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ISSN 1827-8817 81203

Molti pensano che avere talento sia una questione di fortuna. Forse la fortuna è questione di talento

di e h c a n cro

9 771827 881004

Jacinto Benavente y Martínez

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Attacco frontale del premier a Corriere e Stampa

Allarme di Bonanni: rischio occupazione

L’EUROPA SI DIVIDE La Nato apre all’ingresso di Ucraina e Georgia ma senza provocare Mosca. Intanto Saakashvili, nell’intervista che pubblichiamo, rivendica la sua “rivoluzione delle rose” e si appella alla comunità internazionale

Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, presentando un rapporto sull’industria, lancia l’allarme: «A rischio 900mila posti di lavoro tra manifatture e costruzioni».

di Francesco Pacifico a pagina 7

Napolitano e le ”inefficienze” della politica

Sì, Presidente, la crisi italiana è di sistema

alle pagine 2, 3, 4 e 5

di Renzo Foa i sono ragioni serie e pesanti se nel giro di due giorni un presidente mite e misurato come Giorgio Napolitano prima denuncia le“inefficienze”e poi lancia l’allarme sull’«impoverimento culturale e morale della politica che è sotto gli occhi di tutti», aggiungendo anche che si fa un’«enorme fatica a dirlo e a reagire». Certo, si può pensare al fatto che le parole dell’inquilino del Quirinale siano state pronunciate durante una visita ufficiale in Campania, terra dello scandalo dei rifiuti, così come è impossibile non cogliere la coincidenza temporale con il trauma provocato dal suicidio dell’ex assessore Nugnes. Ma per quanto forti possano essere i riferimenti locali, il valore del discorso appare ben più ampio, se è esplicitamente rivolto alle innanzitutto classi dirigenti del Mezzogiorno sollecitate ad un’«autocritica e un’autoriflessione» sulla amministrazione della cosa pubblica, ma poi anche a quelle nazionali grazie all’esplicito riferimento alla necessità del «rinnovamento dei partiti non solo in quanto formazioni politiche ma anche per le loro responsabilità di governo e amministrative». C’è una prima annotazione da fare. Per chi da tempo lancia l’allarme sulla crisi della politica italiana, sull’estenuante transizione iniziata ormai un quindicennio fa e sulla inadeguatezza delle forze che esprimono tanto la maggioranza che l’opposizione - e metto liberal tra coloro che hanno lanciato questo allarme - è importante il fatto che il massimo rappresentante delle istituzioni, che è anche la figura che esprime l’unità nazionale, insista sull’argomento con tanta verve. Quello dell’«impoverimento culturale e morale della politica» infatti è sempre più il nodo centrale della crisi italiana: senza scioglierlo sarà un’ardua impresa anche sollevarsi dal pantano in cui sono finiti il sistema produttivo e quello finanziario, tanto più in una fase poco trasparente anche negli equilibri fra i poteri che sono alla base della stabilità di ogni democrazia.

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L’Iva di Sky fa perdere la testa a Berlusconi di Errico Novi

ROMA. La giornata finisce con un nuovo “editto bulgaro”di Berlusconi: «I direttori di Stampa e Corriere della Sera che hanno difeso Sky non sanno fare il loro mestiere, dovrebbero andare a casa». Tutto per un balletto sull’Iva. Dopo ore di conferme, smentite e precisazioni era stato Beppe Giulietti di Articolo 21 ad accendere l’ennesima miccia: «Non c’è un obbligo imposto dall’Unione europea sull’innalzamento dell’Iva per Sky. Tremonti dovrebbe spiegarla tutta, la questione: è stata Mediaset a sollecitare Bruxelles con una segnalazione in cui si chiedeva di eliminare l’aliquota ridotta concessa alla tv satellitare». I rapporti di forza tra maggioranza e opposizione sono così sbilanciati da suggerire al Pdl una condotta assai disinvolta su tutta la partita della tv, non solo su quella con Rupert Murdoch. se g ue a p ag i na 8

Via il premier Thailandia nel caos

La Corte Suprema thailandese ha sciolto il partito del premier accusato di brogli alle elezioni. Intanto i primi turisti italiani tornano da Bangkok.

di Vincenzo Faccioli Pintozzi a pagina 16

Presidenza del Parlamento europeo

«Non lasciate sola la mia Georgia»

Adesso Veltroni spinge D’Alema verso Strasburgo di Francesco Capozza n volo in prima classe di sola andata per Strasburgo a nome Massimo D’Alema. Quest’ipotesi, tutt’altro che provocatoria o campata in aria, è stata fatta nella riunione ristretta della dirigenza del Partito Socialista europeo che si è riunita in questi giorni in conclave a Madrid.Tra una tapas e un sorso di Sangria, infatti, l’ordine del giorno del consesso eurosocialista prevede le definizione delle linee guida in vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo della prossima primavera. Il nome del lìder Maximo sarebbe stato fatto non per la carica di eurodeputato (anche se è pressoché scontato che D’Alema si candiderà per “trainare”, come si dice in gergo, la lista Pd), e neppure per quella di commissario.

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MERCOLEDÌ 3 DICEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

s e gu e a pa gi n a 1 1 CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

232 •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Guerre tiepide. La riunione dei vertici dell’Alleanza atlantica traccia il percorso che porterà all’ingresso dei Paesi caucasici

La Georgia verso la Nato Soluzione di compromesso per Tblisi e Kiev: sì allo status di candidati Una sconfitta di facciata per Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia

un vertice interlocutorio quello svoltosi a Bruxelles a livello di ministri degli Esteri, perché nessuna scelta cruciale può essere presa fino a quando la nuova amministrazione statunitense non sarà saldamente in sella ed avrà definito i propri indirizzi di politica estera e di difesa. Insomma l’appuntamento cruciale è rinviato al vertice Nato a livello di capi di Stato, che si svolgerà ad aprile. I ministri degli esteri riuniti in Belgio hanno così affrontato vari temi, ma senza vere decisioni: si è discusso ad esempio del problema della pirateria a largo del Corno d’Africa, una questione che mette a dura prova la capacità della comunità internazionale di contrastare una minaccia che in termini concreti è davvero ridicola. Si è parlato, e molto, di Afghanistan, perché anche se nella stagione invernale il ritmo delle attività della guerriglia diminuisce, si è ben consci che con l’appuntamento elettorale del 2009 i comandanti operativi chiederanno truppe addizionali: si parla di almeno 10mila uomini in più. E i Paesi europei fanno e faranno fatica a fornire le risorse necessarie. Si è discusso anche di Russia e, ma solo in seconda battuta, di cosa fare con Georgia e Ucraina. Condoleezza Rice, il Segretario di Stato statunitense uscente, ha detto che in linea di principio non è contraria alla ripresa dei contatti con Mosca attraverso il Nrc - Nato-Russia Council - contatti congelati dopo la guerra estiva tra russi e georgiani.

di Stranamore

È

una serie di paesi europei, guidati da Francia e Germania, ma non solo. La stessa Gran Bretagna, che certo non è morbida con la Russia, non si era spesa per sostenere la crociata pro-ammissione condotta dagli Usa, con il sostegno di molti dei nuovi entrati nella Nato, a partire dai Paesi baltici. Il Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica, l’olandese Jaap de Hoop Scheffer, si era molto impegnato in favore delle aspirazioni dei due Paesi ed aveva reiterato la dose dopo la guerra dei 5 giorni tra Georgia e Russia. Ma le posizioni del Segretario, che ha sostenuto che l’ingresso è questione di quando, non di se, assicurando che proprio in questo vertice si sarebbe presa una decisione non sono bastate per superare l’opposizione di molti Paesi. In particolare la Germania, svanita l’effetto della guerra estiva, è tornata sulle proprie posizioni di aprile: niente ingresso nel Map, per nessuno dei due candidati. E siccome la Nato decide all’unanimità, ben conoscendo la posizione tedesca e francese, non si è proprio arrivati al voto e ad una nuova spaccatura, della quale la Nato proprio non ha bisogno. Tra l’altro la capacità di pressione Usa in questo momento è davvero minima. Se fosse stato

A Bruxelles i ministri studiano un’apertura ai due futuri membri. L’importante è che non sia immediata

E ha anche aggiunto che l’ingresso di Georgia e Ucraina nella Alleanza Atlantica avverrà «quando i due Paesi saranno pronti». Il che potrebbe anche voler dire…mai. In effetti al vertice Nato svoltosi a Bucarest in aprile la questione dell’ammissione di Tbilisi e Kiev al Map, Membership of Action Plans, il programma di preparazione e avvicinamento dei potenziali candidati alla Alleanza, che in genere è l’anticamera per una vera e propria ammissione, era stata bloccata a causa della opposizione di

eletto alla presidenza John McCain, che considera la Russia poco meglio dell’Urss, le cose sarebbero state diverse, ma Barack Obama non ha ancora preso una linea precisa e non è comunque pregiudizialmente “anti-russo”.

L’Europa poi, come avevamo pronosticato, ha una gran fretta di passare oltre, di dimenticare e di riprendere relazioni normali con Mosca, raffreddando le tensioni. E infatti proprio ieri l’Unione Europea ha ripreso un

quando c’è condivisione di obiettivi, ad esempio a proposito di guerra al terrorismo. Si tratta solo di Realpolitik, con la consapevolezza che la Russia non è più una potenza che può fare militarmente paura all’Europa e che resterà in questa condizione ancora per lustri. Certo, Berlusconi vagheggiava quando, qualche anno fa, aveva ipotizzato di far entrare la Russia nella Nato, ma questo non vuol dire che si debba davvero rimanere a livelli di “pace fredda”. La Nato poi ha bisogno di continuare a sfruttare i corridoi che la Russia concede nel proprio territorio ai convogli di rifornimenti che l’Alleanza invia in Afghanistan per sostenere Isaf, specie ora che non è consigliabile sfruttare il territorio pakistano.

dialogo con la Russia. A proposito di freddo: dicembre non è davvero il mese migliore per mettersi a fare i duri con Mosca: le esportazioni di gas e petrolio russo sono cruciali per troppi paesi europei, anche con il barile sotto quota 50 dollari. Non solo, è evidente l’interesse strategico europeo a mantenere vivo il dialogo con la Russia, nella consapevolezza che Mosca fa i propri interessi, così come li deve fare l’Europa. Ma questo non impedisce di fare business e di operare insieme

Scintille fra Roma e Usa al vertice

Frattini apre a nuovi colloqui con il Cremlino. Lo stop della Rice e del Patto atlantico

di Massimo Fazzi

E non a caso Mosca per la prima volta ha concesso il passaggio a un treno carico di rifornimenti, armamenti ed equipaggiamenti militari…tedeschi il 10 novembre. Una novità e un segnale, perché il Cremlino in precedenza aveva accettato solo il trasporto di materiale non bellico.Senza dimenticare quale sia il ruolo della Russia nei confronti dell’Iran, come riconoscono molti anche negli Stati Uniti. Infine, c’è da dire che Ucraina e Georgia sono due potenziali candidati Nato sempre più deboli. L’Ucraina è perennemente sull’orlo di una guerra

BRUXELLES. C’è bisogno di una ripresa “pragmatica” dei rapporti fra il Patto atlantico e la Russia, visto che « di problemi ne sono sorti tanti, e il Consiglio Nato-Russia dovrebbe affrontarli». È la posizione del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, riguardo alla ripresa dei colloqui ufficiali fra la Nato e Mosca (nell’occhio del ciclone per l’invasione dell’Ossezia meridionale dello scorso agosto) che conferma la vicinanza al governo Putin. In un intervento pubblicato sul quotidiano italiano Il Messaggero nel giorno in cui a Bruxelles si riuniscono i capi delle diplomazie dell’Alleanza atlantica, Frattini afferma infatti che «è arrivato il momento per la Nato di riprendere il dialogo con la Russia in modo pragmatico». Secondo il capo della Farnesina, le proposte del presidente russo Dmitri Medvedev su un nuovo Trattato di sicurezza paneuropeo «meritano la nostra attenzione, tenendo però ben presenti i rispettivi ruoli della Nato e dell’Osce nel sistema di sicurezza in Europa. Saranno necessari una attenta pre-


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America Latina e Siria: ecco le nuove frontiere dell’espansionismo russo

Intanto Medvedev punta sui Caraibi di David J. Smith ortando alta la torcia di una Russia in piena rinascita, il presidente Dmitry Medvedev ha visitato il Venezuela il 26 e il 27 novembre scorso, per osservare un’esercitazione navale congiunta con il suo più stretto alleato nell’emisfero occidentale. Allo stesso tempo, il presidente eletto degli Stati Uniti Barack Obama si sta giustamente concentrando sull’economia americana. Nondimeno, dovrebbe pensare un momento anche al tentativo russo di ricostruire un nuovo ordine mondiale, in parte tramite la ricostruzione del potere militare russo. Il caso non deve essere montato, ma neanche ignorato. Il presidente venezuelano Hugo Chavez frequenta Mosca con regolarità: l’ultima volta a settembre, dove ha firmato contratti di vendita di armi per un totale di 4,4 miliardi di dollari. Il vero saldo da parte di Chavez, tuttavia, consiste nel pungolare Washington fornendo al Cremlino un’altra roccaforte militare, questa volta nei Carabi. «Prendete questa e strillate, Yankees» ha detto due giorni dopo l’atterraggio – presso la base aerea Libertadores – di due bombardieri Tu160 White Swan. Secondo diversi analisti occidentali, questi erano disarmati: ma ognuno dei due è progettato per poter trasportare missili aerei 12 Kh-55 Granat, con testate nucleari di capacità pari a 200 kilotoni. I bombardieri sono arrivati in Venezuela subito dopo l’invasione russa della Georgia, lo scorso agosto, che ha lanciato a tutto il pianeta l’avvertimento geopolitico della Russia. Come avrebbe detto Medvedev ai suoi militari pochi giorni dopo, infatti, «il vecchio ordine mondiale è stato scosso. Ne sta emergendo uno nuovo, più sicuro e più giusto». Successivamente, il Cremlino ha ricompensato anche il Nicaragua, l’unica nazione che si è unita alla Russia nel riconoscere l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud: i territori che Mosca ha sottratto alla Georgia. La Russia modernizzerà l’esercito del Nicaragua: è possibile che voglia rimpiazzare i sistemi di difesa aerea 9K32M Strela-2. Nel breve termine, come scrive Barry Cooper nel Calgary Herald, «un poco di addestramento e un paio di armi semiautomatiche nelle mani del cartello messicano della droga potrebbero rendere bene al Cremlino. Dal loro punto di vista, cosa potrebbe essere meglio di uno o due Stati in crisi proprio alla periferia degli Stati Uniti?». Nel medio termine, significa un potenziale triangolo Ciba-Nicaragua-Venezuela con le armi puntate verso il mare orientale dell’America. Che replicherebbe il triangolo Cuba-Nicaragua-Granada che ha minacciato il presidente Reagan nel 1983. Questo trucco caraibico di Medvedev potrebbe nascondere un piano più ampio. In viaggio per il Venezuale, la Pyotr Veliky (la nave ammira-

P

civile e il presidente Yushchenko ha avviato una generale revisione della politica del paese nei confronti della Russia. Il premier Tymoshenkho aveva già da tempo iniziato una manovra di avvicinamento verso Mosca (e verso i partiti filorussi ucraini). Quanto alla Georgia, dopo l’esito del conflitto che Tbilisi ha avventatamente fatto divampare, la posizione del presidente pro Usa e pro-occidentale si è davvero indebolita e il suo futuro politico, così quello della Georgia sono

tutt’altro che sicuri. In ogni caso una delle condizioni per accedere al Map è quella di non avere contenziosi con i vicini. E né Ucraina né Georgia rispettano tale criterio.

Posto che molti nella Nato continuano a chiedersi quale sia l’interesse del Patto atlantico nell’accogliere due nuovi membri che poco hanno da offrire, ma che tanto richiedono in termini politici, strategici e militari. La Nato non è l’Osce. Per fortuna.

parazione e una attenta scelta del momento ma, come avrebbe detto l’ex presidente americano John Fitzgerald Kennedy, non dobbiamo mai avere paura di negoziare». Inoltre, nonostante la posizione decisamente favorevole della Nato, Frattini afferma che l’Italia sostiene il compromesso sulla Georgia e l’Ucraina, a cui non dovrebbe essere più offerto il programma di pre-adesione Nato “Membership action plan” – che il Cremlino guarda con poco affetto - in cambio del rafforzamento delle Commissioni NatoGeorgia e Nato-Ucraina.

Una posizione assolutamente non condivisa dal governo americano, rappresentato a Bruxelles per l’ultima volta da Condoleezza Rice, che chiede invece al Patto atlantico di inviare alla Russia «un segnale chiaro anche se prudente sulla volontà degli alleati di fare ripartire il dialogo su binari normali». Che prima devono essere stabilizzati sul territorio di Tbilisi, a meno che l’Occidente non voglia cedere al ricatto dell’orso russo.

Nella pagina a fianco, bambini georgiani in piazza per chiedere alla Nato di accettare la candidatura del loro Paese. A lato, carriarmati russi invadono i territori di Ossezia meridionale e Abkhazia, entrambi sotto il controllo di Tbilisi. A destra, Dmitri Medvedev e il presidente eletto degli Stati Uniti Barack Obama

glia della flottiglia russa) ha chiamato Tarso in Siria, il maggior alleato russo sul Mediterraneo. Proprio come per Caracas, sono le armi a sostenere questa relazione.

La consegna più preoccupante è avvenuta in agosto: 50 sistemi di difesa aerea S1E, 10 dei quali poi finiti in Iran, e mille missili anti-carro 9M133 Kornet. Entrambe minacce per Israele. Inoltre, la Russia sta mettendo a nuovo la decrepita base di Tarso – di era sovietica – e dragando il più largo porto siriano: Latakia. Le due strutture rappresentano lo sbocco russo sul Mediterraneo: una calda barriera marittima contro l’Ucraina – che li ha cacciati dal porto di Sebastopoli – e una posizione strategica contro il porto turco di Ceyhan, terminale di uno dei maggiori oleodotti del mondo, vitale per la diversificazione energetica dell’Europa. Da parte siriana, poi, i due porti sono a un passo da Libano e Israele. E, come per i Carabi, anche gli affacci russi nel Mare Nostrum fanno parte di un piano più ampio. Sulla costa orientale del Medio Oriente, il primo novembre scorso, un portavoce della Marina russa ha annunciato che alcune navi della flotta russa del Pacifico e settentrionale compiranno delle esercitazioni navali nell’Oceano Indiano e nel Mar Arabico. Tuttavia, il miglior indicatore delle macchinazioni militari di Mosca è l’enorme scenario militare messo in atto dal 22 settembre al 21 ottobre: le esercitazioni Stability 2008, che hanno coinvolto l’intero governo e 50mila soldati in un’esercitazione combinata e armata. La messa in scena prevedeva una guerra locale che si ingrandiva fino a divenire un conflitto nucleare con gli Stati Uniti. Ai suoi comandanti militari, Medvedev ha spiegato: «Abbiamo visto come una guerra assolutamente reale può esplodere in pochi istanti, e come alcuni conflitti definiti “freddi” possono sfociare in tempeste di fuoco». La capacità di fuoco russa nel corso dell’esercitazione ha raggiunto livelli mai visti nell’era post-sovietica. Per il leader del Cremlino, questo dimostra che «il nostro deterrente è in ordine». Ovviamente, non tutto è in ordine: l’esercito russo è pieno di problemi, fra cui spicca la pessima situazione economica del Paese. Prendendo esempio da Obama, Medvedev farebbe meglio a pensare alle casse della Russia, ma questa sua mania militare dimostra che i due sono differenti. Per il Cremlino, infatti, rimettere a posto i conti e ridare potere all’esercito sono due strumenti uguali, in grado di costruire quel mondo policentrico che dovrebbe rimpiazzare l’attuale, unipolare e guidato da Washington. I suoi sforzi sono in parte spacconerie, in parte desideri, ma in parte anche reali. E Obama farebbe meglio a tenerli sott’occhio.

