicamente più avanzate del pianeta, e ha trasformato piccole aree come Singapore, Hong Kong e Taiwan in attori dell’economia globale.
Le nazioni che hanno perseguito altri modelli hanno sperimentato risultati devastanti. Il comunismo sovietico ha affamato milioni di persone, fat-
to fallire un impero ed è crollato definitivamente con il Muro di Berlino. Cuba, una volta conosciuta per i suoi vasti campi di canna da zucchero, è ora obbligata a razionare questo prodotto, mentre l’Iran - nonostante sorga su gigantesche riserve petrolifere - non consente alla sua gente di mettere abbastanza benzina nelle automobili.
Dunque il punto è evidente: se cerchi la crescita economica, la giustizia sociale e la dignità umana, il sistema del libero mercato è la strada da perseguire. Sarebbe un terribile errore permettere a pochi mesi di crisi di minare sessant’anni di successi. Altrettanto importante del mantenimento del libero
mercato è la preservazione della libertà di circolazione di beni e servizi. Quando le nazioni aprono i loro mercati al commercio e all’investimento, le imprese, le società e i lavoratori trovano nuovi compratori per i loro prodotti e i consumatori beneficiano di una maggiore scelta e di migliori prezzi. Grazie soprattutto ai mercati aperti, il volume del commercio globale, oggi, è trenta volte superiore a quello di sessant’anni fa, e alcuni dei profitti maggiori sono stati ottenuti in aree del mondo in via di sviluppo. Ho conosciuto il potere di elevazione sociale del commercio da vicino. Sono stato in una fabbrica di cingolati ad East Peoria, nell’Illinois, dove migliaia di posti di lavoro ben retribuiti sono sostenuti dalle esportazioni; sono stato ad un fiera commerciale in Ghana dove ho incontrato donne che supportavano le proprie famiglie esportando vestiti e gioielli fatti a mano; ho parlato con un contadino in Guatemala che ha deciso di crescere colture di alto valore da poter vendere all’estero, e ha contribuito a creare più di mille posti di lavoro.
Mantenere i mercati aperti al commercio e all’investimento è particolarmente urgente durante i periodi di tensione economica. Poco dopo il crollo del mercato azionario
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Il mondo conoscerà la resistenza dell’America ancora una volta. Lavoreremo per correggere il sistema finanziario globale, ricostruiremo la nostra forza economica e continueremo a guidare il mondo verso la prosperità e la pace del 1929, il Congresso ha introdotto il dazio Smoot-Hawley, una misura protezionistica ideata per escludere l’economia americana dalla competizione globale, e il risultato non è stata la sicurezza economica, ma la rovina.
I leader mondiali devono tenere questo esempio a mente e rifiutare la tentazione del protezionismo. Ci sono modi chiari per dimostrare la volontà di aprire i mercati; il Congresso degli Stati Uniti ha un’opportunità immediata approvando l’accordo sul libero commercio con la Colombia, il Perù e la Corea del Sud. L’America e le altre nazioni ricche devono assicurarsi anche che questa crisi non diventi una scusa per disattendere gli impegni con il mondo in via di sviluppo, il quale deve proseguire con politiche che incoraggino l’impresa e gli investimenti. Inoltre, tutti i Paesi quest’anno devono impegnarsi a porre le basi per portare al successo gli accordi di Doha.
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So che qualcuno si chiede se la leadership americana dell’economia globale continuerà. Il mondo può essere certo che sarà così, perché il nostro mercato è flessibile e possiamo rialzarci.
Abbiamo testato la nostra resistenza negli anni Ottanta, quando l’America ha superato la crisi energetica, trasformato la stagflazione in una forte crescita economica e vinto la guerra fredda, e l’abbiamo vista dopo l’11 settembre, quando la nostra nazione si è ripresa da un attacco barbaro, ha rivitalizzato un’economia vacillante e ha riorganizzato le forze della libertà nella grande battaglia ideologica del ventunesimo secolo. Il mondo conoscerà la resistenza dell’America ancora una volta. Lavoreremo con i nostri partner per correggere i problemi del sistema finanziario globale, ricostruiremo la nostra forza economica e continueremo a guidare il mondo verso la prosperità e la pace.
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Guerra. L’Onu sembra incapace di difendere la popolazione mentre viene di nuovo ignorato l’ennesimo cessate il fuoco
Il Congo al bivio Il sostegno (interessato) del Rwanda alle ragioni del generale ribelle Nkunda di Anna Maria Gentili a catastrofe umanitaria ha riacceso l’interesse per la serie di conflitti che hanno come teatro il Kivu. All’aggravarsi della situazione, già in agosto, era seguito un ennesimo cessate il fuoco dichiarato dalle forze sotto il comando del generale Laurent Nkunda. Il 4 novembre è ricominciata la guerra aperta: chi dice che sia stata provocata dal tentativo dell’esercito regolare di sfondare, chi dalla reazione preventiva di Nkunda. Certo è che, a commettere le peggiori esazioni, saranno a Goma e sono ancora in varie località del Nord del Kivu soprattutto i ribelli Mai Mai e gli sbandati dell’esercito “regolare”, ovvero le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (Fardc), che dovrebbero rappresentare la forza difesa della legge e dell’ordine statale. La delinquenza e la ferocia dell’esercito congolese in tutte le epoche sono tragicamente note e quanto accaduto dimostra il fallimento di uno dei pilastri della progettata e promessa ricostruzione dello Stato: la reintegrazione e ricostruzione dell’esercito, finanziata e monitorata internazionalmente, così come l’impossibilità (per alcuni, l’incapacità) delle forze Onu (Monuc) d’interposizione a difendere la popolazione. A sua volta Nkunda viene accusato di stringere gli sfollati in una morsa che ha impedito vie di fuga e provocato un aggravamento del già drammatico disastro umanitario.
L
Intanto nell’Ituri, che sembrava vivere un periodo di pace relativa, le cose ricominciano a complicarsi e a breve ci si aspetta una escalation del conflitto. Quanto sta accadendo nel Nord del Kivu minaccia di riattivare conflitti appena precariamente sopiti in tutta la regione fino alla minaccia di una riedizione della “guerra mondiale” africana degli anni ‘90. Le elezioni che hanno avuto luogo il 29 ottobre 2006 avevano suscitato grandi speranze, almeno negli ambienti internazionali, che si erano fatti carico del loro costoso finanziamento e monitoraggio, tanto che l’Onu aveva previsto di ritirare le proprie forze di
pace già il 30 ottobre. Chiunque abbia un minimo di memoria storica sa che le elezioni per designare la rappresentanza alla Conferenza Nazionale sovrana possono essere il detonatore di nuove ragioni di conflitto fra interessi contrapposti. Come era accaduto sia nel 1960 (in occasione dell’indipendenza), sia nel 1991-92, dopo quasi trent’anni di devastante saccheggio dello stato da parte del padre-padrone Mobutu.
Mobutu ebbe ancora qualche anno (dal 1992 al 1997) per depredare il Paese e distruggervi ogni parvenza di legalità. Fra le distruzioni “brilla” la gestione delle conseguenze del genocidio rwandese del 1994, che riversò sul Ki-
sue diverse fasi, la strategia del divide et impera che caratterizzano la manipolazione delle differenze etniche e regionali nel lungo periodo mobutista richiederebbero volumi per essere analizzati.
La situazione come la conosciamo oggi precipita in concomitanza con le vicende ruandesi. All’inizio degli anni ’90 la guerra in Rwanda, accompagnata dal martellante indottrinamento anti-tutsi dei media ruandesi in mano agli estremisti dell’hutu-power, ebbe un impatto decisivo sui processi di selezione della rappresentanza per la Conferenza Nazionale sovrana, funzionando da detonatore di esclusione per le personalità tutsi, e non solo. Le differenze e divisioni fra hutu e
La ferocia dell’esercito congolese è nota e quanto accaduto dimostra il fallimento di uno dei pilastri della progettata rinascita dello Stato: la ricostruzione e il reintegro dell’esercito vu oltre un milione di rifugiati. Due ribellioni (quella del 1996 - 1997 e quella del 1998-2002) hanno completato l’opera e il Paese, malgrado il trattato di pace del 2002 (i cui termini non sono mai stati del tutto rispettati), si è trovato privo di strumenti istituzionali che legittimamente potessero garantire una equa spartizione della rappresentanza fra i diversi gruppi etnici, i partiti e le loro basi locali. Le elezioni si sono risolte in una spartizione della rappresentanza fra le clientele dei boiardi del nuovo regime.
