ISSN 1827-8817 81126
Nulla costa meno alla passione del mettersi al di sopra della ragione: il suo grande trionfo è di avere la meglio sull’interesse
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9 771827 881004
Jean De La Bruyère
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Il trionfale ritorno dell’Armata Rossa
Una parata dell’esercito russo, che Medvedev e Putin vogliono riportare all’antico splendore
di David J. Smith a pagina 14
Bertolaso: «A Rivoli non è stata una fatalità» In coma un bambino in un istituto di Milano
Si può andare a scuola come in guerra?
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La recessione durerà fino al 2010
IL FILOSOFO FRANCESE SULLA NUOVA AMERICA La violenza planetaria, la sfida di Cina e Russia, il crack globale della finanza e, su tutto, la guerra tra potenza tecnica e democrazia. Il futuro presidente incontra un secolo segnato dalla “caduta degli dei”. Saprà invertire la rotta?
di Gianfranco Polillo uovo grido di dolore dell’Ocse per le sorti dell’economia mondiale, in generale, e di quella italiana, in particolare. L’orizzonte indicato è ormai quello di una recessione, che ha il passo lungo. Dal tunnel, sempre che quelle previsioni risultino corrette, non si uscirà prima del 2010, quando la crisi, almeno così si spera, sarà alle nostre spalle. Nel frattempo occorrerà tirare la cinta e sopportare con pazienza l’ira del buon Dio, dopo gli eccessi consumati negli anni passati.
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Dove in Europa? L’ultima lite nel Pd
di Giuseppe Bertagna a tragedia del soffitto omicida di Rivoli colpisce tre volte. La prima, la più importante, riguarda la vita perduta di un giovane e quella di altri ragazzi menomata, per alcuni in modo molto grave e, soprattutto, permanente. Ogni vita è unica. Non esistono riscatti che la possano compensare in tutto o in parte. A maggior ragione se la sua unicità è compromessa in un luogo, la scuola, che dovrebbe, al contrario, essere il luogo sociale che più la valorizza e la tutela. Più che comprensibili, perciò, le parole di dolore e le accuse anche aspre dei familiari e degli amici. Non si può morire di scuola. La seconda coinvolge il teatrino delle reazioni istituzionali. Tra accuse pesanti di colpe a chi ne ha di meno (il ministro Gelmini), autoassoluzioni preventive per chi, invece, ha responsabilità amministrative dirette (Provincia), risibile ricorso alla spiegazione del fato greco (capo del governo) e scarico di tutti sempre verso altri di responsabilità - a dire il vero ben distribuite tra centro e periferia - non si è dato di sicuro un bello spettacolo. Non è una questione di colpe penali. Quelle, se esistenti, le accerterà la magistratura. E speriamo in tempi brevi. Tanto meno è questione di indulgere alla propensione nostrana di identificare qualche comodo capro espiatorio. Bisognerebbe, invece, avere il coraggio di partire da questa tragedia non solo per confessare alcune verità, ma soprattutto per mettere in atto i comportamenti che ne conseguono. La prima verità è che ci si deve rifiutare, se si vuole meritare rispetto e dimostrare serietà, di emanare leggi che o nessuno rispetta o che, per essere rispettate, hanno bisogno di altre leggi che ne autorizzino anno dopo anno la violazione. Soprattutto se a fare questo è lo Stato. La legge 626 del 1994 è un esempio paradigmatico di questa diseducazione civica, visto che più del 40% degli edifici scolastici italiani risulta tuttora, e legittimamente, privo del certificato di agibilità statica.
L’Ocse ci boccia, ma le famiglie ci salvano
di Antonio Funiciello a pagina 8
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Tremonti e la guerra delle banche
Vi spiego perché balla la poltrona di Profumo di Giancarlo Galli randi interrogativi sta suscitando fra i piccoli gnomi della finanza italiana l’ultrapessimismo che caratterizza ogni pubblico intervento del superministro all’Economia Giulio Tremonti. In netta antitesi con l’ottimismo della volontà sfoggiato dal premier. Gioco delle parti, è al momento l’opinione prevalente. Che significa? Nel tentativo di abbozzare una risposta, bisogna inquadrare lo scenario generale, dominato da crescenti timori di paura del domani. Sotto gli italici cieli s’aspettano clamorosi cambi della guardia nei principali santuari bancari, da Unicredit a Intesa San Paolo. A far da detonatore, l’esplosione della “bomba Zaleski”. Nato a Parigi 75 anni fa, Roman Zaleski, sangue franco-polacco, è una delle più enigmatiche personalità in circolazione. Già intimo del presidente Giscard D’Estaing, per conto del quale trattava gli affari africani, lasciò in fretta e furia la Francia all’inizio degli anni Ottanta, installandosi nel bresciano, in Val Camonica. Da lì, partendo da un’aziendina metalmeccanica in difficoltà, la “Carlo Tassara”, costruì con indubbia abilità un impero di carta che, fino al 2007, vantava partecipazioni valutate in borsa attorno ai 10/12 miliardi, a fronte di un indebitamento di 6/7 miliardi.
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Obama contro Nietzsche di André Glucksmann alle pagine 12 e 13
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MERCOLEDÌ 26 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
segue a pagina 10 CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
227 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 26 novembre 2008
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Conti in rosso. L’organismo di controllo europeo rivede (in peggio) le stime: Merkel e Sarkozy chiedono elasticità su Maastricht
Due anni di recessione Tremonti blocca l’accordo per il bonus sulle tredicesime Mentre l’Ocse dice: in Italia sarà dura fino al 2010 di Francesco Pacifico
ROMA. Mai come oggi la politica economica italiana rischia di decidersi a Bruxelles. A Palazzo Chigi aspettano di leggere il piano di rilancio dell’Unione europea e capire se e come riscrivere quello per famiglie e imprese presentato ai sindacati 48 ore fa: perché sono lo stock dei prestiti Bei e la possibilità di sforare il 3 per cento (si parla di due anni) a livello comunitario le armi che Berlusconi potrà usare per vincere la rigidità di Tremonti sulla manovra. In un articolo a quattro mani che sarà pubblicato oggi da Le Figaro e Frankfurter Allgemeine Zeitung, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy chiedono alla Ue un temporaneo sforamento dei criteri di Maastricht. In America invece la Fed e il Tesoro Usa lanciano un piano da 800 miliardi di dollari per rianimare il credito al consumo. Politiche e misure che fanno apparire ancora più deboli le misure italiane, mentre l’Ocse conferma che la recessione andrà avanti per tutto il 2009.
Ieri a Montecitorio girava voce che il premier avesse dato al ministro il compito di tagliare le tredicesime per un coupe de teatre prenatalizio, in grado di frenare tensioni sociali e riavvivare i consumi. Se non di depotenziare lo sciopero, confermato anche ieri da Guglielmo Epifani per il 12 dicembre. Se ci sarà il via libera, la defiscalizzazione non sarà al 100 per cento e dovrebbe riguardare i componenti dei nuclei familiari vicini o sotto la soglia d’incapienza e con più di un figlio a carico. Una conferma indiretta è arrivata dal ministro Renato Brunetta: «Il governo si è riservato di valutare tecnicamente come realizzare al meglio l’obiettivo di salvaguardare il reddito delle fasce deboli: o con interventi diretti o con la detassazione della tredicesima per i bassi redditi». Ma dal Tesoro fanno notare che per ora «non si va oltre le simulazioni». In via XX Settembre non sarebbero entusiasti di questa misura, che per loro ha ragion d’essere soprattutto sul piano politico. Il perché lo ripete da settimane Giulio Tremonti. Ha spiegato che i bonus alle famiglie, la deducibilità dell’Ires per la parte Irap o il rinvio della fattu-
I risparmi privati restano la nostra unica sicurezza rispetto all’Europa
Le famiglie ci salveranno dalla crisi di Gianfranco Polillo segue dalla prima Sì, proprio quegli anni in cui tutto l’Occidente sviluppato sembrava aver messo da parte ogni prudenza, per campare allegramente puntando sulla messe di finanziamenti che proveniva dai grandi detentori di risorse finanziarie. Soprattutto Cina, Russia e paesi produttori di petrolio.
Non tutti soffriranno allo stesso modo. Se prima dell’estate erano i ceti meno abbienti che pativano il peso di un’inflazione perniciosa, oggi il rischio si è decisamente spostato a danno degli occupati. L’Ocse prevede un drammatico aumento della disoccupazione. Saranno più di 8 milioni i posti di lavoro persi, che porteranno il totale dei disoccupati a 42 milioni di persone in tutta l’area. Una cattiva, anzi pessima notizia, che dovrebbe in parte risparmiare l’Italia. In questo caso, infatti, la disoccupazione dovrebbe crescere ma ad un ritmo più contenuto: per raggiungere l’8 per cento nel 2010. Un punto in più rispetto alla chiusura di quest’anno. Strano paradosso, quindi, quello italiano. Il Pil scende a un ritmo maggiore, rispetto agli altri paesi, ma il mercato del lavoro tiene meglio. La caduta del Pil, sempre secondo l’Ocse, dovrebbe essere tra le più elevate. Ed essere superata solo dall’Islanda, l’Irlanda e il Regno Unito. Anche nel 2010 la sua sarà una mezza ripresa: lo 0,8 per cento, contro una media dei paesi più sviluppati dell’1,5 per cento. Come si spiegano quindi i dati migliori dell’occupazione? Esistono flessibilità e ammortizzatori sociali più efficienti? Non si direbbe, almeno a giudicare dal confronto con altri Paesi. Siamo sempre coloro che destinano alla previdenza una spesa superiore a qualsiasi altro Stato. E, si sa, essa va a discapito soprattutto delle altre voci del welfare: a partire dal sussidio ai redditi più bassi. Ed allora? La risposta è relativamente semplice. La forza dell’Italia sta nelle famiglie. Una rete che svolge da sempre una funzione di supplenza rispetto alle inadempienze dei pubblici poteri. Dove non arriva lo Stato, arriva la famiglia. Non solo quella naturale – padre, madre e figli
– ma quella più allargata. Che si estende a parenti ed amici. La solidità del sistema economico italiano, al di là delle crisi e delle avversità, si fonda su questo retroterra. Non saremo moderni, come pure è stato detto, ma siamo capaci di camminare con le nostre gambe. Siamo anche disincantati rispetto alle promesse, sempre poco, mantenute del potere politico. E ci comportiamo di conseguenza. I nostri consumi – a differenza di altri paesi – non sono una variabile indipendente. Riflettono, al contrario, le atmosfere che si formano intorno alle variabili economiche. Al primo segnale di crisi, al primo accenno di tempesta, il circuito si blocca. Si stringe la cinta e si mette fieno in cascina, nella previsione di tempi peggiori. È quanto accaduto anche nell’ultimo anno. I media agitavano il tema della quarta settimana: masse sterminate che non riuscivano ad arrivare alla fine del mese. E poi si scopre – come dice appunto l’Ocse – che, a partire dal 2008, ci sarà “un forte aumento” della quota di reddito destinata ai risparmi. Non è una novità. Come abbiamo detto più volte la ricchezza degli italiani è la più alta del mondo e l’indebitamento delle famiglie il più basso. Esiste, quindi, un potenziale inespresso che una sana politica economica potrebbe utilizzare per aggredire ciò che deve essere aggredito. Cioè una produttività che non cresce, investimenti che non si fanno, riforme che rimangono sulla carta.
Questa è la contraddizione vera del nostro Paese. Da una parte gente che lavora, che non si scoraggia di fronte ai tempi difficili. Dall’altra una politica che non riesce a dare gli impulsi necessari. Che arranca tra i mille vincoli del passato, che nessuno riesce a sciogliere. Ed ecco allora che la contraddizione si aggroviglia. Le aspettative diventano conservative. E tutto si immobilizza. Ci vorrebbe una grande spallata ed un sistema politico capace di trasformare la fiducia, che le famiglie hanno in se stesse e nelle proprie capacità, nella leva del cambiamento. Ma per farlo è necessario essere credibili. Merce rara in questo momento.
razione Iva sfiorano i 5 miliardi.Troppi per il ministro, il quale non vuole sforare nel rapporto deficit Pil sia perché teme la reazione di Bruxelles («Non siamo né la Germania né la Francia», dicono dal Tesoro) sia per non aumentare il differenziale sulle cedole tra Btp e Bund tedeschi oltre il 2 per cento e appesantire gli interessi passivi sul debito. Sforare avrebbe come unico esito una nuova procedura di infrazione, che potrebbe costringere l’Italia a rivedere i saldi della pesante manovra triennale, scritta e approvata con previsioni di crescita opposte a quelle attuali. Senza contare che a dicembre le aziende hanno già allocato in cassa le tredicesime o che un intervento a pioggia finirebbe per aiutare i più ricchi e non le categorie deboli. Tremonti resta convinto che la soluzione migliore sia quella di rafforzare e aumentare la disponibilità di credito per le aziende, magari spingendo le banche a emettere obbligazioni garantite dallo Stato per recuperare capitali. È peregrino parlare di braccio di ferro tra il ministro e la sua maggioranza, ma sarebbero non poche le pressioni verso di lui per recuperare – va da sé in extradeficit – almeno un altro miliardo e mezzo e intervenire sulle tredicesime. Una misura utile secondo Berlusconi a infondere ottimismo e raggiungere finalmente la pax sociale.
Al riguardo c’è molto da lavorare se persino Raffaele Bonanni, molto responsabile in questa fase, chiede al governo un piano straordinario (e costoso) per la cassa integrazione e più in generale la riforma degli ammortizzatori sociali da estendere ai precari. Il leader Cisl prima ha notato di aver «apprezzato molto le parole di alcuni capi dell’opposizione che hanno offerto collaborazione per affrontare i temi della crisi, e il governo se ha coraggio deve fare questo, non serve la rissa». Quindi, riferendosi al suo omologo della Cgil ha aggiunto: «Non sono d’accordo con Berlusconi che ha attaccato la Cgil: farebbe bene ad ascoltare anche Epifani. Ma non esiste alcun Paese al mondo dove, in un momento di cri-
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Precari e contratti: il sistema degli ammortizzatori è da ripensare
Mandiamo il welfare in cassa integrazione di Giuliano Cazzola on tira una bell’aria. Che la situazione sia difficile e che non si veda ancora la luce alla fine del tunnel, è a tutti evidente. Stupisce, però, questo accanimento mass mediale sulla crisi, giocato in larga misura in chiave di lotta politica. È in atto un uso strumentale della cattiva congiuntura economica da parte delle forze dell’opposizione, le quali - basta farci caso – cavalcano ogni protesta e sostengono ogni rivendicazione. Tutti criticano i tagli come si potessero allargare i cordoni della borsa a favore di chiunque lo chieda: le amministrazioni comunali sostengono di non essere in grado di presentare i bilanci di previsione entro l’anno in corso (l’Anci li ha invitati a non farlo); i professori, gli insegnanti e gli studenti si mobilitano contro il contenimento della spesa nell’università e nella scuola; i pubblici dipendenti, sicuri del loro posto di lavoro e soli ad aver ottenuto il rinnovo dei contratti di lavoro, lamentano la perdita del potere d’acquisto delle loro retribuzioni. In tutti i settori merceologici le associazioni rappresentative scendono in campo per far valere i propri problemi. Dall’opposizione nessuno (eccezion fatta per l’Udc) si sforza di individuare delle priorità e di chiedere che le poche risorse disponibili – guai a far saltare i saldi di bilancio - siano concentrate su taluni obiettivi cruciali.
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Marcegaglia dopo l’incontro con il Governo. Al centro dell’attenzione sono finiti i lavoratori precari, i primi destinati a perdere quell’impiego (una volta definito «cattivo») per la natura stessa del loro rapporto.
Tutto ciò premesso, nonostante l’enfasi impotente e un po’ strumentale, con cui viene caricato, il problema esiste e il Governo si propone di affrontarlo, ampliando i casi di cassa integrazione in deroga ed estendendo l’indennità di disoccupazione ai collaboratori in regime di monocommittenza (ovvero quelli che lavorano per un solo committente) e in presenza di taluni requisiti contributivi. La questione vera, però, è quella della riforma degli ammortizzatori sociali, un presidio oggi riservato soltanto ad una parte del mondo del lavoro (a proposito di Alitalia: alzi la mano chi ha proposto tutele più ridotte per quei lavoratori. Solo chi lo ha fatto ha diritto di criticare i benefici loro concessi). Per fare una riforma in senso universalistico degli ammortizzatori sociali occorrerebbero risorse che, allo stato dell’arte, non ci sono. Ciò a causa delle distorsioni del nostro sistema di welfare. Basti ricordare che la Gestione delle prestazioni temporanee presso l’Inps (quella che eroga la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione oltre agli assegni al nucleo familiare ed ad altre prestazioni) vanta un attivo strutturale di oltre 6 miliardi l’anno, che vengono adoperati, nel quadro del bilancio dell’Istituto, per tappare i buchi delle gestioni pensionistiche. Ma, si sa, le pensioni sono sacre. Come il fiume Piave
La sinistra, la Cgil e Confindustria fanno politica amplificando i contorni della crisi: siamo proprio sicuri che 400mila persone a fine anno perderanno il lavoro?
La Ue si accinge a consentire sforamenti sul deficit/Pil nel 2008 e nel 2009. Bonanni chiede a Berlusconi di «ascoltare le opposizioni ed Epifani» si, un sindacato si mette a fare uno sciopero, e lo fa da solo». Così si lavora in modo frenetico tra Palazzo Chigi e via XX Settembre per ultimare entro venerdì il decreto con le misure anti crisi e approvarlo in Consiglio dei ministri. Ma mentre si lavora sulla congiuntura, si profilano già nuovi spettri per il medio e lungo termine. E che prendono forma in un rush della disoccupazione.
L’Ocse, che ieri ha pronosticato per l’Italia una crescita negativa dell’uno per cento nel 2009, ha stimato che la disoccupazione salirà al 7,8 tra un anno e all’8 per cento tra due. Il vicedirettore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha spiegato alla
Camera che riformare il sistema degli ammortizzatori «è un’esigenza nella congiuntura attuale». In più ha sollecitato «una riduzione del prelievo fiscale sul lavoro» per «evitare distorsioni e incentivare la crescita», che ricorda come quel taglio al cuneo fiscale, tra deduzioni alle imprese e detrazioni ai lavoratori, con poco successo nell’era prodiana. Bankitalia ha bocciato le defiscalizzazioni sugli straordinari – c’è il rischio che «parte significativa delle agevolazioni vada a beneficio di imprese che avrebbero comunque registrato guadagni di produttività» – e premi aziendali, perché si «concentrano tra i dipendenti delle grandi imprese».
I mass media amplificano questa situazione di grave sofferenza presentando una realtà del Paese che non trova sovente oggettivi riscontri, ma che si basa sulla rincorsa a ciò che «fa notizia» nella sempiterna logica di «sbattere il mostro in prima pagina». Quando una notizia «buca gli schermi», per giorni e giorni non si parla d’altro; poi, magari, dopo qualche settimana, si passa ad un nuovo argomento. Prendiamo l’ultimo caso che ha fatto parlare di sé: la Cgil nei giorni scorsi ha denunciato che è in vista il «licenziamento» di 400mila lavoratori precari. La notizia ha compiuto il giro d’Italia, senza che nessuno si prendesse la briga di porsi una semplice domanda: da quando in qua la confederazione di Epifani ha assunto il ruolo dell’Istat ? Se poi capita di parlare con Agostino Megale, il segretario confederale che ha messo in giro questi dati, ci si rende subito conto (per stessa ammissione del nostro interlocutore che è un sindacalista di vaglia oltrechè un galantuomo) che si tratta di un’ipotesi di rischio costruita a tavolino applicando – qua e là – qualche astrusa formula ripartitoria alla composizione del mercato del lavoro. Sarà anche perché la crisi è grave ed è foriera di effetti inconsueti e tuttora imprevisti, ma è sorprendente l’affollamento in atto intorno alle casse dello Stato, a cui partecipano ormai il personale politico dalle Alpi alla Sicilia e i rappresentanti delle forze sociali, compresa la Confindustria, come è emerso dalle dichiarazioni della presidente
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Scandali. Con la sua relazione alla Camera, il capo della Protezione civile lancia l’allarme sulle condizioni degli istituti italiani: uno su due non è a norma
La scuola pericolosa Bertolaso: «Servono 13 miliardi per l’edilizia scolastica. Troppi. Ma almeno salviamo le aree a rischio sismico» di Riccardo Paradisi uello che è avvenuto nel liceo Darwin di Rivoli «non è un fatto episodico nelle scuole d’epoca. Le scuole dovrebbero essere sottoposte sistematicamente a manutenzione straordinaria e questi interventi sono ancora più urgenti nelle aree sismiche». Non minimizza lo stato dell’arte dell’edilizia scolastica italiana il sottosegretario alla Protezione civile Guido Bertolaso. Nella relazione tenuta alla Camera nel corso dell’informativa sul crollo della scuola nella provincia di Torino Bertolaso ha anzi ribadito che un istituto su due in Italia non è a norma e che anzi è urgente un’intervento del governo sulla sicurezza scolastica. Un fenomeno che la tragedia di Rivoli, ha portato alla ribalta ma che è rubricato da anni come una delle più serie emergenze infrastrutturali italiane. Le scuole italiane del resto non sono posti sicuri per chi le frequenta. Più di uno studente su due ha paura di entrare a scuola: un sondaggio organizzato dal sito on-line Skuola.net rivela infatti che il 57 per cento degli alunni non si sentono al sicuro nelle loro aule. Il risultato conferma l’allarme lanciato nei giorni scorsi e ribadito ieri in aula dal sottosegretario Bertolaso, secondo cui appunto un istituto su due sarebbe a rischio sicurezza.
