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ISSN 1827-8817 81210

Una parola muore

di e h c a n cro

appena detta: dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere

9 771827 881004

Emily Dickinson

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

La rabbia giovanile infiamma Atene

I giovani che mettono a ferro e fuoco la Grecia e che ieri hanno aggredito la polizia sono mossi da rabbia profonda. Che nasce dalla disoccupazione e dalla paura per il futuro.

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

ALLARME FAME 10 dicembre 1948: nasceva la Carta dei diritti dell’uomo. Oggi, sessant’anni dopo, un rapporto della Fao denuncia: sono quasi un miliardo le persone che soffrono la fame. 40 milioni in più rispetto all’anno scorso…

Fini “avvisa” la maggioranza sulla giustizia di Errico Novi

ROMA. Gianfranco Fini conferma che la sua non sarà una presidenza comoda. Né per la maggioranza né per l’opposizione. Interviene nel dibattito sulla riforma della giustizia, che assomiglia sempre più a una lentissima partita di scacchi, e chiede che si lavori «a un obiettivo condiviso, già auspicato da tutte le forze politiche: l’efficienza del sistema». Nessuna lusinga ai giudici, ma toni il più possibile ragionevoli: «È doveroso, ferma restando l’indipendenza e l’autonomia, riflettere anche sull’assetto della magistratura, se davvero si vuole che essa sia all’altezza delle proprie funzioni costituzionali». Con premesse del genere gli alibi cadono, per il Pdl come per i democratici. Si spezza il gioco delle diplomazie infinite, dei sottintesi e delle reciproche diffidenze. O almeno dovrebbe. s eg ue a p a gi na 4 S E RV I Z I A P AG I NA 4 / 5

di Matteo Milesi a pagina 17

Meglio la sussidiarietà del welfare

Come costruire la società dei giusti di Michael Novak a giustizia sociale non è ciò che si crede. Nel mondo cattolico, la maggior parte della gente utilizza questa espressione in uno tra due significati distinti. Consideriamo innanzitutto la prima accezione e successivamente considereremo la seconda. 1. I problemi relativi all’uso dell’espressione “Giustizia sociale”. Molto spesso l’espressione “giustizia sociale” è utilizzata come una sorta di griglia di misurazione, la silhouette ideale delle caratteristiche desiderate di una “società giusta”del prossimo futuro. Le accezioni caratterizzanti l’utilizzo dell’espressione “giustizia sociale” sottolineano il concetto di eguaglianza, in particolare in termini di reddito e ricchezza. Oltre alla griglia di misurazione ideale ed alla visione ideale di eguaglianza, i fautori della giustizia sociale utilizzano altresì costruzioni astratte quali “reddito di sopravvivenza” e “reddito familiare”; astratte proprie in quanto volte ad essere applicate in diversi periodi storici ed in diversi paesi. Poi, come per incanto, e senza prestare attenzione alle estreme difficoltà insite nel definire o immaginare questo concetto in termini concreti, ripetono spesso il loro criterio primario, vale a dire “il bene comune”. Utilizzano anche questa espressione, quasi senza alcun tipo di specificazione, quasi come se chiunque sapesse esattamente che cosa sia il bene comune, così a prima vista. Inoltre, sembrano lasciar intendere che lo “Stato”o “chi ci governa”sappia esattamente cosa sia il bene comune. Oppure che possano semplicemente dichiarare che le loro decisioni sono il bene comune, così come per decreto. Infine, coloro che definiscono il bene comune nella prima accezione sembrano avere più fiducia nelle decisioni ufficiali e di governo in tema di significato di bene comune, che non nella definizione dello stesso concetto con l’algoritmo di milioni di decisioni personali, che mirano a ben servire gli interessi reciproci ed a tendere in armonia verso il conseguimento dell’obiettivo di una reciproca soddisfazione.

Il presidente della Camera: «La riforma deve essere condivisa con l’opposizione»

L

Illinois: scandalo per il seggio di Obama Il governatore dell’Illinois è stato arrestato: voleva “vendere” il seggio senatoriale lasciato libero da Obama.

di Francesco Rositano a pagina 16

Il ministro e il suo vice indagato

Sono I 963 milioni! alle pagine 2 e 3

CON I QUADERNI)

di Francesco Capozza

n Campania, se il Pd piange perché alle prese con una delle situazioni politiche più gravi degli ultimi anni, di certo il Pdl non ride. Nel partito che esprime la maggioranza sia in consiglio comunale a Napoli sia in Regione tiene banco la“questione morale” che vede coinvolti sia il sindaco del capoluogo, Rosetta Russo Iervolino (che però, è bene ricordare, non è né indagata né in procinto d’esserlo), sia o’governatore della seconda, Antonio Bassolino. Nell’opposizione locale, quella composta ancora dalle forze della “Casa delle Libertà”, non c’è una vera e propria questione morale, ma si respira aria di resa dei conti. In particolar modo in Forza Italia. Sembra, infatti, che le ore per il coordinatore regionale degli azzurri campani (e sottosegretario all’Economia) Nicola Cosentino siano contate. s e gu e a pa gi n a 1 1

s eg u e a pa gi n a 1 2

MERCOLEDÌ 10 DICEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

Così Tremonti vuole liberarsi di Cosentino

• ANNO XIII •

NUMERO

237 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Emergenza. Presentato il Rapporto 2008 sull’insicurezza alimentare nel mondo: i dati sono ogni anno più allarmanti

Una fame infinita

Quasi un miliardo di affamati nel pianeta: 40 milioni in più del 2007 Il direttore della Fao punta il dito contro la crisi e i cambiamenti climatici di Vincenzo Faccioli Pintozzi gni individuo «ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure e assistenza». Questa citazione è tratta dall’articolo 25 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo stilata dalle Nazioni Unite. E proprio nel giorno in cui il mondo si ferma per celebrare il sessantesimo anniversario della sua pubblicazione, stride la pubblicazione dell’annuale Rapporto della Food and Agriculture Organization (Fao) sullo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo, che punta il dito contro l’aumento “inarrestabile” di persone che soffrono la fame.

O

che caratterizza i governi di molti degli Stati in via di sviluppo potrebbero ben presto aggravare in maniera drammatica la situazione. A scapito dei poveri.

L’aumento di affamati riportato nel

Sono oltre 963 milioni, infatti, gli esseri umani che non riescono a nutrirsi quotidianamente in maniera adeguata rispetto agli standard dell’Organizzazione mondiale della sanità. Circa 40 milioni di persone in più rispetto allo scorso anno: un aumento pari a 115 milioni, se si tengono in conto i dati relativi al biennio 2003-2005. Ma le brutte notizie non si fermano qui: secondo gli analisti dell’agenzia Onu, infatti, la recente crisi finanziaria, il disinteresse dei Paesi sviluppati e l’altissimo grado di corruzione

Rapporto, il nono in termini temporali, ha una causa precisa: la crescita vertiginosa e incontrollata dei prezzi delle materie prime agricole che, soprattutto in Asia e Africa, sono una componente imprescindibile per la nutrizione e l’econo-

nazioni in via di sviluppo, e soprattutto quelle più povere, devono affrontare ogni anno una durissima scelta fra il mantenere una stabilità macroeconomica o mettere in atto programmi utili a contrastare l’aumento del prezzo delle materie prime e dei carburanti». Un bivio che diventa ancora più arduo da affrontare se si tiene presente che, ogni anno, milioni di persone manifestano in maniera violenta contro i propri governi, considerati colpevoli di malagestione dei fondi internazionali stanziati per la ripresa economica locale. Il direttore generale della Fao, Jaques Diouf – presentando ieri il Rapporto a Roma – ha

quotidianamente neanche un terzo del fabbisogno calorico medio. Per dirla in maniera più pratica, chi non riesce a mangiare neanche 70 grammi di riso.

È sempre il Continente Nero, poi, a vincere un altro concorso, il più triste: quello della malnutrizione infantile, con i vertici rappresentati da Niger e Togo, dove soltanto l’8,8 percento dei bambini dai 6 ai 23 mesi di vita riceve un’alimentazione appropriata. Secondo gli esperti Fao, comunque, l’alto prezzo delle derrate può diventare un’opportunità di sviluppo ed essere la chiave di volta per uscire dall’impasse e scongiurare l’ulte-

L’Africa sub-sahariana si aggiudica di nuovo il podio nella classifica peggiore: quella dei denutriti. Nell’area, infatti, una persona su tre non ha cibo: un totale pari a 236 milioni di persone. La metà sono bambini mia locale. Secondo la Fao, «i prezzi dei principali cereali sono calati di oltre il 50 percento rispetto al picco raggiunto agli inizi del 2008. Ma rimangono più alti del 20 percento rispetto all’ottobre 2006». Il Rapporto – che si pone lo scopo di analizzare come ribaltare a livello macroeconomico questa situazione – sottolinea: «Le

sottolineato che «bambini, donne in gravidanza e in allattamento sono molto a rischio: i disordini civili che si sono già verificati nei Paesi in via di sviluppo sono il segnale della disperazione causata dall’aumento dei prezzi alimentari. Gli effetti della crisi saranno più devastanti tra i poveri delle aree urbane e le donne capo-famiglia».

La situazione più a rischio, ed è lo stesso da anni, è quella dell’Africa subsahariana: in quest’area, composta da 19 Paesi, una persona su tre (ovvero circa 236 milioni di abitanti), soffre cronicamente la fame. Per definire il termine “fame”è scesa in campo l’Organizzazione mondiale della sanità: questa ritiene “affamata” una persona che non riceve

riore crescita di povertà prevista dagli economisti. Nel lungo periodo, infatti, l’aumento del costo del cibo può rappresentare un’occasione di sviluppo per i milioni di piccoli agricoltori poveri, può favorire l’espansione dei mercati regionali, creare nuovi posti di lavoro e rilanciare in modo sostenibile l’agricoltura del Sud del mondo. Da qui la duplice strategia, coerente e coordinata, su cui governi, Paesi donatori, Nazioni Unite, Ong, società civile e settore privato devono «immediatamente convogliare gli sforzi: da una parte rafforzare il settore agricolo e aiutare i piccoli produttori ad aumentare la produttività fornendo sementi, fertilizzanti e mangimi per animali, oltre a macchine agricole, infrastrutture e servizi essenziali. Dall’altra, avviare programmi di sicurezza e protezione sociale per le categorie più vulnerabili, così da garantire ai più poveri l’accesso al cibo».

L’alleanza con Berlino non basta per ottenere dalla Ue una riduzione minore delle emissioni

E sul clima Barroso bacchetta Berlusconi di Francesco Pacifico

ROMA. L’alleanza stretta con Francia e Gran Bretagna dovrebbe permettere a José Barroso di blindare il pacchetto sul clima e il piano per rilanciare l’economia. Non a caso ieri il presidente della Commissione Ue ha fatto sapere: «Chiedo a tutti di mostrarsi inclini al compromesso altrimenti sarà una disfatta collettiva». Ma ha anche aggiunto che il pacchetto clima non è contrattabile, di fatto gelando le pretese italiane di trattare condizioni più vantaggiose per le aziende di casa, addirittura minacciando il veto. L’esito della contesa si conoscerà soltanto al vertice Ue al via domani, ma nelle cancellerie si vocifera di un compromesso sulla piattaforma ambientale che salvaguardia il taglio del 20 per cento sulle emissioni di

gas serra. Sull’altro versante, ci sarebbe una disponibilità di massima dei Paesi membri ad allargare i cordoni della Borsa e concedere, come chiede Bruxelles, quasi i quattro quinti dei 200 miliardi del piano. Se passasse questa posizione, resterebbe al palo la Germania, contraria al piano ambientale come ad aumentare le risorse per la piattaforma anticrisi. E con Berlino farebbe pericolosi passi indietro la diplomazia berlusconiana.

Che Germania e Italia rischino la sconfitta, lo si è capito dai toni usati ieri dalla Angela Merkel. In visita a Varsavia la cancelliera ha detto che «ci sono stati grandi passi in avanti, ma ancora molti punti da chiarire». Quindi ha smentito le possibi-

lità di ricorrere al veto. Che sarebbe passata la linea del rigore, invece, lo si è capito all’Europarlamento quando è stata approvata la direttiva sulle rinnovabili, che prevede l’aumento del 20 per cento nella produzione di elettricità da questa fonte. A sbloccare la situazione, il via libera alla richiesta italiana di una clausola di revisione nel 2014. Stesso schema dovrebbe essere applicato anche sul pacchetto clima. Il ministro degli Esteri Franco Frattini, bacchettato da Barroso, ha deposto l’ascia di guerra e fatto sapere che l’Italia avrebbe accettato «un compromesso equilibrato». Si vuole la garanzia che alla conferenza di Copenhagen del 2009 per definire il post Kyoto ci sia maggiore flessibilità in tema di inquinanti.

Tu t t a v i a,

le

sp e r a n z e

espresse nel Rapporto non hanno calmato il direttore della Fao, che in conferenza stampa si è sfogato rispetto ai fondi stanziati dalle nazioni ricche nel corso dello scorso anno: «Trenta miliardi di dollari sono l’8 percento di quanto i Paesi sviluppati hanno speso nel 2007 per i sussidi all’agricoltura. Non sono assolutamente nulla rispetto a quanto si spende in armamenti o quanto si sta spendendo in tutto il mondo per la crisi finanziaria. Non dobbiamo permettere che questa crisi ci faccia dimenticare che abbiamo ancora il problema della fame da fronteggiare». «Qual è la


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1948-2008. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo non funziona più

Soltanto retorica Il mondo è impotente di Aldo Forbice utti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». È l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Da alcuni giorni si parla molto di questo impegno planetario, che nasce - come afferma la premessa della risoluzione di sessant’anni fa - «dal disconoscimento e dal disprezzo dei diritti dell’uomo che hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno, è stata proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo». Le celebrazioni di questi giorni, quasi rituali, del 60° della Dichiarazione sembrano più un risultato delle sollecitazioni delle organizzazioni umanitarie, a cominciare da Amnesty International, che hanno sponsorizzato l’evento. E così pure gli uffici delle Nazioni Unite e dell’Ue. Eppure vi è una grande confusione sotto il cielo.

«T

Molti si richiamano ai diritti umani, talvolta confondendoli con i diritti civili (che sono un’altra cosa), per giustificare atti di guerra e iniziative che nulla hanno di umanitario. Lo hanno fatto, anche in questi ultimi anni, uomini di governo, politici di professione, studiosi non proprio neutrali. E giustamente, per questa ragione, Amnesty Internazional, nel suo recente rapporto annuale, ha definito tutto il dopoguerra «60 anni di fallimenti in tema di diritti umani; i governi devono scusarsi e agire subito». Molto è cambiato, infatti, dal 1948 quando capi di Stato e di governo, influenzati dagli orrori della seconda guerra mondiale e che già intravedevano le preoccupanti prospettive della guerra fredda, ebbero la loro storica intuizione. Ma purtroppo, come tristemente sappiamo, le speranze per una più efficace tutela dei diritti umani vennero polverizzate dall’esplodere di conflitti etnici, del terrorismo (soprattutto quello di matrice islamica), della persecuzione di tutte le minoranze in Cina e in numerosi altri paesi. Certo, 60 anni fa da parte dei governi vi era una grande unità di intenti. Non vi furono dissensi significativi: dagli Stati Uniti, alla Cina, alla Russia (allora Urss), ai paesi arabi, all’Europa. Ma era solo una unità di facciata, perché la storia di questi sei decenni ha rivelato che in realtà la strada dei diritti umani è stata sempre cosparsa di mine e trappole politiche e militari, più o meno visibili. E poi, la pena capitale è ancora trionfante in buona parte dei paesi del mondo (Usa, Cina, Giappone, Iran, quasi tutti gli Stati arabi), nonostante la “vittoria” conseguita nel dicembre 2007 alle Nazioni Unite sulla moratoria universale delle esecuzioni. In realtà - e lo diciamo con amarezza - nessun essere umano si è salvato da quella iniziativa così tanto pubbli-

cizzata dagli amici radicali e da Massimo D’Alema. Non abbiamo mai attribuito tutto il merito di quella iniziativa al partitino di Marco Pannella e al ministro degli Esteri dell’epoca (che, per la verità, di diritti umani si è occupato ben poco). In realtà, per quell’obiettivo,rivelatosi poi modesto e riduttivo, si sono battuti per almeno un trentennio tutte le organizzazioni umanitarie, a cominciare da Amnesty. Ma, come si è detto, quella “moratoria” non ha salvato nessuno. Infatti, ogni successo è attribuibile ai diversi paesi che, autonomamente, hanno deciso di mandare i boia in pensione, o alla giustizia e alle campagne umanitarie promosse da ong e dai media. Sappiamo,infatti che i paesi del “no” hanno continuato imperterriti, forse anche con una maggiore ostinazione del passato, a eseguire le impiccagioni e le fucilazioni negli Usa, in Cina (oltre 5 mila l’anno), in Iran (oltre 300), in Giappone, in Arabia Saudita (col taglio della testa), nello Yemen, ecc.

Con le sconfitte di questi 60 anni delle Nazioni Unite si potrebbe compilare un elenco lunghissimo Ci limitiamo a ricordare che, fra le numerose risoluzioni internazionali sui diritti umani, vi sono quelle che garantiscono i diritti economici, sociali e politici dei cittadini (che dovrebbero vincolare tutti i paesi che le hanno ratificate). Ma quanti paesi hanno rispettato queste “leggi universali”? Vi sono altre convenzioni rimaste lettera morta. Citiamo quella contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli (1984), quella sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, quella sulla cancellazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (1979), quella sui diritti dei bambini e degli adolescenti (1989), quella sui diritti dei rifugiati (1951). E tante, tante altre, che ormai, insieme alla Dichiarazione universale, rappresentano un importante e avanzato corpus normativo internazionale a tutela dei diritti umani. Una conquista di tutti i popoli della terra, di cui la Corte internazionale sui crimini contro l’umanità può utilizzare. Ma fin’ora, anche per la debolezza di questo Tribunale universale, i risultati si sono visti poco. Anche Benedetto XVI, dalla tribuna delle Nazioni Unite, il 15 maggio 2008, riferendosi al 60° della Dichiarazione, ha sottolineato che «i diritti umani vengono sempre più spesso presentati come linguaggio comune e substrato etico delle relazioni internazionali», aggiungendo che «la promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per esaminare le ineguaglianze tra paesi e gruppi sociali e per aumentare la sicurezza». Ora dobbiamo sperare che le vecchie e le nuove potenze si uniscano,come fecero i loro predecessori del 1948 e prendano di nuovo un impegno comune per i diritti umani. Lo auspichiamo vivamente, anche se i segnali che continuano a giungerci dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina, non ci inducono all’ottimismo.

Le celebrazioni per il sessantenario hanno molto di eccessivamente rituale: in realtà c’è ancora moltissimo da fare dovunque

priorità – ha chiesto ai presenti - i 963 milioni di persone che non hanno da mangiare, o le altre questioni in ballo?».

Citando lo “Yes,we can” reso celebre dal presidente eletto degli Stati Uniti, Diouf ha sostenuto che «l’obiettivo che ci siamo prefissi per il 2015 [sradicare la povertà da almeno metà dei Paesi in via di sviluppo ndr] è ancora perseguibile: ho chiesto ad Obama di farsi promotore di un’iniziativa per un summit che abbia come obiettivo sradicare la povertà dal pianeta». Il prossimo inquilino della Casa Bianca non ha ancora dato una risposta, ma è certo che - fra i suoi primi impegni - inserirà un richiamo alla generosità delle nazioni in via di svilupp. Con la speranza che questo nuovo appello, per quanto forse poco incisivo a livello pratico, possa ristabilire l’attenzione delle nazioni sviluppate nei confronti di quelle ancora in bilico per la sopravvivenza. E che ogni anno perdono milioni di abitanti in una lotta senza quartiere per il cibo e l’acqua.