Obama si preoccupa dell’economia Usa, ma dovrebbe frenare Mosca


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Interventi. Nel libro-intervista “Voglio parlare di libertà”, il leader georgiano Michail Saakachvili spiega tutte le sue ragioni

Salvate la mia Georgia Mentre la Nato discute del futuro della Russia Tbilisi chiede al mondo di non dimenticarla colloquio con Michail Saakachvili di Raphael Glucksmann Un l ea d er «o rma i lo ntano d al la r iv o lu zi on e », ch e sp e r a d i a iu ta re i l suo Pa ese a li ber ar si da un’o cc upazione sc omo da e r ive n dic a i s u cc e s s i di u na G e o r gia d emo cratica « in s oli q uattro anni» . È qu esta la figu ra d i M ic h ai l S aa k ac h vi l i , i l p re s i d ente d i Tb ili s i, com e es ce d al l i b r o - i n t e r v i s t a Vogl io parla re di libertà, s c r i t t o d a R a p h a e l Gluc ksma nn. Nel testo, di cui riport iamo am pi s tralci, il p re sidente pa rla dei ca m bi am enti de l su o Pae s e - s tre t t o d a un vic in o i ng o mbr an te c o me la Rus s ia - e s ce gl ie co me i do lo po li ti c o C h u r c h i l l, ri s p on d e n d o c o s ì a ch i lo def in isce “ il N apo leon e del C aucaso”. I l p re side nt e ammette an ch e alcuni errori, come av er d ato l a p rop ri a fi d uc ia a p e rsone s bagl iate, ma non ri n n e ga n u ll a. Dopo quattro anni alla guida della Georgia, si sente sempre un leader rivoluzionario? No. È vero che abbiamo condotto e continuiamo a condurre una trasformazione rivoluzionaria delle istituzioni e delle mentalità politiche. Ma è da molto tempo che non ci troviamo più nel pieno della rivoluzione e ne siamo assolutamente consapevoli. C’è stata questa fase meravigliosa di unione della popolazione in strada, questa rivolta magnifica, ottimista e non violenta. Ha rappresentato la parte idilliaca del mio destino politico. Poi, quattro o cinque mesi più tardi, è apparso un sentimento di frustrazione nel paese: una delusione immensa! Io parlavo alle persone per strada e dovevo scusarmi per non aver trasformato la Georgia in Svizzera in tre mesi. Questa frustrazione ha rappresentato sia il contraccolpo logico dell’epifania rivoluzionaria che il prodotto vero e proprio della mentalità georgiana. Io credo che in questo siamo abbastanza vicini ai francesi, pronti a criticare il nostro governo e a bruciare gli idoli che abbiamo venerato fino al giorno prima. È per questo che la nostra squadra ha deciso di avanzare il più velocemente possibile, per non lasciare il tempo agli avversari per le riforme, all’interno come al di

fuori del Paese, per approfittare delle frustrazioni e impedirne la loro realizzazione. Ma cosa volete? Non abbiamo fatto la rivoluzione iraniana, la rivoluzione cubana o la rivoluzione bolscevica: abbiamo fatto una rivoluzione aperta. Non c’erano tribunali rivoluzionari o sedute di autocritica maoiste per le strade. Costruire una democrazia richiede evidentemente più tempo che costruire uno stato di polizia. Non avevamo un modello prestabilito per sostituire il sistema corrotto e autoritario che avevamo ereditato. Avevamo appena aperto in

politici e diplomatici. All’indomani della rivoluzione, sono stato eletto con il 96% dei voti, mentre Iouchtchenko ha dovuto subito fare fronte ad un Paese diviso. Ha potuto contare sempre e solo su una maggioranza debole e ancora, su una maggioranza divisa e instabile. Questo non facilita le cose quando si deve sia attaccarsi a interessi personali estremamente potenti sia resistere alle pressioni russe. Tanto più che attorno ai leader arancioni, delle persone molto ricche avevano interesse a una forma di status quo. Infine, indubbiamente ci sono delle differenze di mentalità tra i nostri due popoli, e delle differenze di personalità tra Iouchtchencko e me… Vorrei tornare su questo punto perché è diventato fondamentale. Vi si rimprovera molto nell’Europa dell’est di aver voluto fare tutto troppo presto, in maniera brutale… So che in Europa mi si rimprovera di essere impulsivo e affrettato. Ma se ho voluto agire così velocemente, è perché sapevo in maniera pertinente che non avevamo il tempo di aspettare. Vorrei ricordare che come vicini non abbiamo l’Austria o l’Olanda e che alle nostre porte un impero immenso fa tutto quello che può, e può molto, affinché la nostra esperienza

Non abbiamo fatto come in Iran, Cuba o Unione Sovietica: abbiamo cercato di dare democrazia a tutti, senza repressione o tribunali popolari pronti a giudicare maniera rivoluzionaria la strada ad un cambiamento progressivo e riformista. I suoi primi mesi al potere tuttavia ricordano una sorta di anno I: il rinvio dei funzionari, il cambiamento delle istituzioni, il nuovo radicale orientamento politico e diplomatico… A differenza dell’Ucraina, la Georgia ha fatto l’esperienza di un governo rivoluzionario. Sì, noi abbiamo avuto un’attitudine più rivoluzionaria rispetto ai leader della Rivoluzione arancione. Per diversi motivi. In primo luogo, la Georgia è più piccola e più povera: non abbiamo ereditato uno Stato, contrariamente a loro. Lo Stato ucraino era autoritario e corrotto, controllato da gruppi mafiosi e infiltrato dai servizi russi, tuttavia esisteva. In seguito, l’opinione georgiana non era divisa tra pro-russi e pro-occidentali: il 90 percento della popolazione era d’accordo sui nostri orientamenti

democratica fallisca. Avevamo bisogno imperativamente di fornire prove di cambiamenti tangibili al popolo georgiano mentre la Russia era occupata su altri fronti, mentre la Russia non si sentiva abbastanza forte o stabile per attaccarci direttamente. Mentre, inoltre, gli oli-

Il presidente georgiano Michail Saakachvili, che ha denunciato con forza l’invasione russa dello scorso agosto. Secondo Mosca, l’invasione dell’Ossezia è stata soltanto un’operazione in difesa dei cittadini russi. Nel tondo, Nino Burdzhanadze garchi georgiani tenevano un profilo basso, spaventati dalla rivoluzione e inizialmente soddisfatti di non essere finiti in prigione.Vorrei avere tempo, ve lo prometto: ma non ne ho mai avuto. Come dissi prima, la gente era già delusa qualche mese dopo la nostra presa del potere: avevano fatto la rivoluzione e le cose non cambiavano abbastanza velocemente. Ora, il sostegno popolare è sempre stato la nostra principale arma - l’unica o quasi - e ,se lo perdessimo, non saremmo in grado di affrontare i milionari sostenuti da Mosca. Abbiamo ereditato una situazione d’urgenza che ad oggi non è ancora finita. E se non avessimo fatto così velocemente tutte le nostre riforme o se i russi avessero attaccato tre anni prima, sono certo che lo stato e la società non avrebbero avuto lo choc dell’invasione di quest’estate. Nelle situazioni d’emergenza, la rapidità non è necessariamente sinonimo d’instabilità, tutt’altro. Evidentemente abbiamo commesso errori. La nostra giovane età e la nostra fretta a volte ci possono aver spinto a sbagliare. Ma chi può negare il cambiamento formidabile che si è verificato in quattro anni nel nostro Paese? Arriviamo alla politica scricto sensu: “C’è bisogno di cambiare tutto”, sostiene lei. Ci può raccontare la sua presa di funzioni…

Sarà deluso perché i primi problemi che ci siamo trovati a regolare sono stati politici solo indirettamente. Quando abbiamo preso potere, abbiamo innanzitutto dovuto gestire tutta una serie di problemi tecnici, spesso ridicoli. Vorrei citare un paio di esempi risibili e allo stesso tempo simbolici dello stato di degrado delle istituzioni. Quando siamo arrivati nel vecchio palazzo del Comitato centrale, l’acqua veniva tolta alle 9 di sera. Si lavorava di notte, ma non si riusciva ad ottenere dell’acqua corrente, allora si decise di portare dei secchi d’acqua. Secondo i funzionari del posto, era dai tempi della costruzione del palazzo che andava avanti questa situazione e non si poteva fare niente. Come se si trattasse di una legge della natura o di un comandamento sacro: dopo le 9 di sera, niente acqua. Dopo quindici giorni, sono stato costretto a organizzare una riunione dedicata a questo problema irrisolvibile. È stato il mio consigliere politico che ha detto: «Chiamiamo l’azienda dell’acqua della città di Tblisi». Gli impiegati erano scettici, allora ho preso direttamente il mio telefono: «Buongiorno, sono il presidente della Georgia, vorremmo non subire più queste interruzioni dell’acqua alle 8 di sera». E il direttore si è affrettato a rimetterci l’acqua. In quindici giorni, a nessuno era venuta l’idea di chiamare l’azienda dell’acqua! E poi c’erano tutte quelle storie sui soldi. Alla fine di una settimana alla presidenza, una donna è venuta da me e mi ha dato l’equivalente di 20 euro. «Cos’è questa banconota» le doman-


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Quelle classi sono il prodotto di regimi passati, che erano tutto fuorché liberali. Per me, il liberalismo è prima di tutto lo stato di diritto, la garanzia delle libertà individuali, politiche, morali e economiche e la promozione della meritocrazia. Simili principi sono profondamente rivoluzionari quando li si applica in una società di caste come la società post-sovietica georgiana, curioso miscuglio di statalismo socialista e di clanismo caucasico.Vi farò un esempio a me molto vicino: il vicino di mia madre. Era responsabile dei “servizi di standardizzazio-

dei regimi autoritari per chiudere i media d’opposizione? È molto importante che si comprenda in Europa che le strutture socio-economiche dei Paesi post- sovietici non sono democratiche. Degli Oligarchi possiedono dei miliardi di dollari e si ritengono spesso più potenti dei poteri pubblici. Noi abbiamo dovuto restaurare la preminenza del potere politico. Ma non l’abbiamo fatto solamente per creare uno Stato forte: l’abbiamo fatto per mettere termine all’emergenza di una società liberale alla volta della repressione politica e della dominazione sociale di grandi gruppi oligarchici. Lo Stato non è ai miei occhi, e non lo sarà mai, fine a se stesso. È l’ascesa di una società civile europea, che sarà la chiave del nostro insuccesso o della nostra riuscita. Anche se, per questo, noi dovremo passare attraverso una politica riformista radicale. Questa preminenza della società sullo Stato ritorna spesso nei suoi discorsi. Lei rifiuta quindi questa etichetta di “Napoleone del Caucaso”che alcuni le cuciono addosso... All’indomani della rivoluzione, proprio dopo la mia elezione alla presidenza, ho detto una cosa che è sembrata a molti violenta: «Il governo deve ormai imparare ad aver paura del popolo». Lo penso anche oggi. Ciò che è proprio dei democratici europei è questa idea che lo Stato non è che un mezzo (certamente il più importante), ma solamente un mezzo di cui si dota la società per essere regolata. Contrariamente ai dirigenti russi, io non penso che lo Stato sia all’origine e alla fine del tutto. È questo che mi differenzia anche dagli ammiratori di Napoleone: i grandi guerrieri non sono mai stati i miei modelli. Neppure quelli che hanno inventato il Codice civile. Napoleone ha senza dubbio contribuito ad edificare uno Stato moderno e ad alleviare le piaghe del 1793, ma lo ha fatto congelando le libertà politiche e invadendo un terzo dell’Europa. Se io dovessi avere un modello politico, anche se fosse un po’ desueto, a 40 anni passati, sarebbe senza dubbio Churchill, piuttosto che Napoleone. Preferisco i partigiani ai conquistatori. Churchill ha perso le elezioni dopo aver vinto la guerra… Confesso che sarebbe formidabile se io potessi aiutare il mio Paese a uscire dalla situazione nella quale è oggi, parzialmente occupato e invaso, per poi lasciare il potere o vedere un’opposizione legale e democratica riportare le elezioni.

Abbiamo commesso errori. La nostra giovane età e la fretta ci possono aver spinto a sbagliare. Ma chi può negare il cambiamento formidabile del nostro Paese?

dai. Lei mi rispose seria: «È il suo stipendio, signor presidente». E io: «Edouard Chevardnadze si accontentava di 20 euro al mese?». La donna sembrava stupita della mia sorpresa: «Certamente, era il suo stipendio da presidente». Certo che si accontentava: aveva una fortuna personale stimata per diversi miliardi di dollari, possedeva la Magticom (700 milioni di dollari di allora, circa 2 miliardi di oggi), azioni nelle industrie dell’acciaio e non ricordo più dove. C’era talmente tanta poca divisione tra i soldi dello Stato e i soldi personali di coloro che lo dirigevano che gli alti funzionari non avevano bisogno di stipendi: si servivano dalle casse pubbliche. Ho imposto immediatamente uno stipendio mensile di 2.000 euro. Le persone in presidenza erano scioccate, ma c’era bisogno di instaurare questa abitudine per la quale ogni lavoro merita uno stipendio decente e che ogni stipendio implica un’onestà senza difetto. I leader dell’opposizione che ho incontrato riconoscono che i funzionari di base o di livello intermedio sono molto meno corrotti, ma denunciano il persistere all’apice della scala sociale di pratiche tra le più biasimabili. Di scandali, tra l’altro, recentemente scoppiati. È vero […] Io ho accordato la mia fiducia a delle persone che ne hanno abusato. Per esempio, il mio ex ministro della Difesa ha preso delle bustarelle considerevoli su dei contratti d’armamento. Questo ha leso molto sulla fiducia dei cittadini nel governo e sulla mia immagine

personale, perchè io avevo costruito la mia popolarità proprio sulla lotta contro la corruzione dopo il mio ritorno in Georgia. Questi comportamenti sono estremamente gravi. E minacciano tutto quello che avevamo costruito: se i capi sono corrotti, è difficile esigere onestà dai nostri subalterni. Se un ministro infrange le regole, i funzionari si sentiranno liberi di fare altrettanto. Ecco il rischio di discendere fino alla base della scala sociale e di minare nuovamente l’insieme dei rapporti sociali. Ma l’opposizione non nega i progressi spettacolari della Georgia nella lotta contro la corruzione. In realtà, è tutto il clima socioeconomico che noi dobbiamo riuscire a cambiare in quattro anni. Dopo i conti della banca mondiale, la Georgia si classifica prima per le riforme economiche e quindicesima per la “facilità di fare affari”, mentre la maggior parte dei nostri vicini si assesta intorno alla centesima posizione. Una cosa colpisce quando si guarda la carta dei risultati elettorali in Georgia: alle ultime elezioni, lei ha avuto risultati molto negativi nei quartieri ricchi di Tblisi, e dei risultati molto buoni nelle periferie o nelle regioni povere. Il suo potere ha chiaramente un problema con la borghesia georgiana. È strano, perché lei è un liberale convinto e, in Francia, si associa il liberalismo a un dottrina che favorisce i ricchi. Come si spiega questa ostilità per le classi più abbienti?

La Burdzhanadze, prossima leader? La “rivoluzione delle rose” in Georgia potrebbe avere, forse presto, uno sbocco femminile, incarnato dalla signora Nino Burdzhanadze (nella foto), che gli analisti vedono come il più probabile successore dell’ attuale presidente Mikhail Saakashvili. Si intensificano, infatti, nella Repubblica ex sovietica sul Mar Nero le voci di elezioni anticipate, a meno di un anno dalla contestata rielezione in gennaio di Saakashvili, il quale appare in forte emorragia di consensi, specie dopo la guerra di agosto con la Russia, seguita al suo fallito tentativo di riprendere il controllo dell’Ossezia del sud con la forza. Crescono invece i consensi interni ed internazionali per la Burdzhanadze, l’ex presidente del Parlamento, che il 23 novembre scorso, quinto anniversario della “rivoluzione”che la vide co-protagonista, ha abbandonato definitivamente Saakashvili, del quale è stata fino al maggio scorso “braccio destro”, ed è passata all’opposizione fondando, con molti altri notabili, un nuovo partito: il Movimento Democratico-Georgia Unita. Tale formazione trova uno spazio crescente al centro dello spettro politico e sociale, sia tra i delusi di Saakashvili, sia tra i delusi dell’opposizione.

ne dei prodotti” ai tempi dell’Urss e poi di Chevardnadze: un organismo inutile che si presume dovesse verificare se i prodotti corrispondevano agli standard dello Stato. Non alle norme ecologiche o sanitarie (abbiamo evidentemente conservato, o meglio creato, questi servizi di controllo), ma all’idea che lo Stato sovietico si faceva di una patata o di uno spezzatino. Aveva una bella macchina e guadagnava fino a 15mila dollari al mese. Per un lavoro che non produceva alcun plusvalore per la società. Noi abbiamo soppresso il suo servizio non appena siamo arrivati al potere e mi sono creato un oppositore irriducibile. Uno tra un migliaio di altri oppositori. Un’intera classe viveva dei suoi contatti con lo Stato e beneficiava di incredibili vantaggi. Non si trattava di una borghesia nel senso stretto, una classe di produttori economici o di inventori. Non si trattava di fortune fondate sulla presa di rischi oppure sull’eredità di un antenato che aveva rischiato qualcosa. Si trattava di redditi di situazioni, legati a una posizione sociale o a contatti privilegiati nell’amministrazione sovietica, poi post-sovietica. Non parlo solo di soldi – non abbiamo espropriato a nessuno e i privilegiati di ieri non sono diventati poveri dall’oggi al domani – parlo anche di quel sentimento formidabile di essere al di sopra delle leggi, al di sopra del “gregge”. Vi rendete conto che argomentazioni come la minaccia per la stabilità delle istituzioni o gli appelli alla sovversione sono utilizzati dalla maggior parte


politica

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olo facendo autocritica il Sud potrà riscattarsi dall’attuale abbandono in cui versa. E difendersi da un federalismo fiscale che rischia di danneggiarlo pesantemente. Non vede altre vie d’uscita il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che - ieri - da Napoli è intervenuto al Convegno della Fondazione Mezzogiorno Europa. L’inquilino del Quirinale ha parlato alla Campania - terra dell’emergenza rifiuti, della Camorra e del recente suicidio dell’assessore regionale Nugnes - ma si è rivolto idealmente a tutta la politica, chiedendole uno scatto in avanti. Pena: quella di far precipitare il paese nel baratro. Nello specifico, rivolgendosi agli amministratori del Meridione, ha chiesto loro di procedere ad un profondo rinnovamento e allo stesso tempo a fare una riflessione autocritica sul modo di amministrare la cosa pubblica.

