ISSN 1827-8817 81211
Tutti gli uomini sono pazzi,
he di c a n o r c
e chi non vuole vedere dei pazzi deve restare in camera sua e rompere lo specchio Alphonse De Sade
9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
La parole di Napolitano e del Vaticano per i sessant’anni dei diritti dell’uomo
La Carta è quasi straccia. Muoviamoci a Carta universale dei diritti umani compie sessant’anni sommersa di retorica. Forse è banale dire che l’inferno è lastricato di buone intenzioni, ma è vero mai come in questo caso. Le buone intenzioni non bastano più: noi di liberal lo diciamo da tempo (e lo abbiamo ripetuto in questi giorni) e perciò dovremmo essere soddisfatti delle opinioni espresse ieri sia dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sia dal Segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. Entrambi hanno lanciato un grido d’allarme per come i diritti, nel mondo, in realtà siano calpestati quotidianamente, fra torture, pulizie etniche, terrorismo, pena di morte. In realtà c’è poco da essere soddisfatti, perché il panorama è ormai troppo nero. Anzi, rosso di sangue innocente. Che cosa deve succedere, ancora, perché i governi si muovano davvero?
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S E R V I ZI A P A G I N A
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di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’ISTAT CERTIFICA: LA CRISI È ANCORA PIÙ GRAVE Crolla la produzione industriale, cala ancora il Pil. Eppure Berlusconi continua a spacciare falsa tranquillità. Mentre Epifani pensa che uno sciopero possa risolvere qualcosa. Un Paese serio unirebbe le forze per decidere un piano comune contro la recessione...
Gli opposti ottimismi
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Sì o no all’opposizione? I dilemmi del Cavaliere
alle pagine 2 e 3
di Errico Novi a pagina 11
La Chrysler “nazionalizzata”
L’Ue decide sull’ambiente mentre da noi cresce l’inquinamento
Non copiamo l’America statalista
Italia, un gran brutto clima Dal 41° al 44° posto nella classifica dei paesi più “puliti”
di Carlo Lottieri
di Enrico Singer untuale come un treno tedesco, alla quattro anni d’anticipo gli obiettivi di Kyoto. vigilia del vertice europeo sul clima Questi dati, anche se ben noti agli esperti, fanche si apre oggi a Bruxelles, da Berlino sempre scalpore. Ma, soprattutto, servono a no è arrivata la classifica dell’inquispiegare perché attorno al Consiglio europeo di namento atmosferico che divide il mondo in oggi e domani c’è tanta tensione. La Ue vuole buoni e cattivi. E che piazza l’Italia nel giromettere nero su bianco il “dopo-Kyoto”: vuole ne dei grandi inquinatori: al 44° posto di fissare i prossimi impegni sintetizzati nella foruna scala che mette il peggiore al 57° gradimula “20-20-20” che significa ridurre del 20 per no (l’anno scorso eravamo almeno al 41°) in cento le emissioni di Co2 e incrementare del 20 compagnia di Cina e Polonia. La statistica per cento le fonti di energia pulita entro il 2020. L’Italia scende di German Watch - una specie di LegamSempre prendendo come riferimento di partenal 44° posto fra i paesi biente tedesca - si riferisce agli obiettivi del za il 1990. Ed ecco svelato l’apparente arcano industrializzati Protocollo di Kyoto: quelli che chiedevano al delle resistenze italiane: non avendo realizzato meno inquinanti nostro Paese di ridurre entro il 2012 del 6,5 gli obiettivi di Kyoto, per il nostro Paese quel 20 per cento le emissioni di Co2 rispetto al livello del 1990 e che per cento diventa un 32 per cento. Come dire un obiettivo irsono stati clamorosamente mancati perché oggi l’Italia è a realizzabile e una spesa che l’industria considera penalizquota più 12 per cento. In pratica, non solo non ha ridotto, zante. C’è da scommettere che a Bruxelles si troverà un comma ha aumentato le emissioni di gas serra. Inutile dire che promesso. Ma non la soluzione del problema. la Germania è al primo posto tra i buoni e ha centrato con se gu e a p ag in a 4
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seg2008 ue a p•agEin a 9 1,00 (10,00 GIOVEDÌ 11 DICEMBRE URO
CON I QUADERNI)
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NUMERO
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come se, all’improvviso, il mondo si fosse messo a funzionare alla rovescia. Il piano colossale (ben 15 miliardi di dollari!) approvato a Washington con l’obiettivo di sostenere l’industria automobilistica nazionale (leggi GM e Chrysler), s’aggiunge al progetto predisposto nelle scorse da Henry Paulson, per salvare le banche. Un’economia tradizionalmente basata sulle sagge regole del mercato, insomma, nell’arco di un trimestre si è mostrata pronta ad accettare logiche alquanto stataliste, da cui potrebbe uscire un qualcosa di inedito per la storia degli Usa: un apparato manifatturiero direttamente controllato dal potere pubblico tale da ricordare l’Alfa italiana o la Renault francese degli scorsi anni).
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• CHIUSO
s eg ue a pa gi na 23 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Istat. I dati resi noti ieri sono peggiori del previsto: il prodotto interno lordo ormai è sceso a -0,9%
La catena di smontaggio Crolla la produzione industriale e cala ancora il pil: la crisi si aggrava E, mentre il governo ostenta ottimismo, la Cgil sceglie lo scontro di Francesco Pacifico
ROMA. Il raffreddamento della domanda interna (+0,1 per cento nell’ultimo trimestre) ha effetti catastrofici sulla produzione industriale. Che, seppure in calo da quasi quindici anni, ha segnato a ottobre il minimo dal dicembre 1996. Stando alle rilevazioni dell’Istat, a ottobre è calata del 6,7 per cento rispetto a dodici mesi prima e dell’1,2 rispetto al settembre scorso. Numeri questi che confermano il peggioramento della recessione in atto in Italia dal secondo trimestre. Se in questo lasso di tempo il Pil è calato dello 0,4 per cento, e tra luglio e settembre dello 0,9, l’ultimo trimestre del 2008 potrebbe chiudersi con un altro -0,8. Questa almeno la stima fatta ieri dal centro studi di Confindustria, che ha messo assieme la congiuntura negativa dell’industria per produzione e ordinativi, la debolezza del terziario e i timori sul breve e medio termine. Guardando i dati sull’industria il responsabile dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, si è inserito nel filone dell’ottimismo tracciato dal premier Berlusconi. «È un momento difficile, ma non credo che vada aggiunto un allarme continuo per ogni nuovo dato che esce. Non c’è nulla di più che non fosse prevedibile». Ma gli stessi dati hanno spinto il ministro ombra dell’Economia, Pier Luigi Bersani, «a chiedere un incontro a Tremonti per valutare misure che muovano un punto di Pil».
Proprio per provare a rendere più corposo il piano anti-crisi di Tremonti, i parlamentari del Pdl incontreranno questa mattina il ministro dell’Economia. C’è la voglia di aumentare di almeno tre miliardi di euro la dotazione del pacchetto, soprattutto sul versante degli ammortizzatori sociali, sempre più indispensabili dopo il crollo della produzione industriale. I ministri Scajola e Matteoli pressano per rinnovare gli incentivi all’auto – guarda caso il settore più colpito in questa fase – e chiedono uno stanziamento da 300 milioni. Ma dal Tesoro frenano e confermano la linea del rigore. Non a caso, ieri al Senato, il sottosegretario Giuseppe Vegas ha fatto sapere che l’Unione europea «considera molto rischioso un eventuale sfonda-
I numeri della recessione impongono un cambio politico radicale
Presidente, è arrivata l’ora del dialogo di Renzo Foa n calo così netto della produzione industriale è già di per sé un fatto eccezionale. Diventa ancora più inquietante se è l’ennesimo di una lunga serie, che si trascina ormai da anni e che rivela quanto il problema appartenga alle diverse stagioni politiche del bipolarismo italiano, al centrodestra come al centrosinistra. In realtà ieri l’Istat, con la sua comunicazione, ha solo confermato quanto già tutti sapevano sul declino del Paese e sulla malattia del suo sistema produttivo. Ma ciò non toglie nulla al fatto che si è trattato di una comunicazione importante, soprattutto di fronte all’attenggiamento di un governo e di un presidente del Consiglio che continuano ad invitare all’ottimismo e di fronte allo sciopero generale convocato per domani dalla Cgil. Si è accentuata infatti l’impressione che sia l’ottimismo governativo sia l’iniziativa decisa dalla confederazione di Corso Italia servano a ben poco.
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Al sindacato di Guglielmo Epifani lo sciopero serve forse a spezzare l’isolamento in cui in parte si è collocato da solo e in parte è stato schiacciato dall’esecutivo e da Cisl ed Uil. Cioè una piccola prova di forza nel rapporto tra una parte sociale e il potere politico (non secondaria è anche la vertenza che si è aperta in questa occasione nel rapporto con il Pd e che rivela tutte le incertezze e le contraddizioni in cui versa il partito di Veltroni). Mentre al governo e in particolare a Silvio Berlusconi l’ottimismo può essere utile solo sul piano della semplice ricerca del consenso, in una fase difficile come è questa. Il Paese non può certamente dirsi soddisfatto – né sentirsene rassicurato – di un passaggio che vede la più classica delle iniziative di lotta sociale contrapporsi alla più classica delle manovre psicologiche, come è appunto l’invito
ad essere ottimisti in giorni, settimane e mesi in cui le famiglie sono costrette a fare i conti con i molti problemi che tutti conosciamo. Anzi il sospetto è che si tratti di un passaggio in cui certamente all’Italia serve altro, serve qualcosa di profondamente diverso da questo strano balletto in cui da una parte – governo e maggioranza – si ha paura di riconoscere la complessità della situazione mentre dall’altra si sottolinea questa complessità ma solo – almeno così sembra – per ottenere alcuni piccoli vantaggi tattici.
All’Italia serve piuttosto uscire da questa situazione di contrapposizione un po’paradossale, che sembra giocata essenzialmente sull’immagine, l’immagine dell’ottimismo da una parte e l’immagine della “lotta dura”dall’altra. Serve passare da una fase di contrapposizione e di confronto ad una fase di ricerca del dialogo e delle intese. Non voglio sembrare provinciale se cito l’incontro che c’è stato in America tra il presidente eletto ed il candidato repubblicano sconfitto o se eleggo a modello una transizione di poteri nella quale George W. Bush fa quello che gli chiede Barack Obama. I paragoni sono difficili perché si tratta di situazioni e di congiunture molto diverse. Ma sarebbe ugualmente importante se di fronte alle forme più acute in cui questa “grande crisi”sta colpendo l‘Italia – e il crollo ulteriore della produzione industriale non può non impressionare – governo e maggioranza invitassero davvero al dialogo tutte le parti sociali e tutte le opposizioni. Sarebbe importante intanto per disinnescare atteggiamenti dannosi – tanto lo sciopero quanto questo continuo invito all’ottimismo – ma soprattutto per portare le classi dirigenti ad assumersi le responsabilità che il Paese chiede loro, con le dolorose ma indispensabili scelte per invertire un ormai troppo lungo declino.
Fonte: ISTAT
mento del parametro del 3 per cento del deficit-Pil da parte dell’Italia». Tremonti, in risposta a chi in questi giorni ha criticato il suo rigorismo, fa sapere che non ha senso sprecare tutte le pallottole a disposizione, «quando non si conosce la vera entità della crisi». Il ministro vorrebbe tenere qualcosa in cassa soprattutto per il 2009, anno per il quale si prospettano scenari allarmanti sul versante dell’occupazione.
Quindi farà quadrato sul suo piano anticrisi. E spiegherà che se arriveranno maggiori risorse dall’Unione europea l’Italia potrà aumentare le dotazioni per gli ammortizzatori sociali e le infrastrutture. Ma è difficile scommettere se questa analisi basterà a convincere i suoi colleghi ministri e una maggioranza che teme ripercussioni in relazione al proprio consenso. Qualcosa in più se l’aspetta anche l’impresa, anche perché studiando i dati sulla produzione forniti dall’Istat si scopre che il calo di produttività è più trasversale di quanto si pensi. Il comparto più colpito è quello dell’auto. A ottobre gli impianti italiani hanno visto uscire un numero inferiore di veicoli pari al 34,3 per cento rispetto a un anno fa. Non va meglio ai mezzi di trasporto (-19,1), al calzaturiero (-12,9) alla gomma (12,4) e alle materie chimiche (11,7). Tutti comparti che al netto di performance straordinarie – si pensi al rilancio Fiat avvenuto in una fase di crisi della concorrenza – da tempo faticano a stare sul mercato e necessitano di una riconversione. Così, in questa logica, finisce per preoccupare di più il calo tendenziale di un evergreen del made in italy come la produzione di apparecchi elettrici e di precisione (-10,7 per cento) o la produzione di macchine e apparecchi meccanici (-9,1). Il nerbo di quella che solitamente rientra nel comparto della meccanica, mondo che fino al terzo trimestre dell’anno scorso non conosceva la crisi e conquistava non soltanto i mercati europei come la Germania. La diversificazione ha pagato invece nel settore dei servizi. Tra i primi dieci mesi del 2008 e il corrispondente periodo del 2007 l’aumento delle materie prime ha fatto registrare un au-
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I dalemiani vanno alla manifestazione della Cgil. I veltroniani no
Anche sulla piazza il Pd si divide di Antonio Funiciello
ROMA. A parte quella morale, non c’è questione su cui ormai il Partito Democratico non si divida. Che poi sia proprio quella ”morale” la sola questione su cui quelli del Pd si compattano, mentre su tutte le questioni ”politiche” il partito risulta nettamente spaccato su due linee alternative da mesi, è una constatazione di fatto che dà di che pensare. Lo sciopero generale di venerdì prossimo indetto dalla Cgil rappresenterà l’ennesima messa in scena dell’eterno duello Veltroni-D’Alema, col primo (insieme a tutti i suoi e agli alleati popolari) a disertare le piazze e il secondo, seguendo un vecchio consolidatissimo schema, intenzionato a non partecipare, ma a mandare tutte le sue truppe e i suoi ufficiali a marciare sotto l’unica bandiera rossa rimasta, quella del sindacato di Epifani. Chi pretende dal Pd una posizione di partito chiara, non coglie nel segno, poiché nemmeno gli ex Ds davano adesioni di partito a manifestazioni sindacali unitarie o meno. Il problema è la divisione interna su un tema delicatissimo come quello del rapporto col sindacato rosso, nucleo forte della constituency del Pd.
di Borges si legge che la poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell’universo, pure il governo ombra di Veltroni in quanto a mistero sicuramente non scherza.
I dirigenti democratici che in piazza non ci saranno sono tanti: i veltroniani Bettini, Morando, Tonini, Chiamparino, Penati; i ”giovani”Martella e Zingaretti; e poi i potenti alleati popolari di Veltroni - Marini, Fioroni e Franceschini - e lo stesso Rutelli; tutti hanno espresso il loro dissenso per tempo, pur nel dovuto (e formale) rispetto dell’iniziativa che porterà per le strade italiane un milione di persone secondo gli organizzatori, milione che poi venerdì diventeranno senz’altro due per la Cgil e 100mila per gli Interni. Le motivazioni ufficiali di chi non andrà rispondono alla necessità di evidenziare come, in una fase di recessione economica globale, più che protestare per strada il Pd deve soprattutto battagliare in Parlamento e sui media per mostrare le cure alternative che somministrerebbe alla claudicante Italia se fosse al governo. Ma c’è dell’altro. Veltroni vuole rafforzare la percezione che D’Alema sia ormai diventato il capo della sinistra interna del partito. Questa la ragione per cui non ha osteggiato l’adesione di massa dei più importanti ufficiali dalemiani allo sciopero, ma anzi ha guardato con sollievo ad una scelta tanto militante. È evidente che, forte della distanza (sua e dei suoi) dall’iniziativa del sindacato rosso, potrà con agio avocare a sé il ruolo di difensore dell’unità sindacale contro le forzature massimaliste, strizzando l’occhio alla Cisl di Bonanni. Certo, uno schiacciamento a sinistra dei dalemiani produrrebbe un’erosione della maggioranza interna che lo sostiene. Tuttavia è indubbio che una maggioranza più risicata a sostegno della sua segreteria risulterebbe politicamente più coesa. Un cambio di strategia che potrebbe garantirgli la riconferma alla guida del Pd anche dopo le difficili prove elettorali della prossima primavera.
Anna Finocchiaro e Bersani saranno in prima fila. Insieme a Fassino e a Damiano. Invece Bettini, Morando e Franceschini rimarranno a casa. Con Rutelli e Fioroni
Fonte: ISTAT mento nel settore dell’energia elettrica, del gas e dell’acqua pari al 2,9 per cento. Se poi si vuole capire qualcosa in più sulla propensione di spesa degli italiani, non a caso calano meno i beni di consumo (-4,5, tra l’altro cresciuti tra settembre e ottobre del 1,1) e quelli per l’energia (-3,5). Quindi un altro campanello d’allarme per un’industria come la nostra che fatica a competere con gli stranieri sui beni durevoli. Nel mirino infatti non ci sono soltanto la congiuntura internazionale o la difficoltà dei governi che si sono succeduti in questi anni ad accompagnare le riconversioni industriali o, in
questa fase, a lanciare le misure giuste per riattivare i consumi. Nel mirino finisce anche l’impresa privata che in Italia investe in ricerca e sviluppo lo 0,4 per cento all’anno, la metà di quanto fa lo Stato e lontano dal 2 per cento previsto dall’Agenda di Lisbona. Così ieri Confindustria e Cnr hanno stretto un’alleanza per progetti di sviluppo comuni. Emma Marcegaglia ha ricordato l’importanza «di un ambiente favorevole agli investimenti privati». Il presidente del Cnr Luciano Maiani ha promesso che il suo istituto sarà sempre «più attento al risultato delle ricerche e alle loro applicazioni concrete».
Il comparto più colpito è l’auto, crollato del 34,5 per cento. Tremonti stoppa le modifiche al piano anticrisi
In piazza venerdì ci saranno naturalmente Rifondazione Comunista (da Ferrero a Vendola), i transfughi mussiani di Sinistra Democratica e i Comunisti italiani dell’immarcescibile Diliberto. Non mancherà il re degli ultimi sondaggi Tonino Di Pietro. Come ai tempi della candidatura al Mugello, con Di Pietro ci sarà una pletora di ex Pci-Pds-Ds-Pd di primissimo piano. Anzitutto, il ministro ombra dell’economia Bersani - non proprio l’ultimo della fila - che con enfasi operaista ha dichiarato che «un partito che vuole essere popolare deve tornare tra i lavoratori». Quindi il capo dei senatori del Pd Finocchiaro che ha detto stupita: «Certo che vado. Non mi ero neppure posta il problema se andare o meno», anche se forse sarà costretta a porselo, il problema, visto che venerdì in Senato si vota la Finanziaria. Con loro ci saranno Fassino, Cofferati («di certo il mio cuore» ha precisato, lui magari ha da fare in Comune a Bologna) e Livia Turco: tutti insieme appassionatamente. Si fa per dire, perché alla compattezza della componente democratica Pci-Pds-Ds-Pd, ne risponde altrettanta nel più numeroso fronte interno che diserterà lo sciopero cigiellino. A farci le spese, purtroppo, il solito governo ombra di Veltroni, che ricorda parecchio lo sfortunato secondo governo Prodi. Se difatti il titolare ombra dell’economia Bersani andrà, il suo vice D’Antoni con delega al mezzogiorno non ci pensa nemmeno. Se il vice ministro ombra del welfare Damiano ci sarà, il titolare ombra del dicastero Enrico Letta ha già fatto sapere di essere contrario alla protesta. Se il capo della Farnesina ombra Fassino parteciperà, si sa già che il responsabile dell’area esteri del partito Pistelli sarà assente. Insomma, se nell’Elogio dell’ombra
mondo
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Ambiente. L’Italia produce sempre più gas serra: più 9 per cento dal 1990. I limiti di Kyoto (-6,5% di emissioni) ormai sono lontanissimi
Un gran brutto clima Pubblicata la classifica di German Watch e Legambiente Il nostro Paese scende ancora: è dietro a India e Brasile di Pierre Chiartano
ROMA. È proprio il caso di affermare che si respira un brutto clima in Italia. Perché? Siamo nella bassa classifica di un rapporto sui 57 Paesi che più inquinano l’atmosfera. Lo studio è di German Watch e mette in ordine, dai più virtuosi agli ultimi della classe, coloro che emettono i gas serra, prima di tutto l’anidride carbonica.