Scene di fame che arrivano da tutto il mondo. Secondo il Rapporto Fao 2008 sullo stato di insicurezza alimentare nel mondo, in Niger e in Togo soltanto l’8,8 percento dei neonati dai 6 ai 24 mesi riceve un adeguato fabbisogno calorico. Secondo gli esperti, la situazione è destinata a peggiorare: pesa l’indifferenza dei Paesi ricchi e la corruzione delle nazioni in via di sviluppo


giustizia

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Partita di scacchi. Berlusconi preferisce impostare il gioco senza un negoziato preliminare, Veltroni sceglie la prudenza per non regalare voti all’Idv in Abruzzo

L’avvertimento di Fini Messaggio al Pdl: la riforma della giustizia sia condivisa. Ma il governo accelera: testo già pronto per venerdì di Errico Novi segue dalla prima Perché in realtà le parti continuano a tenere la trattativa in fase di stallo, con mosse che non sembrano puntare a un’accelerazione dei tempi. La componente berlusconiana del governo considera la giustizia materia troppo sensibile perché la si possa risolvere con un compromesso. Con la rinuncia per esempio al progetto di superare l’obbligatorietà dell’azione penale in modo che sia il Guardasigilli – dunque la maggioranza – a definire gli obiettivi prioritari. Ieri il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha lasciato aperto lo spiraglio: «Ridefinire i poteri del pm non vuol dire che gli si debbano tagliare le unghie». A meno che, dice il ministro della Giustizia, «i magistrati non ritengano che sia una cosa plebea collaborare con guardia di finanza, polizia e carabinieri». Il testo in ogni caso arriverà «quanto prima in Consiglio dei ministri: si tratterà di una riforma ampia». Vuol dire che la direzione di marcia è già segnata e che eventuali dubbi dell’opposizione potranno essere valutati dopo, in ogni caso da una posizione di forza.

È esattamente la strada che il premier preferisce seguire: negoziare da una posizione di forza. Così la condivisione diventa una meta lontana, e l’appello di Fini per ora cade nel vuoto, almeno nella parte in cui evoca uno spirito costituente. Dopodiché il Guardasigilli non esita a riprendere un’altra delle argomentazioni di Fini, quella secondo cui «allo stato attuale la durata dei processi preclude la tutela dei diritti dei cittadini». Anche Alfano infatti ribadisce che il settore maggiormente bisognoso di interventi è il processo civile, posizione annunciata già alla fine della scorsa estate e che adesso viene mostrata come la ragione insuperabile per accelerare i tempi. Il ministro assicura anche di apprezzare «chi, come l’Udc e D’Alema, si è detto pronto a una riforma della giustizia perché la considera urgente: noi non procederemo con un intervento improvvisato, ne parlere-

mo con l’Anm e con le forze di opposizione. Non si può né improvvisare, né abbandonare in partenza l’idea del dialogo. Vogliamo dialogare e decidere. Vogliamo dialogare e casomai andare avanti se non abbiamo un consenso».

Difficile equilibrismo. Che deve tenere conto anche delle preoccupazioni leghiste, smor-

Casini: «Pronti a lavorare insieme, ormai c’è un potere impazzito». Firmata la tregua tra le Procure, ripartono “Why not” e “Poseidone” zate dall’ennesimo colloquio tra Berlusconi e Bossi. Il senatùr addolcisce decisamente i toni rispetto a lunedì scorso, spiega che il federalismo non è in pericolo «perché è più avanti, è già in commissione» e fa un po’ il vago sulla «conciliabilità» delle due riforme: «Non so se riesco a fare due cose contemporaneamente». Ma di sicuro fa una mossa impeccabile

con il sì alla “bicameralina” sul federalismo. Ipotesi che gli guadagna i complimenti del capogruppo democratico al Senato Anna Finocchiaro e nello stesso tempo assegna, alla riforma sul decentramento, una visibilità maggiore rispetto a quella sulla giustizia: «Entro metà gennaio arriverà il disco verde del Senato al ddl e dopo il via libera si tratterà di mettere in piedi una commissione apposita per l’attuazione della delega, allo stessa maniera con cui fu istituita per la riforma del fisco e per la Bassanini».

È il passaggio che riporta il Carroccio al centro della scena. La Finocchiaro nota con orgoglio l’attenzione del ministro per le Riforme alla proposta del Pd che, dice, «è più compiuta di quella della maggioranza e guarda non solo agli aspetti fiscali ma lega indissolubilmente la riforma federalista anche alla carta delle autonomie, alla costituzione di una commissione bicamerale di controllo e al Senato federale». Tutto bene? Sì, se non fosse che il clima di collaborazione è pregiudicato anche dal timore di Veltroni rispetto a eventuali

Gianfranco Fini ha provato a spezzare l’infinita partita di scacchi sulla riforma della giustizia: «Si lavori a un obiettivo condiviso: l’efficienza del sistema». Appello fatto proprio anche dal presidente del Senato Renato Schifani che chiede agli schieramenti di accorciare le distanze deflussi di consenso verso l’Italia dei valori e la stessa Lega che potrebbero derivargli da una convergenza sul riassetto di Csm, separazione delle carriere (o separazione delle funzioni più netta dell’attuale) e superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tra dieci giorni esatti si vota in Abruzzo, e i più cinici nel Pdl già segnalano la ricorrenza come quella che segnerà la definitiva implosione dei democra-

tici. Lo dice il portavoce di Forza Italia Daniele Capezzone, a riprova che sul fronte berlusconiano non c’è nessuna particolare ansia di recuperare uno spirito di unità.

Le paure di Walter d’altra parte vengono rinfocolate ogni giorno dalle esternazioni di Antonio Di Pietro, che ieri ha messo all’indice la caccia all’intesa sulla giustizia con queste parole: «Riformare è una

Dopo indulto e intercettazioni, il Carroccio si trova con l’Italia dei valori a frenare sulla rifoma

E la Lega si trovò alleata con Di Pietro di Irene Trentin

ROMA. Sull’onda del “manicomio” giudiziario Salerno-Catanzaro e del profilarsi di una questione morale, il Pd non fa più il partito dei giudici e il Pdl medita un’azione a... tenaglia sul partito di Veltroni per forzare i tempi sulla riforma della giustizia. Puntando, almeno, a una netta differenziazione del Pd da Italia dei Valori.

Ed ecco invece la Lega che (suo malgrado?) si ritrova su una linea che assomiglia a quella di Di Pietro. Non è solo un problema di calendarizzazione, quando Bossi ricorda la priorità del federalismo. Altrimenti sarebbe bastato sposta-

re, come già avvenuto, la riforma della giustizia alla Camera, per placare il Carroccio, visto che il federalismo fiscale è al Senato. Invece no. È anche un problema di contenuti. E di metodo. «Si può anche cambiare la Costituzione, per arrivare a una riforma importante», dice ora il senatùr. Come dire, meglio lavorare con calma e senza strappi a una riforma condivisa, sulla giustizia. «I nostri paletti sono: separazione delle carriere, ritorno della polizia giudiziaria nelle indagini preliminari e riforma del Csm», ricorda il capogruppo alla camera Roberto Cota. Sui contenuti, infatti, la Lega

resta ferma al progetto Castelli e, sulle intercettazioni, sulla linea approvata dal governo a giugno con le significative modifiche ottenute: importante quella sulla corruzione, entrata all’ultimo momento fra le circostanze più gravi su cui resterebbe libertà di registrare telefonate. Berlusconi abbozzò per quieto vivere, ma ora vuole sulle intercettazioni un testo più duro con i magistrati, privo delle modifiche imposte dal Carroccio. Che sulla giustizia ha marcato il territorio anche sulla messa in prova, stoppata da Maroni (e anche da An, in quel caso). Carolina Lussana, vicepresidente


giustizia

10 dicembre 2008 • pagina 5

Parla Calogero Mannino, assolto in Cassazione dopo 14 anni di errori

«Il pm sbaglia? Paghi. La legge va cambiata» colloquio con Calogero Mannino di Angela Rossi

ROMA. «È necessaria una riforma che abbia un obiettivo condiviso, ciò che è auspicato da tutte le forze politiche: l’efficienza del sistema giudiziario. Al di là delle ricorrenti polemiche e strumentalizzazioni – ha detto ieri Gianfranco Fini - è innegabile che allo stato attuale la durata dei processi precluda la tutela dei diritti dei cittadini. E ciò è davvero inaccettabile. Credo che in quest’ottica sia doveroso, ferma restando la indipendenza e l’autonomia, riflettere anche sull’assetto della magistratura se davvero si vuole che essa sia all’altezza delle proprie funzioni costituzionali». E l’appello a una riforma condivisa è stato ripreso anche dal presidente Renato Schifani. Di giustizia e di riforma si è parlato moltissimo durante la giornata politica di ieri e sull’argomento abbiamo rivolto alcune domande all´ex ministro Calogero Mannino. «La situazione della giustizia in Italia non può restare così come è. Occorre iniziare a confrontarsi e mettere mano a una seria riforme che dovrebbe iniziare, a mio giudizio, dalla revisione di alcune norme del codice di procedura penale». È il pensiero di Calogero Mannino, ex ministro passato attraverso quattordici anni di processi e tutti e tre i gradi di giudizio previsti dall’ordinamento italiano (perché accusato di associazione mafiosa) e assolto in Cassazione. Alla luce anche della sua vicenda personale che fa emergere una presenza della magistratura nella vita politica molto forte, a suo giudizio esiste una possibilita, un sistema dal quale iniziare a costruire per garantire l´indipendenza sia dei magistrati che della politica? È complicato rispondere. Non vorrei parlare della mia vicenda personale ma che ci sia un problema in Italia è sotto gli occhi di tutti; gli atteggiamenti e le iniziative di alcuni pm e di alcune procure sono del tutto evidenti. La magitratura non è stata condizionata dalla politica ma dalla miscela esplosiva che si è formata tra la sinistra e alcune frange di magistratura. Lei è favorevole alla separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti? La separazione delle carriere è il minimo che si debba fare. Si tratta di vedere in che modo si realizza. Bisogna garantire l’indipendenza dei magistrati ma il problema ei pm come si risolve? Visto che i pm sono irresponsabili,

cosa, deformare è un’altra, noi a questo inciucio non ci stiamo». Dai democratici ha replicato il ministro della Giustizia del governo ombra, Lanfranco Tenaglia: «Di Pietro e chiunque parli di inciuci può stare tranquillo. Il Pd ritiene che il confronto sia nell’interesse del Paese e che la giustizia vada modernizzata e rinnovata, ma senza strappi alla Costituzione. Siamo contrari alla separazione delle carriere», ha però

e capogruppo in commissione Giustizia alla Camera ricorda che «Idv ha votato contro l’indulto assieme noi, è vero. Ma anche se su alcune questioni fondamentali sembra avere le nostre stesse posizioni, aspetto di vedere come si comporterà quando si tratterà di votare alcuni provvedimenti. Sulla giustizia, per noi ha la massima importanza avviare la riforma». Anche se, sui tempi «aspettiamo prima di esaminare il pacchetto completo, dando priorità al federalismo», conferma la Lussana. «C’è già la proposta di riforma del ministro Castelli, che prevedeva la separazione delle carriere, il ritorno della polizia giudiziaria nelle indagini preliminari e la riforma del Csm, tutte cose che noi sosteniamo», ribadisce. E l’immigrazione? «Anche su quello, Idv sembra d’accordo, ma non capisco allora perché Di Pietro

puntualizzato Tenaglia, «perché esiste già una rigida distinzione delle funzioni». L’Udc conserva invece il ruolo assunto con il seminario sulla giustizia organizzato tre mesi fa da Michele Vietti: «Siamo pronti a sederci a un tavolo con il ministro Alfano e con la maggioranza per definire gli interventi», ha ribadito Pier Ferdinando Casini, «ormai in Italia c’è un potere impazzito, quello della giustizia».

non ha votato il pacchetto sicurezza. Sull’affollamento delle carceri, noi sosteniamo che gli immigrati devono scontare la pena a casa loro, e anche su questo Di Pietro sembra favorevole. Però...».

«Questi temi sono fondamentali ma li ha lanciati la Lega da parecchi anni, non c’è stato alcun riavvicinamento con l’Italia dei Valori», frena Angelo Alessandri, presidente del Consiglio federale del Carroccio. «Se dopo molto tempo l’Italia dei valori li fa suoi, bene, ma bisogna capire se lo fa come slogan o perché ha veramente capito che abbiamo ragione. Non vedo quindi margini per nuove aperture, è da tempo che sosteniamo la necessità di un dialogo con l’opposizione. Ora bisogna vedere se alle parole seguiranno i fatti. Se Idv, cioè, ci garantirà il suo appoggio in Parlamento».

non rispondono davanti a nessuno. Se così non fosse non sarebe accaduto quello che sta acadendo tra la procura di Salerno e quella di Catanzaro, uno scontro incredibile. Occorrono quindi soluzioni non pregiudiziali. Dobbiamo rendere la magistratura responsabile davanti a qualcuno; non davanti alla politica ma davanti a qualcuno salvo che non avvenga che alcuni magistrati ne mettono altri sotto accusa. Ieri l’onorevole Casini e il presidente Fini, in seconda battutta, hanno parlato di Riforma della giustizia da attuare in maniera condivisa. Pensa sia possibile riuscire ad arrivare a un terreno di incontro per porre le basi a cominciare a lavorare? Trattandosi di una riforma di natura costituzionale, è assolutamente indispensabile. Se tutto resta così com’è, oggi siamo allo sfascio. Alcuni pm hanno messo a nudo i tanti problemi della giustizia, ora occorre andare avanti. Che tipo di riforma immaginerebbe se da domani dovesse cominciare ad attuarla? Partirei anche da una revisione del codice di procedura penale. Alcune volte il pm tenta di mettere in soggezione il magistrato che deve giudicare. Le riforme ordinamentali devono procedere urgentemente con la revisione di alcune norme del codice. Non c’è processo accusatorio che non abbia bisogno di assoluta parità tra le parti, altrimenti non può esserci alcun processo perché al di fuori di questo esiste solo la sentenza. Se non esistono prove al processo non si deve arrivare. Un processo può essere messo in piedi solo in presenza di prove, non può esserci un procuratore che dice al pm di andare avanti e basta, senza raccogliere prove; questo tipo di atteggiamento è da irresponsabile. I processi ai politici occorre farli assolutamente ma con le prove alla mano e non per simpatia o antipatia verso qualcuno. La magistratura spesso ha interpretato ruoli impropri. Di sicuro non si può continuare così e bisogna che su questo argomento non ci sia contrasto, ma un serio confronto.

La cattiva giustizia non è stata condizionata dalla politica ma dalla miscela esplosiva che si è formata tra la sinistra e alcune frange di magistratura


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politica

Crisi. Con il coordinamento del Nord, rischia di cominciare la decomposizione geografica del Pd

La rivincita dei sindaci di Riccardo Paradisi

l partito dei sindaci un pilastro della democrazia? Forse non è solo il pensiero del sindaco di Genova Marta Vincenzi. Chi nel Partito democratico sta dando vita al coordinamento delle regioni del nord, che nasce appunto con l’obiettivo di occuparsi di temi concreti vicino ai cittadini, deve coltivare una sensibilità affine a quello del primo cittadino di Genova. Vediamo perché.

I

A partorire il coordinamento è stata la riunione a Bologna tra i segretari regionali di Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino Alto Adige con uno statuto che prevede che le regioni che lo vogliono si mettano insieme per lavorare su questioni concrete. Una delle quali per esempio è la crisi economica che verrà affrontata il 9 gennaio a Milano con gli amministratori del Pd al Nord. Insomma al contrario di quanto affermava ieri l’esponente veltroniano Giorgio Tonini, secondo cui «la stagione degli amministratori inaugurata negli anni Novanta, che si basava su moralità, competenza e innovazione è finita» sembra invece che il localismo del Pd veda nascere una nuova primavera politica. Certo non è il partito del nord teorizzato da Massimo Cacciari e accarezzato dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino ma ha tutta l’aria di assomigliare a una reazione all’impasse del partito centrale. Da un lato paralizzato dall’acuta e cronica conflittualità interna tra veltroniani e dalemiani dall’altro stretto dalla morsa della questione morale che Roma, come accusa la Vincenti, vorrebbe scaricare sulla periferia: «Buttarci la croce addosso, infilarci nel tritacarne mediatico della questione morale può essere un modo pericoloso per sfasciare tutto», ammonisce il sindaco di Genova. E allora bisogna uscire dal cul de sac e rilanciare. Così secondo il coordinamento del nord «il tema vero è rappresentare bisogni e interessi di questi territori di fronte alla crisi. Per questo non ci si può permettere di filosofeggiare sulle alchimie e non fare un’operazione legata alla concretezza di temi che stanno esplodendo, perchè se si ferma questa parte del Paese, c’è un danno per tutto il Paese». Ma se l’attenzione alla questione settentrionale è centrale nel coordinamento del Pd del nord pure l’ipotesi di alleanze, anche solo tattiche con la Lega, viene considerata del tutto irreale: «È evidente che c’è un’impostazione alternativa da parte del Pd nei confronti

in breve Caso Why Not: incontro fra procure Le procure generali di Catanzaro e Salerno hanno raggiunto un’intesa che si è poi concretizzata in un incontro, svoltosi ieri l’altro a Salerno, tra i magistrati dei due uffici inquirenti, che ha consentito il ripristino, mediante idonee iniziative processuali, delle «condizioni per il pieno esercizio della giurisdizione». Lo ha comunicato il Procuratore generale della Corte di Cassazione Vitaliano Esposito in una nota trasmessa al Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano che ha espresso molta soddisfazione per l’incontro.

Fortugno: chiesti quattro ergastoli

A sinistra il sindaco di Genova Marta Vincenzi. Sopra Leonardo Domenici, primo cittadino di Firenze della Lega Nord, sono due opzioni politiche e programmatiche totalmente diverse». Alleanze con la Lega no dunque, ma avvicinamenti all’elettorato leghista sì: il lavoro del coordinamento intende infatti ufficialmente «reagire ad una situazione di mancanza di azione concreta da parte del Governo, in modo particolare della Lega, che rischia di diventare sempre di più una sorta di foglia di fico su politiche che penalizzano il nostro territorio». Un esempio? La vicenda

Non è il partito del nord teorizzato dal sindaco di Venezia Massimo Cacciari, ma il coordinamento settentrionale segna una rottura col centralismo romano. E insegue su molti temi l’elettorato leghista dei trasferimenti di risorse dal nord ad altre realtà del Paese, in particolare a Catania, senza che questo comporti un investimento forte nelle aree settentrionali che hanno invece bisogno di attenzione in vari settori. Non solo: la nascita del coordinamento delle regioni del Nord secondo il segretario regionale del Pd della Lombardia, Maurizio Martina, «rappresenta un’occasione utile per rilanciare due “fronti caldi” sottovalutati e trattati in maniera demenziale dalla maggioranza: sul tema degli ammortizzatori sociali da

gestire sul territorio e non in capo al ministero romano e su quello dello sblocco degli investimenti per i Comuni noi vogliamo rilanciare una sfida, in particolare alla Lega». Non sarà un partito del nord ma il baricentro politico e ideologico di questo coordinamento appare molto diverso rispetto a quello del Pd romano. Le istanze locali del resto si intrecciano con la questione morale. I sindaci umbri di Perugia, Terni, Sangemini, Gubbio, Foligno, Città di Castello e Spoleto città di una regione, l’Umbria, fortemente interessata alle inchieste della magistratura sugli intrecci affaristico-politici e su scandali legati alle Coop – hanno espresso piena solidarietà al presidente dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani Leonardo Domenici «per il suo impegno per tutelare l’immagine e l’onorabilità delle amministrazioni locali italiane, troppo spesso oggetto di superficiali campagne antipolitiche e sensazionalistiche che, altrettanto spesso, nulla hanno a che vedere con la realtà dei fatti e con le problematiche vere delle comunità amministrate».

I Comuni, dicono infatti gli amministratori dei comuni umbri, «costituiscono il cardine principale dello sviluppo italiano, mettono in campo da soli il 60 per cento di tutti gli investimenti pubblici nazionali, sono l’unico comparto dello Stato che nell’ultimo decennio ha continuamente ridotto la sua dipendenza ed ha altrettanto costantemente incrementato la propria autosufficienza di fronte a politiche finanziarie dei diversi Governi sempre più restrittive ed in alcuni casi vessatorie».