I risultati - subito contestati, soprattutto in Kivu - hanno avvelenato vecchi contenziosi e ne hanno aperti di nuovi, innestando dinamiche di conflittualità in cui la spartizione e il controllo di risorse passa soprattutto dalla definizione e dal riconoscimento o dall’esclusione di diritti di cittadinanza. Il complesso mosaico di guerre, conflitti, violenze, rivalità, alleanze spesso elusive e sicuramente mutevoli, la dinamica di interessi in competizione, l’impatto delle politiche coloniali nelle
tutsi, banyarwanda del nord Kivu e banyamulenge e altre popolazioni del Sud, cominciano a essere recepite e formulate pubblicamente come in Rwanda con allarmanti toni che preludono alla “pulizia etnica”. Quando nel 1994 le milizie genocidarie Interahamwe e i soldati dello sconfitto esercito ruandese si sono riversati nei campi dei rifugiati situati nel sud nel centro e nel nord del Kivu, la loro azione contro i tutsi rwandesi nei campi e congolesi nella regione ha trovato un fertile terreno nella legittimazione di discorsi e di politiche che premiano le rivendicazioni di autoctonia identitaria nell’accesso alle risorse. Nel contesto della lotta politica e per le risorse si coaguleranno anche in Kivu associazioni estremiste che sosterranno l’identificazione di tutti i tutsi congolesi come
rwandesi: cioè stranieri, nemici da espellere dalle loro terre o addirittura da eliminare. Ribellioni di cui il Rwanda è sostenitore - per alcuni promotore e regista - e che non faranno altro se non approfondire la diffidenza e il consolidarsi di un forte sentimento nazionalista congolese, la cui caratteristica principale sarà la demonizzazione del nemico, identificato vuoi coi tutsi Banyarwanda o Banyamulenge, vuoi con i rwandofoni sia tutsi che hutu.
Nkunda viene descritto come il principale rappresentante nella regione di un conflitto che invariabilmente viene identificato come etnico e per l’appropriazione di risorse. È accusato di usare strumentalmente la presenza delle Forze Democratiche di Liberazione del Rwanda (Fdlr, cioè gli eredi dei genocidari), come pretesto per continuare la ribellione e, in questo modo, non solo per mantenere
il controllo di risorse in alleanza con imprenditori locali e rwandesi ma per garantirsi impunità e pretendere rappresentanza politica a livello nazionale. Nkunda, come tutti gli altri attori di questo conflitto, usa le armi per difendere i propri interessi e il governo e il suo esercito non si sono dimostrati capaci né di controllarlo né tantomeno di eliminarlo. Nello stesso tempo, e comunque lo si voglia giudicare, Nkunda non permette di dimenticare quanto e come la politica e l’ideologia possano trasformare le differenze in discriminazioni, e soprattutto quanto l’esclusione dai diritti di cittadinanza e dalla rappresentanza politica possa contribuire alla possibile tragica legittimazione di una sempre possibile deriva verso il genocidio.
Egli sostiene di aver abbandonato la sua posizione di brigadiere-generale a capo del comando generale di Goma, la ca-
mondo
pitale del Nord del Kivu, nel 2003 perché gli accordi di pace non venivano rispettati, ovvero non era garantito (ma anzi veniva osteggiato) il diritto di ritorno dei tutsi congolesi, né la salvaguardia della loro identità e cittadinanza. Inoltre, e soprattutto, il governo non sembrava voler procedere al disarmo delle milizie genocidarie che in larga parte continuano a agire impunemente nella regione.
Nel 2004 aveva occupato con le sue truppe Bukavu, per fermare i massacri di popolazione etnicamente banyamulenge (tutsi del Sud Kivu) in quella che viene definita la “terza guerra” dopo quelle provocate dalle ribellioni (1996-97 e 19982002). Nel 2005 si era mosso accusando i sostenitori del governo di transizione di Kabila (che nel 2006 verrà eletto Presidente) di preparasi a organizzare una “pulizia etnica”nel contesto della pretesa integrazione delle
forze militari congolesi. Il suo movimento - forte di oltre 8mila uomini e che controlla una vasta regione nel nord del Kivu - si è consolidato, ha conquistato consenso anche fuori dalla sua area etnica e ora tiene a presentarsi sempre più non solo come movimento tutsi, ma come difensore delle etnie minoritarie, che hanno perso con le elezioni del 2006 peso e rappresentanza in parlamento e nel governo. Internazionalmente se ne parla come di un “rinnegato”: il governo congolese pur perseguendolo con un mandato d’arresto per insurrezione, guerra e crimini contro l’umanità - non ha la capacità e forse neanche l’interesse a catturarlo. Forse perché Nkunda ha alleati a Kinshasa e un crescente consenso in settori della popolazione del Kivu anche etnicamente non tutsi, delusa da un governo che in larga parte aveva contribuito a eleggere in quella che era la regione di
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Nkunda chiede di parlare da congolese al governo congolese e di essere riconosciuto come attore politico. Ma non si fida della duplicità del governo e di Kabila, di cui è stato guardia del corpo maggior consenso per Kabila e che è stata abbandonata a un’occupazione militare predatoria e ad una crescente violenza. Una spiegazione molto condivisa è che il conflitto e il suo perpetrarsi siano responsabilità delle manovre di interessi prevalentemente stranieri alla caccia di risorse strategiche. Certamente il comportamento poco virtuoso di capitali speculativi che si avvantaggiano della mancanza di regole e della volontà (o della forza) per applicarle ha gravi responsabilità, ma dovremmo soffermarci anche a considerare la natura della leadership nazionale e locale più interessata al saccheggio delle risorse a proprio esclusivo vantaggio e a usare A lato, il presidente del Congo Joseph Kabila. Il 6 dicembre 2006 è stato rieletto, dopo aver battuto alle elezioni Jean Pierre Bemba, uno dei quattro vicepresidenti del governo nazionale instaurato nel 2003, con il 45 percento dei voti contro il 20 percento del suo avversario. Nella pagina a fianco, il generale dei ribelli anti-governativi, Laurent Nkunda
ogni mezzo, con sprezzo assoluto del martirio della propria popolazione, per mantenersi al potere. Nessuna promessa è stata mantenuta: alcuni sostengono che convenga a questo governo profondamente diviso e delegittimato non fare nulla e lasciare il Paese in uno stato d’anarchia, in cui è possibile massimizzare i profitti senza alcuna considerazione del fatto che a pagare sono sempre i settori più vulnerabili, cioè la maggioranza della popolazione che non ha mezzi per difendersi. Una riedizione dell’ultimo stato modello Mobutu.
Il Rwanda del Fpr ha sempre sostenuto d’essere intervenuto nelle due ribellioni per difendere la propria integrità statuale contro gli assalti delle milizie genocidarie rifugiate in Kivu e per salvaguardare tutti tutsi minacciati di pogrom. Il coinvolgimento militare in Kivu del Rwanda, ufficialmente cessato con la firma del trattato di pace, è tuttavia certamente continuato (anche se il Rwanda lo nega) tramite il finanziamento e l’appoggio logistico a forze alleate implicate sia in azioni militari, sia nell’estrazione di risorse a vantaggio di vaste reti di affari. Tutti sono in affari nel Kivu, territorio di confine da sempre in movimento e che da anni vive in una situazione di mancanza di stato. Benché protesti di non essere militarmente coinvolto nell’azione di Nkunda e di altri gruppi alleati, nessuno dubita
dell’appoggio del Rwanda: se non altro, perché la questione tutsi e dei loro diritti è lungi dall’essere risolta.
Nkunda, qualunque sia il giudizio sul suo modus operandi, chiede di parlare da congolese col governo congolese, di essere riconosciuto non come un “rinnegato”, ma come attore politico, di affrontare la questione della cittadinanza. Non si fida non solo la duplicità del governo e di Kabila - che ben conosce essendo stato ai tempi della ribellione del 1996 la sua guardia del corpo - ma soprattutto della sua incapacità. Un’incapacità che egli denuncia piuttosto come mancanza di volontà e di controllare potentati militari che hanno più volte dimostrato la propensione a allearsi a strategie di esclusione genocidaria. Intanto, mentre parte della società civile del Kivu invoca a gran voce un maggiore intervento sia diplomatico che militare dell’Onu e dell’Unione Africana (peraltro assai silenziosa su questo dramma), mentre la Sadc di cui il Congo fa parte offre obtorto collo promesse vaghe di intervento militare (ma solo per la sicurezza delle frontiere), mentre il governo angolano smentisce per ora un suo intervento in armi e Mugabe (malgrado i gravi problemi che l’affliggono) minaccia invece di correre a difesa del suo alleato - d’altronde, i militari zimbabwani sono in affari nel saccheggio di risorse minerarie in Congo - si sono alzate numerose voci anche di personalità importanti nella struttura di potere del Paese che auspicano l’apertura di un inclusivo dialogo fra congolesi. L’unica strada per la pace.
pagina 16 • 18 novembre 2008
mondo in breve Olmert annuncia: presto liberi 250 palestinesi
Terrorismo. Fermato in Francia il capo militare dell’organizzazione basca. Zapatero a Sarkozy: non lo dimenticherò
Colpo all’Eta, preso Txeroki di Massimo Ciullo a polizia francese ha inferto un duro colpo all’Eta (e reso un grande favore a Zapatero) con l’arresto di Mikel Garikoitz Aspiazu Rubina, detto “Txeroki”, ritenuto il capo dell’ala militare dell’organizzazione terroristica basca. L’uomo è stato sorpreso dalle forze di sicurezza transalpine, affiancate da colleghi dalla Guardia Civil, a Cauterets, un villaggio nel sud della Francia, nel dipartimento degli Alti Pirenei, vicino alla frontiera con la Spagna. Insieme a“Txeroki”è stata catturata una donna, la cui identità, in un primo momento non rivelata dagli inquirenti, si è poi rivelata essere quella di un’altra “primula rossa”: Leire Lopez Zurutuza, affiliata al gruppo terroristico basco e accusata di aver preso parte a vari attentati con il Comando Zapa.