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Per questo , dice il capo della Protezione civile, «le scuole italiane andrebbero sistematicamente sottoposte a interventi strutturali di manutenzione straordinaria, compresa l’eliminazione dei controsoffitti pesanti e, dove necessario, l’eventuale sostituzione degli stessi con altri composti da materiale leggero. È di tutta evidenza – dice infatti Bertolaso – come queste situazioni divengano
ancora più pericolose e bisognose di interventi urgenti nelle zone del Paese soggette a rischio sismico». La vicenda che ha interessato l’istituto Darwin di Rivoli però non riguarda territori a rischio sismico: la provincia di Torino, e Rivoli in particolare, non sono classificati nell’ambito delle categorie a ri-
Uno studente su due ha paura di entrare a scuola: il 57 per cento degli alunni non si sentono al sicuro nelle loro aule schio sismico. «Quindi, da questo punto di vista – ha sottolineato Bertolaso – se avessimo dovuto temere un crollo di qualche istituto scolastico probabilmente lo avremmo atteso
da qualche altra parte del nostro Paese rispetto, invece, alla località dove è accaduto». Se però si volesse intervenire in tutti i 57 mila istituti del nostro Paese, considerando in modo particolare le zone sismiche di grado primo, secondo e terzo (ovvero quelle comunque a sismicità alta, media e bassa), si dovrebbe ritenere necessario un importo pari a circa 13 miliardi di euro per la messa a norma e la messa in sicurezza di tutti gli istituti. «È ovvio che la somma di 13 miliardi di euro è difficilmente sostenibile, ha però ammesso Bertolaso. Insieme al Ministero delle infrastrutture e agli enti locali abbiamo, quindi, cercato di immaginare una riduzione del fabbisogno economico in modo da garantire comunque interventi per la messa in sicurezza e la messa a norma di quegli istituti che insisto-
A sinistra, il sottosegretario alla Protezione civile Guido Bertolaso. Sopra, gli studenti protestano per la morte di Vito Scafidi (nella foto piccola). Sotto, la scuola milanese al centro, ieri, di un altro incidente. Nella pagina a fianco, Mariastella Gelmini
Nuovo dramma: bambino giù da una finestra MILANO. Un terribile volo, di almeno sei metri, giù dalla finestra della scuola. E ora un piccolo cinese di 6 anni, prima elementare, lotta contro la morte all’ospedale Niguarda. È precipitato ieri mattina da una finestra al secondo piano della scuola elementare Cappellini, in via Giovanni Battista De Rossi 2, zona via Varesina. Il bambino, in coma, è stato trasportato in codice rosso all’ospedale Niguarda, dove è ora seguito da un «trauma team». Secondo fonti ospedaliere, ha riportato un trauma cranico di grado severo, lesioni a organi addominali e toracici. La prognosi, naturalmente, è riservata. Secondo la ricostruzione degli investigatori, il bambino stava giocando con alcuni compagni nell’aula-laboratorio di inglese, dopo la fine della lezione. Si trattava di un cambio dell’ora, i bambini dopo poco sarebbero rientrati nella loro aula al piano di sotto. La maestra si stava preparando a radunare la classe, ma un gruppetto di bambini si è fermato a giocare vicino alla finestra. Lì accanto c’era anche una sedia: il bambino vi è salito, forse ha aperto lui stesso la finestra. Bisognerà appurare se al momento della caduta fosse presente qualcun altro o se il piccolo fosse rimasto solo.
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Mancano i fondi e un coordinamento fra Stato, Comuni e Province
Anni di cattiva gestione non sono una fatalità di Giuseppe Bertagna segue dalla prima Esempio paradigmatico, ma purtroppo tutt’altro che unico. Da noi, infatti, pare, purtroppo, quasi un vanto civico, politico e sindacale dimostrare di essere in grado di svuotare dall’interno leggi approvate dal parlamento. O addirittura impedire che siano rese esecutive. La seconda verità è che ogni legge dovrebbe sempre avere la relativa copertura finanziaria. Lo dice la Costituzione. Lo obbligherebbe il buon senso. Siamo invece diventati allegri specialisti del contrario.
situazione vergognosa che deve finire».
no nelle aree considerate a rischio sismico elevato e a rischio sismico moderato».
Già per questo genere di interventi il fabbisogno sarebbe comunque pari a circa 4 miliardi di euro. Si tratta in ogni caso di stime approssimative che danno solo un ordine di grandezza del fabbisogno per il miglioramento, soprattutto sismico, e per le forniture connesse. Prima però di pensare ai finanziamenti, ha ancora ammonito Bertolaso, bisogna «terminare la vergogna» della proroga della applicazione della 626 nelle scuole: lo dobbiamo ai bambini di San Giuliano, a Vito, ai genitori». La 626 del 1994 è la legge madre di tutte le norme per la sicurezza nei luoghi di lavoro: «Viene applicata in tutte le realtà istituzionali del nostro paese, fatti salvi gli istituti scolastici. E questo perchè ogni anno, all’unanimità, sia le strutture centrali sia gli enti locali hanno approvato dei decreti che prevedevano la proroga dell’applicazione della legge: una
Comunque per la messa in sicurezza delle prime 100 scuole a maggior rischio sismico sono già disponibili circa 75 milioni di euro. Nella conferenza unificata dello scorso 13 novembre sono state approvate le modalità di attivazione di questi fondi straordinari che prevedono criteri acceleratori per la ripartizione della somma che viene effettuata tra le Regioni sulla base di indicatori di rischio sismico. Le Regioni però dovranno preparare un piano di interventi tenendo conto delle urgenze. Il ministro dell’Economia, nel frattempo ha dato il suo assenso per l’istituzione di una contabilità speciale che sarà affidata ad un responsabile dell’attuazione degli interventi. Per supervisionare le procedure ed eventuali contenziosi, ha inoltre spiegato Bertolaso, è stata istituita anche ”una commissione mista” con tecnici della protezione civile, delle Infrastrutture, dell’Istruzione, dell’Economia e di tutte le Regioni interessate. Anche perchè la messa in sicurezza delle scuole può dare alle imprese gli stessi vantaggi e le stesse opportunità di rilancio di una grande opera, come la realizzazione di un’autostrada o delle linee dell’alta velocità. Mentre la Protezione Civile potrebbe avere un ruolo chiave anche grazie alle normative snelle e rapide che consentono di accelerare le procedure burocratiche.
Dare gambe finanziarie ad ogni legge, tuttavia, siccome i denari non crescono sugli alberi, né si moltiplicano in maniera proporzionale ai cortei, significa introdurre chiare priorità nella spesa: è più importante, nel nostro caso, mettere a norma gli edifici scolastici ed evitare vicende come quelle di Rivoli o di San Giuliano, oppure mantenere l’attuale distribuzione della spesa pubblica? Conviene di più, per continuare l’esempio, mirare ad avere 12 anni di scuola preuniversitaria come peraltro accade in tutti gli altri paese del mondo (alcuni ne hanno addirittura 11!) per reperire risorse da investire nella riqualificazione e nella distribuzione delle strutture oppure mantenere gli attuali 13 anni e spendere tutto in stipendi e meccanismi automatici? La terza verità è che bisogna finalmente mettere ordine nel sistema di governo e di gestione delle strutture logistiche del sistema scolastico. Sugli edifici, ad esempio, hanno competenze che si intersecano i dirigenti scolastici (che devono segnalare ciò che non va), i Comuni per le scuole del primo ciclo e le Province per quelle del secondo ciclo, infine lo Stato attraverso il ministero dell’Istruzione e il ministero delle Infrastrutture. Ora bisogna decidere se si vuole un sistema improntato al principio di sussidiarietà (come direbbe la Costituzione) oppure se si desidera continuare con questo mix di statalismo e di localismo, dove non si riesce mai a capire con preci-
sione chi governa, chi gestisce e chi controlla. Il dramma dell’omicidio di Rivoli colpisce, però, anche per un terzo importante aspetto: quello che riguarda la pretesa autosufficienza dello Stato nel far fronte a un problema strutturale così finanziariamente imponente. L’ultimo grande piano edilizio statale per la scuola risale agli anni Sessanta. Ma l’esplosione della scuola di massa ha portato comunque a collocare le scuole in ex caserme, ex monasteri, ex prigioni, insomma in edifici storici, tutti improntati ad un’architettura «classocentrica» e «corridoiocentrica», senza quella flessibilità degli spazi così celebrata da tutta la pedagogia dell’attivismo da almeno cento anni. I paesi europei che non hanno a questo proposito i nostri problemi hanno intrapreso, invece, la strada opposta. Opposta nel modo di concepire gli edifici scolastici (spazi aperti, polifunzionali, mai «classocentrici»). Opposta anche nella pretesa di mantenere lo sforzo finanziario esclusivamente in capo allo Stato e agli enti locali. Hanno emanato, infatti, legislazioni di governo del sistema e hanno incentivato ciò che potremmo chiamare la costruzione in leasing di edifici scolastici polifunzionali.
I privati costruiscono le scuole, adoperate come tali per almeno trent’anni (con possibilità di rinnovo del contratto). Affitto annuale modesto. Manutenzione delle strutture ai privati. Gestione e manutenzione ordinaria diretta alle scuole. Dopo i trent’anni, nell’ottica di uno sviluppo urbanistico programmato a rete, questi spazi diventano alloggi per anziani, centri di divertimento, piscine e campi sportivi, centri commerciali ecc. Per questo i privati hanno tutto l’interesse a costruire bene gli edifici e procedere a continue manutenzioni delle strutture. Se deperiscono troppo, il riuso di fine leasing diventa costoso. Dal canto loro, le scuole e gli alunni hanno tutto l’interesse a rispettare gli ambienti per non avere spese di manutenzione alte. Due piccioni con una fava. Interessi privati e pubbliche virtù.
Occorrono nuovi istituti da costruire con criteri più moderni e sicuri. Magari facendoli realizzare in leasing dai privati
politica
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Trattative. Oggi si riuniscono i piccoli del centrodestra: vogliono seggi e garanzie nel nuovo partito
Pdl, la rivolta dei cespugli di Errico Novi
ROMA. Sabato 10 novembre 2007: Silvio Berlusconi interviene alla “costituente” della Destra di Francesco Storace. Scenografia con sfondo blu segnato dalla mano di un tedoforo che regge la fiaccola. È lo stesso simbolo che ha accompagnato per anni le manifestazioni del Fronte della gioventù, trasformato poi in Azione giovani. Sono i giorni della spallata impossibile, quella che l’allora Casa delle libertà è sempre sul punto di assestare a Romano Prodi e che non arriva mai. Silvio si entusiasma come non gli accadeva da tempo, asseconda con la vitalità di un ragazzino la platea che canta “Chi non salta è comunista”. Molti attribuiscono alla scelta del Cavaliere intenzioni maliziose nei confronti di An: vuole incoraggiare la crescita della dissidenza storaciana, dicono, per indebolire la fronda contenuta ma implacabile di Gianfranco Fini. Di sicuro c’è che pochi giorni dopo il governo Prodi riesce ad espugnare il Senato: la Finanziaria passa e il leader di An si vendica con una lettera al Corriere della Sera in cui invoca una nuova fase per il centrodestra. Sabato 22 novembre 2008: il coordinatore di Forza Italia Denis Verdini benedice il Movimento per l’Italia, neonata creatura di Daniela Santanchè. È un micropartito di destra, decisamente più piccolo e un po’ meno di destra rispetto a quello di Storace. Serve a traghettare i transfughi di An che non sono disposti a seguire l’ex governatore del Lazio nella sua solitaria resistenza. Sono un migliaio, tutti pronti a confluire nel Pdl. Perché Verdini è lì? Perché tocca a lui organizzare le componenti del nuovo partito, ovvio. I più maliziosi però insinuano una seconda lettura: Verdini incoraggia la Santanchè per sdrammatizzare un po’ il peso di An, che con il suo 30 per cento resta un azionista decisivo nel cda del Pdl. In realtà gli equilibri e gli accordi con Ignazio La Russa sono definiti con chiarezza da settimane, ben scolpiti nella bozza di statuto che potrebbe essere approvata dal “Comitato dei 100”prima di Natale. Ma forse è vero che il coordinatore azzurro sente il bisogno di rassicurare i quadri forzisti, tremebondi all’idea di doversi giocare i ruoli chiave con la organizzata e combattiva macchina di via della Scrofa. La blanda sponsorizzazione assicurata da Verdini al Movimento per l’Italia avrebbe dunque un’utilità psicologica più che un fine strategico. Eppure alla catena dei sospetti e delle precauzioni continuano ad aggiungersi anelli.
Gramsci e la fede: «Morì da credente» «Gramsci morì con i sacramenti. E chiese alle suore che lo assistevano di poter baciare un’immagine del Bambino Gesù». Lo ha affermato l’arciveLuigi scovo De Magistris, penitenziere emerito della Santa Sede, intervenuto alla presentazione del nuovo catalogo dei santini che si è tenuta alla Radio Vaticana. «Gramsci - ha sottolineato De Magistris - è morto con i Sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia. La misericordia di Dio santamente ci perseguita. Il Signore non si rassegna a perderci», ha commentato ancora l’esponente vaticano.
Tragedia a Roma: ucciso un gioielliere
Denis Verdini incontrerà nei prossimi giorni i leader delle forze minori in procinto di confluire nel Pdl: Alessandra Mussolini (a sinistra), Gianfranco Rotondi, Francesco Nucara, Stefano Caldoro e Carlo Giovanardi polo della libertà: Alessandra Mussolini (Azione sociale), Francesco Nucara (Pri), Stefano Caldoro (Nuovo Psi) e Carlo Giovanardi con i suoi giovanissimi Popolari liberali, nati in prossimità delle scorse Politiche. I «cinque dell’Ave Maria», secondo la definizione coniata dalla Mussolini, si organizzano per diventare una componente unica del Pdl. Un patto tra azionisti di minoranza, una strategia difensiva, soprattutto, di fronte al rischio che chiunque possa imitare la
Gli altri si attaccano: nel senso che si attaccano ad An». Ecco dove potrebbe nascere il caso. I «cinque dell’Ave Maria» non sono disposti a dividere la loro quota (tra il 5 e l’8 per cento, in tutto, compreso nel 70 assegnato a Forza Italia) con altri. Il Movimento per l’Italia, dunque, dovrebbe scalare il proprio, magari ristrettissimo margine, proprio a via della Scrofa. Vale a dire proprio alla componente nei confronti della quale rischia di svolgere un’azione di disturbo, seppur limitatissima. Questa è la tesi di Mussolini e gli altri. Difficilissimo che passi, anche se la pasionaria del centrodestra ricorda che dopo l’incontro con Verdini il “sindacato di minoranza” si riunirà anche con il reggente di An Ignazio La Russa, l’altro capo-cantiere del nascente partito unico.
L’oggetto del contendere? È articolato. Innanzitutto è una questione di ruoli, quindi di potere. Ciascuna componente avrà rappresentanze nella futura organizzazione proporzionate alla propria quota azionaria. Si tratta di equazioni complicate: secondo lo statuto messo a punto da Verdini, La Russa, Quagliariello e Gasparri, sarà il presidente (dunque Berlusconi) ad avere l’ultima parola sulla scelta dei coordinatori locali, ad esempio. Vuol dire che in qualche modo il leader dovrà esercitare il proprio potere discrezionale senza compromettere gli equilibri stabiliti in partenza. E già questo è un meccanismo complicato. Poi c’è la questione dei rimborsi elettorali. La Santanchè non è nemmeno tra gli eletti, e questo dovrebbe escluderla comunque, ma di fatto anche gli altri sono entrati in Parlamento sotto le insegne del listone unico. L’obiezione che i «cinque dell’Ave Maria» porranno a Verdini è che loro, quelli del sindacato di minoranza nato da un’idea di Rotondi, hanno rinunciato al proprio simbolo, mentre la “Fair Daniela” era addirittura candidata premier contro Berlusconi. Si vedrà. Di certo i piccoli non intendono rinunciare a proporre i loro simboli alle prossime Europee se non otterranno in cambio qualche garanzia.
Un “patto tra soci di minoranza”chiuso ai folgorati dell’ultim’ora come la Santanchè:«Scali la sua quota da quella di An»,dice la Mussolini.La minaccia:presentare i vecchi simboli alle Europee,in modo da recuperare i rimborsi
Le conseguenze si materializzeranno stasera, a casa del ministro per l’Attuazione del programma Gianfranco Rotondi. Suoi ospiti i leader delle altre quattro formazioni “minori” che stanno per sciogliersi nel Po-
in breve
Santanchè ed inventarsi un partito in zona Cesarini per accampare diritti. Naturalmente la questione si sarebbe posta comunque, ma forse non con la stessa urgenza, con una simile drammatizzazione.Verdini lo sa bene e farà di necessità virtù.
La soluzione non è esattamente dietro l’angolo. «Abbiamo già incontrato Verdini la settimana scorsa», spiega Alessandra Mussolini, «nel giro di pochi giorni lo vedremo di nuovo. Intanto chiudiamo il cerchio: noi cinque possiamo dire di far parte da tempo del progetto. Abbiamo eletti, delegati, daremo il nostro contributo all’allestimento dei gazebo e alla raccolta delle adesioni». E la Santanchè? «Non è all’ordine del giorno. Noi siamo quelli storici.
È caccia a due persone, i due killer che ieri mattina hanno ucciso nella sua casa nel quartiere di Acilia, alla periferia di Roma, Francesco Lenzi, gioielliere di 50 anni. Secondo una prima ricostruzione sarebbe stata la domestica a dare l’allarme, riuscendo a raggiungere un balcone, nonostante poco prima fosse stata immobilizzata ai polsi e le fosse stato messo del nastro adesivo sulla bocca. La donna ha cercato di attirare l’attenzione di alcuni passanti che hanno avvertito il 112. La domestica, trasportata al Grassi di Ostia per le ferite e le escoriazioni, avrebbe raccontato ai carabinieri che i due malviventi, dopo aver chiesto del gioielliere, lo hanno colpito alla testa con un oggetto contundente uccidendolo.
Delitto di Perugia: rinviata l’udienza Sarà rinviata alla metà di gennaio prossimo la prima udienza, in programma il 4 dicembre, del processo davanti alla Corte d’assise di Perugia a Raffaele Sollecito e Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher. L’orientamento è stato comunicato stamani dal presidente della sezione penale del tribunale perugino, Giancarlo Massei, a uno dei difensori del giovane pugliese, l’avvocato Marco Brusco. La decisione è legata alla necessità di inserire nel fascicolo del dibattimento tutti gli atti indicati dal Gup.
politica
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al Colle un indirizzo di politica estera ineccepibile. Le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che – in visita in Israele – si è dichiarato contrario alle ambizioni nucleari iraniane, dimostrano un notevole, quanto positivo, peso specifico sia in politica interna sia nel quadro della nostra attività diplomatica.
Diplomazie. Il presidente della Repubblica tende la mano a Shimon Peres: «L’Italia applica le sanzioni dell’Onu»
È raro, infatti, che le istituzioni si trovino in perfetta sintonia come in questo caso. D’altra parte, quale contesto migliore, se non quello della politica estera, potrebbe dimostrare l’attuazione di una proficua sintonia tra Capo dello Stato e governo? Con la sua ferma opposizione al nucleare iraniano, infatti, Napolitano ha confermato l’indirizzo del governo Berlusconi. Già ai primi di giugno, sia il Capo dello Stato sia il premier italiano si erano rifiutati di incontrare il Presidente Ahmadinejad, in visita in Italia in occasione del summit della Fao a Roma. Allora, Quirinale e Palazzo Chigi si erano trovati d’accordo nel non voler ricevere un Capo di Stato di un Paese dove l’Italia nutre sì importanti interessi economici – e che avrebbe piacere di portare avanti – ma che è al contempo governato da un regime le cui posizioni antidemocratiche e aggressive, sul piano internazionale, risultano irricevibili. Ieri, il Presidente altro non ha fatto che ribadire lo stesso concetto. Anzi, considerando quello iraniano come «un problema non solo israeliano» ha ulteriormente suggellato, con uno sguardo italiano, come la questione abbia sempre più un carattere internazionale. E che per questo debba essere risolta in sede Onu. Non unilateralmente, come si teme possa succedere, se l’iniziativa spettasse a qualche falco. Rilevante, però, è il pulpito da dove è partita la dichiarazione presidenziale. Italia e Israele, infatti, sono due nazioni amiche, con posizioni geografiche molto simili. Entrambe si affacciano sul Mediterraneo, motivo per cui sarebbe giusto auspicare una partnership economica sempre più intensa. Tuttavia, non si possono nascondere i recenti attriti soprattutto in merito all’affaire libanese. Sono note le avversioni del governo Olmert alla missione Unifil. I “Caschi blu”, comandati dal generale italiano Claudio Graziano, sono stati ripetutamente oggetto di critica, sia da parte della stampa sia da alti esponenti del governo israeliano. L’indice è stato loro additato perché farebbero “finta di nulla” di fronte al traffico di armi tra Hezbollah e la Siria, che avverrebbe nel Sud del Libano, in violazione della Risoluzione 1701. Mancanza, quella del contingente Onu, che giustificherebbe il ripetersi di sorvoli nella stessa area da parte dell’Aviazione israeliana, anch’essa in violazione dello stesso documento del Palazzo di Vetro. Attriti e scambi
di Antonio Picasso
D
Napolitano in Israele: «No al nucleare iraniano»
Adesso l’establishment israeliano sarà costretto a rivedere le proprie posizioni in merito al processo di pace e a come condurlo, prendendo in considerazione le opportune sedi internazionali di accuse quasi ovvi, tutti questi. La precarietà libanese porta i soggetti presenti sul campo a mantenere alta la tensione e ad aumentare i toni del confronto. Tuttavia, così facendo, Israele rischia di dimenticare l’inestimabile contributo che Unifil – e soprattutto i nostri 2mila uomini
che ne fanno parte – offre al processo di pacificazione del Libano e, quindi, al mantenimento della sicurezza anche per la popolazione israeliana.