Ci dobbiamo preoccupare visto che l’anno scorso eravamo al 41° posto e oggi siamo scivolati al 44°? Secondo Legambiente – che ha contribuito alla stesura del documento - sicuramente sì, perché è la politica dell’attuale governo ad allontanarci sempre di più dagli obiettivi degli accordi di Kyoto. Il premier Berlusconi non ne ha mai fatto mistero: meglio pensare all’economia – già in crisi – piuttosto che caricare di un ulteriore fardello le industrie europee. E dare un vantaggio oggettivo in più a quei Paesi, come la Cina, che si preoccupano poco dell’ambiente. Comunque ci sarebbe in gioco la credibilità europea sulla materia, visto che discuteremo in questi giorni, fino a martedì prossimo, i numeri per l’applicazione del famoso 20-20-20. L’Europa si muoverà sui tre tavoli di Commissione, Consiglio e Parlamento per far approvare il cosiddetto «pacchetto». All’epoca
c’era stata qualche alzata di sopracciglio, per il fatto che fosse stato il prodotto di una riunione dei ministri dell’Ambiente della Ue. Avrebbero stabilito un nobile quanto poco credibile programma. Venti per cento di riduzione di emissioni di Co2, venti per cento di più di produzione d’energia da fonti rinnovabili e venti per cento di miglioramento dell’efficienze
Cogliati Dezza: «Non comprendiamo il governo italiano, sembra guardare al futuro con gli occhi abbassati» energetica. Quest’ultimo fattore è legato al miglior utilizzo delle fonti energetiche, al taglio degli sprechi e via discorrendo, lungo la catena dei comportamenti virtuosi e della tecnologia. Il tutto da raggiungere entro l’anno 2020, una sfida anche per i cabalisti, oltre che per ambientalisti e industrie. Gli esperti del settore giudicano intorno nell’1,3 per cento all’anno la capacità di miglioramento dell’efficienza, grazie alle ottimizzazioni tecnologiche. Quindi potrebbe essere un traguardo alla portata di molti
Paesi. Almeno avvicinabile. Altro il discorso per gli altri due «20», ovviamente. Ma leggiamo con attenzione la classifica. Meglio di noi hanno fatto India e Brasile, alle nostre spalle invece dei veri “inquinatori”, come Polonia – non a caso il vertice sul clima dell’Onu si tiene a Poznan in quel Paese – e Cina, di cui basta ricordare la cappa di smog che caratterizzava la Pechino olimpica, per considerarlo un posto meritatissimo. Poi si arriva a quelli dietro la lavagna – in castigo – che sono l’Arabia Saudita, il Canada, e gli Stati Uniti.
Le prime della classe sono Svezia, Germania e Francia. Basterebbe vedere come vengono costruite le case tedesche – super-coibentate – o leggere un capitolato d’appalto di edilizia civile, per capire perché stiano lì in alto. I 57 della classifica producono il 90 per cento della Co2 emessa nel mondo. Ma l’Italia – secondo Legambiente - ha fatto di peggio, anziché tagliare del 6,5 per cento le emissioni di gas serra le ha aumentate del 9 per cento dal 1990. Inoltre, sono stati eliminati anche il «conto energia» per la promozione del fotovoltaico e gli incentivi del 55 per cento per l’efficienza energetica. Abbiamo chiesto al presidente di Legambiente Vittorio
A destra, i ghiacci della calotta Artica che si sono sciolti ad un ritmo impressionante dal 2001 a causa dell’effetto serra. Sotto, le emissioni di Co2 industriali che sono fra i colpevoli dei cambiamentii climatici e atmosferici.
Cogliati Dezza cosa potrebbe fare il nostro Paese per risalire questa classifica. «Sicuramente ripristinare la detrazione del 55 per cento sulle ristrutturazioni edilizie, così come era stata programmata. Questo significa consentire a migliaia di cittadini di intervenire sui propri edifici scolastici, che è uno
Domani il summit per tirare le fila sulla questione ambientale
segue dalla prima
anche le resistenze della Polonia e degli altri Paesi dell’Est europeo che hanno un sistema industriale vetusto e inquinante. Ma i veri problemi verranno dopo. A partire dalla Conferenza di Copenhagen che, nell’autunno del 2009, per iniziativa dell’Onu, riunirà tutti i Paesi del pianeta nel tentativo di stringere un patto per l’ambiente. A quella conferenza la Ue si potrà presentare con il suo piano 20-20-20 anche grazie al compromesso che sarà raggiunto a Bruxelles. Ma che cosa faranno la Cina, l’India, la Russia e gli Usa che sono i veri grandi inquinatori? L’Europa cerca faticosamente di mettere d’accordo i suoi governi. Ma l’Europa non è un mondo chiuso. Tantomeno in campo ambientale dal momento che nell’atmosfera finisce il Co2 di tutti.
L’Europa cerca una mediazione e trova la ”clausola di revisione”
Il compromesso utilizzerà uno dei più classici meccanismi messi a punto dagli eurocrati quando si tratta di conciliare posizioni opposte: la “clausola di revisione”. In sostanza l’Italia otterrà che nel 2014, a metà strada del percorso del dopo-Kyoto, saranno verificati i risultati ottenuti dai singoli Paesi non per modificare gli obiettivi finali - che Nicolas Sarkozy definisce «irrinunciabili» ma per adeguare i sistemi d’incentivazione e adattare il regime di cooperazione fra Stati con la possibilità di trasferire quote di fonti rinnovabili d’energia da un Paese all’altro. L’Italia, per esempio, potrebbe far valere quanto sta realizzando nei Balcani in fatto di riduzione delle emissioni di gas ser-
di Enrico Singer ra come se lo avesse realizzato sul territorio nazionale. In buona sostanza, anche al dopo-Kyoto si potrà applicare quel “mercato delle emissioni” che è previsto nel Protocollo di Kyoto. Non solo: dal 20-20-20 verrebbero esentati i piccoli impianti produttivi - quelli che emttono meno di 500mila tonnellate di anidride carbonica l’anno - tranquillizzando buona parte dell’industria manifatturiera. Ieri, alla vigilia del vertice
europeo, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha ammesso che il negoziato sul pacchetto-clima «ha fatto dei passi avanti», anche se non ancora risolutivi perché i termini definitivi del compromesso saranno decisi soltanto a Bruxelles. È molto probabile che, ancora una volta, Silvio Berlusconi potrà parlare di un successo italiano elencando le concessioni della Ue che - sia detto per inciso - dovrebbero vincere
dei settori più arretrati in termini di efficienza energetica. Un altro intervento sarebbe quello sul trasporto su gomma privato, a favore del trasporto su rotaia, anche tenendo conto delle attuali condizioni delle ferrovie. Sostenendo gli investimenti delle Regioni in questo campo».
mondo
11 dicembre 2008 • pagina 5
Parla Daniel Cloquet, direttore degli affari industriali di Business Europe
«C’è una sola soluzione: l’energia nucleare» colloquio con Daniel Cloquet di Silvia Marchetti on è importante se l’Italia sta al 44 posto nella classifica degli Stati a maggior emissione di Co2. Per Daniel Cloquet, direttore degli affari industriali di Business Europe, l’associazione europea che riunisce la maggior parte delle organizzazioni imprenditoriali del Vecchio Continente, «quello che conta è il quadro generale. Noi non ne facciamo una questione di sistemaPaese, non ragioniamo nell’ottica di un’Europa a più velocità anche nel campo climatico. Siamo una voce sola e ci preoccupiamo della competitività dell’industria europea in generale». Domani a Potsdam si apre la conferenza sul clima, durante la quale i singoli Stati europei dovranno mettere a punto il piano della Ue contro i cambiamenti climatici e rendere così operativo il pacchetto energetico ormai ribattezzato “20-20-20”, che prevede entro il 2020 un taglio del 20 per cento nelle emissioni di CO2 e contemporaneamente un aumento analogo dell’efficienza energetica e dell’uso delle fonti rinnovabili. In Polonia ci sono anche i vertici dell’industria europea, che portano avanti con tenacia le loro richieste. Come giudicate il piano energetico? Non c’è dubbio che quello che si deciderà in questi giorni influenzerà l’avvenire dell’industria del continente. Già dallo scorso gennaio abbiamo dato il nostro appoggio al piano Ue ma ci sono alcuni aspetti che noi giudichiamo decisamente troppo ambiziosi. Quali? L’obiettivo di aumentare del 20 per cento l’uso delle energie rinnovabili è al di là delle possibilità reali e finirà con il fare lievitare il prezzo dell’energia. Occorre essere prudenti nel porsi obiettivi troppo elevati. Gli investimenti nel settore sono ancora limitati e sono pochi i Paesi davvero all’avanguardia nelle fonti energetiche alternative. Ma il nostro vero timore si nasconde altrove. Dove? Nello schema di emission trading previsto, ossia nel commercio delle emissioni di Co2 che entrerà in vigore. A noi sembra una sorta di nuova tassa che Bruxelles vorrebbe introdurre, e
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Sulle accuse che provengono dal fronte economico, cioè sulla politica ambientale che penalizza le nostre industrie, specialmente nei confronti di Paesi “inquinatori” come la Cina, il presidente di Legambiente guarda oltre i confini nazionali. «È vero che la Cina dà un contributo notevole alle emissioni di Co2, ma è sempre pari alla metà delle emissioni italiane, ovviamente in rapporto alla popolazione. Un altro dato è che l’Europa sta giocando una carta molto importante. Quella di essere all’avanguardia nella lotta agli effetti economici dei cambiamenti climatici, con una funzione antirecessiva molto evidente. Si tratta di implementare tutta una serie di settori che richiedono professionalità, innovazione tecnologica e supporto della ricerca, ma anche dei contribuiti e del sostegno da parte dello Stato. L’Europa si sta muovendo e l’appuntamento di Copenhagen, tra un anno, dovrebbe consegnarci un accordo internazionale con dentro Paesi come Cina, India e Brasile. In questo percorso positivo verso il 2009 si ipotizza anche la possibilità di aumentare la
riduzione di emissione di gas serra al 30 per cento. Siamo ottimisti, perché pensiamo che il resto del mondo vada in questa direzione. Arrivo dagli Stati Uniti, dove addirittura hanno vincolato l’eventuale sostegno all’industria automobilistica alla produzione di auto a bassissima emissione di Co2. Un segnale di un nuovo vento che dovrebbe spirare anche da noi. Per questo non comprendiamo il comportamento del governo italiano, che sembra guardare al futuro con gli occhi abbassati».
Quindi è proprio la mancanza di una strategia generale sulle politiche ambientali a spingerci sempre più in fondo alla classifica. La posizione italiana è quella di guidare il drappello di Paesi che vorrebbe porre il veto su Copenhangen. Per il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, si tratterebbe solo «di un veto politico per il rinvio» sul pacchetto 20-20-20, mentre Sarkozy vorrebbe farlo passare martedì prossimo al Parlamento europeo, per poi portarlo al Consiglio europeo, da convocare in seduta straordinaria il 30 dicembre.
per lo più ingiusta. I governi devono prestare attenzione ai rischi che corre soprattutto l’industria manifatturiera in questo delicato momento. Ciò che non ci piace affatto è l’idea di vendere i permessi di emissioni come se si trattasse di un’asta. Tempo fa abbiamo mandato una lettera al presidente Nicolas Sarkozy, nella quale esprimevamo i nostri malcontenti. Cosa chiede l’industria europea? Non vogliamo usare i nostri finanziamenti per acquistare i permessi di emissione, i soldi finirebbero nelle tasche dei vari ministeri delle Finanze. Non vogliamo essere costretti a pagare per mandare avanti le nostre attività. Gli imprenditori vogliono usare i soldi in maniera produttiva, ossia investire nel miglioramento dell’efficienza energetica e nella realizzazione di impianti più eco-compatibili. Ci siamo già impegnati a muoverci nel rispetto dell’ambiente. Quali sono i rischi all’orizzonte? L’industria europea ha un unico obiettivo: la competitività e noi chiediamo a Bruxelles di proteggerla. È inevitabile che con l’introduzione di nuovi piani climatici nazionali che rispecchiano il programma europeo si arrivi a un aumento nel costo dell’energia, soprattutto per via delle rinnovabili. In che modo vi muoverete in questi giorni cruciali? Domani aspetteremo che si arrivi a un accordo che venga incontro alle esigenze delle imprese, in base al quale verrà stabilito che i permessi di emissioni sono gratuiti e verranno gestiti a livello nazionale senza una logica commerciale. Quali Paesi, e di conseguenza quali industrie nazionali, avranno maggiori difficoltà ad adattarsi al nuovo schema? A me non piace parlare di un’Europa a più velocità. Non ci sono differenze sostanziali tra i vari sistemaPaesi europei, le industrie sono tutte molto integrate tra di loro e dipendono fortemente l’una dall’altra. Piuttosto l’unica distinzione potrebbe venire dallo sviluppo del nucleare. Vede una discriminante per alcuni? L’uso del nucleare nel breve periodo può sostenere l’attuazione del piano europeo. I Paesi che sviluppano l’energia dall’atomo saranno avvantaggiati nel taglio nell’uso del carbone, come nel caso della Francia mentre l’Italia qui potrebbe avere qualche rallentamento.
Quella sulle emissioni di Co2 è una sorta di nuova tassa che Bruxelles vorrebbe introdurre; per noi industriali è ingiusta
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politica
pagina 6 • 11 dicembre 2008
Reportage. A pochi giorni dalle elezioni, viaggio nella crisi del motore economico d’Abruzzo
A che ora è la fine del Sangro? di Marco Palombi evel è un nome che ai più non dice niente, ma per gli abruzzesi che domenica e lunedì eleggeranno il nuovo governatore è quasi un sinonimo di fabbrica. Domani la Sevel chiude per un mese, è la crisi. Quando riaprirà, il 12 gennaio, avrà perso parecchio grasso: circa 1.500 operai, tutti a vario titolo precari, su quasi 7mila dipendenti più i 2mila dell’indotto diretto, se ne staranno a casa, 1.500 ragazzi tra i venti e i trent’anni, molti sposati, qualcuno con figli e mutuo da pagare. La Sevel è simbolo e metafora della Val di Sangro e la Val di Sangro è simbolo e metafora del nuovo Abruzzo, il distretto industriale che guarda al settentrione italiano, che ha affidato al sogno dell’industria pesante l’abbandono del ruolo gregario delle sue genti e delle loro terre povere, dure e spopolate. Nella provincia di Chieti, che vale da sola oltre un terzo del Pil regionale, adesso ci sono le fabbriche, gli operai e i tecnici, i sindacati e i padroni, la gente ci viene a lavorare dalle regioni vicine e ci si ferma a vivere. E’ la Val di Sangro dei capannoni industriali, quella che non venera più lo “zio Remo”, l’ex potente dc abruzzese Gaspari, gran visir delle Poste italiane e storica, grande
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della crisi. Probabilmente è vero, ma non basta: meno margini per i gruppi meno produzione, meno volumi di produzione meno lavoro. I pezzi/giorno adesso sono poco più di mille e quindi se ne vanno a casa in millecinquecento. Ma non c’è solo la Sevel in Val di Sangro. Il grande freddo sta terremotando tutto il distretto: lo stabilimento Honda fa la settimana corta e ha diminuito la produzione del 20%, la Honeywell e la Pierburg pensano di licenziare 400 persone, la Denso del gruppo Toyota ha avviato una massiccia Cassa integrazione e, infine, la Pilkington, che produce cristalli per auto per la multinazionale Nippon Sheet Glass, ha già tagliato 120 interinali, messo in cassa gli altri e progetta di chiudere definitivamente quattro reparti (altri 100 operai a casa). E poi c’è l’indotto, uno scherzo da 12.500 addetti, un quinto dei quali dedicati esclusivamente alla produzione di componentistica per la Sevel: gente che lavora secondo il principio del just in time, capace cioè di produrre adeguandosi ai volumi della fabbrica committente. Solo che il gioco funziona al di sopra di una certa soglia, sotto un certo volume non ti ripaghi più l’investimento, la banca chiude la borsa e la fabbrica salta. La soglia minima? Ci siamo
Sopra, il candidato del Pdl alla regione Abruzzo, Gianni Chiodi, e l’avvocato Carlo Costantini, deputato dell’Idv sostenuto anche da Pd e sinistra radicale
In principio però era la Sevel, la società europea veicoli leggeri. Sono passati ventisette anni da quando la Spa nata dalla joint venture tra Fiat e Psa Peugeot Citroen decise di aprire ad Atessa la più grande fabbrica europea di vetture commerciali leggere: lo stabilimento dei record, quello in cui a Torino, non molti mesi orsono, hanno deciso di investire altri 150 milioni, quello elogiato per produttività dallo stesso Sergio Marchionne, quello in cui fino a settembre si assumeva. Nella Val di Sangro fanno i Ducato della Fiat - 1.250 pezzi al giorno fino a qualche mese fa - prodotti anticiclici rispetto al mercato dell’auto, si diceva, che avrebbero retto meglio all’urto
quasi. La contrazione dei margini è già pesantissima, partono la Cig e i primi licenziamenti, qualche decina di pezzi/giorno in meno e addio al distretto della Val di Sangro, solo che – lo ha scritto chiaro Il Sole24Ore a fine novembre – «se si ferma il Sangro si ferma l’Abruzzo»: «Non resterebbe che un po’ di agricoltura, un po’ di vetero gasparismo clientelare, e un po’ di turismo». Il disastro, insomma, è tanto vicino che si può vedere a occhio nudo, ma intanto sul campo sono già rimasti dei corpi e altri se ne aggiungeranno a breve: gli interinali, i contratti a termine, i dipendenti delle aziende più deboli che hanno ceduto al primo vento di crisi. La Fiom ha calcolato che nel trimestre settembre-novembre si sono persi già 4mila posti e i lavoratori in cassa integrazione sono passati da sei a 25mila, la prima vera crisi industriale dall’arrivo in zona della Fiat. Intanto l’Abruzzo sonnecchia intorno a una campagna
Tre anni a Ricucci ma lo salva l’indulto L’immobiliarista Stefano Ricucci è stato condannato, previo patteggiamento, a tre anni di reclusione nell’ambito del processo in cui era imputato per la fallita scalata a Rcs, la vicenda legata alla compravendita fittizia dell’immobile in via Lima, a Roma, la gestione dei fondi previdenziali e quella dell’assegnazione della gara d’appalto del patrimonio immobiliare Enasarco. Tutnon tavia sconterà la pena, per via dell’indulto, dal momento che tutti i reati sono stati commessi prima del maggio 2006.
Afghanistan: aumenta il contingente italiano elettorale tanto importante a Roma quanto poco seguita e avvelenata dai miasmi in Regione. Dopo la gaffe sui colloqui di lavoro in cambio di un voto, il candidato del Pdl Gianni Chiodi si tiene ben lontano dalla crisi economica che sta travolgendo la terra che dovrà probabilmente amministrare; l’avvocato Carlo Costantini, deputato dell’Idv sostenuto anche da Pd e sinistra radicale, preferisce parlare di ambiente, di casta e accorpamento delle Asl, ma di fatto molte energie le deve dedicare a guardarsi le spalle dagli “alleati” democratici. Si dice che il loro potente segretario regionale, nonché sindaco di Luciano Pescara, D’Alfonso, inviti i suoi a sponsorizzare il voto disgiunto: Chiodi governatore, lista del Pd. Costantini e D’Alfonso d’altronde non si amano: entrambi ex Ppi, entrambi ex delfini di Franco Marini, il secondo uscì vincitore dallo scontro diretto spingendo l’altro tra le braccia di Di Pietro. Corsa inarrestabile, sembrava, fino a che il sindaco è stato fermato da un paio di inchieste che gli hanno impedito di correre da presidente.
Di fronte alle migliaia di “vittime” della cassa integrazione, la Regione sonnecchia intorno a una campagna elettorale di basso profilo. Il Pdl snobba la crisi, la sinistra preferisce parlare di ambiente agenzia di collocamento regionale. Adesso a Lanciano, ad Atessa, a San Salvo di agenzie di collocamento ci sono quelle vere, quelle interinali, che hanno aperto per sfruttare il grande sogno del manifatturiero.
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E poi ci sono i leader nazionali, che vogliono piantare la loro bandierina su un eventuale successo elettorale: c’è Veltroni che va in Abruzzo e parla di “questione morale”in casa dell’impiccato, c’è Di Pietro che percorre la regione in lungo e in largo denunciando la dittatura di Berlusconi e i tangentari e, infine, c’è il presidente del Consiglio, che sabato scorso s’è fatto una corsetta per Pescara invitando tutti a fare acquisti perché questa crisi, alla fine, è più che altro uno stato mentale. In Val di Sangro Berlusconi lo votano pure gli operai, soprattutto gli operai, ma sabato sera ha fatto bene a rimanere a Pescara.
Appena ieri l’altro il generale americano David Howell Petraeus aveva chiesto al governo italiano un maggior coinvolgimento in Afghanistan e ieri, puntuale, è arrivata la risposta: il contingente militare italiano in Afghanistan, a partire dai primi mesi del 2009 sarà rinforzato di circa 600 unità destinate all’area di Farah, a sud-ovest della provincia di Herat, e salirà a complessivi 2.800 militari. Lo ha dichiarato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, nel corso dell’audizione davanti alle commissione Difesa ed Esteri del Senato. Il contingente italiano è composto oggi da 2.270 militari, 1680 ad Herat e gli altri 600 a Kabul, «e la presenza autorizzata - ha affermato La Russa - è di circa 2.600».
