ISSN 1827-8817 81216
di e h c a n cro
La cosa più difficile al mondo è dire pensandoci quello che tutti dicono senza pensarci
Émile Auguste Chartier
9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Hamas compie 21 anni Israele libera i detenuti
Militanti di Hamas festeggiano in piazza il ventunesimo compleanno dell’organizzazione. Mentre il loro leader Haniyeh punta il dito contro Olmert e Abbas
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Arriva la Ru486: una domanda al governo
POTERI & MOTORI
Veltroni chiede interventi di sostegno. Il governo è diviso. Intanto la stampa francese annuncia che si sta preparando una grande alleanza con Peugeot-Citröen…
di Antonio Picasso a pagina 17
Il Pdl conquista la regione Abruzzo, forte astensione, tiene l’Udc
La sinistra non vota e fa vincere la destra
Cara Roccella, come mai non fate niente contro l’aborto chimico? di Luca Volontè a Ru486 è arrivata. E chi poteva non ha impedito la sua entrata in Italia. Contro questi fatti, evidenze note a tutti i cittadini, non vale nessuna giustificazione.Tantomeno, dopo averla accusata di incapacità, valgono le medesime argomentazioni che nel corso del governo Prodi aveva adoperato il ministro Livia Turco. Invece, la pupilla della Cei al governo Berlusconi, la carissima amica Eugenia Roccella, è scivolata sull’autogiustificazione. «È colpa dell’Europa...». Già, sarà anche colpa dell’Europa ma, vivaiddio, non si capisce perché il governo Berlusconi sia disposto a pagare multe europee per gli improbabili asset televisivi italiani e non voglia nemmeno rischiare una multarella per evitare la distribuzione su larga scala dell’aborto chimico.
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s e gu e a pa gi n a 1 3
di Errico Novi
Contro il deficit, privatizziamo lo Stato
ROMA. Molti, soprattutto a sinistra, hanno detto che «ha vinto l’astensionismo». Diciamo intanto che ha perso la sinistra e che, è quasi matematico, gli elettori che non sono andati a votare erano tutti exelettori dell’Unione che, nel 2005, aveva conquistato la maggioranza in Abruzzo nel nome di Ottaviano Del Turco. Già, perché ciò che di più preciso si potrebbe dire a proposito delle elezioni Regionali abruzzesi, indette dopo le dimissioni di Ottaviano Del Turco arrestato la scorsa estate perché accusato di corruzione, è che la sinistra non va a votare e fa vincere la destra. Gianni Chiodi, candidato del Popolo della libertà sarà il nuovo governatore dell’Abruzzo. Era previsto. Anzi, quasi annunciato. Quella che era meno previsto (ma temuto, di sicuro, da Veltroni e soci) è la redistribuzione dei voti all’interno della ex-maggioranza unionista. Il Pd perde circa il dieci per cento dei voti (che sostanzialmente equivalgono alla quota di astenuti in più rispetto alle elezioni precedenti) arrivando poco sopra al 20 per cento. Il partito di Di Pietro, che esprimeva il candidato del Pd alla presidenza, Carlo Costantini, supera il dieci per cento dei voti arrivando, secondo le prime stime, intorno al tredici per cento: un vero e proprio trionfo per l’ex-magistrato che sicuramente farà pesare i suoi consensi nell’ambito delle alleanze di sinistra. Sul fronte opposto, tiene l’Udc che aveva scelto coraggiosamente di correre da solo candidando Rodolfo De Laurentis alla presidenza della Regione. Le prime stime di voto assegnano al partito di Casini poco più del 4,5 per cento dei voti: un risultato non scontato, suprattutto tenendo presente le pressioni che il Pdl (Berlusconi in testa) avevano fatto sull’elettorato abruzzese per convincerlo a non “sprecare voti”.
Il risparmio delle famiglie è maggiore del debito pubblico: perché non immaginare dei nuovi titoli di Stato che sostengano così i conti pubblici?
di Gianfranco Polillo a pagina 8
Tra “peace-keeping” e volontariato
Non capisco perché sparare sulla Croce Rossa di Mario Arpino
Aiutare la Fiat?
alle pagine 2 e 3
i dà molto fastidio quando qualcuno, nel criticare il modo italiano di fare peace-keeping, afferma che «i nostri soldati non sono crocerossine».Trovo che la frase, senza aggiungere nulla al valore dei nostri militari, sia molto irriguardosa, per non dire dispregiativa, nei confronti di persone cui invece dobbiamo molto, perché sempre generosamente presenti, in pace e in guerra. Ma chi non le ha viste all’opera non lo sa.“In pace e in guerra”sul nostro pianeta vuol dire proprio sempre. Sono le due condizioni cui si riferisce ogni giorno, ogni ora del giorno e della notte, lo status della condizione umana, in ogni luogo sulla terra. Che la pace o la guerra siano imposte, spontanee o, invece di guerre, si chiamino ormai operazioni di polizia internazionale, poco importa. Ovunque c’è gente che soffre.
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se gu e a p ag in a 4
MARTEDÌ 16 DICEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00
s e gu e a pa gi n a 1 1 CON I QUADERNI)
• ANNO XIII •
NUMERO
241 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 16 dicembre 2008
Paracadute. Da Detroit a Torino, tutti si interrogano sul futuro dell’azienda. Rispondono Tabacci, Valducci, Bersani e Stagnaro
La Fiat e l’aiuto di scorta
È giusto o no sostenere l’industria automobilistica in crisi? Economisti e politici: sostenere la ricerca è l’unica strada possibile di Alessandro D’Amato
ROMA. Aiuti all’auto, sì o no? È stato Walter Veltroni, a Milano nel corso di un incontro al teatro Strehler a sostegno della ricandidatura del presidente della Provincia Filippo Penati, a riportare al centro del dibattito la situazione dell’industria automobilistica italiana, chiedendo ufficialmente a nome del Partito democratico un piano di sostegno contro la crisi del settore. Veltroni, ha spiegato che, di fronte a quella che ha definito una «riduzione gigantesca delle vendite», se gli altri Paesi interverranno si «altererà la concorrenza e l’Italia pagherà di più». Per questo, ha detto, «se lo faranno gli altri invito a mettere in campo, anche noi, incentivi al settore delle auto».
“classico”nella situazione attuale. Mi sembra molto più corretta l’impostazione data da Marchionne, che puntava sul superamento dell’attuale assetto proprietario dei giganti dell’automobile e il risiko delle aziende del settore, che porterà ad aggregazioni in grado di sostenersi anche durante i periodi di crisi come questo. Un’impostazione che tra l’altro era già emersa negli studi della mia commissione qualche tempo fa». Quindi, niente aiuti? «Aiuti sì, ma essendo ben consapevoli che non saranno decisivi per salvare l’industria. Ma gli incentivi alla ri-
cerca, anti-inquinamento, per l’auto ibrida sono comunque necessari. Il governo faccia il suo mestiere. In fretta: se non decide nemmeno questo…».