S

Critiche. «Crisi politica e morale»: allarme del Presidente per il Mezzogiorno

Napolitano contro l’abbandono del Sud di Francesco Rositano

Il Capo dello Stato, in particolare, attacca «l’impoverimento culturale e morale della politica che è sotto gli occhi di tutti». Ora, quindi, si tratta solo, ha proseguito Napolitano, «di riconoscerlo e reagire». Più in generale, il presidente della Repubblica ha segnalato la grande difficoltà che si fa a riportare all’attenzione nazionale due temi: quello dell’impegno meridionalistico e quello per l’Europa politicamente unita. «C’è una grande miopia delle classi dirigenti nazionali - ha concluso - nell’accettare in termini di condivisione di sovranità il ruolo da assegnare all’Europa, un ruolo che fuori dall’Europa è apertamente riconosciuto e rispetto al quale c’è una solleci-

Il Capo dello Stato ha segnalato la grande difficoltà nel riportare all’attenzione nazionale due temi: quello dell’impegno meridionalistico e quello per l’Europa politicamente unita

tazione a svolgere. Noi invece dobbiamo ancora ratificare il modesto Trattato di Lisbona». Diverse le reazioni del mondo politico al discorso del Capo dello Stato. D’accordo con la sua analisi il ministro per l’At-

tuazione del Programma Gianfranco Rotondi e segretario della Nuova Dc che da Stoccarda, dove è ospite del congresso della Cdu di Angela Merkel, ha invocato «un codice etico comune per le candidature nel

Le preoccupazioni del Quirinale sono giuste: ormai siamo al tramonto di un equivoco politico

Ma la vera colpa è del bipartitismo di Renzo Foa segue dalla prima C’è, di conseguenza, una seconda annotazione: questo «impoverimento» appare inarrestabile e lo appare tanto più si raccontano favole sulla ricomposione e sulla trasformazione del sistema italiano. Questo che finalmente si chiude - il 2008 - è stato l’anno in cui si è appunto favoleggiato di un passaggio dal bipolarismo al bipartitismo. Lo hanno fatto subito prima e subito dopo le elezioni politiche direttamente Silvio Berlusconi e Walter Veltroni, cioè i leader dei due maggiori schieramenti in campo, promettendo all’opinione pubblica una rapida semplificazione. Si è trattato - nel migliore dei ca-

si - di un’illusione e, nel peggiore, di un’operazione destinata in realtà a seminare solo grande confusione. Ecco, la promessa del bipartitismo è parte fondamentale di questo «impoverimento» perché ha rappresentato e rappresenta una semplice fuga dalla necessità di riflettere su quel che non ha funzionato nella lunga stagione dell’assetto bipolare. E le condizioni in cui versa oggi la politica - a destra o a sinistra che sia - è direttamente frutto di questa fuga e di questo vuoto alla voce «cultura politica».

Naturalmente non attribuisco al presidente Napolitano questa sommaria analisi e questi giudizi. Avrà certamente altri

pensieri.Voglio però lo stesso ringraziare il capo dello Stato per questi suoi interventi degli ultimi giorni e per gli altri stimoli che da lui sono venuti da quando risiede al Colle. Voglio ringraziarlo perché trovo nelle sue parole un severo richiamo al senso di responsabilità della politica e alla necessità che la cultura e i suoi uomini si facciano sentire per contribuire al rinnovamento dell’Italia. Poi voglio ringraziarlo perché, in assenza di altre voci o in presenza di voci istituzionali che stentano a rappresentare le difficoltà del Paese, è lui a non stancarsi di rivolgersi alla pubblica opinione e alle classi dirigenti affinché si muovano. E, scusate, non è davvero poco.

Sud». Plaude al discorso di Napolitano anche il governatore della Calabria, Agazio Loiero, che ha interpretato il suo intervento come un «atto di difesa del Mezzogiorno» che, a suo avviso «viene bistrattato da un Governo che ha la testa, il cuore e anche le mani tutte piantate al Nord». Invoca l’intervento dello Stato anche un esponente della maggioranza come Carlo Vizzini, presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, che ha presentato la sua personale ricetta e tessuto le lodi del governo: «Al Mezzogiorno serve la libertà dai vincoli e dai lacci delle mafie che uccidono la dignità degli uomini, la libertà delle imprese e il futuro dei giovani e per fare questo serve un’autocritica del Sud, accompagnata da una forte presenza dello Stato capace di riconquistare il territorio. Ed in questa direzione sta oggi lavorando il governo».

Ma il leghista Mario Borghezio attribuisce l’abbandono del Sud a un’unica causa: la pessima gestione dei fondi europei. Così attacca il Capo dello Stato e definisce la sua analisi ”sconcertante”. «Da un galantuomo come lui - sostiene l’eurodeputato - ci si aspetterebbe maggiore coraggio per parlare chiaramente della cattiva utilizzazione dei fondi Ue, con un’azione che completasse e portasse fino in fondo il suo ragionamento. Come prima autorità morale e giudiziaria del Paese, il Presidente dovrebbe innescare direttamente e personalmente le procedure per indagare a fondo e consegnare alla magistratura politica e soprattutto al giudizio del popolo i risultati sull’uso criminale, camorristico e mafioso dei fondi Ue. Una cosa che fa vergognare tutti noi che rappresentiamo il nostro Paese a Strasburgo e Bruxelles e che dobbiamo abbassare lo sguardo quando si parla di questi fondi». Il ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, cerca di abbassare i toni: «Ci auguriamo ha affermato - che nel costante e proficuo confronto tra Governo, Regioni ed Autonomie Locali, ciascuno tenga sempre presente il monito del Presidente Napolitano ad una migliore e più efficace spesa dei fondi europei che non sia messa a rischio da ritardi, scelte dispersive ed insufficienze progettuali».


economia

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Cresce l’emergenza per l’industria: secondo la Cisl si rischiano di perdere nei prossimi due anni circa 900mila posti di lavoro. I primi effetti della crisi partiranno a breve e colpiranno i quasi 200mila dipendenti in cassa integrazione. In basso, il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. Ieri ha chiesto al governo di alzare i fondi per gli ammortizzatori sociali e di lanciare un piano di agevolazioni fiscali

ROMA. Il crollo degli ordinativi e le tensioni sulle materie prime spalmate per tutto l’anno potrebbero mettere in ginocchio l’industria pesante italiana. Si avvicina quindi quel percorso di riconversione produttiva finora tamponato e che, come nell’Inghilterra degli anni Ottanta, potrebbe costare l’addio a centinaia di migliaia di posti di lavoro. Non a caso ieri la Cisl ha annunciato nel suo Rapporto industria che tra il settore manifatturiero e quello delle costruzioni se ne perderanno ben 900mila nel prossimo biennio. Come annunciato qualche giorno fa dall’Ocse, l’Italia tornerà ben presto a fare i conti con la disoccupazione. Che dall’inizio del 2009 dovreb-

Emergenze. Fino al 2010 la Cisl prevede l’industria in grave crisi

L’allarme di Bonanni: 900mila disoccupati di Francesco Pacifico dere il conto tra lo Stato e le imprese come dimostra l’esperienza dei tessili. Ma il peggiorare della crisi potrebbe rendere questi sforzi inutili. Non a caso il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha chiesto ieri al

fondo, anche per affrontare il nodo della formazione e della ricollocazione, sarà sovvenzionato quanto è più possibile», ha promesso il titolare del ministero dell’Economia. Ieri a Bruxelles il governo italiano ha inizia-

governo - oltre a un patto fiscale - di ritoccare e rendere più espansivo il piano anti crisi del ministro Tremonti. Tanto da sentenziare: «Stanziare 1,2/1,3 miliardi in più per gli ammortizzatori sociali è un’iniziativa molto generosa, ma le risorse non ci basteranno».

to a discutere con la Ue per ottenere vincoli di destinazione meno rigidi. Ma come spiegato da Tremonti in tempi non sospetti, «la trattativa sarà lunga». Intanto lui e il collega Claudio Scajola hanno ottenuto dal commissario per gli Affari regionali, Danuta Hubner, di rivedere la data di scadenza per la spesa dei fondi comunitari della programmazione 2000-2006. Due miliardi e mezzo inutilizzati che però non potranno essere usati per il welfare senza un ulteriore deroga dall’Unione europea.

Il numero uno di via Po richiama il governo: «In questa situazione, i 1,3 miliardi di euro per la riforma degli ammortizzatori sono troppo pochi» be sostituire l’inflazione come principale emergenza economica tanto da salire alla fine del 2009 fino all’8 per cento.

In questo quadro rischia di diventare più urgente la riforma degli ammortizzatori sociali, visto che il sistema italiano riesce a malapena a coprire il 40 per cento dei lavoratori in mobilità, tenendo fuori i dipendenti delle Pmi. Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha promesso di estendere gli strumenti di tutela anche ai precari e ai lavoratori delle piccole e medie imprese. L’obiettivo è raddoppiare gli attuali 600 milioni di euro a disposizione dal fondo di riferimento e di allargare le tutele attraverso l’istituzione di enti bilaterali per divi-

Nella piattaforma lanciata venerdì scorso da Tremonti – e vidimata ieri dall’Ecofin – non sono chiarite l’entità delle misure previste né i tempi per riattivare il fondo. Lo stesso ministro ha spiegato di aspettare il via libera da Bruxelles per una diversa riprogrammazione delle risorse europee in modo da recuperare soldi freschi per il capitolo sociale e le infrastrutture. «La dotazione del

Questo lo stato dell’arte mentre sta per scadere la cassa integrazione per quasi 180mila lavoratori del settore industriale. Per non parlare

dei 400mila precari che dopo Natale potrebbero vedersi non rinnovato il contratto. Al riguardo ha spiegato Gianni Baratta, segretario confederale della Cisl e curatore del rapporto con Fabio Scajola: «Oltre alla Fiat e all’Alitalia, rischiano di finire in crisi aziende importanti come la Guzzi, Lucchini, la Riello di Lecco, la Ratti di Como, Electrolux, Antonio Merloni, Pininfarina e Carrozzerie Bertone, Granarolo, Campari, Unilever e Natuzzi». I maggiori campanelli d’allarme provengono però da quei distretti che da almeno dieci anni dimostrano la loro debolezza e l’incapacità ad affrontare la concorrenza internazionale. «In difficoltà - aggiunge Baratta - sono il distretto della lana a Prato e Biella, quello della seta a Como, il calzaturiero nelle Marche, il mobile in Puglia e Basilicata, l’orafo ad Arezzo».

Si registrano ritardi anche in comparti mai sfiorati dalle crisi congiunturali. «È quasi raddoppiato (+94 per cento) a ottobre il numero dei lavoratori coinvolti da situazioni di crisi aziendale nell’industria meccanica della Lombardia, in appena tre mesi lavorativi». Un quadro che spinge Gianni Baratta a concludere: «In assenza di correttivi rilevanti, ci sarà una selezione di tipo darwiniano, all’insegna della sopravvivenza dei più forti».

in breve Due presunti terroristi arrestati a Milano Volevano colpire l’Italia e, in particolare, Milano. E stavano progettando attentati contro obiettivi civili e militari, come ad esempio le caserme di polizia e carabinieri. Per questo motivo stavano cercando di reclutare adepti da avviare sulla via del terrorismo. Ma la loro attività di proselitismo è stata stroncata sul nascere dagli uomini dell’antiterrorismo della Questura del capoluogo lombardo. Rachid Ilhami, 31 anni, uno dei predicatori del centro culturale «Pace» di Macherio - piccolo comune di 6 mila abitanti dove sorge anche Villa Belvedere, residenza di Silvio Berlusconi e della sua famiglia - e Gafir Abdelkader, 42 anni, entrambi di nazionalità marocchina, sono però finiti in manette. Per loro l’accusa è di terrorismo internazionale (articolo 270 bis del Codice penale). Secondo quanto spiegato dai dirigenti della Digos in una conferenza stampa, una delle massime aspirazioni dei due «era quella di farsi saltare in aria contro un obiettivo».

Caso De Magistris: nuovi avvisi di garanzia Gli atti dell’avocazione dell’inchiesta Why not e della revoca di Poseidone sono stati sequestrati dai carabinieri nella perquisizione disposta dalla procura di Salerno negli uffici della procura generale e della procura della Repubblica di Catanzaro. L’inchiesta parte dalla denuncia di Luigi De Magistris, attuale giudice del riesame di Napoli, trasferito d’ufficio dal Csm da suo posto di pm a Catanzaro, dopo che le sue inchieste che avevano scosso il mondo politico e giudiziario erano state avocate dagli stessi capi della procura di Catanzaro. Alla procura di Salerno sono aperti più fascicoli, tra cui alcuni che riguardano una serie di denunce presentate contro De Magistris e altre, invece, su un presunto piano per delegittimare lo stesso De Magistris, poi trasferito dal Csm a Napoli al termine di un procedimento disciplinare.


politica

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Parabole. Aliquota al 20%, Vigilanza, canone Rai, Tg3 da espugnare: sulla questione televisiva la maggioranza non vuole fare prigionieri

Il governo a reti unificate Tremonti blinda la norma sull’Iva. E Berlusconi attacca: «Stampa e Corriere, direttori a casa» di Errico Novi segue dalla prima Come sempre la materia è assai scivolosa. Berlusconi usa toni pesantissimi, come non gli capitava da settimane. «I direttori di Corriere della Sera, Stampa e di altri giornali che hanno attaccato me anziché sottolineare il privilegio di Sky dovrebbero andare a casa. Come i politici». Un colpo durissimo. Il Cavaliere parla di una «sinistra vergognosa» e lancia la sfida: «Vogliono davvero dimezzare la tassa? Bene, se davvero insistono siamo pronti a tornare indietro. Poi quando Tremonti spiegherà il vero motivo della decisione vedrete…». Il ministro dell’Economia ci mette pochissimo. È a Bruxelles per il vertice dell’Ecofin, in conferenza stampa ricostruisce il percorso della norma inserita nel decreto anti-crisi: «È stata l’Europa a chiedere un allineamento dell’Iva sui servizi televisivi a pagamento, pena l’avvio di una procedura d’infrazione». L’alternativa? «Portare tutti al 10 per cento. Solo che in questo caso gli utenti delle tv che sono al 20 per cento avrebbero dovuto essere rimborsati». Tremonti si riferisce esplicita-

mente ai servizi di Premium, il digitale di Mediaset, che ha un’aliquota “normale”, fissata appunto al 20 per cento.

Berlusconi a quel punto ricomincia a giocare a carte scoperte, rispolvera i toni del giorno precedente: «Tornare indietro? Non se ne parla nemmeno. Resta tutto com’è, il privilegio di Sky è abolito». Altre settimane di polemiche furiose sono all’orizzonte. Servirà a poco. Almeno per due motivi. Il primo. Se pure nella maggioranza ci sono mugugni, quelli di An non sembrano in grado di innescare rivoluzioni. Il partito di Fini nasconde le perplessità sotto il tappeto della lealtà di coalizione. Un finiano incline alla moderazione come Domenico Nania mette sul tavolo ipotesi pacificatorie: «Va bene l’innalzamento dell’aliquota ma facciamolo gradualmente, nel corso degli anni». Sarebbe un compromesso, evocato anche da Italo Bocchino con atteggiamento più sibillino: «Si può discutere, a condizione che Murdoch la smetta di fare la guerra al governo». In realtà il dissenso è assai più

profondo, ma Alleanza nazionale non è nelle condizioni di farlo emergere.

Altro fattore “bloccante”: il Pd è in balìa delle onde dal giorno in cui Villari è stato eletto. Anche ieri ha proseguito nel pressing sul Pdl, con la riunione dei capigruppo convocata negli uffici di Fabrizio Cicchitto alla Camera. L’ultima preghiera è questa: il Pdl non si presenti alle sedute fissate da Villari, in modo da bloccare i lavori dell’organismo e costringere il presidente a dimettersi. «Sembra un’ipotesi difficilmente praticabile», spiega il senatore forzista Massimo Baldini, tra i rappresentanti della maggioranza a San Macuto, «strappi del genere sono pericolosi, perché Villari potrebbe tranquillamente decidere di non dimettersi comunque e scaricare la responsabilità sui gruppi parlamentari. Ne uscirebbe screditato tutto il Parlamento, l’opinione pubblica non sarebbe dalla nostra parte». Improbabile anche il varo di una legge ad personam, come pure chiedono i democratici. Così l’incontro di ieri a Montecitorio resta solo uno dei tanti passaggi a vuoto dei veltro-

Giulietti: «Tremonti dovrebbe dire tutta la verità: Bruxelles si è mossa sulla tv di Murdoch dopo una segnalazione inviata dal Biscione». An prova a mediare, senza successo niani, un’esibizione di debolezza. Il vero nodo è nei passaggi successivi: innanzitutto nella nomina del nuovo cda, trattativa che i democratici considerano particolarmente insidiosa, quindi nelle scelte dei direttori. In particolare al Nazareno fremono per l’ipotesi di un criterio bipartisan esteso anche alla Terza rete e al Tg3.

Anche quell’ultima riserva rischia di cadere. Anna Finocchiaro nega che la questione Villari

possa essere scambiata con maggiori garanzie sulle nomine interne a viale Mazzini. In realtà il Pd sembra aver già messo in conto un cedimento sulla Vigilanza, pur di non compromettere il resto. In condizioni negoziali quanto meno squilibrate verrà affrontato anche il tema del canone Rai, che il sottosegretario alle Comunicazioni Paolo Romani vorrebbe abbassare di un paio di euro. «Si può fare se portiamo avanti la lotta all’evasione: per esempio attraverso il paga-

Il Tesoro precisa: «Luce, gas e autostrade sono escluse dalle misure previste dal dl anti-crisi»

Il blocco delle tariffe? Non c’è, abbiamo sbagliato di Susanna Turco

ROMA. Piccolo particolare. Non ci sarà alcun blocco delle tariffe per luce, gas e autostrade. Chi pensava fosse così si è illuso, forse, e certamente ha sbagliato. Dopo gli annunci e le smentite della settimana scorsa, il Tesoro precisa infatti il contenuto del decreto legge anti-crisi varato venerdì, con una nota che mira a «evitare la diffusione di interpretazioni devianti, strumentali e interessate», ma che determina l’immediato rialzo in borsa dei titoli energetici. «ll disposto dell’articolo 3 comma 1 riguarda esclusivamente il blocco di diritti e tariffe vari dovuti a fronti di servizi erogati direttamente

dalla Pubblica amministrazione, come per esempio quelli in materia di motorizzazione», spiega il ministero. Al contrario, «in materia di Autostrade, energia elettrica, gas, eccetera non si applica il blocco di cui sopra essendo nel decreto stesso espressamente confermato il meccanismo di determinazione dei prezzi da parte delle Authorities».

Marcia indietro o tardiva esplicitazione di quanto già contenuto nella norma approvata in consiglio dei ministri? Il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli aveva già precisato che «non hanno al-

cun motivo di esistere» i dubbi interpretativi in materia di tariffe energetiche «che porterebbero a ipotizzare il venire meno dell’autonomia dell’autorità in materia di energia, o peggio ancora il totale congelamento delle tariffe»: «Basterebbe leggere il solo titolo dell’articolo in questione per comprendere che la volontà del governo è quella di assicurare che le tariffe non possano in alcun modo salire, ma variare solo in diminuzione, e questo proprio attraverso la stessa Authority». D’altra parte, fanno notare gli esperti, con il prezzo del petrolio in deciso calo, una diminuzione delle tariffe sarebbe stata comun-

que in agenda, come già annunciato - ben prima dell’approvazione del piano - dal ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola («da gennaio le bollette di elettricità e gas diminuiranno rispettivamente del 4 e dell’1 per cento, riduzioni che saranno ancora più significative in aprile», aveva detto).

Mistero, dunque? Il ministro ombra dell’Economia del Pd Pier Luigi Bersani propone una terza via: «La questione del blocco delle tariffe di luce e gas», dice, «è un mistero legato al fatto che il ministro del Tesoro non dirà mai che ha fatto uno sbaglio ma deve dire che


politica

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Per tutto il giorno il Pdl ha annunciato una strana teoria

«Vi diamo ragione solo se non protestate» di Franco Insardà che so’ Pasquale, io!». Così concludeva Totò un suo famoso sketch durante il quale raccontava di prendere schiaffi da un signore che credeva fosse Pasquale. Sky, invece, il suo Pasquale ce l’ha, ma non è disposto a prendere schiaffi e reagisce. Tanto che il messaggio: «A Natale fai come Pasquale» trasmesso per promozionare l’abbonamento Sky sembra quasi profetico. Una sorta di invito alla disobbedienza contro il governo fatto “dall’eroe di Natale”. E la vicenda di Sky ieri ha assunto i contorni di una vera e propria commedia all’italiana con tanto di intrighi e colpi di scena. La reazione della Pay tv non è piaciuta ad alcuni esponenti della maggioranza, che si sono risentiti facendo quasi intendere che se i toni fossero stati più moderati si sarebbe potuta trovare una soluzione. Insomma le decisioni del governo non si discutono e chi protesta troppo non sarà ascoltato. La commedia ieri ha visto in un primo tempo un attacco a Sky con il vicepresidente dei deputati del Pdl, Italo Bocchino che ha dichiarato: «L’aggressività con cui Sky sta reagendo all’aumento dell’Iva sugli abbonamenti rischia di essere un autentico boomerang e di bloccare l’invito alla riflessione venuto da molti parlamentari della maggioranza». Anche se lo stesso Bocchino ha fatto intravedere uno spiraglio: «Un ripensamento deve passare attraverso il dialogo aperto da coloro che, come me, ritengono che il Parlamento possa ripensarci e non attraverso un’aggressione mediatica senza precedenti per la sua violenza».