Quattro ergastoli: è la richiesta di condanna fatta dal procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, per presunti mandanti ed esecutori dell’omicidio del vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, Francesco Fortugno. Pignatone, intervenuto davanti ai giudici della Corte d’assise di Locri proprio per formulare le richieste del suo ufficio, ha chiesto l’ergastolo per Alessandro e Giuseppe Marcianò, padre e figlio, ritenuti i mandanti del delitto; per Salvatore Ritorto, accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio, e per Domenico Audino, al quale viene contestato anche un tentato omicidio compiuto a Locri.

Ieri altre morti sul lavoro Ancora morti sul lavoro, ieri. In provincia di Pavia un autista di 21 anni, Cesare Bertelli, è stato schiacciato dal cassone di un grosso camion all’interno di una cava di ghiaia. Secondo una prima ricostruzione l’operaio stava controllando perché il cassone del mezzo non tornasse in posizione orizzontale quando il pianale si è abbassato di colpo schiacciandolo. Sempre ieri a Bergamo, un operaio di vent’anni è entrato in un macchinario che serve per forgiare tubi di grosse dimensioni per cercare di liberarne uno che si era incastrato, ma è stato travolto e schiacciato dal pesante cilindro di ferro.


politica

10 dicembre 2008 • pagina 7

in breve

R OMA . La linea dell’Udc sarà sempre la stessa: alleanza con chi condivide un progetto politico, ma mai accodarsi a un progetto di altri. Lo hanno ribadito in molti durante il Consiglio Nazionale del partito che si è tenuto ieri nell’hotel Torre Rossa di Roma. Ma le parole più nette in tal senso sono state quelle del leader centrista Pier Ferdinando Casini, che dal palco ha precisato: «C’è un’incomprensione politica di base con Berlusconi». Riprendendo poi parole pronunciate in precedenza dal presidente Rocco Buttiglione, Casini ha messo in guardia: «Il premier potrebbe anche accettare, in un’alleanza con futuro, l’Udc qualora questa diventi indispensabile per la vittoria. La nostra posizione, tuttavia, entra in rotta di collisione con il principio stesso su cui è basata la politica di Berlusconi fino ad oggi, ovvero il bipartitismo. Il nostro gioco è, invece, quello di scompaginare il sistema bipolare e bipartitico». C o n t i n u a n d o p o i nell’analisi delle posizioni in campo, il leader dell’Udc ha evidenziato come sia nel Pd che nel Pdl esistano delle contraddizioni interne assai aspre: «Del Partito democratico non parliamo proprio, ma anche nel Popolo della Libertà, specie nelle periferie, ci sono delle lotte intestine molto forti. Già il fatto che alcuni, per avere una riga sui giornali, hanno bisogno di parlare male di noi, la dice lunga sul loro senso politico». E se Casini non fa nomi quando dice che qualcuno del Pdl parla male del suo partito, nel suo lungo intervento si schiera apertamente contro il sindaco di Roma Gianni Alemanno che secondo il leader dell’Udc

La Banca mondiale taglia le stime di crescita La Banca mondiale taglia drasticamente le sue stime sulla crescita globale nel 2009 a causa della crisi economica e finanziaria di questi mesi. È la prima volta da 26 anni che l’istituto annuncia una riduzione delle sue previsioni. La crescita globale l’anno prossimo aumenterà solo dello 0,9%, contro il +3% precedentemente stimato. I paesi emergenti avranno una crescita del 4,5%, a fronte di un +6,4% precedentemente stimato, mentre quelli avanzati registreranno una contrazione dello 0,1%. Le previsioni della Banca mondiale sono peggiori di quelle del Fondo monetario internazionale, secondo il quale la crescita mondiale nel 2009 sarà del 2,2% e quella dei paesi emergenti del 5,1.

I veterinari: nessun allarme diossina

Sfide. Al Consiglio nazionale dell’Udc Casini interviene sulle alleanze

«È ora di rompere il bipartitismo» di Francesco Capozza

La parola d’ordine, ha ribadito il leader centrista, è: «Soli e autonomi alle Europee e in tutto il Paese in vista delle amministrative, rispettando le coalizioni laddove hanno dimostrato la loro validità» «si è indignato per il fatto che io ho detto che, dopo sei mesi di giunta di centrodestra, a Roma non si è fatto nulla. L’unica cosa in cui è riuscito Alemanno - ha detto sarcastico Casini - è prendersi qualche consigliere eletto al consiglio comunale in qualche altra lista». Ma la notizia emersa ieri dal Consiglio Nazionale è che l’Udc lancia una “grande convenzione” che si terrà in primavera, «un grande evento non solo mediatico, ma di riflessione che dimostri la nostra diversità e prosegua la sfida ad un bipartitismo che non c’è, formato da due colossi dai piedi di argilla». La pa-

rola d’ordine - ha ribadito il leader centrista - è: «Soli e autonomi alle Europee e in tutto il Paese in vista delle amministrative, rispettando le coalizioni laddove, sul territorio, hanno dimostrato la loro validità».

Tra gli inte rventi più attesi, quello dell’ex presidente del Consiglio e segretario Dc Ciriaco De Mita che, salito sul palco per un breve saluto ha invece fatto una lectio agli eredi democratico-cristiani cui da qualche tempo si è unito. Non è mancata una tirata d’orecchie a Salvatore Cuffaro, intervenuto prima di lui: «Totò dice cose

giuste, che però devono essere spiegate meglio. Ricordati - ha detto De Mita rivolgendosi all’ex governatore siciliano - che sono sempre il tuo segretario». De Mita ha concluso con un monito e un’incitazione al tempo stesso: «Noi dobbiamo anticipare il futuro, riscoprendo nel cuore dell’elettorato i valori delle Democrazia cristiana».

Casini, e prima di lui anche il segretario Lorenzo Cesa, hanno ribadito quindi la linea: «Siamo in condizione di poter andare avanti, il processo che abbiamo intrapreso si è già realizzato in campagna elettorale e dobbiamo proseguire il lavoro immettendo altra gente. Le elezioni Europee devono vedere la nostra crescita e dimostrare che la nostra critica al bipartitismo ha trovato consenso». Cesa ha poi sollecitato

la sua classe dirigente: «Dobbiamo avere maggiore protagonismo sulle cose che interessano alla gente attraverso una fiducia operosa e seria che si caratterizzi nei fatti». A chi, negli interventi che hanno preceduto il suo, ha sollevato il problema di certi mal di pancia nell’Udc (resi recentemente pubblici dall’uscita di scena dell’ex portavoce nazionale del partito Francesco Pionati), Pier Ferdinando Casini ha avvertito: «La nostra è una lunga battaglia. E’ naturale che qualcuno cerchi di abbindolare i nostri dirigenti, ma il nostro passo è quello di un fondista e la nostra vittoria è correlata a ciò che maturerà nella percezione della gente». E se qualcuno fosse tentato di andarsene? «Facciano pure: i cimiteri sono pieni di gente che si credeva indispensabile!».

«Da quello che ci risulta come veterinari addetti ai controlli il problema diossina non esiste». Così Aldo Grasselli, segretario della Sivemp, la società italiana dei veterinari pubblici, liquida l’allarme diossina nelle carni irlandesi. Nessun rischio, come aveva invece ipotizzato ieri il sottosegretario Martini, per le carni bovine: «Immediatamente dopo l’allarme diossina, è stato attivato un monitoraggio sul latte bovino, e allo stato attuale non ci sono problemi». E nessun rischio concreto neanche per la carne suina: «I consumatori possono stare tranquilli», conclude Grasselli.

Alitalia: partono le lettere di cgis Alitalia ha inviato, già dal fine settimana scorso, le prime lettere di cassa integrazione straordinaria a zero ore anche al personale navigante. Dopo quelle che aveva cominciato ad inviare nei giorni scorsi al personale di terra, quindi, ora l’azienda sta comunicando il provvedimento a piloti e assistenti di volo. Cai, intanto, è pronta con le lettere di assunzione per i 12.639 lavoratori che saranno assunti nella Nuova Alitalia e le invierà quando ciascuno di essi avrà fatto almeno un giorno di cigs.


mondo

pagina 8 • 10 dicembre 2008

Conflitti. Il comandante di Centcom in Italia per chiedere un «maggior coinvolgimento» nella lotta al terrorismo

Sostiene Petraeus Parla il generale americano: la lezione irachena per vincere in Afghanistan di Pierre Chiartano

ROMA. «Sarà sicuramente ricordato come uno dei più grandi generali americani», così è stato presentato il generale David Howell Petraues, ieri, nella conferenza organizzata al Centro studi americani di Roma. Le parole sono quelle dell’ambasciatore Ronald Spogli, ormai in procinto di lasciare l’incarico in Italia. La politica del buonsenso, così, forse in maniera semplicistica, potremo sintetiz-

uditori era pieno di divise italiane delle quattro Armi. Presente all’incontro anche Giuliano Amato, come anfitrione e presidente del Csa. «Ero venuto per dare dei ragguagli sulle operazione nell’Oceano Pacifico, ma l’argomento è diventato materia riservata, mi ascolterete parlare di Iraq», è stato l’approccio dell’ex comandante della 101ma divisione aerotrasportata, già Saceur

alle regioni di confine con l’Afghanistan e al Belucistan, controllato dai talebani. L’India è stata ferita dalla violenza del terrorismo e Islambad ha visto il proprio territorio utilizzato come base per queste azioni. Dimostrare che si controlla il proprio territorio è un esercizio di sovranità. Il Pakistan è certamente fondamentale per una strategia di successo e per la risoluzione dei

Sopra, tank di fabbricazione russa in dotazione all’esercito iracheno. A sinistra, deposito di mezzi militari distrutti in Afghanistan. A destra, il generale David Petraeus. Seconda a destra bambino iracheno fra le macerie. Nella pagina a fianco militare italiano in Afghanistan

Gli attentati di Mumbai pongono due problemi che riguardano la sovranità nazionale. C’è una questione di controllo del proprio territorio per il Pakistan e una anche per l’India zare l’approccio ai problemi del padre della politica del surge in Iraq. Ora al comando di Centcom, che comprende un territorio che include ben 20 Paesi e una straordinaria tipologia di ambienti di’intervento.

L’arrivo in via Fani è stato come da copione, con un generale gioviale e aperto che stringeva mani, contornato dallo staff in stellette. La sua apparizione è stata preceduta da un percettibile spostamento d’aria. Poi un briefing per incontri riservati. Si è vista una fugace apparizione di Massimo D’Alema. Il parterre di

(capo militare) Nato. Per liberal ha risposto anche su Afghanistan e Pakistan.

Gli abbiamo chiesto: in Pakistan le regioni tribali di confine sono la base da cui partono gli attacchi alle truppe Nato In Afghanistan. Non si pone un problema di sovranità nazionale per Islambad, visto che di fatto non controlla quei territori? «Gli attentati di Mumbai - ci ha risposto - pongono due problemi che riguardano al sovranità nazionale. C’è una questione di sovranità per il Pakistan e una anche per l’India. Oltre al problema legato

problemi in Afghanistan. Con il presidente Asif Zardari (ai primi di novembre, ndr) ho parlato di come poter coordinare gli sforzi per intervenire in quelle zone di confine da dove partono gli attacchi alle nostre truppe. Lo stesso è successo con i vertici militari». Ma il problema, abbiamo chiesto al generale, è il significato da dare alla parola “vittoria”, riguardo alla situazione afgana. «Vincere in Afghanistan ci ha risposto - può voler dire qualcosa di simile a ciò che potrebbe significare in Iraq. Unire le componenti militari, politiche ed economiche in un merger flessibile che si adatti, di volta in volta, a situazioni nuove. Ciò che ha funzionato in Iraq nel 2007, ad esempio, ha funzionato meno nel 2008. È chiaro che oggi alla base c’è un problema di sicurezza, senza risolvere quello è impossi-

bile mettere in campo altre azioni. La differenza è che in Afghanistan le condizioni sono più difficili».

Ma che cos’è l’approccio “multidisciplinare” di cui parla il generale? Da esperto di counterinsurgency è da sempre abituato a muoversi in ambienti diversi da quelli prettamente militari. Conosce bene l’interdipendenza far sicurezza, politica ed economia ad esempio. È a conoscenza dell’arte di miscelare queste componenti, a seconda dei casi e delle situazioni. «A Baqubah (30 miglia nordest di Baghdad, ndr) per contrastare l’attività politica della guerriglia che oltre alle bombe cercava di muoversi tra la popolazione, è stata necessaria l’attività coordinata di sigint, comint e humint, tre branche dell’intelligence indispensabili. Il solo utilizzo dello strumento

militare, politico o economico non potrà mai funzionare». Un altro esempio è stato il differente approccio nel sud del Paese, a Bassora - dove erano stati uccisi due gorvernatori e i capi della polizia locale - ha funzionato un approccio low Meno muscolare. profile. L’annus horribilis per l’Iraq è stato il 2004. «C’era una situazione terrificante», nota il comandante di Centcom. Ma la ricetta Petraeus è molto di più che una mescola di divise, alta diplomazia, sequestro di depositi di armi ed esplosivi e intelligence. Parte dalla composizione delle unità sul campo, dall’addestramento dei sottoufficiali che devono essere in grado di bene interpretare non solo gli ordini, ma anche lo spirito guida di una nuova politica militare; e, quando utile, avere la necessaria determinazione per una «esecuzione aggressi-


mondo

10 dicembre 2008 • pagina 9

La presidenza del G8 ci rende interlocutori privilegiati

Il governo non perda questa chance di Antonio Picasso arrivo del generale Petraeus a Roma costituisce l’occasione per il nostro governo di far capire al “four star general” l’importante contributo italiano nelle missioni di peacekeeping. Certo, i temi di discussione sono tanti: il processo di pace in Medio Oriente, la riforma della Nato, la lotta al terrorismo. Tutti argomenti su cui il Pentagono, soprattutto in vista dell’arrivo della nuova Amministrazione Obama, può essere interessato a capire l’opinione di un suo alleato strategico nel Mediterraneo. D’altra parte, con un Petraeus investito del delicato incarico di trovare una soluzione al conflitto in Afghanistan, è naturale una focalizzazione su questo settore. Il confronto potrebbe essere impostato all’insegna di: cosa ha fatto finora l’Italia in Afghanistan? E ancora: cosa può fare nel futuro prossimo? La risposta potrebbe essere estremamente sintetica: molto e in entrambi i casi.Vediamo perché.

L’

Anche nel campo della comunicazione Petraeus ha dimostrato un pragamatismo fuori dal comune.

va degli ordini». «In Iraq col surge funzionava il modello “impara a adatta”. La riduzione del supporto popolare, della capacità tattica del nemico, l’eliminazione delle oasi sicure, la scoperta di depositi d’armi e esplosivi. Ma soprattutto capire che i cosiddetti insorgenti oltre ad essere un problema potevano diventare parte della soluzione», un riferimento diretto agli accordi con i vari gruppi di milizie che, di fatto, ha ridotto il livello di violenza in molte zone del Paese, capitale compresa.

«Non puoi mettere il rossetto a un maiale», un modo di dire tutto americano, per significare che la realtà va raccontata così come si presenta, se si vogliono risolvere situazioni probelmatiche. Non sono mancati numerosi riferimenti al ruolo dei militari italiani. Lodati soprattutto per il lavoro svolto per l’addestramento delle forze di polizia, in Iraq come in Afghanistan. «Carabinieri» è un termine sentito può volte sulle labbra del generale, senza voler sminuire il contributo di tutte le altre componenti delle nostre Forze armate. Gli attacchi aerei in Afghanistan verranno usati con maggiore parsimonia per evitare i cosiddetti ”danni collaterali” in termini di perdita di vita umane tra i civili. In Iraq invece uno degli elementi che hanno aiutato a vincere il conflitto con al Qaeda è stata «la pratica oppressiva degli attentati indiscriminati, che faceva vittime fra la popolazione. Una escalation che ha provocato una reazione fra i sunniti».

Premessa: parlare di Afghanistan significa sollevare una questione spinosa sia per gli Usa sia per noi italiani. Sette anni fa, infatti, con il via alle operazioni “Enrduring Freedom” e “Isaf”, Washington certo non si aspettava un conflitto dai risvolti così accesi e complessi. Qui a Roma, invece, il nostro coinvolgimento militare è sempre stato fonte di polemiche. Sia in ambito interno, sia sul piano internazionale. Agli slogan di piazza per un ritiro dall’Afghanistan “senza se e senza ma”, Palazzo Chigi ha sempre replicato sostenendo la necessità di far parte di un’operazione della Nato e sottolienando il buon lavoro del nostro contingente laggiù. Tuttavia, proprio quest’ultimo elemento non è risultato – e ancora oggi non è – immune dalle maliziose critiche da parte delle cancellerie di molti Paesi europei, nostri partner nell’Alleanza Atlantica e anch’essi schierati nella guerra contro i talebani. Del resto è anche vero che se con Petraeus si spera in una “surge” anche per l’Afghanistan, allora il contributo italiano, con i suoi risultati, non può essere sottovalutato. Il nostro Prt a Herat ha ricevuto gli apprezzamenti delle istituzioni nazionali, sia locali che quelle di Kabul. Il nostro impegno – che in cifre risulta pari a 5,3 milioni di euro stanziati dal ministro della Difesa per il 2008 – non si limita al settore operativo e militare, bensì ha come obiettivo la ricostruzione e la pacificazione del Paese. Positivo, inoltre, è il fatto che i nostri soldati non vengano bollati dalla popolazione locale come un “esercito invasore”. Cosa che invece accade purtroppo alle truppe Usa. Noi siamo a Herat per garantire la sicurezza e sostenere lo sviluppo della regione. Lo dimostrano i 38 progetti – nei settori dell’agricoltura, dell’educazione e delle infrastrutture – avviati dai nostri

operatori civili. Ecco, questo è ciò di cui Petraeus deve tenere conto dell’impegno italiano in Afghanistan portato a termine fino a oggi.

Certo, nessuno poi mette in dubbio che si debba fare di più. Se allo stato dell’arte il 72% del territorio del Paese risulta controllato dai talebani – contro il 54% nel solo 2007 – significa che qualcosa, in questi ultimi dodici mesi, è andato storto. I bombardamenti dei civili, la mancata cooperazione tra i diversi contingenti e soprattutto il crollo politico del Pakistan hanno inciso negativamente sul conflitto. E su questa base, la necessità di una “surge” a firma Petraeus è più che evidente.Tuttavia, se siamo in fase di definizione di risorse per il prossimo anno, allora è giusto che l’Italia si faccia avanti con le sue forze e convinca il comandante di Centcom che queste sono più che preziose. Per Roma, infatti, essere presidente di turno del G8 nel 2009 potrebbe apparire come una chance irripetibile. In questo senso, appare una buona idea quella di insistere per una conferenza internazionale sull’Afghanistan da ospitare qui in Italia. L’evento potrebbe significare aprire un confronto politico proprio sui risultati che il nostro contingente

Pacificare una regione del Paese (Herat) e dissolvere le ambizioni di Teheran a intervenire nel ginepraio afghano contro l’Occidente. Questo è ciò che viene chiesto al nostro Paese ha saputo raggiungere. Infine, l’anno prossimo si svolgeranno anche le elezioni presidenziali a Kabul. E proprio sull’onda lunga della proposta di Karzai di cercare gli spazi per il dialogo con le forze opposte meno intransigenti non va dimenticata la grande capacità della nostra diplomazia nei negoziati. Herat, nella fattispecie, è una provincia a prevalenza sciita, quindi non talebana. Non è poca cosa, questa, soprattutto se dall’altra parte del confine c’è l’Iran. Pacificare una regione del Paese e, al tempo stesso, dissolvere le ambizioni di Teheran a intervenire nel ginepraio afgano contro l’Occidente. Questo è ciò che Petraeus potrebbe chiedere all’Italia. E che l’Italia potrebbe fare sapientemente. *Analista Ce.S.I.


panorama

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Diritti. La Chiesa costretta dall’Onu a presidiare la frontiera dei suoi principi basilari

Ratzinger, il «Papa-sentinella» di Luca Volontè n questi giorni stiamo ricordando il 60° anniversario della Dichiarazione dei Diritti umani. Proprio nei giorni scorsi, il Vaticano ha preso le distanze da due documenti in sede Onu, entrambi opposti ai diritti umani. Il documento francese proponeva non solo l’abolizione delle pene corporali verso gli omosessuali ma, congiuntamente l’introduzione di pretese lobbistiche (soprattutto gay di estrema sinistra) a favore di “matrimoni omosex” negli ordinamenti di tutti gli Stati. Una vera e propria violazione non solo dei diritti naturali al matrimonio eterosessuale, ma pure del principio sacrosanto di sussidiarietà

I

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

che tutela la materia dell’ordinamento familiare, all’interno di ogni singola nazione.