Già venti pretendenti per Tirrenia Sono già una ventina le società interessate ad acquisire la società Tirrenia di navigazione, il colosso nazionale del trasporto marittimo, da anni in difficoltà economiche e da tempo sul mercato per una privatizzazione per molti versi “gemella” a quella di Alitalia. La procedura di privatizzazione non è ancora partita, ma alla porta dell’amministratore delegato Franco Pecorini, secondo l’agenzia Radiocor, hanno già bussato in parecchi. Pecorini ha invitato i soggetti interessati «a formalizzare tali intenzioni all’azionista Fintecna».
politica
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in breve
ul Titanic della Rai - un bilancio in rosso di 30-35 milioni di euro come ricordava ieri il direttore generale Claudio Cappon - ora si discute sul caso Fabio Fazio. L’attacco del Pdl sferrato martedì contro il presentatore di Rai Tre è quella di avere trasformato il talk show ”Che tempo che fa”in un contenitore promozionale per i politici del centrosinistra: in poco più di un anno, accusa il centrodestra, hanno sfilato nello studio di Fazio Fausto Bertinotti, Massimo D’Alema, Romano Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, Pier Ferdinando Casini e, unico esponente di centro destra, Giulio Tremonti, invitato quando però era all’opposizione nel novembre del 2007.
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La presenza del governatore dimissionario della Sardegna Renato Soru all’ultima puntata di “Che tempo che fa” ha rappresentato secondo la destra la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per questo Alessio Butti, capogruppo del Pdl in commissione di Vigilanza, ha sollevato il problema di un riequilibrio per la trasmissione di Fazio: «Voglio che si spieghi se il programma rientra nel genere intrattenimento, nel quale caso non può ospitare politici come stabilisce una delibera della stessa Vigilanza». A tentar di gettare acqua sul fuoco nel corso dell’audizione in commissione di Vigilanza Rai, replicando alle domande dei commissari della maggioranza che sottolineano l’esistenza di un caso Fazio e la carenza di pluralismo nell’azienda pubblica è il presidente della Rai Claudio Petruccioli che si dice «assolutamente convinto che questi ultimi anni nella storia della Rai potranno essere iscritti come anni nei quali c’è stato più pluralismo. «In ogni caso - ha aggiunto il presidente della Rai, dopo aver definito Fabio Fazio “il nostro Letterman” - sono curioso di vedere come sul pluralismo si comporteranno i successori dell’attuale consiglio. Io ho visto come si sono comportati i predecessori con Fazio o Biagi, costringendoci a un lungo lavoro per rimarginare quelle ferite». Fazio, sostengono d’altra parte Pd e Italia dei Valori, è solo lo schermo, il pretesto dietro il
Gravina, domani archiviazione Si terrà domattina dinanzi al gip del Tribunale di Bari Giulia Romanazzi l’udienza per decidere sull’opposizione all’archiviazione dell’indagine su Filippo Pappalardi, il papà di Ciccio e Tore. I due fratellini scomparvero da Gravina in Puglia (Bari) il 5 giugno 2006 e furono trovati morti nella cisterna di un edificio disabitato della loro citta’ nel febbraio 2008. La richiesta di archiviare le indagini è stata avanzata dal pm inquirente, Antonino Lupo, che ha prima fatto accusare Pappalardi con l’accusa di aver ucciso i figli e nascosto i loro cadaveri; poi, così come aveva ipotizzato il gip Romanazzi nel concedere all’uomo gli arresti domiciliari, ha accusato l’indagato solo del reato di abbandono di minorenni seguito da morte; infine, ha chiesto l’archiviazione dell’indagine.
Neve al nord, disagi al traffico
Conflitti. A Viale Mazzini continua il risiko sul rinnovo del cda
All’ombra di Fazio la guerra della Rai di Riccardo Paradisi to sapere che in seguito alle numerose richieste di chiarimento giunte da esponenti politici riguardo la trasmissione “Che tempo che fa”, si sono chieste al direttore di Raitre Paolo Ruffini i dati delle presenze televisive della stagione. Leoluca Orlando - per mesi candidato in pectore alla presidenza della commissione - e
L’Idv diserta la commissione di Vigilanza e chiede l’intervento di Napolitano contro l’aggressione al conduttore. Il centrodestra attacca: in Rai non c’è pluralismo. Petruccioli: «Sciocchezze» quale schierare il presidente Riccardo Villari a testa d’ariete contro la sua area di provenienza: «La destra chiama e Villari risponde», dice il senatore Pd Vincenzo Vita, membro della commissione parlamentare di Vigilanza Rai. Sta di fatto che l’ufficio stampa di Villari ha fat-
Francesco “Pancho” Pardi, parlamentari Idv e membri della commissione di Vigilanza Rai, attaccano la maggioranza con argomenti ancora più pesanti: «Questo clima di intimidazione nei confronti dei giornalisti è la conferma che la commissione di Vigilanza è solo una
dependance della villa di Arcore. Il premier con un’operazione di corruzione politica ne ha scelto anche il presidente, Riccardo Villari». Del resto per l’Idv la vigilanza Rai è un fantasma, un organo cui il partito di Di Pietro non riconosce legittimità: tanto che Orlando e Pardi, che ne fanno parte, hanno deciso di disertarla: «Ora il Pdl vuole trasformare la Rai nella stalla di Arcore, attendiamo di sapere chi sarà lo stalliere». L’Idv cerca di trascinare in questa vicenda anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «sarebbe bene si occupasse di queste cose».
Ma non c’è solo la questione del pluralismo e il caso Fazio. Scaduto oltre sei mesi fa il Cda Rai continua a non avere alternative. È vero però che la maggioranza potrebbe anche eleggere, grazie alla legge Gaspar-
ri, sette dei nove componenti del Cda in solitudine, ma sarebbe un ulteriore strappo dopo la scelta del presidente della Bicamerale, che si dovrebbe evitare. E nessuno sembra per ora intenzionato a forzare la situazione.Tanto meno la maggioranza a cui sembra andar bene una situazione che logora il centrosinistra, ancora appeso alla gaffe Villari. «Sono scettico sul Cda Rai - dichiara il capogruppo dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri - e non so sinceramente quando ce ne sarà uno nuovo. Il modo in cui la sinistra si sia scatenata nei confronti di Villari non porta però ad una soluzione rapida del ”caso”». Sarebbe insomma la stessa sinistra, secondo la maggioranza, a incollare Villari alla poltrona della Vigilanza, inducendolo ad un’accanita resistenza. Praticamente, una questione di principio.
È tornata la neve. Come preannunciato dalle previsioni meteo, un’ondata di maltempo si è abbattuta nelle ultime ore nel Nord Italia. E sta provocando parecchi disagi. Oltre ai problemi alla circolazione automobilistica, la neve ha infatti causato una serie di ritardi e sospensioni negli aeroporti di Milano: a Linate, ieri, sono stati cancellati 13 voli in partenza e sono stati dirottati a Malpensa 4 voli in arrivo. La situazione si nel tempo è normalizzata.
Maiale alla diossina «Allarme rientrato» Tutte le 90 partite di carne suina irlandese importate in Italia dopo il primo settembre, data dell’allarme diossina, sono state sequestrate. Lo ha annunciato il sottosegretario alla Salute Francesca Martini. Adesso che le partite sono tutte tolte dalla circolazione, ha assicurato la Martini, «non c’è più alcun rischio per la popolazione». Ora ci saranno le analisi per verificarne la tossicità, mentre proseguono i controlli anche sulle carni bovine. È una grande soddisfazione - ha detto Martini - aver sequestrato in pochissime ore tutte le partite a rischio».
mondo
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Atene. Sciopero generale. Il Paese si ferma, la tensione cresce. Alexis ucciso da un colpo di rimbalzo. E il governo traballa
Assedio a Karamanlis I sindacati tentano la spallata al premier e i socialisti chiedono elezioni anticipate di Gilda Lyghounis
ATENE. Forse l’hanno ammazzato sparando ad altezza d’uomo. O forse il proiettile che l’ha ucciso veniva da un rimbalzo. È però sicuro che la pallottola che ha trafitto il cuore di Alexandros Grigoropulos, 15 anni, sabato sera nel quartiere di Exarchia, ad Atene, scatenando cortei di studenti e insegnanti, ma anche guerriglie urbane senza precedenti nella storia greca dal dopoguerra a oggi, è partita da un poliziotto
sembra, a detta del presidente dell’unione commercianti Kyriakos Chazaridis “Beirut dopo i bombardamenti”. Ad Atene è ancora peggio.
Tolleranza zero verso i tutti i responsabili, sia nelle file della polizia sia in quelle dei dimostranti che si sono dati al vandalismo. «Proteggeremo i cittadini» ha promesso ieri il premier conservatore Konstantinos Karamnalis, 52 anni, da quattro a
Nel riquadro piccolo, Karamanlis, premier greco (Nuova democrazia). Nelle altre foto, immagini degli scontri che infiammano il Paese. A destra, George Andreas Papandreu
Al potere da quattro anni, il primo ministro si regge su una maggioranza fragilissima: 154 parlamentari su 300, di cui 4 “ribelli”. Tolleranza zero o no, tutti lo vogliono a casa che l’ha colpito in seguito agli insulti da parte del gruppo di una trentina di adolescenti di cui Alexandros faceva parte. Gli ha spaccato il petto direttamente, come affermano l’autopsia e le perizie balistiche riportate dal quotidiano Ta nea. Ma a essere tramortita è la Grecia intera. Da quattro giorni, dopo la morte di Alexandros, i cui funerali si sono svolti martedì, da Atene a Salonicco a Ioannina, fino all’estremo sud nell’isola di Creta, la conta delle macchine, dei negozi, delle banche e degli uffici governativi assaliti e bruciati sale sempre più. Ottanta esercizi commerciali solo a Salonicco, che
capo del Paese dopo le elezioni del 2004 e la sua riconferma nel voto politico anticipato del settembre 2007. Un premier che si regge su una maggioranza risicatissima in Parlamento: solo 154 parlamentari su 300, di cui 4 “ribelli” fanno pesare la loro alleanza a ogni votazione importante. Ma adesso, tolleranza zero o no, tutti chiedono le sue dimissioni: dall’opposizione dei socialisti del Pasok alla Coalizione della sinistra radicale Syriza. Anche se la stessa sinistra non è certo compatta: i comunisti storici del Kke, per esempio, accusano “Syriza”di “coccolare”le frange dei sedicenti anarchici che spaccano tutto nascondendo il
volto con un passamontagna nero. Comunque sia, il Pasok ora sale nei sondaggi oltre al 50 per cento e chiede elezioni subito. Karamanlis, da parte sua, dopo avere tenuto a freno la polizia invitandola a stare sulla difensiva durante gli scontri, e facendo arrestare subito in modo “paradigmatico” per omicidio volontario il poliziotto responsabile della morte del 15enne, davanti alla furia devastatrice già ieri ha invitato le forze dell’ordine a difendere le proprietà dei cittadini. E già oggi, mercoledì, si segnalano casi in cui gli agenti si sono messi a sparare in aria e a moltiplicare gli arresti (una novantina finora). I nervi sono a fior di pelle.
Ma il fiume in piena di rabbia che ha tracimato nelle strade greche, seminando distruzione, ha molte origini. Una fra tante, la sostanziale decennale impunità (sia da parte dei go-
verni di centro destra sia di quelli di centro sinistra alternatisi al potere da 34 anni) dei gruppetti eversivi che, con una galassia di 60 e più sigle anarchiche o “insurrezionali”, firmano da anni ogni mese nuovi piccoli attentati in pieno centro ad Atene o a Salonicco. L’ultimo episodio del genere il 4 dicembre, proprio nel quartiere difficile di Exarchia, roccaforte della sinistra antagonista ma anche epicentro di traffici di droga, sotto una patina bohémien fatta di bar trendy, negozi bio, librerie ben fornite a pochi passi dal Museo archeologico nazionale, da quello Epigrafico e, soprattutto, dal Politecnico, simbolo in Grecia di ogni protesta politica contro le autorità. Da lì infatti il 17 novembre 1973 era partita la prima rivolta studentesca contro il regime dei colonnelli, che portò alla sua caduta il 24 luglio 1974. Ancora oggi il 17 novembre, festa nazionale, vede il Politecnico come meta fissa di cortei alla memoria di
quei cancelli sfondati dai tanks dei dittatori, del sangue giovane versato.
Il 4 dicembre, dicevamo, a Exarchia, due bombe incendiarie fatte in casa sono state lanciate contro un edificio secondario del ministero dell’Ambiente, senza nessun ferito, rivendicato dal sedicente gruppo “Azione rivoluzionaria”. Ma episodi simili accadono spesso. E, se interviene la polizia, a volte ci scappa il morto. Anche se la vittima in questione con i gruppetti bombaroli non c’entra niente. Non c’entrava, nel 1995, un altro 15enne caduto sotto il fuoco degli agenti sempre a Exarchia: Michalis Kaltezas. E probabilmente non c’entrava nulla neppure Alexandros Grigoropulos, che ad Exarchia non abitava neppure. Alexis, come lo chiamano ormai tutti con un diminutivo affettuoso e accorato, era figlio della Atene bene: casa a Psychico, nel nord est chic della capitale, mamma con gioielleria in pieno centro (strada anche quella devastata in questi giorni), papà dirigente di banca (e proprio le banche sono stati fra gli obbiettivi più colpiti dalla furia dei manifestanti ellenici: 15 filiali di istituti di credito distrutti solo a Salonicco). Grigoropulos frequentava il liceo Moraitis, uno dei più esclusivi e costosi in città. Forse quella maledetta sera si è trovato nella compagnia sbagliata nel momento sbagliato, accodandosi a un conoscente: i suoi compagni di scuola e di
mondo
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Vacilla un sistema politico su base familistica
In crisi la Grecia delle caste di Enrico Singer l fasto delle Olimpiadi del 2004 è un ricordo lontano. Sgretolato come gran parte degli impianti sportivi che la Grecia aveva tirato su in fretta per non perdere l’appuntamento col ritorno dei Giochi nella loro patria storica. Adesso il simbolo di questo Paese che è una delle Cenerentole dell’Europa è il grande albero di Natale ridotto a uno scheletro nero in piazza Sintagma, di fronte al Parlamento. Lo hanno bruciato i manifestanti che protestavano per l’uccisione del giovane Alexis per far capire che questo Natale non sarà di consumi e di festa. «Il sangue di un ragazzo di 15 anni salderà insieme tutte le proteste contro i mali della nostra società», ha scritto il maggior quotidiano greco, il liberale Katimerini. Ed è vero. Certo, c’è il lutto di una famiglia che attende almeno una risposta dall’inchiesta della magistratura, e c’è il pericolo del contagio della violenza che dura ormai da quattro giorni e raggiunge le maggiori città. Ma c’è anche molto altro: quello che sta accadendo tra Atene e Salonicco è un campanello d’allarme. E non sorprende che la crisi economico-finanziaria che ha colpito tutto l’Occidente abbia esasperato lo scontro sociale proprio qui. La Grecia è l’anello debole del sistema-Europa con il tasso di disoccupazione giovanile più alto della Ue e il 14 per cento dei lavoratori che vive al limite della soglia di povertà secondo gli standard dell’Unione. Anche il piano del ministro dell’Economia, Yorgos Alogoskoufis, contro la crisi e per il sostegno di banche e risparmiatori è apparso poco incisivo. Il governo del conservatore Costas Karaman-
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partite a basket giurano che lui non aveva grilli politici per la testa, al massimo professava idee “progressiste”. Sta di fatto che la sua morte ha funzionato da detonatore anche alla delusione generalizzata dei greci verso uno Stato che negli ultimi quattro anni, ancora più che ai tempi di Andreas Papandreu, delle sue tangenti e dell’affare Koskotas, ha accumulato un’impressionante serie di scandali. Per citarne solo alcuni: l’incapacità di gestire gli incendi che avevano devastato mezza Grecia l’estate 2007, il lasciare cadere a pezzi gli stadi di Atene 2004, il tentato suicidio dello stretto consigliere di Karamanlis, Zacharopulos, tuttora in fin di vita, in seguito a una scandalo sexy finanziario. Per non parlare dell’aumento esorbitante dei prezzi dei beni di prima necessità in Grecia an-
cora prima dello scoppio dell’attuale crisi economica globale. Del fatto che sedici greci su cento, secondo Eurostat (l’Istat dell’Unione europea), sono in bilico sulla soglia di povertà. Della corruzione che vede la Grecia, secondo l’osservatorio Transparency International, precipitata dal 2004 dal 47esimo al 55esimo posto fra i Paesi dove la malversazione del denaro pubblico la fa da padrone: l’ultimo posto in Europa. Eppure Karamanlis, all’indomani della sua elezione a più giovane primo ministro della storia ellenica, aveva promesso: «Spazzerò via la corruzione da questo Paese!».
Ma non è finita. A trascinare nelle piazze migliaia di greci, in questi giorni, è anche l’amara incertezza sul proprio futuro vissuta ogni giorno dai coetanei di Alexandros Grigoropu-
los, liceali.Tanto più che la prospettata riforma del sistema universitario, con la legalizzazione delle università private, e la paura del “declassamento” di fatto di quelle pubbliche, non aiuta i giovani e le famiglie ad avere fiducia. Come ultimo scandalo - solo in ordine di tempo ricordiamo la cessione di enormi terreni, boschi e proprietà pubbliche (fra cui un lago intero, quello di Vistonitida!) sparse per tutta l’Ellade al monastero di Vatopedi sul monte Athos, una specie di holding clericale. Si parla di oltre 40mila metri quadrati di superficie concessi al sacro convento solo nella lucrosa a fini edilizi area dell’ex villaggio olimpico ad Atene. Karamanlis avrebbe dovuto presentarsi a renderne conto questa settimana in Parlamento. Molti auspicano che invece presenti le sue dimissioni. Sarà da vedere se la Grecia andrà incontro a un cambio della guardia governativa o, come alcuni temono, (e un editorialista del quotidiano conservatore Kathimerini auspica, titolando A choc therapy?) a una sorta di stato di polizia in nome della Patria in fiamme. Con il rischio di altri Alexis caduti in modo assurdo. Corrispondente Osservatorio Balcani e Caucaso (www.osservatoriobalcani.org)
lis, leader di Nea Demokratìa, è in bilico. Si regge su un solo voto di maggioranza in Parlamento. Ma è tutto il sistema politico greco a vacillare. Adesso i socialisti del Pasok chiedono le dimissioni dell’esecutivo e, forse, riusciranno a imporre nuove elezioni anticipate. Anche a sinistra, però, i meccanismi del potere sono la fotocopia di quelli del campo avverso. Con una casta che si muove su basi addirittura familistiche, con i potenti che si alter-
Sono lontani i fasti delle Olimpiadi di Atene 2004. Oggi, il simbolo di questo Paese è l’albero di Natale bruciato davanti al Parlamento nazionale nel corso degli scontri fra giovani e poliziotti nano al comando, ma hanno sempre gli stessi cognomi: Karamanlis, Papandreu, Mitsotakis. Le grandi famiglie che governano il Paese da quando, nel 1974, Costantino Karamanlis (zio dell’attuale premier) tornò in Grecia dopo la caduta del regime dei colonnelli e fu poi battuto da Andreas Papandreu, padre dell’attuale leader dell’opposizione, Georgios. Una casta intrecciata agli interessi di potentati economici in un mosaico molto delicato e instabile. Sono questi i «mali della società» di cui ha parlato Kathimerini nel suo editoriale. E non è detto che troveranno presto una cura.
panorama
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Decolli. Accordo di massima sul passaggio di AirOne ad Alitalia. Mentre s’avvicina Air France
Toto deve fare lo sconto a Cai di Francesco Pacifico
R OMA . Dovrà rinunciare ad almeno 40 milioni di euro a rispetto quanto previsto. E non potrà diventare il lessor della nuova Alitalia: perché se essere socio della compagnia di bandiera può apparire un privilegio, noleggiarle a prezzi non certo stracciati gli aeromobili è un’occasione irripetibile. Venerdì scorso Carlo Toto e Rocco Sabelli avrebbero trovato un’intesa di massima per il passaggio di Airone in Cai: il prezzo pattuito è di 260 milioni di euro cash, più altri 200 milioni in debiti dell’imprenditore abruzzese che si accolleranno Colaninno e soci. L’integrazione do-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
vrebbe avvenire entro un anno. L’accordo sarà formalizzato e comunicato nei prossimi giorni. Toto preferirebbe mantenere il riserbo almeno fino a Natale per non subire azioni sindacali nel boom delle partenze. I dipendenti sarebbero sul piede di guerra da quando hanno scoperto
Cyrill Spinetta, Ceo di Air France, che ieri ha fatto molti passi avanti con Rocco Sabelli verso la chiusura di una partnership. Ma Toto ha potuto giocare su due fattori: gli slot di Airone, indispensabili per ridare all’Alitalia il monopolio sul mercato interno, e l’alto inde-
L’accordo dovrebbe essere comunicato a breve. L’imprenditore abruzzese rinuncia alle pretese iniziali e incassa 260 milioni di euro che l’azienda avrebbe fatto non pochi pasticci nel versamento dei contributi all’Inps. Cosa che potrebbe ritardare la cassa integrazione.