«E

mento del canone nella bolletta dell’elettricità». Insorgono le associazioni dei consumatori, insorge pure l’Italia dei valori.

Di certo se ne ricava l’ennesima prova che sui dossier televisivi la maggioranza ritiene di potersi muovere in assoluta libertà, con scarsa preoccupazione per le conseguenze in termini di consenso. A rigor di comunicazioni ufficiali, il termine indicato dalla Commissione europea al governo italiano per allineare l’aliquota di Sky a quella delle altre tv scade oggi. La norma sul 20 per cento prevista nel decreto anti-crisi serve dunque ufficialmente a rispondere alle richieste di Bruxelles. Nessuno può nasconderle, certo, nemme-

aveva inteso diversamente». Già, perché - sostiene l’ex ministro dello Sviluppo economico «la lettera del decreto legge chiarisce bene che si è verificata una sottrazione di potere dell’Autorità, ragion per cui si è verificato uno sbandamento delle aziende elettriche sul mercato». L’interpretazione fornita dal ministero «non è credibile» e perciò, secondo l’esponente del Pd, «prelude a una correzione della norma».

Toni ancora più pesanti da parte delle associazioni di consumatori. «Continua la politica irresponsabile degli annunci che poi - una volta esaurito l’effetto mediatico - vengono puntualmente smentiti dal Governo», dice il presidente nazionale di Federcontribuenti Carmelo Finocchiaro, commentando la precisazione del Ministero del Tesoro: «L’episodio ultimo della smentita da parte del Mi-

Solo le perplessità di Umberto Bossi, espresse nella cena di lunedì scorso, potrebbero convincere il Cavaliere a ridiscutere l’innalzamento dell’Iva su Sky dal 10 al 20 per cento no il centrosinistra della vecchia legislatura che nell’autunno 2007 le aveva ricevute per primo. Resta però lo strano percorso, avviato con la segnalazione di Mediaset. Si spiegano forse così le parziali aperture lasciate intravedere ieri dal premier. È evidente d’altra parte che la strategia della maggioranza lascia poco spazio alle mediazioni. Quello televisivo è solo uno dei tanti settori in cui il dialogo è già stato abolito, come l’aliquota di Sky al 10 per cento.

nistero del Tesoro dell’annunciato blocco delle tariffe di autostrada luce e gas è l’ultimo atto di una politica indecorosa. Dopo i trionfalistici annunci che hanno seguito l’approvazione del cosiddetto decreto anticrisi oggi ci ritroviamo davanti ad un provvedimento che - una volta conosciuto nei suoi dettagli - vede ridimensionati in maniera sensibile gli interventi a favore dei cittadini e delle imprese». Naturalmente soddisfatto, invece, il presidente dell’Autorità per l’Energia, Alessandro Ortis, che ha preso «atto con soddisfazione delle dichiarazioni del ministero del Tesoro» e rimarcato che «considerando gli andamenti dei prezzi del petrolio, si confermano le previsioni che i nostri prossimi ed usuali aggiornamenti possano assicurare ai consumatori diminuzioni significative e progressive delle bollette del 2009». Almeno questo.

La reazione di Sky ha fatto storcere il muso anche ad alcuni del Pd. Marco Follini, pur riconoscendo l’iniquità della norma, ha giudicato ”sopra le righe” la campagna di Sky e ha sottolineato come: «Tradurre la potenza di fuoco della televisione in forza politica sta diventando un’abitudine del nostro Paese. Resto convinto che questa cattiva abitudine non fa crescere una buona democrazia».

Ma, dopo qualche ora, nella commedia Sky la trama si è ingarbugliata ancora di più. Prima il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, ha invitato ad abbassare i toni della polemica: «Tutto è miglio-

Il più esplicito è stato Italo Bocchino: «Un nostro ripensamento può passare solo attraverso un dialogo parlamentare.Se invece continua l’aggressione mediatica non se ne fa niente»

Il sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni, Paolo Romani, ci ha tenuto a ricordare che: «l’Iva agevolata al 10 per cento fu introdotta nel ’95 per favorire le piattaforme innovative come il satellite e il cavo, ma dopo 13 anni non ha più senso: è legittimo, nel momento in cui tutti gli italiani stringono la cinghia, chiedere ad un’azienda solida e con forti utili come Sky di adeguarsi e di rinunciare ad un’agevolazione che era mirata a favorire le tv emergenti». Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, ha spostato il tiro su un terreno più politico sostenendo che: «Il governo Berlusconi stanzia soldi per le famiglie, soldi per i cantieri e quindi per creare lavoro, con la carta degli acquisti va incontro a chi è privo di risorse e la sinistra di fronte a tutto questo difende i miliardari delle tv a pagamento. C’è la disponibilità della maggioranza a discutere di tutto, ma si dia atto della politica sociale che sta attuando il centrodestra».

rabile e da parte di questo governo non c’è mai stata una chiusura netta o preconcetta rispetto a qualsiasi provvedimento, ma è paradossale lanciare campagne mediatiche contro nell’interesse solo di qualcuno». Poi la stessa Sky ha trasmesso il filmato da Tirana del presidente del Consiglio, Silvio Berluconi, che dichiarava: «Se la sinistra insiste perché si cambi la norma, la prendo in parola. Sono assolutamente d’accordo, purché si rispettino le norme europee». Un’apertura che ha fatto dire al leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini: «Berlusconi ha capito che bisogna spazzare via con nettezza il sospetto di una manovra anti Sky da parte del governo». Ma da Bruxelles il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha avvertito prontamente che non c’erano alternative per evitare procedure di infrazione. Ed ecco ancora il premier dichiarare: «Sull’Iva non torniamo indietro». Come direbbe Totò interpretando, forse, il pensiero di molti italiani: «Vediamo dove vogliono arrivare...».


panorama

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Ripensamenti. Il “Secolo d’Italia“ discute per giorni sul cesarismo berlusconiano. Poi la rettifica: «Non è il premier»

Contrordine:Cesare non è Silvio di Riccardo Paradisi orse Gianfranco Fini non s’era ispirato alla categoria di Oswald Spengler quando giorni fa, all’indomani del consiglio nazionale di Forza Italia, dove Silvio Berlusconi in dieci minuti aveva chiuso il partito azzurro e salutato la nascita del Pdl senza mai citare An, aveva denunciato il rischio di cesarismo nella politica italiana.

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Sicuramente però, hanno pensato più o meno tutti, e in particolar modo il Secolo d’Italia, il quotidiano di An diventato un piccolo fenomeno di costume per il suo situazionismo ideologico, parlando di cesarismo Fini aveva in mente proprio il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E così sull’intemerata finiana il giornale di via della Scrofa ha imbastito una serie di inchieste e riflessioni tutte tese a costruire un’ideologia all’intuizione del presidente della Camera, che, come è noto, procede da anni nei confronti del suo parti-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

to per strappi rispetto al passato e illuminazioni che aprono alla destra le strade del futuro. Ecco allora – in tempo reale sulle sofferte riflessioni finiane sul cesarismo – comparire l’evocazione della categoria del sarkoberlusconismo sulle pagine del quotidiano aennino. Secondo questa teoria il premier italiano

mente le corde profonde degli azzurri evocando un immediato riflesso di autodifesa». E se Paolo Bonaiuti la prende bene, perché di Cesare è un ammiratore, e tende dunque ad avvalorare il paragone c’è chi come Sandro Bondi «magari inconsciamente, dietro la parola proibita anziché il divo Giulio intra-

Il coordinatore di Forza Italia Denis Verdini ha ricordato che il premier venne chiamato il “Cavaliere nero” per aver sdoganato Fini e il presidente francese incarnerebbero un tipo di leader che accentra su di sé ogni responsabilità e sconfina nel popolarismo cioè nella messa in scena delle divisioni. Un articolo privo di particolari accenti polemici ma che a leggerlo tra le righe riserva qualche sfumatura critica verso il popolarismo berlusconiano. Ma il Secolo dedica anche un viaggio all’interno di Forza Italia sulle reazioni che l’evocazione del cesarismo sta suscitando: «La parola cesarismo – scrive nel suo articolo Federica Perri – tocca evidente-

vede la sua caricatura dispregiativa, Il piccolo Cesare di Edward Robinson e ovviamente si dispiace».

Ma non era la destra il mondo contrassegnato da sempre dalle leadership carismatiche? Come quella di An peraltro, dove da dieci anni non si celebra un congresso. Si, risponde il Secolo: «Però questo non ha impedito al partito di coltivare forme di democrazia e dibattito interno che spesso lo hanno arricchito senza nulla togliere all’autorità dei capi». Insomma un in-

vito a superare il complesso cesaristico e chi ha orecchie per intendere intenda. E orecchie che queste allusioni le hanno intese bene ci sono state dentro Forza Italia. Quelle di Denis Verdini per esempio che per non sbagliarsi ha chiarito agli amici di An un paio di cose: «L’indicazione del futuro coordinatore del Pdl è una decisione che spetta a Silvio Berlusconi». E se il reggente di An, Ignazio La Russa, dovesse ambire a quel posto, Verdini fa notare che «è ministro e sta svolgendo un gran lavoro all’interno del governo». A proposito della polemica sul cesarismo nel Pdl, sollevata da Gianfranco Fini, Verdini invece sottolinea che «Berlusconi nel ’93 fu soprannominato il Cavaliere nero proprio perché si schierò con Fini, che all’epoca era candidato al Comune di Roma contro Rutelli. Così facendo, Berlusconi ha fatto entrare la destra nel novero delle forze democratiche». Gianfranco Fini ha così chiarito che lui non si riferiva a Berlusconi ma aveva parlato in generale. Contrordine camerati.

Dall’America arriva il test (149 dollari) che scopre se un bimbo diventerà un fuoriclasse

Piccoli “geni sportivi” crescono... nel dna rasi del tipo “Quel ragazzo il pallone ce l’ha nel sangue” o “E’ nato per il tennis” o “E’ praticamente nato sulla bicicletta” rischiano di non essere più dei modi di dire o delle banali esagerazioni. In America, dove queste cose accadono e da dove arrivano, anche se poi non si sa mai che fine facciano, sembra che spariscano con la stessa velocità con la quale appaiono.

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In America, dunque, e precisamente in Colorado, si può già fare il test del dna per sapere se il pargoletto di un anno che allevate in casa è destinato a essere un campione o una schiappa. Ci vogliono 149 dollari e un prelievo di dna a mezzo saliva e nel giro di qualche settimana la società Atlas Sport Genetics vi dirà se il gene Actn3 da grande farà miracoli o se è il caso di far studiare il bambino perché lo sport non sarà mai la sua materia. Non mi chiedete che cosa ne sa il gene Actn3 del calcio, del dribbling stretto o del rovescio a due mani e della pedalata di Coppi e Bartali perché non lo so, ma pare che dal gene dipendano alcune inclinazioni e resistenze e in generale le capacità atletiche. Il mondo scientifico, però, suggerisce di stare attenti alle bufale perché i “geni sportivi” - chiamiamoli così - presenti nella mappa del genoma sarebbero più di 200 e metterli tutti d’accordo

per avere un campione non è come fare una corsettina. Insomma, la natura ti aiuta, ma poi ci devi mettere del tuo per diventare Pelé o Rivera. Se facesse tutto la natura, se il campione fosse solo il risultato di un rigido determinismo naturale, allora la parola stessa di campione non avrebbe più senso. L’osservazione merita un approfondimento. Isaiah Berlin diceva che se il determinismo fosse vero bisognerebbe cambiare tutto il nostro vocabolario. Parole come libertà, coraggio, eroe, buono, cattivo non avrebbero più alcun senso perché ognuno sarebbe fatto nel modo in cui è fatto dalla natura e dalla storia.

Non avrebbe più senso dire, ad esempio, “ti ringrazio per avermi salvato la vita” perché era già scritto da sempre che quell’azione si sarebbe verificata in quel momento e in quel luogo e con quelle persone. Il mondo umano non

avrebbe più alcuna consistenza morale, ma solo estetica.

Ma se l’osservazione di sir Isaiah è vera, allora, lo stesso stravolgimento di senso si avrebbe anche nello sport. Il vocabolario sportivo, che sottintende un codice di perfezionamento, sarebbe del tutto privo di senso. Addirittura il concetto di gioco sarebbe messo in fuorigioco. Cosa c’è, infatti, di meno determinato e determinabile del gioco? Ma i campioni di domani, preparati a tavolino con lo studio del genoma e programmati come si programmano i computer saranno forse dei campioni, ma dei campioni del non-gioco. Un bambino che sa dall’età di quattro anni che sarà un campione di atletica, oltre a non essere più un bambino non sarà neanche più un vero campione. L’idea del fuoriclasse calcistico - e anche sul concetto di fuoriclasse ci sarebbe da soffermarsi, giac-

ché richiama l’eccezione e non la regola, ciò che è fuori dalla norma e non ciò che è nella norma - come quella del grande ciclista è per noi inseparabile dalla dimensione del sogno e della conquista giorno per giorno. Ma il test del dna cancella sogni e conquiste e li sostituisce con una tabella di marcia in cui il bimbo di quattro anni è in potenza il campione di calcio che sarà a 18 oppure taglia alla radice ogni sogno e ogni tentativo di miglioramento dicendo semplicemente “tu non sarai mai un buon giocatore”. E se il test sbaglia? Se dice a un ragazzo “lascia perdere, non fa per te” mentre quel ragazzo sente dentro di sé una vocazione o sente di volersi giocare la partita? Cosa bisogna seguire: la scienza o la vocazione?

Anche in Colorado ci vanno con piedi di piombo: «Attenti», dicono, «il test non è infallibile: dice alcune cose ma non ne dice altre, dà qualche indicazione, ma non è determinante». Meno male, il futuro dei nostri ragazzi è salvo: potranno giocare e crescere coltivando i sogni di diventare un domani, chissà, un campione per poi fare una buona vita da mediano. Ma intanto avranno imparato a misurarsi con se stessi e con gli altri, avranno imparato a prendere le misure al campo, all’avversario, al gioco imprendibile della vita.


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3 dicembre 2008 • pagina 11

Indiscreto. Al vertice di Madrid del Pse si discute del possibile candidato alla presidenza del Parlamento Europeo

Viaggio a Strasburgo (solo andata) per D’Alema di Francesco Capozza dizio del popolo per quanto riguarda la prima parte della frase, ritiene che sulla seconda «forse Berlusconi ha ragione»), a combattere con i vari Follini, Parisi, Binetti, Chiamparino e tutte le altre spine democratiche? Per carità! Per l’unico post comunista approdato alla presidenza del Consiglio e che per poco ha sfiorato la possibilità di diventare il più giovane capo dello Stato, le beghe di partito (figuriamoci di un partito pieno di contraddizioni come il Pd) sono come l’orticaria.

segue dalla prima Per l’ex capo della diplomazia italiana, infatti, sarebbe pronta un’offerta ben più interessante: sedersi sullo scranno più alto del Parlamento europeo.

Un’ipotesi, quest’ultima, avvalorata anche da tutta una serie di coincidenze tra cui l’assenza di D’Alema dalla riunione madrilena di questi giorni (lui che è comunque vicepresidente dell’Internazionale socialista) e la sua difesa della necessità di posizionare il Pd all’interno della «grande famiglia socialista europea». Da ultimo, poi, un endorsement di quelli che fanno notizia: «Un mio ruolo di guida nel Pd non è nell’ordine delle cose. Non è prevedibile, né ragionevole. E tantomeno si tratta di un’evoluzione che auspico. Un nuovo leader — quando ce ne sarà bisogno — dovrà essere una persona di un’altra generazione». Con queste parole, pronunciate sabato sera a Crozza Italia Live, Massimo D’Alema si è tirato fuori da quel tam tam insistente di voci che lo vogliono

Veltroni sta lavorando alla possibilità di mandare il suo “avversario” in Europa. Per averlo lontano quando si aprirà la lotta per la leadership nel Pd novello Richelieu a cospirare un golpe contro Walter Veltroni per prenderne il posto. Che Veltroni possa essere la bambolina vudù con cui si diverte la sera Baffino non è da escludersi. E neppure si possono ritenere false le voci che lo vogliono come maggiore sponsor di Enrico Letta come possibile successo-

re del leader democratico. Che però D’Alema voglia essere egli stesso il prossimo segretario del Pd, è fantapolitica pura. Ve l’immaginate lui, l’uomo «più intelligente e più comunista della sinistra italiana», come lo ha definito Berlusconi (l’interessato gongolando ha risposto che se si rimette al giu-

Per questo non ha interesse a sedere nel governo ombra di Veltroni, a far parte della dirigenza democratica, a dettare le linee presenti e future del partito. D’Alema è scaltro, intelligentissimo, talmente consapevole della sua superiorità che talvolta nemmeno si abbassa alla singolar tenzone con l’avversario. Ed è anche molto ambizioso. È acclarato che nel 2006 avrebbe preferito di gran lunga la presidenza della Camera alla poltrona più prestigiosa della Farnesina. Oggi, con Berlusconi saldamente al

Neologismi. La Cassazione condanna un avvocato che aveva paragonato una donna all’ex-stagista

Se Monica Lewinski è un insulto di Roselina Salemi ewinski a chi? Quando cercava di attirare l’attenzione di Bill Clinton (galeotto fu lo Studio Ovale), la Monica per antonomasia non immaginava certo che sarebbe diventata così famosa, che avrebbe quasi provocato una crisi istituzionale, scritto memoriali e causato un pronunciamento della Corte di Cassazione in Italia (V sezione penale, sentenza 44887). Un’intrepida signora pugliese, Gennarina M. (senza cognome per garantire il suo diritto alla privacy) ha querelato per diffamazione un avvocato che, durante un dibattimento in sede civile, l’aveva accusata di “farneticazioni uterine” e di avere “una natura lewinskiana”, frase un po’ barocca, ma ridotta all’osso, un insulto. E ieri, la Suprema Corte le ha dato ragione. Perciò, se in uno spot televisivo si può chiamare una signora ”bella topolona”, beh, almeno di questo siamo sicuri: dare della Lewinki è “gravemente offensivo”, “lesivo della reputazione”. Chi lo fa, deve pagare. Altro che verba volant.

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anche per lui), ritenendo che l’espressione non dovesse considerarsi offensiva, in secondo grado il tribunale di Foggia (29 settembre 2006), ha ribaltato il verdetto ed emesso la condanna, appena confermata dalla Suprema Corte. In più, Gennarina dovrà essere risarcita di tutte le spese sostenute durante i processi e toccherà al tribunale di Foggia quantificare il danno subìto. Da questo momento in

bolo di un comportamento censurabile. Il tema sul quale gli alti magistrati non hanno forse riflettuto (o forse sì, e in questo caso avrebbero mostrato un notevole senso dell’umorismo) è che la loro decisione permette di trasformare un cognome in un epiteto offensivo. Potrebbe in futuro essere reato dare del “Corona” a qualcuno? Dare del “Cutolo”o del “Vallanzasca”? Nessun uomo, però, ha mai trovato disdicevole l’appellativo di “Merolone” (con riferimento al superdotato Valerio Merola, coinvolto nella cosiddetta inchiesta di Vallettopoli, poi archiviata)….

Una «sentenza esemplare» che trasforma un fatto privato in un simbolo. E se qualcuno chiamasse un uomo “cutolo”? O ”merolone”?