L
«l’eccellente collaborazione tra Francia e Spagna nella lotta contro il terrorismo basco». Il primo ministro spagnolo Josè Luis Zapatero ha espresso il suo «profondo ringraziamento» alla Francia e al suo presidente e ha ricordato che la ministra dell’Interno Michèle Alliot-Marie, è stata in contatto tutta la notte con il suo omologo spagnolo Alfredo Perez Rubalcaba e con la polizia francese
L’ascesa del guerrigliero è stata abbastanza veloce, passando da collaboratore del “comando Vizcaya”, uno dei più attivi del gruppo, a leader di tutte le cellule operative
I servizi segreti francesi erano sulle tracce dei due superlatitanti da tempo e da alcuni mesi avevano stretto il cerchio intorno ai che ha condotto l’azione. «Ancora una volta possibili rifugi utilizzati dai separatisti arma- hanno dimostrato la loro volontà di cooperati. Il presunto capo militare dell’Eta aveva af- zione nella lotta instancabile contro il terrofittato la settimana scorsa un appartamento re e i terroristi, una volta di più hanno moin una strada centrale della località pirenai- strato di essere amici della Spagna e degli ca. Quando i reparti speciali hanno fatto ir- spagnoli», ha detto Zapatero, secondo cui ruzione nell’appartamento sia “Txeroki” che «gli spagnoli non dimenticheranno mai quela sua compagna dormivano ed erano arma- sta amicizia della Francia». Ricercato in Spati. Nella perquisizione, le forze di polizia han- gna per l’omicidio del magistrato José Maria no trovato armi, due computer e documenti Lidon Corbi, ucciso ad Algorta (Vizcaya) nel falsi. I due saranno trasferiti nel carcere di novembre del 2001,“Txeroki”è sospettato di Bayonne. La Francia ha già annunciato che essere l’autore dell’attentato di Capbreton, in l’etarra, a cui si attriFrancia, avvenuto il primo dibuisce l’ordine di rotcembre 2007, dove furono uctura dell’ultima trecisi due giovani poliziotti spagua dell’Eta, sarà gnoli della Guardia Civil, consegnato alla giuRaul Centeno, 24 anni, e Ferstizia spagnola. Lo nando Trapero, di 23, impeha comunicato in gnati in attività di supporto e una nota Michele Alcollaborazione con la polizia liot-Marie, ministro francese. Il duplice omicidio dell’Interno francefu rivendicato dall’Eta in un se. Secondo il presicomunicato nel quale si andente Nicolas nunciava l’intenzione di colpiMikel Garikoitz Aspiazu Sarkozy, l’arresto di re le forze di sicurezza spaRubina, detto “Txeroki”, “Txeroki” dimostra gnole “in qualunque luogo”. ritenuto il capo dell’ala militare dell’Eta
L’etarra 35enne era divenuto negli ultimi anni il principale obiettivo delle forze di sicurezza spagnole, perché ritenuto l’esponente più intransigente dell’ala dura del gruppo terroristico basco: il vertice dei commandos dell’Eta, responsabile diretto dell’organizzazione e degli ordini alle cellule terroristiche. L’uomo era considerato il responsabile delle bombe esplose l’antivigilia di Capodanno del 2006, all’aeroporto madrileno di Barajas, in cui morirono due cittadini ecuadoregni. L’attentato determinò di fatto la fine della tregua unilaterale dichiarata dall’Eta, dopo la disponibilità offerta dal primo governo Zapatero per aprire un negoziato per una soluzione pacifica alla questione basca. Nato a Bilbao il 6 luglio del 1973,“Txeroki”, soprannominato anche “Arrano”o “El Indio”, era noto per la sua particolare violenza. La sua scheda redatta dall’anti-terrorismo di Madrid, informa che era entrato nell’organizzazione armata nel 2000, dopo la rottura della precedente tregua rimasta in piedi tra il settembre del 1998 e il dicembre del 1999 durante l’ultimo governo di centro-destra presieduto da Josè Maria Aznar. L’ascesa come capo militare da parte di “Txeroki” è stata abbastanza veloce, passando da collaboratore del “comando Vizcaya”, uno dei più attivi dell’Eta, a responsabile di tutti i gruppi operativi. Il suo probabile successore è Aitzol Iriondo, l’uomo che fornisce esplosivi ai commando e che viene considerato ancora più duro. Poche ore dopo la notizia dell’arresto di “Txeroki”, a Belfast, si è presentato spontaneamente davanti al giudice, Josè Inaki de Juana Chaos, ritenuto uno dei membri più sanguinari del terrorismo basco. Contro di lui è stato emesso, la scorsa settimana, un mandato d’arresto europeo per apologia del terrorismo. De Juana, scarcerato tra forti polemiche lo scorso agosto, dopo 21 anni di detenzione in Spagna, è comparso davanti al tribunale che deve esaminare il suo caso, accompagnato dall’avvocato e dalla compagna.
Il premier israeliano Ehud Olmert ha accolto ieri la richiesta del presidente palestinese Abu Mazen (Mahmud Abbas) di liberare detenuti palestinesi circa 11mila dei quali sono in prigione in Israele - e ha detto che 250 riavranno la libertà già all’inizio di dicembre, in coincidenza con la ricorrenza musulmana dell’Id al-Adha. Il premier ha annunciato il gesto nel corso del colloquio che ha avuto nella sua residenza a Gerusalemme con Abu Mazen. Fonti informate hanno riferito che nessuno dei palestinesi che saranno liberati appartiene a Hamas o alla Jihad Islamica.
Nato: sullo scudo non cambiamo posizione La Nato non cambia la sua posizione sullo scudo spaziale americano che potrebbe essere installato in Polonia e Repubblica ceca. Il portavoce del Patto Atlantico, James Appathurai, ha dichiarato ieri che «Al vertice di Bucarest abbiamo detto che la minaccia missilistica è una minaccia in aumento in Europa ed abbiamo concordato di considerare diverse opzioni di difesa, incluso lo scudo missilistico americano».
Bush chiama Tripoli: accordo sul “fondo terrorismo” Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha chiamato ieri il presidente libico Muammar Gheddafi per esprimergli «la sua soddisfazione» per l’avvenuto pagamento da parte della Libia di 1,5 miliardi di dollari, la somma pattuita che chiude in modo definitivo il contenzioso di anni per le vittime di terrorismo. È la prima volta nella storia dei due Paesi che da Washington parte una telefonata diretta a Tripoli. Il denaro andrà in un fondo speciale di 1,8 miliardi di dollari istituito dai due Paesi per risarcire sia le vittime dell’attentato libico al volo 103 della Pan Am sia quelle dell’attacco americano su Tripoli e Bengasi del 1986, in cui morirono molti civili tra cui la figlia di Gheddafi.
mondo
18 novembre 2008 • pagina 17
Accordo. Il richiamo delle truppe Usa entro il 2011 rischia di gettare il Paese nel caos
Sì al ritiro da Baghdad No alla fuga dall’Iraq di Stranamore llora è ufficiale: via dall’Iraq. Il 24 novembre si firma un accordo con il quale apparentemente Al-Maliki ha messo in imbarazzo il nuovo presidente statunitense, Barack Obama, definendo un calendario di ritiro delle truppe statunitensi che è molto… meno rapido di quello previsto dal presidente designato, il quale, se dovesse tener fede agli slogan della campagna elettorale (ma non lo farà) dobvrebbe completare il rimpatrio dei soldati entro 16 mesi dall’insediamento, ovvero a primavera 2010. In realtà l’accordo è benedetto anche da Obama, che potrà appellarsi alla necessità di rispettare un accordo internazionale faticosamente raggiunto per fare elegantemente marcia indietro. Del resto quello che è andato in scena in questi mesi tra Usa e Iraq è stato un negoziato paradossale: AlMaliki ha bisogno di mostrare al suo elettorato che il governo iracheno riconquista sempre più la propria sovranità e mette fine “all’occupazione” Usa, mentre gli americani in realtà non vogliono restare nel Paese un giorno di più di quanto necessario per evitare un immediato collasso di governo e strutture ricostruiti faticosamente in questi anni, a caro prezzo. Si, qualche base in Iraq anche dopo il pieno passaggio di consegne farebbe piacere, ma se proprio non è possibile si può anche farne a meno.