Fatto sta che Toto, mentre passa la mano, non può permettersi problemi. Anche perché la trattativa è stata molto dura. I soci di Cai hanno subito rigettato il prezzo chiesto dall’imprenditore: 300 milioni di euro e un ruolo nella tolda di comando. Su questo versante non avrebbe nascosto dubbi neppure Jean
bitamento con IntesaSanpaolo. Cioè con il motore propulsivo dell’operazione. Così, alle offerte al ribasso di Sabelli, l’imprenditore ha sempre fatto spallucce. Questo rinvio gli ha pure permesso di guadagnare non poco nell’ultimo periodo. Negli ultimi due mesi, sfruttando lo sciopero bianco dei piloti e il taglio di molte rotte da parte di Alitalia, Airone ha aumentato del 25 per cento il riempimento dei propri aeromobili o raddoppiato le tariffe su tratte come la Milano Bari
dove non c’è più concorrenza. Per esempio sulla TriesteRoma, dove si usavano jet regionali, ora si vola con un A320 da 160 posti.
Ma l’imprenditore , forse su input di Corrado Passera, ha dovuto cedere e fare un forte sconto a Cai. Toto vede per 260 milioni di euro – più la traslazione di altri 200 milioni di debiti – tutti gli asset di volo del gruppo (Airone, Cityliner, Ap tecnica e Eas); quindi una flotta composta su corto e medio raggio da 17 Crj, 17 737, 20 A320 e, sull’intercontinentale, da 2 A330. La decisione di Cai di portare la flotta entro due anni a 157 aeromobili ha di fatto impedito a Toto di ordinare ad Airbus altri 40 320 e 22 330 già opzionati. Il suo obiettivo era di affittarli a buon prezzo alla nuova Alitalia, ripagandosi così anche il leasing. Invece dovrà accontentarsi del ricavato di Airone, che in gran parte sarà destinato a essere reinvestito in Cai o a finire alle banche creditrici. Come IntesaSanpaolo.
Nel nuovo romanzo di Gaetano Cappelli una satira divertita di pittori e mercanti
Il grande inganno dell’arte contemporanea ovrei scrivere un articolo di critica letteraria - insomma, una recensione - sul nuovo romanzo di Gaetano Cappelli La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo (Marsilio). Dico “dovrei” perché ci penso e mi chiedo: «Ma chi me lo fa fare? Mica me lo ha ordinato il medico?». Oddio, il signor Cappelli scrive bene, si fa leggere, le sue storie sono intriganti e ben intricate, i suoi personaggi talmente improbabili che sembrano pescati da questa nostra società di massa che è un po’ tutta provinciale, sia che ci si trovi in Lucania, terra del Cappelli, sia che ci si trovi a Milano, la capitale stilistica dell’Italia.
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Ho anche letto delle altre recensioni un po’ qua e un po’ là: c’è chi dice che lo scrittore di Potenza è una potenza (scusate questo schifo di calembour, ma non ho resistito) e non sbaglia un colpo, e c’è chi sostiene che Cappelli è, sì, bravo, ma questa volta ha esagerato ed è caduto nella trappola “il troppo stroppia” (anche in questo caso chiedo scusa per il rigoroso giudizio estetico). Ora, se avete cominciato a leggere questo articolo e siete arrivati fin qui e vi state chiedendo «ma perché cavolo devo leggere ‘sto pezzo se l’autore mi ha appena confessato che non sa bene perché lo ha scritto?», vi voglio dare un consiglio:
leggetevi il libro di Cappelli che, come i suoi precedenti, è godibile, a tratti esilarante, forse non è un capolavoro letterario, ma è una critica ironica del paesone nazionale nel quale tutti viviamo e se fossi un produttore cinematografico mi cercherei uno sceneggiatore e un regista per ricavarne un film del tipo commedia brillante, dolceamara. L’articolo potrebbe anche finire qui. Ma, lasciando perdere la trama del romanzo e i suoi numerosi colpi di scena, improbabili come i suoi personaggi, voglio soffermarmi su un episodio specifico: il lavoro di Dario Villalta. Dovete sapere che Dario Villalta - il protagonista o uno dei protagonisti del romanzo - si è laureato discutendo una tesi coi fiocchi: «Bernhard Berenson e il canone nella pittura del Rinascimento italiano». Berenson, quel tipo con la barbettina, elegantone, che di arte se ne intendeva per davvero, sarebbe il mito di Dario Villalta, il quale,
però, per tirare a campare deve vendere ciò che il mercato chiede: l’arte contemporanea. Ora, diciamolo francamente senza tanti giri di parole, l’arte contemporanea è una vera schifezza. Il ragionier Ugo Fantozzi direbbe che è «una cagata pazzesca». Eccoci al punto: Gaetano Cappelli prende di mira questo mondo in cui, non semplicemente il Brutto, ma l’Orrido e, ancora di meno, l’Insulso, la Grande Immensa Stronzata viene osannata come un capolavoro di Michelangelo e del Mantegna. Il Villalta lavora in una galleria d’arte contemporanea e il suo compito è quello di vendere ai collezionisti danarosi, che fingono di capire cose delle quali non c’è un emerita banana da capire, tutta una serie di porcherie chiamate “arte contemporanea”: «Tre scheletrini di uccelli del paradiso con al posto della ruota una spirale di pelliccia di martora, una paletta da spazzino con latta da
traforata capace di lasciare tracce di polvere ornamentale, un tavolino col ripiano di cristallo con sopra una piramide di calici da Martini di plastica color porpora, una vasca da bagno semipiena di morchia in bilico su due pile di libri, la gamba artificiale di un amputato completa di calzino bianco e scarpa sporca di fango, una bicicletta rossa incidentata, delle palle di Natale semidisciolte, degli elastici da cartoleria dietro una lastra di plexiglas e dei fogli di carta appallottolati - sì, dei normalissimi fogli A4, semplicemente appallottolati - ma, soprattutto, l’opera su cui ultimamente più puntava». Quale? Un’imitazione di un’opera di quel paraculo di Damien Hirst che “creò” il teschio tempestato di brillanti.
Il romanzo di Cappelli meriterebbe di essere discusso pubblicamente, e non in salotti letterari con la puzza sotto al naso, per dire ciò finalmente ad alta voce ciò che tutti noi sappiamo: l’arte contemporanea è una buffonata. All’inizio del libro Cappelli ha riportato questa frase di Jeff Koons: «L’arte non consiste nel dipingere un quadro, ma nel venderlo». Una frase intelligente e acuta assai, ma che non avrebbe senso se si seguisse ciò che diceva già Longanesi: «Non comprate quadri di arte contemporanea, fateveli a casa».
panorama
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Alleanze. Berlusconi prima auspica il ripensamento dell’Udc poi chiude alle opposizioni: «Nessun dialogo»
La giornata convulsa del Cavaliere di Errico Novi
ROMA. Era cominciata bene. Si è chiusa con un manrovescio memorabile inflitto da Silvio Berlusconi alla «sinistra non democratica». Riforma condivisa? Macché: «Mai mi siederò al tavolo con questi signori che sono vecchi marxisti-leninisti. Cambieremo l’ordinamento giudiziario e la Costituzione». Eppure il ministro Angelino Alfano ha compreso che la difficoltà della missione richiede molta cura nei rapporti e nella ricerca del consenso. Ha cominciato dall’Udc, dall’incontro con Pier Ferdinando Casini e MicheleVietti a Montecitorio. Ha riconosciuto che la giustizia ha bisogno di un riassetto «che sia condiviso». Il governo ha dato l’impressione, per la prima volta dall’inizio della legislatura, di volersi rivolgere con un tono davvero costruttivo all’opposizione – a parte le iniziali promesse fatte dal premier a Veltroni. Impressione svanita in serata con le dichiarazioni del Cavaliere. Ma non è la prima volta che Berlusconi auspica un ricongiungimento con l’Udc. Lo ha già fatto l’estate scorsa, quando uno dei momenti di tensione più acuta tra An e Forza Italia ha
essere rappresentata al 30 per cento nei futuri organismi interni. E i programmi? L’elaborazione dei contenuti? Sono questioni che non sembrano destinate ad essere risolte in tempi rapidi.
Alfano incontra Casini e Vietti: «Il governo vuole una riforma della giustizia condivisa», spiega. Ma i veri nodi da sciogliere adesso sono altri provocato la riapertura verso il Centro.
Non si può disprezzare il passaggio da una chiusura netta come quella registrata in Abruzzo a un’ipotesi così ottimistica, alle porte «che non sono aperte, sono spalancate», come ha detto Berlusconi. Il nodo non è nella statistica dei veti e delle mani tese,
ma nella definizione del progetto. In questo momento il Pdl è un’idea di partito con una forte leadership e un livello di democrazia interna bassissimo. Si può chiedere a qualcuno di aderire a un’iniziativa politica che ha regole poco chiare? Come si può accettare un’offerta se non si sa in che termini essa si definisce? Alleanza nazionale ha ottenuto di
Diventa tutto complicato. Basta guardare le reazioni di An, che, per voce del reggente Ignazio La Russa, pretende un“ravvedimento ”dell’Udc. È il segno che all’ala destra del futuro partito non piace l’idea di perdere i diritti formalmente acquisiti. È anche la prova che il rapporto con il Centro moderato è forse il principale interrogativo a cui il Popolo della libertà sarà chiamato a rispondere nei prossimi mesi. «Berlusconi comincia a porsi il problema di entrare nel Ppe e tenta di fare un balzo ad occhi chiusi oltre l’ostacolo», nota Rocco Buttiglione, che ricorda: «Noi nel Ppe ci siamo dall’origine e quando si discuterà se farvi entrare il Pdl saremo lì a decidere. Il Cavaliere dovrà spiegare perché non vuole il rapporto con noi in Italia e se ha mantenuto l’impegno preso quando Forza Italia fu accolta tra i Popolari europei: avere un rapporto privilegiato
con i democratici cristiani piuttosto che con gli ex fascisti».
Non è solo un formalismo. Innanzitutto perché alle viste ci sono le elezioni europee, alle quali l’attuale maggioranza di governo si presenterà per la prima volta dal 1994 senza i simboli di FI e di Alleanza nazionale. I parlamentari del Pdl eletti a Strasburgo dovranno pur iscriversi a uno dei gruppi, e non sarà semplice spiegare che vogliono aderire a quello del Ppe nonostante la fine dell’alleanza con l’Unione di centro. E poi viene appunto la questione dei valori, delle scelte di fondo, che in Europa non possono essere generiche, contraddittorie, almeno fino a quando esisteranno i democristiani tedeschi e gli altri partiti del continente che si riconoscono nella famiglia popolare. Ma in che tempi e in che modi un grande partito può sciogliere interrogativi del genere se tutto il peso di ogni singola decisione è indirizzato nella figura del leader? «Le porte del Pdl restano chiuse alla democrazia politica», dice Ferdinando Adornato. E finché sarà così ogni altro tipo di apertura risulterà incompiuta.
Centristi. Quale strategia per un progetto politico che sia alternativo a quello del Pdl
Non si può “spogliare” la Margherita di Mario de Donatis a più parti - all’interno del Pd, come nelle altre forze politiche di opposizione - si registrano iniziative rivolte a creare le condizioni per dare vita ad un progetto politico, nuovo e credibile, alternativo e forte, a quello del Pdl.Tanto emerge chiaramente, anche, dal bene informato L’Espresso che, con Marco Damilano, presenta uno scenario che, al di là «delle grandi manovre nell’Udc» e della strategia di Casini «impegnato a studiare da Prodi», segnala, di fatto, il superamento della visione veltroniana. Quella de L’Espresso non è un’analisi di breve momento e, se vogliamo, è nell’ordine delle cose.
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apertura a posizioni laicistiche - ha compromesso le ragioni dei Ds e della Margherita dello stare insieme in un unico soggetto politico, ferme restando le sensibilità della sinistra riformista e quelle dell’area cattolica, che portano a percorsi coincidenti, su molteplici tematiche.A pensarci bene, lo scenario attuale non è dissimile da quello che indusse Aldo Moro a coniare le “convergenze parallele”, quale strategia per favorire“il perseguimento del bene comune”(rivolgendo attenzione alla
all’interno del Pd e, dall’altro, il sostegno, senza se e senza ma, ad una riforma elettorale - con sistema proporzionale, con preferenze e sbarramento al 5% - per restituire la visibilità negata a quell’”Italia di mezzo”, per dirla con Follini, che sembra non trovare cittadinanza. Molto probabilmente, è questo il percorso più sicuro per dare vita ad un «centrosinistra di nuovo conio», caro a Rutelli, che potrebbe disinnescare problematiche di non poco conto come quella del “testamento biologico”, della legislazione sulla “famiglia” e superare la questione «del raccordo del Pd al Pse», che non rientra nei “patti della fusione” tra i Ds e la Margherita, né può essere risolta ricorrendo ad espedienti nominalistici. Perché se la politica impone, per governare, la ricerca di convergenze (le più ampie possibili), non può richiedere, né ai singoli, né alle espressioni partitiche, di abdicare alle identità, che vanno sempre riconosciute, anche nella loro dimensione pubblica.
Dovremmo tornare alla lezione di Aldo Moro quando parlò di “convergenze parallele” nel rispetto totale delle identità da far convivere
La fusione tra Ds e Margherita - realizzata quale conclusione di un processo immaginato e sostenuto da Romano Prodi, per il suo centro-sinistra – è stata grandemente rivisitata da Walter Veltroni che esclusa la Sinistra “antagonista” dal nuovo corso politico – ha, poi, sostenuto «un bipolarismo di stretta osservanza», in piena condivisione con il nascente Pdl, abbandonando il percorso rivolto a stabilizzare, in Parlamento, le quattro o cinque forze politiche rappresentative delle aree culturali, più significative, del nostro Paese.Tale opzione - che ha visto soccombente non solo la strategia elettorale di Veltroni, ma la sua stessa linea politica di
sinistra del tempo) e per contrastare quella visione della politica – che, oggi, sembra aver ritrovato grande vigore – che si esprime «nell’arido esercizio rivolto alla composizione degli interessi» e nell’«attivazione di politiche per il consenso». E, molto probabilmente, la stessa Paola Binetti ha pensato ad Aldo Moro quando ha sostenuto, recentemente, che «l’obiettivo prioritario è quello di creare un’alternativa al centro-destra».
Di certo, il perseguimento di tale obiettivo – superata la strategia di Veltroni – impone, da un lato, un chiarimento di grande portata
il paginone
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distanza di sessant’anni dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – proclamata il 10 dicembre del 1948 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite – il mondo si può dire soddisfatto dei progressi fatti. Marcello Flores, professore di Storia comparata all’università di Siena e autore di Storia dei diritti umani (Il Mulino), è fiducioso nel futuro e crede che «nel cammino dei diritti umani siano stati maggiori i successi degli insuccessi, anche se permangono forti tendenze a relativizzarli». Tendenze che si ritrovano ai quattro angoli del pianeta, in Medio Oriente come in Occidente. Ed è questo il grande obiettivo del futuro: rendere i diritti sempre più universali, anche se la strada è in salita. Marcello Flores – che dirige il master sui diritti umani e genocidi presso la stessa facoltà di storia – distingue tre momenti salienti nella storia. Il primo si verifica nel 1700 con la nascita dei diritti civili-politici, in quel lungo percorso storico-filosofico che inizia con l’Illuminismo. Le idee di libertà e uguaglianza cominciano a circolare, scatenando prima la rivoluzione americana del 1775-83 e poi quella francese del 1789. In entrambi i casi si giunge alla proclamazione di forme embrionali di dichiarazione dei diritti dell’uomo. «È vero – ricorda Flores – prima ancora c’è stata la rivoluzione inglese del 1600, frutto di una grande tradizione politica e di libertà civili iniziata già nel 1300 con la Magna Charta. In Inghilterra fioriscono le prime organizzazioni non-governative e i primi sindacati ma questo fermento, – sottolinea - a differenza delle rivoluzioni americana e francese non ha mai dato origine a una carta-summa dei diritti dell’uomo». Altro evento cruciale dell’epoca è la fine della tratta degli schiavi, avvenuta per prima nel Regno Unito.
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Il secondo momento saliente è a cavallo del 1850 con lo sviluppo dei diritti economico-sociali legati alla rivoluzione industriale e al consolidamento dell’universo sindacale. In questo periodo viene fondata anche la croce rossa internazionale, segno che la cura anche fisica dell’uomo è al centro della società. Infine, il terzo e ultimo periodo è rappresentato dalla data del 1948, anno in cui l’Onu proclama la dichiarazione universale dei diritti umani. C’è appena stata la seconda guerra mondiale, ed è proprio per evitare in futuro un dramma simile che i padri delle Nazioni Unite portano alla luce questo prezioso documento. Si tratta della prima carta onnicomprensiva dei diritti dell’uomo, in cui vengono unificati in un unico documento tutti i precedenti storici elaborati nei due secoli precedenti. Il pensiero fondante è il seguente: tutti gli uomini sono uguali senza distinzione di sesso, religione e razza. «La dichiarazione è una sintesi chiave che stabilisce i diritti per tutti gli individui, gli stessi diritti che gli Stati e i governi sono tenuti a rispettare concretizzandone i princìpi fonda-
Il diritto universale alla salute, al lavoro, all’istruzione e all’assistenza sociale no Occorrono delle vere e proprie riforme strutturali. È su questo orizzonte che si devo
«E ora, un secondo Illum colloquio con Marcello Flores di Silvia Marchetti
L’impegno comune del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e del segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone
«Non rimangano carta straccia» di Francesco Rositano ia in Italia che in Vaticano, ieri, è stato un giorno di festa e riflessione. Ma anche di impegno congiunto a garantire le libertà fondamentali, a fronte delle inevitabili violazioni.Una giornata culminata nel concerto Oltretevere cui ha preso parte anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla presenza di Benedetto XVI.
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Il Capo dello Stato, in una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato, ci ha tenuto ad evidenziare la missione dello Stato che a suo avviso consiste nel«garantire il primato della persona e della sua dignità su basi di libertà e di eguaglianza e impegnarsi per prevenire ogni ingiustificata violazione dei diritti e garantirne la loro tutela». Una tutela, che come ha sottolineato il presidente, è stata caratterizzata finora da sforzi insufficienti. E ha aggiunto: «Il Parlamen-
to può dare certamente un impulso cruciale in tale direzione. Mi auguro, infine, che la celebrazione odierna contribuisca ad avvicinare sempre più i nostri giovani al contenuto della dichiarazione, aiutandoli a coltivare il senso profondo di una fratellanza basata su principi e valori universali, che essi dovranno saper condividere, trasmettere e difendere ovunque nel mondo». Un impegno a cui ha preso parte dall’altra parte del Tevere anche il segretario di Stato Vaticano, che ha denunciato l’attuale situazione mondiale in cui «i diritti basilari sembrano dipendere da anonimi meccanismi senza controllo e da una visione che si rinchiude nel pragmatismo del momento, dimenticando che la cifra del futuro della famiglia umana è la solidarietà». Così, il porporato ha aggiunto che una simile deriva è dovuta anche al fatto che ci sia stato «un abbandono della visione della persona che da soggetto e’ diventata
sempre più un oggetto dell’agire economico, spesso ridotta a rivendicare i soli diritti legati alla sua funzione di consumatore, e non di persona». Il pensiero del numero due vaticano è chiaro: i diritti umani vanno difesi, ma non confusi con bisogni contingenti.
In particolare, il porporato ha notato come sia «sempre più difficile prevedere una tutela dei diritti, efficace e universale, senza un collegamento a quella legge naturale che feconda i diritti medesimi ed è l’antitesi di quel degrado che in tante nostre società» mette in discussione «l’etica della vita e della procreazione, del matrimonio e della vita familiare, come pure dell’educazione e della formazione delle giovani generazioni, introducendo unicamente una visione individualistica su cui arbitrariamente costruire nuovi diritti non meglio precisati nel contenuto e nella logica giuridica».
il paginone giunge - basti pensare che all’inizio del novecento gli Stati democratici erano venti, mentre per la fine del secolo erano già diventati 150». Altro discorso riguarda il futuro dei diritti umani e quali saranno le sfide maggiori che le nazioni incontreranno per attuarli. Di fallimenti, purtroppo, ce ne sono stati eccome anche dopo il 1948, altre guerre sono scoppiate, ci sono stati genocidi di massa, violazioni e torture. «Le guerre continuano a essere il terreno migliore per violare i diritti e ancora oggi nel mondo c’è una tendenza generale a relativizzare i diritti dell’uomo da parte di diverse aree geografiche. L’islam, per esempio, ha una visione riduttiva dei diritti umani, che vengono sottomessi alla religione. I diritti civili e politici – prosegue Flores - anche se da tempo acquisiti vengono continuamente messi in discussione e violati. Insomma, è difficile parlare e attuare l’universalità dei diritti, ma dobbiamo riuscirci».
on nasce con una legge. ono muovere i diritti umani
minismo» mentali. – spiega Flores - Il documento dell’Onu diventa così una base per le trasformazioni successive legate alla società e all’individuo. Dall’ambiente, alla tecnologia fino all’uso di internet, anche qui si deve parlare di diritti umani». Il maggior insuccesso in questo faticoso cammino? Marcello Flores non ha dubbi: dopo il 1948 è stata la guerra fredda il peggior momento per il rispetto dei diritti dell’uomo. «In quel periodo l’interesse per ciò che era stato sancito nella dichiarazione Onu è diminuito per poi riprendere poco dopo. Ma se vogliamo guardare a prima del 1948, non c’è dubbio che il nazismo e la seconda guerra mondiale abbiano costituito il periodo più buio. È stata proprio la volontà di non ricadere più nell’inferno a spingere verso la proclamazione della dichiarazione».