«Gli incentivi all’acquisto delle auto dovranno essere inseriti negli interventi dei singoli Paesi», sottolinea invece il commissario Ue ai Trasporti, Antonio Tajani, in margine a un convegno in Campidoglio. «Credo che siano interventi di tipo nazionale», ha risposto Tajani a chi gli chiedeva se l’Unione europea stesse lavorando su incentivi all’acquisto delle auto per soste-
nere il settore in crisi. «Abbiamo dato un messaggio forte per la ripresa economica - ha aggiunto Tajani - nel documento approvato dalla Commissione europea ci sono interventi a sostegno dell’auto, soprattutto per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico». Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni non è d’accordo: «Con Fiat abbiamo già dato, sinceramente, e ogni volta che è stata aiutata, è andata peggio. I sussidi pubblici sono come la droga, dopo un po’ creano dipendenza… Anche perché così finiamo per fare il gioco di Obama, che porterà
E mentre in Europa si comincia a discutere proprio di un piano coordinato di salvataggio per l’industria dell’auto (e per questo Fiat a Piazza Affari rimbalza, guadagnando dopo settimane di difficoltà), la politica e l’economia italiane si dividono sul tema. Bruno Tabacci dell’Unione di Centro è preoccupato: «Credo sia difficile che possa essere sostenuto un piano finanziario di sostentamento
Da Sky all’auto, il segretario del Pd attaccato perché «sostiene i ricchi»
iutare o non aiutare con i soldi pubblici la Fiat? La domanda torna ad affacciarsi nel dibattito politico italiano in puntuale corrispondenza con la recessione economica e della crisi del mercato automobilistico. Costanti alle quali stavolta si aggiunge la misura straordinaria della crisi. E il fatto che da oggi per quasi un mese le fabbriche italiane dell’azienda torinese sono chiuse: da Mirafiori a Termini Imerese sono quasi sessantamila i lavoratori in cassa integrazione fino a lunedì 12 gennaio. Non era mai successo.
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Aiutare la Fiat o non aiutarla dunque? Il segretario del Partito democratico Walter Veltroni non ha dubbi: «Il settore dell’auto è in calo negli altri Paesi del 40% mentre in Italia del 20-30%. Negli Stati Uniti e in altri Paesi si stanno prendendo provvedimenti per incentivi a sostegno del settore. In Italia, invece, si ragiona, si discute a vuoto senza trovare alcuna soluzione». La sinistra corre in soccorso dei ricchi e della grande industria, come un po’ dema-
L’ultima di Veltroni? Superare a destra Sarkozy di Riccardo Paradisi gogicamente si è detto a destra e a sinistra? E come Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista diretto da Piero Sansonetti ha sostenuto apertamente dopo il caso Sky e il soccorso del Pd alle reti di Murdoch? Sansonetti teorizza l’organicità ormai compiuta tra la sinistra liberal del Pd e i settori della grande borghesia italiana non berlusconiana, un’organicità che segna – secondo il quotidiano di Rifondazione – la definitiva metamorfosi liberale di un partito che ha rotto ogni ponte con la tradizione socialdemocrazia. Ma sia questa analisi, sia quella liberista della destra – gli aiuti alla Fiat drogano le regole del mercato – hanno il limite del rigore ideologico: un pregio concettuale che rischia spesso di tra-
sformarsi in un difetto pratico. Può infatti dispiacere ammetterlo ma Veltroni non ha torto quando dice che «se negli altri Paesi verranno presi provvedimenti di sostegno all’industria automobilistica ci sarà un’alterazione della concorrenza e noi pagheremo di più». Peraltro, è stato un leader della destra, il presidente di turno dell’Unione europea, Nicolas Sarkozy, a decidere di dare una mano di Stato alla sua industria automobilistica. E Sarkozy, come Veltroni, ha citato come esempio gli Stati Uniti, che «hanno deciso di fornire ai loro costruttori d’auto 25 miliardi di dollari in prestiti a tasso agevolato».
Sono circa 26 miliardi di euro il contributo dato dallo Stato in Francia per ri-
giocoforza a un maggiore protezionismo nel settore. E invece l’industria europea è forte proprio perché sa esportare». Nemmeno un incentivo mirato all’ambiente sarebbe utile? «Francamente no. In una fase come questa la priorità è spendere meno per tagliare le tasse e dare uno stimolo fiscale all’economia. Se eroghi in base a criteri politici, forzatamente togli a chi magari potrebbe spendere per dare a chi non se lo merita. Non mi sembra una grande idea».
Sulle indiscrezioni di un piano da 180 milioni di euro pronto sul tavolo del ministro Scajola è Pierluigi Bersani, ministro ombra del Pd, che attacca: «Temo che il governo non abbia le idee chiare, ma mi riservo di vedere nei prossimi giorni. Sento voci molto discordanti fra Tesoro e Industria. Noi abbiamo bisogno di affrontare questo tema innanzitutto pretendendo che a livello europeo ci sia una comune strategia. Dentro questo quadro - aggiunge Bersani - credo che in questo e in altri settori industriali si debba intervenire prevalentemente dal lato della ricerca e dell’innovazione per sostenere gli investimenti sulla
lanciare l’economia, dentro i quali ci sono anche i soldi per l’industria dell’auto ossia il 10% della forza lavoro del Paese. Aiuti che potrebbero diventare ancora più necessari, peraltro, dopo gli ultimi accordi europei sull’energia e sul clima. E non è stato lo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi – nel cui governo precedente furono stanziati aiuti alla Fiat, poi confermati dal governo Prodi – a sostenere che «se l’aiuto di Stato fino a ieri era peccato oggi, dopo gli stravolgimenti scatenati dalla crisi dei mercati finanziari, sostenere i gruppi nazionali è diventato un imperativo categorico»? E più nello specifico: «Se gli Usa investono così massicciamente nell’auto, da parte nostra non c’è da scandalizzarsi se anche i nostri Stati pensano a dare un supporto – non so in che forma – al settore?». Ma non c’è solo la tutela della competitività internazionale dell’industria europea ed italiana. C’è anche il fatto che alla domanda su chi alla fine pagherebbe il costo sociale della disoccupazione generata da una Fiat in pesante crisi la risposta sarebbe ancora e sempre: lo Stato.
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Non si difende un’azienda in difficoltà con i fondi di quelle che funzionano
E io vi spiego perché è una pessima idea di Carlo Lottieri ra che la crisi sta iniziando a mordere in varie direzioni e che l’economia produttiva è sempre più direttamente interessata dalle conseguenze a cascata del dissesto finanziario globale, in ogni Paese vi è un vivo dibattito in merito alla necessità (oppure no) di intervenire a sostegno di questo o quel settore. La crisi – a quanto è lecito sapere – non guarderà in faccia nessuno, e quindi toccherà le aziende piccole come le grandi. È fatale però che ad essere in prima fila siano i gruppi industriali che hanno, singolarmente presi, l’impatto maggiore sull’economia. E così in America si stava per varare un mega-piano di aiuti a Detroit che, almeno in parte, è stato scongiurato solo dalla “ribellione” di molti senatori democratici e repubblicani. Ma quando il rischio è di vedere inabissarsi un pezzo di mondo produttivo e con esso venir meno molti posti di lavoro, è facile che i governanti sposino le tesi più interventiste.
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proporre per l’ennesima volta un programma di aiuti alla Fiat finirebbe poi per favorire un territorio, l’area torinese, a danno di altri. Nel momento in cui si discute di federalismo e quindi ci si orienta verso una maggiore responsabilizzazione di ogni Regione e comunità locale (chiamate a non dipendere parassitariamente dalle altre), questa scelta pro-Fiat sarebbe del tutto sciagurata. In tal senso, la prima forza politica ad opporsi ad ogni ipotesi di rottamazione dovrebbe essere proprio la Lega, poiché solo in questo modo può rendere credibile la sua giusta battaglia per un vero federalismo fiscale.