A
Il futuro presidente Usa Barack Obama; Il generale a capo delle forze militari multinazionali in Iraq, Ray Odierno, ex braccio destro di David Petraeus
Si tratta, dunque, del solito gioco delle parti. Bene inteso, anche considerando il 31 dicembre 2011 come data finale, si corre un bell’azzardo, perché la situazione in Iraq migliora, ma è lungi dall’essere stabilizzata, le forze di sicurezza locali sono tutt’altro che capaci di fare da sole e non sono sufficienti né per qualità né in quantità. Ad AlMaliki peraltro più che altro preme che gli americani si ritirino entro la fine di giugno 2009 da Baghdad e dintorni, ma poi i tempi e le modalità concrete del ritiro dalle oltre 500 installazioni militari che gli Usa mantengono nel Paese saranno dettati dalla realtà della situazione del terreno, non dalla politica. Solo la data finale è stata fissata. Le formazioni irachene hanno ancora un disperato bisogno dei team di consiglieri statunitensi, i quali sono anche indispensabili per ottenere tempestivamente il sup-
porto di fuoco che solo le armi pesanti, l’artiglieria, gli elicotteri e gli aerei Usa possono garantire, così come il trasporto aereo, la ricognizione, la sorveglianza, l’intelligence. L’Iraq non ha forze aeree o navali degne di questo nome e non le avrà di certo entro fine 2011. Del resto un conto è creare forze terrestri motorizzate o di fanteria leggera, altro costituire forze armate regolari comprensive delle componenti “pesanti” e di quelle più tecniche/tecnologiche. Per evitare quindi che si crei un pericoloso “buco” e che l’I-
che la presenza statunitense (perché gli alleati britannici torneranno in patria, al più tardi entro l’estate 2009) va a diminuire, minore diventa la possibilità di al Qaeda o di Moqtada Sadr e affini di sostenere che l’Iraq è occupato e che la guerriglia è indispensabile per cacciare gli invasori infedeli.
La “nuova strategia” avviata dagli Usa in Iraq, del resto, sta dando i suoi frutti, un po’ alla volta: bisogna però avere la forza di evitare di accelerare troppo un processo che è ancora lungi dall’essere consolidato. Già in passato gli Stati Uniti hanno gettato in azione reparti e comandanti iracheni che ancora non erano abbastanza addestrati, maturi ed equipaggiati per far da soli e queste unità si sono semplicemente disintegrate. Anche Al-Maliki quando qualche tempo fa ha preteso di far di testa propria scagliando le sue forze contro l’esercito Mahdi si è salvato dal disastro solo perché gli alleati Usa sono intervenuti massicciamente e gli hanno tolto le castagne dal fuoco. L’Iraq può essere stabilizzato solo se si procede con buon senso e realismo, senza fret-
Ad Al-Maliki preme che gli Usa si ritirino entro fine giugno 2009 dalla capitale. Per le altre 500 installazioni militari i tempi li decideranno i fatti, non la politica raq sia incapace di difendersi dai nemici esterni, oltre che da quelli interni, occorrerà correre e spendere una montagna di soldi. Soldi che, con il barile di petrolio a 60 dollari circa, non saranno più così abbondanti come è accaduto in questi ultimi 18-24 mesi. E questo è un bel problema, perché gli Usa cominceranno anche a stringere il rubinetto delle “donazioni”, mentre i fondi “supplemental” di guerra garantiti dal Congresso andranno a ridursi. E negli Usa poi sono in molti ad averne abbastanza delle bizze di Al-Maliki e in generale della necessità di aiutare un Paese che si mostra “ingrato”, incapace e galleggia sul petrolio.
I politici, insomma, potranno celebrare l’accordo, per la gioia di Al Maliki, che vorrebbe restare in sella proponendosi come “liberatore” del suo Paese da tutti gli stranieri… inclusi gli americani, ma è bene rendersi conto che la scommessa compiuta è di quelle ad alto rischio. È anche vero che a mano a mano
ta o scadenze e obiettivi intermedi che nessuno può dire quando potranno essere conseguiti. Comunque, se a fine 2011 gli Usa potranno davvero lasciare l’Iraq si potrà parlare di un grande successo, raggiunto in meno di 11 anni. Considerando gli errori catastrofici commessi dagli americani dopo la conquista del Paese, sarebbe un di miracolo. Un miracolo pagato con oltre 4mila morti e 30mila feriti e centinaia di miliardi di dollari. Però mentre critichiamo, non dimentichiamoci che solo in questi giorni l’Europa sta decidendo se sia possibile concludere definitivamente la stagione della presenza militare straniera in Bosnia, iniziata nel 1995… dopo quasi 14 anni, mentre possiamo esser certi che a fine 2011 dovremo ancora essere militarmente presenti (e in forze) in Afghanistan. Queste missioni, i cambi di regime e l’esportazione di democrazia si possono anche fare, ma non sono né rapide, né semplici, né poco impegnative o costose. Speriamo che i nuovi inquilini della Casa Bianca se lo ricordino.
cultura
pagina 18 • 18 novembre 2008
Scrittori rimossi. L’autore di Pane selvaggio, La carne impassibile, Le officine dei sensi e I balsami di Venere
Il tecno-ribelle del passato L’uomo è ciò che mangia (e che pensa) Ritorno alla lezione di Piero Camporesi di Furio Terra Abrami ra l’espressioni più fre- fluenza del cibo e delle condi- dopo la loro scomparsa, o forquenti ed abusate che zioni materiali di vita nella for- se per via dell’indigesta acucapita d’incontrare nelle mazione dell’immaginario col- tezza con cui interpretò le nopresentazioni e nelle de- lettivo. Le scritture del passato stre contraddizioni, sembra scrizioni degli scrittori, ci sono vengono utilizzate nei suoi libri quasi che un velo d’oblio si quelle che suonano pressappo- per ricostruire la società prein- stia stendendo sulla sua opeco così: è un autore inclassifi- dustriale attraverso le testimo- ra. La straordinaria erudiziocabile, un irregolare, una voce nianze degli uomini che vi ave- ne dei suoi studi, la singolarità fuori dagli schemi... ecc ecc. Il vano vissuto. Autore dunque dei campi d’indagine, l’affasciche però, è una condizione vali- non sconosciuto, ma gratificato nante tessuto linguistico e inda e pertinente sempre, se è ve- in vita da stima, fama e anche ventivo con cui porgeva al ro, come è vero, che le classifi- successo - sia pure non presso pubblico i risultati delle sue indagini e delle cazioni e gli sue riflessioni, schemi altro non lo hanno sempre sono che invenzioni... strumenti reso - in effetti da non sopravun autore di nicvalutare, e che chia, uno scrittoservono più che re raffinato… ad altro, per orientarsi meglio il grande pubblico - Piero Cam- oggi si direbbe, con un terminella complessità mobile e poresi rimane tuttavia, un auto- ne che avrebbe sicuramente sfuggente della scrittura. Ecco re nei cui confronti l’attenzione disprezzato, un autore “cult”… perché tale interpretazione, in- prestata resta incomparabil- per pochi insomma. Basta riflazionata e divenuta manieri- mente al di sotto di quelli che percorrere sommariamente i stica, si svuota di significato, ir- sono i suoi meriti. titoli di alcuni suoi libri per rita, e finisce per perdere di atcapire i campi d’indagine poco tendibilità ai nostri occhi.Vi so- Attualmente poi, forse per battuti che attraevano la sua no casi però, per cui l’uso di effetto di quel cono d’ombra formidabile curiosità: Il pane queste espressioni, è non solo che investe spesso gli scrittori selvaggio, La carne impassibile, Le officine dei sengiustificato, ma anche si, I balsami di necessario e inevitabile Venere... Scrittore se si vuole rendere dall’ordito acceso e compiutamente l’aurutilante, studioso tenticità dell’autore di - La maschera di Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura dall’erudizione porcui si vuole trattare. carnevalesca, Torino, Einaudi, 1976. tentosa, storico acuto Non c’è tema di sba- Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 19802. e originalissimo, angliare se si afferma che - Cultura popolare e cultura d’élite fra medioevo ed tropologo, sociologo, uno di questi autori sia età moderna, in Storia d’Italia, Annali IV: Intelletvero e proprio reporstato Piero Camporesi. tuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 79-157. ter del passato, Piero Una scheda ipotetica- Introduzione a Alain Corbin, Storia sociale degli Camporesi trovò il mente sintetica doodori. XVIII e XIX secolo, Milano, Mondadori, 1983. suo campo d’indagine vrebbe recitare più o - Il pane selvaggio, Bologna, Il Mulino, 19832. privilegiato nelle temeno così: nato a Forlì - La carne impassibile, Milano, Il Saggiatore, 19832. stimonianze più ecil 15 febbraio 1926 e - Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, centriche e meno fremorto a Bologna nell’aMilano, Edizioni di Comunità, 1984. quentate degli scrittogosto del 1997, si lau- Le officine dei sensi, Milano, Garzanti, 1985. ri italiani. I territori reò come filologo in - La casa dell’eternità, Milano, Garzanti, 1987. parola quanto mai Lettere moderne dopo - I balsami di Venere, Milano, Garzanti, 1989. adatta nel suo caso aver seguito studi di - La terra e la luna. Alimentazione folclore società, preferiti e più congemedicina a Firenze. Milano, Il Saggiatore, 1989. niali al suo straripan- La miniera del mondo. Artieri inventori impostori, Fu docente di Lingua te talento, furono soMilano, Il Saggiatore, 1990. prattutto le scritture e letteratura italiana al- Il brodo indiano, Milano, Garzanti, 1990. sedimentatesi nel pel’Università di Bologna - Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, riodo che va dal Mea partire dal 1969 fino Milano, Garzanti, 1992. dioevo al secolo dei al 1996. Vinse diversi - Le vie del latte dalla Padania alla steppa, Milano, Lumi. Scrittori noti premi letterari nel corGarzanti, 1993. ma anche autori rari so della sua esistenza e - Il palazzo e il cantimbanco, Milano, Garzanti, 1994. e poco frequentati. fu tra i saggisti italiani - Il governo del corpo, Milano, Garzanti, 1995. Una pletora di trattapiù conosciuti al monEdizioni curate: Ludovico di Breme, Il romitorio di tisti, medici, agronodo. I suoi libri sono stasant’Ida (1961) e Lettere (’66), Vittorio mi, enologi, viaggiati tradotti, oltre che in Alfieri, Estratti d’Ossian e da Stazio per la Tragica tori, negromanti, truftutti i principali paesi (’69), Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e fatori, eruditi, filosofi, europei, anche negli l’arte di mangiar bene (’70), Il libro dei vagabondi cronisti, speziali. Un Stati Uniti, in Brasile e (’73), G.C. Croce, Bertoldo e Bertoldino (’78, ’93). repertorio quasi sterin Giappone. La sua minato che viene opera ha indagato l’in-
T
In “Igiene intima e cultura dell’anima”, indaga il rapporto “uomo-natura” attraverso l’accelerazione della rivoluzione tecnologica
Opere principali
spesso offerto secondo quel suo gusto irresistibilmente attratto dall’elencazione barocca. Il tessuto della scrittura, d’altra parte altro unico e inconfondibile, ricorda talvolta, per l’amore portato al difforme e al mostruoso, quello di Gadda.