Sta di fatto che il professore è ottimista. Ha scritto questo libro dopo una serie di studi sui genocidi e i totalitarismi alla ricerca della “parte positiva” della storia, che lo porta a enfatizzare i tanti progressi fatti sul cammino dei diritti umani, primo fra tutti «l’estensione dei diritti della donna e non soltanto in Occidente. Inoltre – ag-
Già, non è forse anacronistica oggi la dichiarazione del 1948, visto che non è riuscita a evitare altre tragedie e sofferenze nel mondo? Flores crede che «l’unico vero anacronismo sia la sua violazione. Da una parte, alcune nazioni non rispettano i diritti umani per convenienza politica, dall’altra sono molti gli Stati che hanno recepito nella loro costituzione una serie di convenzioni vincolanti». Ancora più difficile è l’attuazione e l’estensione a tutti i cittadini di ciò che Flores chiama “i diritti economicosocali” sviluppati nell’era moderna. «Nel diritto universale alla salute, al lavoro, all’istruzione e all’assistenza sociale, a differenza dei diritti civili-politici, non basta una legge per attuarli – sostiene Flores – occorrono delle vere e proprie riforme strutturali. È su questo orizzonte che si devono muovere i diritti umani per sconfiggere una volta per tutte la fame, la malnutrizione, le malattie». Si tratta di un gradino successivo nella scala dei diritti: garantire a ogni cittadino l’accesso alle cure sanitarie, un’occupazione stabile, una pensione sicura e un’istruzione soddisfacente. Basti pensare, aggiunge Flores, che perfino nell’Unione europea questi princìpi non sono stati acquisiti totalmente poiché «sono i più costosi. Inoltre, tali diritti vengono considerati soltanto per i propri cittadini e non per tutti quanti gli altri, come gli stranieri e gli immigrati. Anche questo significa relativizzare i diritti umani e in Occidente c’è una tendenza generale a ridurli alla questione della cittadinanza». L’estensione del welfare state è ancora un’illusione sia in Europa che in America, dove la sanità è più privata che pubblica. Insomma, di fronte a questi fallimenti non è forse meglio ricordare la proclamazione della carta Onu senza festeggiarla? Marcello Flores non la pensa così: «È proprio in questo giorno commemorativo che bisogna lanciare un secondo Illuminismo, una seconda rivoluzione umana per progredire nel cammino dei diritti umani».
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Repressioni e arresti per la richiesta di democrazia al governo
Cina:30 anni dopo nasce Carta ‘08 di Vincenzo Faccioli Pintozzi rresti, interrogatori e tortura. Il governo cinese risponde così a chi, nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, chiede di trasformare il sistema autoritario e corrotto della Cina con un modello democratico e rispettoso di tutti i diritti umani. È il caso dei 303 intellettuali cinesi che hanno scritto e firmato un documento – pubblicato ieri - in cui chiedono al governo una vera svolta politica. Il testo è stato chiamato Carta ‘08, un chiaro riferimento a quella Carta ’77 siglata da intellettuali e attivisti cechi e slovacchi nel 1977, che premeva sul governo esteuropeo per il rispetto dei diritti umani. Fra i firmatari di Carta ’77 c’era il drammaturgo e scrittore Vaclav Havel, divenuto presidente della Repubblica ceca dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’impero sovietico. Fra i firmatari di Carta 08 ci sono intellettuali di molte università cinesi, ma anche imprenditori, contadini e cittadini comuni che, insieme, chiedono al governo di innescare un movimento di trasformazione culturale che porti la Cina a un cambiamento radicale. La pubblicazione del documento ha scatenato una reazione violentissima da parte del goveno. Uno dei firmatari più in vista, l’intellettuale Liu Xiaobo (presidente del gruppo per la libertà d’espressione Pen e professore di filosofia all’Università di Pechino) è stato arrestato dalla polizia lo scorso 8 dicembre.
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l’etica pubblica, crasso capitalismo, crescente diseguaglianza fra ricchi e poveri, sfruttamento sfrenato dell’ambiente naturale, umano e storico, l’acuirsi di una lunga lista di conflitti sociali, e negli ultimi tempi una netta animosità fra rappresentanti del governo e la gente comune». In tono profetico, i 303 intellettuali scrivono che «le possibilità di un conflitto violento di proporzioni disastrose sono sempre più vicine, e il cambiamento del sistema corrente ormai in declino è divenuto necessario». La seconda parte del documento si sofferma su alcuni “principi fondamentali”, che dovrebbero essere assunti dal governo del Paese. Fra tutti, viene sottolineato che «la libertà è al cuore dei valori umani universali. Senza di essa, la Cina sarà sempre lontana dagli ideali di civiltà». Il vero punto qualificante del documento è l’affermazione secondo cui «i diritti umani non sono concessi dallo Stato; ogni persona nasce con inerenti diritti alla dignità e alla libertà; il governo esiste per la protezione dei diritti umani dei suoi cittadini e l’esercizio del potere dello Stato deve essere autorizzato dal popolo».
La terza parte del documento elenca i passi necessari per trasformare la Cina in un Paese non più autoritario, ma che difenda i diritti umani e garantisca lo sviluppo sociale. I firmatari raccomandano al governo cinese di stilare una nuova Costituzione, separando i poteri legislativo, giudiziario e esecutivo e rendendo elettiva ogni carica. Si chiede che venga garantita la libertà di formare gruppi, la libertà di espressione, la libertà religiosa, perchè il sistema attuale – che discrimina fra comunità religiose registrate e non registrate (considerate illegali) - va sostituto «con un sistema in cui la registrazione è facoltativa e, per coloro che la scelgono, automatica». Vi sono anche suggerimenti di tipo “sociale”: una correzione delle divisioni fra città e campagne; semplificazione del sistema delle tasse, eliminando quelle ingiuste; garanzie di sicurezza sociale per tutti (educazione, sanità, pensione, impiego); promozione della proprietà privata, garantendo la proprietà della terra ai contadini. Dal punto di vista politico, i firmatari suggeriscono che una Cina democratica abbia una forma federale, per facilitare la convivenza con gruppi etnici e religiosi (vedi alla voce Tibet). Per questo, domandano che siano liberati tutti i prigionieri politici e di coscienza e che si apra una Commissione sulla verità, che indaghi sulle «passate ingiustizie e atrocità». Non è difficile capire perchè il governo abbia risposto a queste richieste con l’arresto di chi ha osato presentarle. Ma è arrivato il momento che Pechino apra gli occhi alle richieste di ogni strato della sua popolazione.
Un gruppo composto da 303 intellettuali firma la Carta, che guarda a quella del 1977 lanciata da Havel
Un altro, Zhang Zuhua, è stato sottoposto a interrogatorio per 12 ore e poi rilasciato. Ieri lo scienziato Jiang Qisheng e l’avvocato Pu Zhiqiang sono stati interrogati. Pu è ancora sotto il controllo della polizia. Il documento è composto da tre parti. La prima contiene una introduzione che percorre gli ultimi 100 anni della storia della Cina dalla prima costituzione fino ai giorni nostri - in cui molti cinesi «vedono con chiarezza che libertà, uguaglianza, e diritti umani sono valori universale dell’umanità e che la democrazia e un governo costituzionale sono la struttura fondamentale per proteggere questi valori». I firmatari puntano il dito contro il partito Comunista, che «ha preferito costruire una modernizzazione disastrosa, allontanandosi da questi valori e privando la gente dei propri diritti, distruggendo la loro dignità, corrompendo i normali rapporti umani». Il documento apprezza i cambiamenti avvenuti negli ultimi 20 anni, con l’uscita del Paese dalla povertà e dal totalitarismo maoista. Ma sottolinea anche che «la maggior parte di questo progresso politico non è andato oltre le affermazioni scritte sulla carta». I risultati di questi cambiamenti sono stati «la corruzione governativa, la mancanza di uno stato di diritto, deboli diritti umani, corruzione del-
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Geopolitica. L’anarchia in Pakistan rappresenta una minaccia non solo per l’Afghanistan ma per l’intero subcontinente indiano
Il nuovo Medio Oriente Una grande regione che, senza interruzione, si estende dal Mediterraneo al Myanmar di Robert Kaplan e aree di influenza in cui avevamo diviso il mondo al tempo della guerra fredda si sono sgretolate grazie agli attacchi terroristici di Mumbai. Non possiamo più considerare l’Asia del Sud come una regione distinta dal Medio Oriente; in realtà si tratta di una regione senza interruzione che si estende dal mar Mediterraneo alle giungle del Myanmar, ed ogni situazione di crisi che si verifica, dal conflitto israelo-palestinese a quello indu-musulmano, è interconnessa. Tuttavia questo Medio Oriente allargato non rappresenta un fatto nuovo, quanto
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tese. Ricordando la situazione che si verificò al momento della spartizione del subcontinente nel 1947, è noto che almeno quindici milioni di individui vennero sradicati dalla propria terra e che i disordini che ne conseguirono causarono più di mezzo milione di morti. Con tali antefatti, le relazioni relativamente pacifiche tra la maggioranza indù e i 150 milioni di musulmani che vivono in India sono testimoni efficaci del successo della democrazia. La democrazia ha permesso l’accettazione di quelle differenze etniche e religiose risalenti a centinaia di anni fa, anche se negli
Siamo tornati alla situazione in cui eravamo centinaia di anni fa. E non a causa di conflitti tribali ma della globalizzazione, che permette la libera circolazione di idee, popoli e terroristi una situazione antica. Per buona parte del medioevo e della storia moderna, Delhi faceva parte dello stesso regno che comprendeva Kabul, ma non Bangalore.
Dal sedicesimo al diciottesimo secolo, la dinastia Mughal, fondata da musulmani provenienti dall’Asia centrale, ha governato un immenso impero che comprendeva l’India del Nord e del Centro, la maggior parte dell’attuale Pakistan e gran parte dell’Afghanistan anche se i guerrieri hindi di razza maratta dell’India del Sud erano spesso in guerra con l’esercito imperiale.Tutta la storia dell’India, che ha prodotto una civiltà ricca di tesori turcopersiani come il Taj Mahal e i templi indù dello stato di Orissa, è la storia di ondate di invasori musulmani che si battevano e interagivano con le popolazioni locali, assimilando anche molto della cultura indigena indiana. Esiste un nome per la splendida architettura che si trova in molte zone dell’India e che integra lo stile musulmano e induista: architettura indo-saracena, un riferimento al termine con il quale venivano definiti gli arabi dagli europei nel periodo medioevale. Storicamente le relazioni indumusulmane sono sempre state
anni più recenti si sono verificate nuove ostilità. L’elemento scatenante del contrasto è stata la globalizzazione. Il nazionalismo indiano del Partito del Congresso di Jawaharlal Nehru, nato come reazione al colonialismo occidentale, è sempre più retaggio del passato. A seguito della fu-
sione della dinamica economia indiana con altre economie del mondo, gli indù e i musulmani hanno iniziato una ricerca separata delle antiche radici che potevano rappresentare un’ancora in uno scenario di civiltà globale. Le comunicazioni di massa hanno prodotto un induismo severo e uniforme, in cui sono confluite anche varianti più locali, mentre le minoranze musulmane, che non hanno diritto di voto, si sono sentite sempre più parte della comunità islamica mondiale.
La reazione dei musulmani al nazionalismo indiano si è manifestata più in un rifiuto psicologico che in modo violento: in alcuni casi si è risolto con il ricorso al burka e ai copricapo islamici, in altri i musulmani si sono auto-segregati in ghetti. Gli attacchi terroristici di Mumbai avevano molti obiettivi, uno dei quali era far esplodere un sentimento di ostilità tra le due comunità. I jiadisti non si propongono solo di distruggere il Pakistan, ma anche l’India. Ai loro occhi l’India rappresenta tutto ciò che odiano: gli indù, liberi e democratici, sono fortemente e sempre più filo-americani, e intratten-
gono relazioni militari con Israele. Per Washington, il problema non è solo difendere il Pakistan dal caos originato dallo spostamento di truppe dall’Iraq all’Afghanistan, bisogna affrontare la situazione dell’intera regione. Per questo motivo, per gli jiadisti, l’idea di un attacco terroristico sul tipo dell’11 settembre in India è stata brillante.
Il crescente stato di anarchia in Pakistan rappresenta una grave minaccia non solo per l’Afghanistan, ma anche per
l’intero subcontinente indiano. L’esistenza di gruppi terroristici, come Lashkar-e-Taiba, che hanno collegamenti con l’apparato di sicurezza pachistano, ma che sono al di fuori dell’area di controllo delle autorità civili, rappresenta la vera origine del caos. Un Pakistan in fase di collasso, e la perdita di ogni reale frontiera che separi l’India dall’Afghanistan, rappresenta il peggior incubo per l’India. L’attacco jihadista al centro finanziario dell’India non danneggia soltanto le relazioni indo-pakistane, me pone il nuovo
Dopo gli attacchi, la popolazione indù punta il dito contro la sinagoga. Che non deve riaprire
Mumbai, dove gli ebrei non sono più graditi di Massimo Fazzi a Nariman House, il Centro ebraico di Mumbai teatro della strage di israeliani durante gli attacchi del 26 novembre scorso, non deve riaprire. Perché è pericoloso per chi lo frequenta e per chi ci vive intorno. Perché è un covo di fanatici estremisti ebrei, che probabilmente si sono attaccati da soli durante le stragi degli alberghi per puntare il dito contro i musulmani. Perché non ci si sente sicuri ad averli accanto. Non è una farneticazione personale: queste sono soltanto alcune delle frasi gridate ieri durante una piccola manifestazione di quartiere nella zona del mercato di Colaba, dove sorge la Nariman, inscenata dai residenti che chiedono al governo di proibirne la riapertura. Poco importa che nell’attacco al centro siano morti il
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rabbino Gavriel Holtzberg, sua moglie Rivka e i loro quattro ospiti: la presenza degli ebrei minaccia la zona, e questo basta per chiederne l’allontanamento.
Il governo indiano ha permesso ad alcuni agenti dei servizi d’intelligence israeliani di condurre un’indagine congiunta con la polizia della metropoli asiatica. I risultati sono stati chiari: gli omicidi sono nati da un sentimento anti-semita, comune nella mentalità del fondamentalismo islamico, e miravano a spaventare la comunità ebraica di Mumbai. Ashok Pandy, 62enne vicino di casa, la pensa allo stesso modo: «Quello che è accaduto qui lo si deve a loro. Se dovessero tornare, ci sarebbero altri problemi: per questo non li vogliamo». Ahmad Khan,
proprietario di un piccolo negozio in zona, rincara la dose: «Non sappiamo con precisione cosa sia successo, ma penso che siano stati loro stessi ad attaccarsi da soli: forse per ottenere qualcosa. Certo, questa è casa loro: ma non penso debbano tornare». Solomon Sopher, leader della comunità ebraica locale, dice di comprendere la preoccupazione dei vicini: «Non sarà facile per loro dimenticare quanto è successo, ed è normale che addossino a noi la colpa dell’attentato. Vedremo cosa fare».
Ma non nasconde la preoccupazione: «L’anti-semitismo era molto presente nella società indiana, ed è stato sconfitto da Gandhi. Speriamo che non torni violento come un tempo non troppo lontano».
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È incredibile che il mondo non islamico continui a far finta di nulla davanti al terrorismo
Dopo gli attentati in India l’Occidente dorme ancora di Daniel Pipes e vittime sorprese dalle atrocità terroristiche perpetrate in nome dell’islam generalmente provano paura, subiscono torture, avvertono ribrezzo e conoscono l’inferno, con sirene spiegate, cecchini appostati e carneficina nelle strade. È stato questo il recente caso di Bombay (oggi chiamata Mumbai), dove circa 195 persone sono rimaste uccise e 300 ferite. Ma nonostante il vero obiettivo del terrorismo islamista, per il mondo in generale l’episodio è stato svigorito, con apologetica e giustificazione a stemperare repulsione e raccapriccio. Se il terrorismo è considerato come la più crudele e disumana forma di guerra, atroce nella sua brutalità di piccolo calibro e nel dolore inflitto intenzionalmente, il terrorismo islamico è diventato un teatrino politico ben recitato. Gli attori interpretano i loro ruoli da copione, poi abbandonano la scena, presto dimenticata. In effetti, riflettendo sugli episodi di terrorismo islamico che hanno maggiormente richiamato l’attenzione del pubblico e perpetrati ai danni degli occidentali a partire dall’11 settembre – l’attacco contro cittadini australiani a Bali, contro gli spagnoli a Madrid, i russi a Beslan, i britannici a Londra – emerge un duplice schema: esultanza musulmana e rifiuto occidentale. Si replica la stessa tragedia, cambiano solamente i nomi. L’attacco di Mumbai ha scatenato delle condanne di circostanza, ha messo a tacere le scuse ufficiali e la profusione di entusiasmi ufficiosi. Come rileva l’Israel Intelligence Heritage & Commemoration Centre, il governo iraniano e quello siriano hanno sfruttato l’accaduto «per attaccare gli Stati Uniti, Israele e il movimento sionista, e farli passare per i responsabili del terrorismo in India e nel mondo in
L
governo civile del Pakistan, che ha effettivamente tentato di migliorare i rapporti con l’India, in una situazione ingestibile.
L’attacco indebolisce entrambi i Paesi. Ogni possibilità di accordo sul problema del Kashmir, territorio a maggioranza musulmana rivendicato dal Pakistan, diventa sempre più difficile e può solo dare origine a nuove violenze. A sua volta questa situazione riduce le possibilità di riavvicinamento tra India e Pakistan sul problema dell’Afghanistan, con il Pakistan che cerca di minarne l’autorità governativa e l’India che invia aiuti per milioni di dollari. I servizi segreti pakistani puntano ad un Afghanistan islamico radicale come base strategica di difesa dall’India, mentre l’India vorrebbe promuovere un Afghanistan moderato e secolare come arma contro il Pakistan. Il Pakistan non è solo in preda al caos, ma anche pericolosamente isolato. L’islam non è riuscito a consolidare i vari gruppi etnici della regione, e dunque ha fatto ricorso al fondamentalismo come elemento unificante che ha rappresentato una tragedia nazionale. Per di più i settori militari pakistani temono di essere abbandonati da Washington nel momento in cui i capi di Al Quaeda venissero catturati o uccisi. Tuttavia anche l’India, non solo il Pakistan, ha disperatamente bisogno di aiuto. La soluzione, o almeno la neutralizzazione, del conflitto israelo-palestinese
è un requisito indispensabile per ridurre l’influenza del radicalismo e dell’Iran in tutto l’Oriente, e lo stesso vale per i conflitti indo-pakistani nell’altro estremo del Medio Oriente. La nostra concezione di “processo di pace” è antiquata e va ampliata. Abbiamo bisogno di un secondo mediatore per il
generale». Il sito web di al Jazeera è pieno zeppo di commenti del genere: «Allah, garantisci la vittoria ai musulmani. Allah, garantisci la vittoria al jihad», e ancora «L’uccisione di un rabbino ebreo e di sua moglie nel centro ebraico di Mumbai è una notizia confortante». Un suprematismo e un fanatismo del genere non riescono più a sorprendere, vista la ben documentata approvazione del terrorismo da parte di innumerevoli musulmani. Ad esempio, il Pew Research Center for the People & the Press ha condotto nella primavera 2006 un sondaggio attitudinale su vasta scala dal titolo La Grande Divisione: come si vedono gli occidentali e i musulmani.