Detto questo, appaiono positivamente in controtendenza le parole di Napolitano. E rappre-
sentano una ventata di dialogo tra il nostro governo e quello che verrà in Israele. A questo proposito, sarebbe il caso di dire che la politica è l’arte di cogliere le occasioni. Le mani tese dal Presidente italiano dovrebbero indurre l’establishment israeliano a rivedere le proprie posizioni in merito al processo di pace e a come condurlo. La supremazia regionale di Israele, in chiave militare, è garantita dall’appoggio diplomatico di tutto l’Occidente, Italia inclusa. Quello che manca, invece, è una vision poli-
tica di disponibilità al dialogo. E il suggerimento che Napolitano ha fatto al presidente israeliano Shimon Peres rientra proprio in quest’ottica. Risolvere la crisi iraniana nell’ambito dell’Onu non significa sminuirla o togliere a Israele la primazia del pericolo, bensì attribuire al problema la necessaria valenza internazionale, onde evitare che – se cadesse nelle mani sbagliate – esse degeneri nell’ennesima escalation regionale. (Analista Ce.S.I.)
Bioetica. Il Capo dello Stato scrive a Carlo Casini: «L’intervento legislativo non è più procrastinabile»
Eluana, richiamo del Colle: «Serve una legge» ROMA. «Sui temi della vita è necessario il massimo sforzo di convergenza, in Parlamento, tra diversi modi per un intervento legislativo ormai indispensabile e non più procrastinabile». Con queste parole, il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in una lettera inviata al presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini, ha espresso l’auspicio che venga trovato al più presto un accordo il più possibile condiviso su una legge che regolamenti le cosiddette questioni di fine-vita. L’intervento del presidente della Repubblica arriva dopo una lettera inviata dall’associazione in riferimento alla vicenda di Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo da 17 anni (che proprio ieri ha compiuto 38 anni) per cui la Corte di Cassazione ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione artificiale che la tiene in vita. Una sentenza che ha creato non poche divisioni all’interno della so-
cietà civile e ha causato l’intervento della Chiesa cattolica, che ha invocato ufficialmente una legge sul tema, a patto che essa non sia «il pretesto per introdurre nel nostro Paese forme surrentizie di eutanasia». È proprio in questo contesto che il Capo dello Stato ha invocato una convergenza tra concezioni divergenti, precisando che intervenendo sulla vicenda, non vuole assolutamente sostituirsi alla Magistratura», ma comunque rientra nella sua responsabilità il fatto di «ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimono sentimenti e pongono problemi che riguardano situazioni e temi di particolare complessità etica e giuridica sui quali diverse sono le opinioni e le sensibilità degli esponenti politici, degli studiosi e dei cittadini tutti». Apprezzamento per la presa di posizione del Capo dello Stato è arrivato anche dal presidente del Senato, Renato
Schifani, che ha affermato: «Condivido in pieno le considerazioni del Capo dello Stato. Mi ero già espresso pubblicamente, tra l’altro, durante la conduzione dei lavori di Palazzo Madama in occasione del caso Eluana, sottolineando l’esigenza di un intervento legislativo ormai non più rinviabile. La Commissione ha già iniziato i propri lavori e dopo la sessione di bilancio avvierà subito la discussione generale, al termine della quale dovrebbe essere adottato un testo base sul quale auspico fortemente un ampio consenso parlamentare». D’accordo con il presidente anche il deputato dell’Udc Luca Volontè, che ha detto: «Dopo l’invito di Napolitano, certo il Parlamento dovrà accelerare e anche il Governo, nel frattempo, dovrà adottare urgentemente e per decreto l’ipotesi Capotosti per evitare la condanna a morte di Eluana».
politica
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Schieramenti. L’organizzazione internazionale della sinistra continua a perdere peso in Europa. Solo in Italia è un modello
Il socialismo fantasma Il Pd litiga sulla possibile iscrizione al Pse D’Alema non rinuncia alla vicepresidenza di Antonio Funiciello
ROMA. Di che cosa discutono effettivamente nel Pd quando litigano sull’ipotesi di entrare o meno nel Pse? Detta così, sembra una banalità. Eppure è il tema del giorno, sotto al quale forse si mascherano dissidi più profondi. Comunque: quelli che vorrebbero vedere gli eletti democratici iscriversi al gruppo parlamentare socialista di Strasburgo, vogliono (banalmente) che il Pd prenda parte del grande movimento socialista internazionale. Già. Ma perché? Ed è poi veramente“grande”questo movimento? Che ruolo gioca, agli inizi del nuovo secolo, nel governo del pianeta, l’Internazionale Socialista? Davvero è cosìimprtante accapgliarsi su ciò? Per rispondere a simili interrogativi, tocca fare affidamento a quel principio di realtà tanto caro ai socialisti di tutti i continenti e andare a misurare l’effettiva rilevanza del movimento socialista nel mondo. Prendiamo il G20, l’organismo informale che raccoglie ministri finanziari e governatori delle banche centrali delle diciannove nazioni che con l’Unione Europea (ventesimo membro) producono la quasi totalità della ric-
chezza mondiale. I paesi che fanno girare il mondo, per intendersi. Bene, solo tre paesi nel G20 sono a guida socialista. Tre su diciannove. Il primo è il Regno Unito, ancora per poco tempo governato dal Labour Party di Gordon Brown, stando ai sondaggi interni che ne anticipano la sicura sconfitta alle elezioni di primavera contro i Tories di Cameron. Il secondo paese è l’Australia, che dopo un dominio decennale dei conservatori, vede da pochi mesi alla guida il premier laburista Kevin Michael Rudd. Il terzo paese è il Sud Africa guidato dall’African National Congress, il partito di Mandela. Si noti che le tre nazioni a guida ”socialista” sono tutte espressioni del Commonwealth: una concomitanza da non sottovalutare. In verità la scorsa settimana a Washington, all’ultima riunione del G20, c’era anche un altro ministro delle finanze socialista, il tedesco Steinbrück, ma non in qualità di ministro di un governo socialdemocratico, quanto di uno d’unità nazionale, guidato appunto dalla conservatrice Angela Merkel. E anche in questo caso, dopo le continue debacle dell’Spd nelle elezioni ammini-
Solo tre paesi del G20 sono guidati da leader di area socialista: la Gran Bretagna, l’Australia e il Sudafrica. Ma è possibile che al G8 del prossimo anno in Italia non ci sia nessuno di loro
strative degli ultimi due anni, tutti i sondaggi interni danno alle elezioni anticipate del prossimo anno la Cdu-Cds vincente sui Socialdemocratici, per quanto non nelle proporzioni più schiaccianti con le quali Cameron dovrebbe battere Brown. Nei restanti paesi del G20 la situazione per l’Internazionale Socialista è, a dir poco, drammatica. In sei (Arabia Saudita, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Russia) l’Internazionale Socialista non ha in attività nessun partito affiliato; negli Usa, Turchia e Giappone c’è un partito iscritto all’Is, ma svolge una funzione politica minoritaria e puramente identitaria. In Francia, Canada, Brasile, Messico e Argentina i partiti membri dell’Is sono all’opposizione. In Italia il Pd che esprime alcuni parlamentari europei del Pse e il Ps di Nencini sono, anch’essi, all’opposizione.
Lo stato di salute del movimento socialista internazionale è cattivo anche nella sua roccaforte europea. Delle ventisette nazioni dell’Unione europea, quattordici hanno in carica governi nettamente orientati in un’area conservatrice di centrodestra. Una maggioranza (14 su 27) che già da sola rispecchierebbe gli equilibri sfavorevoli al Pse del parlamento di Strasburgo, non fosse pure sostenuta da situazioni ambigue come quella tedesca che non s’è fatta rien-
Al recente vertice dell’Is in Messico hanno preso parte i rappresentati dei vecchi Democratici di sinistra, il partito di Fassino ormai chiuso e confluito nella nuova formazione di Veltroni trare nel computo dei quattordici governi di centrodestra. Per il Pse le cose si complicano ulteriormente andando a vedere dove e come riempie i propri scranni parlamentari. Le isole felici di questo infelicissimo stato dell’arte, sono come detto il Regno Unito (ancorché a tempo), la Spagna e il Portogallo. In Austria i Socialdemocratici dello Spo governano in coalizione esprimendo il premier, pur avendo ottenuto alle politiche di quest’anno il peggior risultato dal 1945. La vecchia scuola socialdemocratica resiste pure in Finlandia, mentre a Cipro i socialisti dell’Edek sostengono il governo del centrista Papadopoulos. Così va a finire che se il Pse riesce ancora ad essere il secondo gruppo parlamentare a Strasburgo lo deve unicamente all’allargamento a est dell’Unione. Ma ad un prezzo molto caro. Difatti i partito socialisti che guidano paesi come la Slovenia, l’Ungheria, la Slovacchia, la Lituania, la Bulgaria e l’Estonia (ma i socialdemocratici estoni non esprimono il premier) sono spesso mere riproposizioni dei vecchi partiti comunisti di regime. Ciò accade nei paesi più popolosi tra questi come la Bulgaria e l’Ungheria, ad esempio.Tale fenomeno ha innescato all’interno del Pse e, per diretta con-
seguenza, nell’Is un processo di radicalizzazione (quasi una ”comunistizzazione”) della linea politica a scapito di orientamenti più innovativi come quelli espressi negli ultimi anni da leader come Tony Blair o Gerard Schröder.
La fotografia appena scattata riflette una grave crisi di irrilevanza politica del movimento socialista internazionale nel governo del mondo, destinata in futuro ad aggravarsi. Crisi che l’Internazionale Socialista nega, invece, di vivere. Nel suo ultimo congresso del luglio scorso non l’ha così minimamente affrontata, limitandosi a recitare i suoi soliti sermoni contro il liberismo (?) delle destre che guidano i paesi occidentali e a rieleggersi i suoi 37 vicepresidenti. Se lo stato di buona salute di un’organizzazione politica è inversamente proporzionale al numero dei suoi vicepresidenti, l’Is coi suoi 37 vice è messa davvero parecchio male. Nel prossimo vertice del G8, previsto all’inizio di luglio del 2009 alla Maddalena, non ci sarà nessun premier socialista e l’unico capo di governo di “sinistra” (sia detto fra mille virgolette) sarà Barack Obama. Dal primo vertice nel Novembre del ’75 dell’allora G7 a Rambouillet, in Francia, all’ultimo del
politica
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Veltroni fa slittare a dicembre il “banco di prova” del Pd. Ma il congresso non sarà anticipato
Un nuovo Lingotto per stanare i dissidenti di Susanna Turco
luglio scorso in Giappone, era accaduto solo nel ’96 che non ci fosse almeno un premier socialista. In quel caso però partecipava per l’Italia Romano Prodi, espressione di un governo la cui maggioranza relativa era di un partito membro dell’Is. Quello stesso Prodi che da presidente della Commissione europea fu l’alfiere di quell’apertura ad est dell’Ue che, come si è dimostrato, ha tanto avvantaggiato il Pse, cuore infartuato dell’Is. Di più, quello del 1996 era il contesto politico che già annunciava l’apertura dei fortunati cicli blairiano (’97) e schröderiano (’98). Oggi, neanche a parlarne di aperture di nuovi cicli.
In questa acuta depressione del movimento socialista che indica chiaramente la necessità di dichiarare bancarotta e sollecita i progressisti a imboccare strade diverse, la parte più bizzarra è sempre quella recitata dall’Italia. Al recente vertice dell’Is in Messico, ha partecipato regolarmente una delegazione dei Democratici di Sinistra; partito chiuso in Italia e sciolto nel Pd, ma che conserva una sua presenza organica nell’Is, tanto che Massimo D’Alema è uno dei suoi 37 vicepresidenti. Un’anomalia, a guardar bene, non eccezionale. In fondo anche i Ds erano e restano i diretti discendenti di un partito comunista. Sono loro oggi, scopertisi “socialisti” insieme a tanti colleghi dell’est dopo il crollo del Muro, a rappresentare la vera anima del claudicante movimento socialista internazionale.
R OMA . L’obiettivo non confessato è stanare i dalemiani, se possono e se vogliono. E, con buona pace di chi non ne può più (margheriti e non) del trentennale duello, il coordinamento di ieri è servito a Veltroni per allentare le tensioni e fissare la data dell’eventuale confronto: la direzione del Pd del 19 dicembre. Chi vuol dissentire dalla linea parli quel giorno, o taccia: a quel punto, fino all’autunno 2009. Quando, come previsto e senza anticipi di sorta, si terrà il congresso del Pd. Una settimana prima di Natale, infatti, il segretario del Pd proporrà - sul modello del discorso di Torino col quale accettò di guidare il Pd - un «Lingotto 2», una piattaforma di «forte innovazione» sulla quale verificare l’esistenza o meno di un consenso. «Veltroni si presenterà con una relazione per sciogliere alcuni nodi politici, finalizzata ad aprire una nuova fase di innovazione, chiedendo il massimo di coesione attorno a questa prospettiva», ha spiegato Goffredo Bettini ieri al termine delle tre ore di riunione, specificando: «Sarà un banco di prova, e vedremo se sarà possibile, altrimenti ci saranno soluzioni diverse che sono migliori di questo confronto melmoso». Ora, a quale «soluzione» alternativa alluda Bettini è ovvio: anticipare ai primi mesi del 2009 il congresso del Pd, originariamente previsto per il prossimo autunno. Una ipotesi pressoché suicida, visto che le elezioni europee sono dietro l’angolo, ma negli ultimi giorni sostenuta con vigore dai veltroniani di stretta osservanza, soprattutto, se ne deduce, in funzione di spauracchio. Ossia per stringere le componenti su quel minimo di coesione necessaria per affrontare i prossimi mesi senza navigare nella «melma». Ebbene, l’operazione per il momento sembra riuscita. Dalla riunione del coordinamento, infatti, è emerso, «con distinguo non rilevanti» come ha sottolineato Antonello Soro, che l’orientamento «prevalente» è di confermare, secondo le parole di Piero Fassino, il «calendario di lavoro già previsto e concentrarsi sulle proposte del Pd per dare risposte ai problemi del Paese». Congresso in autunno, dunque. E Conferenza programmatica per gli inizi del 2009. I n o g n i c a s o , conferma Bettini, la linea condivisa del coordinamento è di«evitare una conta congressuale qualora i problemi si possano sciogliere, dando così la possibilità a questa leadership di sviluppare il progetto». Una «fase due» sulla quale il grado di entusiasmo degli ex popolari si riflette alle perfezioni nelle
L’ex leader della Margherita Francesco Rutelli ha smentito così le ricostruzioni giornalistiche su suoi presunti progetti centristi al di fuori del Partito democratico: «Stupidaggini che meritano di essere tagliate di netto» parole di Beppe Fioroni: «Esiste una numerazione: il due viene dopo l’uno. Non è un passo indietro, ma un andare avanti». Ineluttabile, più che volontaristico: come la progressione numerica. Del resto, la riunione viene definita «buona» anche da Fassino (la componente dalemiana non è rappresentata nel coordinamento): «Da parte di tutti c’è stata la consapevolezza della necessità di uno scatto e di un salto di qualità. C’è stato l’appello di Veltroni a fare squadra: condiviso da tutti». Tonini aggiunge: «Tutti abbiamo condiviso la necessità di passare dal dibattito convulso e confuso di questi giorni a una fase di vero chiarimento». E Anna Finocchiaro precisa che «nessuno dei dalemiani ha mai chiesto il congresso anticipato».
Quanto queste dispute tra diessini piacciano agli ex margheriti è presto detto. Gli ex popolari sono quelli che si trovano più al loro agio (sia pure nel modo chiarito prima da Fioroni), ex prodiani di collegamento come Rosy Bindi chiariscono tutta la loro di-
stanza sia dall’eterno duello D’Alema-Veltroni, sia dall’idea di partito coltivata dall’ex presidente Ds: «Penso che ci sia», ha detto ieri l’ex ministro a Red tv «nella ricerca delle alleanze verso il centro da parte di D’Alema, una nostalgia di rendere comunque il Pd il partito della sinistra». Ma «questo partito non dovrebbe avere un colore unico», perché «io non ho nessuna intenzione di consegnare a Casini le motivazioni dei cattolici né quelle dei moderati italiani». Da tutto il dibattito si è segnalato per il silenzio Francesco Rutelli. L’ex leader della Margherita ieri si è limitato a smentire le ricostruzioni giornalistiche che lo volevano impegnato in progetti politici centristi, fuori dal Partito democratico: «Certe stupidaggini che sono comparse in questi giorni meritano di essere tagliate di netto», ha dichiarato. Per il resto, il primo sostenitore delle alleanze di nuovo conio è rimasto in silenzio. Soltanto, come presidente del Copasir, una lunga nota di «soddisfazione per il varo della mozione bipartisan contro la pirateria in Somalia».
panorama
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Affari. Perché tutti parlano della «bomba Zaleski»? E perché Tremonti ce l’ha tanto con Passera e Profumo
Chi vince e chi perde nel risiko bancario di Giancarlo Galli segue dalla prima Debiti contratti con le banche che, «con i soldi degli altri», avevano permesso a Zaleski di mettere in cassaforte (in Italia) il 5% di Intesa San Paolo, il 2,28% di Ubi Banca, il 2% di Monte Paschi. Ancora: 2,20% di Mediobanca, 2,20% di Generali, 1,99% Popolare Milano, 1,10 Fondiaria. Notevole la presenza nell’energia (2, 51% A2A nata dalla fusione tra le municipalizzate di Milano e Brescia; 10,02 in Edison) , nonché l’1% di Telecom. Ciliegina sulla ricca torta: il 18,99% della finanziaria Mittel, della quale è vice presidente, affiancando Giovanni Bazoli. La stima che unisce Bazoli a Zaleski, è notoria, conclamata.
Molti indizi facevano per tanto ritenere che fosse Intesa San Paolo il maggior sponsor dell’affarista. Invece
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
no. Allorché la Borsa ha cominciato a precipitare e le carte sono state scoperte, s’è visto che in tanti avevano prestato soldi a Zaleski. In primis, Intesa San Paolo e Unicredit, poi una miriade di istituti; e pure Paribas e Royal Bank Scotland, che però si sono affrettate a chiedere il rientro immediato dei 2 miliardi concessi. Prima questione. Perché l’intera galassia bancaria ha finanziato Zaleski? Risposta: era stato arruolato per assicurare le alchimie finanziarie, gli equilibri di potere. Seconda questione. Perché quando Zaleski è apparso meno solvibile agli stranieri, le nostre banche, use a lesinare i finanziamenti alle piccole e media imprese, si sono trovate d’accordo nello stendere una rete di salvataggio attorno al finanziere assumendosi anche le quote dovute a francesi e scozzesi? Risposta: fossero gettati sul mercato i pacchetti azionari di Zaleski, i tonfi sarebbero apocalittici. Quindi, la Confraternita è corsa in aiuto. Un banchiere di provata esperienza (Pier Francesco Saviotti), piloterà l’uscita di scena di Zaleski, tempo un anno. Ma fra 12 mesi, le attuali prime donne dell’ormai discusso club dei Ban-
chieri, saranno ancora sulle loro poltrone? E da questo punto si torna a Giulio Tremonti, alla sua determinazione a rinnovare. La posizione più delicata è quella di Alessandro Profumo di Unicredit. «Mangerà il panettone non la colomba pasquale», è voce ricorrente. Orgoglioso e dinamico cinquantenne, Profumo si era costruito l’immagine di banchiere internazionale. Gli è andata male comperando in Germania e a Est, assorben-
collisione con Corrado Passera, che, a sua volta, ha perso il feeling con Bazoli (per via del patronage alla cordata Cai su Alitalia), e per dissonanze politiche. Bazoli era prodiano doc, Passera è ritenuto “sin troppo”berlusconiano. Non bastasse, occorre registrare il disagio delle fondazioni bancarie, azioniste rilevanti sia di Unicredit sia di Intesa San Paolo. Le due banche non distribuiranno dividendo, lasciando le Fondazioni a bocca asciutta. Il che, a dire poco, innervosisce. Inoltre ci si chiede: che ne facciamo delle partecipazioni in Rcs - Corriere della Sera, Telcu, Pirelli, che agli attuali corsi borsistici registrano pesanti minusvalenze? Di riflesso l’intera scacchiera bazoliana entra nel collimatore dei critici. L’interessato ha replicato che resterà sino al 2010, scadenza naturale. Ma certe ipotesi sarebbe bene mai farle, altrimenti… Comunque, se verranno varate le misure tremontiane a sostegno delle banche (prestiti a capitale ma senza ingresso nei cda) prepariamoci a grosse novità. Prima o poi, i banchieri che hanno mancato gli obiettivi, potrebbero essere chiamati a rispondere degli errori o degli abbagli, come nel caso Zaleski.