Non ha senso salvare centomila posti di lavoro nell’auto se per far questo se ne distruggono il doppio, tra tessile e turismo
Secondo le indiscrezioni, sul tavolo di Scajola ci sarebbe un progetto da 180 milioni di euro per la produzione: «Qualcosa, comunque, si farà» frontiera dei nuovi veicoli, che garantiscono più risparmio ambientale, meno consumo di energia e più praticabilità nella vita delle città». «Non è vero che l’esecutivo non sa che fare – replica Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti della Camera – semplicemente, il governo deve stare attento ai vincoli di bilancio prima di promettere aiuti a tutti i settori. Ma qualcosa si farà, sicuramente: il tema della rottamazione è d’attualità, anche se in tempi di ciclo economico negativo l’impatto non sarà sicuramente così ampio; in più, sicuramente si metteranno in campo facilitazioni e incentivi alla ricerca e allo sviluppo con un occhio all’ambiente. Di certo non sarà una“fuga in avanti”, però: anche se non sarà Bruxelles a guidare l’accordo, metteremo di sicuro in campo azioni coordinate con Francia e Germania».
«La strategia dell’alleanza è la fase due per portare la Fiat in una situazione di sicurezza», dichiara invece, in una intervista a Repubblica, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, che promuove il cambio di rotta annunciato da Marchionne e propone al governo di destina-
re «500 milioni per il rinnovo delle flotte pubbliche e degli autobus nelle grandi città per far fronte alla crisi. Tutti, sindacati compresi - spiega Chiamparino - dovremo giocare le nostre carte per rendere conveniente il mantenimento della produzione nel nostro territorio ed evitare che una fusione presenti dei rischi; ma oggi che la Fiat si è irrobustita, è logico che provi a guardarsi intorno». Gli fa eco l’arcivescovo di Torino, il cardinale Severino Poletto: «Per il grande numero di occupati e il ruolo primario che l’auto rappresenta per il nostro territorio ci si attende dal Governo e dal parlamento, come sta avvenendo in altri Paesi, un adeguato sostegno. Non si sta difendendo un’azienda ma di una realtà che per Torino rappresenta la spina dorsale del settore manifatturiero». Intanto, sulla stampa francese si ripropone l’alleanza tra PeugeotCitroen e Fiat. Di una loro probabile unione si sarebbe già parlato perfino all’Eliseo e a Palazzo Chigi. Berlusconi Sarkozy avrebbero già affrontato l’argomento, e per il 17 dicembre è stata fissata una visita a Palazzo Chigi di John Elkann, vicepresidente della Fiat.
Questo spiega perché pure in Italia sia tanto forte la tentazione - e l’ultimo ad esprimersi in tal senso è stato Walter Veltroni - di correre in soccorso di interessi coalizzati e geograficamente definiti, oltre che di gruppi in grado di orientare considerevoli risorse e di condizionare (grazie al peso che hanno nei media) la stessa opinione pubblica. Per tale ragione sta crescendo giorno dopo giorno il dibattito sull’opportunità di aiutare la Fiat, che come altre imprese automobilistiche europee e no sta per andare incontro a tempi difficili. Per il bene della società italiana nel suo insieme e per garantire una speranza di futuro allo stesso gruppo torinese, è opportuno però che il governo si astenga dall’usare le risorse dei contribuenti per soccorrere le imprese in difficoltà. E le ragioni a sostegno di tale tesi sono molte. In primo luogo, si tratterebbe di prendere soldi da aziende che fanno profitti (e quindi pagano imposte) per dirottarli ad aziende che invece sono nei guai, dato che accumulano perdite. Redistribuire, in questa situazione, significa danneggiare quanti “reggono” alla crisi per aiutare chi invece perde colpi. Sarebbe una distruzione di ricchezza e di posti di lavoro, poiché se impiegati da strutture produttive ben gestite quei capitali sarebbero molto più efficaci. Non ha senso salvare centomila posti di lavoro nell’industria automobilistica se per far questo se ne distruggono il doppio, distribuiti tra tessile e turismo, meccanica e trasporti. Ri-
In terzo luogo, è risaputo che un’azienda può salvarsi solo con le proprie forze: siglando accordi, rielaborando la produzione, innovando, facendo anche quei tagli che sono tanto dolorosi quanto necessari. In questo senso è importante che la politica faccia la propria parte, permettendo ad ogni azienda di operare in un mercato del lavoro meno rigido. Per fare questo può certo essere utile ripensare il sistema degli ammortizzatori, reperendo risorse anche con scelte coraggiose (come il rinvio a 65 anni dell’età pensionabile femminile) e colpendo ogni spreco di denaro pubblico (si pensi alle province). In fondo, la stessa storia recente della Fiat dovrebbe essere maestra. Quando prima del biennio Prodi l’azienda si trovò in gravi difficoltà, il governo Berlusconi si astenne da ogni intervento. È possibile che tanto rigore liberista fosse dovuto ai rapporti non idilliaci tra la famiglia Agnelli e il Cavaliere stesso, ma il risultato fu che questa scelta pubblica obbligò la Fiat a ripensarsi. Con risultati indubbiamente positivi. Ora bisogna fare lo stesso, anche in considerazione – e Berlusconi, si sa, è uomo attento ai sondaggi – che l’opinione pubblica non gradirebbe scelte a favore dell’industria automobilistica. Per ragioni evidenti, ogni ipotesi di “rottamazione”o altro sarebbe vista come l’ennesima occasione da parte dell’azienda torinese per pubblicizzare le perdite e privatizzare i profitti. Se non vuole farlo per ragioni di equità o per considerazioni liberali, il governo si astenga dall’intervenire pensando alla prossima scadenza elettorale. Almeno stavolta, la maggior parte degli italiani non vuole l’intervento di Pantalone e sarebbe davvero folle agire contro le sue attese.
politica
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Test. Alle amministrative va tutto come previsto, salvo la forte redistribuzione dei voti nell’ex maggioranza
Abruzzo, la sinistra punita La Regione va al Pdl, il Pd affondato dall’astensione, Di Pietro vola al 13% mentre l’Udc, da sola, tiene di Errico Novi segue dalla prima Più che un election day sembra un day after. Alla fine la partita più delicata in Abruzzo si chiude con dato impressionante: meno 15 per cento di affluenza rispetto alle Regionali del 2005, dal 68,5 al 52,9. Vuol dire che l’effetto Del Turco è stato dirompente. Ovviamente a pagarne le spese è la coalizione scacciata via dallo scandalo sanità, il centrosinistra vecchio formato che qui si è rimesso assieme all’ultimo momento. Secondo gli aggiornamenti diffusi dal Viminale in prima serata, il candidato del Popolo della libertà Gianni Chiodi supera seppur di poco la soglia del 50 per cento, mentre il dipietrista Carlo Costantini, sostenuto appunto da tutta l’ex Unione, galleggia pochi decimali più su del 40. Si attesta intorno al 4,5 per cento Rodolfo De Laurentiis dell’Udc, all’1,5 Teodoro Buontempo della Destra e al di sotto dell’1 i concorrenti minori.