Capace di estrarre dai meandri più oscuri e obliati delle biblioteche i tartufi più rari e puzzolenti, Camporesi è riuscito a scoprire e a mettere in luce, grazie alla sua acribia filologica, gli aspetti meno indagati - ma non per questo meno significativi - di un mondo oramai definitivamente sparito dalla nostra vita quotidiana. Grazie a un lavoro d’intarsio ricavato dalle citazioni, ci ha offerto le testimonianze dirette di un modo di vivere gli aspetti più quotidiani e materiali, come quelli del cibo e della medicina, che caratterizzava un’epoca irrimediabilmente passata e oramai irrecuperabile altrimenti. Pochi come lui hanno saputo dona-
In alto, lo scrittore Piero Camporesi e, a fianco, un particolare di Notre Dame de Paris che raffigura un amanuense. Qui sopra, Elemire Zolla. A destra, Mario Praz
cultura
mo scrittore, l’eccentrico humus da cui trae ispirazione la sua travolgente scrittura, diventa molto interessante cercare di capire, qual è la posizione complessiva che un autore, tanto raffinato e profondo, prende nei confronti della materia trattata. Una materia che in fin dei conti, lo si voglia o no, si pone come un elemento centrale nella riflessione contemporanea.
re, con un’opera di divulgazione tanto brillante e affascinante, indicazioni così preziose per chiunque ami riflettere sui mutamenti del nostro vorticoso mondo contemporaneo. Ecco, questo è il punto: come in Un tappeto rovesciato, attraverso le differenze ormai incalcolabili di gusto, questo scrittore, sia pure in maniera indiretta, ci parla ancora di noi. Con un’indagine profonda su quelle percezioni dei sensi e su quella cultura materiale e subalterna oramai perduta per sempre, Camporesi riesce a mettere in risalto per antifrasi, la nostra attuale condizione e la distanza che sempre più ci separa da quel mondo.
All’inizio del quinto capitolo della parte seconda, di uno dei suoi libri, dal significativo e inconfondibile titolo Igiene intima e cultura dell’anima, campeggia quest’inizio folgorante: «E’ quasi impossibile misurare l’accelerazione che la rivoluzione tecnologica ha impresso al nostro tempo, valutare la
profonda metamorfosi che ha radicalmente sconvolto il passato, se non ripensando all’abisso che intercorre fra l’attuale rapporto uomo-natura e quello comunemente percepito nella vecchia società» (La miniera del mondo, Il Saggiatore,1990. p. 233). Un’affermazione questa, così vera e incontrovertibile, che a prima vista può apparire addirittura banale tanto la sua profondità è in realtà vertiginosa. L’attenzione e la partecipazione con cui indaga i lacerti residui del nostro passato, ci ricorda cosa eravamo e, misurandone la distanza che ci allontana, ci parla indirettamente di cosa siamo e di cosa stiamo diventando: «Il gusto del sangue permeava la vecchia società, violenta, crudele, eccessiva: dalla nascita alla morte la vista e l’odore del sangue facevano parte del corredo umano e sociale di ognuno». (Il sugo della vita, Oscar Mondadori,1988. p.19 ). Considerato dunque l’originale campo d’indagine di questo singolarissi-
La necessità di non recidere ciò che lega l’essere umano alla natura nel suo rapporto più profondo e materico, la preoccupazione di perdere definitivamente questo rapporto - a causa dell’inavvertite derive della società tecnocratizzata lo inducono a sottolineare i pericoli che corriamo e da cui mette continuamente in guardia. Non è raro ascoltarlo biasimare e, direi quasi condannare, l’acquiescenza contemporanea alla tecnologia. Accade spesso di sentirlo ammonire e fare presente che certi inferni del passato non erano, per certi versi, tanto peggiori di quelli che solo la presuntuosa superficialità contemporanea impedisce di vedere attorno a noi. Sono descrizioni queste in cui lo straordinario impasto linguistico del suo stile si esalta nell’uso di una tavolozza pregna di colori dall’impatto travolgente. Di volta in volta, inebriante e nauseabondo come la materia che rappresenta. E’ una posizione questa però, che a differenza dello stile rutilante ed eccessivo con la quale viene espressa, esprime un atteggiamento verso la rivoluzione tecnologica, più ragionevole e moderata di quanto non appaia a prima vista. Pur lascian-
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dosi talvolta trascinare a delle forme di compiacimento nella rappresentazione della Vecchia società - forme che sono poi in fondo degli irresistibili atti d’amore verso ciò che descrive -
Lo straordinario impasto linguistico del suo stile si esalta nell’uso di una tavolozza pregna di colori dall’impatto travolgente Camporesi non assume mai un atteggiamento troppo nostalgico: né di tipo reazionario, né di tipo rivoluzionario anti-modernista. Le stesse testimonianze che non a caso sceglie, e a cui attinge continuamente, rivelano troppo chiaramente gli
aspetti anche orribili e intollerabilmente violenti di quella civiltà. Soprattutto con il passare degli anni poi, con il diminuire delle reazioni polemiche ai primi impatti dello stravolgimento tecnologico, la sua posizione si fa più avvertita e profonda. A questo proposito c’è un‘ultima osservazione da fare: è forse bene avvertire, chi non avesse mai avuto occasione di leggerlo e volesse avvicinarsi a quest’autore, quanto la sua scrittura si è andata nel corso del tempo evolvendo e diventando - a nostro parere - sempre più godibile. E’ proprio negli ultimi lavori che la sua opera raggiunge gli equilibri più preziosi e i risultati più riusciti. Un lavoro che anche per l’impianto interpretativo, parallelamente a quello stilistico, si è andato allontanando sempre più da posizioni eccessivamente dicotomizzanti come quelle di Bachtin o di Le Goff.
Per capire infine qual è l’ordine di grandezza e di livello culturale in cui ci muoviamo, si può dire che la sua figura si ritrova - per forza creativa, per capacità espressiva e per altezza d’indagine - in compagnia di quella rara specie di scrittori-studiosi che come Mario Praz, come Giovanni Macchia, ed Elemire Zolla (per citare solo autori scomparsi, ma potrei pensare anche ad autori viventi come Citati, Calasso, Ceronetti, Magris) sono riusciti a coniugare la forza inventiva con la riflessione culturale più profonda… vale a dire a quanto di più alto e di più creativo la nostra civiltà letteraria ha prodotto nella riflessione su se stessa e sul mondo.
cultura
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ella chiesa di Sant’Agostino a Roma si trova la famosa Madonna dei pellegrini di Caravaggio. Due anziani mendicanti, sporchi e mal vestiti, con i piedi gonfi di chi ha molto camminato, fissano rapiti Gesù bambino tenuto in braccio da una Madonna bellissima, sensuale, che sembra dar loro il benvenuto appoggiata sullo stipite di una porta. Sentitevi pellegrini, mendicanti, e avrete il privilegio di questa apparizione: questo sembra essere il messaggio del quadro. E proprio a questo quadro è andata la mia mente, non appena ho incominciato a leggere La via Lattea (Edizioni Longanesi), il libro scritto in forma di conversazione sul Cammino di Santiago de Compostela da Piergiorgio Odifreddi, Sergio Valzania e Franco Cardini. Si tratta di un libro scaturito da un programma radiofonico trasmesso da Rai3 e mandato in onda dalle diverse tappe del Cammino, dal 24 aprile al 26 maggio di quest’anno.