La vicenda si trascinava da anni. Se in primo grado il giudice di pace di Foggia era stato più tenero e aveva assolto l’avvocato Marcello D.V. (diritto alla privacy

poi, la decisione farà giurisprudenza. Scripta manent. La sentenza, è, sotto molti aspetti, storica. Il Monicagate, punto più basso, in tutti i sensi, dell’amministrazione Clinton, è uno scandaletto che da noi provocherebbe a stento l’inarcamento di un sopracciglio. In fondo, si riduce a un banale intrattenimento molto gradito dai maschi e, se leggiamo pruriginose statistiche, largamente praticato. Ma la sua fama planetaria ha reso Monica Lewinski (che resterà l’ex stagista della Casa Bianca, anche quando sarà diventata nonna), più che una persona, una figura retorica, il sim-

Ci voleva una donna, perché le donne sono più facili da ferire, come il caso Lewinski dimostra, a scalare un grado di giudizio dietro l’altro e provocare, forse senza neanche volerlo, una riforma linguistico-antropologica. Da domani, “Gennarina” potrebbe diventare un complimento. O un avvertimento: “Attento a come parli, è una Gennarina quella lì…”.

potere, l’unica via di scampo sarebbe emigrare in Europa per metà della prossima legislatura (è prassi che la presidenza del parlamento europeo sia divisa tra i due principali partiti: metà mandato al Pse, l’altra metà al Ppe), in modo da rientrare in tempo per le elezioni del 2013 e, magari, prepararsi di nuovo per palazzo Chigi. C’è solo un ostacolo psicologico a questa candidatura, e cioè che oltre che dal danese Poul Rasmussen, presidente del Partito socialista europeo, il nome di D’Alema sarebbe stato fatto da Walter Veltroni che insieme a Fassino è in questi giorni a Madrid. Inutile dire che per Veltroni sarebbe una doppia vittoria se D’Alema diventasse presidente del Parlamento europeo: da un lato potrebbe rivendicare un suo ruolo nelle trattative internazionali, dall’altro si toglierebbe dai piedi per mezzo lustro il nemico giurato di sempre. E questo a Walter piacerebbe moltissimo. D’Alema non è un minutante della politica però, e sarebbe bene che Veltroni non dicesse «gatto!» finchè non ce l’avrà nel sacco.


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È in edicola il nuovo numero dei «quaderni di liberal». Anticipiamo un saggio di Enrico Cisnetto. io è morto, il capitalismo è morto e anch’io non mi sento tanto bene». Si potrebbe cominciare così, parafrasando Woody Allen, un’analisi del dopo-crisi finanziaria, quella partita nel luglio del 2007 con l’esplosione della bolla immobiliare e il conseguente fallimento del mercato dei mutui subprime, cui ha fatto seguito la discesa verticale dei corsi di Borsa e il crack di alcune banche, prima di tutto americane, che a sua volta ha generato una grave crisi di liquidità. Di fronte alla violenza, alla dimensione e alla velocità con cui si sono manifestati questi fenomeni, si è parlato di «recessione mondiale», di «crisi come quella del 1929», se non addirittura più grave, di «spettro della miseria» incombente, di «fine del capitalismo». Ma, soprattutto, si è diagnosticato il fallimento della globalizzazione, individuata da questa sorta di «partito nichilista» come la vera causa di tutti i mali odierni, e si è preconizzato un suo tanto necessario quanto probabile superamento. Tuttavia io non condivido questa diagnosi infausta. Stando a coloro che l’hanno formulata, tra l’altro, la recessione avrebbe dovuto esserci negli Stati Uniti già da un paio di anni, e la crescita mondiale quest’anno avrebbe dovuto arrestarsi. Invece non è così. Finora il trasferimento della crisi finanziaria all’economia reale è stato parziale e circoscritto al terzo trimestre 2008. E lo sviluppo dell’Asia, e in misura minore del Brasile, assicurerà al pil mondiale un tasso di crescita per quest’anno e probabilmente per l’anno prossimo di almeno il 3%.

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Questo non significa, naturalmente, che non sia successo niente, o che si tratti solo di cattiva congiuntura. Siamo certa-

Escono «I quaderni di liberal». Anticipiamo un saggio di Enrico Cisnetto sul progetto economico di Sarkozy: ecco che cosa insegna all’Italia

Più Stato e più mercato. Non è un paradosso di Enrico Cisnetto mente di fronte a un passaggio paradigmatico, che conclude una stagione contrassegnata in economia dall’uso eccessivo del debito e in politica dalla primazia, militare e strategica, degli Stati Uniti. Ciò non vuol dire che sparirà il debito e che gli Usa saranno marginali, ma «semplicemente» che si delineerà una situazione più equilibrata e aperta. In sostanza, il modello di sviluppo vedrà una rivalutazione dell’economia reale - la produzione e commercializzazione di beni materiali e l’offerta di servizi a essa funzionali - e un ritorno della finanza all’originario ruolo di supporto dell’attività economica. Dunque, basta con lo sviluppo basato sui consumi a debito delle famiglie, su un’eccessiva sottocapitalizzazione delle imprese grazie al merito di credito tendente a zero, sull’uso eccessivo

della leva finanziaria da parte delle banche, sulla creazione di finanza sintetica neppure più basata su modelli matematici, sul debito-monstre degli Stati. Così come, sul fronte geo-politico, non più unilateralità americana, ma creazione di un nuovo ordine mondiale, basato su un maggiore equilibrio di forze non solo all’interno del vecchio

della ricchezza mondiale. Il primo banco di prova della new-new economy, presumibilmente, sarà la creazione di un nuovo sistema monetario, che chiameremo Bretton Woods III giacché la seconda esiste già di fatto, anche se non formalmente - e si è sviluppata dall’inizio del secolo con i paesi asiatici che hanno seguito la stessa

Una moneta asiatica per Cina, India, Corea del Sud e Giappone; una per i maggiori Paesi produttori di petrolio del Golfo; una per l’America del Sud: così nascerebbe un vero sistema policentrico quadro occidentale, ma anche in relazione alle aree del mondo che in questo momento, e presumibilmente in modo crescente nei prossimi anni, contribuiscono di più alla formazione

strada percorsa da Europa e Giappone nel dopoguerra, quando il gold exchange standard prevedeva che tutte le monete facessero riferimento alla valuta Usa (a sua volta legata

all’oro), e ciò ha permesso al Vecchio Continente e al Giappone una rapida ricostruzione industriale trainata dalle esportazioni, in cambio della quale essi si impegnavano a utilizzare il biglietto verde come moneta di riserva e a investire in bond. E una grande riforma dei cambi, che non si limiti a fotografare l’esistente ma che abbia il coraggio di uno scatto in avanti, si può realizzare solo affiancando al dollaro altre divise forti. Oltre all’euro, magari dopo che avrà inglobato sterlina inglese e franco svizzero, anche tre nuove monete che sarebbe opportuno nascessero in fretta: una valuta asiatica in cui convergano Cina, India, Corea del Sud e Giappone; una valuta del Golfo, che raduni i maggiori paesi petroliferi; una valuta del Mercosur. Tutte armonizzate in una sorta di «serpente monetario» mondiale che realizzi un sistema policentrico.

D’altra parte, siamo obiettivi: se guardiamo i trend di crescita attuali vediamo che nel 2007 i paesi «maturi» (Usa, Giappone, Germania, Francia, Spagna, Uk, Italia, Canada e Paesi Bassi) hanno rappresentato il 62% del pil mondiale ma hanno contribuito solo per il 38% alla crescita della ricchezza. Al contrario dei cosiddetti «Bric» (Brasile, Russia, India e Cina) - che sono solo l’11,5% del pil mondiale ma hanno un ritmo di crescita del 22% - e dei paesi della futura moneta asiatica, che contano per il 19,1% ma crescono per ben il 24,7%. Dunque, tenuto presente che il flusso conta molto di più dello stock, è chiaro che un regime monetario solo euro-atlantico non avrebbe ragion d’essere. E che se per riscrivere le regole toccherà rileggere il Keynes visionario del 1944 che proponeva un «paniere» composto di tutte le valute del mondo, questo vorrà dire


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che non meno fantasia servirà per fissare una sorta di «nuova Yalta» anche per definire la governance del mondo globale.

Ma se cambia il quadro geopolitico, è vero altresì che per la prima volta almeno dalla pubblicazione del Capitale di Marx (1867) è il capitalismo stesso a trovarsi sotto accusa. Dopo un trentennio in cui il liberismo e la Scuola di Chicago hanno fatto sempre più accoliti, adesso pare evidente che la famosa mano invisibile di smithiana memoria non è più in grado di regolare alcunché. Siamo diventati tutti neo-keynesiani, dunque. E alcuni, con l’ardore dei convertiti dell’ultima ora, pretenderebbero di tornare alle politiche di deficit spending, alla sregolatezza fiscale, al pluricitato assunto keynesiano secondo cui si può indebitare finché si vuole, dato che «nel lungo periodo siamo tutti morti». Calma. È chiaro che a questo punto serve un distinguo: da parte mia, che in questi anni non ho mai fatto mancare la mia voce critica contro i teorici del liberismo sfrenato, credo di potermi permettere ora una critica in senso opposto. Attenzione, dico, perché essere keynesiani (o meglio neo-keynesiani, poiché la storia non si può ripetere due volte, altrimenti si passa alla commedia, per dirla marxianamente) non significa oggi tornare alle partecipazioni statali o alle «banche di interesse nazionale»: anche perché specie nel caso italiano - oggi l’interesse nazionale bisognerebbe prima trovarlo. Né significa entrare nel capitale delle aziende o «rottamare» per sovvenzionare questa o quest’altra impresa. Essere neo-keynesiani oggi - lo dice uno che lo è stato tutta la vita, keynesiano, pur con i dovuti distinguo, necessari non fosse altro per i diversi moneti storici - significa da parte della politica assumersi la responsabilità di dare un indirizzo strategico allo sviluppo del paese, individuando le linee

cui i privati stentavano a misurarsi.

In queste pagine, alcune immagini recenti delle Borse mondiali. È proprio qui che la crisi finanziaria di questi mesi ha cominciato a espandersi fino a trasformarsi in economica

Essere neokeynesiani, oggi, significa trovare una politica che si assuma davvero la responsabilità di individuare linee guida nuove lungo le quali far camminare l’economia globale guida lungo le quali far camminare l’economia. In concreto? Politica dei settori oltre che quella dei fattori della produzione; utilizzo della leva fiscale come incentivi e disincentivi che indirizzino gli imprenditori verso scelte di utilità generale (aziende più grandi e più capitalizzate, comparti produttivi a maggiore valore aggiunto e intensità di innovazione tecnologica). Dunque, sì allo «Stato decisore» e no allo «Stato Caritas»: il che non significa rinunciare a grandi investimenti pubblici, anzi: un piano di grandi opere - manovra espansiva per eccellenza - avrebbe anche, nel caso italiano, il vantaggio indubbio di colmare un gap strutturale trentennale che ci attanaglia. Ma l’occasione qui è buona anche per dire una parola di verità su esperienze passate che

con troppa fretta sono state gettate nell’immondizia della storia. Parlo in particolare dell’Iri: un modello tanto vituperato quanto recuperato, negli ultimi tempi, almeno dalle leadership più evolute del Vecchio Continente. Basta pensare al «proclama di Annecy», la località in Alta Savoia da cui il presidente francese Sarkozy ha annunciato il mese scorso un piano di stimoli all’economia e la creazione di un maxi-fondo sovrano. Un’esperienza che più che i vari fondi sovrani dei petrodollari - i vari Temasek (Singapore), Cdb (Cina), Qia (Emirato del Qatar) - ricorda da vicino il vecchio istituto di Alberto Beneduce (meno l’ultima Iri, quella di Prodi). Nonostante alcuni eccessi e sviluppi deteriori di quel modello (i boiardi di Stato e il combinato disposto della socia-

lizzazione degli oneri e della privatizzazione dei profitti, tipici della sua ultima fase), per molto tempo esso rappresentò un unicum apprezzato e studiato all’estero.

Il «sistema Beneduce» aveva il fine di salvare il sistema bancario e industriale italiano paralizzato dalla crisi, prevedeva la separazione fra banca e imprese industriali, con la partecipazione diretta dello Stato al capitale di controllo delle imprese (che sarebbero però rimaste società per azioni, continuando quindi ad associare, in posizione di minoranza, il capitale privato). La gestione di esse era improntata a un criterio rigidamente privatistico di efficienza regolata dal mercato. Inoltre lo Stato si riservava un ruolo di indirizzo dello sviluppo industriale, ma non di gestione diretta: infatti, non si trattava di un processo di nazionalizzazione, ma di una serie di interventi finalizzati al salvataggio e al sostegno finanziario di singole imprese, o, in qualche caso, alla creazione di nuove attività con

La proposta Sarkozy oggi è innovativa perché prevede di costituire in tutta Eurolandia una serie di fondi gemelli che dovrebbero coordinarsi in chiave difensiva verso l’estero, affrontando senza ipocrisie la sfida dimensionale a cui le decotte economie nazionali del Vecchio Continente sono sottoposte da almeno un ventennio. È inutile e dannoso continuare a pensare, infatti, in termini di interessi e di campioni nazionali, se - Italia per prima - non ci rendiamo conto che la sfida è quella di creare dei player in grado di confrontarsi sugli scenari globali. La ricetta è quella che va nella direzione di «più mercato» e insieme «più Stato». Più mercato nel senso di allargare la concorrenza, proseguire nelle privatizzazioni e liberalizzazioni, aumentare la tutela del risparmio e la trasparenza degli scambi con regole più stringenti. Più Stato, nel senso di più Europa. Un’Europa che deve essere intesa non solo come «buco nero» delle in-decisioni, come regolatore sovranazionale non calato nello specifico, ma che deve diventare un grande centro propulsore di strategie e politiche (economiche) verso l’interno, e al contempo attore in grado di poter contare di più nella riscrittura della governance globale, punto quest’ultimo su cui è evidente la necessità nel momento in cui lo stesso paradigma del capitalismo internazionale deve darsi nuove regole del gioco. Più Stato, più mercato, più Europa, dunque. Questa è la strada - l’unica possibile per affrontare il nuovo paradigma economico-politico senza cadere in facili manicheismi. Una terza via è possibile, dunque. Lo avevano già intuito, con grande pragmatismo, statisti italiani come Alcide De Gasperi e Ugo La Malfa. Adesso spetta a noi riprendere e continuare il loro cammino. (www.enricocisnetto.it)


mondo

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Fantascenari. La clamorosa autocritica di Bush: «Il mio più grande rammarico? I rapporti dell’intelligence sull’Iraq»

Saddam, ritorno al futuro Cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti non avessero abbattuto la dittatura irachena? di Osvaldo Baldacci na realtà parallela, un mondo virtuale. La guerra in Iraq ha mutato direzione alla Storia? Di fronte a critiche e pentimenti rispetto alle scelte dell’Amministrazione statunitense, viene da chiedersi cosa sarebbe successo se nel marzo 2003 gli Stati Uniti non avessero attaccato l’Iraq di Saddam Hussein. Ma non è facile rispondere. Non è solo perché “la storia non si fa con i se”. C’è un problema strutturale legato alle correnti più profonde della storia. Se la guerra in Afghanistan è stata una reazione tattica agli attacchi terroristici dell’11 settembre, il disegno di un nuovo Medio Oriente fa invece parte di una visione strategica di reazione di lungo termine alla minaccia del terrorismo e del fondamentalismo islamico, e non solo a questo. L’Iraq si inserisce in questo contesto, essendone uno dei perni a livello simbolico e non solo. Tanto che si potrebbe arrivare a pensare che se non ci fosse stata la guerra del 2003, forse poteva essercene un’altra poco dopo.Washington infatti ha colpito l’Iraq per cambiare il Medio Oriente, per «esportare la democrazia».

U

Ma siccome alle stesse sollecitazioni si può rispondere in mille modi diversi, si può anche arrivare a pensare che senza la seconda guerra del Golfo il mondo oggi sarebbe radicalmente diverso. Andiamo per ordine. Ricapitoliamo i due scenari disegnati dai sostenitori e dagli oppositori della guerra in Iraq. Per chi ha voluto quella guerra un mondo con Saddam Hussein sarebbe un mondo dove il terrorismo islamista poteva unirsi ai regimi dittatoriali trovando più facilità di svilupparsi, di avere sostegno logistico e mezzi potenti, armi comprese. Con Saddam Hussein il Medio Oriente sarebbe ancor più di oggi un luogo di crudeli repressioni, fonte comunque di instabilità politica, economica ed energetica. Inoltre il terrorismo avrebbe meno difficoltà a raggiungere l’Occidente, mentre oggi il campo di battaglia è stato spostato prevalentemente su altri terreni. Per gli oppositori della guerra è stato invece quell’intervento armato a destabilizzare il Medio Oriente, ad alimentare

l’odio anti-occidentale, a creare una palestra e un palcoscenico per i terroristi. Inoltre senza il conflitto iracheno gli Stati Uniti avrebbero potuto concentrare i propri sforzi sull’Afghanistan e sulla caccia ad al Qaeda. Non ci sarebbero state divisioni tra Washington e alcuni Paesi europei, e nel mondo avrebbe regnato un clima più collaborativo e costruttivo che avrebbe permesso di intaccare alla radice le cause sociali del radicalismo islamico violento. Queste due visioni appaiono ideologiche, e pare invece opportuna un’analisi più in profondità. Ci sono tendenze storiche che hanno indubbiamente trovato un catalizzatore nella situazione irachena, ma che vivono a prescindere da questa. Prima di tutto il crescere del fondamentalismo islamico e del terrorismo qaedista, le cui origini sono radicate nella condizione storica del Medio Oriente e delle popolazioni arabe e islamiche, dal colonialismo alla Guerra Fredda agli attuali governi locali. Hanno anche un legame diretto con l’altro grande filone che ha trasformato la storia: la globalizzazione. Il fondamentalismo è anche una reazione alla modernità e alle nuove opportunità. Allo stesso tempo la globalizzazio-

ne ha allargato il mondo a nuovi protagonisti, e questo ha cambiato gli equilibri: la crisi di questi anni è anche un riequilibrio tra Occidente e resto del mondo. L’Iraq fa solo parte di tutto questo, anche se in qualche modo lo ha reso evidente e forse accelerato “impantanando”le forze statunitensi.

Viene anche da pensare all’Iran: avergli eliminato storici rivali Saddam e i talebani sicuramente l’ha avvantaggiato. E da Teheran attraverso il sud iracheno fino al Libano e a tante altre regioni del Medio Oriente può ora spirare un vento di rinascita sciita che preoccupa i governi sunniti quanto al-Qaeda. Ma la crescita dell’Iran e degli sciiti pare un fenomeno di più ampio respiro, che in qualche modo avrebbe ugualmente fatto emergere le sue criticità, come la corsa iraniana al nucleare iniziata ben prima del 2003. Sullo sfondo di queste grandi tematiche, difficile pensare che, magari con un ritmo appena più lento, Paesi come Russia e Cina non avrebbero ugualmente recuperato un ruolo di primissimo piano. Allo stesso modo il tema del fondamentalismo terrorista esiste a prescindere dalla situazio-

Con il Raìs al potere, il Medio Oriente sarebbe ancora più di oggi un luogo di crudeli repressioni e una fonte di instabilità politica. Il terrorismo avrebbe meno difficoltà a raggiungerci ne di Baghdad, e resterebbe comunque un problema dei nostri giorni. Restano le questioni regionali. Certo qualcosa sarebbe cambiato. Senz’altro le difficoltà delle operazioni in Iraq hanno generato un riflusso che ha acuito alcune problematiche. Ma allo stesso tempo senza la guerra del 2003, nonostante i suoi errori, ci sarebbero stati i ritiri della Siria dal Libano e di Israele da Gaza? Le elezioni in Iraq, in Libano, nei Territori Palestinesi, e altre consultazioni e riforme in molti Paesi? E l’iniziativa di pace araba, le offerte

di dialogo israeliane, Annapolis? Tutti passi che hanno subìto anche regressi, ma che comunque ci sono stati.