Apriti cielo, la caciara delle organizzazioni gay italiane ha prodotto due grandi manifestazioni di protesta,una in Vaticano e l’altra a Ganova. Sotto le finestre del Papa,

dia sono amici della Chiesa. Dopo lo show vigliacco contro il Vaticano sugli omosex, la fanfara radicale ha suonato contro San Pietro perché non accetta la Carta dei Diritti dei disabili, una carta che autorizza alla selezione eugenetica dei bambini handicappati. Più che una carta di diritti per

Le decisioni difficili sugli omosessuali e sui disabili prese dal Vaticano in queste settimane sono solo la risposta a un attacco concentrico esattamente come sotto quelle di Bagnasco c’erano folle di associati ai sindacati gay, lesbo e trans. Un totale tra gli uni e gli altri, di 20 persone a chiedere di boicottare l’8 per mille alla Chiesa Cattolica. 20 pagliacci che hanno fatto pubblicità negli ultimi anni per l’8 per mille ai Valdesi e però hanno ottenuto più pubblicità sui Tg e sui quotidiani delle proteste del Forum delle Famiglie contro l’elemosina della Finanziaria. Tirem innanz, si dice a Milano, e poi trovi chi pensa che i mass me-

i disabili, lo dicono molte associazioni di handicappati, è una carta che dà diritto ai medici di uccidere embrioni e nascituri malati, persino di labbro leporino. Il Vaticano ha detto “no”, nvece di ringraziare si son levate caciare tanto bugiarde quanto ridicole, che accusavano la diplomazia della Santa Sede di crudeltà. Questi due ultimi casi, provvidenzialmente accaduti nei giorni delle celebrazioni dell’anniversario dei Diritti umani, dimostrano quanto siano vere le parole di Benedetto

XVI che chiamava la Chiesa la “Sentinella” dei diritti «per le popolazioni sfinite dalla miseria e dalla fame, per le schiere dei profughi, per quanti patiscono gravi e sistematiche violazioni dei loro diritti».

Nel suo discorso al Palazzo di Vetro dieci mesi orsono, Papa Ratzinger aveva ricordato che nella Dichiarazione sono confluite «diverse tradizioni culturali, soprattutto una antropologia che riconosce nell’uomo un soggetto di diritto precedente a tutte le istituzioni» e a più riprese, ha rimarcato la necessità di affermare diritti umani fondamentali che esprimano «valori non negoziabili che precedono tutte le istituzioni» e ne costituiscano il fondamento perché si tratta di valori «iscritti nello stesso essere uomo». C’è necessità e urgenza di una «nuova coscienza dei diritti umani», i casi dei giorni scorsi lo dimostrano e, coerentemente, nella Chiesa c’è ancora un Papa sentinella dell’umanità.

Tra le new entry di San Gregorio Armeno, anche il ministro Mara Carfagna

Presepe che fai, Obama (e Brunetta) che trovi resepe vuol dire Napoli, Napoli vuol dire San Gregorio Armeno, San Gregorio Armeno vuol dire pastori e statuine. Ogni anno c’è qualcosa di nuovo da mettere sotto l’albero, pardon, nel presepe. La regola è confermata: l’artigiano Genny Di Virgilio ha creato tre nuove statuine dedicate alle novità politiche. Barack Obama, naturalmente. Il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America non poteva davvero mancare nella grande famiglia del presepe napoletano o, meglio, del presepe universale. Nelle strade, stradine, vie e viuzze del centro storico di Napoli, nella Napoli più napoletana e più storica, centrale, insomma, lì a San Gregorio, a San Biagio, a Spaccanapoli, il presidente “abbronzato” la fa da padrone, è il più richiesto. Più di San Gennaro, più dei pastori, più dei Magnifici Tre: il classici Re Magi.

P

C’era da immaginarselo: Obama è a suo modo anche un fenomeno religioso. C’è mancato poco che non prendesse direttamente il posto del Bambino Gesù. Se non si è verificato lo scambio è perché c’è sempre una differenza tra il Padrone del Mondo e il Re del Mondo. Meglio tener distinti i due ruoli: la terra e il cielo, la spada e la coscienza, il profano e il sacro. Altra new entry: Renatuccio Brunetta. Il ministro della Fun-

zione Pubblica che, in verità, tutti chiamano «il ministro dei fannulloni», non poteva mancare. Anzi, proprio il grande castigamatti, il fustigatore di assenteisti e malati immaginari, è stata la prima novità del presepe 2008.

Pare che una statuina sia stata inviata anche al ministero di Corso Vittorio: un tributo speciale per il ministro più odiato e più amato dagli italiani. L’artigiano lo ha immaginato con le braccia alzate e con un cartello che, manco a dirlo, mette sul chi va là i fannulloni. Come se il ministro volesse dare un avvertimento anche al Bambino Gesù. A questo punto c’è la domanda: secondo voi chi è l’altro ministro del governo Berlusconi IV presente nel presepe? Ancora un uomo o una donna? Genny Di Virgilio mostra la sua creatura con orgoglio e la luce negli occhi: mostra la ministra Mara Carfagna. Una statuina severa, in verità: pan-

talone, giacca, camicetta bianca. Una divisa da ministra, non certo da show-girl, in linea con l’evoluzione politico-istituzionale della ex valletta. La ministra delle Pari Opportunità ha avuto l’opportunità di essere nel presepe e non se l’è fatta sfuggire. Un onore per lei che, anche se non napoletana, è salernitana. Carfagna, Brunetta, Obama: un trio politico per il vostro presepe. Come non rialla chiamare mente la domanda di Eduardo a Lucariello: «T’ piace ‘o presepe?». Il presepe napoletano è un classico di Natale e della cultura napoletana da quando fu praticamente inventato dal popolo e dalla grande fantasia e devozione di Alfonso Maria de Liguori.

Il presepe racconta la favola più antica e più bella che mai sia stata inventata: la nascita del Bambino e l’attesa del mondo che lo accoglie perfino con i Re Magi venuti dall’Oriente guidati dalla

luce della stella cometa. Tutta la famiglia umana si raccoglie intorno alla sacra famiglia di Maria, Giuseppe e Gesù. Sono soprattutto gli umili e gli ultimi che rendono omaggio alla famigliola di Betlemme con doni poveri ma preziosi perché offerti da poveri. Il Natale, dunque, non sembra avere una connotazione politica e i politici nel presepe sembrano fuori luogo. Cosa può portare la politica a chi viene a portare al mondo, con la sua stessa nascita, la Buona Novella?

Nulla. La politica non può portare proprio nulla. Il Natale (e la Pasqua per altro verso) sono i due “miti” che fondano la nostra stessa esistenza o condizione. Il Natale, in particolare, è l’inizio della nostra storia di uomini. Perché nascere significa proprio iniziare una storia che può essere raccontata. Nascere vuol dire venire al mondo e istituire il mondo. Il Natale è la festa della storia che inizia. La Buona Novella è proprio l’inizio di una storia. Perché ci fosse un inizio - dice Agostino - fu creato l’uomo. Gli uomini che abitano la Terra sono quegli esseri capaci di iniziare. Non solo quando nascono, ma anche in ogni momento della loro vita. Ecco il senso della Buona Novella: un bimbo è nato tra noi. Con o senza Obama, Renatuccio e la Carfagna.


panorama

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Poltrone. L’istituto veronese ha un nuovo ad, Pierfrancesco Saviotti, che si è fatto le ossa alla corte di Intesa

E Bazoli salvò (anche) il Banco Popolare di Alessandro D’Amato

ROMA. Il cambio della guardia non basta. L’addio di Fabio Innocenzi, ex enfant prodige della finanza italiana, non sarà sufficiente tout court a riportare la calma intorno al Banco Popolare. L’istituto veronese, che negli anni è cresciuto acquistando banche in difficoltà (Novara) oppure alla ricerca disperata di un partner (Bpl), oppure ancora attraverso partecipate come Italease, il cui business è stato messo in grave difficoltà dalle acrobazie finanziarie degli ex ad più che dalla crisi dei mutui, oggi si trova ancora in mezzo al guado. La scelta di Pierfrancesco Saviotti come nuovo amministratore delegato paga pegno a una dipendenza ancora più stretta dalla galassia di Giovanni Bazoli: a Intesa la nuova nomina si è fatta le ossa, e ultimamente era entrato anche nel board della Carlo Tassara, la holding di Zaleski che custodisce pacchetti di azioni di molti gangli vitali del capitalismo italiano (acquistate spesso attraverso le linee di credito aperte dagli stessi istituti), compresa Ca’

una volta passata la crisi, potranno “fare sistema”. Da tutti i punti di vista.

Oltre a dover gestire la crisi di questi mesi, la dirigenza dovrà sciogliere i nodi delle alleanze passate, dal Credito Bergamasco a Italease de’ Sass. Che ha già esautorato il vertice di Ubi Banca, dopo l’operazione Banca Lom-

barda, e quindi si candida a diventare la condottiera di un nuovo gruppo di banche che,

Come prima opzione, il Banco Popolare dovrà verificare la possibilità di creare un fondo immobiliare da un miliardo di euro garantito da Banca Imi. Saviotti, con il presidente Carlo Fratta Pasini, dovrà portare avanti la cessione di diversi asset non strategici (il Credito Bergamasco?) e le manovre per gestire gli interventi pubblici in favore del sistema bancario e dallo stesso Banco Popolare già richiesti. Poi c’è il problema Italease, ancora in picchiata in Borsa e alla disperata ricerca di un partner dopo l’addio dei tedeschi. All’orizzonte il mercato vede anche un nuovo aumento di capitale, che necessariamente dovrà essere garantito dai nuovi soci in un momento in cui denaro fresco non si vede in giro. Soltanto alla fine di questo lungo percorso si potrà dire che Bp è uscito davvero dalla crisi. L’alternativa sarebbe stata comunque peggiore del male:

l’accesso al piano di salvataggio del Tesoro probabilmente non avrebbe garantito alla banca la necessaria liquidità, visto che Innocenzi avrebbe dovuto mettersi in fila con molti altri concorrenti. La speculazione della Borsa (probabilmente aiutata dagli stessi competitor) non consentiva un raggio d’azione abbastanza solido, e il salvataggio tramite Mediobanca – ipotesi sussurrata ai piani alti – avrebbe comportato comunque l’addio del management. Ora, invece, Banco Popolare può contare almeno su quello spesso intrico di relazioni della finanza cattolica che può garantirgli un atterraggio il più possibile morbido, nel quale Intesa può svolgere un ruolo. Non concreto, visto che le difficoltà dell’intero sistema bancario non lo permetterebbero, ma perlomeno di diplomazia e rappresentanza. Il contraltare è che da oggi il destino di Bp è legato a doppio filo a quello di Bazoli. Rinunciando così del tutto alla propria indipendenza, proprio quando dovrebbe effettuare scelte in completa autonomia.

Campania. Il sottosegretario sta per perdere la carica di coordinatore di Forza Italia

Piano di Tremonti contro Cosentino di Francesco Capozza segue dalla prima A far traballare la poltrona dell’attuale sottosegretario all’Economia ci sarebbe - e questo è il vero punto che rende la storia ancora più intrigante e al contempo complessa - il diretto superiore di Cosentino al ministero di via XX settembre, Giulio Tremonti. Un passo indietro per fare chiarezza. Su Nicola Cosentino si sono accesi (anche con la complicità di alcune inchieste giornalistiche de L’Espresso) i fari della magistratura già da poco dopo la formazione del IV governo Berlusconi e da allora la sua stella è a poco a poco tramontata nel firmamento berlusconiano.

be riuscito anche a portare dalla sua parte uno dei sodali storici del coordinatore forzista campano. Infatti Luigi Cesaro - deputato e coordinatore provinciale napoletano degli azzurri, uno degli uomini più vicini a Cosentino avrebbe stretto un accordo con il tremontiano Marco Milanese. L’accoppiata Cesaro-Milanese sarebbe il cavallo di Troia su cui il super ministro dell’Economia avrebbe puntato per

Regione e Comune, perché il premier desse il suo via libera allo sbarco della cordata tremontiana nella patria delle sfogliatelle e della pizza. Facendo fuori, va da sé, il buon Cosentino.

Ma non solo. I maligni mormorano che la strategia del ministro dell’Economia preveda non un solo siluro (quello a Cosentino), ma ben tre. Nel mirino di Super Giulio ci sarebbero, infatti, le crescenti velleità dei due viceré di Napoli: Italo Bocchino, che sogna di replicare il goal fatto collocando il granitico Villari alla Vigilanza e Mara Carfagna, già trombata nella scalata alla poltrona di portavoce dell Consiglio dei ministri. E, tanto per non farsi trovare impreparato, Giulietto avrebbe già pronto un nome per la successione (ancora lontana a dire il vero) alla Iervolino: quello del fedelissimo Raffaele Calabrò.

Il superministro continua la sua sfida al premier. Stavolta nel mirino c’è il futuro della Regione che il centrodestra è certo di strappare a Bassolino

Ma la vera preoccupazione per Cosentino non sono i giudici che hanno in mano le accuse che il pentito Gaetano Vassallo avrebbe fatto nei suoi confronti nell’ambito dell’inchiesta sul clan dei casalesi, ma l’ira di Super Giulio che avrebbe deciso, stando alle informazioni in nostro possesso, di oltrepassare il Po e dedicarsi alla situazione all’ombra del Vesuvio. E non finisce qui. Già, perché Tremonti sareb-

conquistare la Campania che, secondo i nuovi assetti nel Pdl, dovrebbe passare in area forzista e, più precisamente, tremontiana. Colui che noi di liberal ci siamo spinti a ipotizzare sia il vero premier, avrebbe chiesto ed ottenuto da Berlusconi la possibilità di poter controllare direttamente gli affari campani. La stategia di moral suasion tremontiana è stata abbastanza semplice. Infatti è bastato paventare a Re Silvio l’idea di cavalcare l’empasse del Pd in Campania per conquistare, quando ci saranno le elezioni,


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segue dalla prima ermiamoci a pensare per un momento a come tutto ciò funzioni in pratica. Non vi è dubbio che vi sono occasioni in cui le azioni di governo sono di tipo più pratico ed hanno più probabilità di successo. Ma vi sono anche molte occasioni in cui le decisioni di governo sono di tipo unilaterale, mancano di saggezza e non sono in sintonia con l’effettivo pluralismo della naturale contesa politica. Ad esempio fu un bene che Abraham Lincoln emanasse l’Homestead Act ed il Morrill Land Grant College Act. Queste leggi definirono con decreto legge del governo come dovessero essere suddivise le nuove terre del West, in che modo dovessero essere congegnati incentivi per attirare molti nuovi coloni ed in che modo ciascun nuovo “Territorio” (terre che cercavano di poter diventare entità statali in seno all’Unione) dovesse essere costruito intorno ai centri universitari. I principi che guidarono l’azione di Lincoln furono due: 1) l’iniziativa personale e le decisioni personali esercitate da coloro che erano più vicini alla realtà pratica della vita di tutti i giorni portano a maggior senso pratico e ad un’intelligenza più pragmatica in tema di sviluppo economico (e morale) di quanto non faccia la pianificazione di tipo centralizzato. Si tratta di un’applicazione del principio di sussidiarietà, successivamente fatto proprio dalla Dottrina Sociale della Chiesa). 2) L’origine del benessere delle nazioni sono la conoscenza, le competenze, il “know how”, l’inventiva ed i grandi risultati di tipo pratico. I suoi nuovi Land-grant Colleges volevano essere fari guida e fungere da centri di invenzione, fornendo assistenza pratica ai centri impegnati nel settore agricolo, minerario e delle altre nuove tecnologie. In altri termini, l’azione di governo era importante per definire le norme e gli incentivi con i quali doveva essere sviluppato il West. Ma il governo non avrebbe gestito, manipolato o interferito nell’effettivo processo decisionale di coloro che erano lì sul campo, e che ben comprendevano le difficoltà pratiche delle loro terre, le loro ambizioni e capacità personali. Ciò che sarebbe andato bene per i talenti personali di un colono, non sarebbe necessariamente andato bene per tutti. In altri termini, il bene comune effettivamente realizzato sul campo sarebbe stato meglio conseguito, in concreto, grazie alle decisioni individuali ed ai talenti individuali. Inoltre, l’esperienza insegnava che sarebbe stato nell’interesse di tutti controllare attentamente ciò che gli altri stavano realizzando, al fine di plasmare le loro attività nel modo migliore per adattarsi a quelle degli altri, a vantaggio di tutti. Quando il mais costituiva il raccolto più promettente dell’anno, era nell’interesse di tutti concentrare gli sforzi per trarre il

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Per combattere la povertà c’è un metodo migliore che affidarsi allo Stato centrale. Qu individuale e le decisioni personali. Si tratta di una soluzione che permette di e

Come costruire “la so di Michael Novak massimo vantaggio da questa coltura, individuando nicchie speciali per le proprie produzioni. In tal modo un mercato aperto funge, se non proprio sempre, almeno piuttosto spesso, da forza centripeta nel convogliare i molti sforzi verso un risultato comune. ertanto, in sintesi, l’espressione Giustizia Sociale nasce spesso nell’ambito del seguente concetto: «La Dottrina Sociale della Chiesa ci insegna che dobbiamo perseguire la giustizia sociale». In altri termini, la giustizia sociale è un ideale verso cui dovremmo tendere. In secondo luogo, come spesso la gente afferma, al di là della sfera delle virtù personali, abbiamo anche degli obblighi nei confronti della “giustizia sociale”. In tal senso, la giustizia sociale è un dovere vincolante, plasmato da condizioni esterne. Inoltre, questi ideali ed obblighi portano ad una visione particolare di società giusta ed equa, orientata verso il potere di governo. In ultima analisi, la visione di Giustizia Sociale viene imposta ai ricalcitranti tramite la coercizione sociale, che viene esercitata dalle autorità di governo. In questa accezione d’uso dell’espressione “giustizia sociale”, non è sufficiente affidare gli obblighi insiti nel concetto di giustizia sociale all’iniziativa personale volontaria. La coercizione esercitata dal governo è la sua risorsa più normale. Si registrano enormi svantaggi pratici nell’utilizzare il concetto di Giustizia Sociale come l’unico o come il principale modo di concepire la giustizia sociale. In primo luogo, questo concetto è pesantemente sbilanciato in favore di un potere di governo centralizzato. Scivola facilmente nell’ideologia politica di coloro che sono a favore di una maggiore autorità di governo, per lo meno a livello economico e sociale. Un osservatore esterno imparziale potrebbe facilmente dedurre dal loro modo di esprimersi che coloro che utilizzano l’espressione “giustizia sociale” abbiano una predilezione per i partiti socialdemocratici in Europa e per il Partito Democratico negli Stati Uniti. In altri termini, il modo in cui utilizzano l’espressione Giustizia Sociale reca con sé il pesante fardello dell’ideologia. In secondo luogo, il concetto di Giustizia Sociale solleva la questione del chi dovrebbe essere autorizzato a definire il bene comune in uno specifico paese, in un determinato periodo