N
Dal 24 aprile al 5 maggio, da Roncisvalle a Burgos, i protagonisti sono Piergiorgio Odifreddi e Sergio Valzania; dal 6 al 12 maggio, Da Burgos a Leòn, Piergiorgio Odifreddi e Franco Cardini; dal 13 al 26 maggio, da Leòn a Santiago, di nuovo Odifreddi e Valzania. In questo lungo itinerario di quasi ottocento chilometri, i tre cu-
Itinerari. Il libro su Santiago de Compostela di Odifreddi, Valzania e Cardini
Un «fascio di strade» lungo la Via lattea di Sergio Belardinelli
Il volume è scaturito da un programma radiofonico trasmesso da Rai3 e mandato in onda dalle diverse tappe del Cammino riosi pellegrini, proprio come i protagonisti dell’omonimo film di Bunuel, conversano ora accanitamente ora amabilmente sull’universo mondo. L’ateo impenitente, Piergiorgio Odifreddi, tiene testa con simpatica ostinazione alla fede degli altri due, i quali a loro volta lo incalzano nel tentativo di mostrare le sue superstizioni. I numeri “transfiniti” di Cantor si intersecano con i cieli danteschi, la logica matematica con quella teologica, la teoria dei quanti con le teorie della comunicazione, la storia dei templari con
i theologumena aritmetica; ci sono poi Darwin e Cervantes, le formiche e don Chiscotte; il tutto mescolato con le vesciche ai piedi, i tendini che fanno male in salita e in discesa, la splendida natura e le altrettanto splendide cattedrali di Spagna lungo il Cammino. Non dirò delle tantissime cose che si imparano da questo libro – per la
prima volta, ad esempio, credo di aver capito la nozione di “sezione aurea”; non dirò nemmeno della simpatia che, leggendolo, ho maturato nei confronti di Piergiorgio Odifreddi – assai strana se penso che spesso mi capita di fare riferimento a lui come prototipo di un modo di pensare sedicente “laico” che non mi piace. Dirò invece di
una importante conferma che si trova in questo libro e di un po’ d’amaro in bocca che resta dopo averlo letto.
La conferma riguarda soprattutto la nostra storia europea. Magari gli autori ne saranno sorpresi, ma ogni loro conversazione, non importa se teologica o scientifica, estetica o gastronomica, sembra ribadire qualcosa che purtroppo stiamo facendo di tutto per dimenticare: ciò che chiamiamo Europa (questa a Odifreddi non piacerà) l’hanno fatta soprattutto i pellegrini. Sono loro gli artefici di quel «fascio di strade», come lo chiama Cardini, che, dalla Germania, dalla Francia, dall’Inglilterrra, andavano verso Santiago e verso Roma, costruendo così l’Europa che conosciamo. Quanto all’amaro in bocca che resta una volta arrivati alla fine di questo libro, esso riguarda la distanza che separa gli autori (e i lettori!) dai pellegrini di Caravaggio di cui dicevo all’inizio. Tanto questi ultimi riescono a tenere gli occhi su Gesù, la vera meta di ogni pellegrinaggio, e tanto poco ci riusciamo noi. Non a caso ciò che manca nel libro è precisamente la fede che c’è invece nel quadro.Valzania comunque non se la prenda. Non è colpa di nessuno. La via Lattea rimane un bel libro, anche se fare un pellegrinaggio vero è sempre più difficile.
sport
18 novembre 2008 • pagina 21
Gli antieroi della domenica. La nazionale italiana di rugby: bella, forte ma affetta dalla sindrome del “sto lì lì per vincere”. E invece...
L’importante è... perdere di Francesco Napoli
elli son belli, non c’è che dire; forti son forti, a vederli prima che la palla ovale rotoli in lungo e in largo sul prato. Loro non devono chiedere mai, evidentemente, ma gli appassionati e i tanti fedeli di questo sport a loro qualcosa hanno da chiedere. Così, en passant, una vittoria? Perché vincenti son… quello un po’ meno. Osservandoli giocare si ha la sensazione dell’incompiuta: sempre lì lì per sbocciare ma che per una ragione o un’altra la squadra non decolla. Il gruppo, termine magico per qualsiasi sport di squadra, c’è e lo garantisce il commissario tecnico Nick Mallett, ma non riesce a fare il salto di qualità, altra espressione buona per tanti usi sportivi.
B
Si tratta dei 15 ammazzasette della nazionale italiana di rugby alle prese in questi giorni con tre test match, termine mediaticamente più penetrante e offensivo, basti presidiare per qualche minuto le reti Sky per comprenderne il senso, ma che, se non erro, sta per amichevoli. Hanno iniziato alla grande, questo è vero, con una sconfitta patita ma “onorevole” contro i forti aussie, canguri o, per i più profani, nazionali australiani l’8 novembre scorso. Il salto di qualità, e mi sia concesso il gioco di parole, deve esserci stato se i commenti di tutti, addetti e non addetti, sono stati incoraggianti. C’è stato tutto un chiacchiericcio di piloni e prime linee, tallonatori e mischie vinte e perse ma, come sempre capita, di “buona prova” e “solo il ri-
Hanno iniziato alla grande, stanno finendo sempre peggio. Storia di una squadra che per una ragione o un’altra, non decolla mai sultato ci ha punito”, “abbiamo retto bene all’urto degli avversari più forti”, e che urto signori miei. I piloni australiani erano più solidi di quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria un po’ tutta da rifare. Poi mi viene in mente: ma la palla del rugby è ovale mica tonda come quella del calcio nostrano dove c’è sempre modo, a parole, per salvaguardare panchina e ingaggi. L’unico assunto incontrovertibile è che non c’è commento sportivo lusinghiero che possa tenere: Australia batte Italia 30 a 20. Stop. Pazienza, può arrivare il riscatto una settimana dopo. Con il 50% di possibilità di batterli, si saranno chiesti il nostro pallaovale commissario tecnico e il capitano Parisse, vuoi che ci capiti proprio l’altra metà, quella perdente, contro i Pumas, nazionali argentini per i profani? Lo confesso apertamente: la mia perizia tecnica mi impedisce di arrivare a comprendere se «puntare su sei prime linee» ed essere convinti che «tutti i pilo-
ni ed i tallonatori convocati per questi test saranno in campo o in panchina», come ha speranzosamente indicato Mallett prima dell’incontro, potesse essere sufficiente a fare il grande salto. Credo invece che all’orgoglio nazionale rugbistico poteva bastarne anche uno piccolo piccolo però vincente per raggiungere la meta tanto agognata di una vittoria di un certo rilievo, seppure sempre in amichevole sia ben chiaro, contro gli argentini. Ma a dar retta al risultato all’Italia ovale è rimasto un 14 a 22. Vittoria al minimo sin-
Sopra, un’immagine della nazionale italiana di rugby durante l’incontro Italia-Argentina. A destra, l’atletapromessa Andrea Marcato
dacale per loro che si sono fatti forti di una irriconoscibile pochezza del XV azzurro. Le cronache parlano di scarso gioco alla mano e torpore bradipico nella propria trequarti da parte dei nostri nazionali. Un evidente sold out timbrato sulle date delle prime due apparizioni della nostra nazionale rugbistica appare netto e chiaro su alcune pagine pubblicitarie di quotidiani sportivi. Ed è proprio sold out: esaurita sembra la spinta verso la vittoria, tanto che nel ranking mondiale dopo aver stazionato tra i primissimi,
tra quelli del Sei Nazioni, le 5 del Regno Unito più gli amatiodiati cugini d’Oltralpe, allargata negli anni passati quasi ad hoc per noi, ora siamo scivolati all’11° posto. Certo anche a quei tempi si passava di sconfitta in sconfitta. Ma vuoi mettere perdere con onore 20 a 7 a Twickenham contro maestri inglesi, Alessandro Troncon capitano, con queste ultime deludenti prove?
Esaurito sembra anche l’interesse televisivo se il primo tempo dell’ultimo Italia-Argentina pare sia passato tra slogature di mascelle per sbadigli ed emozioni vicine allo zero (raccontano le cronache). Attenzione, però, l’esaurimento potrebbe vivere un momento di autentica rivalutazione. Sabato prossimo è di nuovo in scena a Reggio Emilia il nostro XV. Avversari le Pacific Islanders (Isole del Pacifico, che non sono come le Fær Øer del calcio). Accorti, monta una certa euforia che i risultati non lasciano presagire a onor del vero. Andrea Masi, autore dell’unica meta contro l’Argentina, subito dopo il match ha dichiarato con candore da duro e puro: «Giocare estremo mi piace, nelle ultime due partite internazionali mi sono divertito come non mi accadeva da tempo». Beato lui! Ma non contento ha aggiunto che i Pacific Islanders sono una «squadra capace». Incrociamo le dita, per non dire quanto si dice prima di un debutto teatrale, e speriamo che la nostra nazionale di rugby non arrivi nuda alla meta.
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da ”Le Figarò” del 13/11/2008
Volare sotto il cielo di Berlino di Patrick Saint-Paul ultimo volo passeggeri è partito alle 21.50, del 6 novembre, lasciando l’area d’imbarco. Sono stati percorsi gli ultimi metri di rullata, sulla taxiway, prima della posizione attesa, in testata pista, poi l’autorizzazione al decollo. Manetta tutta avanti e la storia di Berlino «città libera», del punto d’arrivo del ponte aereo per salvare la capitale tedesca dalla «blockade», volerà come polvere dalle ali di quest’ultimo ricordo del passato. Ha chiuso i battenti il leggendario aeroporto Templehof nella storica capitale, proprio in mezzo all’Europa. Milleduecentotrenta metri di asfalto, nel pieno centro cittadino. Prima simbolo del nazismo, poi emblema della lotta al comunismo. Tra il 1948-’49, è lì che le Forze alleate concentrarono lo sforzo logistico, per far arrivare le migliaia di tonnellate di aiuti, tra cui il preziosissimo carbone da riscaldamento per l’inverno, nel tentativo di liberare la città dal giogo comunista che voleva piegarla. L’edifico principale è un vero pezzo d’architettura di regime ed è classificato monumento storico. Gli ultimi passeggeri attendono i loro bagagli, nel mezzo di una gigantesca sala piena di curiosi e fotografi. L’architetto britannico Norman Foster l’ha chiamata «la madre di tutti gli aeroporti».