L’ex consigliere di Giscard D’Estaing lasciò la Francia e diventò ricco in Italia. Lo aiutarono in molti, ma adesso che sta di nuovo in difficoltà... do Capitalia. Azionati smarriti e clientela inquieta: un lancio obbligazionario per fare liquidità ha fruttato un quarto del previsto.Tremonti, che pure non lo ama, lo avrebbe invitato a restare fino a primavera. Ad evitare traumi.
Vento di tempesta in Intesa San Paolo. Con Zaleski nei guai, Bazoli ha perso un pilastro. In Borsa il titolo è precipitato, mentre stanno venendo alla luce altri nodi. I torinesi del san Paolo sono scontenti dell’andamento della gestione, e il Direttore generale Pietro Modiano è entrato in rotta di
I ragazzi che hanno dato fuoco al clochard di Rimini hanno agito con fredda logica
Il male assoluto e i quattro mostri al bar uattro ragazzi di Rimini - la città del divertimento - bruciano un clochard per divertimento. Era passata da poco la mezzanotte. Il poverocristo dormiva come ogni notte sulla sua panchina. I quattro cattivi e annoiati ragazzi sapevano dove viveva e dove dormiva, lì in via Flaminia. I giornali, raccontando l’incredibile fattaccio, hanno chiamato “la banda” - come si è espresso il capo della mobile, Nicola Vitali - con i nomi e i cognomi dei quattro e hanno aggiunto il lavoro: Matteo l’elettricista, Fabio lo studente, Enrico il perito chimico, Alessandro il barista. Pare sia stato quest’ultimo ad avvicinarsi al clochard che dormiva, a cospargerlo di benzina e a dargli fuoco: «Dovevi vederlo il barbone dentro al fuoco». Proprio così. Apparentemente senza spiegazione. Perché, purtroppo, una spiegazione c’è. E ancora più assurda e idiota della cattiveria del fuoco. Emerge dalle intercettazioni: «Hai visto. Ne parlano tutti, che roba…». In questa barbarie c’è della logica. Una logica distruttiva, ma una logica.
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Tutto è stato calcolato. Programmato. Studiato. L’elettricista, lo studente, il chimico, il barista non hanno lasciato nulla al caso. Le fiamme non sono state accese dopo una sbronza. Erano capaci di intendere e di volere. Sapevano cosa
stavano facendo e volevano fare ciò che facevano. Il clochard non era lì per caso. Era un obiettivo. Un obiettivo facile, oltretutto. Perché solo, indifeso, isolato. Chi vuoi che difenda un barbone. Lo hanno prima spaventato con sassi e petardi. La notizia della notte del raid contro il barbone finisce sui giornali. Sono loro ad aver fatto parlare i giornali. La cosa li eccita. Li elettrizza. Hanno scoperto un modo per essere qualcuno e fare qualcosa che interessa anche i giornali. La loro cattiva e stupida azione finisce in cronaca. I giornali danno la notizia e sono loro - un elettricista, uno studente, un chimico, un barista - ad aver creato quella notizia. E’ qui che la molla scatta nella testa: i giornali parlano di quello che facciamo. Allora si può fare ancora meglio: possiamo far parlare di più i giornali e le televisioni se diamo fuoco a quel barbone che non ha nessuno al mondo. Eccola qui la logica della barba-
rie: un’intelligenza del tutto intesa al male. Il “divertimento” - come lo hanno chiamato - consiste nella logica della causa-effetto: clochard in fiamme=notizia sul giornale. Causa effetto. I quattro bravi ragazzi scoprono come si può costruire un “evento” e se ne compiacciono. Ritornano anche sul luogo del mancato delitto - il clochard è ricoverato a Padova - per non perdersi la scena e gli sviluppi dell’azione che hanno compiuto: soccorsi, ambulanze, telecamere, via polizia, vai. Nessuno lo sa, ma sono loro i veri artefici di questo pandemonio. Domani i giornali ne parleranno. Purtroppo, però, i giornali potranno raccontare il fatto, ma non gli autori del fatto. In loro ci sarà questo rammarico: la legge impedisce loro di rivelarsi appieno e di mostrarsi come gli eroi. Se solo non ci fosse la legge - la punizione e la condanna umana e morale - quei quattro bravi ragazzi potrebbero anche rivendi-
care con orgoglio le loro gesta notturne: siamo stati noi a bruciare vivo il barbone di via Flaminia. Ecco, guardateci, ammirateci. La logica così avrebbe anche il riconoscimento della morale. Il mondo a quel punto sarebbe sottosopra. Il male al posto del bene.
Quando i genitori dei ragazzi sono stati informati non credevano a ciò che sentivano. Due madri sono svenute. Un padre ha avuto una crisi di nervi, un altro si è sentito male. I loro ragazzi, i loro normalissimi ragazzi - tutti incensurati - hanno bruciato vivo un uomo solo, isolato e inerme che dormiva su una panchina. Un gesto di una cattiveria inumana che solo gli uomini sanno compiere. Utilizzando l’intelligenza non per creare, bensì per dis-creare, se solo fosse possibile utilizzare questa parola. Una logica ferrea regge questo sconcio. La giustizia - c’è da chiedersi - saprà essere altrettanto ferrea? Il male nasce quando si dimostra che non lo si sa più identificare, controllare e punire. I quattro bravi ragazzi di Rimini non sono da correggere o recuperare alla società, ma da punire. Non sono cittadini minori, ma uomini fatti, capaci di intendere e volere ciò che intendono. Vanno puniti semplicemente per ristabilire l’ordine del diritto, che punisce il male.
panorama
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Sovraffollamento. Secondo gli operatori del settore, il punto di non ritorno è quota 65mila. E ci arriveremo nel 2009
Il governo nel labirinto delle carceri di Marco Palombi
ROMA. C’è uno spettro che si aggira per l’Italia: niente a che vedere con rivoluzioni prossime venture, ma più modestamente trattasi del rispetto dei diritti dei detenuti. Si parla di spettro non perché i carcerati si agitino minacciosi, ma perché nessuno li vede né se ne interessa: non l’opinione pubblica, non la politica (Radicali a parte), non la stampa. I diritti di chi sta in carcere non piacciono alla gente, fanno a botte con la paura con cui nutriamo il nostro inconscio collettivo, fanno perdere voti. Eppure sono lì, pietra dello scandalo che nessuna rimozione riesce davvero a cancellare. Nei nostri circa 200 istituti di pena ci sono attualmente 58.270 detenuti per 42mila posti di capienza massima, che scendono a 37mila reali se si considerano lavori di ristrutturazione e chiusura di alcuni bracci (per i curiosi, di questi 58mila oltre la metà, 32mila, sono in attesa di giudizio). Per capirci, quando si decise l’indulto i detenuti erano poco meno di 61mila: se si considera che la
I provvedimenti previsti dall’esecutivo sono del tutto inefficaci. Il lavoro di Angelino Alfano non fa eccezione: qualche annuncio, pochi progetti, zero risultati popolazione carceraria aumenta di circa mille unità al mese è abbastanza semplice desumere che l’ipocrisia della politica italiana sarà un fatto conclamato dal gennaio prossimo. E non finisce qui. Secondo gli operatori del settore, il punto di non ritorno è quota 65mila: ci arrive-
remo entro il 2009 e sarà un inferno. Già ora, peraltro, siamo in un brutto angolo di Purgatorio. Qualche esempio: la polizia penitenziaria è sotto organico di 4.000 uomini, al carcere Le Vallette di Torino (1.508 presenti per 920 posti) da settimane decine di detenuti sono costret-
ti a dormire in palestra, a Catania c’è una vera e propria invasioni di topi grandi come bassotti, nel solo Lazio dall’inizio dell’anno i suicidi sono stati diciassette. Per completare il quadro, si può aggiungere il taglio da 133 milioni di euro ai fondi destinati all’Amministrazione penitenziaria previsto dal decreto Tremonti di giugno. In mezzo a questo sfacelo le soluzioni che arrivano da governo e Parlamento sono per ora pari a zero, se si escludono le uscite pubblicitarie. Il sottosegretario alla Giustizia Elisabetta Casellati, ad esempio, ha dichiarato che a breve saranno disponibili 1.600 posti aggiuntivi. Come avrà già intuito chi sa far di conto, con una cifra del genere non si risolve niente, ma c’è di più: come hanno già ampiamente denunciato i sindacati di categoria alcune strutture detentive, pure già pronte, non aprono non per lassismo perché manca il personale. Secondo un calcolo prudenziale per far funzionare a pieno regime Gela, Noto e Rieti – i 1.600 posti della Casellati - servono almeno 500 agenti, che però
Revisionismi. Clamore radical-chic per il successo di Luxuria all’”Isola dei famosi”
Contrordine, il reality è di sinistra di Gabriella Mecucci a sinistra perde il pelo ma non il vizio: persino in materia di reality. Questo genere televisivo sino a un mese fa era stramaledetto: l’esempio della diabolica stupidità del piccolo schermo, di come rincitrullire i cervelli dei più o meno giovani. Non ce n’era uno che si salvasse: dal Grande Fratello, alla Talpa, dall’Isola dei Famosi, ai tentativi spuntati un po’ ovunque. Poi, Il Re Mida, sotto le spoglie della sinistra rifondarola, ha messo le sue nobili mani su un reality e quello, almeno quello, si è trasformato da sciocchezzaio pubblico in oro della vetrina di Bulgari.
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vizi televisivi: Giorgio Amendola era un fan della Carrà e Francesco Cossiga adora Beautiful. La gauche però pontifica contro questo ciarpame culturale in continuazione. Per scoprirsi poi affascinata e tifosa quando dentro al reality, il genere più contestato, ci finisce uno dei suoi. E non solo ci finisce, addirittura, lo vince battendo un bidello bolognese e una invadente contessa fuori forma. Wladimir Luxuria, infatti, si è aggiudicata l’aspra
nei loro confronti. Insomma, ha fatto i miracoli.
La gauche è fatta così, le cose sono buone solo se passano dal suo fonte battesimale.Tutto questo ricorda una vecchia storia che veniva raccontata nella Francia di altri tempi. Gli abati transalpini non amavano mangiare di magro tutti i venerdì. Preferivano la carne ben saporita ad uno sciapito pesce. Succedeva così che facevano cuocere dei grossi cosci d’agnello e se li facevano portare. Indossavano i paramenti e in nome di Dio pronunciavano la formula: «Ti benedico carpa». E così, trasformato il succulento arrosto in cibo da venerdì se lo mangiavano beati: buon pasto senza peccato. Liberazione fa la stessa cosa: grazie al suo sacerdote Wladimir Luxuria assolve il reality, lo elegge a luogo del riscatto e se lo gusta come un cosciotto d’agnello. Si attende ora l’assoluzione di altre trasmissioni all’indice: dal Grande Fratello alle telenovelas. Chi riuscirà a sdognarle a sinistra?
Per ”Liberazione” ha «riscattato i transessuali», per “Repubblica“ ha sdoganato il genere: una rivoluzione copernicana in diretta televisiva
È andata così: Wladimir Luxuria, ex parlamentare del partito di Bertinotti, abbandonato lo scranno di Montecitorio ha deciso di partecipare all’Isola dei famosi di Simona Ventura. Nulla di male naturalmente, ma figurarsi se a fare una scelta del genere fossero state la Mara Carfagna o la Gardini! Nessuno ci avrebbe risparmiato i fremiti d’indignazione a sinistra per il cattivo gusto, la mancanza di eleganza o di senso delle istituzioni delle due signore. Quando la Pivetti si dette allo spettacolo ne sentimmo di tutti i colori. E invece anche gli uomini più importanti hanno i loro piccoli
contesa: ha saputo raccogliere simpatie, ha ben confezionato l’immagine da vendere, ha fatto le alleanze giuste e l’ha spuntata. Notorietà e buoni guadagni per lei. Nulla da dire, se li è meritati. Ma - siccome è di sinistra - la nostra ha fatto molto di più. Per Rina Gagliardi, pensosa editorialista di Liberazione, ha “sbanalizzato” la trasmissione. Per Repubblica ha nientemeno che “sdoganato”il reality. Prima la sinistra non ne voleva sapere, ma da adesso in poi lo guarderà. Per l’organo del Prc invece ha riscattato il transessuali, ha rotto ogni e qualsiasi prevenzione
non esistono: le prossime assunzioni non arriveranno prima del 2010. Quel che manca, in realtà, lo sanno tutti: a parte gli interventi per tamponare l’emergenza e la costruzione roba lunga - di nuove carceri, serve una riforma del sistema sanzionatorio italiano.
Nella Costituzione c’è scritto pena, ma pena non si traduce necessariamente con carcere: buon senso che fa a cazzotti con la campagna elettorale del centrodestra e col pensiero, e persino l’antropologia, delle sue componenti più populiste. Il lavoro di Angelino Alfano a via Arenula non fa eccezione rispetto a questo vizio di nascita: qualche annuncio, pochi progetti, zero risultati. L’ultimo schiaffone l’ha preso sulla cosiddetta “messa in prova” (lavoro di pubblica utilità invece del carcere per chi abbia compiuto reati minori), un istituto ragionevole che però contrasta col “buttiamo via la chiave” che è l’unica proposta sul tema di Lega e An. Niente panico, comunque, non importa a nessuno.
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i potrebbe dire che l’elezione di Barack Obama, così come gli statement bipartisan che gli hanno rivolto sia Bush che McCain, confermino quanto diceva Tocqueville: ovvero che l’America è animata principalmente da un movimento democratico. E benché il filosofo francese, nei suoi scritti del 1850, non avesse previsto la guerra di secessione, la grande depressione del 1929 e tantomeno la crisi attuale, aveva però pronosticato una cosa: l’elezione di un nero alla Casa Bianca. O meglio: la possibilità reale che l’America potesse esprimere, un giorno, un uomo di colore alla presidenza. Adulazioni a parte, Tocqueville si era anche sbagliato muovendo delle critiche parzialmente veritiere, una su tutte su cui riflettere: interrogandosi sul perché gli Stati Uniti non rischiassero di implodere in una guerra, il francese arguiva che l’America non aveva conflitti significativi da temere. Un’obiezione valida per il XIX secolo, quando gli Usa erano - di fatto – un continente isolato, ma che già nel XX secolo tramontava velocemente, evidenziando l’errata analisi del filosofo. Gli Stati Uniti hanno conosciuto due guerre mondiali e, da entrambe, sono usciti abbastanza bene: da leader.
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Se tutto il mondo si è appassionato a quest’ultima campagna elettorale e all’elezione di Obama, è perché si trattava di eleggere l’uomo più potente del mondo, ma questo non vuol dire potente in tutto. Su questa “distanza” vorrei soffermarmi in modo particolare per poi ragionare sulle sfide che Barack Obama affronterà in questo XXI secolo. Facendo però un distinguo: il secolo scorso è stato caratterizzato dai conflitti mon-
La violenza planetaria, la sfida di Cina e Russia, il crack globale della finanza e, su tutt Il nuovo presidente incontra un secolo segnato dalla “caduta degli de
Obama contro Ni di André Glucksmann
diali, questo che stiamo vivendo dalle crisi, che si susseguono e continueranno a farlo, e non saranno certo solo di natura economica. Ebbene, nel Novecento gli Usa hanno mostrato una debolezza, figlia senza dubbio di una società democratica, che rischia di ripercuotesi anche sulle scelte odierne. Quella di entrare tardi nel conflitto, come dimostrano sia la Prima che la Seconda guerra mondiale. Nel ’17 fu necessario l’attacco dei sottomarini tedeschi e nel ’41 Pearl Harbour sulla costa giapponese. Ma questo è solo un lato della medaglia. L’altro è che gli Usa tendono ad uscire dai conflitti troppo presto. È successo nel 1918 – nonostante le idee di Wilson fossero assai più convincenti di quelle tematizzate da Clamenceau, si è ripetuto nel 1945 permettendo così a Stalin di allungare la mano su metà dell’Europa orientale. Il punto è che questi “errori” non sono ascrivibili solo ai grandi conflitti, ma si ripresentano anche nelle piccole crisi. Ne è esempio la Somalia: gli States hanno fatto bene ad intervenire, ma è innegabile che alla prime difficoltà siano scappati da Mogadiscio. E per non riaprire il “caso Somalia”, Clinton ha lasciato che accadesse il genocidio Tutzi del Ruanda. E nono-
stante le sue scuse ufficiali, quasi a riconoscere questa debolezza del sistema, il massacro è stato fatto continuare, e il numero di morti fra Congo ed ex Zaire (in questi ultimi dieci anni) è passato da un milione a quasi cinque. Insomma: l’in-
to Bush padre che Clinton) hanno immaginato un nuovo ordine mondiale. Dopo l’11 settembre ha preso piede un’altra teoria: la lotta contro il terrorismo, che dovrebbe accomunare tutti (o quasi) i Paesi del pianeta. Pure qui, le foto con i leader cine-
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Il Novecento è stato caratterizzato dalle guerre, quello che stiamo vivendo dalle crisi. Per affrontarle bisogna fare luce su una debolezza delle democrazie: l’ingresso tardivo e l’uscita precoce dai conflitti gresso tardivo e l’uscita precoce sono una debolezza. Un altro esempio è il Vietnam, che lasciarono così in fretta da aprire le porte al genocidio cambogiano (quasi 3 milioni di vittime, motivo per cui non si può certo ammirare il Nobel Henry Kissinger). Come aveva previsto Tocqueville, tuttavia, questa difficoltà non è propriamente americana, bensì figlia dei sistemi democratici. E non per un eccesso di prudenza, piuttosto per un’anomalia intellettuale. Tutte le democrazie tendono a immaginare un mondo migliore di quanto non sia. Con la caduta del Muro, l’Europa ha ridotto le spese militari e gli Usa (sia sot-
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si, russi e americani sono fuorvianti. Quello che cerco di dire è che tutti gli errori commessi nel XX secolo si prolungano nel XXI e hanno sempre a che fare con la violenza nel mondo. Tre considerazioni al riguardo.
La prima è che la violenza è planetaria, nuova e senza frontiere. I pirati in Somalia, i talebani in Afghanistan (che hanno ripreso le coltivazioni di oppio da quando sono sotto assedio, esattamente come i narcomarxisti in America Latina), sono tutti esempi di violenza. Eppure quest’ultima è cambiata, usa le donne e i bambini, per esempio. E manda in soffitta la
dottrina di Clausewitz, quella che si riferisce alle guerre fra Stati e prende in considerazione solo le vittime militari, non civili. Una ragione oggi archiviata dalle statistiche dell’Unicef quando evidenzia che la grande guerra provocò 10 milioni di morti (80% militari); la Seconda 50 milioni (metà erano soldati) e dal ’45 in poi, sommando tutti i conflitti esplosi fino al 1982, la percentuale dei civili uccisa oscilla fra l’80e il 90%. Ecco perché dico: abbiamo cambiato tipo di violenza, abbiamo cambiato tipo di guerra, non si tratta più solo di guerre tra Stati, la violenza è ovunque. È globalizzata. Di questo dovranno presto rendersi conto sia gli Stati Uniti che tutte le democrazie, perché non si tratta di un incidente di percorso, ma di una profonda degenerazione. Dovuta al fatto che fra il 1945 e la caduta del Muro nel 1989, ha avuto luogo uno stravolgimento totale delle società. La Cina, il Sudamerica, l’Africa sono cambiati radicalmente. Non cercano più un ordine sociale tradizionale. E a questo si aggiunge che gli stati di diritto, come i nostri, sono sempre di meno. Tra i due scenari, il vecchio e il futuro, si colloca una zona grigia che è maggioritaria. Ovviamente in questa zona grigia gli uo-
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A sinistra: soldati americani a Saigon, Vietnam. È il 1968. Alla celere dipartita delle forze armate Usa è ascrivibile il successivo genocidio cambogiano, con oltre 3 milioni di morti. A destra: Vladimir Putin, per il filosofo francese simbolo della violenza perseguita solo per sete di potere; Friedrich Nietzsche, teorizzatore “dell’inversione dei valori”; il futuro presidente Usa Barack Obama, che per Glucksmann dovrà affrontare sfide umane, geopolitiche e filosofiche
o, la guerra tra potenza tecnica e democrazia. ei”. Saprà invertire la rotta?
ietzsche mini vogliono vivere, vogliono mandare i figli a scuola e non a combattere, ma è inevitabile che in questo “spazio“ dilaghi anche la ragione dei kalashnikov. Non c’è niente di più facile che armarsi di un fucile per procurarsi donne, alloggi, gradi, amicizie e, dunque, potere. Ecco perché il virus della violenza planetaria senza frontiere è la sfida del XXI secolo.