La più probabile alternativa è che senza il disegno di democratizzazione del Medio Oriente, che secondo Washington doveva passare anche dalla caduta di Saddam Hussein, quella parte di mondo sarebbe rimasta congelata, bloccando forse, anche a costo di dure repressioni, alcune istanze violente, ma forse senza affrontare i problemi. Una ipotesi infatti è quella che l’Iraq sareb-

Condizione femminile. Aumenta il gentil sesso nelle scuole guida e al volante

Donne ”on the road”a Baghdad di Pierre Chiartano e le donne tornano a guidare sulle vie di Baghdad è un buon segno: significa che la sicurezza, per le strade di quella martoriata capitale, si rivede. Qualcuno potrebbe sorridere, ricordando il “pericolo costante” del gentil sesso sulle quattro ruote, ma non è il nostro caso. Le milizie, quelle celate dalla keffiah nera, col dito perennemente sul grilletto degli Ak-47, sembrano scomparse da settimane. Le auto-bomba sono diminuite drasticamente, “solo” un paio al giorno. Per chi è abituato, dal 2003, all’alta tensione di una violenza co-

S

stante, improvvisa, devastante, è una buona notizia. Le donne della capitale sono ormai stanche di farsi scarrozzare da mariti, padri o fratelli. Vogliono riacquistare l’indipendenza.

Dal giorno dell’invasione americana erano scomparse dalle strade cittadine. Troppo pericoloso. Alla paura, condivisa anche dagli uomini, si era poi aggiunta la scomunica del radicalismo religioso, che minacciava di morte le sfortunate trovate alla guida di un mezzo. Girare per le strade di Baghdad, soprattutto sulle grandi arterie, senza semafori, al buio totale

dopo il calar del sole e senza polizia stradale, assomigliava sempre più ad uno scenario da incubo, che al semplice esercizio della libertà di movimento. Mettersi alla guida era una prova di coraggio e, in Italia, ne abbiamo avuto una prova, con la tragedia del nostro agente del Sismi Nicola Calipari. Un pericolo ambientale a prova di esperti. Le scuole guida si erano svuotate e l’altra metà del cielo si era inabissata dietro i muri di case e cortili. Oggi le cose sono cambiate, come racconta un’inchiesta del Washington Post. Dalla data dell’invasione non erano state più rilasciate patenti

in rosa. «Ora il settanta per cento degli iscritti ai corsi di guida è formato da donne» afferma, Sabah Kadim, direttore della scuola al Riyadh. L’Automobil club iracheno ha rilevato 123 nuove iscrizioni, solo in novembre, la maggior parte del gentil sesso. «Le donne, ovunque nel mondo, guidano le automobili», il parere di un membro femminile del Parlamento iracheno e attivista dei diritti, Safia al-Soulheil, «e oggi le cose vanno meglio».

Al c ontrario dell’Arabia Saudita, in Iraq non c’è alcuna legge che vieti alle donne di guidare, per decenni è sta-


mondo

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Le armi di distruzione di massa non erano l’unica ragione per l’intervento

No, presidente, questa bugia non ci piace di Andrea Mancia l più grande rimpianto di tutta la mia presidenza è stato certamente il fallimento dell’intelligence sull’Iraq. Molta gente si è giocata la reputazione su questo, dicendo che le armi di distruzione di massa erano un motivo valido per rimuovere Saddam Hussein. Non so se si tratti di rifare qualcosa diversamente, ma vorrei che l’intelligence fosse stata diversa». Così, il presidente uscente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha risposto ad una domanda del giornalista di Abc News, Charles Gibson, durante un’intervista (con tanto di caminetto acceso) trasmessa dal programma “World News”. Un’intervista ripresa ieri anche da La Repubblica, sotto il roboante (e un po’ forzato) titolo «L’Iraq, il mio più grande rimorso: Bush si pente sulle armi di Saddam».

«I

be rimasto in quarantena, costringendo anche gli altri Paesi, come Israele, a mantenere molto alta la guardia. Oppure Saddam poteva essere reinglobato nell’alveo occidentale, un proconsole da usare magari anche contro l’Iran. Ma Saddam non è mai stato Gheddafi: la sua storia, il suo carattere, la sua immagine, difficilmente potevano cambiare. Si sarebbe fatta la scelta opposta a quella di Bush: non esportare la democrazia, ma provare a cambiare (e controllare) il Medio Oriente tramite dittatori amici. Le opinioni pubbliche occidentali avrebbero accettato di affidarsi a un tale sanguinario gendarme in Medio Oriente?

Un’alternativa era quella di un cambio di regime, ma con una situazione così fragile, il to il Paese più secolarizzato di tutto il Medio Oriente. Le donne andavano all’università, praticavano sport, godevano di garanzie legali nel matrimonio e nel divorzio. Tutto questo era andato perso con l’arrivo delle milizie, dei terroristi e degli ultrafondamentalisti. Ora possono affollare i corsi di guida come quella di al-Riyadh, senza avere più paura che qualcuno gli versi dell’acido addosso, solo perchè non hanno il viso coperto dal niqab. Non che guidare lì, sia diventata un’esperienza paragonabile a quella che si può fare a Parigi o Roma. Devi ancora abituarti ai continui chek point e alle facce stupite dei poliziotti. Alle gimcane fra i blast wall, i muri a difesa delle autobomba, si alternano violente frenate quando passa un convoglio militare,

venir meno della testa dell’Iraq non sarebbe stato indolore, e forse avrebbe potuto degenerare in guerra civile. E se gli Usa avessero sostenuto i sunniti, la maggioranza sciita sarebbe finita ancor di più in braccio all’Iran. Sono tante dunque le recriminazioni da fare sulla guerra all’Iraq e sulla gestione del dopo-guerra, realtà che in qualche modo restano simbolicamente centrali degli otto anni di Bush, periodo in cui il mondo è cambiato. Senza quell’azione militare oggi avremmo probabilmente un Medio Oriente diverso, più statico pur nelle sue eterne tensioni. Ma certi processi storici vanno oltre i singoli eventi. *senior analyst Ce.S.I.

che schizza via senza tanto preoccuparsi del resto del traffico. Insomma saltare in macchina per andare a fare spese o trovare un’amica, sarà ancora un esercizio di volontà e determinazione, ma la strada, è proprio il caso di dire, è aperta.

L’Iraq sta vivendo dei grandi cambiamenti, rispetto ai tempi di Saddam. Internet e le tv satellitari sono diffuse dappertutto. Sarebbe una vergogna se le donne non potessero guidare, è l’opinione di molte irachene. Altrove non sono così fortunati. A Bassora le scuole sono tutte chiuse, secondo le fonti della polizia locale. E le donne che scalano le marce e suonano il clacson, sono più rare delle chiese cristiane. Lì è ancora forte la paura d’essere uccise o rapite, ma le cose stanno cambiando.

Non si tratta di una felice conclusione per il doppio mandato del presidente repubblicano. Alla “favoletta” dell’intervento americano in Iraq causato unicamente dalla presenza delle armi di distruzioni di massa, infatti, finora ci avevano creduto soltanto i detrattori a oltranza dell’amministrazione Bush, proprio per screditare le ragioni di questo intervento. Tra la fine del 2002 e la primavera del 2003, quando soprattutto negli Stati Uniti infuriava il dibattito sull’opportunità, o meno, di “portare a termine” il lavoro incompiuto di Bush Sr. nella prima Guerra del Golfo, le ragioni a sostegno dell’intervento militare erano molte. E la presenza di weapons of mass destruction nell’arsenale iracheno era solo una tra le tante. Qualche esempio? Bush non fu mai esplicito in questo senso, ma il suo vicepresidente - Dick Cheney parlò ripetutamente di possibili contatti tra i l’Iraq e vari gruppi terroristici (compresa al Qaeda). E che dire della necessità di abbattere il regime iracheno per sostituirlo con un governo legittimamente eletto, allo scopo di diffondere il “virus” della democrazia nel Medio Oriente? Senza parlare delle sistematiche violazioni delle “no-fly zones”, che da sole avrebbero potuto giustificare un intervento, anche armato, sotto l’egida delle Nazioni Unite. E poi le ragioni “umanitarie”, provocate dalle continue violazioni dei diritti umani e dalle stragi compiute nei confronti dei curdi e della popolazione irachena in generale. Oltre alle ragioni “pubbliche”, in-

fine, c’era quella “ufficiosa”(ma a nostro avviso altrettanto decisiva) della necessità, da parte degli Stati Uniti, di spostare il fronte della war on terror dal proprio territorio colpito dagli attentati dell’11 settembre - ad una zona del pianeta in cui poter combattere una guerra asimmetrica come quella al terrorismo con metodi almeno simili a quelli tradizionali.

La scorciatoia delle “armi di distruzione di massa”, insomma, fu imboccata soprattutto per mettere a tacere le voci discordanti in seno alla stessa amministrazione repubblicana (e ad alcuni settori del Pentagono). Tanto che toccò proprio alla “colomba” per eccellenza, l’allora segretario di stato Colin Powell, l’onere di provare a convincere il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ad autorizzare esplicitamente l’intervento militare sulla base dell’esistenza di grandi quantitativi di wmd irachene. Tentativo miseramente fallito. È piuttosto triste, dunque, che sia proprio George W. Bush a restituire credito ad una simile ricostruzione degli eventi. Perché il suo ragionamento, a grandi linee, può essere riassunto così: «Mi dispiace aver dato credito a quei rapporti dell’intelligence che assicuravano la presenza di wmd in Iraq. Se avessi saputo prima che quei rapporti erano sballati, la mia fermezza nel perseguire l’intervento militare non sarebbe stata la stessa». Bush, per la verità, non arriva a dirsi sicuro che - senza la variabile wmd - gli Stati Uniti non avrebbero invaso l’Iraq. «Non lo so - risponde il presidente alla domanda diretta dell’intervistatore - non posso disfare quello che è stato fatto. È difficile dirlo». Il dubbio, però, resta. Davvero in assenza di prove “certe”sulle armi di distruzioni di massa l’intervento americano in Iraq non avrebbe avuto ragion d’essere? Davvero le uniche ragioni della guerra erano quelle esposte, con scarso successo, da Colin Powell all’Onu? E l’esportazione della democrazia? E il regime change? E il massacro dei curdi? E l’utilizzo delle armi chimiche contro la popolazione inerme? Se tutto questo non valeva niente, Mr. Bush (e ancora non vogliamo crederci fino in fondo), i casi sono soltanto due: o siamo stati ingannati allora; o siamo stati ingannati adesso.

Nel dibattito prima della guerra, le wmd irachene erano solo uno tra i tanti motivi per rovesciare il regime baathista


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Bangkok. I giudici accolgono le accuse di frode elettorale e esiliano il premier dalla vita politica

Elezioni truccate, via il governo La Thailandia nel caos di Vincenzo Faccioli Pintozzi ala la nebbia sul futuro della Thailandia, di cui la Corte Costituzionale ha decapitato l’esecutivo. Con una sentenza simile a quella che ha agitato la Turchia per mesi, infatti, i giudici dell’ultimo gradino della scala di giudizio hanno ordinato lo scioglimento del People’s Power Party, il partito di maggioranza, e di altri due partiti minori che appartengono alla coalizione di governo. L’accusa – accettata dalle toghe e mossa dagli oppositori dell’Alleanza popolare per la democrazia - è di frode elettorale nel corso delle ultime elezioni politiche. La Corte ha inoltre disposto il bando dalla vita politica attiva per il primo ministro Somchai Wongsawat e per altri quadri del suo partito. L’attuale Costituzione prevede però che molti dei parlamentari iscritti nelle liste dei partiti messi al bando possano mantenere i seggi e fondare un nuovo partito. Una decisione che i dirigenti del Ppp hanno già annunciato di aver preso. A breve, infatti, verrà fondato un nuovo movimento, il Puea Thai, con lo scopo di «mantenere la leadership del Paese». Uno dei portavoce del disciolto partito ha già sottolineato: «Ci iscriveremo tutti a un nuovo partito e puntiamo a eleggere un nuovo primo ministro l’8 dicembre».

C

Il premier Somchai, cognato dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, ha invece dichiarato di accettare la decisione dei giudici ma ribadisce di vo-

ler continuare l’attività politica: «Ho fatto del mio meglio e adesso passo le consegne a chi proseguirà il lavoro. Non lascerò il partito, continuerò a fornire il mio contributo».

Secondo alcune fonti locali, il futuro premier potrebbe essere Chavarat Charnvirakul, che ha ricoperto l’incarico durante l’assenza del premier Somchai

partito di governo: centinaia di manifestanti hanno accusato i giudici di «voler sabotare la democrazia e di andare contro il volere del popolo», chiaro riferimento alla piena legalità delle ultime elezioni amministrative. Nel frattempo, però, continua l’occupazione dei due principali aeroporti del Paese: una televisione locale riferisce inoltre dello scoppio di una grana-

Pronto un nuovo partito per gli esuli della compagine “squalificata” dalle toghe. Riaperti gli aeroporti internazionali, turisti pronti a rientrare a casa. Incertezza per il futuro

tanti della coalizione di opposizione chiedevano lo scioglimento del governo di Somchai. Dopo aver assediato per mesi i palazzi del governo, i manifestanti nei giorni scorsi avevano occupato anche i principali aeroporti del Paese.

Al centro delle proteste, la figura del nuovo governo considerato troppo vicino a Thaksin, uno degli uomini più ricchi d’Asia accusato di corruzione e attualmente in esilio a Londra. Dopo le prime proteste violente, l’esercito era intervenuto nella questione chiedendo all’esecutivo e all’opposizione un passo indietro «per amore del

in breve Mumbai, gli Usa avvertirono l’India I servizi segreti degli Stati Uniti avrebbero avvisato due volte l’India circa un possibile attacco terroristico a Mumbai che sarebbe arrivato dal mare, l’ultima volta circa un mese fa. Lo rivela l’agenzia di stampa indiana PTI, riportando notizie di stampa americana che citerebbero fonti dell’antiterrorismo americano. Un ufficiale americano avrebbe dichiarato, dietro anonimato, alla CNN che il governo a stelle e strisce avrebbe informato due volte quello indiano dell’attacco a Mumbai, indicando che un gruppo terrorista sarebbe potuto entrare nel paese via mare e lanciare un attacco a Mumbai, citando come obiettivi anche gli alberghi, tra i quali il Taj Mahal Palace.

Cisgiordania, tensione a Hebron Ieri, a Hebron la tensione è stata altissima, dopo una notte di ripetuti scontri tra coloni, palestinesi e forze dell’ordine. Nella città palestinese sono affluiti centinaia di ultranazionalisti ebrei in seguito a voci su un’imminente azione di polizia e esercito per sgomberare dai coloni occupanti una casa sulla cui proprietà è in atto una controversia con i palestinesi. Almeno cinque palestinesi, tra i quali un ragazzo di 12 anni, sono stati feriti negli scontri, secondo fonti ospedaliere locali. Sui muri di una moschea - e anche in quattro villaggi in Cisgiordania - sono apparse scritte offensive nei confronti di Maometto. in occasione di un recente viaggio in Perù. La sentenza della Corte è stata accolta da grida di gioia dai dimostranti dell’Alleanza popolare per la democrazia, ancora asserragliati all’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi. Sentimenti contrari fra i sostenitori del

ta avvenuto poco dopo la mezzanotte del 2 dicembre. Secondo Pimrat Amornsakolsuvech, responsabile del pronto soccorso del Narainthorn Hospital di Bangkok, l’espolosione nel terminal principale dell’aeroporto di Don Mueang, utilizzato per i voli interni, avrebbe ucciso una persona, ferendone altre 23.

Questo non ha fermato il rientro dei turisti bloccati nella capitale, Bangkok. Il primo charter verso l’Italia, che contiene una parte dei 700 nostri connazionali intrappolati nel Paese a causa delle proteste, è ripartito ieri lasciandosi alle spalle le agitazioni, peggiorate nelle ultime settimane. Queste durano oramai da quattro mesi: era dallo scorso agosto, infatti, che migliaia di mili-

re Bhumipol». Una richiesta totalmente ignorata, nonostante l’amore e il rispetto che il sovrano ispira in tutti.

Il problema è infatti legato alle grandi differenze che esistono fra le aree rurali e quelle metropolitane del Paese: le prime sostengono fermamente il partito dell’ex premier - amato e rispettato per le sue politiche a favore dell’agricoltura - mentre le seconde lo accusano di aver trasformato il Paese in un suo feudo. E in effetti, l’influenza di Thaksin nel campo delle telecomunicazioni e il buon rapporto con l’esercito lo avevano reso inamovibile. Fino all’esilio, ancora una volta ordinato dai giudici di Bangkok. Che forse hanno precipitato il Paese nel caos.

Iraq, bomba a Mosul: 4 morti Un ordigno esploso vicino a una suola elementare ha fatto almeno quattro morti e dodici feriti a Mosul, 390 chilometri a nord di Bagdad. Un carro di legno imbottito di esplosivo è stato piazzato all’interno di un mercato, nei pressi di un istituto scolastico, ed è stato fatto saltare in aria proprio mentre gli alunni uscivano dalle lezioni. Alcuni di loro sono rimasti feriti. Le persone uccise sono però tutte adulte.


mondo

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In primo piano, Ingrid Betancourt, rapita dai ribelli durante la sua campagna elettorale nel 2002 e liberata lo scorso luglio. L’obiettivo del suo viaggio in Sudamerica è quello di accrescere la pressione internazionale sulle Farc affinché liberino le centinaia di ostaggi ancora nelle loro mani. Qui sotto, il presidente colombiano Álvaro Uribe Vélez. In basso, i guerriglieri delle Farc

ngrid Betancourt in giro per l’America Latina: come “ministro degli Esteri degli ostaggi ancora in mano alle Farc”, e anche per dare una mano a un Álvaro Uribe Vélez in necessità di riposizionarsi.

I

Mentre lei sorrideva, nel volto di lui si leggevano chiari segnali di preoccupazione, nelle foto sul loro incontro a Bogotá di sabato scorso. E non a caso.Tutti e due dopo il momento di gloria dell’“Operazione Scacco”, hanno affrontato momenti difficili. Ma lei di responsabilità ne ha di meno. E tutto sommato, dopo la figuraccia dell’ultimo Nobel per la Pace, quando aveva già convocato una conferenza stampa nella convinzione erronea di averlo vinto lei, ha anche meno da perdere. E tutto da guadagnare: a partire da un’opinione pubblica colombiana che dopo aver molto apprezzato lo stile mostrato al momento della liberazione, è tornata però su certe vecchie antipatie, nel momento in cui ha scelto di starsene in Francia piuttosto che nel suo Paese natale. Al contrario, dopo il culmine nei successi contro le Farc rappresentato proprio dall’Operazione Scacco, Uribe è passato da un rovescio all’altro. Prima dall’inizio di settembre c’è stato il grande sciopero dei magistrati: solo per rivendicazioni salariali, ma che lo ha costretto a dichiarare lo stato di eccezione. Poi è iniziata l’agitazione degli indios Páez, che han-

Colombia. La Betancourt torna in Sudamerica. Due gli obiettivi: trattare con le Farc e sostenere Uribe

Un’altra prova per Ingrid di Maurizio Stefanini

no bloccato la Panamericana per chiedere la “restituzione” di alcune terre da lungo tempo promesse: dopo scontri con la polizia che hanno provocato morti e feriti Uribe ha ordinato un censimento, ha disposto stanziamenti ed ha anche accettato di riunirsi con i manifestanti, che però lo hanno preso a male parole. Dopo ancora c’è stato il colossale scandalo dei 23 militari destituiti perché si è scoperto che gonfiano le statistiche dei guerriglieri eliminati uccidendo innocenti e facendoli passare per “sovversivi”: tra

loro, pure tre generali. Nel frattempo è arrivato pure l’allarme sul nuovo cartello di Daniel Rendón Herrera “Don Mario”: il 43enne che ha creato un esercito di 1000 uomini approfittando proprio delle crescenti difficoltà delle Farc per sottrarre loro il mercato della droga, arruolando anche i loro sbandati. Da ultimo il collasso della piramide finanziaria Dmg, che ha provocato gravi sommosse per strada. E non manca l’incognita più generale su Barack Obama: di cui si sa che è scettico rispetto al Trattato di Libero Commercio tra stati Uniti e Colombia voluto da George W. Bush, e che potrebbe rivelarsi anche un po’ meno “comprensivo” rispetto a certe “disinvoluture” della lotta anti-terrorismo e anti-narcos a proposito di diritti umani. Per non parlare della crisi, che colpisce la Colombia come il resto del mondo. Malgrado la sua popolarità resti alta, il presidente sembra dunque aver rinunciato all’ipotesi di una riforma costituzionale per tentare la terza rielezione. Non sta mancando però di manovrare con energia, per ri-

Il presidente ha bisogno di lei per convincere i guerriglieri a liberare gli ostaggi, e per recuperare popolarità dopo la tempesta politica dell’ultimo periodo

solvere i problemi. Abbiamo già detto dello stato di eccezione, degli interventi a favore degli indios e della purga tra i militari. Ma adesso sta parlando anche di creare zone economiche speciali nelle zone vittime delle truffe finanziarie, per dare la possibilità ai cittadini danneggiati di rifarsi delle perdite. E c’è stato anche un importante vertice col presidente messicano Calderón: anche lui alleato già privilegiato di George W. Bush, e anche lui sotto offensiva dal narcotraffico. La Betancourt, che è venuta da lui con un messaggio di Sarkozy, si è presentata dunque quasi a fagiolo. I due restano ampliamente complementari: Uribe molto più popolare in patria che all’estero: lei viceversa. E proprio per recuperare immagine in Colombia e aiutare il presidente a riposizionarsi nel continen-

te lei ha dunque annunciato il tour che è iniziato domenica in Ecuador, per incontrarsi con Rafael Correa. Seguiranno poi nell’ordine Lima, per vedersi con Alan García; Santiago del Cile, con Michelle Bachelet; Buenos Aires, con Cristina Kirchner; San Paolo, dove per il 5 è stato già fissato l’appuntamento con Lula; la Paz, con Evo Morales; per concludere a Caracas, dove si vedrà con Hugo Chávez.