L’
Costruito nel 1923 ha aveva subito alcune ristrutturazioni, tra il 1936 e il 1941, per mano dell’architetto del nazismo Albert Speer. Doveva essere la porta d’ingresso al Terzo Reich, il benvenuto dentro l’impero che mai sarà, per fortuna. L’ingresso marmoreo di 90 metri di ampiezza per 14 di altezza, riflette bene la megalomania di Hi-
tler. L’edificio principale, semicircolare che confina con le due piste, era stato progettato per accogliere sopra i suoi terrazzi quasi 85mila persone. Spettatori delle parate per la gloria del Reich. È stato il primo scalo ad avere i settori arrivi e partenze separati. Si trova all’interno di un area di 396 ettari e già ci sono numerosi progetti per una sua riconversione, che prevedono un museo, un centro culturale, un parco.
Il comune di Berlino ha deciso di chiuderlo, perché ormai inadatto alle esigenze del trasporto aereo di una moderna capitale. Soprattutto troppo costoso, per i soli 350mila passeggeri transitati di lì, nel 2007; contro i 19 milioni di Tegel e Schönefeld, gli altri due scali berlinesi. Intanto i tre piani sotterranei hanno già acquistato l’atmosfera di una città fantasma. Pensati come bunker dai nazisti, poi utilizzati dalla spie americane per tener d’occhio il blocco comunista. Wolfang Holefeld, un ex funzionario della manutenzione, è ormai l’unico a conoscere il funzionamento dei 9mila interruttori dell’impianto luci. C’è un campo da basket, uno da bowling e Wolfang ne conosce ogni anfratto. Verso la fine degli anni Quaranta, quel bunker era il posto di lavoro per 1.400 americani. All’epoca, durante il «Blocco», c’era un atterraggio ogni novanta secondi. Protagonisti i Dakota militari, i Dc-3 civili e i nuovi quadrimotori C54, che sostennero il grosso dell’operazione del gigantesco ponte aereo durato 14 mesi, dal 24
giugno 1948 all’11 maggio 1949. E naturalmente i loro piloti, che pagarono anche un prezzo in vite umane. Conosciuto il «venerdì nero», il 27 luglio 1948, quando un incidente coinvolse tre velivoli, lasciando l’aeroporto bloccato per un giorno. Si trattava di rifornire la capitale con 5mila tonnellate giornaliere di generi alimentari e di sussistenza primaria, per far sopravvivere questa isola occidentale nel cuore dell’allora Germania comunista. Un parto, non tanto ben riuscito, degli accordi di Yalta e di ciò che ne derivò nel Posdam agreement. Arrivarono ad effettuare più di un migliaio di missioni in un giorno: uno sforzo organizzativo senza pari. Alcuni di questi aerei vennero ribattezzati i «Rosinenbomber». Un pilota chiamato dai bambini «Chocclate Unlcle», diede l’idea per un nuovo tipo di missione: paracadutare canditi, dolciumi e chewing gum. Venne chiamata operazione «Little Vitties» e fu un grande successo anche per la propaganda.
Oggi sono diventati un’attrazione turistica e verranno trasferite sull’aeroporto di Schönefeld, un tempo in territorio della Repubblica democratica tedesca. Intanto il nostro amico Wolfgang si è già riciclato come guida turistica.
L’IMMAGINE
Un vero e proprio scandalo fare in modo che l’errore medico non sia più un «reato» Mi lascia a dir poco sconcertata la notizia, riportata un po’ ovunque su tutti i quotidiani nazionali online, che l’errore medico non sarà più giudicato reato. Già pronto da tempo infatti un progetto di depenalizzazione dell’errore medico annunciato a giugno dal sottosegretario al Welfare Fazio, e auspicato dalle categorie dei camici bianchi. Insomma, sarà meno automatico per i cittadini citare il dottore in giudizio. La legge si affianca a quella già in discussione al Senato, avviata da Antonio Tomassini. Fortunatamente non sono mai stata interessata direttamente da errori medici tali da richiedere addirittura una denuncia e un provvedimento penale. Ma trovo davvero sconcertante scegliere di tutelare chi (anche solo per errore senza dolo) può mettere a repentaglio la vita dei cittadini, e non invece il cittadino stesso, che di fronte alla malattia è inerme e si deve giocoforza affidare alla medicina. Cordialità.
Amelia Giuliani - Potenza
REPUBBLICA, LA SINISTRA E I SENATORI ”ABBRONZATI” Quelli che fanno parte, da sempre, del plotone in corvée dei colti, degli intelligenti ed eticamente superiori già lo sapevano. Scrivi su la Repubblica, il quotidiano che ha il merito di aver contribuito alla nascita del Partito democratico e di aver lanciato prima Rutelli e poi Veltroni, la leggi o la citi, e sei protagonista. Ma ora lo sa anche il premier Silvio Berlusconi. Apprendiamo che la definizione d’effetto di Obama come “senatore abbronzato”, che tanto ha fatto scrivere e parlare il mondo intiero, non è opera dell’ingegno del nostro beneamato presidente del Consiglio, bensì di quello dell’eccelso cronista e americanista de la Repubblica che risponde al no-
me di Vittorio Zucconi. Ohi ohi, che per la nostra sinistra ora siano davvero profondi rossori e seri dolori? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
SONO A DIR POCO DISGUSTATO DALLA DECISIONE SU ELUANA Sono disgustato dalla decisione della Cassazione. Sono contrario – in assoluto - alla possibilità che un uomo procuri la morte di un suo simile, in qualunque stadio della sua vita e ancor più se questi ha perduto le sue piene capacità. Ciò detto, auspico che sia arrivato finalmente il momento del silenzio sulla vicenda Englaro. O che, almeno, prima di proferire nuove condanne e censure nei confronti della famiglia della po-
Sei un ibrido? Vivi più a lungo Un’arma contro l’estinzione? Semplice, il sesso, meglio se promiscuo. Sembrano “pensarla” così alcuni coralli indo-pacifici, che, vista la scarsità di “partner” della loro specie, non disdegnano di accoppiarsi con coralli che fanno parte della stessa famiglia Acropora, ma sono di una specie diversa (Nella foto la barriera corallina di Plantation Key, in Florida, vista dal satellite) vera Eluana, si rifletta su ciò che può accadere nell’animo umano, dopo una assistenza di diciassette anni ad un proprio congiunto in coma. Cordialità.
Enrico Pagano - Milano
LA CASSAZIONE DÀ VITA A PERICOLOSI PRECEDENTI Il caso di Eluana è troppo tragico per essere commentato con fa-
ciltà, perché appartiene a quella sfera delle coscienze individuali che hanno il compito di decidere per altri. Si può capire così la disperazione di un padre, ma non la faciltà con la quale la Cassazione si è comportata, invertendo la tendenza di ammissibilità sui ricorsi presentati alle Procure Generali. Una decisione che per la sua unicità è stata definita co-
me il primo caso di eutanasia legalizzata in Italia. Se un caso disperato può essere improbo di certezza, fa sicuramente paura cosa può scatenare nel futuro, un sasso doloroso buttato nello stagno delle relatività umane e, ancor più, di quelle giudiziarie. Cordialmente ringrazio la redazione per l’attenzione. A presto.
Bruno Russo - Napoli
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Passata la festa gabbato lu santo Che doccia fredda la vostra lettera! In altra stagione ci sarebbe da buscarsi un malanno!... Dire che tutti questi giorni mi sono data dattorno col dentista, col tintore, col calzolaio per rattopparmi alla meglio senza pensare minimamente a quell’ormai... tanto semplice nella sua crudezza! Vedete? non soltanto una birichina sono rimasta ma un’ingenua pure. Questi lunghi dieci anni di prova m’avrebbero dovuto aprire gli occhi e convincermi di questa sacrosanta verità: che per voi, cioè, «passata la festa gabbato lu santo». Ma, quando si è fatti diversamente, quando si ragiona dalla metà in su, col cuore e colla testa? Stavo per dire: peggio per noi... No! peggio per voi che non godete più di un sol sprazzo di luce. Io vi sono grata ugualmente di queste scintille, di questi slanci che mi hanno sollevata, anche se per poco, dal terre à terre della vita. Adesso, dato e non concesso che un tantino di disillusione esista, mi conforto pensando che il viaggio era lungo. La santa filosofia mi viene in soccorso... e tira avanti. Non pensiamoci più. Si può essere Amici affezionatissimi e non sentire il bisogno di vedersi. E allora? Spengo il lume e buonanotte Senatori. Francesca Giovanna Castellazzi a Giovanni Verga
ACCADDE OGGI
SOLO GESÙ HA RISPETTATO ALLA LETTERA TUTTI I COMANDAMENTI Due premesse ignorate a troppi commentatori dell’Humanae Vitae e della posizione cattolica ortodossa sulla procreazione naturale all’interno del sacramento matrimoniale. La prima è che soltanto Gesù uomo perfetto (oltre che vero Dio) conobbe la massima felicità che si può ottenere sulla terra seguendo tutti i comandamenti. La seconda è che ovviamente la Chiesa non intende vietare la contraccezione ai non sposati perchè ad essi chiede di vivere in castità il celibato/nubilato. Con o senza preservativo chi copula fuori dal matrimonio è già all’esterno e indifferentte agli insegnamenti morali cattolici in materia. Gli sposi cattolici che usano gli anticoncezionali, invece, sono semplicemente peccatori come me, il Papa e tutti i cristiani.