diatico: lo speciale allestito da Porta a porta esclude rappresentanti in studio del Pd in favore di un duello solitario tra Ignazio La Russa, in rappresentanza del Pdl, e Antonio Di Pietro, uscito in ogni caso fortificato dalle urne, come era facilmente prevedi-
didati coinvolti nelle inchieste l’ex pm ha accettato il sostegno dei veltroniani per il suo Carlo Costantini. Sulla carta il risultato dell’operazione darebbe saldo negativo persino per il candidato dell’Idv, penalizzato da un voto disgiunto confluito non solo su Chiodi ma anche su De Laurentiis. Di fatto però il messaggio che passa è un altro: il Pd ha perso, e male. Le prime battute dello stesso Costantini non trasudano certo assunzione di responsabilità: «Il fenome-
L’elettorato di centrosinistra diserta le urne: la coalizione perde 16 punti percentuali rispetto a 3 anni fa
C’è stata scarsa voglia di elezioni, dunque, soprattutto tra l’elettorato di centrosinistra, ridotto di oltre 16 punti rispetto a 3 anni fa. È un panorama desolato, con gli stessi esponenti dello schieramento vincente che, come Maurizio Scelli, non nascondono le difficoltà: «Ripartiremo dal presidente», dice l’ex capo della Croce rossa. D’altronde il dato politico c’è a prescindere dall’anomalia di questa tornata: il Partito democratico trae scarso giovamento dalla riesumazione dell’alleanza sciolta nella scorsa primavera. Quasi diventa aereo, comunque di fragile consistenza: il suo vantaggio rispetto all’Italia dei valori vacilla sul limite dei 10 punti, con il partito di Tonino che moltiplica per cinque i consensi delle precedenti regionali: dal 2,4 a oltre 12 punti. L’effetto di questa contrazione, per il partito di Walter Veltroni, ha immediatamente un riflesso nazionale e me-
bile alla vigilia. Bruno Vespa e la sua redazione si giustificano con una battuta al limite del sadico: «Non siamo stati noi a scegliere il candidato dell’Idv». Il portavoce dei democratici, Andrea Orlando, reagisce malissimo: «Vespa vuole cancellarci, da tempo ormai il governo e la maggioranza cercano di imporre mediaticamente, e non solo, l’idea di un bipolarismo Pdl contro Di Pietro. È il vecchio vizio di farsi un’opposizione come vogliono loro, cercando di nascondere il Pd, perché sanno bene che l’opposizione vera è la nostra. È la strategia che la destra usò con Bertinotti. Sarebbe bene che il servizio pubblico rispettasse, quando si affrontano temi elettorali, la reale geografia delle forze politiche».
Il disappunto è moltiplicato dalle tossine accumulate a partire dallo scorso mese di luglio, da quando cioè le dichiarazioni dell’imprenditore Vincenzo Angelini, titolare tra l’altro della ormai famigerata Villa Pini di Chieti, hanno scatenato la bufera. Ma non può essere sottovalutata la frustrazione dei democratici per le condizioni imposte da Di Pietro, che fino all’ultimo ha gestito la questione dell’alleanza con impietoso cinismo. Solo dopo aver ottenuto dal Pd l’esclusione dalle liste di can-
no dell’astensione è gigantesco, vince chi è riuscito a portare più gente a votare. Su questo fenomeno sarà necessario riflettere con attenzione nei prossimi giorni».
Ne verrà fuori una inesorabile critica al Pd che non rappresenta in modo credibile l’opposizione, ovvio. Di Pietro dà subito un’anteprima del nuovo refrain: «I partiti che non sono né carne né pesce, che fanno riunioni, che dicono
Crollo di voti del Pd di Veltroni mentre l’Italia dei Valori vola fino al 13 per cento. Nella foto sotto, Gianni Chiodi nuovo governatore dell’Abruzzo. In basso, gli altri quattro candidati alla Presidenza
“ma anche” e che non si decidono vengono puniti». Chiarissimo. Più generico e improntato a un populismo di maniera è l’altro slogan, coniato apposta per l’Abruzzo ma concepito per accompagnarci fino alle Europee di giugno: «Rimane sconfitta la politica che sta dila mostrando propria incapacità nella lotta alla casta». Nessun particolare accenno alla debolezza della coalizione messa in piedi a poco più di un mese dal voto. Pier Ferdinando Casini scava
invece tra le macerie dell’astensionismo record, lo definisce «sintomo di un sistema elettorale che non funziona», e aggiunge: «Il bipartitismo non soddisfa gli elettori, questo è un campanello d’allarme di cui bisogna tenere conto». In mattinata, su Canale 5, il leader dell’Udc affronta senza alcuna acrimonia il nodo delle alleanze, emerso in modo brusco proprio alla vigilia delle elezioni in Abruzzo, quando Silvio Berlusconi ha invitato Gaetano quagliariello e gli altri suoi emissari a cancellare l’accordo già raggiunto proprio con il Centro: «Credo che l’invito del premier ha entrare nel Pdl sia stato uno scherzo, ma affettuoso». Nel pomeriggio è tornato sul tema e ha aperto alla candidatura di Beppe Pi-
politica
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Stretto tra Berlusconi e Di Pietro, il Centro resiste sopra il 4 per cento
«Nessuno riuscirà a eliminarci» colloquio con Savino Pezzotta di Francesco Capozza
ROMA «Sono molto contento del risultato elettorale abruzzese» Ma come onorevole Savino Pezzotta, è contento? Ma guardi che ha vinto il candidato del Pdl, Gianni Chiodi Si, ma sono contento del dato politico che emerge: noi non scompariamo, per quanto questo sia stato, anche in questa campagna elettorale con valenza locale, l’obbiettivo principale di tutti Di chi? Mi faccia capire meglio Di Berlusconi innanzi tutto, che ha lavorato per annientarci, invitando ancora una volta gli elettori a preferire “il voto utile” ad uno, a suo dire, “dispersivo”. Ma anche del Pd, che ha preferito l’alleanza con Di Pietro a quella con noi. Nicola Latorre, ci ha confidato di credere che voi siate destinati a stare all’opposizione se rimanete da soli
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Non voglio certo polemizzare con l’amico Latorre, che conosco bene e che stimo, ma a lui rispondo: e voi, senza l’Udc, non vincete quasi da nessuna parte. Un dato, lei ha ragione, è inequivocabile: l’Udc continua ad avere quello zoccolo duro di elettori che si fidano e che la votano, a dispetto di tutto Esattamente. E’ quello che dicevo poco fa. E le dirò di più: se la situazione fosse stata meno inquinata dalle vicende giudiziarie locali e se la percentuale di coloro che non sono andati a votare fosse stata più esigua, sono sicuro che avremmo avuto un risultato ancora più esaltante. Non c’è storia: non ci cancellano. Però, è vero pure che al governo così, con la politica delle ”mani libere” non ci andrete mai L’Unione di Centro non ha bisogno, al momento, di governare. Noi abbiamo
Sconfitto il disegno del Cavaliere di annullare l’Udc con il «voto utile». Dovrebbe rendersene conto anche il premier
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un progetto nel lungo periodo: costruire un nuovo soggetto che sia una valida alternativa di governo. Per ora ci interessano i contenuti non il potere e le poltrone Mi faccia capire meglio, l’Udc non ha bisogno di alleati al momento? Direi di no. Mi pare evidente che sono gli altri ad avere bisogno di noi. Anche il Pdl, che già urlava al cappotto in Abruzzo. Beh, ma ha pur sempre vinto Ma senza quell’enorme valanga che Berlusconi ci voleva far credere. Però berlusconi adesso sembra avervi ”rieperto le porte” No, attenzione! Non ha riaperto le porte ad un’ alleanza federata come con la Lega, a noi ha chiesto di nuovo di scioglierci, di rinunciare al nostro simbolo e alla nostra storia. A questa rischiesta rispondiamo nuovamente di no. Piuttosto mi pongo una domanda Quale onorevole? Come può un partito che aspira ad entrare nel Ppe, voler fagocitare e distruggere la storia personale di un altro partito che del Ppe fa parte e da tempo?