Dalle indagini demoscopiche condotte su circa un migliaio di persone in seno ad ognuna delle dieci popolazioni musulmane intervistate, è emersa una proporzione pericolosamente alta di musulmani che, all’occasione, giustificano gli attentati suicidi: il 13 percento in Germania, il 22 percento in Pakistan, il 26 percento in Turchia e il 69 percento in Nigeria. Un’allarmante porzione ha dichiarato inoltre di avere una certa fiducia in Osama bin Laden: l’8 percento in Turchia, il 48 percento in Pakistan, il 68 percento in Egitto e il 72 percento in Nigeria. Ecco le conclusioni da me tratte nel 2006 in merito al sondaggio Pew: «Queste incredibili cifre denotano che il terrorismo musulmano ha delle radici profonde e rimarrà un pericolo per gli anni a venire». Ovvia illazione, no? Purtroppo no. Il fatto che il pesce terrorista stia nuotando in un ospitale mare musulmano quasi svanisce tra i piagnucolii del mondo politico, giornalistico e accademico occidentali. Che la si chiami political correctness, multiculturalismo o odio verso se stessi, qualunque Medio Oriente, un diplomatico esperto che si muova regolarmente tra New Delhi, Islamabad e Kabul (si sono fatte ipotesi sul fatto che Barack Obama possa nominare Richard Holbrooke, già ambasciatore presso le Nazioni Unite, per svolgere tale ruolo). Il Medio Oriente sembra essere tornato
sia il nome, questa mentalità causa delusione e titubanza.
La nomenclatura mette a nudo questo rifiuto. Quando a colpire è un solo jihadista, quando i politici, le forze dell’ordine e i media uniscono le forze per negare perfino la realtà del terrorismo, e quando tutto deve far riconoscere la natura terroristica di un attac-
coloro che rimpiazzerebbero la guerra al terrorismo con una lotta per la sicurezza e il progresso immaginano che questo gambetto linguistico conquisterà i cuori e le menti musulmani. Dopo Mumbai, Steven Emerson, Don Feder, Lela Gilbert, Caroline Glick, Tom Gross,William Kristol, Dorothy Rabinowitz e Mark Steyn continuano a rilevare vari aspetti
Stati Uniti, Spagna, Inghilterra e oggi India. Cos’altro deve accadere per risvegliare il mondo occidentale dal suo torpore? co, come a Mumbai, un pedante establishment rifugge il problema per evitare di attribuire la colpa ai terroristi. Ho documentato questa riluttanza, elencando venti eufemismi scovati dalla stampa per descrivere gli islamisti che attaccarono una scuola a Beslan nel 2004: aggressori, assalitori, assassini, attentatori, attivisti, combattenti, commando, criminali, estremisti, gruppo, guerriglieri, insorti, militanti, perpetratori, predoni, radicali, rapitori di bambini, ribelli, separatisti, sequestratori, tutt’altro che terroristi. E se terrorista è scortese, aggettivi come islamista, islamico e musulmano diventano innominabili. Il mio blog Not Calling Islamism the Enemy fornisce copiosi esempi di questa riluttanza, con le sue motivazioni. In poche parole,
alla situazione di centinaia di anni fa, non a causa di antichi conflitti tribali ma della globalizzazione. Non esistono più rigidi confini ma margini variabili, in quanto la facilità di spostamenti e i mezzi di comunicazione permettono la circolazione di idee, popoli e terroristi da un posto all’altro. Per quan-
di questo futile comportamento linguistico, con Emerson che sostiene con amarezza: «A oltre sette anni dall’11 settembre, possiamo adesso emettere un verdetto: i terroristi islamici hanno conquistato i nostri cuori e le nostre menti».
Alla fine, cosa sveglierà gli occidentali dal loro stupore, cosa li indurrà a dare un nome al nemico e a combattere la guerra per vincerla? Solo una cosa sembra probabile: le morti di massa, e mi riferisco a 100mila vittime in un attacco con armi di distruzione di massa. Eccezion fatta per questa ipotesi, a quanto pare, gran parte dell’Occidente, utilizzando con soddisfazione misure difensive contro “attivisti” descritti in modo bizzarro, sonnecchierà tranquillamente. to difficile e banale possa sembrare, la nostra strategia migliore consiste nell’essere ovunque nello stesso momento, non con truppe militari, ovviamente, ma con tutta l’energia e la costante attenzione di cui i nostri apparati di sicurezza - e quelli dei nostri alleati possono essere capaci.
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Il punto. A due mesi esatte dalle elezioni, il Likud di Netanyahu supera Kadima. Barak precipita
Israele svolta a destra di Antonio Picasso
TEL AVIV. Fa caldo in questi giorni a Tel Aviv. Ma non sono i 29 gradi fuori stagione, portati dal leggero vento che viene dal mare, a fare di Israele un Paese elettrizzato. Bensì il clima elettorale che sta attraversando. Sotto il sole che a dicembre è del tutto innaturale per il Mediterraneo, gli israeliani seguono con evidente disincanto le primarie del Likud e del Labour e attendono senza tanta curiosità il voto fissato fra esattamente due mesi: il 10 febbraio 2008. La percezione è che Israele abbia la testa su preoccupazioni molti più urgenti. L’Iran, per esempio, ma anche i recenti attentati a Mumbai, dove sono morti quattro cittadini israeliani. E se la classe dirigente auspica un ritorno di interesse al dibattito politico da parte dell’opinione pubblica, quest’ultima pretende che il nuovo governo metta mano proprio a queste emergenze. Dopo la
guerra dei “34 giorni” due anni fa, dopo la mesta fine del governo Olmert, la sfiducia è tanta. Se poi questa si associa a un desiderio non nascosto di bloccare la corsa al nucleare di Teheran con una risoluzione immediata – piuttosto che con un, a loro giudizio, improduttivo confronto diplomatico com’è invece suggerito dall’Occidente – si arriva in fretta a spiegare il caldo di questa stagione elettorale israeliana.
A un anno da Annapolis, i buoni propositi del processo di pace sono stati quasi tutti messi da parte. Il dialogo con la Siria – a suo tempo valutato come il risultato più positivo del summit – passa ormai sotto silenzio. Ad Abu Mazen e a Fatah si guarda con preoccupata cautela. Memore della vittoria di Hamas alle elezioni di gennaio 2006, Israele teme che un suo successore alla Presidenza del-
l’Anp – semmai ci saranno le elezioni a inizio anno – sia un “nuovo Haniyyeh”. Nel frattempo, Olmert, deus ex machina insieme a Bush, di Annapolis è sul viale del tramonto. C’è da chiedersi, allora, se tutto questo porterà un cambiamento. E di che tipo. Mentre le probabilità di vittoria di Kadima si vanno assottigliando, i risultati emersi dalle primarie nel Partito laburista e nel Likud di Netanyahu fanno ipotizzare una significativa svolta a destra per il Paese. E questo con tutto ciò che può comportare, sia sul piano diplomatico sia sul fronte del processo di pace. Senza ombra di dubbio, il movimento di Ehud Barak è in caduta libera. Gli ultimi sondaggi ipotizzano che degli attuali 19 seggi occupati alla Knesset, su un totale di 120, i laburisti potranno conservarne solo 10. Il partito paga lo scotto per le scelte politiche degli ultimi due
In crescita anche le frange più estreme, come quella di Moshe Feiglin, famoso per le sue dichiarate posizioni anti accordo di pace
Sopra, madre e figlia insieme al seggio elettorale. A lato Benjamin Netanyahu, il controverso leader della destra israeliana
anni, ma appare anche svilito nei suoi ideali strutturali. Emblematico il tentativo, proprio di questi giorni, di creare una nuova forza social-democratica, orientata davvero al dialogo con i palestinesi e in alternativa al Labour.
Se il progetto andasse a buon fine, si tratterebbe di un’ulteriore perdita di consenso per il ministro Barak, dopo quello già subito tre anni fa con la nascita di Kadima. Non ci si può dimenticare, infatti, che il sogno terzista di Sharon venne condiviso anche da molti laburisti, tra cui lo stesso Shimon Peres, che abbandonarono così la loro casa-madre politica perché trasportati dal cambiamento. A questo va aggiunta la responsabilità dell’allora leader del partito e ministro della Difesa, Amir Peretz, nella cattiva conduzione del conflitto contro Hezbollah nel 2006. Non è bastato, infatti, che Peretz si sia dimesso da entrambi gli incarichi ormai un anno fa, lasciando il posto al più popolare e stimato Barak. Il ricordo di quei 34 giorni di scontri, che non hanno portato a nulla, non si è spento tra gli elettori israeliani. D’altro canto, le buone possibilità di vittoria attribuite al Likud sono oggi offuscate dai numeri emersi con le loro primarie. Netanyahu sa che vincere è buono, ma stravincere può essere controproducente. Soprattutto se i centomila iscritti del suo partito hanno affiancato alla sua leadership un nutrito gruppo di esponenti dell’ala più oltranzista e intransigente. Il nome di Moshe Feiglin, famoso per le sue dichiarate posizioni di estrema destra e per i sospetti contatti con alcuni gruppi religiosi eversivi, è tutt’altro che vantaggioso per il Likud. Netanyahu intende sì rivedere Annapolis, escludere Gerusalemme da qualsiasi negoziato futuro e far pesare la forza di Israele nel dialogo con l’Anp. Ma questo è diverso dalla volontà di mettere in discussione l’intero processo di pace, come appunto la frangia più dura – e oggi vittoriosa – del Likud ha promesso di fare. Gli estremismi non giovano al candidato premier di Israele. Né in casa, dove Netanyahu auspica di strappare il consenso dei moderati di destra di Kadima. Né all’estero, dove comunque il confronto impostato da Olmert e dalla Livni aveva riscosso il consenso di Stati Uniti ed Europa. *Analista Ce.S.I.
in breve Obama: nessun contatto con Blagojevich «Nessun contatto» con Blagojevich. Il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, esclude qualsiasi legame con il governatore dell’Illinois. Dichiarazioni che arrivano poche ore dopo l’arresto di Rod Blagojevich, che avrebbe tentato di vendere al miglior offerente il seggio reso vacante proprio dall’elezione di Obama alla Casa Bianca (spetta infatti al governatore nominare il successore del senatore eletto alla presidenza). Obama, parlando a Chicago al fianco dell’ex vicepresidente Al Gore, al termine di un incontro dedicato a clima ed energia, si è detto «rattristato» dall’arresto di Blagojevich. Ma il presidente eletto degli Stati Uniti ha voluto sottolineare di «non aver avuto contatti con il governatore o il suo ufficio, per questo non ero a conoscenza di quello che stava accadendo». Obama ha aggiunto che non farà altri commenti sulla vicenda, «perché è in corso un’inchiesta».
Zimbabwe, continua la strage del colera L’epidemia di colera che dallo scorso agosto ha colpito lo Zimbabwe ha provocato 774 morti. Il bilancio è stato reso noto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) secondo la quale il numero delle vittime continua ad aumentare giorno per giorno. I casi di contagio sono in totale più di 15.500. L’area più a rischio è quella della capitale, Harare, dove si sono registrati finora quasi 200 decessi e le persone ammalate sono oltre 7.600. L’epidemia è la più grave mai verificatasi nel Paese africano. E a causa della fuga di massa degli sfollati il contagio rischia sempre più di propagarsi agli altri Stati della regione, dal Sudafrica al Mozambico, al Malawi. Non a caso il Sudafrica ha allestito strutture mediche al confine, dove vengono curate decine di persone. Per fronteggiare l’emergenza, in alcuni quartieri periferici di Harare sono stati consegnati, migliaia di litri di acqua. Sono settimane che molte zone della capitale sono senza acqua.
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in breve Gb, ritiro truppe dall’Iraq a marzo
on c’è pace per il quadro istituzionale europeo. Non sono bastati dodici mesi per ottenere tutte le ratifiche nazionali al Trattato firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007 dai Capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri. All’apertura del Consiglio europeo di fine semestre francese ecco ripresentarsi il solito convitato di pietra: il Trattato di Lisbona. I sei mesi a guida francese si erano aperti con il clamoroso “no” irlandese e si chiudono con l’altrettanto imbarazzante rinvio della Repubblica Ceca. Il Parlamento di Praga, riunito in seduta straordinaria per la ratifica, ha scelto di aggiornare i lavori al 3 febbraio 2009. Non si tratta di un “no” a Lisbona, ma comunque di qualcosa di estremamente grave. Il Paese che dal 1 gennaio 2009 assumerà la presidenza di turno è il solo, naturalmente con l’Irlanda, a non aver ratificato la nuova struttura istituzionale europea. Dunque l’Unione si ferma a 25, proprio all’apertura di quel 2009 che doveva essere così decisivo per il suo sviluppo istituzionale.
N
Praga. Fumata nera al Parlamento, che posticipa la ratifica del Trattato di Lisbona
Si può guidare l’Europa senza crederci? di Michele Marchi ropa abbia progressivamente ridotto le proprie ambizioni istituzionali e nonostante questo abbia ottenuto una lunga serie di insuccessi. Referendum francese, referendum olandese, “pausa di riflessione”, compromesso istituzionale di Lisbona, referendum irlandese e ora “l’umiliazione”finale dell’avvio del semestre ceco senza la ratifica di Praga. Elencare questi insuccessi può sembrare ingrato ma aiuta a rendere bene l’idea di un processo continuamente in divenire che finisce però per dare l’impressione della provvisorietà e dell’incertezza. Un messaggio nella direzione op-
quanto resti comunque “storico” il momento: la presidenza dell’Ue è per la prima volta nelle mani di uno dei “fratelli separati” dell’Est, quella Praga così centrale per tutte le vicende del tragico ‘900 europeo. Dall’altro lato bisogna andare al di là delle difficoltà contingenti (l’euroscettiscimo del partito di governo Ods e le sue recenti difficoltà elettorali non poco hanno pesato nella decisione di questo rinvio) e prendere atto della differente declinazione di “europeismo”dei Paesi dell’Est, entrati nell’Unione nel 2004. Le riserve nel cedere percentuali importanti di sovranità a
Senza firma, niente presidente fisso (due anni e mezzo rinnovabili), niente alto rappresentante per la politica estera dotato di una sua struttura diplomatica autonoma e niente riduzione del numero dei commissari dal 2014 Senza l’unanimità nel processo di ratifica niente Trattato di Lisbona e mantenimento del tanto criticato Trattato di Nizza. Niente Presidente fisso (due anni e mezzo rinnovabili), niente Alto Rappresentante per la politica estera dotato di una sua struttura diplomatica autonoma e niente riduzione del numero dei commissari a partire dal 2014.
Ma soprattutto, e questo da un punto di vista simbolico è ancor più grave, l’impressione che da Laeken in poi (dicembre 2001) con la nascita della Convenzione europea guidata da Valery Giscard d’Estaing, l’Eu-
posta rispetto a quella che le opinioni pubbliche europee si attenderebbero nell’attuale fase di crisi economica. L’Europa “rifugio” e dominata da un “capitalismo dal volto umano” da contrapporre a quello selvaggio di Wall Street rovina non poco la sua immagine nel mostrarsi incapace di chiudere una transizione istituzionale aperta sette anni fa. Al momento bisognerà però fare di necessità virtù. La presidenza di turno passerà alla Repubblica Ceca dell’euro-tiepido primo ministro Topolanek e dell’euro-scettico presidente della Repubblica Klaus. Da un lato non bisogna trascurare
Bruxelles e le contemporanee reticenze nell’uniformarsi a normative europee del tutto metabolizzate dal nucleo storico dei Paesi fondatori devono essere valutate alla luce degli oltre quarant’anni di storie separate. La frattura tra Europa occidentale ed Europa dell’est va ben oltre le barriere territoriali e solo il tempo, e un complicato lavoro di costruzione di memorie il più possibile condivise potrà sanarla.
Accanto al“dilemma ceco”non mancherà il dossier irlandese al tavolo dei 27 riuniti a Bruxelles. Con una certa ansia è in particolare atteso l’annuncio del Pri-
mo ministro Cowen: quando si terrà l’oramai certo nuovo referendum? I più informati parlano di ottobre 2009, per riuscire in extremis entro l’anno (il 1 novembre 2009 si dovrà insediare la nuova Commissione) a garantire il lancio delle istituzioni previste dal Trattato di Lisbona. Ma fonti autorevoli aggiungono anche che il nuovo referendum non si avrà senza una cospicua contropartita negoziata da Dublino. Naturalmente gli opt out su aborto, politica di difesa e libertà di imposizione fiscale ma in aggiunta anche la garanzia che non si passerà alla riduzione del numero dei commissari europei (2/3 rispetto al numero dei Paesi membri) così come previsto dal Trattato di Lisbona a partire dal 2014. Dublino vuole fortemente il suo commissario. Paradosso dei paradossi: il numero dei commissari resterebbe quindi regolato dal Trattato di Nizza che prevede, e cito testualmente,“una volta l’Unione raggiunti i 27 Paesi, il numero di commissari dovrà essere minore a quello degli Stati membri”. Dunque nuovo referendum con il rischio concreto per Dublino di non ottenere ugualmente il proprio commissario. E allora: l’Europa che deve metabolizzare il trauma del passaggio dal volontarismo europeista di Sarkozy all’euro-scetticismo della coppia Topolanek-Klaus si può concedere il lusso di perdersi in tecnicismi da esperti di diritto comunitario?
Le forze britanniche presenti al momento sul territorio iracheno potrebbero iniziare il ritiro il prossimo marzo. Lo rivela un vertice militare anonimo alla Bbc. Secondo il network, le truppe presenti a Bassora potrebbero iniziare lo smantellamento se le elezioni previste in Iraq per gennaio si svolgeranno in maniera pacifica. Il ritiro sposterebbe in automatico l’impegno inglese sull’Afghanistan. Il primo ministro di Londra, Gordon Brown, ha dichiarato che quasi tutto il personale presente nel Paese mediorientale dovrebbe andarsene al più tardi entro il giugno 2009. Si parla di mantenere circa 200 soldati in appoggio alle forze di sicurezza irachene. La conferma delle indiscrezioni viene da una portavoce del ministero della Difesa, che dice: «Abbiamo ottenuto progressi significativi a Bassora, una città rinata grazie alla cooperazione fra la coalizione e gli iracheni».
Sinodo ortodosso, elezione del patriarca il 28 gennaio La Chiesa ortodossa russa avrà il suo nuovo patriarca il 1° febbraio. Lo ha dichiarato il metropolita Kirill di Smolensk all’indomani dei funerali di Alessio II, morto lo scorso 5 dicembre all’età di 79 anni. Proprio ieri si è tenuto un Sinodo straordinario per stabilire la data in cui avverrà l’elezione del capo della Chiesa russo-ortodossa. Al termine, Kirill ha annunciato che il sinodo elettivo si terrà il 28 e il 29 gennaio. Osservatori della Chiesa ortodossa pensano che il successore più adatto ad Alessio sarebbe proprio il metropolita Kirill, 62 anni, grande esperienza ecumenica nel rapporto fra ortodossi e con la Chiesa cattolica. Un altro possibile candidato è il metropolita Kliment Kapalin di Kaluga e Borovsk. Quest’ultimo sarebbe anche più ben visto dagli “outsiders”, cioè dal governo russo di Medvedev e Putin, che troverebbero Kliment molto più “malleabile” di Kirill.
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(Tardo)considerazioni. Con i soliti, consueti 10-15 anni di ritardo, si certifica che il Pd è saltato come la linea Maginot in quattro e quattr’otto
Gli analisti della “buon’ora” La crisi irreparabile e verticale della sinistra italiana nei libri di Edmondo Berselli e Rodolfo Brancoli di Gabriella Mecucci untuali, cioè con i consueti 10-15 anni di ritardo, due intellettuali di sinistra si accorgono dell’amara verità: la crisi verticale, irreparabile della sinistra. E scrivono due libri che certificano – ben sei mesi dopo il trionfo di Berlusconi – che il Pd è saltato come la linea Maginot in quattro e quattr’otto. I due sono Edmondo Berselli e Rodolfo Brancoli: il primo firma per Mondadori Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica; il secondo per Garzanti annuncia: Fine corsa. Le sinistre italiane dal governo al suicidio. Alla buon’ora. Entrambi i nostri analisti sono di fede prodiana e proprio per questo probabilmente sono arrivati alle drammatiche conclusioni subito dopo la sconfitta del governo dell’Unione. Prima non avevano risparmiato critiche a chiunque dicesse cose analoghe ad alcune di quelle che oggi scrivono loro medesimi. Gli intellettuali veltroniani, un tempo numerosissimi, in compenso ancora tacciono. I due lunghi e appassionati saggi di Berselli e Brancoli, pur giungendo a giudizi fiminali non dissimili, sono fra loro profondamente diversi.