Matteo Martinoli - Milano
TENIAMO CONTO ANCHE DEI PASSEGGERI DI ALITALIA La rabbia di coloro che cercano di minare gli accordi, con riferimento all’Alitalia, non può e non deve essere più rimarchevole di quel senso di impotenza che provano i passeggeri che per ore attendono all’aeroporto, parlando tra di loro anche della diffusa possibilità che i loro bagagli vadano in un’altra direzione nel migliore dei casi, o che vengano devastati. Le minoranze sono coloro che vivono con un punto interrogativo sulla propria testa, e per loro la sinistra ha preparato solo chiacchiere. Cerchiamo di renderci conto di
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
18 novembre 1918 La Lettonia dichiara l’indipendenza dalla Russia 1926 George Bernard Shaw rifiuta di accettare il premio in denaro del suo Premio Nobel, dicendo: «Posso perdonare Alfred Nobel per aver inventato la dinamite, ma solo un demone con sembianze umane può aver inventato il Premio Nobel» 1928 Esce il cortometraggio animato “Steamboat Willie”, il primo cartone sonoro completamente sincronizzato, diretto da Walt Disney e Ub Iwerks 1959 Anteprima mondiale del film “Ben-Hur“ di William Wyler, al Loews Theater di New York 1971 Il gruppo hard rock dei Led Zeppelin pubblica un album senza titolo, spesso chiamato Led Zeppelin IV, nel quale compaiono “Rock & Roll”e “Stairway to Heaven” 2003 Lutto nazionale in Italia, nel giorno dei funerali di Stato dei 19 connazionali morti in un attentato a Nassiriya in Iraq 2007 Silvio Berlusconi in piazza San Babila a Milano annuncia la nascita del Popolo della Libertà
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
chi è realmente senza difesa efficace, come le vittime di una giustizia talvolta latitante, costretti a guardare le possibilità offerte a coloro che hanno ferito i loro diritti, nella solitudine del loro orizzonte.
Lettera firmata
I “FASCIO-FANNULLONI” (E QUELLI DI SINISTRA) Ci risiamo. Il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ne ha detta un’altra delle sue. E forse, questa, è ancora più assurda e ridicola delle altre. Perché insomma, affermare (con tutta quella convinzione di cui solo lui sembra capace) che i cosiddetti “fannulloni” stanno tutti a sinistra... beh, francamente mi sembra fuori dal mondo. Ma vabbè, qualcuno può obiettare: e da Brunetta cosa ti vuoi aspettare? Bene, giustissimo. Andiamo allora alla replica del leader della Cgil Guglielmo Epifani, che ha tuonato poco dopo l’accusa del ministro: “Lo provi!”.Come giudicare dunque questa “pronta e illuminata” replica? Strano a questo punto che non sia arrivata tempestivamente un’altra perla meravigliosa dal sindacato vicino (sempre meno in realtà) alla destra. Ci aspettavamo infatti di vedere la Renata Polverini, a capo dell’Ugl, rispondere a Brunetta: “No no, guardate che i fannulloni mica stanno solo a sinistra, stanno anche a destra!”. Ma si può perdere tempo litigando sui fannulloni? Cordialmente ringrazio per l’ospitalià sulle pagine del vostro giornale. A presto.
Gaia Miani - Roma
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
PER CHI SUONA LA CAMPANA Vale la pena di lottare per migliorare le condizioni del proprio territorio, della propria città, del proprio Paese? Questa domanda potrebbe sembrare arrendevole, ma in realtà non lo è. Il Sud, la Capitanata, i Piccoli Comuni delle aree interne, per ora non hanno che un futuro sempre più amaro; i giovani continuano ad andar via, i presunti politici continuano a speculare sulle esigenze di un territorio martoriato. Nulla si muove o se succede avviene così a rilento da rendere impercettibile il tanto agognato cambiamento. L’Italia è un paese che invecchia, bloccato dal centro alle periferie. La politica continua ad applicare vecchie regole ad un mondo economico che cambia periodicamente. Servirebbe un piano nazionale ed interregionale per rilanciare i centri minori, con un potenziamento delle infrastrutture; servirebbe un forte rilancio delle nicchie di qualità che esistono nell’Appennino italiano; sarebbe necessario quintuplicare i fondi per la montagna, costruire distretti produttivi per valorizzare la qualità delle specialità culinarie. Questo potrebbe essere solo l’inizio di una inversione di tendenza. Eppure sembra che la politica nazionale, regionale, provinciale e comunale, tranne rare eccezioni, non vada in tale direzione ed è un peccato perché chi lo ha fatto (le eccezioni) ha fermato lo spopolamento, ha valorizzato il proprio territorio, da un punto di vista culturale, turistico e amministrativo. Vanno dunque perseguite politiche di area, con percorsi condivisi con le varie attività associative presenti sul territorio. Vanno colte le peculiarità, evidenziate le potenzialità, investiti i fondi pubblici. Basti pensare che il settore dell’agricoltura, fulcro della nostra economia, è in condizioni tutt’altro che floride e gli agricoltori sono scarsamente tutelati dalle varie forme sindacali. Bisogna pensare al futuro dell’Italia, avere politiche lungimiranti, essere propositivi e le Istituzioni devono essere più attive e vicine alle istanze dei loro rappresentati con provvedimenti concreti. Luigi Ruberto CIRCOLO LIBERAL MONTI DAUNI
APPUNTAMENTI VENERDÌ 21 E SABATO 22 NOVEMBRE 2008 OTTAVA EDIZIONE COLLOQUI DI VENEZIA PALAZZO CAVALLI FRANCHETTI La nuova America. Come cambierà il mondo dopo l’era Bush. Gli amici dei Circoli liberal sono invitati a partecipare Vincenzo Inverso
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PAGINAVENTIQUATTRO Ecologia. La battaglia di uno sherpa per preservare la sua montagna
Un water portatile per salvare
L’EVEREST di Vincenzo Faccioli Pintozzi
a soluzione ai problemi ecologici dell’Everest passa da un water. Ne è convinto Dawa Steven Sherpa, giovane scalatore nepalese e guida per le diverse missioni occidentali che affrontano la “vetta del mondo”, che in questi giorni sta tentando di diffondere fra gli scalatori una sorta di water portatile. All’atto pratico, si tratta di un secchiello con coperchio auto-igienizzante, che dovrebbe servire per rendere meno inquinanti le spedizioni sul monte Everest. Sherpa, che ha già scalato una volta con successo il monte, sostiene infatti che le centinaia di alpinisti che ogni anno arrivano alla vetta più alta del mondo 8.850 metri - si “liberano”all’aperto o fra le rocce, visto che il campo base non ha servizi igienici. E questo, nonostante la presenza millena-
L
ria dell’uomo sul pianeta, rovina l’ecosistema montano. La guida conduce da anni la sua battaglia a favore dell’ecologia del Nepal: nel corso delle sue spedizioni, passa molto tempo a raccogliere i rifiuti abbandonati dalle precedenti spedizioni. La squadra dell’ultima scalata, avvenuta lo scorso maggio, ha già collaudato il secchiello: «È portatile, comodo e molto sicuro. Voglio promuovere qualsiasi cosa che tratta i rifiuti in montagna e li elimina».
Nel corso della sua missione, la spedizione di Sherpa ha raccolto 965 chili di lattine, bombolette di gas, rifiuti alimentari, tende e alcuni rottami di un elicottero italiano schiantatosi 35 anni fa, oltre ai resti di un alpinista inglese morto nel 1972. La sua squadra ha anche ri-
portato giù 65 chili di deiezioni umane prodotte dai suoi 18 membri, lasciate ad un gruppo ambientalista al campo base per essere trattate. Al momento non esistono altri contenitori progettati per uso umano di questa dimensione e peso, ha detto Sherpa a proposito della piccola toilette portatile, «ma questo deve divenire uno strumento richiesto per legge alle spedizioni che affrontano l’Everest. Non possiamo fare finta che il problema non esista, o sarà troppo tardi per affrontarlo con successo». A dirla tutta, le autorità nepalesi sono scettiche sull’argomento: alcuni deputati di Kathmandu, che hanno trattato la questione in una seduta del Parlamento, sono convinti che i rifiuti umani «non siano un problema ecologico, ma totalmente naturale».