Il Pd apre la riflessione sulla sconfitta e prepara un mutamento di strategia
«È ora di guardare al Centro» colloquio con Nicola Latorre
sanu come anti-Soru in Sardegna.
Da Casini sono arrivate anche sollecitazioni al resto dell’opposizione sulla riforma della giustizia: «Chi si tira fuori da questo sforzo si isola in modo sterile, mi auguro che assieme a noi voglia collaborare anche il Pd con il ministro Alfano». La questione è rievocata anche dal vicecapogruppo del Pdl alla Camera Italo Bocchino: «I dati che arrivano dal’Abruzzo provano da un lato la bontà dell’azione governativa di questi primi mesi di legislatura e dall’altro la tendenza suicida del Partito democratico, che avendo consegnato la guida e la linea dell’opposizione a Di Pietro rischia di crollare irrimediabilmente nei consensi, c’è da augurarsi che Veltroni comprenda l’urgenza di una opposizione costruttiva e dialogante, pronta a lavorare assieme per riformare profondamente il Paese».
ROMA «Un risultato del genere, inutile negarlo, un po’ce lo aspettavamo, ma non è questo il dato che colpisce di più». È sereno Nicola Latorre e, chiuso nel suo ufficio di vice capogruppo democratico al Senato, si concede con grande disponibilità, mentre scorre insieme a noi i dati diramati dal Viminale. Senatore Latorre, i dati che arrivano non sono certo confortanti per voi... Sì, non possiamo negarlo: i punti di distacco sono molti. Ma era nell’aria, anche gli ultimi sondaggi ci davano indietro. Ma il vero dramma è l’altissimo astensionismo. Un campanello d’allame? È proprio questo il punto. Indipendentemente da chi vince è lampante che in questo momento di crisi, non solo economica e finanziaria, il cittadino si allontana sempre di più dalla politica. Non pensa, però, che la vicenda abruzzese abbia contribuito ancor di più alla sconfitta di Costantini? Su questo non c’è il minimo dubbio. Ma è normale.Accade quasi sempre che in una elezione anticipata da vicende politiche legate ad un’inchiesta giudiziaria su chi ha governato fino a ieri, quella stessa parte esca sconfitta alle elezioni. Diciamo che è quasi fisiologico. Qualche mio illustre collega giornalista ha dichiarato che comunque
fosse andata il vero sconfitto sarebbe stato uno: Veltroni. Che ne pensa? Guardi, francamente queste valutazioni mi sembrano prive di ogni senso politico. Additare come responsabile della sconfitta elettorale in Abruzzo, dove la vicenda politica locale ha una sua peculiarità molto difficile da analizzare, il Pd ed il suo leader mi sembra irragionevole oltre che del tutto infondato. Senatore, il candidato dell’Udc Rodolfo de Laurentiis ha ottenuto un 4,5% di consensi che, oggettivamente, avrebbero fatto molto comodo al vostro di candidato. Siamo al solito nodo: le alleanze... E’ del tutto evidente che la questione delle alleanze è all’ordine del giorno, e non solo della prossima direzione prevista per il 19. Quanto all’Udc, forse sarebbe il caso che gli amici centristi pensino a quanto e fino a quando conviene loro una posizione di rendita politica come quella attuale. Cosa intende per ”rendita”? Non mi fraintenda. Per ”rendita”politica intendo dire che se l’Udc continua ad andare da sola, è logico che, numeri alla mano, non potrà mai contribuire alla vittoria di que-
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sta o quella coalizione. Rimanendo, ovviamente, sempre all’opposizione. Massimo D’Alema è uno dei più convinti sostenitori di un cambio di alleanze. Scaricare l’Idv a favore dell’Udc? Questo, lo ripeto, è un problema sul tavolo già da tempo. Aspettiamo di riflettere su questi dati per trarne delle conclusioni politiche. E intanto l’Udc è l’ago della bilancia... Che l’Udc sia l’ago della bilancia è vero, ma lo è anche per una certa sua conformazione politica strutturale. Chi è al ”centro” è naturalmente portato ad assumere quel ruolo. In un Paese come il nostro, con la storia che ha quel centro democratico e cristiano, assume una valenza ancora più significativa. Ultima domanda: nella riunione del 19 ci sarà una resa dei conti tra le correnti del Pd? Ci saranno tanti problemi all’ordine del giorno, ma non mi pare che sia in agenda una “resa dei conti”, come la chiama lei. (f.c.)
Per noi la questione delle alleanze è all’ordine del giorno. E non solo in previsione della prossima direzione di venerdì
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politica
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Riforme. Alla vigilia dell’incontro col Guardasigilli, Casson spera che la maggioranza si chiarisca le idee
La recita della giustizia colloquio con Felice Casson di Susanna Turco
ROMA. La risposta del Pdl è fredda. Anzi: gelata. Eppure, incontrando il presidente della Camera Gianfranco Fini, il leader del Pd Walter Veltroni rilancia la proposta di un tavolo di confronto sulla giustizia, tra maggioranza, opposizione, esperti e soggetti coinvolti. E, a dispetto delle parole con le quali persino Angelino Alfano ha accolto l’idea («credo che costituire commissioni sia il modo più vecchio di affrontare i problemi e al tempo stesso il più collaudato per non risolverli»), si concretizza per domani mattina un primo incontro tra il ministro della Giustizia e la sua ombra, Lanfranco Tenaglia. Nella delegazione del Pd ci sarà anche lei, Felice Casson, come capogruppo in commissione Giustizia del Senato. Come pensa che andrà? Anzitutto mi aspetto qualcosa di molto concreto. Sono mesi che sentiamo governo e maggioranza parlare della necessità di una riforma della giustizia, ma di fatto non abbiamo visto praticamente nulla. Parla di parole scritte nero su bianco? Esatto, ciò che finora è mancato. Spereremmo avere indicazioni precise, testi, disegni di legge. Non si può parlare di riforme in teoria. Ora mi dirà che il Pd, invece...
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In basso, Felice Casson, ex pm e attuale capogruppo del Pd in commissione Giustizia al Senato
Sono mesi che li sentiamo parlare della necessità di una riforma, ma finora non abbiamo visto nulla di concreto. Domani andremo a vedere se al di là degli annunci c’è buona volontà politica Certo, alla conferenza nazionale sulla giustizia di fine novembre abbiamo presentato alla stampa e agli operatori il nostro pacchetto giustizia, dicendo che noi riteniamo che i primi problemi del cittadino siano la celerità dei processi e l’effettività della pena. Su questi punti abbiamo presentato progetti di legge che riguardano il processo penale, civile e del lavoro, il codice penale, le intercettazioni, l’ordinamento forense, la criminalità organizzata, il giudice di pace... Basta, abbiamo capito. E invece la maggioranza?