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Il programma di “Guerra alla Povertà” varato nel 1964 negli Stati Uniti ha innescato una valanga di conseguenze involontarie particolarmente rovinose: formazione sempre meno frequente di famiglie, tassi elevati di aborto, scarso livello di istruzione, aumento di atti criminali perpetrati soprattutto nei confronti dei poveri storico o specifica situazione economica. Pone altresì la questione del chi debba formulare le norme per conseguire una particolare

versione del bene comune o per preferire una visione del bene comune rispetto a quella contraria. Per molti è ovvio che debba essere il governo. vviamente non vengono affatto considerati altri responsabili del processo decisionale. Infatti, varie fazioni in seno alle società libere non soltanto rappresentano il bene comune in modi diversi, ma sostengono metodi piuttosto diversi per il conseguimento del bene comune da un certo punto di vista o dall’altro. Tuttavia, sulla base del concetto di Giustizia Sociale, il governo decide cosa sia il bene comune e definisce le norme per gestirlo e regolamentarlo. Guardiamo con attenzione ad alcuni passaggi fondamentali dell’enciclica Quadragesimo Anno. Prendiamo questo passaggio su chi governa e chi è governato: «È bensì vero che si deve lasciare la giusta libertà d’azione alle famiglie ed agli individui, ma senza pregiudicare il bene pubblico e senza arrecare danno ed offesa alla persona. Spetta poi a chi governa lo Stato difendere la comunità e le sue

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parti, ma nel salvaguardare i diritti stessi dei privati si deve tener conto principalmente dei deboli e dei poveri (punto n. 25)». E consideriamo altresì questo passaggio sulla funzione principale dello Stato: «È veramente dal carattere stesso della proprietà che abbiamo definito di natura individuale ed al contempo sociale, che in questa materia gli uomini debbono avere riguardo non solo al proprio vantaggio, ma altresì al bene comune. La determinazione di questi doveri in particolare e secondo le circostanze, e quando non sono già indicati dalla legge di natura, è ufficio dei pubblici poteri. Pertanto la pubblica autorità può con maggiore cura specificare, considerata la vera necessità del bene comune e tenendo sempre innanzi agli occhi la legge naturale e divina, che cosa sia lecito ai possidenti e cosa no, nell’uso dei propri beni (punto n. 49)». uttavia nel 1931 vi erano soltanto poche democrazie nel mondo. La maggior parte delle nazioni era governata da singoli governanti. Nelle democrazie ammini-

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uello di basarsi sul principio di sussidiarietà, che esalta l’iniziativa evitare le restrizioni alla libertà e le inefficienze dello Stato

ocietà dei giusti”

strative attuali il “governo” che definisce le norme è un piccolo gruppo di esperti, burocrati e professionisti di stato. Questi esperti sono dipendenti dello Stato e, come tutti gli altri, hanno i loro interessi, la loro ristrettezza di visione ed i loro pregiudizi. Perché dovremmo presupporre a priori che la loro visione del bene comune sia quella giusta e corretta? Vi sono poi anche difficoltà di ordine pratico. I fautori della Giustizia Sociale si concentrano spesso sull’eguaglianza e lamentano il fatto che “i ricchi diventano sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri”. (Alla fine del 2008, quando la maggior parte dei proprietari di azioni, obbligazioni e fondi pensione ne hanno visto ridurre significativamente il valore netto, coloro che desiderano veder cadere in basso i ricchi, in modo tale da ridurre il divario, dovrebbero essere più felici di quanto appaiono). Coloro che si concentrano esclusivamente su ricchezza e reddito spesso prestano molta meno attenzione di quanto dovrebbero agli indicatori che misurano salute, longevità, alfabetizzazione

«Fu un bene che Abraham Lincoln (nella foto a destra) emanasse l’Homestead Act ed il Morrill Land Grant College Act. Queste leggi definirono con decreto legge del governo come dovessero essere suddivise le nuove terre del West, in che modo dovessero essere congegnati incentivi per attirare molti nuovi coloni e in che modo ciascun nuovo “Territorio” dovesse essere costruito intorno ai centri universitari

ed istruzione. Ad esempio, coloro che oggi negli Stati Uniti vivono sotto la soglia di povertà hanno un livello di istruzione più elevato, vivono più a lungo e dichiarano un valore di ricchezza netto maggiore rispetto a coloro che nel 1973 vivevano sotto la soglia di povertà. E ci sono molto meno poveri rispetto al 1973. Sempre sulla base delle regole in tema di Giustizia Sociale, coloro che hanno redditi da ceto medio ed oltre sono costretti dallo Stato a sostenere un onere fiscale sempre maggiore. Sono costretti a farlo al fine di sostenere i costi sempre maggiori di una crescente percentuale di popolazione (attualmente pari a circa il 40% negli Stati Uniti) che non paga affatto le imposte sul reddito. Pertanto, con ben poche giustificazioni morali, oneri fiscali disuguali sono assegnati senza considerare i deserti morali di chi dà e di chi riceve o gli effetti morali su queste due categorie. Lo Stato non considera neppure i vantaggi sociali generati da chi dà quando produce un’economia dinamica e contribuisce a molte filantropie sociali. Non misura neppure gli effetti morali del trattare un notevole numero di cittadini come individui che ricevono semplicemente. In altri termini, le procedure dello stato amministrativo che dà e riceve non sono di solito morali, ma astratte ed aritmetiche. Pochi amministratori, che restano anonimi, sono responsa-

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bili delle conseguenze pratiche di queste regole, una volta che esse vengono applicate nel mondo reale. Di solito queste regole hanno conseguenze involontarie e non intenzionali. Esse possono superare in importanza i risultati effettivamente conseguiti in termine di bene sociale.Ad esempio il programma di “Guerra alla Povertà” varato nel 1964 negli Stati Uniti ha innescato una valanga di conseguenze involontarie particolarmente rovinose. Fra i danni da esso causati vanno annove-

È un dato di fatto che, generalmente, chi utilizza l’espressione “giustizia sociale” ha una predilezione per i partiti socialdemocratici in Europa e per il Partito Democratico negli Stati Uniti. In altri termini, il modo in cui viene utilizzato questo concetto reca con sé il pesante fardello dell’ideologia rati, a puro titolo di esempio, la formazione sempre meno frequente di famiglie; il fatto che il 70% dei bambini appartenenti ad alcuni gruppi etnici nascano al di fuori del vincolo matrimoniale e crescano senza padre; la dipendenza generazionale che ne deriva; i tassi elevati di aborto; lo scarso livello di istruzione a livello familiare; un aumento senza precedenti di atti criminali, per lo più perpetrati nei confronti dei poveri. In terzo luogo, dobbiamo chiederci in che modo opera in pratica la Giustizia Sociale. Cerchiamo di affrontare alcune questioni di ordine pratico. a) Quali sono i principali incentivi che danno energia motivazionale al si-

stema della Giustizia Sociale? I suoi fautori sembrano concentrarsi maggiormente fra coloro che ricevono piuttosto che fra coloro che danno. Tuttavia, anche coloro che sono motivati dal desiderio di prendersi cura degli stranieri potrebbero non credere affatto che i metodi attuali seguiti dal governo per prendersi cura degli stranieri conseguano gli obiettivi dichiarati; anzi al contrario. Poco importa, a coloro che convengono sul fine, ma non sui mezzi, non viene data alcuna scelta reale; essi sono coartati dalla legge e da severe sanzioni. a che cosa ci ha insegnato l’esperienza umana nel tempo? Che potrebbero esserci modi di gran lunga migliori per aiutare i poveri che non i mezzi seguiti dai governi centrali. «Facciamo sì che l’esperienza, la guida meno fallibile delle opinioni umane, sia chiamata in causa per rispondere a queste domande» scriveva Alexander Hamilton ne Il Federalista. Gli esseri umani mostrano una vera, per quanto non illimitata, comprensione nei confronti degli altri. Inoltre, l’esperienza ci insegna che anche la nostra limitata natura umana è stata ulteriormente colpita e ferita dal peccato originale. La maggior parte degli esseri umani (sia tra coloro che ricevono che fra coloro che danno), per la maggior parte del tempo, necessita di incentivi ben più forti della “buona volontà”o della “benevolenza”. Ma la coercizione non è l’unica alternativa. La maggior parte degli esseri umani non farebbero lavori ardui ed impegnativi - nel caldo di una panetteria o di un altoforno, ad esempio, o in mezzo al sangue colloso di un centro di macellazione o di un negozio di macelleria - se non fossero mossi da incentivi materiali di tipo pratico. Pertanto al fine di promuovere un’azione economica creativa, un sistema saggio dovrebbe mirare al bene comune fornendo incentivi di tipo materiale. Prima di poter essere distribuita la ricchezza deve essere creata. Pertanto ci dobbiamo chiedere quali siano gli incentivi che portano effettivamente ad un’attività economica creativa. Un metodo per tentativi ed approssimazioni successive dimostra che gli incentivi personali portano ad una maggiore attività creativa rispetto alla coercizione. b) Oltre ad una sorta di cecità nei confronti dell’importanza che rivestono gli incentivi, altri due motivi inficiano talvolta i tentativi volti a perseguire la giustizia sociale: l’invidia e l’amore eccessivo per la sicurezza. A mo’di critica sia delle filosofie socialiste che di quelle in stile laissez-faire, Papa Leone XIII sottolineava che la natura stessa di per sé genera disuguaglianze. I singoli individui hanno diverse nature, inclinazioni, predisposizioni, abitudini, intenzioni e volontà.

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Da un lato, i liberisti non dovrebbero pretendere che ogni essere umano abbia le stesse possibilità di successo economico. Talvolta chi è meno capace ha bisogno dell’aiuto degli altri. Contrariamente a quanto si crede, le opportunità non sono sempre sufficienti a garantire la giustizia. Dall’altro, i socialisti non dovrebbero imporre una rigida uguaglianza sull’intero ordine sociale perché non è così che funziona la natura. Come ebbe a dire papa Leone XIII: «Si stabilisca dunque in primo luogo che nella società civile è impossibile eliminare le disparità sociali. o tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado, e da queste inevitabili differenze nasce la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello Stato». (Rerum Novarum, n. 14). In un altro contesto, James Madison, il padre della Costituzione degli Stati Uniti e del successivo Bill of Rights, ebbe a sottolineare in che modo l’uguaglianza può tramutarsi in un pessimo progetto – e come potrebbe essere sconfitta in una più vasta unione di comunità piuttosto che in una più limitata. L’influenza di leader faziosi può alimentare una fiamma in seno ai loro specifici Stati, ma non potrebbe diffondere una conflagrazione generale negli altri Stati: «Il desiderio smodato di denaro, la frenesia per l’abolizione dei debiti, per un’equa divisione della proprietà o per ogni altro progetto improprio o malvagio sarebbero meno capaci di pervadere l’intero corpo dell’Unione che non un suo membro particolare; allo stesso modo una tale malattia infetterebbe più probabilmente una specifica contea o distretto, piuttosto che l’intero Stato» (James Madison). Nella sua Storia dell’Analisi Economica, Joseph Schumpeter afferma che l’enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII ha avuto un effetto sorprendentemente importante sul pensiero sociale europeo, in special modo per quanto riguarda le esigenze dei poveri. Tuttavia, nel 1991, guardando ad alcuni usi impropri del concetto di Giustizia Sociale, Giovanni Paolo II sollecitava una maggiore autocritica, più attenta agli effetti perversi che talvolta hanno le buone intenzioni. In particolare, il Papa ricordava i quattro abusi dello Stato

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assistenziale: la perdita di energie umane e la crescita disordinata di agenzie pubbliche; il dominio esercitato dalle preoccupazioni di tipo burocratico sul pensiero sociale; l’enorme aumento della spesa pubblica ed un crescente distacco da metodi più realistici, quali il servizio da parte di individui o associazioni più vicine ai bisognosi. Collegava queste carenze ad un difetto di comprensione attuale dei limiti dello Stato e ad un manchevole rispetto per le comunità e le prassi a livello locale. Ecco le sue parole: «Si è assistito negli ultimi anni ad un vasto ampliamento della sfera di intervento del governo, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno Stato di tipo nuovo: lo «Stato del benessere». Questi sviluppi si sono avuti in alcuni Stati per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di povertà e di privazione indegne della persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato del benessere, qualificato come “Stato assistenziale”. Disfunzioni e difetti di questo tipo di Stato derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito de-

I liberali non dovrebbero pretendere che ogni essere umano abbia le stesse possibilità di successo economico. Chi è meno capace ha talvolta bisogno dell’aiuto degli altri. Le opportunità non sono sempre sufficienti a garantire la giustizia. Ma i socialisti non dovrebbero imporre una rigida uguaglianza sull’intero ordine sociale ve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione

di servire i cittadini, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso. Si aggiunga che spesso un certo tipo di necessità richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati e a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossico-dipendenti: persone che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno»(Centesimus Annus, punto 48). l di là di queste difficoltà pratiche che si incontrano nel concetto di Giustizia sociale, vi è anche un’obiezione di principio sollevata in merito alla validità del concetto di Giustizia Sociale da parte di Padre Ernest Fortin e, prima di lui, da Friedrich Hayek. Il filosofo rilevava che per Leone XIII ed altri cattolici dopo di lui, la Giustizia Sociale era sempre presentata come una virtù. Eppure le virtù sono proprie dei singoli individui. La Giustizia Sociale non si riferisce ad una virtù personale, ma ad un parametro impersonale. Il punto fondamentale è che quasi tutte le fonti autorevoli che esortano

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a praticare la giustizia sociale fanno riferimento ad essa come virtù della Giustizia Sociale. Nonostante questa chiara tradizione, l’utilizzo dell’espressione Giustizia Sociale descrive una tipica situazione prevalente nella società, non un’abitudine dei singoli individui. Infatti, alcuni autori si sono avventurati in nuovi percorsi per sottolineare che la Giustizia Sociale non fa riferimento ai singoli indivi-

dui o alle loro abitudini, ma alle istituzioni sociali ed allo stato delle cose, alle agenzie amministrative ed alle decisioni di governo. Temi che possono essere importanti. Ma non sono virtù, il che equivale a dire abitudini, inclinazioni, predisposizioni e capacità che sono proprie della mente e della volontà dei singoli individui. Soltanto le virtù personali, per lo più apprese grazie ad una lunga prapossono tica,


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«Che l’esperienza, la guida meno fallibile delle opinioni, sia chiamata in causa per rispondere a queste domande», scriveva Alexander Hamilton (nel ritratto in basso)

temprare gli individui trasformandoli in persone con un carattere ben più sviluppato, ed in esempi viventi degli insegnamenti cristiani. Verità che ha qualche limite: quando un mercato è aperto, nessuno può dire esattamente cosa accadrà nella sua miriade di transazioni quotidiane; nessuno può comprenderle tutte e neppure comprendere il quadro di base in mezzo a montagne di dettagli. All’inizio di un anno scolastico, nessuno può prevedere con chiarezza o certezza quali studenti non ce la faranno e quali terribili effetti questi insuccessi potranno avere sulle loro vite future. Ma non è ingiusto insistere sull’importanza degli esami, qualunque siano i loro eventuali effetti negativi su alcuni individui non ancora “strutturati”. Ad esempio, nessuno avrebbe potuto predeterminare, circa 25 anni fa, che la conduttrice di talk show, Oprah Winfrey, avrebbe guadagnato in un anno più di migliaia di insegnanti messi insieme. Seguire le regole di istituzioni considerate giuste ed eque equivale ad accettare i loro risultati, anche se questi non sono trasparentemente “morali” nel senso in cui le intenzioni e le azioni dei singoli individui sono considerate morali. Sono molto più spesso i singoli individui che agiscono da soli o insieme agli altri, piuttosto che le

istituzioni e le prassi impersonali, ad essere esempi di virtù. Ciò è vero in particolar modo nei casi che comportano il risveglio e la riforma dell’ordine sociale. La conversione personale degli individui e la lotta personale per conseguire il controllo di sé, sono indispensabili per una società che si vuole autogovernare. Una società non può essere libera, a meno che i suoi cittadini non siano (ragionevolmente) virtuosi. Proviamo a vederla in questo modo: se ci fermiamo a riflettere sul periodo storico che ha portato Leone XIII e Pio IX a invocare la necessità di una nuova etica, ci rendiamo conto di quanto il mondo sia cambiato nell’arco di poco più di un secolo. Per fare un esempio personale, i miei nonni erano sudditi dell’impero austro-ungarico. Oggi, la loro progenie è cittadina americana e sceglie chi eleggere a rappresentarla. Un rovesciamento completo. Stesso salto in termini economici: i miei nonni lavoravano a servizio presso il castello di un nobile e il destino di tutta la loro famiglia era appeso al capriccio di un uomo. ggi ogni membro della mia famiglia ha un lavoro (e un datore di lavoro) diverso. Non solo: ognuno di loro è libero di decidere il proprio destino e di

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migliorare, volendo, la propria condizione sociale. Che divario incredibile, che distanza epocale ci separa dalla fine dell’Otticento. Una distanza nella quale è racchiusa l’essenza del messaggio di Leone XIII e Pio XI e la loro profonda riflessione (e chiamata) a una vita eticamente e socialmente virtuosa. Una chiamata che ha emancipato, grazie alla messa in pratica dei loro precetti, intere generazioni di uomini e donne. E determinato un nuovo modello di virtù sociale di “cittadini sovrani”, non più obbligati dalla legge a credere in qualcosa o qualcuno. Questi cittadini, oltretutto, hanno smesso di attendere e si sono rimboccati le maniche, assecondando le proprie inclinazioni e doti e cominciando a trovare soluzioni pratiche ai propri problemi. Hanno scoperto quello che Alexis de Tocqueville chiamava il principio dell’associazione, che descriveva come «la prima legge della democrazia». Un principio secondo il quale l’individuo non è il principale attore in una democrazia, ma l’associazione. Sono gli individui riuniti in gruppi che distinguono, secondo il filosofo, il popolo dalla plebaglia. Un popolo formato non da individui isolati, ma da individui che traggono senso e forza dalla partecipazione associativa. Il know how e l’attitudine a riunirsi in associazioni è decisamente la caratteristica principale della nuova virtù richiesta alle società libere. La seconda caratteristica è che il fine deve essere il bene, a livello locale, regionale, nazionale e internazionale. Un esempio: degli abitanti possono decidere di riunirsi assieme per fare pressioni al Comune affinché gli riasfalti una strada, oppure decidere di chiedere sponsorizzazioni per costruire una nuova area per bambini nel quartiere. Ma lo stesso principio è valido anche per istituzioni come la Croce Rossa, piuttosto che per una parrocchia del Minnesota che decide di sostenere una confraternita in Africa. In entrambi questi esempi sia la causa che provoca l’aggregazione, sia il fine che la giustifica, sono testimonianza di una nuova virtù: la virtù sociale. Che per funzionare deve avere un motore inalienabile: migliorare la vita degli individui e rispondere al principio di giustizia, così come inteso da Aristotele. L’esempio portato dal filosofo riguardava il sacrificio greco alle Termopili. Un sacrificio visto nel suo insieme e non nella morte dei singoli. La trama di questa molteplicità di associazioni – che spesso cooperano anche fra loro – sono alla base della società civile, il vero cardine, anche morale, della vita umana, ancor più dello Stato. Di più: lo Stato deve servire questa comunità di associazio-

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ni che rappresenta la forza “del popolo, fatta dal popolo e per il popolo”. In America, come nell’Italia medioevale, la religione è una fertile fonte di associazione. All’epoca ogni strada, piazza, opera d’arte e chiesa era sotto la protezione di una confraternita addetta allo scopo. Più tardi, come osservato da Tocqueville, la religione è diventata anche la prima istituzione della democrazia. E questo perché la religione per sua intrinseca natura tende al sostegno della società civile, la supporta spiritualmente. Sotto un’ottica materiale, un’economia basata sull’invenzione e la scoperta è il secondo indispensabile tassello della società. Un popolo che teme l’eccessiva ingerenza dello Stato non sarà portato né ad aiutarlo né a sostenerelo. Ma si rivolge ad