La seconda considerazione è che la violenza non attiene solo agli individui, ma anche agli Stati. Prendiamo la Russia: tutti ci siamo sbagliati su Putin, sia la destra che la sinistra, sia l’Europa che l’America. Abbiamo considerato il massacro ceceno come un evento interno, al massimo come una forma di lotta al terrorismo. Eppure, se la Gran Bretagna, l’Irlanda o la Spagna avessero fatto 200mila vittime su una popolazione che non arriva al milione (come quella cecena) avremmo manifestato rumorosamente, avremmo chiamato le cose con il loro nome: massacro. Ma non c’è solo questo, anche la Georgia è un problema. E il punto non è se Sakaashvili ha fatto il primo passo. Anche i polacchi, uccidendo due tedeschi a Berlino, diedero alla Germania il “la”per cominciare la Seconda guerra
mondiale. Il punto è che la Russia non rispetta le frontiere internazionali e nemmeno gli accordi di cessate il fuoco da lei firmati. Perché la sua intenzione è creare un monopolio non soltanto energetico, ma soprattutto politico. C’è una frase, anche se non verificabile, che spiega bene la situazione. L’avrebbe detta Putin durante un incontro internazionale al pre-
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lenza individuale di cui sopra che è dilagata e ha infettato anche gli Stati. Perché non si può sostenere che se uno Stato si modernizza e abbandona il marxismo, abbia anche deciso di abbracciare la democrazia. Altri Paesi oggi vivono un miracolo economico, basta guardare alla Cina. Ma c’è una bella differenza fra un Paese che vive sul gas come l’Arabia Saudita sul petrolio, e un Paese che - pur non avendo ricchezze energetiche - cresce a dismisura. Ma modernizzazione e democratizzazione non sempre vanno di pari passo. La Cina è una dittatura politica governata da un faraone - il partito - che controlla un miliardo di persone ed è culla di una classe borghese ancora fortemente minoritaria. In più è nelle condizioni di scegliere i propri alleati: adesso sta puntando sull’Occidente, ma non si capisce se in modo stabi-
La violenza oggi è globalizzata e senza frontiere. Un abisso in cui siamo precipitati fra il ’45 e la caduta del Muro nell’89, che ha significato la fine di tutti i valori fino a ieri conosciuti sidente Usa: «Dopo la caduta del Muro potete contare su Asia e Cina, sui vostri alleati canadesi e pure sui Paesi latino americani e africani. Lasciatemi almeno l’Europa». Insomma: io dico che esiste un enorme problema, una sfida reale di cui Obama dovrà rendersi conto e che riguarda il Vecchio Continente e la sua capacità di contrastare il ricatto energetico e politico dei russi (che nei consessi internazionali già parlano come rappresentanti in pectore dell’intero continente). Un comportamento figlio di quella vio-
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le o se per “ritorcerglisi” contro in un secondo momento (il grande rischio di domani). Una cosa però è manifesta: è un Paee che cerca di condividere la gestione del mondo positivamente. La Russia no. Il suo potere si esercita attraverso la distruzione e la volontà di nuocere. Di più: la forza della Russia sta proprio nel disordine mondiale che persegue, attraverso la vendita di armi a chiunque, il ricatto energetico e la sua invulnerabilità atomica. Su questa stessa strada si è incamminato anche l’Iran di Ahmadinejad. E
Obama - geopoliticamente parlando - dovrà farci i conti.
La terza considerazione è intellettuale, spirituale e filosofica, e attiene alla grande crisi della coscienza planetaria. Per spiegarla mi rifarò alle parole del più grande storico greco: Tucidide. Nella sua Guerra del Peloponneso egli spiega tre concetti: a) che la guerra può esprimersi in diverse forme (tra nazioni, città, entità indipendenti); b) che può degenerare in un secondo tempo in guerra civile; c) che una minaccia incombe su entrambe le tipologie, ed è la peste. Che nulla ha a che fare con la malattia, ma che presuppone la fine del rispetto di ogni regola, l’inversione - come direbbe Nietzsche - di ogni valore conosciuto (dalla religione alle tradizioni all’amore per il prossimo). Questa peste è una costante della storia occidentale, e ci ricorda che il genere umano, in alcuni frangenti, perde completamente la testa e il rispetto per se stesso e per gli altri. Così facendo annulla l’idea del male, che non ha più un termine di paragone a cui riferirsi, e lo propaga nel mondo. La peste, così intesa, è una malattia peggiore di quella virale e purulenta, perché essendo spirituale non sembra avere medicina che la curi. La letteratura europea così come le preghiere nel medioevo è a questa malattia che si riferiscono, non a quella studiata da Pasteur. E oggi, purtroppo, questa peste regna in gran parte del mondo. Nessuno è più fedele a nessuno, i bambini soldato muoiono, i valori sono stati cancellati. La sfida che abbiamo davanti è dunque triplice e deve contrastare la violenza planetaria, la nuova geopolitica aggressiva e
pericolosa e la peste spirituale. Lasciatemi allora spendere altre poche parole su Tucidide: per lo storico la guerra nel Peloponneso era cominciata perché in Grecia c’erano due tipi di spirito: quello di Sparta e quello di Atene. Quest’ultimo significava rinnovamento, rischio, innovazione, invenzione: Atene ha inventato il teatro, la scienza, la strategia, il mercato mondiale e la filosofia. La conservatrice Sparta invece non voleva cambiare. Se questo è l’assioma, la recente guerra nei Balcani ne è la sua versione moderna. La pervicace salvaguardia delle radici ha generato un mostro che tentava di contrastare la democrazia, la globalizzazione, la scienza. Questo è il vero problema. Perché la ricerca di una supremazia tecnologica senza il confine della democrazia è foriera di un pericolo mortale. Un esempio su tutti: la catastrofe nucleare di Chernobyil, il simbolo della caduta dell’impero sovietico. Un impero che aveva fatto del matrimonio fra sceinza e dittatura il suo asso portante e che è imploso davanti agli operai e tecnici ubriachi che non hanno saputo evitare la tragedia.
Allora io dico che le sfide che deve fronteggiare Obama sono umane, geopolitiche e filosofiche, e che nel loro insieme esse rappresentano la sfida più grande dell’umanità: la gestione della potenza della tecnica. E questo per evitare un solo scenario: la fine del mondo. Una fine che l’uomo moderno puà contrastare solo attraverso la proclamazione di bisogni fondamentali: i diritti dell’uomo, la libertà di espressione e anche un certo numero di libertà sì relative, sì imperfette, ma assolutamente necessarie.
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Sfide. Sotto il manto dell’innocenza, le intenzioni di Mosca sono chiare: tornare a essere una superpotenza
Il ritorno dell’Armata Rossa Riportare all’antica gloria l’esercito Ecco la via russa per riprendersi il mondo di David J. Smith a pianificazione dell’invasione della Georgia da parte della Russia era già in corso, quando Medvedev divenne presidente il 7 maggio scorso. Nondimeno, è divenuto un entusiasta della guerra e – dalle settimane che sono passate da allora – un articolato portavoce della dottrina revisionista che ha giustificato l’attacco. Due documenti presidenziali, che hanno attirato troppa poca attenzione in Occidente, rivelano che l’assalto alla Georgia è stata soltanto la prima, violenta eruzione della dottrina Medvedev. I caricatori erano ancora caldi sul ter-
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vedev non può da una parte rigettare l’ordine e dall’altra riverire il suo collegato corpo giuridico. Invece, un potere rivoluzionario come la Russia utilizza la legge internazionale per stordire coloro che ne hanno vero rispetto. Kissinger offre un esempio storico che ha avuto conseguenze atroci: «L’appello di Hitler all’auto-determinazione nazionale nella crisi sudeta del 1938 è stata un’invocazione di ‘giustizia’, e quindi ha contribuito all’indecisione della resistenza». Oggi, l’indecisione occidentale nei confronti dell’aggressione russa è rinforzata dal terzo punto di
I cinque punti di politica estera presentati da Medvedev subito dopo l’attacco alla Georgia sono un messaggio (non pacifico) indirizzato all’Occidente. Che farebbe meglio ad ascoltare ritorio georgiano, quando il presidente russo ha presentato cinque punti di politica estera alla televisione russa. Il secondo punto è “capire il pensiero del Cremlino”. Il 31 agosto, Medvedev ha detto: «Il mondo dovrebbe essere multipolare. Un mondo unipolare è inaccettabile. La dominazione è una cosa che non possiamo permettere». Gli studenti di relazioni internazionali possono dibattere sul mondo contemporaneo: se sia unipolare, multipolare, non polare o persino libero. Ma la questione pratica è che la Russia non è felice e Medvedev sta scommettendo su una posizione rivoluzionaria. Nel suo capolavoro A World Restored, testo del 1957, Henry Kissinger scrive: «Il tratto caratteristico di un potere rivoluzionario non è che questo si sente minacciato. Ma che nessuno riesce a rassicurarlo». Subito dopo, Kissinger aggiunge: «Se un potere desidera una sicurezza assoluta, vuol dire che per tutti gli altri c’è insicurezza assoluta».
Questa osservazione illumina l’apparentemente innocuo primo punto di Medvedev, “il primato dei principi del diritto internazionale”. Se il diritto internazionale è l’espressione giuridica del generalmente accettato ordine mondiale, Med-
Medvedev,“la Russia non vuole confrontarsi con altre nazioni”. Come l’appello al diritto internazionale, anche questa dichiarazione è soltanto apparentemente innocua. Medvedev perpetua il mito che vuole la Russia eterna vittima: la sua politica di aggressione è sempre forzata da altri. Nel caso dell’attacco estivo alla Georgia, ha detto: «Siamo stati costretti a rispondere a questo attacco, insolente e sfacciato. Non ci hanno lasciato alcuna scelta». C’è una varietà di punti di vista sul-
la sequenza di eventi che si sono susseguiti il 7 agosto, primo giorno dell’invasione. Tuttavia, sono pochi coloro che dubitano del fatto che la Russia abbia preparato per mesi l’attacco, che questa operazione sia stata sproporzionata persino nell’ottica di perseguire un qualunque obiettivo ragionale e che questo obiettivo, di conseguenza, doveva essere molto più vasto rispetto al «far tornare le cose alla normalità e proteggere la vita e la dignità della popolazione dell’Ossezia meridionale». Che poi è quello che disse Medvedev a chi lo intervistava in televisione.
I punti quattro e cinque declamati dal presidente russo completano la spiegazione della scelta che lui e il primo ministro Vladimir Putin hanno fatto. Come quarto punto, ha detto Medvedev, la Russia proteggerà i suoi cittadini e i suoi interessi commerciali “ovunque essi si trovino”. In particolare, e questo è il quinto punto, “esistono regioni nelle quali Mosca ha interessi privilegiati”. La pericolosa dottrina che ha guidato l’Armata rossa in Georgia è chiara. In ogni caso, la performance dei militari russi nel territorio di Tbilisi fa sorgere diversi dubbi sulla loro abilità di sostenere l’ideologia del Cremlino. Il 26 settembre, in accordo con quanto detto, Medvedev ha declamato cinque principi gui-
da per riportare in auge l’abilità militare entro il 2020. Per prima cosa, il presidente ha detto a un incontro di comandanti distrettuali militari, presso il campo d’addestramento di Donguz, che «le formazioni e le unità militari devono cambiare, per divenire gruppi di combattimento permanenti». Al secondo punto, la dirigenza militare deve divenire più efficiente.Terzo, deve succedere lo stesso per l’addestramento e l’educazione militare. Al quarto posto, come spiegato proprio da lui, la Russia «ha bisogno di un esercito che sia equipaggiato con armi
sofisticate…Fondamentalmente armi nuove e ad alta tecnologia, che potranno giocare un ruolo particolare in questo ambito».
In conclusione, ha aggiunto, «vorrei ricordare gli aspetti sociali che rivestono le forze armate. Partendo dalle paghe per arrivare alle condizioni abitative, attraverso tutta una varia gamma composta da altre questioni». (Alcuni graffiti lasciati dagli invasori russi sui muri della base militare georgiana di Senaki esprimevano sconcerto per le superiori condizioni di vita dei soldati locali). Medve-
Razzismo. L’odio xenofobo dei tifosi dello Zenith si scatena sugli spalti e per le strade della città
San Pietroburgo, casa dei naziskin russi di Pierre Chiartano an Pietroburgo città violenta, skinhead ebbri di follia razzista. Sembrano gli ingredienti di un racconto uscito dalla penna di Martin Cruz Smith, invece è cronaca della Russia di oggi. Maira Mkama può raccontare la sua esperienza, per fortuna, anche se ha perso un rene. Un vicolo buio, la periferia nord della città, botte e pugni senza ragione, senza un fiato, senza un insulto. La storia risale al novembre 2007, ma ci sono episodi più recenti. Maira veniva dalla Tanzania, e festeggiava la vittoria del campionato russo della squadra di calcio dello Zenith. Una birra con un amico, poi una passeggiata e i tifosi con i crani rasati, che volevano festeggiare la stessa squadra, ma a modo loro. Nell’aprile 2006 era stata la volta di un senegalese,
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poi la geografia si è ampliata. Insomma da quella parti i neri non piacciono proprio. Gli stranieri nel team di una delle formazioni più ricche della Russia, vengono definiti i “legionari” e parliamo di coreani. Gazprom mette mano al portafogli per garantire la Uefa e il proscenio mondiale. La sottocultura degli ultrà ha, invece, un’altra idea dei rapporti internazionali, da intessere allo stadio Petrovsky e zone limitrofe. Lì, dove sono passate e passeranno i grandi club europei, come Juventus, Olimpique Marsiglia, Manchester United e via elencando le vecchie signore del calcio mondiale, il razzismo è diventato un problema. È una specie di “allergia al nero”che si scatena sugli spalti, dove sono comparsi anche i cappucci bianchi in stile Ku Klux Klan, scritte e at-
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Per gli inquirenti non si tratta di terrorismo ma di una fatalità
Esplode la paura nella Capitale del Nord di Francesca Mereu
dev ha poi sottolineato l’importanza dei servizi segreti, dell’aviazione, dei cecchini di precisione, della marina e dei sottomarini – di attacco e strategici – entrambi dotati «di missili cruise. Entro il 2020, dobbiamo garantire le nostre capacità di deterrenza nucleare». È significativo che Medvedev abbia visitato Donguz – che si trova nella regione di Orenburg, vicino al confine con il Kazakistan – per celebrare la chiusura di Center 2008, un’operazione militare congiunta eseguita con il governo di Astana. Ricordando che l’Asia centrale è una di
quelle “regioni in cui la Russia ha degli interessi privilegiati”.
Center 2008 faceva parte di Stability 2008, la più grande esercitazione militare mai effettuata dal crollo dell’Unione Sovietica. Il teatro d’esercitazione prevedeva una guerra regionale, culminata in un conflitto atomico con gli Stati Uniti. Dopo due settimane, l’esercitazione si è conclusa con il lancio di missili balistici intercontinentali da dei sottomarini. Il messaggio di Medvedev è chiaro. Ed è meglio per noi se prestiamo attenzione a quanto dice.
teggiamenti di razzismo d’ogni genere. Problemi per i giocatori in campo, se di colore. MOlto difficile comprare un funambolo del pallone un po’ troppo “abbronzato”.
I collegamenti con le formazioni politiche di estrema destra, fanno temere il peggio. La Uefa ha già sanzionato il club, che però rifiuta le accuse. L’ammenda di solo 36mila euro è stata interpretata come un incoraggiamento al razzismo dalle associazioni che difendono i diritti civili. Per i neonazisti «i neri sono dei neri e serve ricordarglielo». E chi è passato su quella panchina non ha potuto negare come l’arrivo di giocatori di colore fosse un tabù: «i tifosi non lo sopporterebbero». Al comune della città qualcosa si è mosso, visto che da un paio d’anni è stata lanciata l’iniziativa “Tolleranza”. Un concorso per artisti internazionali che sappiano interpretare il gioco del calcio nei suoi mille colori etnici. Hamidou Bakayoko sorride, parlando dell’iniziativa a le Monde. Vive da 26 anni a San Pietroburgo e ha sposato una russa: «La Russia non è un Paese adatto ai neri. Qui il razzismo è la malattia più importante. Non posso fare due passi per strada senza che qualcuno non punti il dito»
MOSCA. È in piena allerta San Pietroburgo, dopo che l’esplosione di una macchina ha ucciso ieri mattina tre persone, tra cui un bambino di circa tre anni, e ne ferisce gravemente un’altra. Il sospetto è che dietro l’esplosione vi sia un attentato terroristico. I tre - moglie, marito e figlio - erano a bordo della macchina del loro autista quando si è verificata la deflagrazione, apparentemente causata da una granata che il padre teneva in una borsa. Ma questa è la ricostruzione ufficiale, quella fatta dagli inquirenti. Lo scoppio è avvenuto verso le 8,45 di mattina, a 50 metri dall’affollata stazione metropolitana Udelnaya, e a 15 km circa dall’albergo che ospitava giocatori e dirigenti della Juventus nella Capitale del Nord per giocare contro la squadra locale, lo Zenith. Anche il Primo Ministro russo Vladimir Putin era nella regione attorno a San Pietroburgo, sua città natale, per ispezionare un nuovo posto di frontiera con la vicina Finlandia. L’uomo e il bambino sono morti sul colpo, la donna mentre veniva portata in ospedale. L’autista, un giovane di 22 anni, è rimasto gravemente ferito ed è stato operato d’urgenza. Soltanto nel primo pomeriggio la tensione è calata, quando le forze dell’ordine hanno escluso l’ipotesi di un attentato e hanno detto che si trattava di un «caso accidentale». «Questa mattina non è avvenuto nessun attentato o atto criminale - ha detto il capo della polizia di San Pietroburgo Vladislav Piotrovsky all’agenzia Interfax - ma la disgrazia è successa per stupidità. [L’uomo] ha tirato fuori una granata e questa è esplosa spontaneamente. Ancora non sappiamo da dove avesse preso questa granata». Piotrovsky ha poi aggiunto che la polizia stava perquisendo l’appartamento delle vittime per chiarire la situazione. La polizia ha intanto aperto un’inchiesta criminale sotto la rubrica “omicidio”.
ne definitiva è stata presa soltanto dopo che il presidente dell’Uefa Michel Platini ha contattato Aleksander Dukov, presidente dello Zenith, che era stato a sua volta riassicurato dagli inquirenti che l’esplosione non si trattava di un attentato.
Il servizio d’ordine intorno allo stadio è stato comunque intensificato. Aumentata anche la sorveglianza davanti all’albergo bianconero e la vigilanza nelle strade della Capitale del nord. Nel pomeriggio di ieri, un charter con più di cento tifosi della Juve è arrivato da Torino a San Pietroburgo: secondo l’agenzia Interfax, che cita un agente del-
Le vittime sono marito, moglie e il figlio di 3 anni. All’origine dell’esplosione, dice la polizia, ci sarebbe una granata tirata fuori dalla tasca del capo famiglia. Ma rimane il rischio attentati
Secondo quanto riportato dalle agenzie russe, l’uomo era un ex militare che lavorava in uno studio legale di San Pietroburgo; la donna lavorava, invece, in una banca della città. L’autista li andava a prendere a casa tutti i giorni per portarli al lavoro. La televisione russa ha mostrato le immagini della macchina, una Lada Priora, con gli sportelli troncati dalla forte deflagrazione. Nella mattinata circolavano anche alcuni voci secondo cui l’esplosione -- avvenuta non lontano dal campo dove il trainer olandese Dick Advocaat allena lo Zenith -- la partita (valida per la quinta giornata di Champions League) poteva essere rinviata per motivi di sicurezza. Una decisio-
la polizia locale, «rimane in ogni caso alta la paura di disordini o eventuali attentati». La Russia è stata colpita da diversi attentati negli ultimi anni e il timore di nuovi attacchi è sempre nell’aria. Le zone più colpite sono quelle del Caucaso. Il 7 novembre una donna kamikaze ha fatto saltare un pulmino a Vladikavkaz, capoluogo dell’Ossezia del Nord, uccidendo 12 persone (compresa l’attentatrice) e ferendone una trentina, la maggior parte studenti universitari che si recavano nella vicina facoltà di medicina. Vladikavkaz di trova ad una ventina di chilometri da Beslan, dove - nel 2004 - 331 persone sono morte. Di questi, 186 erano bambini, morti durante il sequestro - ad opera di un commando di terroristi - di una delle scuole locali. In Daghestan, a est della Cecenia, attentati contro le forze dell’ordine avvengono ormai quasi all’ordine del giorno. Ad ottobre sei ufficiali di polizia sono stati uccisi e nove feriti in un agguato in un’area montagnosa a 50 km circa dalla capitale Makhachkala.
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Un emiro di spalle guarda i dati della Borsa di Dubai. Il crollo della finanza internazionale ha colpito duramente il Pakistan che, a differenza dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, non ha una economia puramente islamica. Gli Stati musulmani, infatti, hanno risentito meno del crack internazionale perché il Corano vieta il prestito ad usura - e quindi i finanziamenti che sono alla base del crollo
Prestiti. Nonostante innumerevoli interventi dell’Fmi il Paese scivola sempre più nella crisi
I soldi non salvano il Pakistan di Vincenzo Faccioli Pintozzi n prestito di oltre sette miliardi di dollari, per «aiutare il Pakistan a stabilizzare la sua condizione economica e politica». È quanto ha stanziato ieri il Fondo monetario internazionale, che in una breve nota spiega di voler aiutare «un’economia solida ma maldistribuita». Si tratta, a voler essere sinceri, dell’ennesimo prestito della comunità internazionale a favore di un Paese che dalla caduta di Musharraf non riesce più a camminare da solo. Islamabad avrà una disponibilità immediata di liquidi per un totale di 3,1 miliardi: il resto sarà erogato nel corso dell’anno, dopo dei controlli quadrimestrali per essere sicuri delle destinazioni del denaro. Prima di rivolgersi al Fondo, il Paese ha cercato altre fonti di denaro, necessario per pagare i numerosi debiti internazionali i cui interessi scadono a giorni. Nessuno, però, si è dimostrato disponibile ad aiutare il governo Zardari – il nuovo presidente, vedovo di Benazir Bhutto e reggente del Partito popolare – considerato troppo debole per reggere a lungo termine. Persino Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, storici partner della Repubblica islamica del Pakistan, hanno rimandato le richieste al mittente: la crisi ha colpito veramente tutti, e il polso morbido del governo nei confronti degli estremisti non garantisce un rientro economico.
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E proprio quest’ultima sembra essere stata il perno su cui ha spinto Islamabad per ottenere il denaro.