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Nero su bianco, non ha presentato niente. Ricordo che al Senato c’è una proposta collegata alla Finanziaria di parziale riforma del processo civile: beh, anche quella è rimasta impantanata per contrasti tra governo e maggioranza. Per questo, dico, che bisogna capire cosa vuol fare il governo e sotto quale profilo vuol muoversi. Ritiene che, dopo tanti scontri, Pd e Pdl sono davvero in procinto di aprire un dialogo bipartisan? Il dialogo può esserci, a patto che sia vero e completo. Noi non abbiamo mai avuto problemi di
chiusura pregiudiziale, ma non so se la maggioranza abbia le idee chiare. Di recente abbiamo avuto segnali di contrapposizioni interne, come nel caso del ddl sicurezza, che si è impantanato al Senato ed è slittato all’anno nuovo; oppure il contrasto sull’istituto della messa in prova del condannato, una proposta di Alfano che non è arrivata neanche in Consiglio dei Ministri; oppure ancora, sulle intercettazioni. Ritiene che del quadretto «fibrillazioni nella maggioranza» faccia parte anche il Bossi moderato e dialogante degli ultimi giorni? Bossi è una conferma di quel che dicevo. Una settimana fa, in Veneto, ha fatto un discorso di altolà alla sua maggioranza, mettendo in prima linea questioni come il federalismo e dicendo che sulla giustizia bisogna ragionare insieme. Ma lei crede a questo Senatùr versione sartina, intento a ricucire con l’opposizione? Fino a quando non vedremo le carte, non è possibile dire quanto possano essere credibili questi tentativi. Da più parti, nella maggioranza, si è obiettato alla proposta di Veltroni che non c’è bisogno di ulteriori commissioni, per confrontarsi basta il Parlamento. È d’accordo?
Le riforme si fanno là, certo. Ma in materie così delicate è anche prassi fare degli incontri preliminari per mettere a fuoco i temi. Le due cose, insomma, non sono in contraddizione. Ah, no? Non so se commissione sia il termine più felice. Perché non si tratterebbe di una commissione formale, né tanto meno di una bicamerale o di una fondazione, ma un luogo d’incontro che viene istituito al di fuori delle commissioni parlamentari, un convivium dove si valutino i temi in questione, si individuino dei modi di procedere e si faccia un articolato. Tutto un lavoro preliminare col quale si andrebbe poi in Parlamento. La Velina rossa dice che proporre una commissione così per trovare un accordo è «un equivoco» e che le differenze finirebbero rafforzate. Non è detto, è un modo per sgrezzare, per decidere su cosa intervenire. Ed è lì che si vede se c’è buona volontà politica o no. Ecco, appunto. Per alcuni, il mezzo dialogo azzardato in queste ore è frutto del combinato disposto tra i segnali che la Lega lancia a Berlusconi e il desiderio del Pd di sganciarsi da Di Pietro. Tattica, insomma. Ritiene si tratti invece di una svolta politica, dell’apertura di una stagione di dialogo? Andiamo intanto a vedere domani cosa ci dice Alfano sull’idea di un tavolo di confronto. Non credo che quelle di oggi (ieri per chi legge, ndr) siano le sue ultime parole.
in breve Eluana: fiaccolata oggi a Roma «Sono passati diversi giorni dalla terribile sentenza di morte della nostra sorella Eluana Englaro. Ma il tempo che è trascorso non ha attutito lo smarrimento delle coscienze bensì ha alimentato riflessioni, convincimenti sulle gravi conseguenze che l’esecuzione della condanna comportano». Lo si legge in una nota dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. «Per sottolineare ancora una volta l’abominio di questa condanna a morte e contro la quale si sono espressi medici, pensatori laici, intellettuali, abbiamo scelto di promuovere una manifestazione pubblica con fiaccolata: “Lasciateci vivere! per dare voce a chi non ha voce”a Roma in piazza Montecitorio oggi alle 17.00».
Lega: immigrati priorità della Ue «In questo momento il tema principale per i Paesi dell’Unione Europea che si affacciano sul Mediterraneo deve essere quello del blocco dei flussi di clandestini». Lo afferma Claudio D’Amico, deputato della Lega Nord, mentre a Taormina sono riuniti, appunto, i ministri degli Esteri dei Paesi Ue che si affacciano sul Mediterraneo. «È importante che si agisca in modo concentrico sui Paesi di partenza, di transito e di arrivo dei flussi dei clandestini, senza abbandonare i singoli Stati europei al proprio destino».
Maltempo. Chiusa La Domus Aurea La soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma ha chiuso temporaneamente la Domus Aurea per motivi precauzionali. Le intense piogge degli ultimi giorni spiega la Soprintendenza - hanno provocato «danni all’impianto elettrico e percolazioni lungo le pareti, non consentendo le migliori condizioni di visita del monumento». In pratica, piove acqua lungo i muri della strutura imperiale. La soprintendenza ha anche detto che è necessario un monitoraggio lungo il percorso di visita, in modo da poter garantire la sicurezza dei turisti.
politica
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in breve
ROMA. Messisi d’accordo sul quantum – 200 miliardi di euro – ora i Ventisette devono trovare un’intesa su quali provvedimenti inserire nel piano europeo per affrontare la crisi. E la cosa non è meno complessa, perché nelle cancellerie di mezzo continente un po’tutti la pensano – anche se non possono dirlo – come Dominique Strauss-Kahn. Il direttore del Fondo monetario ieri ha fatto notare che la piattaforma Ue «è un po’ al di qua delle necessità dell’economia mondiale di fronteggiare la crisi». Secondo l’ex ministro dell’Economia francese a fronte di uno stanziamento pari a un punto e mezzo di Pil comunitario, ne servivano due del prodotto interno mondiale: poco più di 800 miliardi di dollari…
Così, ancora una volta, si guarda alla Germania. Il fuoco incrociato di Bruxelles (José Barroso), Parigi (Nicolas Sarkozy) e Londra (Gordon Brown) non soltanto ha spinto Angela Merkel ad accettare un compromesso sul pacchetto clima. Ma sta facendo pressioni perché la Locomotiva d’Europa inserisca più soldi nei suoi piani di rilancio. E la cancelliera, che paventava di doversi accollare il risanamento del Vecchio Continente, si sarebbe convinta di fare qualcosa in più. Difficile dire in cosa si tradurrà questo cambio di rotta, fatto sta che il primo ministro l’ha annunciato domenica sera alla cena prenatalizia con i 32 maggiori imprenditori, banchieri, top manager, funzionari e sindacalisti del Paese. Soprattutto avrebbe messo sul piatto 30 di miliardi di euro tra tagli alle tasse, contributi sanitari e investimenti per le grande opere, che per le imprese sono basilari dopo il fallimento del pacchetto per mobilitare 500 miliardi attraverso il ricorso al credito. Ossigeno per la Locomotiva d’Europa ma anche per l’intero continente. Eppure la strada della Merkel sulla via di una politica espansiva è alquanto in salita. Il capogruppo della Spd al Bundestag, Peter Struck, ha messo in guardia «da passi affrettati». Frena l’uomo dei conti, il ministro delle Finanze e socialdemocratico Peer Steinbrück, che chiede agli alleati della grosse Koalition maggiore rigore. In ogni caso il nuovo pacchetto di aiuti dovrebbe vedere la luce non prima di febbraio o del marzo dell’anno prossimo. E non prima di questa data si deciderà sui fondi all’impresa automobilistica, che la Merkel vorrebbe concedere soltanto a Opel, qualora la casamadre america General Motors dovesse fallire. Crescono anche le tensioni sociali, che sono legate a stime preoccupanti sulla disoccupazione. Per questo è già stato fissato per gennaio un vertice tra la Merkel e i Ceo delle 30 società quotate nell’indice Dax di Francoforte. L’obiettivo è trovare un accordo per evitare licenziamenti nel 2009.