Come osservato da Tocqueville, negli Usa la religione è diventata la prima istituzione della democrazia. Perché essa, per sua intrinseca natura, tende al sostegno della società civile, la supporta spiritualmente. E si rivolge ai privati per trovare i finanziamenti necessari a realizzare i propri obiettivi esso quando ne percepisce la leggereza. E fa affidamento, con intraprendenza, alle istituzioni economiche della società civile per finanziare quello di cui ha bisogno per realizzare i propri obiettivi. Gli ospedali si rivolgono alla filantropia privata per i fondi necessari alla ricerca sul cancro ed altre malattie. Le scuole e le università raccolgono ingenti somme private per portare a termine gran parte del loro lavoro. Le classi di diplomati alle scuole superiori cercano fondi privati per finanziare la pubblicazione dei loro annuari. Le chiese raccolgono enormi quantitativi di denaro per garantire assistenza ai poveri e ai bisognosi, come anche per le loro vitali attività parrocchiali. Negli Stati Uniti, la quantità di soldi donata nel 2006 da privati cittadini alle varie associazioni di beneficenza è stata di 295 miliardi di dollari; circa 223 miliardi di donazioni individuali, 36 miliardi attraverso fondazioni filantropiche, 13 miliardi da parte di aziende. Visto che ci sono approssimativamente 226 milioni di americani adulti, si tratta di 1300 dollari a te-

sta ogni anno. In una società libera, si tende a ricorrere prima di tutto alle istituzioni della società civile per soddisfare i bisogni sociali. alternativa – rivolgersi ripetutamente allo Stato – induce sia dipendenza nei confronti di esso (e questo va evitato assolutamente), sia minaccia che lo Stato controlli tutte le attività civili. Oggi, qualche governo si rende conto dell’importanza per il bene comune della filantropia privata. Per questa ragione, alcuni Stati hanno una politica di esenzione fiscale che incoraggia le donazioni da parte dei cittadini. La prima “giustizia sociale” si presenta come una sorta di filosofia politica guida per il welfare state. Al contrario, la seconda “giustizia sociale” pone l’accento sulla virtù propria degli individui, nel loro ruolo di agenti responsabili nelle attività della società civile. Queste sono le attività che accrescono il livello del bene comune e aggiungono ad esso un tocco umano (come il contatto tra individui). È semplice vedere la correlazione tra donazioni private finalizzate a migliorare il bene comune (la filantropia) e la “giustizia sociale”. Le associazioni filantropiche non sono le uniche attraverso le quali i cittadini, localmente e internazionalmente, si organizzano per il raggiungimento del bene comune. La “giustizia sociale” ispira una moltitudine di associazioni a migliorare la vita della comunità. In una società libera la filantropia privata gioca molti ruoli diversi. Un governo che si impegna per una società libera e giusta fa bene a dotarsi di una legislazione capace di incoraggiare la nascita della filantropia privata. E fa bene a permettere ad essa di trovare nuove strade per migliorare la vita dei poveri, dei disabili, dei malati e di chi ha bisogno di educazione. Fatemi chiudere notando che la “giustizia sociale” è ideologicamente neutrale. È aperta alla persone che formano associazioni allo scopo di aumentare il potere del governo come strumento per fare del bene, come lo è nei confronti di quelle associazioni che vogliono distribuire beni direttamente, al di là e al di fuori del governo, delle sue restrizioni e delle sue enormi inefficienze. Naturalmente, ci sono alcuni beni sociali che sono distribuiti più efficientemente dal governo, e altri per cui il governo deve almeno organizzare un quadro normativo esterno. Qualche volta la sinistra ideologica è più specializzata nella formazione di associazioni, per i suoi obbiettivi, rispetto alla destra. Questa definizione di giustizia sociale è ideologicamente neutrale. Ma quando si sceglie la destra o la sinistra i risultati, in pratica, possono essere molto diversi tra loro.

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mondo

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Lo scandalo. In manette il democratico Blagojevich incastrato dalle intercettazioni vrebbe venduto il seggio più prestigioso degli Stati Uniti: quello dell’attuale presidente in pectore Barack Obama. Per queste ragioni, ma non solo, il governatore dell’Illinois Rod Blagojevich, è finito in galera con l’accusa di corruzione. Ad incastrarlo, una valanga di intercettazioni, in molti casi fatte con l’aiuto di persone che hanno avuto colloqui con il governatore indossando microspie che, secondo l’accusa, incastrano Blagojevich e gli altri arrestati.

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Gli agenti federali hanno arrestato anche il capo di staff del governatore John Harris nell’ambito di un’ampia indagine, avviata tre anni fa, su possibili casi di corruzione nella amministrazione di Blagojevich, del partito democratico. L’indagine era in corso da tempo ed il governatore aveva sempre sostenuto di non avere commesso alcun reato. Dopo che ieri era emerso il fatto che le sue telefonate erano state registrate dagli inquirenti, Blagojevich aveva detto ai media di «non avere niente da temere: non ho mai commesso alcun reato». Le accuse contro il governatore non riguardano solo la possibile corruzione nel processo di scelta del successore di Obama ma anche altri reati come rappresaglie illegali nei confronti dei respon-

«Vende il seggio di Obama» Bufera in Illinois di Francesco Rositano

sabili di un giornale, Il Chicago Tribune, che l’aveva criticato. Il caso ha fatto scoppiare un terremoto. Durissimo l’attacco del procuratore federale di Chicago Patrick Fitzgerald, che ha condotto l’inchiesta, ha parlato «di corruzione di un’ampiezza impressionante, è un giorno triste per l’Illinois, il governatore Blagojevich ci ha fatto toccare il fondo», ha detto Fitzgerald in una conferenza stampa a Chicago.

L’episodio è destinato a gettare un’ombra sul nuovo inquilino della Casa Bianca, che è stato eletto anche grazie al suo forte impegno a eliminare la corruzione, tra le cause dell’attuale crisi finanziaria

L’entourage di Obama ha già smentito che il presidente eletto sia coinvolto nello scandalo: non interferiamo, ha assicurato un portavoce, nelle scelte dei governatori per il Senato (un altro governatore democratico, quello di New York David Paterson, deve nominare il successore di Hillary Clinton, adesso segretaria di stato, e si fa il nome di Caroline Kennedy la figlia del presidente John Kennedy). Ma lo scandalo getta un’ombra sull’amministrazione entrante di Obama, che è stata eletta anche grazie al suo forte impegno a eliminare la corruzione che contribuì all’attuale crisi finanziaria. E suggerisce inquietanti retroscena, perché il fermo di Blagojevich è stato clamoroso: invece di invitarlo con gli avvocati a presentarsi in Procura come di consueto, l’Fbi ha fatto irruzione nella sua casa. A Chicago molti si chiedono se il procuratore repubblicano Patrick Fitzgerald non stia regolando dei conti politici. Al Senato a Washington il sospetto è ritenuto infondato. Fitzgerald è l’ex procuratore speciale di uno scandalo che scosse l’amministrazione Bush, quello delle false atomiche di Saddam Hussein, e che fece processare e condannare al carcere per falsa testimonianza «Scooter» Libby, il braccio destro del vicepresidente Cheney.


mondo Grecia. Ancora tensione per i funerali del giovane ucciso dalla politizia

La rabbia giovanile infiamma Atene

giovani che stanno sconvolgendo i centri urbani della Grecia e che ieri, durante il funerale di Alexis, hanno lanciato bottiglie molotov contro gli agenti in tenuta antisommossa, nonostante il monito del premier Karamnlis e la sua volontà di non cedere al ricatto della violenza, non di Matteo Milesi sondo vandali o casseurs e la rabbia popolare ha radici profonde. Tra i motivi più seri la disoccupazione. Petros Rombolis, sociologo presso l’Istituto del Lavoro di Atene non ha dubbi: «Il mercato del lavoro non assorbe che la metà dei circa 80mila diplomati che ogni anno escono dalle università: ai giovani non resta che scegliere tra disoccupazione, emigrazione e ipersfruttamento. I ragazzi greci in media, quando hanno un impiego, guadagnano fra i 400 e i 500 euro al mese e non hanno prospettive». Un’analisi suportata anche da un recente studio dell’Unione europea, che dice: i lavoratori e le lavoratrici greche sono a “rischio indigenza’’. Secondo le statistiche Ue, infatti, la Il presidente Papoulias, ha definito «una ferita per la democrazia» la morte dell’adolescente. Grecia presenta, in Il premier Karamanlis ha chiesto il pugno di ferro con i facinorosi Europa, il più alto numero di persone con introiti al di sotto del 60% ti di questa temuta soglia di fanzia, mentre per quanto ri- guito da quelli della Danimardel reddito medio nazionale. E emarginazione sociale, mentre guarda la fascia d’età 0-3 anni, ca, della Finlandia, della Cequest’autunno di crisi econo- la media Ue (calcolata sui 27 solo un piccolo su dieci è accol- chia e dell’Olanda. mica mondiale non è certo attuali membri) è di 8 su cento. to da asili nido o condominiali d’aiuto. Cenerentola, insomma, A ruota dopo i lavoratori “qua- (dato, questo, migliore solo a Unica consolazione: le moderabita ad Atene. E i principi az- si-poveri” di Atene e dintorni, quello dell’Austria, dove lo Sta- ne Cenerentole greche che escozurri intorno a lei scarseggia- seguono i polacchi (13 su cen- to aiuta le madri lavoratrici in no ogni mattina dal focolare per no. Anzi: i greci, e le greche, to) e i portoghesi (11 su cento). 4 casi su cento). Addirittura un andare in ufficio non stanno bambino ellenico su quattro molto peggio dei loro colleghi hanno un triste primato: fra i cittadini dell’Unione europea La classifica di Bruxelles tie- (contro una media UE del 19%) maschi. Se le lavoratrici “povere” hanno la percentuale più alta ne conto non solo del mero sti- vive già sotto la soglia di po- sono 12 su cento nella terra degli di lavoratori in bilico sulla so- pendio, ma anche dei servizi vertà: «situazione dovuta ai dei, gli uomini a rischio di indiglia di povertà, ossia - secondo sociali a cui può accedere ogni bassi stipendi dei genitori, più genza sono 15 su cento. Un dato da prendere con le pinze: anche in Grecia, come in Italia, il tasso di donne occupate fuori casa è minore di quello dei compagni.A tutto questo aggiungiamo un’inflazione che sfiora il 4,7 per cenla definizione di “rischio indi- cittadino dell’Unione. Un che alla loro disoccupazione» to, la più alta dal Manzanarre al genza”delle più recenti statisti- esempio? Una coppia che può ha risposto il Commissario eu- Danubio (ma il reale aumento che della Commissione di risparmiare su baby sitter, asili ropeo preposto alle Politiche dei prezzi dei beni di prima neBruxelles, pubblicate nei gior- nido e che quindi non è obbli- sociali a un’interrogazione in cessità per le famiglie, secondo le ni scorsi ma riferite al 2005 - gata a rinunciare a uno stipen- proposito del’eurodeputato Di- Associazioni dei consumatori, l’abisso che inghiotte le “perso- dio (di solito quello della mo- mitris Papadimulis del Syna- sfiora il 9%), e un debito pubbline con introiti al di sotto del glie) per badare alla prole, è spismos (piccola coalizione dei co che è continuato ad aumenta60% del reddito medio nazio- più ricca di una analoga fami- partiti di sinistra greci, che non re negli ultimi anni arrivando a nale”. Uno spauracchio che si glia che percepisce lo stesso comprende i socialisti del Pa- quota 251 miliardi di euro. La bumangia la speranza e agita le reddito in un altro Paese ma sok). Più in generale, l’efficacia riana che soffia, ugualitaria, su notti di chi tiene famiglia. Di che gode, in compenso, di ser- dei finanziamenti pubblici elle- tutte le Borse europee e mondiapeggio, c’è solo la disoccupa- vizi sociali efficienti. Anche nici per ridurre la povertà è va- li in questo autunno di crisi non è zione. Ma nonostante facciano calcolando questo aspetto, la lutato in una scala del 9% dal- di grande conforto. E l’esplosioparte dal 1981 dell’Unione eu- Grecia è il fanalino di coda del la Commissione europea, con- ne di rabbia provocata dlla morropea, 14 lavoratori attivi elle- vecchio Continente. Solo 61 tro il 18% della Spagna, fino ad te di Alexis Grigoropoulos non si nici su cento, con un’età mag- bambini fra i 3 e i 6 anni trova- arrivare al vertiginoso 58% fermerà è destinata a determinagiore di 18 anni, vivono ai limi- no posto nella scuola dell’in- della Svezia, picco virtuoso se- re il futuro politico del Paese.

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Secondo le statistiche Ue, la Grecia detiene il più alto numero di persone con introiti al di sotto del 60% del reddito medio nazionale. Il 14% dei lavoratori vive al limite della soglia di emarginazione sociale

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in breve GB, scagionati genitori colpevoli di eutanasia del figlio Un giudice britannico ha scagionato i genitori di un 23enne che lo scorso settembre era stato accompagnato in Svizzera per cercare una «dolce morte» dopo che un graincidente ve durante un allenamento di rugby, avvenuto un anno prima, lo aveva paralizzato dalle spalle in giù. La decisione è destinata a creare scalpore e a riaprire il dibattito sull’eutanasia. Nel corpo del ragazzo, Daniel James, erano state riscontrate tracce di barbiturici utilizzati da coloro che vogliono suicidarsi senza dolore. In Svizzera il suicidio assistito è considerato legale in determinate circostanze, in Gran Bretagna invece no. Per questo i genitori di Daniel, Mark e Julie James, erano finiti sotto processo, denunciati da un impiegato del servizio sanitario britannico, che era venuto a conoscenza della vicenda. La pubblica accusa, nella persona di Keir Starmer, ha però deciso di non procedere perché la questione non sarebbe nell’interesse pubblico.

Israele, il Likud è sempre più forte Le speranze di Benyamin Netanyahu di dare un’immagine più centrista del suo partito Likud sono uscite distrutte dalle primarie di ieri: l’ex premier di Israele ha vinto le elezioni interne come previsto, ma nei primi venti posti sono gli estremisti di destra a emergere. Prospettiva che rende più improbabile il riavvio del processo di pace se, come pure è probabile, sarà proprio il Likud con Netanyahu a vincere le elezioni del 10 febbraio prossimo. Il voto delle primarie ha rifiutato molti dei visi nuovi che Netanyahu aveva cercato di portare nel partito. Sono invece stati eletti fra gli altri Benny Begin e Moshe Feiglin. Nelle ultime settimane i sondaggi hanno dato regolarmente il Likud in testa rispetto a Kadima; il partito guidato dal ministro degli Esteri Livni ha sofferto anche per vari scandali fra cui quello che ha travolto il premier uscente Ehud Olmert, sotto inchiesta per corruzione.


cultura

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L’intervista. Sette volte premiato al prestigioso World Press Photo, l’artista racconta i sogni, le emozioni e i disincanti della sua carriera

L’obiettivo del mondo «La mia missione è quella di vedere e far vedere» A tu per tu con il fotoreporter Francesco Zizola colloquio con Francesco Zizola di Fulvio Benelli a fotografia ruba l’anima, come dicevano gli indiani d’America. Se non la si usa con la giusta circospezione si possono arrecare grandi danni alle persone». Colpisce sentirselo dire da Francesco Zizola, uno dei più grandi fotoreporter al mondo, sette volte premiato al prestigioso World Press Photo, che ha fatto del dovere di testimoniare la sua ragione di vita. «La mia missione è quella di vedere e far vedere. Chi vuole cambiare l’uomo, e il mondo, non può prescindere da questo primo passo». Lo incontro al 10b photography gallery, la sua casa professionale inaugurata poco più di un anno fa a Roma, nel cuore della Garbatella. Uno spazio che è uno e trino: laboratorio di stampe professionali, scuola di formazione e galleria fotografica. «Questa città merita una nuova proposta culturale. Se paragono il ristagno artistico che vedo da noi con il fermento che incontro ogni volta che vado a Londra, Parigi o Berlino, il confronto è impietoso». Ha sempre considerato l’Italia il suo quartier generale, eppure oggi, sulla soglia dei quarantasette anni, esprime forti dubbi sul futuro prossimo del nostro Paese... «Purtroppo non so se continuerò a vivere qui. I miei figli crescono, il grande ha 15 anni. Se mi guardo intorno non riesco a non preoccuparmi. Mi chiedo quali occasioni ci siano per loro in questa società». Cos’è che non va? «L’Italia è paralizzata dal nepotismo e dalla gerontocrazia. In America hanno eletto un presidente che ha pressapoco la mia età. Qui hanno smesso da poco di riferirsi a me come a un giovane fotografo. Con questa mentalità non si andrà lontano». Fuori piove a dirotto, dentro la galleria è uno scrosciare di immagini. Le sue foto, colte e crude, sembrano quadri espressio-

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nisti. Capaci di trasportare di quei mondi lontani, per lo più scenari di guerra e miseria, non solo i soggetti ritratti ma anche le sensazioni, le atmosfere. Quello che stupisce in Zizola è la capacità di utilizzare l’estetica di uno stile inconfondibile soltanto per i fini del racconto, senza fronzoli o compiacimento. «L’estetica è l’ascensore del contenuto. Intorno a te può accadere il finimondo ma se non sai usare una grammatica visiva appropriata a rendere il senso di quello che hai visto, nessuna delle tue foto saprà parlare a chi non era lì».

bisogna imparare “ad entrare”. Se non sei dentro una situazione, non la puoi raccontare. Alcune delle foto esposte nella galleria sono talmente belle nella propria drammaticità da sembrare “aggiustate”. Non ho mai manipolato un soggetto. Sgombriamo il campo da dubbi. Io catturo il reale, nient’altro. E’ la sfida che mi pongo, sulla scorta della grande lezione che ci ha lasciato Cartier Bresson: la vita è piena di attimi decisivi. D’accordo, ma perché lei li vede e noi no? La gente è anestetizzata dal bombardamento di immagini cui è sottoposta. Sono le logiche della propaganda. Nel Rinascimento il regno del visuale era in mano alla Chiesa che lo utilizzava per divulgare le effigi dei santi e le sue verità. Oggi il bandolo della matassa lo detiene il potere politico, e la pubblicità. Strappare il velo che nasconde le cose. Come si fa? Negli anni ho addestrato la disciplina

In questa e nella pagina a fianco, alcuni dei più significativi scatti del fotoreporter Francesco Zizola, sette volte premiato al prestigioso World Press Photo. A liberal l’artista ha raccontato i sogni, le emozioni e i disincanti della sua carriera. Aspettando la sua personale dal titolo “Iraq”, che verrà ufficialmente inaugurata nel suo studio romano il 20 gennaio 2009

visiva, ho imparato a concentrarmi, a focalizzare. Che peso hanno le nuove tecnologie nella riuscita di questo progetto? Oggi è fattibile quello che un tempo non era nemmeno pensabile. I programmi di fotoritocco permettono di mettere in risalto l’essenziale, di far cogliere il punto a chi osserva. Su una foto ci si può lavorare a diversi livelli, anche solo la scelta tra colore o bianco e nero può risultare decisiva. Ma quello che più è importante, ci tengo a ripeterlo, è comunque l’attimo in cui si scatta.

Si sente più demiurgo o medium? Decisamente un medium. Sono io che mi adatto alla realtà, non il contrario. Questo è un punto nodale che molti dimenticano. Però una foto non sarà mai la realtà. Non sono così ingenuo da credere questo. E’ ovvio che ogni fotografia è solo un’interpretazione del mondo. Già la scelta del soggetto o del luogo condizionano il significato ultimo dello scatto. Del resto il nostro stesso sguardo non è neutrale al 100 per cento. Oggi persino i

Bisogna scattare con il cuore. Solo così si può cogliere l’essenziale. Molti pensano che un buon fotografo di guerra deve indossare l’armatura del cinismo. Invece è il contrario, bisogna imparare “ad entrare”

Per apprendere la grammatica visiva, come la chiama lei, basta una scuola di fotografia. Cosa rende invece i suoi scatti speciali? Non basta fare delle foto di mestiere, come si dice in gergo. Devi scattare con il cuore. Solo così si può cogliere il punto, l’essenziale. Molti pensano che un fotografo di guerra, per fare bene il suo lavoro, deve indossare l’armatura del cinismo. Invece è il contrario,

fisici sono concordi nel ritenere che non esiste in natura niente di oggettivo. Noi modifichiamo il reale con l’atto stesso dell’osservazione. In una foto è meglio il troppo oppure il troppo poco? Troppe informazioni portano a una dispersione del contenuto. Ma quando sono troppo poche fanno perdere lo scatto di pregnanza. Può spiegarci meglio? Se fotografo il dettaglio di una ruota, la foto significherà poco o niente per chi la guarda. Ma se allargo l’obiettivo e mostro che la ruota appartiene a uno scuolabus di bambini palesti-


cultura

A gennaio la mostra di Zizola sull’Iraq l 20 gennaio 2009 si inaugurerà a Roma la mostra fotografica “Iraq” del grande fotoreporter Francesco Zizola. L’artista, di origine romane, apprezzato e premiato per gli scatti crudi e intensi che ha saputo cogliere in ogni angolo di mondo travolto e segnato da guerre, malattie, violenza e inquinamento, ha scelto di esporre la sua personale sulla guerra in Iraq proprio nel giorno in cui il presidente degli Stati Uniti d’America George W. Bush rimetterà il mandato al neo-eletto Barack Obama. La mostra fotografica di Francesco Zizola “Iraq” si terrà dunque a partire dal prossimo 20 gennaio presso lo studio romano dell’artista: al “10b photograpy gallery”, in via di San Lorenzo da Brindisi 10b, 00154 Roma. informazioni: 06Per 97848038 e www.10bphotography.com

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nesi che sta attraversando un checkpoint presidiato da soldati israeliani, lo spessore e il significato della fotografia cambiano totalmente. Eppure è la stessa ruota. Come sceglie un soggetto o un luogo dove andare?