Il giorno dopo il crollo delle Borse mondiali, infatti, il Fondo aveva dichiarato di «aver tenuto da parte 200 miliardi di dollari per aiutare le nazioni più deboli a superare il momento negativo». E il Pakistan, la cui Banca centrale può coprire soltanto le prossime nove settimane di spesa preventivata, rientra nella definizione. Eppure, l’economia nazionale è cresciuta del 7/8 percento negli ultimi cinque anni. La scusa ufficiale per la mancanza di solidità è che questa crescita riguarda settori puramente finanziari, e non economici, e quindi non incide sul benessere della popolazione e tanto meno sui debiti contratti dallo Stato. Dal 2006, la bilancia commerciale interna ha iniziato a cedere a causa delle troppe importazioni, necessarie per coprire l’ina-
cratici, ha aperto un baratro di instabilità che sembra non avere fine. I continui scontri armati fra l’esercito regolare e le milizie talebane al confine con l’Afghanistan, l’aumento della produzione di oppio nella provincia della Frontiera nord-occidentale, la battaglia per il controllo della valle dello Swat rendono il Paese incapace di migliorare la propria condizione economica.
A tutto questo si deve aggiungere il perenne conflitto politico (combattuto con il sorriso) fra il presidente Zardari – noto anche come mr. 10 percento, per le tangenti che pretendeva durante i due mandati da primo ministro della defunta moglie – e il suo grande avversario Nawaz Sharif, leader degli islamici, non consentono di programmare efficaci interventi governativi in alcun campo. Proprio ieri, Sharif (il leader della Lega musulmana N) ha ricordato ai suoi collaboratori che «nessuno ha delle obiezioni nei confronti del governo, a cui la Lega garantisce sostegno. L’importante è però che questo governi secondo la Costituzione del 1973, che è stata cambiata da un dittatore e che però non è stata ancora riportata al suo contenuto originale». E più tardi, parlando con alcuni cronisti politici, ha sottolineato come «soltanto grazie al sostegno dei nostri attivisti il Partito popolare ha potuto fare campagna elettorale in alcune zone del Paese dove la Bhutto non era poi così amata...Ma questo sembra essere stato dimenticato». Quelle che sembrano innocue chiacchiere politiche sono in realtà un avvertimento: se Zardari non emenda gli articoli della Carta costituzionale che garantiscono l’immunità totale del presidente e quelli che parlano dell’introduzione della shari’a (la legge coranica) nel Paese, può scordarsi l’appoggio islamico. E questo significa una nuova, inevitabile crisi in un Paese che davvero non se lo può più permettere. Come testimonia il Fondo monetario internazionale.
Il Fondo monetario internazionale stanzia 7,6 miliardi di dollari in prestiti al Paese, per aiutarlo a stabilizzare la sua situazione economica e politica. Nonostante una crescita del Pil pari all’8 % annuo
Hina Rabbini Khar, ministro delle Finanze e degli Affari economici di Islamabad, sostiene che il prestito è stato erogato «senza condizioni. Il Fondo ha approvato senza cambiare nulla un piano presentato dal nostro governo». Takatoshi Kato, vice direttore dell’istituzione internazionale, non conferma ma spiega: «L’economia pakistana è stata sconvolta da una serie di scosse. Fra queste, i diversi sviluppi negativi della situazione interna, la crescita del prezzo di energia e generi alimentari e, naturalmente, la crisi finanziaria mondiale».
deguata produzione di generi alimentari e soprattutto di fonti energetiche. La crescita a dismisura dei prezzi di riso e petrolio, verificatasi poche settimane dopo in tutta l’Asia, ha fatto il resto: la rupia è crollata, e i capitali sono volati fuori dal Paese in cerca di lidi più sicuri. Secondo diversi analisti, il prestito dovrebbe fermare la caduta libera della moneta nazionale, che ha perso il 22 percento rispetto al dollaro americano. Ma questo è uno degli ultimi problemi per il governo, che con questo nuovo prestito si trova a dover gestire dei rapporti internazionali sempre più complicati. E non è un caso che tutto questo si verifichi adesso: la caduta del generale Musharraf, duramente osteggiato dalle frange più estremiste del Paese e dai cosiddetti demo-
in breve Jihad islamica contro al Qaeda: ignora Israele «Perché al Qaeda non ha compiuto attentati contro Israele?». Questa la provocazione sollevata dal leader della Jihad islamica egiziana, Sayd Imam, noto col nome di battaglia di Dottor Fazel nell’ottava parte del libro Appunti sul libro della discolpa scritto per confutare le tesi avanzate dal numero due di al Qaeda, Ayman alZawahiri. «Il primo motivo è che la priorità di Osama Bin Laden non è combattere gli ebrei» scrive Imam, secondo cui il “fondatore” di al Qaeda punta soprattutto «a contrastare gli americani mentre usa la parola Palestina solo per fare propaganda». «Il secondo motivo - per l’ex leader jihadista - è che al Qaeda è un’organizzazione che non ha uno Stato e quindi quando arriva in un Paese è un corpo ad esso estraneo e non riesce a compiere attentati se non con l’aiuto della gente del luogo. Questo è quanto è accaduto in alcuni paesi e non può verificarsi in Palestina dal momento che non è riuscita ad allearsi con nessuno dei gruppi locali».
Thailandia, peggiora la protesta Assedio all’aeroporto internazionale di Bangkok da parte dei manifestanti dell’opposizione thailandese, che chiedono le dimissioni del governo. La protesta ha creato ieri numerosi disagi ai passeggeri che si trovano al Suvarnabhumi International Airport, hanno riferito fonti aeroportuali, secondo cui «i voli in arrivo stanno atterrando, ma abbiamo bloccato tutte le partenze». Da parte sua, il leader dell’Alleanza del popolo per la democrazia (Pad), Chamlong Srimuang, commenta: «Abbiamo avuto successo, siamo riusciti a bloccare l’aeroporto». Nel corso della giornata, almeno due persone sono rimaste ferite quando colpi di pistola sono stati sparati in direzione di un gruppo di dimostranti filogovernativi dalle file dei manifestanti. La polizia ritiene di poter tenere la situazione sotto controllo, ma alcuni osservatori la ritengono “una speranza vana”.
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Epidemia. Settemila casi in tre mesi, più di trecento morti, colpita oltre la metà del Paese
Zimbabwe, il colera avanza ma Mugabe fa finta di niente di Guglielmo Malagodi ettemila casi di colera registrati tra la fine di agosto e il 20 novembre; più di 300 morti a causa dell’infezione; espansione dell’epidemia in oltre la metà del territorio nazionale. I dati diffusi ieri sullo Zimbabwe dall’Ufficio Onu per gli aiuti umanitari sono drammatici. E la situazione potrebbe addirittura peggiorare nelle prossime settimane, visto che - come ha rivelato il portavoce delle Nazioni Unite, Elisabeth Byrs - la diffusione del colera è favorita da carenze croniche nelle infrastrutture civili del Paese, come la mancanza di acqua pulita e le precarie condizioni della rete fognaria.
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L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) teme che la malattia possa diffondersi ulteriormente con l’arrivo della stagione delle piogge e ha inviato nella nazione africana un robusto quantitativo di medicine e sali reidratanti. Ma tutti gli sforzi internazionali potrebbero rivelarsi inutili, se il regime di Robert Mugabe continuerà (come sta facendo in questi giorni) a cercare di nascondere l’emergenza, magari impedendo agli osservatori di recarsi sul posto per rendersi pienamente conto della situazione. Sabato scorso, il governo dello Zimbabwe aveva negato il rilascio dei visti all’ex segretario generale delle Nazioni Unite. Kofi Annan, all’ex presidente americano, Jimmy Carter, e all’attivista per i diritti umani Graca Machel, attuale consorte di Nelson Mandela.
Caso Politkovskaya, la procura ricusa il giudice: è parziale L’ufficio del Procuratore generale della Russia ha chiesto il ritiro del giudice Evgenij Zubov, che presiede il processo per l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaya. Il giudice sarebbe stato ricusato «per la sua parzialità». Il tribunale sta esaminando la questione. La decisione sulla di domanda decadenza dei giudici sarà annunciata a Mosca mercoledì, dalla corte militare. La Politkovskaya venne assassinata il 7 ottobre 2006, nell’ascensore del suo palazzo nel centro di Mosca, mentre stava rincasando. La Procura sostiene che l’uomo accusato di aver premuto il grilletto contro la giornalista sia Rustam Makhmudov, fuggito in Europa occidentale. Gli altri imputati sono Sergei Khadzhikurbanov - un ex agente di polizia - e i fratelli Dzhabrail e Ibragim Makhmudov.
Prodi a Pechino incontra il premier Wen Jiabao Nella foto piccola: il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe
sti. Mentre le forze vicine a Mugave affermano che le autorità hanno semplicemente suggerito agli emissari di «partire in una data più avanti» per non intralciare la stagione della semina. Citando una fonte anonima, però, un giornale governativo ha aggiunto che il “trio” è considerato ostile dal governo dello Zimbabwe.
za nazionale, dichiarando che il governo aveva risorse sufficienti per affrontare la situazione senza ricorrere ad altri aiuti, interni o esterni.
«Siamo molto delusi che il governo dello Zimbabwe non ci abbia permesso di entrare, non abbia voluto cooperare», ha affermato nel corso di una
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La mancanza di acqua pulita e le precarie condizioni della rete fognaria sono le cause principali della diffusione della malattia. Eppure il governo si chiude agli osservatori internazionali e non dichiara lo stato d’emergenza I tre fanno parte del gruppo “The Elders” (i saggi), messo in piedi l’anno scorso proprio da Mandela per risolvere i conflitti nel Paese, lacerato da una crisi politica che si trascina ormai da mesi e che, da settembre, non riesce ad attuare l’accordo di “condivisione” del potere che avrebbe dovuto lasciare Mugabe alla presidenza (dopo una contestatissima rielezione) e garantire a Morgan Tsvangirai (leader del Mdc - Movement for the Democratic Change) il posto da primo ministro e la guida delle forze di polizia. Harare, secondo l’Onu, non ha fornito alcuna ragione ufficiale per giustificare il rifiuto dei vi-
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conferenza stampa a Johannesburg Jimmy Carter. Intanto, mentre il balletto della diplomazia continua (gli elders si sono incontrati con Tsvangirai in Sudafrica e il ministro degli Esteri di Mugabe, Simbarashe Mumbengegwi, si è detto disposto a «cooperare con tutta la buona volontà»), secondo Médecins Sans Frontières l’epidemia di colera minaccia più di un milione di abitanti. Una stima contestata, per difetto, dal medico di un’altra organizzazione umanitaria intervistato ieri dal quotidiano britannico The Times: «I trecento morti registrati finora sono quelli degli ospedali. Fuori dal-
le strutture sanitarie i decessi dovrebbero essere almeno del 400 per cento più numerosi».
Cifre da capogiro, che iniziano a spaventare anche il ministro della Sanità, David Parirenyatwa, che individua nella mancanza di acqua potabile il fattore principale della diffusione del colera. Ma il ministro sembra isolato all’interno del suo stesso esecutivo. Appena due settimane fa, il governatore della Banca Centrale (Gideon Gono) - in un’audizione di fronte al Parlamento - si era detto contrario a considerare l’epidemia come causa sufficiente per dichiarare lo stato d’emergen-
non ha risorse», controbatte (sempre sul Times di ieri) un funzionario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dislocato in una delle aree più colpite dalla malattia, «e malgrado questo nessuno dei ministri si è mai degnato di farsi vedere da queste parti». E perfino le auto-cisterne promesse da Gono ancora non si sono viste. Anzi, qualcuno giura che sono state “sequestrate” per uso personale da alcuni uomini di Mugabe. Il governo, poi, non si è neppure fatto scrupoli nel trasformare la tragedia in qualcosa da sfruttare per i propri fini politici. Una manifestazione organizzata qualche giorno fa dal Movement for Democratic Change di Tsvangirai è stata infatti vietata dal governo «a causa del colera». Un colera della cui esistenza, evidentemente, Mugabe si accorge soltanto quando gli conviene.
Una «partnership globale» e «strategica» tra Ue e Cina è stata auspicata oggi dal primo ministro cinese Wen Jiabao che ha incontrato a Pechino l’ex presidente del Consiglio italiano Romano Prodi, che a metà settembre è stato nominato presidente della Commissione speciale internazionale per l’Africa dal segretario generale dell’Onu Ban Kimoon. «Salutiamo i progressi raggiunti nelle relazioni tra Cina e la Ue» ha detto Wen a Prodi, augurandosi che i rapporti di collaborazione proseguano «sulla base del mutuo rispetto, dell’uguaglianza e della reciprocità».
Inondazioni in Brasile: muore una famiglia italiana Le inondazioni che hanno colpito il sud del Brasile hanno provocato ieri la morte di una italiana, di suo marito, e di due dei suoi quattro figli, a Rodeio, presso Blumenau, nello stato di Santa Catarina. Giacomina Lucia Cosi, 44 anni, è deceduta insieme al marito, Dario Savio Eccel, stessa età, e a due dei loro quattro figli, Kelly e Kendy di 7 e 15 anni.
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Un quadro una storia. L’artista greco autore di Le muse inquietanti, L’enigma dell’oracolo e Ritratto premonitore di Guillaume Apollinaire
Il Mago della metafisica A trent’anni dalla morte, viaggio alchemico nelle opere e negli scritti di Giorgio De Chirico di Angelo Capasso na ricorrenza della storia dell’arte italiana è certamente il 20 novembre di trenta anni fa: ovvero la data della scomparsa di Giorgio De Chirico. Ma lo è molto di più quel 10 luglio del 1888, in cui de Chirico nacque a Volos, in Grecia, dove il padre ingegnere è impegnato nella costruzione della linea ferroviaria Atene-Salonicco. La Grecia dà la nascita a un artista che si sente greco non per nascita ma per elezione. A Volos nacque anche il fratello Andrea Alberto, suo compagno di ventura nell’arte. Anche se Alberto inizialmente dava corso alla sua passione per la musica e a Volos studiava pianoforte, mentre Giorgio frequentava il Politecnico di Atene e si dedicava alla pittura. I due fratelli erano molto uniti e amavano parlare di arte e di musica, scambiandosi reciprocamente le rispettive conoscenze acquisite sul campo.
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Giorgio De Chirico completò gli studi all’Accademia di Firenze e di Monaco di Baviera. In Germania, venne in contatto con la cultura dei pittori simbolisti, quali Klinger e soprattutto Arnold Böcklin, da cui de Chirico assorbì il mistero e l’enigma del mondo mitologico. L’isola dei morti è l’opera di Böcklin su cui De Chirico si è a lungo soffermato, anche negli scritti, ed è in effetti un opera avvolta in aura metafisica. Il fratello Andrea invece continuava i suoi studi musicali con Max Reger, ma i continui insuccessi delle sue composizioni decise di trasferirsi a Parigi, nel 1910 dove fece la conoscenza degli avanguardisti dell’epoca: Pablo Picasso, Blaise Cendrars, Francis Picabia, Jean Cocteau, Max Jacob e Apollinaire. Lì lo raggiunse Giorgio. I fratelli De Chirico provenivano da una cultura tedesca che saltava l’ottimismo dell’avanguardia e si fondava nel pensiero nichilista di Otto Weininger, Arthur Schopenhauer e Friedrich
Nietzsche. Nel 1911 viaggio verso Parigi che il giovane De Chirico aveva intrapreso con la madre, il pittore fa una tappa a Torino, lì dove si era manifestata la follia di Nietzsche, e nel contesto architettonico della città savoiarda che eserciterà una profonda suggestione sull’immaginario di De Chirico. A Parigi, quel retroterra culturale che aveva segnato la sua gioventù si trasmuta in un desiderio per l’altrove, per una patria perduta, forse l’Italia lontana, che connoterà la pittura per un tono malin-
espone al Salon des Indipendants e poi ancora al Salon d’Automne. E’ Apollinaire il primo a parlare della pittura di De Chirico in termini di «paesaggi metafisici» su una serie di testi pubblicati in Les Soirées de Paris.
Parigi è fatale per l’incontro con artisti da cui a volte si sente molto lontano, ma che in qualche modo entrano nella sua storia “quotidiana” di pittore: sono Picasso, Derain, Brancusi, Braque, Léger. Apollinaire, il poeta e critico che ha legato culturalmente le diverse
da statue solitarie cui ben presto si aggiungono altrettanti solitari e silenziosi manichini che aggiungono chiavi di lettura nuove all’enigma della sua pittura. Il 1915 è un anno fatale per l’Italia: è lo scoppio della prima grande guerra e De Chirico torna in patria e passa la visita a Firenze per essere destinato al 27simo reggimento di fanteria di stanza a Ferrara. Lì viene riconosciuto il suo cattivo stato di salute e quindi destinato a un lavoro ausiliario che gli consente di continuare a dipingere. Dal 1916 riprende i contatti epistolari con Apollinaire e nello stesso anno incontra il giovane intellettuale ferrarese Filippo de Pisis e, infine, con Carlo Carrà allora militare a Pieve di Cento. Carrà era più noto in Italia, e aveva già attraversato stagioni importanti della pittura italiana, quali il Divisionismo e il Futurismo, che aveva abbandonato per seguire una via nuova, la via della pittura antica di Giotto e di Piero. E’ su queste basi che nasce la “scuola metafisica”. Oltre agli intenti intellettuali alti di riportare la pittura nel suo alveo originario, questa esperienza nasce da una inaspettata coincidenza: sia De Chirico che Carrà, ai primi di aprile del 1917, vengono inviati in convalescenza all’ospedale neurologico Villa del Seminario nella campagna ferrarese, coltivata a canapa. Entrambi vi rimasero fino alla metà di agosto, mentre Savinio si trovava a Salonicco, in Macedonia, inviato lì come interprete per le truppe italiane. Carrà fu ben presto esonerato dal servizio militare e tornò a Milano, portando con sé alcune tele di De Chirico.
I suoi primi successi, a Parigi nel 1912: su consiglio di Apollinaire e su segnalazione di Pierre Laprade, espone tre tele al Salon d’Automne avanguardie attraverso la sua presenza trasversale, è il magconico, nei colori, nelle giore mentore e cultore della atmosfere, nelle soluzioni for- pittura di De Chirico, e tra i due mali. E’ Parigi però a regalargli si instaura una sorta di dialogo i primi successi. Dal 1912 inizia intellettuale, cui De Chirico l’attività espositiva su consiglio partecipa attraverso le immagidi Apollinaire e sulla segnala- ni. Nel 1914 dipinge il Ritratto zione di Pierre Laprade, quindi premonitore di Guillaume partecipa al Salon d’Automne Apollinaire, in cui il poeta ha esponendo tre tele: Piazza d’l- gli occhiali scuri del cieco, sottalia, Autoritratto e L’enigma tolineando che lo sguardo deldell’oracolo. L’anno seguente l’artista è uno sguardo tra i sogni, nel mondo interiore, nelle stanze della metafisica. Fu Apollinaire Giorgio De Chirico, principale esponente a introdurre della corrente artistica della “pittura metaDe Chirico a fisica”, nasce a Volos, in Grecia, il 10 luglio Paul Guillau1888. La migliore produzione pittorica avme, il giovaviene nel periodo che va dal 1909 al 1919: i ne mercante suoi soggetti sono ispirati dalla luce del giorche seguì a no luminosa delle città mediterranee. Nel lungo la sua 1917, conosce il pittore futurista Carlo pittura. Sono queCarrà, con cui inizia il percorso che lo porta a perfeziosti anni parigini, nare i canoni della pittura metafisica: a partire dal gli anni in cui De 1920 le teorizzazioni vengono divulgate dalle pagine Chirico ha la sua della rivista “Pittura metafisica”. Le opere realizzate dal produzione mag1915 al 1925 sono caratterizzate dalla ricorrenza di argiore e apre il suo chitetture essenziali immerse in un clima magico e miimmaginario alle sterioso, e dall’assenza di figure umane. Nel 1949-1950, visioni architettoaderisce al progetto della collezione Verzocchi inviando, niche di luoghi oltre a un autoritratto, l’opera “Forgia di Vulcano”. onirici, quali PiazMuore a Roma il 20 novembre del 1978. ze d’Italia semivuote, frequentate
l’autore
In quell’anno, a Milano, alla galleria Paolo Chini, Carrà inaugurava una sua grande personale dove erano presenti diverse tele di ascendenza metafisica in cui l’influenza di De Chirico era del tutto evidente. Il pittore aveva spedito a Milano alcuni suoi quadri (Ettore e Andromaca, Il trovatore, ecc.), ma
incredibilmente non furono esposti. La prima mostra della pittura metafisica in Italia avvenne quindi senza la partecipazione del suo maggior esponente, che all’epoca, a differenza di Carrà, era praticamente sconosciuto.