Tutti quanti questi presidenti sono stati già da Ingrid diplomaticamente lodati per quanto hanno fatto in suo favore, durante la prigionia. Adesso l’obiettivo ufficiale è quello di ricordare che ci sono ancora ostaggi in mano alle Farc, e che sono trattati in modo orribile. È probabile che però porti anche una qualche proposta di Uribe, in modo da arrivare a un’azione forte sulle Farc per obbligarle infine a una resa definitiva. Non si vedrà con la Betancourt, ma un segnale in tal senso potrebbe averlo dato Fidel Castro con l’ultimo libro che ha appena scritto: in cui rende omaggio al defunto leader delle Farc Tirofijo, ma ricorda di avergli sempre detto di smetterla con i sequestri.


cultura

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Epica. Scavi, ricerche, mostre e nuove pubblicazioni riaprono il dibattito sul “padre” dell’Iliade e dell’Odissea

Le biografie di Omero Le mille e una ipotesi sui natali del grande poeta dell’antichità di Rossella Fabiani e ricerche sulla sua mitica figura dall’incerta identità, la fortuna dei componimenti epici a lui attribuiti, le recentissime – e molto dibattute – ipotesi sulla sua vera patria, una mostra allestita in suo nome. A distanza di oltre 3500 anni, Omero, il più grande poeta dell’antichità continua a far parlare di sé. Anche a dispetto di chi vorrebbe bandirlo dai programmi scolastici.

L

Della sua vita non si conosce nulla di preciso: nemmeno la città natale o le date di nascita e di morte, neanche approsimative. Sette località si vantavano di avergli dato i natali: Colofone, Salamina, Rodi, Argo, Atene, Chio e Smirne. L’ipotesi della nascita a Chio è basata sull’Inno ad Apollo ed è sostenuta dalla presenza nell’isola degli Omeridi, i cantori professionisti dell’epos omerico. E’ forse nell’ambito di questa cerchia di poeti che si formarono le antiche Vite di Omero, che però sono del tutto leggendarie. Incerta fin dall’antichità è anche l’e-

poca in cui Omero visse: alcuni lo ritengono contemporaneo della guerra di Troia (XII secolo a.C.), altri di poco posteriore; Erodoto, che per primo dubitò della paternità omerica dei poemi del Ciclo, datò la vita di Omero intorno alla metà del IX secolo a.C. Alcuni studiosi moderni ne hanno messo in dubbio persino l’esistenza; tutti comunque hanno fatto una distinzione tra l’età degli eventi cantati (epoca della civiltà micenea) e l’età della composizione dei poemi, certamente assai più tarda. Una serie consistente di indizi autorizzavano la datazione dell’Iliade all’ultimo quarto dell’VIII secolo a. C. Altro problema di difficile soluzione è il

Secondo Raoul Schrott, non era l’autore cieco tramandatoci dalla tradizione, ma un funzionario greco vissuto in Asia Minore, al servizio degli Assiri con rapporto dell’Iliade l’Odissea, che sembra (e sembrò agli antichi) più recente dell’Iliade. Certo è, comunque, che l’autore o gli autori dei due poemi devono essere vissuti prima dei lirici arcaici del VII secolo a.C. - Tirteo, Archiloco, Alcmane - che ne furono influenzati. La ricerca intorno alla questione omerica non viene portata avanti soltanto dai filologi, ma anche e forse in misura maggiore da orientalisti e da studiosi di storia antica, men-

tre gli scavi in Grecia e in Turchia, hanno raccolto una quantità sempre nuova di conoscenze. Così gli scavi tedeschi a Troia, diretti da Manfred Korfmann hanno fornito, soprattutto negli ultimissimi anni, importanti risultati riguardo alla grandezza e alla configurazione del sito su cui si suppone sia sorta la Troia di Omero. Fu Heinrich Schliemann nel 1873 ad identificare Hissarlik, una collinetta altra quasi 15 metri e situata all’entrata dell’Elle-

sponto nell’odierna Turchia nord-occidentale, il sito della leggendaria città di Troia. Gli scavi succedutisi fino a oggi hanno portato alla luce più di dieci strati insediativi databili a un periodo compreso tra il III millennio a.C. e l’età romana. Nel 1994, le indagini condotte da Korfmann hanno rivelato i resti di una vasta città bassa, ancora in corso di scavo. Fra l’altro queste indagini hanno portato alla luce anche strati che mostrano evidenti segni di distruzione a seguito di un tremendo evento bellico, testimoniando così la sorte della città, caduta nel 1200 a.C. Sono scoperte che non potevano non conferire una rinnovata attua-

Il cavallo più famoso della storia «Timeo Danaos ac dona ferentes» («Temo i Danai, anche se portano doni») aveva avvertito il troiano Laocoonte, indovino e sacerdote di Apollo, riferendosi al cavallo di legno che i Danai (vale a dire i Greci) avevano lasciato sotto le mura della città – in apparenza per propiziarsi gli dei sulla strada del ritorno – e che, in seguito, i Troiani avrebbero portato al suo interno. Come è universalmente noto, Laocoonte aveva indovinato bene. I Greci costruirono il cavallo, su un’idea di

Ulisse, dopo che la lotta intorno alle mura di Troia infuriava già da dieci anni. Una volta portato all’interno della mura, un manipolo di guerrieri uscì dalla pancia del cavallo – al cui interno si erano nascosti – e aprirono le porte della città all’esercito greco. Troia è saccheggiata e la guerra è vinta. Come dobbiamo immaginarci l’aspetto dell’ingannevole cavallo? Frose come lo descrive Barry Strauss nel suo La guerra di Troia: una struttura alta e di ottima fattura, realizzata con legno di pino del sacro Mon-

te Ida di Creta, un albero tra l’altro rinomato fin dall’antichità come materiale per costruire le navi. Gli occhi erano realizzati con ossidiana e ambra, i denti d’avorio. La criniera fatta di veri peli di cavallo e gli zoccoli splendenti come marmo levigato. Celebre è una gemma in calcedonio con la raffigurazione del cavallo di Troia alle porte della città. Il reperto, di provenienza sconosciuta, risalirebbe al III secolo a. C. Il cavallo rappresentava un motivo molto popolare nella glittica d’epoca ellenistica e roma-


cultura

A distanza di 3500 anni, il grande poeta dell’antichità Omero continua a far parlare di sé. Nuovi scavi, nuove biografie e ricerche riaprono il dibattito circa i suoi natali e la sua vita. Molta eco ha suscitato la teoria di Raoul Schrott, secondo cui Omero non era il poeta cieco tramandatoci dalla tradizione, ma un funzionario greco vissuto in Asia Minore, al servizio degli Assiri

lità alla questione omerica. E il rinfocolato interesse per Troia è provato anche dalle ristampe delle traduzioni classiche dei due poemi.

Come accade in Germania, dove un programma radiofonico dedicato alla lettura dell’Iliade - modernizzata da Raoul Schrott - ha suscitato una grande eco fra il pubblico e gli specialisti per 14 puntate. La nuova traduzione dell’Iliade per mano del poeta e scrittore Raoul Schrott, insieme a un volume che riassume i risultati scaturiti dalle ricerche che il traduttore ha compiuto, sono gli antefatti che hanno preceduto la scrittura di La patria di na. Una statuetta in bronzo di un cavallo, proveniente dall’Attica e risalente al VIII secolo a. C. è conservato aldi l’Antikensammung Bonn. L’entrata del cavallo ligneo nella città di Troia è rappresentata anche in un dipinto dalla cerchia di Paul Brill (15541626). Il celebre cavallo è stato recentemente ricostruito in una scena del film Troy diretto da W. Petersen con Brad Pitt nelle vesti di un forsennato Achille. (r.f.)

Omero, appena pubblicato. E così Schrott ha riportato la questione omerica sulle prime pagine dei giornali tedeschi, costringendo quell’esercito nascosto di studiosi a esprimersi sulle sue tesi. Molte le critiche, ma anche qualche riconoscimento. Come quello di Walter Burkert, grecista di fama mondiale che di Schrott ha detto: «Non penso che il suo libro rappresenti un puro nonsenso». Dopo lunghe ricerche, Schrott è giunto alla conclusione che Omero non era affatto il poeta cieco tramandatoci dalla tradizione, bensì un funzionario greco, vissuto in Asia Minore, al servizio degli Assiri. Dobbiamo immaginarcelo, scrive Schrott, «come un ama-

nuense, un rappresentante di una categoria professionale elitaria, che prestava servizio nell’amministrazione che gli Assiri avevano instaurato in Cilicia, una regione che era stata conquistata già nella metà del IX secolo a.C. Un Greco affascinato dal predominio di una cultura estranea alla sua e che, grazie al mestiere appreso nelle scuole che gli Assiri avevano creato in Cilicia, conosceva assai bene il grande poe-

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ma epico mesopotamico, quello di Gilgamesh». Il contenuto dell’Iliade dimostra che il suo autore doveva conoscere gli archivi cuneiformi «da cui – secondo Schrott – avrebbe tratto la documentazione delle cronache di guerra tra l’impero assiro e i potentati locali che, poi, ispirarono il suo poema». I paralleli tra l’Iliade e l’epos di Gilgamesh erano noti da tempo, ma nessuno vi aveva tratto delle conclusioni. Tranne Schrott, che, addirittura riscrive la topografia della guerra di Troia, trasferendola dalla costa occidentale a quella sudorientale dell’Asia Minore, nell’antica Cilicia. Qui, i resti di una città situati sulla collina di Karatepe si prestano perfettamente come scenario per le vicende narrate da Omero. Assai più di quelle della Troia scoperta da Schliemann. Affermazioni pesanti che hanno montato l’onda dell’opposizione, in forme sempre più aspre, guidata dal grecista e curatore del commentario scientifico dell’Iliade, Joachim Latacz.

Intanto la mostra Omero e il mito di Troia nella poesia e nell’arte già allestita a Basilea nell’Antikenmuseum und Sammlung Ludwig, visitata da 50mila persone, si può adesso ammirare, ulterirmente arricchita, nelle sale dei Musei ReissEngelhorn a Mannheim, fino al 18 gennaio 2009. I duecentotrenta oggetti esposti provengono da oltre 70 istituzioni, musei, biblioteche e collezioni private da tutta Europa. Molti sono stati prestati da istituzioni italiane: non meno di 12 musei e le Collezioni Vaticane hanno contribuito con splendidi oggetti. L’idea della mostra si deve a Thierry Gresub, la preparazione è stata affidata all’esperienza di Peter Blome, il direttore dell’Antikenmuseum und Sammlung Ludwig e dei suoi collaboratori. Il catalogo è stato concepito dal citato Joachim Latazc, curatore scientifico del libro. Tra i tanti reperti in mostra spiccano alcuni capolavori, come il volto dell’aedo in marmo, copia romana di un originale greco del V secolo a.C. e lo splendido medaglione in oro e argento raffigurante l’episodio del combattimento tra l’eroe Achille e Pentesilea, regina delle Amazzoni. Rinvenuto in Sicilia, il reperto è datato al 230-220 a.C. La scena dell’acceccamento di Polifemo da parte di Ulisse e dei suoi compagni è illustrata da una copia in scala 1 a 1 del grande gruppo marmoreo rinvenuto nella Grotta di Tiberio a Sperlonga nel 1957 e da una testa di

Polifemo, anch’essa in marmo, di età imperiale (seconda metà del II secolo d.C.). La scena dell’accecamento appare anche sul grande cratere di Aristonoto, 680-670 a.C.

Già nel 500 a.C. il filosofo greco Senofane scriveva che «sin dal principio tutti hanno imparato da Omero». E tuttavia Omero non è più nei programmi scolastici. Tralasciando per un attimo gli studenti che frequentano il triennio del liceo classico, nel resto del sistema educativo italiano lo studio di Omero e dei suoi capolavori non è mai prescritto espressamente. Alle medie si trova l’apprendimento di «elementi caratterizzanti il testo poetico (lirica, epica, canzone d’autore)» o, ancora più vagamente, di «esperienze autorevoli di lettura come fonte di piacere e di arricchimento personale». Sperando che l’insegnante di turno dia il giusto peso all’autorevolezza «degli elementi caratterizzanti» di Omero, ma la realtà ci mostra che oltre la metà dei ragazzi che arrivano alle superiori non ha mai letto o non ricorda brani omerici. Al liceo resistono i programmi di una volta e perciò i ragazzi dovrebbero avvicinarsi all’epica cominciando dall’Eneide. A questa incoerenza ovviano il buon senso di molti insegnanti e antologie che sintetizzano lo sviluppo dell’epica dai Sumeri all’ellenismo. Ma si tratta di pochi brani e, per far entrare Omero dalla porta del primo anno, gli insegnanti devono tagliare il povero Virgilio o buttare fuori Manzoni dalla finestra del secondo. Insomma, la classica coperta troppo corta, e comunque per fornire un’idea complessiva e non superficiale di almeno uno dei due poemi omerici si dovrebbe trascurare del tutto l’altro. Tuttavia Omero non andrebbe soltanto letto, ma anche capito. E qui entra in gioco il duplice colpo di maglio che ha colpito lo studio della storia antica. Nel 1996 un decreto del ministro Berlinguer ha ridotto ai minimi termini la storia greco-romana nelle superiori, mentre nel 2004 la riforma Moratti l’ha addirittura eliminata dalle medie e retrocessa alla quarta elementare. Perciò quei pochi studenti che, nonostante il silenzio dei programmi, leggono ancora Omero, non hanno gli strumenti per inquadrarlo culturalmente né storicamente. E quella piccola percentuale che frequenta il liceo classico, spesso senza averne un’idea d’insieme, ne legge in greco, e con l’ausilio di una valanga di note, sì e no duecento versi. Eppure nulla come le vicende di Achille e di Odisseo saprebbero appassionare bambini e ragazzi. E invece alle medie si propone loro di «operare transcodifiche (da un genere letterario all’altro) e contaminazioni (di più testi e più stili)». Neanche fossero tanti piccoli Terenzio o James Joyce.


in edicola il secondo numero del 2008

I QUADERNI DI LIBERAL Alla fine dell’anno nero del mercato e delle borse, la risposta agli interrogativi più urgenti della nostra epoca • Dio ci salvi dal New Deal • L’enigma delle banche • Paradosso! Più Stato e più mercato • Pinocchio a Wall Street • La crisi non è di sistema • La vera chance dell’Europa • Il capitalismo di massa • Meno figli meno sviluppo • Cronaca di un disastro annunciato

Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Pierre Chiartano, Giancarlo Galli, Jacques Garello, Ettore Gotti Tedeschi, Carlo Pelanda, Michele Salvati, Carlo Secchi


cultura

3 dicembre 2008 • pagina 21

Libri. In “Passaggio della Colomba” di Ruggero Savinio le inconfondibili tracce del genitore Alberto

Se i sogni dei padri ricadono sui figli di Matteo Marchesini a raccolta di prose di Ruggero Savinio Passaggio della Colomba appena pubblicata da Scheiwiller (pp. 247, euro 16) è fasciata da due lunghe memorie: la prima, eponima, per così dire di figura; l’ultima di paesaggio. Tra i due pezzi maggiori, le altre brevi prose sottolineano di volta in volta uno degli elementi dalla cui miscela scaturisce la sua scrittura divagante: didascalia artistica e dialogo di spettri, ritratto e anamnesi letteraria. Come tacere che già questa tecnica mista ricorda i libri del padre Alberto? Il suo è un racconto riposato, pacatamente gnomico; ma anche pervaso, a fasi alterne, da un libeccio e da un favonio poetici leggeri e costanti, che gli consentono di non fermarsi mai a tirare il fiato. Ha la grazia negligente di un discorso registrato: dove l’increspatura aforistica e un rammemorare piano, proliferante, si inseguono in onde di coordinate labili, di morbidi incisi. Ma quando narra i fatti cruciali d’una vita, Ruggero acquista come suo padre una rapidità da gag. Del resto, lo dice lo stesso Ruggero: «una vita, quando sia ridotta ai suoi contorni essenziali, rischia di essere incenerita dal ridicolo».

L

Ruggero Savinio (a fianco) era il figlio di Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea Francesco Alberto de Chirico). Tra i suoi quadri, in alto: “Ricordo di un mondo scomparso”, “Gomorra”, “Il Fiume” e “Città promessa”. Sotto: “Oggetti nella Foresta” e, a destra, “La Famiglia”

Nel confronto costante con Savinio senior, l’autore rimarca tuttavia la sua distanza dall’ironia del padre, cogliendo gli aspetti equivoci della sua recente fortuna critica: «Questo valore dato al gioco, al divertimento (...) era un aspetto che ti rendeva eccentrico nell’Italia seriosa e moralista dei tuoi anni. Adesso, ogni preclusione verso di te (...) si è dissolta, nel nostro tempo allegramente e giocosamente negativo». Ma se è così, la malinconia più accentuata, il dolore dello sradicamento che lambisce il fraseggio del «principe Ruggero» potrebbe offrire oggi il tono adatto a riaprire, savinianamente, «una strada fuori dalle opposte zone della compromissione con le cose e del rifiuto delle cose». Certo, stabilire somiglianze di famiglia è rischioso: ma qui si verifica davvero quel raro fenomeno di continuità naturale che Alberto scorgeva tra Pirandello e il figlio Stefano. Ce lo dicono perfino le spie più lievi: come il gesto con cui l’autore convoca sulla stessa pagina figure tolte agli universi più distanti; come l’attenzione rivolta ai tic di artisti miti e folli (Piccio, Duranti); come il gusto per gli etimi fantastici, per i nomi ludicamente contraffatti e i calembours. Ecco il bimbo Ruggero davanti a un pino di

piazza Pitagora: «ignorando ancora la figura del filosofo di Crotone, credevo in una corrispondenza fra la parola Pitagora e la parola pino». Anche nei testi di Ruggero, poi, tornano come motivetti le stesse insegne di vita quotidiana: la Roma residenziale del bar La Terrazza, il topos paterno dei pini al Poveromo... Quel Palomar ante litteram che fu il signor Dido usava certi spazi come trampolini per la fantasia, mentre

Le brevi prose sottolineano di volta in volta uno degli elementi dalla cui miscela scaturisce la sua scrittura divagante: ritratto e anamnesi letteraria Ruggero fa dei suoi luoghi anelli in cui passare il filo del ricordo: ma la funzione ritmica è la stessa. E così la maniera di sbozzare i paragrafi, di saltar di palo in frasca come se scrivere equivales-

se a passeggiare in una soffitta dove le cose vengono alla luce con segreto ammicco e aerea gratuità. C’è poi il confronto esplicito sul tema del pudore. «Continuo a pensarti come un padre spirituale, in cui la carne ha poca o nessuna parte», scrive Ruggero, echeggiando il sogno del genitore di risolversi in intelligenza pura. E insiste sul modo in cui questa disciplina dell’indiretto «ha sempre chiuso come in una dura corazza tutti noi di famiglia». Nella prima prosa, la riservatezza che lega i Savinio in una società di autarchici è addirittura lo sfondo sul quale spicca per contra-

sto la sterile zia Elettra, eterna adolescente sola e parassita, nonché tenero emblema di tutto ciò contro cui il cognato si batte: il birignao, l’estetismo, il «dolorismo» dusiano.