Mi faccio la domanda che si è posto Paul Valery un secolo fa: questo fatto che mi viene raccontato, può essere fotografato? Se leggo di un conflitto o di una situazione di crisi, so che devo andare a renderlo visibile. Come si dice, un’immagine vale più di mille parole. Gli ultimi tredici anni Zizola li ha spesi a documentare le condizioni dell’infanzia nel mondo. Ha girato ventisette Paesi. Dai figli delle guerre in Iraq ai piccoli lavoratori dell’Indonesia. Passando per Etiopia, Angola, Afghanistan fino ai bassifondi di Los Angeles. Uno di questi bambini ci guarda con occhi disperati dal muro della stanza riunioni dove sono stato fatto accomodare. Questa l’ho scattata in Brasile, nella favela di San Paolo. Non si vede, ma sopra la testa del bambino campeggiava un cartello con la scritta “strada delle

lacrime”. E mai nome fu più appropriato. Come sopravvive agli urti emozionali che incontra nei suoi viaggi? Vede, io non voglio assuefarmi al dolore, perché temo che finirebbe per assuefarsi anche lo spettatore. Quando sono davanti a una madre che ha appena perso il figlio, ho il dovere di non dimenticare lo scopo del mio essere lì. Se non volessi entrare nella sofferenza, potrei starmene in poltrona a casa mia. Invece sono chiamato a una grande responsabilità, quella di rendere fino in fondo l’entità di quel soffrire. Se una persona dall’altro capo del mondo arriva a comprendere, quasi a provare, quel dolore, so di aver centrato il bersaglio. E riesce a uscirne indenne? Tutto ha un prezzo. Dentro si scavano crepe sempre più

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profonde. Non prova mai la sensazione di perpetrare una violenza nei confronti dei soggetti che ritrae? E’ un sentimento che provo in continuazione. Tocca il tasto più delicato della mia professione. Quest’estate ho scattato la foto a un bambino che era stato appena dilaniato da una bomba. Mi sono detto: basta, è troppo. Ho lasciato il cuore di quei tragici avvenimenti e sono andato in una città poco distante a riflettere. Mi sono chiesto: nel 2008 come si può morire ancora in maniera così scandalosa? E io perché faccio il mestiere che faccio? In quei momenti, offuscato dal dolore, non riuscivo più a trovare un senso. Come ne è uscito? Mi sono ricordato di un episodio accadutomi qualche anno fa. Ero alla cassa di una farmacia per pagare alcune medicine. La farmacista, nel leggere il mio nome sulla carta di credito che gli aveva porto, mi chiese se ero Francesco Zizola il fotografo. Dissi di sì, allora lei volle stringermi la mano per ringraziarmi. Mi disse che grazie a un mio reportage sui bambini di strada lei e il marito si erano decisi ad adottarne uno. Ecco qual è il senso di quello che faccio. Questo però è un episodio. Crede che valga sempre la pena di fotografare il dolore degli altri? Vale la pena quando il dolore di una persona, di un gruppo, di un ambiente, subito magari attraverso un’ingiustizia, sarà conosciuto dal resto del mondo. O meglio, sarà conosciuta quell’ingiustizia. E’ un male necessario affinché le cose possano cambiare. Si è mai detto, questa volta non ne esco vivo nemmeno io? Parecchie volte. E cosa pensa in quei momenti?

Penso che se ne esco vivo, smetto e mi metto a fare le foto dei matrimoni. E poi? E poi torna il senso del dovere. Comunque vorrei sfatare l’icona dell’eroe senza macchia. Vuole sapere qual è la mia assicurazione sulla vita? La paura. Ogni volta che le cose stanno prendendo una brutta piega, vado via. Per spirito d’autoconservazione, ovviamente, ma anche perché so bene che solo se torno sano e salvo a casa la gente potrà vedere cosa succede in quei luoghi. Una definizione di fotografo? Uno che prova a mettere ordine nel caos. C’è qualcuno che le piacerebbe fotografare ma non ne ha avuto occasione? Berlusconi, ma non credo che lui vorrebbe essere fotografato da me. Perché no? Nel ’97 per Panorama feci una foto ad Andreotti che gli valse l’appellativo di Belzebù. E il mio ritratto di Prodi, due anni fa quando era presidente del Consiglio, è stato pubblicato solo all’estero. In Italia non lo si riteneva conveniente. Da allora non credo che i potenti amino molto le mie foto. Ma la colpa è sua o dei soggetti? Diciamo che con un appropriato gioco di luci esterne, si può cogliere la luce che c’è negli occhi delle persone. Quindi, nei casi che lo ho appena citato, è stato un concorso di colpa. Fotograferebbe Obama? Perché no, è bello e abbronzato. Che importanza hanno gli uomini nel suo lavoro? Alla facoltà di Lettere ho studiato antropologia. L’essere umano è sempre al centro del mio interesse. Anche quando fotografo scenari complessi è l’opera dell’uomo che guardo e le conseguenze che una data situazione avrà sugli esseri umani coinvolti. Zizola, perché fa quello che fa? Le risposte sono sempre più complesse delle domande. Semplificando, posso dire che tutto quello che faccio ha a che fare con Dio. Si potrebbe addirittura dire che il fotografo è Lui. E’ il fotografo e al tempo stesso è ogni cosa fotografabile. Si sente un uomo realizzato? Realizzazione è un concetto complesso, è una scala con un numero infinito di gradini. Le racconto un fatto. La prima volta che una rivista mi pubblicò un servizio immaginai di essere arrivato. Ero molto giovane e con quei soldi potei pagare l’affitto. Oggi, nel rivedere quelle foto, non capisco come sia potuto accadere. Se fossi stato io il direttore mi sarai rifiutato di pubblicarle. Erano orribili.


cultura

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a consacrazione definitiva avvenne solo nel secondo dopoguerra, allorché – attenuatasi notevolmente l’arcigna egemonia crociata – l’ottica esegetica si decantò e conseguentemente da nuove angolature e con metodologie investigative decisamente filoneistiche fu possibile fare i conti con la sua poliedrica opera, nella prospettiva di una valutazione e una collocazione complessivamente equilibrate. Si poté così esaminare più particolareggiatamente il peculiare concetto di umorismo elaborato dallo scrittore siciliano sondandone più obbiettivamente il fondo di cerebralismo pessimistico. In pari tempo ci si preoccupò di attivare ricognizioni linguistiche di livello specialistico, rivelatesi, poi, decisive nella confutazione del pregiudizio invalso, secondo cui Luigi Pirandello era un autore che “scriveva male”. E così, anno dopo anno, indagine dopo indagine, ha preso sempre più corpo e peso una mole cospicua e lievitante di studi, che ha finito col sancire la collocazione definitiva e irrefutabile del narratore e drammaturgo siciliano negli annali della letteratura nazionale e mondiale. E così è stato per anni e decenni, al punto che ormai un inventario della critica pirandelliana occuperebbe non poche pagine.

A sinistra, un’immagine di Luigi Pirandello. Il professore Di Lieto ha recentemente dato alle stampe, a settant’anni dalla morte dello scrittore siciliano, il libro “L’identità perduta – Pirandello e la psicanalisi”

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Il fatto più rilevante, a mio parere, nell’ambito dei più recenti studi sulla biologia e la bibliografia dell’autore di Sei personaggi in cerca d’autore sono le indagini condotte, in chiave strettamente psicanalitica, dal professor Carlo Di Lieto dell’Istituto universitario “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Dapprima alquanto in sordina, poi con sempre più marcata grinta investigativa, ha raggiunto risultati ultimativi, forse difficilmente eguagliabili. Inizialmente, con saggi pubblicati qua e là, indi con volu-

nella premessa – raccoglie otto saggi su Pirandello e la psicanalisi pubblicati nella rivista Misure critiche nell’arco di un decennio (1899-1999), e, in appendice, un intervento su Luigi Pirandello pittore, letto al Teatro di Messina il 3 marzo 2006 al convegno Pirandello e le arti “minori”, cinema, musica, pittura, in occasione del 70° anniversario della morte dell’autore. Il filo conduttore, che lega questi saggi è il tema della disidentità: partendo da una rigorosa analisi biografica, vengono disvelati molteplici aspetti dell’arte pirandelliana. La doppia identità e la defezione dell’io interagiscono nella produzione di Pirandello: dalla “coscienza captiva”di Romeo Daddi e dalla metapsichica fino allo psicodramma e al ‘teatro nel teatro’ degli ultimi anni…».

Libri. L’analisi di Di Lieto a 70 anni dalla morte dello scrittore siciliano

Uno, nessuno, centomila Pirandello di Gennaro Cesaro mi caratterizzati da un robusto spirito empatico e da una parallela, solida tensione speculativa.

L’approdo più recente di questo suo tenace corpo a corpo di matrice endoscopica è rappresentato dal libro L’identità perduta – Pirandello e la

In “L’identità perduta”, il poeta viene vivisezionato con tenace e caparbia meticolosità, mostrandocelo in tutta la sua più terragna nudità

psicanalisi (Genesi editrice, Torino). Le psico-endoscopie del Di Lieto relative alla figura e l’opera del drammaturgo siciliano danno puntualmente le vertigini, tale e tanto è il dispiegamento di strumenti ricognitivi messi ogni volta in campo. «Questa monografia – informa

Una lettera inedita di Luigi Pirandello al conte Giuseppe Primoli

Il conte Giuseppe Primoli, nato a Roma nel 1851 e ivi deceduto nel 1927, era nipote della principessa Matilde Bonaparte. Amava gli ambienti letterari e la dolce vita tra la capitale e Parigi. La sua abitazione romana – lastricata dai più sofisticati lustrini della mondanità – era bazzicata dai letterati più in vista del tempo, avessero o no il civettuolo monocolo come Ugo Ojetti, o il pizzo faunesco di Luigi Pirandello. Vi si respirava una sottile aria tra tardo ellenismo e sapido scetticismo parigino. Lasciò una cospicua biblioteca, parte integrante dell’attuale “Fondazione Primoli”, costituita da ben 32 mila volumi. Fotografo dilettante, ha lasciato al-

deli per uscire un tantino dal mio guscio. Non so concepirmi in frac ed in presenza di nobili ed eleganti signore. So che farei una pessima figura. Badi, vorrei rinascere per provare il piacere ch’Ella con la sua cortesia, benevolmente, mi ha posto innanzi: ma, rinato per un tale piacere, non sarei più io certamente e non scriverei più le novelle che – come il lusinghiero invito mi dimostra – non sono dispiaciute a madamoiselle Barrére. O le mie novelle, dunque, senza me, o me, senza le mie novelle. E che sarei più io allora? E perché invitarmi? Spero ch’Ella, signor Conte, comprenderà queste mie ragioni, che son di fatto, e vorrà scusarmi e farmi scusare. (Luigi Pirandello)

«Sono desolato, non posseggo frac» tresì una vasta raccolta iconografica, prezioso specchio della vita romana tra il 1885 e il 1905. Luigi Pirandello nel 1918 aveva quarantun anni e aveva già al suo attivo lavori come “Il Fu Mattia Pascal” (1904), “I vecchi e i giovani” (1908) e molte novelle. In risposta a un invito fattogli avere dal conte Primoli, si diceva dolente di non poter presenziare a una certa cerimonia in quanto sfornito di frac. La lettera inedita è del 14 marzo 1908. Illustre signor Conte, l’invito ch’Ella gentilmente mi comu-

nica di S.E. l’ambasciatore di Francia per lunedì prossimo, mi pone in un gravissimo imbarazzo, che Ella forse non riuscirà nemmeno a immaginare. L’imbarazzo mio, consiste nella coda, signor Conte, dove, come Ella sa, suole anche annidarsi il veleno: in cauda venenum. Difatti, la coda m’avvelena il piacere dell’invito. Io arrossisco a confessarlo, ma è proprio così. Io non ho frac, signor Conte: non l’ho mai avuto, in considerazione della mia indole schiva, che mi condanna a una vita assolutamente appartata e solitaria. C’era una volta un orso… Ahimé, proprio così. Faccio sforzi cru-

In altri termini, l’autore di questa monografia ha afferrato nuovamente di petto l’altera e siderale icona pirandelliana, l’ha vivisezionata con tenace e caparbia meticolosità, mostrandocela, alla fine, in tutta la sua più terragna nudità, nell’insidioso discrimine tra tesi e antitesi, tra valori e disvalori etici, ovvero tra humanitas e alienazione – ferinitas, come dire nell’immane conflitto endogeno ed esogeno tra ossessivo soggettivismo elucubrativi e orrorifica oggettivazione del medesimo. Un’operazione di stampo austeramente psicanalitica, quella del professor Di Lieto, la quale, in una certa misura, fa pensare agli interventi effettuati dagli esperti del ramo su talune opere pittoriche di Leonardo e di altri sommi artisti del passato, allo scopo di scoprirne i più reconditi meandri genetici.


spettacoli

10 dicembre 2008 • pagina 21

Musica. Ritratto della neo-sessantacinquenne Roberta Joan Anderson, nota ai più come lady Joni Mitchell

La signora del canyon di Alfredo Marziano

uon compleanno, signora del canyon. Un mese fa Roberta Joan Anderson, meglio nota come Joni Mitchell, ha compiuto 65 anni. Ha lo stesso sguardo vivace e distante di quand’era ragazza, lo stesso aspetto fragile e spigoloso, la sigaretta ancora perennemente accesa tra le dita (ha cominciato a fumare quando aveva nove anni, non ha ancora smesso). Dopo un lungo esilio volontario e polemico dal music business, nel 2007 s’è rifatta viva a sorpresa con un disco algido ed elegante, Shine, che il grande pubblico ha snobbato e la critica vivisezionato spaccandosi in due. Come sempre, dai tempi di The Hissing Of Summer Lawns: e stiamo parlando del 1975. Lei se la ride, perché alla chitarra e alla musica oggi preferisce il pennello e i suoi dipinti ispirati a Van Gogh (clamorosamente citato nell’autoritratto in copertina di Turbulent Indigo, 1994), ha uno zoccolo duro di fan che la adora a prescindere e una corte di colleghi che la venerano al punto di esserne in soggezione. Non ha mai fatto nulla per non tenersi a distanza dagli uni e dagli altri, non frequenta il jet set, non ascolta il pop contemporaneo e se proprio deve parlare di influenze preferisce citare Rachmaninoff, Debussy, Tchaikovsky e Paganini.

Uscì in contemporanea a Tapestry di Carole King, che vendette dieci volte tanto: le canzoni di Joni erano già troppo oneste, brutali e introspettive per essere ascoltate a un party con gli amici. All’apice del successo, quand’era la lady sofisticata del pop di Court And Spark, ebbe il coraggio di voltar pagina anticipando la world music, annotando le proprie irrequietezze sullo straordinario diario di viaggio di Hejira, flirtando con il jazz di Jaco Pastorius e Pat Metheny, di Wayne Shorter e del maestro Charles Mingus, che quasi in punto di morte le concesse l’onore di articolare

B

A tirarla fuori dallo sdegnoso silenzio in cui si era rinchiusa è stata l’indignazione per lo stato in cui versa il nostro povero pianeta, dipinto con toni niente affatto consolatori dalle nuove canzoni che parlano di Bad Dreams, brutti sogni in cui «zombie con i cellulari blaterano nei centri commerciali», maleducati al volante ti superano a destra e col semaforo rosso, balene e orsi bruni muoiono avvelenati mentre l’umanità si macchia di rosso sangue a furia di guerre sante, genocidi, odio e crudeltà. Poco da stupirsi che non sia finito tra le strenne natalizie e negli scaffali dei dischi di successo nei supermercati Wal-Mart. Con quella sua aria angelica, Joni è sempre stata un carattere di ferro, una che va dritta per la sua strada. A nove anni, nel natio Canada, contrasse la polio (come Neil Young) e cominciò a cantare per resistere alla disperazione dei lunghi mesi in un letto d’ospedale. A ventidue, folk singer girovaga,

Non frequenta il jet set, non ascolta il pop contemporaneo e se proprio deve parlare di influenze, cita Rachmaninoff, Debussy, Tchaikovsky e Paganini

fu costretta ad affidare in adozione una figlia che non aveva i mezzi per mantenere. Doppio happy ending perché alla malattia è sopravvissuta senza handicap fisici e con la sua bambina, Kilauren, si è finalmente ricongiunta e riconciliata undici anni fa.

Una scorza dura, Joni, e pensare che un tempo era la dama gentile del pop folk e del movimento hippie, una miss della controcultura speculare alla Grace Slick dei Jefferson Airplane: lei bionda e con i capelli lunghi e lisci, l’altra mora e riccia, lei eterea e l’altra sanguigna, lei soave e poetica, l’altra mordace e trasgressiva. Joni fece subito innamorare David Crosby (produttore del suo primo album, Songs To A Seagull nel 1968) e Graham Nash, che le dedicò alcune delle sue più belle

prendeva il potere diventando «la più avida nella storia degli Stati Uniti». Si trasformò in cantautrice “politica”, sfornando dischi pamphlet che acchiappavano le orecchie dei soliti fedelissimi e niente più. Fino a quando, disgustata dall’industria discografica che fabbrica divi di plastica, decise di mollare. L’evento scatenante? «Avevo fatto un’intervista con la rete televisiva VH1 in cui dovetti rimanere cinque ore su uno sgabello a rispondere a una fila di domande», ha spiegato nel 2007 alla rivista inglese Word. «Dopo qualche giorno mi capitò di vedere in tv un soldato che era stato prigioniero di guerra in Vietnam e nella prima guerra del Golfo: lo torturavano obbligandolo a stare seduto su una sedia per ore e ore finché non diceva quello che volevano sentirgli dire. Era la stessa sensazione che avevo provato io».

È tornata, ma non è cambiata di una virgola. Continua a odiare critici e giornalisti (“ti vogliono ingabbiare in un deter-

In questa pagina l’artista Joni Mitchell, che un mese fa ha compiuto 65 anni. Nel 2007 era tornata alla ribalta con l’album “Shine”, che il grande pubblico ha snobbato e la critica vivisezionato spaccandosi in due

e tenere canzoni d’amore, Lady Of The Island e Our House (venne ricambiato con Willie, il nomignolo con cui era noto il musicista). Con Woodstock, ode al celeberrimo festival del 1969 cui non partecipò per una sciagurata decisione del suo manager, seppe cristallizare come nessun altro quel tempo e la sua effimera utopia. Due anni dopo, con l’irraggiungibile Blue, creò dal nulla il genere autoconfessionale su cui Tori Amos, Fiona Apple e tante giovani epigone campano tutt’ora.

in testi e canzoni alcune sue composizioni musicali. A quarant’anni, con Wild Things Run Fast (a quei tempi, 1983, risale anche il suo unico tour in Italia), cominciò a guardarsi nostalgicamente indietro, ricordando il Chinese Cafè dove lei e l’amica Carol vivevano di sogni e pochi spiccioli. Poi si accorse che anche il mondo intorno era cambiato, divorato dal «sesso che uccide» (l’Aids) e dall’ingordigia che distrugge il pianeta, mentre la sua generazione, reduce da Woodstock,

minato periodo storico, passati quei dieci anni per lo faresti meglio a morire”) e il mainstream è un ricordo lontano. Joni ha una spiegazione anche per questo: “I miei accordi sono insinuanti, i giovani bianchi hanno paura di farsi sorprendere a piangere come delle ragazzine. Con le donne, i maschi gay e quelli di colore non ho questo genere di problema”. Altera e altezzosa come d’abitudine, sa bene come stanno le cose: è la musica pop ad avere ancora bisogno di lei, non il contrario.