Fu Carrà a segnare gli esordi di una esperienza che in realtà De Chirico aveva già trascorso sin dagli anni parigini. La parola “metafisica” però in quel momento segnava bene il passaggio verso un ritorno all’ordine, dopo il caos dell’arte e della guerra. L’opera che fa da manifesto per la pittura metafisica è sicuramente Le muse inquietanti, che nel 1916 De Chirico dipinge a Ferrara. Proprio nell’anno in cui a Zurigo nasce l’avanguardia più nichilista, ovvero Dada, ricompone la storia nei suoi elementi primari e la lancia come modello dell’eterno inaccessibile che opera come un magazzino della memoria archiviando l’esperienza del mondo in un immaginario sublime. De Chirico fa della Metafisica il suo cavallo di troia contro l’ansie febbrili dell’avanguardia, soprattutto futurista. La sua è una anti-avanguardia che si propone come unico pensiero avanzato possibile duran-
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Tra le diverse e significative opere di Giorgio De Chirico, in questa pagina: “Autoritratto” (in basso a sinistra), “Il pittore” (a destra) e “Ettore e Andromaca” (a sinistra). Sotto e nella pagina a fianco, nei tondi, due particolari di “Ettore e Andromaca” e del “Pittore”
te lo sfacelo della guerra. A partire dal 1919 pubblica articoli su riviste artistiche e letterarie d’avanguardia. «Se durante la visita a un museo di scultura antica entriamo in una sala deserta, ci capita spesso che le statue ci appaiono sotto un aspetto nuovo. La statua eretta su di un palazzo o un tempio, ovvero al centro di un giardino o di una pubblica piazza, ci si presenta sotto diversi aspetti metafisici. Nel caso del palazzo, dove si staglia contro il cielo meridionale, essa ha qualcosa di omerico, un piacere severo e distaccato, con una punta di malinconia. Sulla piazza ha sempre un aspetto eccezionale, soprattutto se poggia su un piedestallo basso, in modo che sembri confondersi con la folla dei passanti, coinvolta nel ritmo della vita cittadina di tutti i giorni.
Nel museo assume un aspetto ancora differente: ci colpisce per quel che ha di irreale. È già stato osservato più di una volta l’aspetto curioso che riescono ad acquistare letti, armadi, specchiere, divani, tavoli, quando ce li troviamo improvvisamente dinnanzi sulla strada, in uno scenario nel quale non siamo abituati a vederli: come accade in occasione di un traslo-
co, oppure in certi quartieri dove mercanti e rivenditori espongono fuori dalla porta, sul marciapiede, i pezzi principali della loro mercanzia.Tutti questi mobili ci appaiono sotto una luce nuova, raccolti in una strana solitudine: una profonda intimità nasce tra loro, e si direbbe che un misterioso senso di felicità serpeggi in questo spazio ristretto da loro occupato sul marciapiede, nel bel mezzo della vita animata della città e del continuo andirivieni della gente; un’immensa e strana felicità si sprigiona in quest’isola benedetta e misteriosa contro cui si scatenerebbero invano i flutti strepitosi dell’oceano in tempesta. I mobili sottratti all’atmosfera che regna nelle nostre case ed esposti all’aperto suscitano in noi un’emozione che ci fa vedere anche la strada sotto una luce nuova. Una profonda impressione ci possono suscitare anche dei mobili disposti in un paesaggio deserto. Immaginiamoci una poltrona, un divano, delle seggiole, radunate in una piana della Grecia, deserta e ricoperta di rovine, oppure nelle prateria anonime della lontana America. Per con-
trasto anche l’ambiente naturale tutt’intorno assume un aspetto prima sconosciuto» (Giorgio De Chirico, Statues, meubles et généraux, 1927).
La conferma della scoperta del sogno e della metafisica in pittura, trova la sua massima consacrazione quando nel 1924 André Breton, autore del Manifesto del Surrealismo, indica in De Chirico le origini di questa nuova avanguardia francese. L’arte di De Chirico ispira molti artisti dadaisti e surrealisti, quali Ernst, Tanguy, Magritte, Dalì, Breton. Anche gli artisti tede-
pre più ricca produzione di testi e di collaborazioni editoriali, De Chirico pubblica un Piccolo trattato di tecnica pittorica e realizza il frontespizio per la raccolta di poesie di Paul Eluard Defense de savoir. Il 1929 è l’anno in cui pubblica invece il suo lavoro letterario più complesso Hebdomeros, le peintre et son genie chez l’ecrivain. Ebdomero è un mondo immaginario, fatto di gladiatori dalle maschere di scafandri, pianisti che suonano «senza far rumore», alberi che assumono sembianze umane, lettere dell’alfabeto che danzano in quadriglia fino a raggrupparsi «secondo il desiderio di una forza misteriosa» e a for-
ne di un De Chirico poteva esprimere in una così felice composizione pittorica e letteraria. In Ebdomero l’osmosi fra immagine e parola raggiunge un equilibrio talmente naturale e armonioso da coinvolgere anche il lettore più disicantato, che nel profilo di un volto può riconoscere la logica conclusione di un discorso così come in un’esclamazione il senso reale e compiuto di un paesaggio appena abbozzato.
In occasione del trentennale della morte di De Chirico, Bompiani pubblica il primo volume di una raccolta di testi di De Chirico dal titolo Scritti (a cura di Andrea Cortellessa, edizione diretta da Achille Bonito Oliva). Si tratta della prima grande opera su De Chirico scrittore che in questo primo volume raccoglie i testi narrativi, critici e teorici del Pictor Optimus, scritti tra gli anni 1911 e il 1945. Tra questi: Piccolo trattato di tecnica pittorica, Ebdomero, Il Signor Dudron, Commedia dell’Arte Moderna. Le lezioni della metafisica quindi prendono un corpo fisico definitivo.
Nel 1916, mentre nasce il Dadaismo, il pittore fa della Metafisica il suo cavallo di troia contro le ansie febbrili d’avanguardia, soprattutto futurista schi della “Nuova oggettività”, del “Realismo magico” e del “Bauhaus” dimostrano di conoscere la lezione della metafisica. In questa sua sem-
mare strane iscrizioni, muri ed archi che fremono nella stretta di piante rampicanti, il colosso di Rodi fra le cui dita del piede sinistro si danno la caccia banditi messicani immagini e personaggi che soltanto l’intuizio-
spettacoli
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embra lontano l’anno 1988 quando una ragazza di soli 24 anni dalla delicata voce, ma piena di potenza, irrompe nel panorama della musica internazionale. La “folkettara nera” spazza dalla scena tutti gli altri artisti vendendo in poco più di un anno più di 9 milioni di copie del suo primo disco in tutto il mondo. Rivoluziona la musica popolare e folk denunciando le piaghe sociali del mondo e diventando un modello negli anni ’80. A vent’anni dal suo primo successo musicale, Tracy Chapman torna a catturare temi eterni, universali, emozioni amorose in un altro suo capolavoro, Our bright future, in uscita dall’11 novembre. Il suo tour europeo iniziato il 12 novembre a Bruxelle, prevede 25 date. La cantante farà tappa in Italia il 28 novembre al Teatro degli Arcimboldi di Milano, il 29 all’Auditorium della Conciliazione a Roma e il 1 dicembre al Teatro Verdi di Firenze. Registrato con nuovi musicisti e con il veterano Larry Klein, il nuovo album ha un suono asciutto, essenziale, molto preciso e ordinato negli arrangiamenti eppure anche ricco di sfumature, di influenze, di atmosfere. Sopratutto un sound che come succedeva nel suo esordio, si ritaglia intorno a una voce ispiratissima.
Ritorno atteso e in grande stile per Tracy Chapman, con un nuovo album (“Our bright future”) e un nuovo tour che a fine novembre la porterà a Milano, Roma e Firenze
S
C’è una certa consapevolezza proprio nella voce e negli strumenti attorno alla voce che rende Our bright future un grande disco, fin da Sing for you dove il pianoforte e la batteria sembrano costruire una stanza perfetta per Tracy lasciando in sospeso molte sfumature che poi torneranno. Infatti il disco comincia con lo swing e finisce con il folk, quasi a tracciare un circolo nella storia della cultura afroamericana. Un percorso grazie al quale le sue canzoni ritrovano l’immediatezza, la semplicità persino la brevità delle parole che si associano spontaneamente ai suoni. E’il caso di I did it all (che lei definisce la sua versione di My way di Frank Sinatra) la cui cornice sonora suggerisce un percorso negli swing più notturni. Oppure di Save us all dove una chitarra slide porta in territori down home, o ancora The first person on earth con un violino che accompagna la cantante sui sentieri folkie a lei più congeniali. Notevole anche Thinking of You, un pianto sexy e rumoroso sull’ossessione amorosa. Tornano i temi sociali in Something to see (no war) che va ben oltre il dichiarato intento pacifista. E’ una ritrovata dimestichezza di Tracy Chapman con le parole e con il songwriting, oltre che con la voce perché Spring, che chiude il disco, è di una bellezza toccante nella sua semplicità. Parla delle stagioni della vita di una persona. Momenti in cui tutto sembra
te. Le percussioni, la chitarra, il violino pizzicato aggiungono valore e classe alla precedente produzione. Anche questa volta in primo piano i temi sociali come l’inuguaglianza e le relazioni personali, il divario tra l’America ricca e quella povera; temi amorosi. Una calda voce e un uso dylanesco dell’armonica. Grandissimo i musicisti che la seguono: il bassista Larry Klein, il battersita Denny Fongheiser e il tastierista Jack Holder. Cruciale il ruolo del produttore David Kershenbaum. Continua a coltivare il suo amore per il folk- pop nel seguente Matters of the heart (1992) coprodotto con Jimmy Iovine.
Musica. Il ritorno di Tracy Chapman: nuovo album e nuovo tour italiano
La “folkettara” nera dei diritti umani di Valentina Gerace andar male e altri in cui tutto sembra positivo. Un invito a non scoraggiarsi mai e a mantenere sempre la propria integrità, il proprio equilibrio.
Originaria dell’Ohio, Tracy Chapman inizia a strimpellare la chitarra e a prendere lezioni di clarinetto a soli 10 anni, quando si dedica anche alla composizione di poesie e brevi racconti. Viene presto inserita nel programma A better chan-
enorme successo Tracy Chapman (1988), in collaborazione con il bassista Larry Klein, David La Flamme al violino, e Paulinho Da Costa alle percussioni. 11 canzoni e 36 minuti di innocua melodia e pura poesia. Cantava le battaglie della sua vita, sia socio-poitiche (Talkin’ About A Revolution) contro la povertà e la segregazione razziale, che relative ai disordini familiari (Across The Lines, Behind The Wall) e l’amore che
Marley, Bill Withers, Bob Dylan. Ma sopratutto è molto attiva sul fronte umanitario. La musica è per lei un modo per comunicare con il mondo e denunciare importanti piaghe sociali. Pertanto partecipa a vari tour come quello organizzato da Amnesty International nell’88 o quello in onore di Nelson Mandela, suonando accanto a Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Sting e i Rem. Impegno che la porta laurea ad honorem
A vent’anni dal suo primo successo, ecco “Our bright future”. La cantante lo presenterà il 28 al Teatro degli Arcimboldi di Milano, il 29 all’Auditorium di Roma e il 1 dicembre al Teatro Verdi di Firenze ce che le permette di accedere alla Wooster School in Connecticut e poi alla Tufts University. Durante il college suona nei coffee bar del Massachussetts per racimolare qualche soldo. Ma senza la consapevolezza che la sua musica avrebbe catturato presto i cuori di migliaia di fan. Dopo la laurea alla Tufts stipula un contratto con la Elektra Records che la porta alla realizzazione del suo primo ed
cambia l’esistenza (For My Lover). Il disco vince tre Grammy Awards e un premio come migliore artista emergente. L’album di debutto le regala fama in tutto il mondo. E tutt’oggi rappresenta un classico della musica folk. Partecipa alla realizzazione di Deuces Wild con BB King, duetta con grandi artisti come Eric Clapton, Pavarotti, Buddy Guy, Ziggy Marley. Ripropone cover storiche di Bob
nel 2004. Il secondo album Cross road del 1989 dimostra come il primo lavoro della cantante non sia stato un successo per caso.Tracy Chapman continua a stupire con la sua musica popolare e i suoi suoni etnici. E questo secondo lavoro sembra quasi la continuazione del primo per la somiglianza e la coerenza dei testi e dei suoni. Rappresenta uno dei momenti più creativi e incisivi della cantan-
La strumentazione è ricca di percussioni, ma è sempre la sua voce quella che conta e che conferisce passionalità ed emotività ai brani. La Chapman si conferma donna della giustizia sociale e politica. Denuncia le armi del ghetto (con l’onomatopeica Bang bang bang), la mancanza dei diritti civili e delle donne. Cliché liberali, probabilmente. Ma non per questo non nobili. Poiché la musica come forma d’arte, può contribuire a rendere il mondo migliore. New beginning prodotto con Don Gehman (Rem, John Mellencamp) e suonato dal bassita Andy Stoller, dal batterista Rock Deadrick, dal chitarrista Adam Levy e dal percussionista Glenys Rogers, vende nel 1995 più di tre milioni di copie solo negli Stati Uniti. Contiene il singolo Give me one reason che vince un Grammy come migliore canzone dell’anno. Sperimentazione dei suoni, influenze australiane, celtiche, qualche sfumatura raggae e blues, rendono il successivo Telling Stories (2000) più rock che folk. Anche se resta comunque forte l’influenza del mito della musica popolare Woody Guthrie. Un disco meno commerciale dei precedenti, ma di classe. Che conferma Tracy Chapman un’artista arguta, letterata, poetica. In Let it rain del 2002 la cantante abbandona per un attimo i temi politici e si abbandona a dei canti amorosi. L’album è seguito da un intensissimo tour in tutta Europa e negli Stati Uniti. Tracy Chapman dimostra ancora di avere un animo sensibile capace di creare ancora una musica dai temi profondi. Con uno stile chiaro, semplice, lineare che racchiude la ricchezza dei suoni etnici e pop insieme. I suoi sono sermoni sulla vita, sull’amore, sulla religione, sul mondo. Espressi con eleganza e raffinatezza. Dove la musica incontra la poesia.
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Identità. Siamo stati a Villerupt, un piccolo frammento del Belpaese al confine tra la Lorena e il Lussemburgo
Le radici italiane di Francia di Anna Camaiti Hostert
VILLERUPT. Il motivo principale per cui a Villerupt si tiene da 31 anni il Festival del film italiano, che si è appena concluso premiando un film dalle caratteristiche multietniche come Mar Nero, è che in questo piccolo paese della Lorena francese, al confine con il Lussemburgo, esiste una comunità italiana dalle caratteristiche peculiari molto originali. Alain Casoni, figlio di italiani, nato in Francia, parla bene la nostra lingua ed è stato eletto sindaco, per la seconda volta, nel marzo di quest’anno, succedendo a un altro italiano: Armand Sacconi, dal 1986 al 1989. Appassionato di storia dell’emigrazione, racconta come questa cittadina del Dipartimento di Meurthe-et-Moselle, famosa fino a gli anni Settanta per le sue fabbriche siderurgiche di acciaio e per le miniere di ferro, sia stata luogo di destinazione di molti italiani che, assieme ai polacchi, costituirono il nucleo iniziale della zona. Adesso, dopo la chiusura di queste attività, la popolazione residente ruota più verso il vicino Lussemburgo, divenuto fonte di occupazione e di attività produttive.
I primi stanziamenti della comunità italiana nella città di Villerupt risalgono tuttavia già alla fine del diciannovesimo secolo. «La presenza italiana conferma il sindaco - è talmente significativa che Villerupt è uno dei comuni più italiani di Francia, come si può constatare controllando la lista degli cognomi nei documenti anagrafici presenti fin dai primi anni del XX secolo». Controllando il bel volume Villerupt autrefois, hier, aujourd’hui, si può vedere infatti che nel 1937 Villerupt ha 9047 abitanti di cui il 56% è costituito di stranieri. Di questi il 67% sono italiani (3386) e il 18% polacchi (908). Addirittura si possono vedere manifesti pubblicitari dei grandi magazzini di tessuti e vestiti St-Martin affissi in città in francese e tradotti in lingua italiana. E quello del ben vestire, tra i nostri emigranti, è stata una caratteristica ben viva e importante. Alla richiesta di descrivere le caratteristiche dell’emigrazione italiana di Villerupt, il sindaco Casoni ne traccia una breve storia. «La vita di questi emigrati è stata molto dura all’inizio. Eppure, anche nelle condizioni peggiori, quan-
una svolta senza precedenti, testimonianza di una composizione e di un tessuto sociali coesi e solidali intorno a un centro di produzione economica che pur nelle sue contraddizioni di classe esprimeva un rispetto, un’originalità e una complessità abbastanza inconsuete. Infatti esisteva una composizione multietnica diversificata, che è sempre stata la caratteristica della classe operaia di Villerupt e una solidarietà che andava oltre la semplice collaborazione. Costituiva un anello con la società francese e attraversava le generazioni. Era il prodotto, costruito durante anni di convivenza, di una contiguità di culture, di abitudini e di tradizioni diver-
ne di un’Italia che sta cambiando”, il sindaco ribadisce che la continuità è stata ed è lo sforzo più impegnativo.
se. Grazie a questa composizione e a queste caratteristiche non si sono mai verificati episodi di intolleranza o di razzismo. Oggi la popolazione, che era arrivata a 15.000 unità negli anni Sessanta, con la chiusura delle attività siderurgiche e minerarie, si è ridotta a 10.000, ma è rimasto questo spirito. Testimonianza di ciò è proprio il nostro Festival del film italiano, che sostenuto fin dall’inizio anche materialmente dalla comunità italiana qui residente, si ripete ormai da 31 anni e oggi si avvale dell’aiuto di circa 150 giovani volontari tra discendenti di italiani qui residenti e giovani di diversa provenienza etnica che collaborano proprio in virtù della curiosità per la nostra cultura».
tanti: con quelle alle spalle si possono cominciare a realizzare quei processi di trasformazione che l’Italia, come la Francia, stanno vivendo e di cui le nuove generazioni dovranno assolutamente tenere conto per costruire un futuro che speriamo sia migliore. Certo, i momenti sono difficili adesso, specie in considerazione della crisi economica che in genere acuisce i processi di intolleranza e di razzismo, anche se qui questo, per le caratteristiche della nostra emigrazione, non accade e non è mai accaduto». E’ interessante notare come queste considerazioni rivelino un gioco di rimbalzo tra lo sguardo spesso preoccupato della comunità emigrata sui cambiamenti della società italiana e quello degli italiani che si sentono osservati dall’esterno, e non sempre capiscono il bisogno ostinato di radici. Ma forse la riposta sta proprio nel fatto che queste sono le due anime che la formazione di un’identità necessariamente contiene: il bisogno delle origini e le trasformazioni che ogni paese, specie in epoca di globalizzazione, attraversa. E sembra che quello che si è costruito a Villerupt possa davvero costituire un esempio.
«La comunità italiana ha sempre tenuto vive le tradizioni del passato attraverso uno spirito che ha abbattuto le barriere tra le culture, mettendole in comunicazione. Quindi si può dire che l’emigrazione italiana qui a Villerupt ha inciso notevolmente non solo sulle caratteristiche multiculturali del tessuto sociale, ma ha creato un ponte tra le diverse generazioni. Ha salvaguardato un passato di cui gli italiani qui residenti conservano gelosamente la memoria, affidandolo ai più giovani. Le radici sono impor-
Alain Casoni, sindaco della cittadina: «Il paese è stato luogo di destinazione di molti emigranti che costituirono il nucleo iniziale della zona» do cioè arrivava la domenica, i lavoratori delle fabbriche trovavano il tempo e il modo di comprarsi il vestito della festa e di restare fedeli a quella “bella figura” che connotava, accanto a certi stereotipi negativi dei cittadini del nostro paese, il fatto positivo di essere italiani. Ma oltre a questa peculiarità della comunità, che si confrontava con la società francese, la nostra emigrazione qui a Villerupt ha dimostrato anche un’altra caratteristica: la capacità di convivere e di prosperare accanto a diversi gruppi etnici. Man mano che gli anni passavano, infatti, le nazionalità degli immigrati si accrescevano di
nuove presenze. Così agli italiani e ai polacchi si aggiungevano gli algerini, i portoghesi, gli spagnoli e infine i tunisini, cosicché il paese diveniva presto un mosaico di diversi gruppi etnici.Tutto ruotava fino agli Settanta intorno alla siderurgia e alle miniere. La chiusura della fabbrica siderurgica nel 1974 concluse un’era storica per il paese (che su queste attività era prosperato) e rappresentò un momento di grande emozione e commozione vedere svanire completamente un mondo che faceva parte del patrimonio e del paesaggio della zona. Segnò infatti
Casoni ha inoltre ri-
Sopra, l’insegna stradale di Villerupt. In alto, “Gli Emigranti” di Angiolo Tommasi (1895), sotto l’ingresso della 31esima edizione del Festival del film italiano e, a fianco, un’immagine d’epoca di una fabbrica di Villerupt
cordato come agli inizi, alle prime edizioni del Festival, le madri e le nonne cucinassero la pasta e preparassero le torte che poi venivano offerte durante i quindici giorni di durata della manifestazione. E alla domanda “come si collega il passato storico con il presente attuale della comunità italiana a Villerupt e l’immagi-
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da ”le Figaro” del 24/11/2008
La camorra di Saviano a Parigi el suo vagare per il mondo, inseguendo lo strepitoso successo editoriale del libro e del film Gomorra, Roberto Saviano è giunto sulle rive della Senna. L’aver passato la frontiera transalpina, nonostante i sempre presenti cinque uomini della scorta, lo ha liberato da qualche remora, che di solito lo frena quando è in Italia. E possiamo capirlo.