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Il primo lo dice chiaro e tondo: «Certo che vinceranno sempre gli altri. Perché noi siamo fuori tempo, fuori moda, fuori gioco… Ci vorrebbe una cultura, un leader, uno schema politico. Ci vorrebbe almeno un’idea. Invece i riformisti non hanno ancora un programma e gli estremisti non hanno più un peso. Di idee non se ne parla più». Brillante e liquidatorio. E allora, che fare? Risposta: «La prima cosa che la sinistra deve fare è imparare a dire la verità. Il che non è semplice perché la sinistra crede di essere la verità, e quindi non sente il bisogno di dirla». Un problemino mica da niente. Ma la verità non la dice tutta nemmeno Berselli. In realtà nell’ultimo quin-
dicennio i vari Occhetto, D’Alema,Veltroni, Bertinotti, e anche Prodi, lungi dal tentare di costruire una cultura e una politica riformista, anziché dare su questi temi una robusta battaglia, hanno preferito lisciare il pelo ad ogni sorta di estremismo. A partire dal passaggio da Pci a Pds fino ad oggi, sono rari i momenti in cui ha prevalso in modo non equivoco la sinistra moderata e di governo. Anzi in realtà solo nel primo ese-
queste manifestazioni. E gli altri – quelli che non ci andavano – se ne guardavano bene dall’attaccarle frontalmente come meritavano. Ad un certo momento cominciò a farlo Rutelli. Ma Prodi tacque e anche gli editorialisti alla Berselli non brillarono come critici di simili comportamenti. E in quanti difesero il povero Pansa quando scrisse dei crimini di cui si macchiò anche la Resistenza? Per non dire della politica eco-
La nostra “gauche” non ha fatto mai sino in fondo i conti con gli errori del passato. E silenzio dopo silenzio, ha costruito un pasticcio indigeribile cutivo Prodi – con la scelta di entrare in Europa anche a prezzo di sacrifici pesanti – prevalse questo orientamento. Ma che dire della partecipa-
zione a cortei spesso egemonizzati dai centri sociali in cui l’antiamericanismo sconfinava in slogans criminali, l’antisraelismo diventava antisemitismo, il presunto pacifismo nascondeva qualche simpatia verso il terrorismo? Tutto ciò a qualche cosa a che vedere con il riformismo? Eppure, spesso Fassino, Veltroni, D’Alema, ma anche qualche vecchio democristiano di sinistra s’infilavano in
nomica: delle 281 pagine di un programma massimalista e irrealizzabile, oltrechè spessoo incomprensibile. E la Cgil? E il referendum sulla legge per l’inseminazione assistita? Sono questi solo alcuni degli argomenti, in cui avrebbe dovuto cimentarsi un sano riformismo dando risposte ben diverse a quelle che vennero date. Risposte più nette, più limpide, in grado di non dar adito ad equivoci. E, invece, la sinistra non ha fatto mai sino in fondo i conti con le proprie radici, con gli errori del passato. E silenzio dopo silenzio, acquiescenza dopo acquiescenza ha costruito un pasticcio indigeribile fatto di estremismo ed opportunismo. Ha preferito costruire pantheon rassicuranti invece di fare battaglie conseguenti e proposte realizzabili. Ha scelto l’alleanza con tutti i radicalismi (da Di Pietro a Bertinotti) e alla fine ne è rimasta prigioniera.
Occorre riconoscere però che almeno
il modello Prodi è stato del tutto coerente con questo errore. Veltroni invece ha perseverato nella strategia del “ma anche”. Col risultato di rimanere in mezzo al guado e in politica - si sa - questa è la posizione più sbagliata. Se vuoi andare da solo alle elezioni, perché ti tieni l’alleato più pericoloso e impresentabile, cioè Di Pietro? Il libro di Berselli è brillante, in alcune parti acuto e divertente, ma sorvola mondanamente su tutto questo. Un racconto godibile ma poco altro di più.
Diverso, invece, il saggio di Rodolfo Brancoli che cerca di individuare le grandi questioni che Prodi - è lui il vero protagonista del saggio - ha dovuto affrontare fra il 2006 e il 2008. Brancoli è stato uno stretto collaboratore dell’ex capo del governo e il suo libro è prima di tutto il racconto di una serie di contraddizioni viste dal di dentro. Parte dal “padre” di tutti gli errori, quello di non tentare di allargare la maggioranza risicatissima (due voti al Senato) di cui godeva il governo. Il saggio fornisce una serie di spiegazioni sul perché non fu possibile, ma non è del tutto convincente. Brancoli poi tematizza alcuni grandi temi che a suo modo di vedere penalizzarono Prodi: il ritorno alla logica dei partiti, la ri - clericalizzazione della Chiesa, la ri – ideologizzazione della politica estera. Prendiamone uno a caso, l’ultimo: la sinistra non è forse la
Colloquio con Edmondo Berselli
«Ora basta con le scorciatoie, ricostruiamo una vera classe dirigente»
cultura
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prima responsabile di ciò? Basti pensare ai voti sull’Afghanistan, a quello sulla base americana di Vicenza e a certe manifestazioni di piazza. E come dimenticare la sfrontata stupidità con la quale si sostenne che il Vaticano non doveva entrare su alcuni temi di natura etica e sulle leggi che si andavano proponendo su tali argomenti?
Colloquio con Rodolfo Brancoli
«Salvo Prodi. Ma a sinistra vedo il vuoto»
In realtà, il centrosinistra era arrivato al governo senza aver fatto alcuna chiarezza al suo interno su temi qualificanti. Appena entrata a Palazzo Chigi si era spartito tutto senza troppo preoccuparsi delle difficoltà politiche che quell’esigua maggioranza avrebbe incontrato. Dopodichè aveva lasciato a briglia sciolta i propri istinti peggiori. E non poteva bastare per tenerli a bada la consapevolezza che o ce la faceva Prodi o si andava a nuove elezioni con tanto di sconfitta assicurata, né era sufficiente il vecchio collante antiberlusconiano, i due veri, unici argomenti forti per difendere il governo. I risultati sono noti. Le ultime pagine del libro sono piene di considerazioni interessanti e di particolari poco conosciuti. La frase con cui termina il lungo saggio è quella che Prodi disse a Brancoli dopo la sconfitta elettorale: «Quando fallisce due volte lo sforzo di costruire un’alternativa riformista, per molti anni sarà verosimilmente impossibile tornare a governare». Vero, verissimo. La sinistra riparte da un pesantissimo fallimento. Ci rifletta, cerchi di imparare a conoscere la società italiana e non la guardi con distaccato, ironico fastidio perché è a lei che deve saper dare risposte. E sarebbe un gran bene se i suoi intellettuali diventassero più disorganici, capaci di
esercitare l’arte della critica per tempo e con profondità anche nei confronti del principe. Un po’ di anticonformismo non
Oggi riparte da un pesantissimo fallimento. Cerchi di imparare a conoscere la società italiana e non la guardi con il solito, distaccato, ironico fastidio
Berselli, lei ci va giù duro, sostiene che che il riformismo non ha una cultura politica, non ha un’idea. Alla buon’ora, sono dieci anni che è così. L’ultima strategia è stata espressa dal primo governo Prodi, poi.. Non c’è dubbio che il Prodi del ’96 aveva un’impostazione culturale che si richiamava ad un’idea precisa: la modernizzazione del paese, ma con una grande attenzione alla complessità sociale. Ci si ispirava al famoso modello renano contro le semplificazioni pseudo modernizzatrici della destra. Oggi il Pd ha tante idee, ma non ha un’idea. Le culture che lo animano, quella post comunista e quella post democristiana fanno parte di un altro tempo. Una catastrofe di cui vi accorgete solo ora? Prima si è cercato di risolvere il problema cambiando le regole, poi riallestendo i partiti, infine puntando sulla leadership. Prodi è un leader
può che giovare a tutte le gradazioni di colore della sinistra.
che cerca l’accordo, la mediazione,Veltroni è un leader mediatico. La verità è che basta con le scorciatoie: bisogna ricostruire una vera classe dirigente politica e una vera cultura politica. Insomma, basta con le soluzioni trafelate. Trafelate? Sì, Parisi lo dice in modo un po’ duro e schematico, ma in fondo ha ragione: chi ha fatto le scelte su come andare alle ultime elezioni? Chi le ha discusse? Chi le ha approvate? Occorre ricostruire questo tessuto. Mi scusi ma gli intellettuali come lei non hanno responsabilità? Perché non avete messo in discussione queste scelte? Perché non avete parlato prima? Le responsabilità ci sono. Ma ora dobbiamo non aver paura di aprire un dibattito, di dire la verità. La scelta peggiore sarebbe l’inerzia. (g.m.)
A sinistra, Edmondo Berselli; in alto a destra, Rodolfo Brancoli. Sopra, in alto e nella pagina a fianco, quattro disegni di Michelangelo Pace
Brancoli, per spiegare il crollo del governo Prodi, lei chiama in causa molti responsabili, ma forse è tutto più semplice: quell’alleanza così composita non poteva reggere e il padre di tutti gli errori è stato quello di non fare un governo di unità nazionale.. Vero l’alleanza era composita, ma, con quella legge neo proporzionale, era l’unica possibilità che avevamo per vincere. Del resto il centrosinistra conteneva 18 partiti e il centrodestra 17. Tutti e due avevano fatto la stessa scelta pur di raggiungere la maggioranza. Quanto all’unità nazionale è stata un’ipotesi che non è mai realmente esistita. Le ricordo che quando Berlusconi la fece in conferenza stampa venne subito smentito da Fini. Lei critica Montezemolo e la Confindustria. Li descrive come una continua spina nel fianco del governo, perché? Le mie sono critiche tutte documentate. Produco decine e decine di fatti e di dichiarazioni. Lo fecero perché volevano superare il bipolarismo e arrivare ad una ricomposizione centrale. Lei nell’elencare le difficoltà del governo Prodi cita la ri-ideologizzazione della politica estera e la riclericalizzazione della Chiesa, ma è sicuro che su questi temi non ci siano state gravissime responsabilità della sinistra? So bene che ci furono, nel tentativo di distinguersi, prese di posizione in politica estera di alcuni partiti della coalizione profondamente sbagliate. Anche se il governo rispettò sempre i patti sia sull’Afghanistan che su altro. E’ vero anche che il referendum sull’inseminazione artificiale fu un errore. Io non cerco alibi per il centrosinistra, il mio libro è amaro, ma occorre riconoscere che i processi che segnalo (riideologizzazione e ri-clericalizzazione) si sono verificati nell’arco di un decennio e non sono legati soltanto agli episodi che lei ha citato. Quelli possono avere un peso, ma i due fenomeni hanno una storia più lunga e più complessa. Lei termina il suo libro con una frase di Prodi in cui si sostiene che ci vorrà parecchio prima che la sinistra torni a governare, ma questo non è anche colpa del governo Prodi? Io non difendo tutto ciò che è stato fatto. In teoria c’è sempre qualcosa che si poteva realizzare meglio, oppure evitare. Ma Prodi ha saputo concepire una strategia e creare un’alleanza e gli altri che cosa hanno fatto? E ora cosa stanno facendo? A sinistra vedo il vuoto sia nel mondo politico sia fra gli in(g.m.) tellettuali.
pagina 20 • 11 dicembre 2008
società Informazione. La crisi di New York Times e Tribune viene da lontano
lla fine se ne sono accorti. Ma ormai era troppo tardi. L’editoria tradizionale, soprattutto su carta stampata, sta attraversando una crisi profonda, molto probabilmente irreversibile. Il New York Times, in crisi di liquidità, è costretto ad ipotecare il grattacielo progettato da Renzo Piano e inaugurato appena un anno fa. Il gruppo Tribune (editore, tra l’altro, di Los Angeles Times e Chicago Tribune) porta il libri in tribunale e si avvia mestamente verso la bancarotta. Colpa della crisi economica globale? Niente affatto. Colpa del calo degli investimenti pubblicitari? Non solo.
A
Circa tre anni fa, negli Stati Uniti e in Italia, sono usciti due libri molto diversi tra loro, anche per impostazione “ideologica”, che sono di fondamentale importanza per capire quello che sta succedendo oggi (e che è iniziato allora). Il primo era “Blog”, scritto dal commentatore radiofonico e saggista emergente della destra americana Hugh Hewitt; il secondo era “Blog Generation”, dell’italiano Giuseppe Granieri, uno dei maggiori esperti di culture digitali del nostro Paese, che si dichiara un “progressista ragionevole”. Due libri
Perché i new media uccidono i giornali di Andrea Mancia emersi da contesti difformi che, però, giungevano a una conclusione sorprendentemente simile: la storia d’amore tra l’opinione pubblica e i tradizionali mezzi d’informazione è finita. E altre forme di comunicazione - chiamateli “nuovi media”, se volete - stanno gradualmente colmando questo vuoto di fiducia.
spetto all’asse mediano della politica americana, aggiungiamo il fatto che i new media hanno dei tempi di reazione molto più rapidi di quelli dei media tradizionali, ecco spiegato, almeno in parte, il declino dei media tradizionale.
Per Granieri, invece, le cause del fenomeno sono strutturali: «Molta gente ha perso fiducia nell’informazione ufficiale, che sente troppo lontana e troppo legata ai potentati economici: da un lato l’esigenza imprenditoriale di fare fatturato, dall’altro la concentrazione in grandi gruppi, non sono una reale garanzia». Qualunque sia la causa che ha portato i media tradizionali a perdere progressivamente la fiducia del pub-
Il giornalismo tradizionale sta perdendo la fiducia del pubblico. E ormai i più giovani considerano le notizie raccolte su Internet più veloci e affidabili di quelle della carta stampata La spiegazione che Hewitt e Granieri danno al fenomeno è, naturalmente, differente. Guardando all’esempio Usa (ma non si fa una gran fatica ad adattare il ragionamento anche al caso italiano), Hewitt sostiene che «il giornalismo d’élite è composto da persone che sono schierate in modo schiacciante all’estrema sinistra dello schieramento politico». Se a questa “deviazione ideologica” ri-
blico a cui si rivolgono, non sembrano esserci ragionevoli dubbi sulla reale portata del fenomeno. Tutte le ricerche più recenti dimostrano che i giovani dai 18 ai 34 anni utilizzano ormai Intenet come risorsa primaria per l’informazione. E i giornali sono considerati meno aggiornati, utili, divertenti e perfino attendibili della Rete.Le linee di tendenza parlano chiaro: i mainstream media stanno morendo.
cultura
11 dicembre 2008 • pagina 21
Compie oggi cento anni il regista portoghese Manoel Candido Pinto de Oliveira (a sinistra e in basso). Tra le sue produzioni cinematografiche più significative, “Douro-lavoro fluviale”, “Romance de Vila do Conde”, “Amor de perdicão” e “A divina comedia”
Cinema. Compie oggi cento anni il regista portoghese Manoel Candido Pinto de Oliveira
Buon compleanno, maestro di Pietro Salvatori ento anni sono passati dal 1908. Un anno lontanissimo, ormai da tempo strappato alle riflessioni della cronaca e della politica e confinato al giudizio della storia. La geografia dell’Europa è ancora dominata dai grandi imperi: quello austroungarico, alle prese con l’annessione della Bosnia e governato da quel Francesco Giuseppe ricordato dal mondo del cinema per essere stato il marito della splendida Sissi; e quello ottomano, che attraversava i turbolenti anni della rivoluzione laica dei Giovani Turchi, e sarebbe stato impegnato di lì a qualche anno nelle guerre balcaniche, prova generale della Prima Guerra Mondiale. Per offrire coordinate più prosaiche, nel 1908 nascono personaggi oggi già ampiamente rielaborati dal cinema, come Oskar Schindler, o come il senatore Joseph McCarthy, mattatore assoluto di un periodo controverso della politica americana. Ma anche figure che, con i loro scritti, hanno regalato tante storie al cinema di tutti i tempi, quali Ian Fleming, dalla cui penna è nato la spia più famosa di sempre, 007, o il nostro Giovannino Guareschi, prolifico creatore delle avventure di Peppone e don Camillo.
C
la sua lunghissima filmografia un tipo di cinema innovativo e insieme antico, a seconda dell’ottica dello spettatore e del periodo nel quale lo si osserva. Manoel Candido Pinto de Oliveira è nato infatti l’11 dicembre del 1908 ad Oporto, e ha impiegato solamente 23 anni a dirigere la sua prima opera, Douro-lavoro fluviale, realizzato a proprie spese, primo di una serie di documentari che caratterizzeranno i suoi esordi cinematografici.
Dal 1931, anno di confezione di Douro, si contano cinquanta, tra documentari, cortometraggi e lungometraggi, fino a Romance de Vila do Conde, cortometraggio di sette minuti presentato nel
di un regista a fine carriera. L’ottantatreenne de Oliveira dirige A divina comedia, film che, ispirandosi liberamente a Delitto e Castigo e a I fratelli Karamazov mescola sapientemente riferimenti, oltre che al grande autore russo Dostoevskij, alla Bibbia, a Nietzsche e al poeta e romanziere portoghese Josè Regio, meritandosi il Gran premio speciale della giuria al Festival di Venezia. Nessuno si aspettava che, dopo quello che appariva come uno splendido canto del cigno di un autore più che ottuagenario, de Oliveira stupisse tutti continuando ostinatamente a vivere con grinta e gioia di lavorare, producendo e firmando ancora 24
Dal 1931 si contano cinquanta tra documentari, cortometraggi e lungometraggi. Fino a “Romance de Vila do Conde”, corto di 7 minuti presentato all’ultimo Festival di Venezia
Il 1908, infine, è l’anno che ha dato i natali all’immortale Anna Magnani, attrice ormai da tempo oggetto di culto e di studio, indimenticabile e indiscussa protagonista di un lungo periodo del cinema italiano e mondiale. Coordinate necessarie a comprendere come il grande Maestro di cui oggi si festeggiano i cento anni ha attraversato anni e anni di Storia e di storie, anni e anni di elaborazioni, sperimentazioni e innovazioni cinematografiche, del quale è stato spesso protagonista, sviluppando nel corso del-
corso dell’ultimo Festival di Venezia. Cinquanta opere attraverso le quali il regista portoghese attraversa diverse fasi creative, riuscendo nel tempo a sviluppare un suo preciso percorso autoriale. Regista mai alla ricerca della moda cinefila del momento, de Oliveira si è contraddistinto per aver fin da subito, con un certo piglio, sviluppato una propria, ben definita, visione delle cose, affrontando il mezzo cinema come strumento etico-filosofico più che narrativo. Da qui la complessità di una produzione che è spesso rimasta indigesta al grande pubblico, per entusiasmare invece spesso la critica colta, e che ha vissuto eccessi quali Amor de perdicão, film lungo quattro ore e mezza, o Le soulier de satin, pellicola che raggiunge addirittura le sette ore di durata. Nel 1991 quello che molti considerano il capolavoro
tra corti e lungometraggi, all’incredibile ritmo di quasi due opere l’anno. Nel 1995 è con Catherine Deneuve in O convento, mentre nel 1996 ci regala l’ultima apparizione in video di Marcello Mastroianni in Viaggio all’inizio del mondo, presentato con tutti gli onori del caso alla cinquantesima edizione del Festival di Cannes. Ed è sempre alla croisette, ma nel 1999, che si aggiudica il premio della giuria con La lettera. A 95 anni, nel 2003, raggiunge forse il picco più alto della sua carriera con Un film parlato, nel quale dirige un cast di stelle che va da Malkovich alla Deneuve, da Irene Papas a Stefania Sandrelli, accorato canto di amore per le radici di un’Europa antica e civile che sta pian piano scomparendo.
Così come sta scomparendo il tipo di cinema incarnato da de Oliveira, un cinema ricercato, colto, ai limiti del calligrafismo, che non è interessato a convincere il proprio pubblico attraverso una narrazione, ma a coinvolgerlo in un viaggio visivo e filosofico attraverso quello che il portoghese considera un semplice strumento: «Il teatro - ha sostenuto - è un’arte, mentre il cinema non è che un mezzo per fissare ciò che si recita davanti alla macchina da presa». Nel giorno del suo centesimo compleanno, non possiamo che augurare al maestro di continuare ancora a fissare le proprie storie sulla pellicola.
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da ”le Monde” del 10/12/2008
Le Farc sulla Senna ifarsi una vita a Parigi. Passare dalle foreste colombiane, piene di serpenti e migale (ragni talmente grandi che mangiano i topi) alle sponde della Senna può essere considerato cambiare stile. È successo a un ex guerrigliero delle Farc (Forze amate rivoluzionarie della Colombia) che potrà così ricostruire un percorso di vita, grazie al nuovo programma del governo di Caracas per incoraggiare le defezioni. Ha cominciato proprio ieri, quando è sbarcato all’aeroporto di Parigi con la sua compagna, combattente clandestina anche lei.Veterano delle formazioni ribelli era scappato portandosi dietro un ostaggio, da usare come merce di scambio. Si chiama Wilson Bueno Largo, alias Isaza. È stato alla macchia fino ad ottobre, quando ha deciso di scappare. Aveva in custodia l’ex parlamentare Oscar Tulio Lizcano, che potremmo definire un ostaggio “storico” delle Farc, quello detenuto dal tempo più lungo tra le foreste sudamericane.
R
Parigi aveva più volte espresso la completa disponibilità ad accogliere ex membri delle Farc, a patto naturalmente, che avessero abbandonato definitivamente la lotta armata e non avessero commesso crimini efferati. Non sarebbero stati perseguiti dalla giustizia francese. È arrivato a Roissy (aeroporto Charles De Gaulle, ndr) in tarda mattinata di mercoledì. Il giorno prima, Juan Manuel Santos, ministro della Difesa del governo di Caracas, aveva dichiarato: «il governo ha mantenuto la sua promessa, l’impegno del presidente Alvaro Uribe. Isaza e sua moglie Isabel Lilia domani potranno svegliarsi a Parigi per ricostruire la loro vita». Il terrorista-guerrigliero è stato premiato – si legge nella nota del governo colombiano – per aver deciso di abbandonare le formazioni paramilitari portando con se «l’ostaggio Tulio Lizcano». Ex combattente
e veterano a soli 28 anni, Isaza poteva contare su un’esperienza di lotta clandestina di ben 12 anni, passati tra imboscate, attentati e lunghissimi periodi alla macchia.