Napolitano: volontà contro la crisi
Über alles. Dopo l’accordo sulla dotazione, i governi lontani sulle misure
Crisi, la Ue chiede più soldi alla Merkel di Francesco Pacifico Se nomi come Adidas Allianz, Deutsche Bank o Siemens – da sempre preoccupati per il calo di manodopera specializzata – aderissero a quest’impegno, il governo garantirebbe un ulteriore piano di aiuti e farebbe pesare la sua moral suasion sui sindacati in caso di ulteriori deroghe ai minimi contrattuali.
Di fronte a una Germania più generosa e meno rigorista, l’Europa potrebbe anche lanciare una piattaforma unica di aiuti all’azienda automobilistica. E forse far riemergere come per miracolo il piano di Sarkozy di estendere a tutt’Europa i tagli all’Iva fatti in Gran Bretagna. Proprio il primo ministro inglese, Gordon Brown, ha fatto sapere che «stanno già aiutando l’economia del Paese». Ma passi importanti in questa di-
su un doppio binario. Emblematico al riguardo quanto avverrà oggi: alla presentazione di un outlook sull’applicazione dei dettami dell’agenda di Lisbona, la Commissione chiederà un abbassamento delle tasse e maggiore flessibilità contro la disoccupazione anche a un sorvegliato speciale come l’Italia. Questa confusione, a Roma, ha effetti anche sulle trattative tra la maggioranza di centrodestra e il ministro Giulio Tremonti intorno al piano anti-crisi. Ieri sono stati depositati gli ultimi emendamenti, ma non si discuterà della piattaforma prima della fine della settimana. Il responsabile dell’Economia non fa promesse, consiglia di guardare agli ammortizzatori sociali e richiama tutti
Il maxipiano di Bruxelles per frenare la congiuntura è sempre più legato ai progetti della Cancelliera, che studia nuovi aiuti alle sue imprese rezione dovrebbe farli anche la Commissione europea. Il suo presidente José Barroso non è ancora riuscito a portare sulla strada della flessibilità alcuni commissari (in testa quello all’Economia, Joaquin Almunia) come le burocrazie interne. Ha sintetizzato bene il clima il governatore della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, che in un’intervista al Financial Times ha detto che gli Stati membri dovranno rientrare velocemente in caso di sforamenti dai parametri europei. E per essere più chiari ha ribadito che flessibilità è una possibilità per «i Paesi con finanze pubbliche più robuste». A Bruxelles si discute e si lavora
al rigore finché non sarà chiaro l’utilizzo dei fondi europei per le aree sottoutilizzate o di quelli sociali. Dal canto loro, i parlamentari del Popolo della Libertà già cantano vittoria sul ritorno degli sconti energetici, sull’ampliamento del bonus famiglia e sui meccanismi per bloccare le tariffe. Si discute poi sulla bontà di un intervento a favore dell’industria automobilistica, che è sempre più legato al futuro assetto societario della Fiat. Sempre oggi Tremonti incontrerà il “omologo” del governo ombra, Pierluigi Bersani, che esporrà un pacchetto fatto di tagli fiscale e maggiore dotazione per gli ammortizzatori sociali. «I maggiori fondi da impiegare per sostenere famiglie e imprese», ha spiegato, «dovrebbero essere reperiti sfruttando la flessibilità del patto di stabilità». Ma prima di Tremonti, dovrà convincere Almunia.
l prodotti italiani sono «una grande sorgente di fiducia per il Paese», anche se non si possono «nascondere le difficoltà» di un futuro «denso di incognite». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, incontrando al Quirinale il mondo dell’imprenditoria in occasione della consegna dei premi Leonardo per la qualità. Il capo dello Stato ha riferito di «aver trovato testimonianza della qualità italiana» in numerosi Paesi visitati. A tal proposito ha citato l’opera dei restauratori italiani impegnati in Egitto nel recupero dei manoscritti nella Biblioteca di Alessandria o a Gerusalemme per il restauro dei Rotoli del mar Morto. «La qualità d’Italia è grande ed è sorgente di fiducia verso il funonoturo, stante le difficoltà che ci si presentano. La congiuntura internazionale che si presenta con un futuro denso di incognite». «Metto l’accento sul termine volontà perché noi oggi vediamo raccogliersi e manifestarsi energie impenditoriali, talenti e ingegni ma ancor più volontà di creare e volontà di intraprendere. È questa la grande carta che noi dobbiamo saper valorizzare e giocare nel prossimo futuro così denso di incognite».
L’inflazione scende al 2,7 per cento La fotografia scattata dall’Istat sull’inflazione a novembre, pari a +2,7% su base annua e -0,4% su base mesile, evidenzia per specifici prodotti andamenti degni di nota come: la benzina verde registra una diminuzione congiunturale del 10,4 per cento, mentre la pasta, che nei mesi scorsi ha registrato aumenti significativi registra un +0,3 per cento rispetto al mese precedente e +29,8 per cento rispetto a novembre 2007. In cresita dello 0,2% congiunturale la carne. «All’interno del comparto alimentare - si legge nella nota dell’Istituto di statistica - si evidenzia il rallentamento della crescita tendenziale dei prezzi di pane e cereali, passata dal 9,5 per cento di ottobre all’8,4 per cento».
economia
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Proposte. La ricchezza delle famiglie è fra le più alte d’Europa: una lezione da adottare per ”salvare“ l’economia italiana
Privatizziamo lo Stato Il risparmio è più alto del debito pubblico Perché non “usarlo” per correggere i conti? di Gianfranco Polillo iamo particolarmente lieti che Silvio Berlusconi abbia accolto quanto da noi proposto, qualche giorno prima. In una intervista su Il Messaggero (6 dicembre) ha parlato dell’Italia-formica che «ce la farà». E sempre del «popolo delle formiche» avevamo scritto, su queste pagine, il 19 novembre scorso. Non era stata, quella, un’analisi scontata. Avevamo ricostruito quel profilo, immergendoci nei dati Ocse, dai quali trarre un’immagine contro corrente. Da un lato l’eccesso di debito pubblico: cosa nota. Ma dall’altro la forza delle famiglie italiane: la grande ricchezza finanziaria netta accumulata – circa 8 volte il Pil – e il loro basso livello di indebitamento. In questo campo l’Italia poteva vantare un primato assoluto. La parsimonia delle formiche, in altri termini, aveva prodotto un miracolo, consentendo di guardare al futuro ed alla grave crisi internazionale con un pizzico di relativa tranquillità.