N
«Certi intellettuali italiani cercano di farmi passare per una sorta di clown dell’antimafia. È il prodotto della cattiva coscienza di una classe dirigente, politica e culturale dell’Italia meridionale, che non sopporta la mia opera». Mette subito i piedi nel piatto, Saviano, per rendere chiaro quanto la sua battaglia morale sia ancora solitaria, rispetto alle oligarchie meridionali, anche se sostenuta dai cittadini comuni. A Napoli vive dentro una caserma dei Carabinieri, a Roma in una casa protetta, la sua vita è scandita da ritmi che producono sensazioni altalenanti. «Da un lato faccio la vita iper-protetta di un uomo di Stato, dall’altro sono come un progioniero che cambia cella ogni settimana». I suoi maestri Chalamov, Primo Levi ed Herling diventano compagni di viaggio con cui condividere passioni ed emozioni. «Oggi il mondo intero conosce la camorra e Casal di Principe. I mafiosi e i loro alleati politici ed economici detestano il successo che ha avuto il libro, avrebbero voluto che passasse inosservato, anzi che non fosse proprio pubblicato», l’amara constatazione dell’autore, che sottolinea come anche le reazioni “perbeniste” di un meridionalismo “peloso” continuino ad aver tribuna. È angosciata dal futuro piuttosto che da un presente che l’ha privato della libertà di movimento e di quelle cose normali alla sua età. La vita che fa che «pesa sempre di più», con la «battaglia morale» ingaggia-
ta con le classi dirigenti meridionali che sembrano amarlo veramente poco. È lo specchio della loro corruzione, per un verso, della loro ignavia in gran parte, del loro scarsissimo coraggio, che ha forse un’unica eccezione nella Confindustria siciliana. Anche il grande successo del libro, adesso del film candidato agli Oscar, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. «Quando il libro è stato tradotto per la prima volta in francese, la vita sotto scorta era già pesante, ma ero felice. Sapevo di fare qualcosa di giusto. Oggi mi chiedo cosa possa giustificare una vita così. Quelli che combatto fanno di tutto per rendere impossibile la vita ai loro avversari». Chi lo intervista per le Figaro gli domanda un paragone con la figura di Salman Rushdie con cui condividerà (lo stesso giorno dell’intervista, ndr) una lettura preso l’Accademia svedese a Stoccolma, sul tema della libertà di parola e la violenza. Saviano risponde distinguendo: «Ci troviamo in una situazione molto diversa. Rushdie è stato condannato da una fatwa a causa di un libro. Sarebbe stato condannato indipendentemente dal suo successo. Nel mio caso è il successo che mi ha condannato». Tanto che ha considerato seriamente di lasciare l’Italia, trasferendosi negli Stati Uniti. «Sì, ci ho pensato (...) vorrei scrivere il prossimo libro su di un tema più ampio come la globalizzazione. Vorrei comunque muovermi sempre nel contesto del prigioniero che cerca la sua libertà». L’Fbi gli ha assicurato un programma di protezione, senza la continua presenza visiva della scorta. Una sirena che ha
convinto anche il premio Nobel per la letteratura, Oran Pamuk. «Comunque prima di occuparmi di tempi più ampi e “globali”, ho da terminare alcune cose in Italia». Un tema che si legge bene nel libro e il rapporto fra mafie e mondializzazione, che Saviano legge come capitalismo, insomma il lato oscuro della globalizzazione.
Mario Vargas Llosa però ne contesta le premesse: «Non è il capitalismo che genera la mafia. È l’Italia che è marcia». Lo scrittore napoletano non si scompone è ammette che la mafia possa prosperare solo «dove non c’è più lo Stato. Nel sud lo Stato è assente o troppo indebolito dalla criminalità organizzata e dal partito del calcestruzzo». A dimostrazione che la presenza criminale ha ormai invaso anche le attività legali nel Mezzogiorno. Ma è cambiato qualcosa in Italia dopo l’uscita di Gomorra? «Tutto e niente. È cresciuta la coscienza dei cittadini per uscire dalla dominazione mafiosa, ma per la nuova politica è tutto come prima».
L’IMMAGINE
Riccardo Villari, l’effetto di una politica istituzionale senza Istituzioni La storia di Riccardo Villari è talmente “bella”che non sembra vera. Non credo che ci siano al mondo altri Paesi e altri Stati dove accadano cose di questo tipo. Un parlamentare è eletto alla presidenza di una Commissione non per essere presidente ma per sbloccare una situazione politica ingarbugliata e, dunque, per poter eleggere poi il vero presidente. Solo che in tutta questa “storia” non si erano fatti i conti con quella singolare personalità di Riccardo Villari, il quale essendo stato eletto non ha alcuna intenzione di mollare. E giù condanne morali, giudizi estremi, per non dire insulti e scomuniche da parte della sinistra; mentre la destra assume una posizione pilatesca e dice: «bisogna semplicemente persuaderlo a lasciare». La commedia dell’arte è la vera fonte di ispirazione di questa storia. Un manicomio senza via di uscita, una commedia degli equivoci in cui gli equivoci sono la parte più vera e autentica, mentre la realtà è solo una ipocrita finzione. Villari non è la causa, ma solo l’effetto di una politica istituzionale senza Istituzioni.
Graziella Giusti – Firenze
SPAZZATURA SCOLASTICA
QUEI GUFI DI RAI3
Se la preparazione scolastica dei nostri giovani è riconosciuta da tutti scadente e se, come affermava George Bernard Shaw, la cultura quella vera «è ciò che rimane dopo che si è dimenticato quello che si è imparato a scuola», quale altra definizione potremmo dare a quella attuale se non... spazzatura?
Sono pensionato e ho molto tempo libero e lievi problemi di deambulazione per cui passo molto tempo alla tv e vedo diversi tg, incluso quelli di Rai3 nazionale e regionale. Durante il culmine della crisi finanziaria, se mi fossi abbandonato ai sentimenti di allarme, ansia e paura che mi suscitavano l’ascolto di quei telegiornali, sarei subito corso a ritirare quel piccolo gruzzolo di risparmi di una vita dai due depositi bancari cui li ho affidati, contando su un interesse più favorevole che non i classici Bot e Cct. Fortunatamente guardavo anche altri tg, meno“gufanti”, più rassicuranti sull’effettiva situazione italiana e sulle azzeccate e tempestive mosse del nostro governo, non mi sono mosso.
Sossio Pezzullo
NON SCIENZA MA COSCIENZA Se Papa Ratzinger nel lontano 1985 ha predetto l’attuale crisi economica, come ha spiegato Tremonti intervenuto all’Università Cattolica di Milano per l’inaugurazione dell’anno accademico, sarebbe giusto parlare non più di finanza creativa ma profetica.
Filomena Auletta
Guido Molveni
Caschetto, tuta, occhialini… si vola! Il gioco preferito di Skylar, 2 anni, è svolazzare abbracciata al suo papà, un esperto paracadutista acrobatico. E visto che è ancora un po’ piccola per i lanci ad alta quota, per ora si accontenta di piccole esercitazioni in una struttura speciale di Abu Dhabi. Un “tunnel” verticale al cui interno soffia un potente vento artificiale capace di sollevare da terra tutti gli aspiranti Peter Pan IMMIGRATI STRUMENTALIZZATI Detentori d’interessi particolari – anche contrastanti col bene comune – strumentalizzano gli stranieri poveri e ne favoriscono l’invasione in Italia, che già soffre pericoli e tensioni da sovraffollamento, e non è l’Eldorado. Fra questi: partiti di sinistra, sindacati, Chiesa, datori di lavoro e fornitori di beni, servizi e assistenza. Considerano
gli immigrati come possibili iscritti, aderenti, fedeli, assistiti, consumatori e prestatori sottopagati di manodopera. L’immigrato non è oggetto, né merce: ne va evitata l’invasione clandestina e incontrollata; affinché non venga a patire nel Belpaese, che non riesce a fornire soddisfacenti servizi pubblici neppure agli italiani.
Gianfranco
SPORTELLI VELOCI ALLE POSTE Spedire una raccomandata può diventare un’operazione lunga. Se allo stesso sportello si presenta un cliente con un mazzetto di raccomandate e un altro con una o due, il primo cliente blocca il traffico per diversi minuti. Ci vorrebbero degli sportelli veloci. Poste italiane potrebbe farci un pensierino.
Carla Piccoli
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Né ciarlatano né bugiardo. Solo innamorato Mio caro George, c’è una cosa stupida e strana che non posso fare a meno di dirvi. E sono così sciocco da scrivervelo, poiché rientrando dalla nostra passeggiata non ve l’ho detto, e non so dirvi perché. Questa sera ciò sarà per me motivo di tristezza. Mi scoppierete a ridere in faccia, mi tratterete da ciarlatano per come mi sono finora comportato con voi. Mi metterete alla porta considerandomi un bugiardo. Sono innamorato di voi. Ho pensato di poter guarire mettendo i nostri incontri su un piano di amicizia. Molti aspetti del vostro carattere avrebbero inoltre potuto aiutarmi a guarire; ho fatto di tutto per cercare di persuadermene, ma i momenti che passo con voi li pago a troppo caro prezzo. So quello che pensate di me, e non mi aspetto nulla nel momento in cui vi dico queste cose. Perderò un’amica e le uniche ore piacevoli ch’io abbia trascorso da un mese a questa parte. Ma so che voi siete buona, che avete amato, per questo mi confido con voi, non come con un’amante ma come un amico sincero e fidato. George, sono pazzo a privarmi della gioia di vedervi per quel poco tempo che ancora vi resta da trascorrere a Parigi, prima del vostro soggiorno in campagna e della vostra partenza per l’Italia, dove avremmo potuto trascorrere delle belle notti, se solo ne avessi la forza. Alfred de Musset a George Sand
ACCADDE OGGI
IL LIBERALE È UN “INDIVIDUALISTA ANARCHICO” I liberali non sono né saranno mai né di destra né di sinistra. I liberali sono e saranno sempre dalla parte della e delle libertà (civili, economiche, sociali, religiose, sessuali) e contro i dogmi delle stesse destra e sinistra (ideologie figlie del Potere e della Conservazione). Colui il quale è dalla parte delle libertà è necessariamente dalla parte dei diritti e dell’emancipazione individuale e quindi collettiva. Il liberale è quindi dalla parte dell’ordine civile contro il caos delle barbarie dell’inciviltà e dell’incultura, le quali sono alla base del Controllo e del Potere fine a se stesso. Il liberale non è mai, diversamente, dalla parte dello Stato etico, assistenziale e onnipresente nella vita degli individui, ovvero dello Stato ingiusto e pertanto non rappresentativo degli individui (mai delle masse, concetto che ripugna il liberale) stessi. Il liberale potrebbe anche definirsi “individualista anarchico”, ove “individualista” sta per “consapevolezza di sé, dei propri diritti e dei propri doveri” e quindi necessariamente per consapevolezza “dell’altro”, del “diverso da sé”, che il liberale rispetta in quanto “individuo” suo pari. “Anarchico” sta per “libertario”, ovvero per fiero oppositore di ogni autorità costituita sia essa statuale, religiosa o culturale. Autorità che è alla base del Controllo (politico, morale, psicologico) e quindi del Potere sui cervelli e sulle anime, alla quale il liberale si oppone sempre, comunque ed ovunque.
Luca Bagatin
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
26 novembre 1942 Prima del film Casablanca all’Hollywood Theater di New York 1976 I Sex Pistols pubblicano la canzone simbolo del movimento punk: Anarchy in the U.K. 1983 A Londra, 6.800 lingotti d’oro, per un valore di quasi 26 milioni si sterline, vengono rubati dal caveau della Brinks Mat all’Aeroporto di Heathrow 1985 Il presidente statunitense Ronald Reagan firma il contratto per cedere i diritti della sua autobiografia alla Random House, per la cifra record di 3 milioni di dollari 1996 La Juventus vince la sua seconda Coppa Intercontinentale battendo 1 - 0 il River Plate, rete di Alessandro Del Piero 2004 In Cina muore il primo bufalo acquatico clonato. Il dottor Shi Deshun, spiega che dopo 342 giorni di gestazione ed un parto cesareo, l’animale era nato sano, ma la perdita di troppo sangue, a causa del taglio del cordone ombelicale, ne ha provocato la morte
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
UNA IDEA DISTORTA DELLA PIETÀ Perché, mi chiedo, la povera Eluana merita una fine così triste e crudele? Perché i radical-chic e i progressisti (ma è progresso?) non dicono ciò che realmente pensano ossia che vogliono l’introduzione dell’eutanasia vera e propria (il suicidio assistito)? Se deve morire, che almeno venga in fretta con una iniezione... ma poi non vengano a criticare tutti quei Paesi in cui vige la pena di morte: se condanniamo a morire una giovane donna che non ha fatto male a nessuno, perché dovremo tenere in vita delinquenti, assassini, pedofili, che appena escono dal carcere ritornano alle loro nefandezze? Ci ritroviamo con terroristi mai pentiti che pontificano da giornali e tivù, mentre per una idea distorta della pietà sopprimiamo una vita che lotta con tutte le forze per resistere. Non si esprime Eluana, ma il suo corpo testimonia la voglia di vivere. La pena di morte è un abominio, la soppressione di un disabile, di un malato è nazista. Dopo aver tentato invano di distruggere il pensiero liberale e di annientare Dio, comunisti (ex-post) e radical-laicisti tentano di distruggere la più alta delle creature, l’uomo. Il Vangelo di domenica recita: «mi avete nutrito, vestito, curato e visitato». «Qualunque cosa avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avrete fatto a me». Quando il nostro Re ci chiederà «avevo fame e sete e voi cosa mi avete dato? Mi avete tolto il sondino naso-gastrico».
dai circoli liberal
IL SILENZIO E IL POTERE Il potere si serve del silenzio per poter meglio armeggiare e districarsi tra quello che è lecito e quello che non lo è. Possiamo cogliere nel silenzio un rumore assordante della paura, della rassegnazione, del disinteresse, della corruzione. Il silenzio ed il potere sembra che siano due parti della stessa medaglia, il silenzio quale alto momento di riflessione o di vuoto assoluto, tutto dipende dalla fonte e dalla provenienza dello stesso, ed il potere quale massima espressione del dominio sulle masse, eppure quando il silenzio ed il potere si accompagnano simbioticamente, essi tendono a nascondere i lati più oscuri della gestione della cosa pubblica, perché sono l’uno funzionale all’altro; il silenzio è strumento essenziale per addomesticare gli oppositori del potere costituito, non può esserci vero potere senza alcuna forma di silenzio. Se approfondiamo la nostra riflessione, possiamo cogliere anche nel silenzio un rumore assordante, il rumore assordante della paura, della rassegnazione, del disinteresse, della corruzione, del malcostume, del comparato, il silenzio dunque in molti casi parla e comunica chiaramente quello che è l’humus della realtà circostante. Il potere, dunque, e i gestori del potere si servono del silenzio per poter meglio armeggiare e districarsi tra quello che è lecito e quello che non lo è; tra quello che è morale e quello che è immorale, tra il buio e la luce, tra il bello ed il brutto, tra la solidarietà e l’egoismo, tra gli interessi privati e gli interessi pubblici, tra la gioia ed il dolore, tra la sconfitta e la vittoria, il silenzio sembra essere dunque la vera colonna portante del potere, ma è realmente così? Ad avviso di chi scrive no, solo una cattiva gestione del potere è accompagnata dal silenzio, quando un potere costituito si nutre del silenzio vuol dire che esso è un potere debole, fiacco, corrotto, privo di progetti, privo di azione, privo di forza, privo di vigore, privo di ali; sì proprio di ali, perché il vero potere è quello che dimostra forza, vigore, progettualità, esecutività, e capacità di volare alto, guardando oltre i problemi reali della quotidianità, per costruire un futuro ideale. Il vero potere è espressione della vera politica e la vera politica deve necessariamente guardare lontano ad una realtà che non c’è ma che deve essere costruita, ad una realtà fatta di idee reali e di progetti concreti. Il vero potere dunque seppur è raro da trovare è fatto di rumore di contrapposizioni, di contrasti che per un sano gioco democratico sfociano in un sano e simbiotico accordo tra le parti in causa. Luigi Ruberto CIRCOLO LIBERAL MONTI DAUNI
APPUNTAMENTI VENERDÌ 28 NOVEMBRE 2008 - CERIGNOLA (FG) “1861-2011 - DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FEDERALISMO 150 ANNI DI STORIA TRA CENTRALITÀ E AUTONOMIA” Ore 18 a Palazzo Coccia di Cerignola, provincia di Foggia All’incontro, tra gli altri, parteciperanno Ferdinando Adornato e Angelo Sanza
Luca Rossetto
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
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PAGINAVENTIQUATTRO Cucina. Il successo dei nostri ristoranti
Italia, una pioggia di stelle MICHELIN di Francesco Capozza icomincio da due. Già, perché dopo anni in cui la Guida Michelin (per tutti la “Rossa”) è stata screditata, tacciata di bieco campanilismo, di avere antipatia per l’Italia, di non essere al passo coi tempi, gli ispettori pneumatici hanno riservato ai loro detrattori una bella sorpresa: ben 8 ristoranti hanno infatti ottenuto le due stelle e 19 la prima. Una pioggia di stelle su di noi verrebbe da dire, anche se c’è sempre qualche pessimista che fa notare che i ristoranti che si possono fregiare della massima onorificenza mangereccia, le tre stelle, sono «ancora ed inesorabilmente soltanto cinque, meno di quelli di un quartiere di Parigi».
R
A parte questa nota polemica, seppur vera, c’è da riscontrare che mai, neppure in Francia, c’era stata un’infornata così cospicua di cuochi che da una sono passati a due stelle (che in gergo Michelin «sono una delle migliori tavole-vale il viaggio»). La presentazione, avvenuta ieri sera al Trussardi alla Scala (il nome deriva dal fatto che il ristorante è inserito al secondo piano della celebre boutique meneghina, proprio di fronte al magnifico teatro), uno dei nuovi bistellati, è stata officiata da Fausto Arrighi, direttore italiano della celebre guida. Prima di parlare della nutrita schiera di premiati, c’è da segnalare un uscita di scena dalla guida clamorosa. È stato estromesso, perdendo le sue due stelle, il grande maestro della cucina italiana Gualtiero Marchesi. Proprio Marchesi, che ha sempre criticato arcignamente il giudizio dei critici («se sono il Maestro, quindi i voti li dovrei mettere io, non riceverli» o, ancora: «i critici gastronomici, come quelli letterari o d’arte, dovrebbero conoscere perfettamente quello che vanno a giudicare, mentre nella quasi totalità dei casi c’è un ignoranza becera tra coloro che si siedono alla mia tavola»), aveva fatto scalpore qualche mese fa convocando una conferenza stampa nel suo nuovo locale milanese, il Marchesino, sparando a zero sulle guide e chiedendo di essere rimosso dalla loro segnalazione. Se il Gambero Rosso e L’Espresso si sono rifiutati di assecondare i capricci del grande chef «per dovere di cronaca e rispetto dei lettori», come ha detto il curatore della guida del Gambero Rosso Marco Bolasco, la Michelin ha fatto diversamente, eliminando il 79enne Marchesi dalla “Rossa”. «Chi vorrà andare da Marchesi adesso sarà costretto a cercarselo sull’elenco telefonico» ha detto sprezzante Arrighi. Oltre a Gualtiero Marchesi hanno perso il secondo macàron altri due ri-
storanti: il Flipot di Torre Pellice in Piemonte (per chiusura) e La Tenda Rossa di San Casciano in Toscana (per retrocessione). Ma passiamo alle note piacevoli, i magnifici otto che ottengono quest’anno le due stelle, assestandosi ad un passo dall’Empireo.
fratelli Niko e Cristiana Romito, nella sperduta Rivisondoli, sui monti abruzzesi, l’Ulivo dello splendido Capri Palace di Capri e, last but non least, La Torre del Saracino a Vico Equense (Na), dove tra una cassetta di freschissimi scampi e un cespo di scarola dell’orto di mammà, spadella il nuovo fuoriclasse della cucina italiana: Gennaro Esposito, 36 anni e il primato nella Guida del Gambero Rosso e la conquista dei tre cappelli (con 18/20) in quella de L’Espresso. Con quella pneumatica termina il periodo delle uscite guidaiole e si può, pertanto, fare il punto sulla nuova road map del gusto. Il dato che caratterizza tutte le guide è che ad un grande balzo in avanti dei giovani nella cucina d’eccellenza (se Esposito ha 36 anni Romito ne ha solo 33) fa da contraltare la chiusura di numerosissimi esercizi in tutta la penisola.
Estromesso il grande maestro della cucina italiana, Gualtiero Marchesi. Proprio lui che aveva sempre criticato arcignamente il giudizio dei critici: «I voti li dovrei mettere io, non riceverli». In crescita i cuochi giovani nella cucina d’eccellenza Oltre al già citato Trussardi alla Scala (che è in qualche modo una rivincita per il grande Gualtiero, in quanto Andrea Berton, chef del Trussardi, è di scuola e fede marchesiana), che passa incredibilmente a due stelle dopo avere preso la prima solo lo scorso anno, ecco gli altri sette fortunati da nord a sud: il Combal.zero di Davide Scabin, un parallelepipedo di cristallo all’interno del fascinoso castello di Rivoli torinese; la Peca di Lonigo, in provincia di Vicenza; Uliassi (scriveremo a breve di Mauro Uliassi, uno dei migliori cuochi “di pesce” che esistano) a Senigallia, nelle Marche; Il Pagliaccio dello chef franco-calabrese Anthony Genovese a Roma; Il Reale dei giovanissimi
Colpa della crisi, certamente, ma colpa anche - secondo noi - della folle corsa a stupire e a mettere in atto, sulle patrie tavole, la messinscena dell’effimero, con la contropartita, spesso, di conti folli. La gente se n’è accorta da tempo e premia la cucina dai sapori riconoscibili. Finalmente se ne sono accorte anche le guide.