Non ha voluto dare spiegazioni sui suoi progetti futuri in Francia. Non parla la lingua e conosce poco o niente del Paese di Balzac e Hugo. Oltre ad un visto d’entrata, che gli permetterà di vivere e lavorare in Francia, ha anche ricevuto una somma di denaro più che sufficente per ripartire. Sono 434mila dollari di un fondo premiale, dedicato ai guerriglieri che permettono la liberazione di un ostaggio. Sicuramente una ben riuscita operazione psy-op che potrebbe aiutare la Colombia a liberarsi dal problema delle Farc, che controllano circa il 15 per cento del Paese. Soprattutto dopo la brillante operazione che ha portato alla liberazione di Ingrid Betancourt. Un aiuto aggiuntivo di 3mila euro, a titolo di «sostegno umanitario», ha completato il regalo di benvenuto per il nuovo inizio. Inoltre le autorità di Caracas verseranno, per alcuni mesi, un assegno mensile di 1600 euro alla coppia di ex guerrilleros. Martedì sera, in un appello pubblico, il presidente Uribe aveva invitato i membri delle Farc alla defezione: «Che cosa perferite? Vivere nella foresta commettendo abusi sugli ostaggi, o stare in pace con la vostra coscienza (...) abbandonate il terrorismo e consentite la liberazione degli ostaggi». Attualmente le formazioni rivoluzionarie possono
contare su di una forza tra i 7mila e i 10mila uomini.Nate tra il 1964 e il 1966 come braccio armato del partito comunista colombiano, prendono origine dalle lotte contadine auto-organizzate nelle regione di Tolima e Huila, represse nel 1964 dalle forze armate di Caracas, durante l’operazione denominata «Marquetalia». Manuel Marulanda Perez, detto“Tiro fijo”, le ha comandate fino alla sua morte, avvenuta a causa di un infarto, nel marzo di quest’anno.
Nello stesso periodo era stato ucciso il numero due dell’esercito clandestino, Raul Reyes, dalle forze di sicurezza che l’avevano seguito appena fuori dai confini del Paese, in Ecuador, dando un colpo quasi mortale all’organizzazione, che spesso utilizza il traffico di droga per finanziarsi. Ora l’antica tradizione d’accoglienza di ex membri di formazioni clandestine di mezzo mondo, si ridà un po’ di smalto lungo le rive della Senna.
L’IMMAGINE
Pillola dell’intelligenza? No grazie! Servirebbe forse quella per il carattere Ci mancava solo la pillola per il cervello che rende più intelligenti. Gli scienziati di Nature l’hanno sdoganata e dicono che è legittimo usarla. A questo punto alcune domande sono legittime. Ad esempio, chi la usa ritiene di essere poco intelligente? Ma la consapevolezza di essere poco intelligente non è essa stessa segno di intelligenza? E poi, siamo sicuri che ciò che effettivamente serve sia l’intelligenza? Mi viene in mente quello che diceva Alcide De Gasperi a chi gli segnalava persone intelligenti: «Voglio italiani che abbiano carattere più che intelligenza». In effetti, gli italiani sono tutti intelligenti, lo dice anche il noto detto “ccà nisciune è fesso”, mentre fa difetto loro il carattere, la fermezza della volontà e roba del genere. Il vero miracolo della scienza, allora, sarebbe non la pillola dell’intelligenza ma la pillola per il carattere, che purtroppo nessuno ancora ha inventato e che speriamo nessuno inventi mai.
Gennaro Capone
ORA LA MAGISTRATURA È “ONNIPOTENTE” PER TUTTI L’onnipotenza della magistratura è una realtà denunciata da molti in passato, ma che solo oggi presenta un’unanimità di consensi. Il nostro premier ha ribadito il concetto in diverse occasioni ma le sue denunce sono state interpretate come un personale accanimento nei confronti dei suoi delatori. Solo ora che anche la sinistra esprime lo stesso concetto, tale onnipotenza appare evidente e certa.
Lettera firmata
PER I BUCHI DEI COMUNI, PAGHINO I SINDACI I dirigenti di società colpevoli di dissesto finanziario, in America come in Europa, vengono puntiti. Che dire allora dei giganteschi crac finanziari dei Comuni di Ro-
ma, Napoli, Catania? Non dovrebbero pagare sindaci e amministratori responsabili dei buchi milionari?
Marina Esposito
LA TOSCANA E I SUOI “ASSISTITI” Che la Toscana assista i clandestini fornendo loro assistenza sociale e sanitaria potrebbe essere un vanto per tale regione. Se però la spesa ricade a livello statale, io contribuente italiano, mi innervosisco. La Toscana vuole fare la Bella lavanderina? Bene la faccia per conto suo con annessi e connessi.
Carlo Maria Stefani
I PARTITI TORNINO A ESSERE CENTRI DI INCONTRO E DIBATTITO La moda del giustizialismo è vecchia e forse è insita nell’animo
Cime tempestose Questa foto ritrae la “sommità” di una nebulosa situata a più di 7 mila anni luce dalla Terra. La sua strana forma - tutta vette e vallate - è dovuta all’azione erosiva di potenti venti stellari, flussi di radiazioni ultraviolette emessi dai giovani astri vicini. Questa è una delle tante foto scattate dal telescopio Hubble: in rosso le emissioni di zolfo e in azzurro quelle di ossigeno umano. Chi ritiene di aver subito un torto è portato a inneggiare ai giustizialisti non tanto per veder riconosciuto il proprio diritto quanto per punire gli avversari. In politica forse trae origine da una vecchia abitudine in voga in alcuni comuni nei quali era frequente la via giudiziaria mediante ricorso anonimo per denunciare veri o presunti abusi di chi sta-
va al potere. Ritenevano così gli anonimi di vedersi spianata la strada al potere una volta eliminati per via giudiziaria gli avversari. Nella migliore delle ipotesi il ricambio sperato non avveniva perché nella lotta all’avversario si erano dimenticati di costruirsi una credibilità e di avere consensi intorno a progetti condivisibili, per cui il ricambio avveniva nello
stesso gruppo di potere. Queste mie riflessioni tendono a sottolineare la necessità che i partiti cessino di tenere le sedi chiuse e tornino ad essere centro di incontro e di dibattito in modo da costituire motore propulsivo dell’azione politica. E ciò anche perché il consenso ottenuto col giustizialismo non è duraturo.
Luigi Celebre
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L’“ERETICO” UMBERTO TERRACINI È ricorso il 6 dicembre il 25° anniversario della morte del dirigente e parlamentare “eretico” che fu Umberto Terracini. Giovane intellettuale appartenente al ceto medio, ebreo laico, socialista, “ordinovista” e co-fondatore con Gramsci e Togliatti del Pcd’I nel 1921 a Livorno, scindendosi dal Psi, antifascista e combattente della Resistenza. Nel frattempo avversò il “fronte unico” portato avanti da Lenin e Zinoviev. Terracini fu un “eretico fedele”, sempre gravato nel Pci dall’ombra del sospetto, malgrado il suo sentirsi sempre un comunista, figlio della Rivoluzione dell’Ottobre 1917. Anche nel dopoguerra egli fu un “eretico”: dissentì dal Pci che era contrario al Piano Marshall di aiuti Usa all’Italia; dissentì sulla fedeltà geopolitica a Mosca nel ’47 e sui richiami ortodossi della “casa madre” dell’Urss; dissentirà sulla guerra dei sei giorni, affermando il diritto - lui ebreo - all’esistenza dello Stato d’Israele aggredito dai Paesi arabi; e dissentirà sia sul compromesso storico fra Dc e Pci del luglio 1976 (governo Andreotti della “non sfiducia”, seguito dall’appoggio indiretto dei comunisti), sia sulla guerra del Pci di Enrico Berlinguer contro il Psi e il governo di centrosinistra presieduto dal 1983 da Bettino Craxi.Terracini seppe essere lungimirante, e i fatti gli diedero e gli danno ragione anche nell’attualità politica italiana odierna. Rappresenta un esempio da non dimenticare, da seguire e onorare, come comunista “liberale”quale egli è stato.
Angelo Simonazzi
BASTA CON LE DENUNCE È TEMPO DI PASSARE ALL’AZIONE La Fao in un suo rapporto, denuncia che 961 milioni di persone, ben 40 milioni in più rispetto all’anno precedente, soffrono nel mondo a causa dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Non penso che siano incluse in questa cifra le tantissime vittime dei Paesi africani dove si convive con le epidemie. Non credo che da quelle parti ci sia la possibilità di notare che dal beccaio la carne costa di più. Gli organismi internazionali si limitano semplicemente alla denuncia ma non passano all’azione, non fanno nulla. Assomigliano a certi politici di casa nostra che coniugano solo il verbo lamentarsi.
Bruno Russo – Napoli
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
dai circoli liberal
SEGUE DALLA PRIMA
P e r fa v or e , n o n c o p ia t e l’ America statali sta di Carlo Lottieri Il timore è che, se i “liberisti” americani si comportano così, da noi – dove le leve economiche sono affidate a chi fa quotidiana professione di “anti-mercatismo”– ci si debba preparare al peggio. Ma non è detto che sarà così, anche se il ministro Altero Matteoli non sembra escludere nuove ed ennesime rottamazioni, che finirebbero per gravare come macigni sui conti pubblici e, quel che è peggio, sui bilanci delle famiglie e di quelle aziende che ancora producono profitti e possono creare posti di lavoro. È anche da rilevare, tra l’altro, come la Fiat sia messa meglio di taluni concorrenti. Avendo conosciuto già tre anni fa il punto più basso di una crisi durata anni e avendo trovato in Sergio Marchionne una guida determinata e con le idee chiare, l’azienda torinese guarda ora al futuro con realismo. Nei giorni scorsi, in particolare, hanno fatto molto discutere le dichiarazioni dell’amministratore delegato, persuaso che presto non rimarranno che sei attori di rilievo all’interno del mercato automobilistico globale. All’azienda, ha aggiunto Marchionne, spetta quindi il compito di fare le scelte giuste: sposando una delle realtà che sapranno uscire dalla bufera e, in tal modo, garantendosi uno spazio nel mondo di domani. Al fondo di tali considerazioni c’è la persuasione, incontestabile, che non ha alcun senso affrontare i problemi economici in termini “provinciali”. L’amministratore del gruppo torinese deve avere a cuore gli interessi degli azioni e dei dipendenti, e per questo deve pensare alla soluzione che meglio può valorizzare investimenti, capitale umano, impianti e via dicendo. Come sul Financial Times ha ben rilevato Paul Betts, Marchionne sa che «se la Fiat non agisce, il gruppo italiano rischia di diventare nel migliore dei casi un giocatore marginale». Questa presa di posizione è in larga misura connessa all’atteggiamento del governo, che deve gestire un bilancio pubblico gravato da un debito colossale. A dispetto
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
della retorica “colbertista”, in questa come in altre occasioni il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, appare orientato a rispettare ben più di molti suoi colleghi i sani principi di quello che egli chiama il “mercatismo”: e insomma sembra del tutto restio a finanziare – come invece farà un imprevidente Barack Obama – le industrie nazionali in difficoltà. Se rimarrà fermo su queste posizioni, Tremonti farà un ottimo servizio al Paese, perché è davvero irragionevole colpire i bilanci delle aziende (piccole e medie) che lavorano bene e danno lavoro, solo per sostenere imprese che non richiedono soldi pubblici, ma svolte imprenditoriali coraggiose. Lo stesso Marchionne l’ha ammesso: nel suo intervento non ha enfatizzato il ruolo degli aiuti di Stato, ma invece la necessità di accordarsi con uno dei pochi soggetti che meglio saranno in grado – per la qualità delle loro vetture – di vincere la sfida della competizione. Mentre l’America imprenditoriale che quotidianamente alza inni al mercato adesso corre a richiedere i soldi dei contribuenti e trova politici compiacenti, è insomma l’Europa dei mille lacci e delle aziende di Stato che oggi sembra più restia a seguire vecchie strade già rivelatasi fallimentari. In Italia tutti ci ricordiamo bene quale disastro fu la nazionalizzazione dell’Alfa e quale scandalo, infine, la sua cessione al gruppo torinese. Non è lecito essere troppo ottimisti: anche osservando il dibattito pubblico in Francia e Germania (dove Nicolas Sarkozy ha già deciso consistenti aiuti e Angela Merkel sta seriamente pensandoci), è probabile che anche noi saremo costretti – per l’ennesima volta – a mettere mano al portafoglio e aiutare il settore automobilistico. Ma è improbabile che da noi si veda qualcosa di anche lontanamente paragonabile al piano americano, che mediamente sottrarrà ad ogni famiglia – ricca o povera che sia – qualcosa come 200 dollari solo per aiutare le aziende di Detroit.
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
ALLEANZA POCO NAZIONALE La vicenda Pdl e cioè la fusione tra Alleanza nazionale e Forza Italia è un fatto con molti lati oscuri. Può essere che l’operazione di An sia stato il risultato di una grande visione strategica di Fini condita però con l’inganno. Resta infatti da spiegare come mai, fino a pochi giorni prima dell’accordo, ogni occasione era buona per sparare a zero contro Berlusconi. Ma potrebbe anche essere il tradimento della tradizione culturale dell’elettorato di destra anche non fascista, sia finalizzato alla carica che ora ricopre e alle soddisfazioni in termini di potere, di ministeri per tutto l’apparato di An. Tuttavia in democrazia i partiti non dovrebbero rappresentare ideali tra loro alternativi come sistema, ma farmaci diretti a guarire, con coerenza rispetto alla tradizione e ai principi del proprio pensiero ideologico, le malattie generate da chi aveva governato in precedenza. È possibile infatti pensare alla Margaret Thatcher e alla sua terapia di destra conservatrice, senza gli anni di governo laburisti che avevano creato parassitismo, inefficienza e eccessiva sindacalizzazione? È possibile pensare al laburista Tony Blair che ha corretto, pur nella continuità di cose buone, la conservatrice Thatcher? Ora chi più di An doveva garantire la terapia democratica giusta per risolvere i problemi, legati all’immigrazione e non solo di “ordine e sicurezza”? L’ansia di tornare al governo non come Alleanza nazionale bensì come Popolo delle Libertà, annacquando la propria come conseguenza all’asservimento politico a Berlusconi, ha permesso alla Lega Nord di essere e rappresentare la “medicina” più credibile in fatto appunto di “ordine e sicurezza”. Ma la responsabilità storica potrebbe essere molto più grave. Può essere infatti che l’avvio del federalismo, se la crisi economica sarà traumatica in termini occupazionali e sociali al Nord, sia l’inizio di un processo secessionista. Al Nord, infatti, anche tra gli operai o i contadini, la Lega appare sempre più la soluzione non solo per i problemi della sicurezza, ma anche per quelli economici. Un partito di destra democratica europea di tipo gollista con a capo un leader adeguato non avrebbe avuto bisogno di fondersi se fosse stato in grado di far coincidere come credibilità elettorale le esigenze di ordine e sicurezza e di prosperità economica con quelle di unità nazionale. Le ragioni della fusione di An con FI quindi potrebbero essere le ragioni del fallimento politico e storico di un leader e dell’apparato di partito da tutelare. La crescita della Lega non ha altra spiegazione. F A B I O PA V A N C I R C O L O L I B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI LA RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL DI DOMANI SLITTA A VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Sodalizi. Padre Taddei traghettò l’insegnamento cattolico nell’era dell’immagine
Il prete che legittimò
FELLINI di Marco Ferrari
ell’ufficio che fu di padre Nazareno Taddei c’è ancora la poltrona in pelle nera sulla quale sedeva Federico Fellini nel 1960 per raccontare il suo tormento dopo l’uscita de ”La dolce vita”. Un tempo si trovava al San Felice, a Milano, dove il film venne presentato in anteprima e dove Fellini restò inchiodato per sei interminabili colloqui. Ora si trova alla Spezia, in una elegante palazzina in Via XX Settembre, sede del Ciscs (Centro internazionale dello spettacolo e della comunicazione sociale). Padre Nazareno Taddei, invece, non c’è più, se ne è andato per sempre nel giugno del 2006 lasciando una pesante eredità spirituale e culturale, davvero un vuoto incolmabile, come si dice in questi casi, palpabile nel silenzio dell’edificio che è stato la sua piccola università di cinema. A lui si devono le prime indicazioni in materia di educazione dell’immagine del mondo cattolico, tanto da aver inventato un vero e proprio metro critico, la metodologia Taddei, cioè una lettura strutturale dell’immagine e una strategia “dell’algoritmo contornuale”, vale a dire realizzato con immagini. In quel fatidico 1960 padre Taddei ebbe l’ardore di giudicare su Lettere, la rivista dei gesuiti milanesi, il capolavoro felliniano asserendo che «trattava il tema della Grazia» e andando controcorrente rispetto alle posizioni dell’Osservatore Romano.
N
mento dal mondo ecclesiastico. Nato a Bardi, in provincia di Parma, nel 1920, entrato in seminario a undici anni, studi di Filosofia a Padova, antifascista nel periodo bellico,Taddei fu nominato sacerdote nel 1952 quando già si occupava di cinema, intratteneva stretti rapporti con Luigi Chiarini e scriveva su Civiltà Cattolica, Bianco e Nero e La Rivista del Cinematografo. Da sacerdote divenne poi regista delle prime trasmissioni religiose della Rai, fondatore della rivista Edav (Educazione Audiovisiva), critico e didattico del cinema sino a meritarsi due volte il Premio Targa Leone San Marco alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma Taddei divenne soprattutto amico e consulente delle grandi voci del cinema italiano, da Fellini a Blasetti, da Pasolini a Olmi. Con Olmi ebbe un sodalizio culturale molto intenso, partecipò alle ri-
ti ad Atlantic City; tenne seminari dedicati a McLuhan e Sadoul, organizzò negli anni sessanta letture strutturali di film riservate a prelati, educatori e insegnanti; negli anni settanta si occupò di mass media e audiovisivi; nel 1980 indusse il Ministero della Pubblica Istruzione a erudire dei formatori di fotografia nelle scuole; nel 1995 si lanciò per primo nelle prediche via Internet.
Insomma, come usava dire lui, traghettò l’insegnamento cattolico «dall’epoca della parola all’epoca dell’immagine». Un anticipatore di temi che ha portato il Festival di Venezia ad organizzare, nel proprio ambito, da due anni un premio intitolato alla memoria di padre Nazareno Taddei all’opera che meglio esprime «autentici valori umani con il miglior linguaggio cinematografico», riconoscimento andato quest’anno a Pupi Avati che lo ritirerà alla Spezia mercoledì 10 dicembre. Ora che il tempo si posa come una ragnatela sul materiale accumulato in sessant’anni, da padre Taddei nasce l’esigenza di salvaguardare un bene unico, una sorta di viaggio nel cinema italiano e mondiale. Il fondo Taddei è infatti composto dall’importante archivio personale contenente la corrispondenza con i più titolati registi; una biblioteca specializzata in cinema di circa 15.000 volumi, praticamente quanto pubblicato in materia negli anni ’70 e ’80; collezioni di riviste, video cassette e documenti. Le pellicole, invece, sono già state acquisite dalla Cineteca di Bologna. La Regione Liguria ha espresso l’intenzione di non disperdere tale patrimonio inserendolo a pieno titolo nella costituenda Mediateca Regionale che è nata proprio alla Spezia, la città di adozione del prete semiologo. Oltre il suo tempo terreno, in epoca di veline e talpe, padre Nazareno Taddei potrà così continuare a farci capire cosa è la «verità logica e morale» di una pellicola.
Un cammino interamente dedicato all’innovazione della comunicazione: dal cinema ai seminari su McLuhan e Sadoul, dai mass media ai primi computer sbarcati in Italia, dalla fotografia alle prediche via Internet
Ciò gli valse due anni di esilio a Monaco di Baviera e un sostanziale isolamento quando, nel 1986, trasferì alla Spezia il suo Centro educativo. Ma gli valse anche le confidenze di Fellini, un dialogo continuo e ininterrotto, un filo discreto tra laicismo del cinema di finzione e spiritualità dell’anima e infine la completa riabilitazione con l’assegnazione del Premio Bresson nel 2005 e con attestati di riconosci-
prese del film “Il tempo si è fermato” e diede una mano nel montaggio del film “Il Posto”, presentato con successo a Venezia nel 1961, come rammenta lo stesso sacerdote nel libro-intervista “Un gesuita avanti”. Il suo cammino è stato dedicato interamente all’innovazione della comunicazione: nel 1960-61 mise a punto un rigoroso studio sulla “Predicazione nell’epoca dell’immagine” suggerendo ai preti competenza, coraggio e convinzione nel salire sul pulpito; poi importò i primi computer in Italia compra-