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da ”the Guardian” del 09/12/2008

Piove, industria alla sbarra di David Adam e Afua Hirsch rrivano buone notizie a proposito della class action, la capacità per interessi collettivi di difendersi in tribunale. Molto presto sarà possibile citare in giudizio le società petrolifere ed elettriche per essere la causa dei cambiamenti climatici che stanno devastando il pianeta.

A

Myles Allen, un fisico della Oxford University, ha dichiarato come si stato fatto un passo fondamentale per lo studio dell’origine antropica degli sconvolgimenti ambientali. Specialmente quelli che producono eventi atmosferici «estremi». Nel prossimo decennio potremmo assistere ad una vera e propria corsa nelle aule giudiziarie. «Stiamo per quantificare, con una certa approssimazione d’esattezza, quale attività umana abbia contribuito e in che misura ad un evento climatico», continua l’esperto inglese. È questo il punto nodale per vincere una causa davanti a un giudice: poter documentare danni e responsabilità. Durante le alluvioni del Duemila, in Gran Bretagna, furono danneggiate le proprietà di 10mila sudditi inglesi, le autostrade chiuse al traffico e oltre 11mila furono gli sfollati. Con il metodo elaborato dal team del professor Allen è stato stabilito un danno totale per 1 miliardo di euro. Lo studio sta per essere pubblicato, ragion per cui da Oxford non si vuole ancora commentare. Sta di fatto che il lavoro d’analisi potrebbe essere la base per passare la palla alle toghe. Il metodo, semplificando, si basa su due modelli di calcolo. Un primo che non tiene conto della rivoluzione industriale e quindi dell’aumento, da più di un secolo, dei livelli di anidride carbonica. L’altro, invece, dove vengono inseriti i dati dell’intervento umano. Comparando i due studi si ottiene il risultato

voluto. «È solo una questione di potenza di calcolo e oggi è alla nostra portata» ha affermato Allen. Non solo, ma il rischio che si producano ondate di calore come quella che ha investito il continente europeo nel 2003, provocando 27mila morti, raddoppia grazie all’attività antropica. In quel caso non fu intrapresa nessuna azione legale, ma a causa del fatto che la maggior parte dei decessi è avvenuta in Francia, dove non è ancora possibile avviare azioni di questo genere. Il punto è arrivare a dimostrare che le probabilità di un evento climatico disastroso siano almeno raddoppiate grazie all’intervento umano. A quel punto gli avvocati sono interessati a scendere in campo. Peter Roderick, direttore del programma Climate Justice, ha affermato che la strada sarebbe quella della dimostrazione di un «comportamento illecito» da parte delle società coinvolte. Negli Usa, ad esempio, si è tentato più volte di portare nelle aule giudiziarie le società automobilistiche, senza successo proprio per questa mancanza. Se non violano esplicitamente delle leggi i tribunali americani non si muovono. Il Nepal sarebbe uno Stato candidato per una richiesta di risarcimento danni climatici. Col peggioramento degli eventi atmosferici aumenta sempre di più la possibilità che si possa intervenire giudizialmente. È solo questione di tempo prima che partano le prime class action, secondo il parere dei

legali del settore. Stephen Tromans, avvocato, specialista in diritto ambientale, ammette però quanto sia difficile stabilire un nesso di causalità diretto: «oggi si può stabilire un nesso immediato, con i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, meno facile è far un collegamento con un settore industriale o con una società specifica».

Comunque esistono dei precedenti legali in Inghilterra. Nel caso del mesotelioma, (è una neoplasia che origina dal mesotelio, lo strato di cellule che riveste le cavità sierose del corpo, ndr) ci sono sentenze che legano questo tumore all’ambiente lavorativo e hanno permesso il perseguimento dei datori di lavoro. In questo caso è stata fatta un’eccezione alla regola del «nesso diretto», per evitare che ci fosse una lampante ingiustizia. Un altro fronte che potrebbe aprirsi è il finanziamento della disinformazione a mezzo stampa e media, che negli Usa, è stato promosso dalle grandi aziende.

L’IMMAGINE

Gli effetti collaterali della globalizzazione si fanno sentire nei nostri piatti Ormai è un ciclo, lo sappiamo: una volta tocca alle mucche, una volta ai polli, questa volta è toccato ai maiali. Il mondo globalizzato significa anche che i nostri piatti possono essere avvelenati, magari da un allevamento che è dall’altro capo del mondo. Non sappiamo alla lettera che cosa mangiamo e che cosa arriva nel nostro piatto. È un ennesimo paradosso della nostra condizione globale: invece di saperne di più, ne sappiamo di meno. La nostra dovrebbe essere la società dell’informazione, della conoscenza, della scienza. In una sola parola dovrebbe essere la società trasparente. Invece, il sogno della trasparenza si è presto convertito nell’incubo della opacità. Un tempo sapevamo cosa mangiavamo e conoscevamo chi produceva i nostri prodotti. Oggi, invece, non conosciamo chi produce e come lo produce. Dovremmo riflettere sugli effetti collaterali della scienza applicata all’alimentazione.

Diletta Principe

I VANTAGGI DELLA SOCIAL CARD Penso che la social card sia vantaggiosa, visto che durerà tutto l’anno, verrà ricaricata automaticamente ogni due mesi e chi acquista con quella carta nei negozi convenzionati avrà pure diritto agli sconti. Non capisco quindi perché la sinistra definisce la carta acquisti un’elemosina di Stato.

Ruggiero Vincenzini

SEI UN ROM? PUOI MENDICARE Secondo la Cassazione non incorrono in alcun reato quei genitori rom che fanno mendicare i loro figli magari piccolissimi perché da loro usa così. Ma da noi no. Come possono usanze e/o leggi di altri Paesi scavalcare le nostre? Tanto varrebbe permettere ai musulmani in Italia di laida-

re le loro mogli, figlie o srelle, in caso di adulterio: da lor usa così

Mario

VIVA LA RAI MA SOLO SE IMPARZIALE Visto che la Rai fornisce un servizio pubblico alla pluralità degli utenti, provveda affinché i tg nazionali e regionali siano sempre improntati a criteri di assoluta imparzialità.

Giorgia Carresi

DATE IL BUON ESEMPIO, TAGLIATEVI LO STIPENDIO Troverei onesto e socialmente corretto che i nostri politici stabilissero di comune accordo di diminuirsi volontariamente le proprie remunerazioni, troppo alte rispetto agli altri Paesi d’Europa.

Simone Grissini

Massaggi striscianti Un massaggio rilassante senza creme e oli profumati. L’ultima tendenza in fatto di benessere è farsi cospargere di serpenti di piccole e medie dimensioni. È un rimedio infallibile contro lo stress e in più la leggera pressione delle serpi scioglie i muscoli, rigenerando corpo e mente. L’inventrice è Ada Barak, proprietaria di una beauty farm israeliana e il trattamento costa circa 50 euro L’ESPLOSIONE DEMOGRAFICA E LA DOTTRINA INTERNAZIONALE Con l’esplosione demografica, la natura e l’istinto prevalgono sulla ragione. L’esplosione demografica è il tema centrale del quale non si parla mai, e che rende necessaria la diffusione della contraccezione. Al vertice della Fao i leader dimostrino coraggio: la vera sfida è contenere l’esplo-

sione demografica. Un sito internet fornisce il numero della popolazione terrestre in tempo reale, che ora ammonta a oltre 6,7 miliardi. Per generale accordo fra demografi e populazionisti, la popolazione mondiale abbisogna d’essere stabilizzata o ridotta. Occorre intensificare l’educazione, incrementare e consolidare la pianificazione familiare e contra-

stare le migrazioni clandestine. Anche la popolazione italiana di 60 milioni di persone (resa crescente dall’immigrazione) supera la “portata”del territorio: è eccessiva, insostenibile ed ecologicamente incompatibile. La sovrappopolazione rappresenta una minaccia per l’ambiente, la libertà e ogni cosa a noi cara.

Franco Niba


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Una indissolubile catena avvinta intorno all’anima Mia adorata amica. Non chiedo che tu mi risponda; le tue occupazioni non ti lasciano tempo di scrivere: non ti sdegnare dunque s’io ti scrivo; non ti chiedo se non che tu abbia la pazienza di leggere le espressioni dei miei sentimenti per te. Ho bisogno di dirti ch’io t’amo, di ridirtelo, di giurartelo; e in quelle ore ch’io passo in casa tua, non mi è mai dato di star libero, e solo con te un istante. Sì, io t’amo! O era d’uopo ch’io non tel dicessi mai, o è forza ch’io tel ripeta ogni giorno. Se tu sapessi la febbre che ho nel cuore, se tu sapessi come la tua immagine, i tuoi sorrisi, i tuoi detti, sempre scolpiti nella mia mente, mi fanno continuamente palpitare; se tu sapessi come i miei sonni sono turbati e brevi da che ho - non so se debbo dire la fortuna o la sciagura di conoscerti - tu mi compiangeresti, o Gegia! Io sono in uno stato di pena inesprimibile. Perché mi hai vietato di ripartire per Torino? Questo tuo divieto, e le tenerissime parole di amicizia che ti compiacesti di dirmi m’inondarono per un momento il cuore di gioja; ma a questa gioja succede un turbamento maggiore di prima. Sì, io t’amo più di prima, io ardo ogni dì più. Dal punto in cui ti ho svelato il segreto del mio povero cuore, mi sembra che una nuova indissolubile catena mi si sia avvinta intorno all’anima. Silvio Pellico a Teresa Bartolozzi

ACCADDE OGGI

DI QUALI DIRITTI PARLA BENEDETTO XVI? «Per le popolazioni sfinite dalla miseria e dalla fame, per le schiere dei profughi, per quanti patiscono gravi e sistematiche violazioni dei loro diritti, la Chiesa si pone come sentinella sul monte alto della fede». Questo è quanto ha affermato Benedetto XVI durante l’Angelus. Ma di quali diritti parla, chi sono coloro che potranno essere tutelati dalla sentinella della Chiesa? Probabilmente il Papa era distratto in questi giorni e non si è accorto o non gli hanno riferito che un suo colonnello ha detto cose contrarie riguardo il diritto di rimanere in vita e vivere in libertà degli omosessuali. Ma si sa, i rappresentati della Città dl Vaticano ci hanno insegnato che ci sono discriminazioni giuste ed ingiuste, quindi tra i diritti di cui sono sentinella non rientrano quelle dei omosessuali, che subiscono giuste discriminazioni. Per noi le discriminazioni sono sempre ingiuste, ed i diritti sono universali, anche quando interessano persone che hanno idee e convinzioni diverse dalle nostre.

Luca Maggioni

REGOLAMENTARE INTERNET Scrivo in merito alla polemica sulla volontà mostrata da Berlusconi di regolamentare internet.Tendenzialmente sarei contrario, essendo, secondo me, internet il luogo dove si può discutere senza censure e violenze fisiche. Tuttavia devo dire che non sempre internet rappresenta la libertà, e

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

10 dicembre 1948 Approvazione della Dichiarazione universale dei diritti umani promossa dalle Nazioni Unite 1953 Albert Schweitzer ottiene il Nobel per la pace 1975 Andrei Sakharov vince il Premio Nobel per la pace che ritira sua moglie 1978 Menachem Begin e Anwar Sadat vincono il Premio Nobel per la pace 1983 Il Premio Nobel per la pace va a Lech Walesa 1984 Desmond Tutu è il vincitore del Nobel per la pace 1986 Nobel per la pace a Elie Wiesel 2000 Afar (Etiopia): Un team di ricercatori trova i resti fossili di un Australopithecus afarensis. Lo scheletro appartiene ad una bambina di tre anni, che viene battezzata Selam, nome che in varie ligue etiopiche significa “pace” 2001 Kofi Annan vince il Premio Nobel per la pace 2007 Dopo 19 anni, i Led Zeppelin si riuniscono alla O2 Arena di Londra per un concerto in memoria di Ahmet Ertegun. Il posto di John Bonham è preso dal figlio Jason.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

ancor meno la verità. In questi ultimi anni è sempre più in voga il sito di wikipedia, l’enciclopedia a cui tutti possono contribuire. Wikipedia cresce ogni giorno di più e diventa il punto di riferimento dei navigatori: è sempre in cima ai risultati dei motori di ricerca. Questo però gli dà un grande potere, un potere pericoloso. Chi conosce il suo funzionamento sa quanto possa essere suscettibile a infiltrazioni e egemonizzazioni. Questo perché ci sono dei moderatori eletti dagli iscritti, che formano tra di loro un “branco”. Se un utente viene preso di mira da un moderatore non ha possibilità di ottenere aiuto da altri moderatori, in quanto “tra cani grossi non si mordono”. Inoltre, quando un utente viene espulso, per i motivi più svariati, spesso anche ingiusti, non ha nessuna possibilità di ottenere spiegazioni, in quanto viene a priori censurato ogni suo intervento: se questo è il concetto di libertà e di giustizia…

Lettera firmata

dai circoli liberal

CERCASI LEADER DISPERATAMENTE Il termine “leader” è quasi intraducibile nella nostra lingua. La traduzione dovrebbe essere “capogruppo”,“dirigente”. Ma,obiettivamente, non c’è nel nostro linguaggio un vocabolo che in qualche modo riesca ad esprimere il concetto di leader compiutamente. Nel nostro dizionario non troviamo un vocabolo così denso emotivamente come “leader”. Il concetto di guida, d’essere di esempio, di saper guidare convincendo e motivando non riesce ad essere espresso in un’unica parola. Forse “condottiero”,“duce”… In ogni caso, per noi il capo è uno che ti obbliga a fare una cosa e basta. Una coercizione che viene dall’altro e che non nasce per meriti all’interno del gruppo, della squadra. Noi cerchiamo chi ci guida, ma non per raggiungere un obiettivo comune, vincere, dare un miglior servizio; cerchiamo e riconosciamo il capo che ci permette di fare i nostri interessi. Siamo una comitiva di turisti che vogliono una guida che ci consenta di pensare ai fatti nostri, come l’andare a mangiar un panino quando ne abbiamo voglia e che si fermi o venga a cercarci quando ci stacchiamo dal gruppo per fare i nostri comodi. Cerchiamo insomma il capogruppo compiacente e non il leader di una squadra. La cosa tragica è poi che siamo convinti che faccia parte del nostro Dna e cioè che non si può porre rimedio a questo difetto. L’alternativa è appunto solo il capo autoritario, il duce. Non è così. Dipende solo ed esclusivamente da chi ha il potere e la leadership nel Paese. Il leader è prima di tutto un educatore, è colui che in qualche modo ci fa capire prima di tutto come dobbiamo essere e come dobbiamo pensare per raggiungere uno scopo comune. La prima dote quindi non è l’intelligenza, ma l’onestà intellettuale. Che poi siano due cose diverse, è tutto da verificare. Non voglio ripetere il comune ritornello relativo alle magagne del leader maximo del centrodestra. A sinistra non stanno certo meglio. Il conflitto di interesse in economia tra partito, informazione, banche e cooperative è la ragione per cui ha retto il conflitto di interesse di Berlusconi. Ma anche nelle piccole cose: i figli di leader di sinistra non frequentano scuole statali italiane e i loro papà polemizzano sulla Gelmini da Vespa. Come può un leader essere tale, cioè educare per comandare, se non dà l’esempio? Perché Di Pietro non pubblica la cronologia della sua vita universitaria?Come posso avere ancora il dubbio di come si sia laureato il padre degli eccessi di tangentopoli? Insomma non si può trovare il modo finalmente di avere a guida del nostro Paese prima di tutto delle persone normali? Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R DE NO N E

RIPRISTINARE LO “SCALONE“ MARONI Oggi si è alla ricerca spasmodica di fondi per dare un aiuto a classi povere e imprese. Bene ma nessuno ricorda l’abolizione dello scalone Maroni sull’età pensionabile che ci avrebbe allineato ai nostri partner europei e che costa alle casse dello Stato (Inps) circa un miliardo di euro all’anno. Sodi che invece potevano costituire un fondo di risorse per chi precario o no perde il posto di lavoro.

Un pensionato

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

APPUNTAMENTI LA RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL DI VENERDÌ 12 DICEMBRE SLITTA A VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11

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PAGINAVENTIQUATTRO Religione. A Mosca, solenni funerali per il Patriarca ortodosso russo

Putin s’inchina a

ALESSIO II ultimo saluto Alessio II ha avuto la forma solenne del funerale nella grande cattedrale di Cristo Salvatore. Una folla di persone si sono messe in fila per baciare il volto coperto da un velo bianco (come vuole la tradizione) del primo patriarca del dopo-Urss.

L’

Un evento durato sei ore e raccontato da una lunga diretta televisiva, come non era mai successo per il capo della chiesa russa, e con un parterre di invitati e celebranti altrettanto inedito: erano presenti i patriarchi delle varie Chiese ortodosse e i massimi esponenti politici e del mondo imprenditoriale russo: in prima fila, il presidente russo Dmitri Medvedev e il premier Vladimir Putin, accompagnati dalle mogli Svetlana e Ludmila. Per la Chiesa cattolica c’erano i cardinali Walter Kasper e Roger Etchegaray. Non poteva mancare monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Narni-Terni-Amelia e responsabile della Commissione Cei per il dialogo interreligioso. «È stato un momento estremamente commovente - racconta a liberal. Da questa notte, sotto la pioggia, una fila incredi-

di Francesco Rositano bile di persone con il freddo pungente che facevano la fila per salutare il Patriarca. C’è stata una grande celebrazione con la partecipazione di tutte le Chiese ortodosse anche di quelle dell’antico oriente, dei cattolici, di protestanti, anche degli ebrei e delle massime autorità non solo della Federazione russa ma anche degli Stati vicini». Monsignor Paglia, conosceva da tempo Alessio II e l’aveva incontrato più volte. L’ultima ad ottobre. «Ricordo - prosegue - che avevamo parlato di diversi problemi: l’Europa, il cammino comune da compiere cristiani e ortodossi». Poi, aggiunge: «In particolare ricordo una cosa: la tenerezza nel tenermi per mano ed accompagnarmi che a ripensarci ora aveva come il sapore di un presentimento dell’ultimo abbraccio, dell’ultimo saluto». Ma chi era Alessio II? Per monsignor Paglia «è stato un patriarca che ha traghettato la Chiesa dalla schiavitù di un regime oppressivo, finanche persecutorio, ad una Chiesa che ha riacquistato la sua forza - sia interiore che esteriore - e oggi i funerali hanno testimoniato la nuova realtà della

chiesa ortodossa russa». Una realtà complessa che ha spinte contrastanti al proprio interno e che quindi dovrà trovare certamente una posizione autorevole sia nel contesto delle chiese ortodosse sia nel dialogo con la Chiesa cattolica e con il mondo protestante. Molto, comunque, dipenderà dal successore di Alessio. Al momento in pole position c’è Il metropolita di Smolensk e Kaliningrad, Kirill (al secolo Vladimir Gundiaev), “ministro degli esteri“ del patriarcato ortodosso russo. Kirill, 47 anni, è giovane ed è stato l’interlocutore principale per la Chiesa cattolica, ha incontrato il Papa: sarebbe probabilmente disposto a ripetere l’incontro anche in veste di Patriarca, legando così anche il suo nome alla storia.

Un dialogo che secondo monsignor Paglia, «nonostante le differenze anche robuste» si può rafforzare ancora di più ripartendo dall’impegno comune «a difendere quei valori che sono nel cuore stesso dell’Europa: la tutela della famiglia e della vita, la lotta al relativismo. In questo papa Benedetto XVI aveva trovato in Alessio II un grande alleato».


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