Infine, il legame tra questo libro e l’ombra paterna è riassunto nell’ultima prosa, La terra di mezzo, dedicata a quella Milano di cui anche Ruggero ascolta il cuore ragionando su toponomastica e bric-à-brac. Anche nella sua metropoli, ogni luogo domestico fa da misterioso cenotafio a qualche spirito bizzarro. Del resto, cos’altro è Milano se non la città del pudore, che cova bellezze e scorie con inappariscenza calcolata? Dalla sua luce di perla sorge quel romanticismo intimo e pulviscolare che i Savinio mischiano a misure classiciste, e che qui ha per indici il Leonardo «taoista» e Piccio, Cremona e Ranzani. Non a caso quindi La terra di mezzo, luogo di lemuri, si chiude sulla morte di Sereni, come il romano Passaggio della Colomba si era chiuso sul suicidio teatrale e muto di Elettra. Per Alberto, pensare significava pensare alla morte: e in quest’idea Ruggero intinge un’infelicità più cupa, meno riscattabile. I suoi giardini milanesi non sono un eden, sono un limbo. Ma se il tema di un’eredità carnale che rende ancor più grave l’angoscia dell’influenza risulta così decisivo, è anche perché queste prose adombrano un libro segreto sulla fama e sull’anonimato. Oltre all’eredità essoterica di Alberto, l’autore ne cita un’altra che chiama esoterica, ma che è ben nitida nelle note sul concetto di grandezza scritte per la Nuova Enciclopedia, e molto simili a quelle stese negli stessi mesi dalla Weil. «Dalla tua presenza ho imparato la sfiducia verso le certezze troppo assistite dalla forza», dice Ruggero. E perciò rifiuta di «accettare la lotta» edipica condotta su un ring dove si muovono mere silouhettes mondane. Del resto, appartiene a una generazione troppo giovane per la Resistenza e troppo vecchia per il ’68, quindi cresciuta in tempo perfetto per seguire, anziché la monumentale Clio, una trasversale «melodia interna». Davanti alle auguste ombre dei Dioscuri, Zio e Padre, Ruggero capisce così che «questa protratta minorità, nonché sciogliermi dalla prigionia temporale, mi ha liberato da ogni identità, addirittura da ogni idea di opera». E tenta l’abbandono «a una pratica totalmente priva d’intenzioni»: anche per quest’ultimo erede dei grandi dilettanti europei, la suprema civiltà coincide con l’assenza di scopi.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”Washington Post” del 02/12/2008

Pakistan, sovranità a brandelli di Robert Kagan on riteniamo che il mondo, le grandi nazioni e i paesi debbano essere ostaggio di attori non-statali», sono le parole usate dal nuovo presidente pakistano, Asif Ali Zardari, l’altro ieri. Ma cosa dovrebbe fare il mondo - si domanda Robert Kagan – se da dentro i confini di quegli Stati dovessero agire delle organizzazioni non-statali, per giunta creazione dei servizi d’intelligence di quel paese?

«N

Si può provare simpatia per la situazione che vive Zardari. Sicuramente il nuovo governo, controllato dai civili e non più dal regime militare di Pervez Musharraf, non ha nulla a che vedere con i gruppi terroristici che hanno attaccato Mumbai. Non li addestra e non controlla quella miriade di campi che prosperano in Waziristan e nelle regioni tribali autonome del Pakistan occidentale. Aree da cui partono gli attacchi alle forze occidentali di stanza in Afghanistan, comprese quelle organizzate da al-Qaeda e dai gruppi collegati. È un’altra colpa da non attribuire a Zardari. Di questo dobbiamo solo ringraziare, le Forze armate pakistane, l’intelligence pakistana e il regime di Musharraf. Sradicare questa rete, dopo decenni di politiche di sostegno, sarebbe impossibile per chiunque, fermo restando che gli unici a conoscere bene la materia per poterla combattere, sono gli stessi che l’hanno aiutata a crescere. L’amministrazione americana fa bene a premere su Islambad, affinché cooperi con gli investigatori indiani, anche se non sarà in grado di ottenere l’effetto voluto. Oggi gli indiani stanno vivendo gli stessi problemi degli americani nel dopo 11 settembre 2001.

Hanno bisogno di azioni tangibili contro i terroristi e le loro basi all’estero. Rimane alto quindi il rischio che il governo di New Dehli passi alle vie di fatto, vista anche la fragilità interna e la necessità di azione che viene dall’opinione pubblica. C’è dunque il rischio di un conflitto indo-pakistano. Per sconfiggere questo pericolo l’unica soluzione sarebbe quella di internazionalizzare la risposta. Sancire ufficialmente l’ingovernabilità di alcune regioni pakistane e preparare un intervento internazionale - in perfetto coordinamento con le autorità di Islambad per sradicare i campi d’addestramento del terrore. Una soluzione con molti risvolti positivi, anche per i pakistani che riceverebbero un aiuto per ristabilire il controllo dell Stato in quelle regioni. Il problema è se e quanto la comunità mondiale si senta coinvolta in questa vicenda, indipendentemente dagli umori del Pakistan. La sua sovranità verrebbe sicuramente violata, ma con scarse basi giuridiche, visto che, di fatto, non esercita alcuna autorità in quelle zone. Così come va tutelata la sovranità all’interno dei propri confini, andrebbe tutelata la sicurezza degli Stati vicini, come nel caso degli attacchi di Mumbai.

La continua e provata complicità tra branche dell’Esercito e dei Servizi non permettono la difesa di un concetto di sovranità, ridotto ormai a «brandelli» nel caso del Pakistan. La politica dell’amministrazione Bush, con cui si è tentato per anni di collaborare con le autorità civili e quelle

militari, fornendo armi e sistemi per sconfiggere il terrorismo, ha fallito. Islamabad ha sempre giocato su più tavoli, gestendo l’Afghanistan attraverso la guerriglia talebana e il confronto sul Kashmire con New Dehli, sempre sostenendo il terrorismo. Forse oggi servirebbe un incentivo in più che potrebbe essere costituito dal rischio d’internazionalizzare il problema e dalla perdita di sovranità su parte del proprio territorio.

Subito ci possiamo chiedere se il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrebbe autorizzare una tale operazione. La Cina è un tradizionale alleato e protettore del Pakistan, così anche Mosca potrebbe avere da ridire per una risoluzione di questo tipo. Sarebbe un precedente che aprirebbe la strada alla soluzione di altre vicende, come in Sudan, Georgia e Iran. Ma sarebbe anche al cartina di tornasole per verificare le vere intenzioni di Pechino e Mosca sulla loro effettiva volontà di combattere il terrorismo. Insomma nel XXI secolo i diritti di sovranità non dovrebbero più esser dati per scontati, ma un diritto da guadagnare sul campo.

L’IMMAGINE

Bloom ha previsto 10 anni prima lo scontro tra Occidente e ideologie multiculturali La notizia della ripubblicazione anche in Italia dello storico libro di Harold Bloom Il Canone Occidentale va ben al di là della banale pubblicazione di un testo di critica letteraria. Come non notare infatti che il professore dellaYale University criticando con sarcasmo il multiculturalismo, in pratica avanzava l’idea del primato intellettuale e morale della civiltà occidentale o, come si sarebbe detto un tempo, eurocentrica? A conti fatti quel libro, uscito in America nel 1994, anticipava la contrapposizione tra l’Occidente e gli altri Mondi ma, soprattutto, anticipava la critica occidentale dei suoi stessi figli. Perché, il punto è proprio questo, il relativismo e il multiculturalismo sono dei frutti ideologici proprio dell’Occidente con cui la nostra cultura si deve confrontare e li deve neutralizzare ed espellere, come un corpo sano espelle le tossine nocive. Spero che liberal possa dedicare l’attenzione che merita al libro e al tema di Harold Bloom.

Cesare Forte

NATALE A NATALE! Sono lontani i tempi in cui si cominciava solo l’8 dicembre ad abbellire strade, vetrine e scaffali dei negozi con addobbi e prodotti natalizi. In questi ultimi anni, segnati dalla globalizzazione e da un aumento esponenziale del consumismo, la data viene sempre più anticipata e le strade e le vetrine si vestono al Natale subito dopo aver dismesso le decorazioni di Halloween (altro “regalo” della globalizzazione). Mi chiedo allora come mai in questo periodo di crisi economica (che evidentemente è direttamente proporzionale all’aumento del consumismo), invece di invitare i consumatori a spendere meglio e di meno, si continuano a mandare loro messaggi ingannevoli, inducendoli ad avere sempre più bisogno, e con sempre maggio-

re anticipo, di beni superflui. L’unica vera cosa da anticipare rispetto al Natale forse è solo l’acquisto dei regali, visti i rincari che i prodotti subiscono nel periodo natalizio, ma anche questa è un’abitudine sana che il consumatore medio si esime dall’adottare...

Marta Pelini

IGIENE NEI LOCALI PUBBLICI A Torino “due pesi e due misure” per i controlli Asl nei ristoranti e nei negozi alimentari. Chiunque può vedere con i propri occhi la mancanza del rispetto delle norme igieniche di negozi (drogherie, alimentari, kebab) alla Falchera, a Porta Palazzo. Eppure i controlli cadono ripetutamente e con una certa “pignoleria” sugli stessi locali che solo a guardarli, ci si specchia e si percepisce la

Su col morale! Sembra un po’ imbronciata quest’antilope saiga (Saiga tatarica). In realtà col “muso lungo” ci è nata: il nasone le serve per sopravvivere nelle steppe della Mongolia, dove vive. D’inverno le lunghe narici riscaldano l’aria gelida prima che entri nei polmoni. In primavera e autunno, invece, il buffo naso funge da filtro, separando l’aria respirabile dalla polvere che si solleva da terra durante il cammino buona volontà del titolare di comprendere “l’evoluzione” delle normative (tipo Haccp) per essere quanto più possibile in regola. E se si fa la domanda diretta ai funzionari, questi rispondono con un sottile tono minaccioso di non preoccuparsi degli altri.

Laura Rosselli

CIÒ CHE CONTA Oggi mia figlia (quasi 7 anni), mentre era in braccio a me e vicino alla mia compagna e alla nonna, si è stretta forte e ha detto a voce alta: «il babbo è mio!». Per un papà normale non ci sarebbe niente di strano. Per me è una vittoria perché due anni fa chiama-

va babbo un altro. Questo mi dà gioia, ma anche grande stima del lavoro fatto: è come se l’avessi avuta due volte, la prima quando è nata, la seconda quando me la sono conquistata. Una soddisfazione che vale tutto quello che ho passato.

Un padre separato


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Un angelico profumo di serietà e d’amore Leggo la vostra lettera, amica, e sono tutto preso dal suo incanto, dal suo fascino forte e profondo. La dolce tenerezza dei vostri rifiuti spezzerebbe i più impetuosi desideri; ma d’altra parte li accresce. Un angelico profumo di serietà e d’amore pervade tutta questa lettera e ne sono inebriato. Che cosa potrò mai darti? Me stesso? troppo poco. Eppoi nulla potrei darti perché tutto ormai ti appartengo. Il mondo? Ma è ancora troppo poco. Il mondo per un’anima, e per una tale anima affascinante? Il dono non si equarrebbe. Conosco solo un tesoro degno di te, e che vorrei offrirti, ma ahimè è inaccessibile. Tuttavia è il solo dono di nozze che il tuo cuore meriti, il solo che vorrei mettere ai tuoi piedi. Di questo tesoro vado in cerca nella speranza che tu mi amerai e che nel giorno in cui sarai mia mi dirai offrendomi il tuo cuore: «Grazie per ciò che hai voluto». Questa cosa, la sola veramente degna di te, sarebbe che per opera mia il mondo amasse ancora, che si divincolasse un poco dagli odi ciechi, violenti nei quali si dibatte, che sparissero le ostilità tra popolo e popolo, tra classe e classe! Non posso ancora sperarlo, ma vorrei che in parte almeno diminuissero, che avvenisse un ravvicinamento d’anime e che in tutta la terra si diffondesse - per dirla con i nostri antenati - «la grande amicizia». Jules Michelet ad Athénais Mialaret

ACCADDE OGGI

LA SCUOLA ASPETTA E TREMA La scuola apprende e trema. La notizia giunge dal Collegio arcivescovile Bentivoglio di Tradate, nel varesotto ed avrà conseguenze sulla scuola tutta. Protagonisti un manipolo di insegnanti, i soliti. Hanno bocciato, per la terza volta, all’esame di maturità Bossi junior. Lo hanno respinto nonostante il Tar avesse intimato loro la ripetizione della prova già fallita a luglio. Lo hanno bocciato nonostante la ministra Gelmini avesse inviato un ispettore a garanzia del candidato unico. Ora, la scuola aspetta e trema. Si teme la furia del ministro-padre e del suo plotone celtico. Eppure la ministra era stata chiara: «Bisogna favorire l’eccellenza», aveva detto. E allora? Allora non aveva fatto i conti con i prof comunisti. Sempre gli stessi. È ora che il premier provveda. Epuri, epuri pure.Via le “cattedre rosse”. Basta con questi facinorosi. I tempi per un editto di Tradate sono maturi. Lo proclami. In fondo Tradate non è Parigi ed il Collegio arcivescovile di Bentivoglio non è mica la Sorbona.

Elisa Di Guida

SENATUR, APPROFITTI DI NOI «Siamo meridionali, abbiamo stati tutti abituati male, fate fate pure, fate come vi pare, stiamo qua noi, approfittate di noi. Che fate, non ne approfittate?», così cantava un ironico cantautore meridionale degli anni Ottanta. Utilizzo questa citazione canora per fornire un consiglio al senatur Umberto Bossi. Lo faccio da professo-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

3 dicembre 1944 Seconda guerra mondiale: nella Grecia appena liberata scoppia la guerra civile tra comunisti e monarchici 1947 Un tram che si chiama Desiderio, opera di Tennessee Williams, debutta a Broadway 1953 Viene firmato il Trattato di mutua difesa tra Stati Uniti e Taiwan 1958 Cacciata del dittatore Batista da Cuba 1967 Il treno di lusso 20th Century Limited completa la sua ultima corsa da New York a Chicago (il servizio venne inaugurato il 15 giugno 1902) 1976 Fidel Castro viene nominato presidente del Consiglio di Cuba 1979 A Cincinnati (Ohio), la calca al Riverfront Coliseum, durante un concerto degli Who provoca undici morti 1984 Disastro di Bhopal: una perdita di metilisocianato da una fabbrica di pesticidi della Union Carbide uccide più di 3.800 persone. Si tratta di uno dei peggiori disastri industriali della storia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

re terrone e, diciamolo, molto “fannullone” in un liceo scientifico napoletano. Si faccia furbo, non si ostini a far ripetere a suo figlio Renzo l’esame di licenza scientifica nella sua Padania. Se persevera, lo bocceranno per la quarta volta. Faccia come la ministra Gelmini. Porti suo figlio al sud. “Approfitti di noi”. Può bastare anche Napoli. Non è mica necessario arrivare fino a Reggio Calabria…

Gianfranco Pignatelli

BOSSI JR. DA UN BANCO ALL’ALTRO Chissà se dell’accanimento scolastico di Umberto Bossi verso il figlio Renzo, bocciato per la terza volta agli esami di licenza liceale, s’interesserà telefono azzurro. Probabilmente no. No, perché l’età del giovane padano, bocciatura dopo bocciatura, è avanzata ben oltre la soglia di protezione. Forse no per l’immunità di cui gode il padre. Sicuramente non se ne interesserà neanche telefono rosa, che non ha competenza sugli adepti del celodurismo. E, allora? Allora occorrerà fare altro. Immergere le sue meningi nelle vasche di Lourdes o lasciarlo in ammollo nelle acque del dio Po. Se non riuscirà ad ottenere il diploma neanche così, allora non gli rimarrà che l’abbandono definitivo dei banchi scolastici per uno a Montecitorio. Lì potrà sedere senza alcun esame preliminare e nessuna verifica in itinere. Se poi, ad una qualsivoglia interrogazione non saprà rispondere se sì o no, potrà sempre confidare sul “pianista” dello scranno accanto.

dai circoli liberal

SORU SI DIMETTE PER ESSERE ELETTO In certe occasioni la faccia è importante. La sua, il governatore della Sardegna la metterà in gioco nei prossimi giorni. Renato Soru, infatti, ha rassegnato le dimissioni al termine di una giornata che avrebbe potuto distinguersi come quella in cui veniva approvata la legge urbanistica, il simbolo di una legislatura votata all’ambientalismo più acceso. E invece Soru, sfiduciato da una maggioranza sfiancata da una gestione personalistica ed autoritaria, si ritrova ad avere meno di trenta giorni per confermare o ritirare le dimissioni. Mentre in Sardegna aumentano i disoccupati, la crisi socio-economica sembra inarrestabile, tutti i territori soffrono la diminuzione delle aziende e delle opportunità di sviluppo, si consuma l’ennesimo scontro interno alla coalizione di centrosinistra sulla ricandidatura di Soru. In molti nel Pd scommettono che sia proprio questo il progetto del governatore: dare le dimissioni per andare velocemente ad elezioni saltando le primarie e imponendosi come candidato unico del centrosinistra. Una mossa tattica che però rischia di ottenere l’effetto contrario nell’esasperazione dei rapporti, anche personali, in un partito davvero logorato dalle recenti vicissitudini politiche e giudiziarie. Un Pd che Soru avrebbe voluto governare da padre-padrone, e per questo infatti si candidava nel 2007 alle primarie per la segreteria regionale del partito. Il senatore Antonello Cabras vince le primarie. Le vicende però evolvono e, nel luglio del 2008, Soru riesce a ribaltare il risultato delle primarie ed elegge (nomina?) Francesca Barracciu, giovane sindaco di Sorgono e consigliere regionale per volontà soriana tramite listino degli adepti, alla segreteria regionale del Pd. Senza dimenticare che la cambiale più pesante Soru l’aveva scontata al Pd di Veltroni acquisendo, a suon di milioni di euro, testata e debiti dell’Unità. Ma vi è anche un’altra chiave di lettura: con questa forzatura Soru è voluto arrivare prima del tempo al redde rationem con i nemici della coalizione; Veltroni si troverà a mediare e, una volta fatti fuori dalemiani e socialisti, il governatore ritirerà le dimissioni, completerà l’urbanistica, presenterà la finanziaria, distribuirà oltre 7 miliardi di euro di pani e di pesci, e nell’inevitabile attesa del calo di consenso del governo nazionale indirà le elezioni all’ultima data utile (metà giugno) con l’ottima prospettiva di restare in sella per altri 5 anni. È avvantaggiato da un centrodestra ancora privo di candidato e con una coalizione da costituire. Diavolo di un Soru, ancorché ferito e svillaneggiato, è sempre lui l’uomo da battere. Antonio Cossu COORDINATORE CIRCOLI LIBERAL REGIONE SARDEGNA

APPUNTAMENTI LA RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL DI VENERDÌ 12 DICEMBRE SLITTA A VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11

Lettera firmata

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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