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Avevamo fatto, anche, di più. Avevamo elaborato un indice che ci consentisse di tener conto di entrambi i debiti – quello pubblico e quello privato – sulla
merito del credito – ossia il rischio implicito nel finanziare qualsiasi operazione di investimento – deve tener conto delle effettive condizioni del debitore. Se esso è solvibile, il tasso di interesse scende. Se il rischio di insolvenza è invece elevato occorrerà pagare un premio supplementare. Come valutare, quindi, il rischio Italia? Tenendo conto solo del debito pubblico? Oppure valutando la solidità complessiva del Paese: quindi utilizzando l’indice che noi abbiamo proposto? La strada più giusta, a nostro avviso, non può essere che la seconda. La ricchezza finanziaria netta di una nazione costituisce l’elemento di garanzia a favore del debito contratto dallo Stato. Rappresenta, seppure in ultima istanza, il potenziale fiscale su cui si può, comunque, contare.
Ma l’intervento di Silvio Berlusconi va anche oltre questa specifica contingenza. Mette in luce una lettura della crisi italiana che è in parte diversa da quella che ci è stata proposta da alcuni suoi diretti collaboratori. Il premier coglie una contraddizione che non è solo italiana. Nello specchio della
Il pessimismo di Tremonti spesso non tiene conto della solidità dei bilanci privati: perché non convogliarli in un Fondo pubblico ad hoc per chiudere il “buco” che arriva dagli anni Ottanta? base del quale confrontare la situazione italiana con quella degli altri paesi. E i risultati erano stati, ancora una volta, sorprendenti. L’Italia si collocava, come solidità e solvibilità complessiva, ai primi posti. Insieme a paesi come la Finlandia, la Spagna e la Francia. Molto meglio dell’austera Germania, per non parlare degli Stati Uniti o del Regno Unito. Rispetto al Giappone, alla Danimarca e l’Olanda il suo debito complessivo, in rapporto al Pil, era quasi la metà. Il premier ha recepito queste indicazioni. Proporrà, infatti, al prossimo vertice del G8, di cui avrà la presidenza, che il rating di ciascun paese sia ricalcolato, per conteggiare anche i debiti privati. Operazione non solo di maquillage. Il
grande crisi, ciascun paese riflette i suoi punti di forza e di debolezza. La forza americana, ad esempio, è la sua maggior capacità di mobilitare ingenti risorse finanziarie, in grado di stimolare un’economia estremamente flessibile e recettiva. La sua debolezza l’eccesso di debito delle famiglie e dei consumatori, che li costringerà, comunque, a ridimensionare consumi e tenore di vita. La forza della Germania, invece, sta nella solidità della sua finanza pubblica. La debolezza nel traino delle esportazioni, che subiranno un rallentamento con la caduta dei ritmi di crescita del com-
mercio internazionale, trascinando al ribasso la dinamica del Pil. La forza dell’Italia, invece, sta nelle famiglie e nelle imprese – ivi compreso il suo sistema bancario – che sono meno esposte e meno indebitate. La debolezza è negli assetti di finanza pubblica e nel debito accumulato a partire dagli inizi degli anni ’80. L’analisi economica, se vuole dare un’immagine realistica della situazione italiana, deve tener conto di entrambi i corni del dilemma. Se, invece, si ha una visione solo parziale, ecco allora spuntare tesi avventate, come quelle che la paragonano all’Argentina, paventando un rischio di default che non esiste. Le due situazioni non sono paragonabili. Troppa diversa è la struttura economica dei due paesi. Ma soprattutto la solidità finanziaria complessiva dell’Italia esclude, a priori, la possibilità di ogni ipotetico fallimento. Non sarebbe, quindi, male che di questo fossero convinti tutti i Ministri del Governo Berlusconi. Gli incidenti di percorso possono sempre capitare. Ma a volte essi sono la spia di incomprensioni più profonde. E, allora, è lì che occorre intervenire. Basterà? In questi ultimi giorni, i media hanno più volte sottolineato l’esistenza di diversità di vedute tra il premier ed il suo ministro dell’economia. Lo schema era quello del “poliziotto buono” – l’ottimismo di Berlusconi – e di quello “cattivo” – le continue preoccupazioni di Giulio Tremonti – secondo Verderami (Il Corriere della sera del 30 ottobre). Oppure quello che contemplava da un lato – come scrive Orazio Carabini (Il sole del 6 dicembre) – il “business as usual” del premier, che vede il bicchiere
mezzo pieno, ed il “millanerismo” del ministro dell’economia dall’altro. Che al contrario lo considera mezzo vuoto. Quale delle due visioni è più aderente alla realtà?
Rispondere a questa domanda non significa solo tranquillizzare l’opinione pubblica. Cosa comunque meritevole. Non si dimentichi il gioco delle aspettative e l’insegnamento di Keynes. In ogni crisi, finora conosciuta, il 30 per cento è reale. Ma il restante 70 per cento è frutto di suggestioni psicologiche. In economia, ma non solo, le catastrofi annunciate non possono che produrre ulteriori
catastrofi. Meglio quindi mantenere i nervi saldi e puntare più sui punti di forza che non esorcizzare le proprie debolezze. Anche se il Ministro dell’economia fa bene a non mollare i cordoni della borsa. In che modo, quindi, si possono coinvolgere le famiglie e la loro ricchezza per far fronte alla crisi? La risposta, seppure parziale, ci viene, paradossalmente, dall’Economist. In copertina un grande buco nero, in cui un omino lascia cadere qualche moneta. E il titolo a tutta pagina: «Dove mettere i nostri risparmi?». Questo è oggi uno dei temi principali della crisi. E ha una portata di carattere generale: riferita cioè ai risparmiatori di qualsiasi paese. «Se i risparmiatori – recita l’editoriale – trattassero i loro asset finanziari al pari di ogni altra merce, dovrebbero venderli quando i prezzi sono alti e comprali quando sono a buon mercato. Invece hanno accumulato negli anni 1999/2000, quando i prezzi erano alle stelle, e ora svendono. Avrebbero, invece, dovuto vendere nel 2000, quando il rappor-
economia
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Pensioni. L’analisi dell’economista Fornero
«Le donne sono discriminate» colloquio con Elsa Fornero di Francesco Pacifico
to price-earning era 35, ed acquistare ora che lo stesso è sotto 10». Ineccepibile. Ma anche troppo semplice. Negli Usa, ad esempio, il ragionamento non vale. I consumatori sono troppo indebitati. Sono quindi costretti a risparmiare, non per investire, ma per rimborsare almeno parte del debito contratto negli anni precedenti. Per l’Italia, invece, il ragionamento è capovolto. Il debito delle famiglie, come abbiamo detto più volte, è contenuto. Esso è stato contratto essenzialmente per l’acquisto di un immobile, i cui prezzi tendono a scendere, seppure con un ritmo minore rispetto agli altri paesi. La borsa è quella che è. I fondi di investimento sono in crisi. Il mercato monetario offre rendimenti talmente bassi da scoraggiare qualsiasi intervento. Se non vi fosse la paura della crisi e le incertezze collegate alla sua evoluzione, sarebbe meglio spendere, approfittando della bassa inflazione e degli sconti del mercato. Una risposta comunque insufficiente, data la dimensione dello stock accumulato negli anni precedenti. Resta, quindi, il tema del che fare?
Una prima risposta non riguarda il patrimonio, ma il reddito: andare in pensione anticipatamente non conviene. Si eviterebbero così due conseguenze negative. Finché si lavora, le indicizzazione dei redditi futuri (pensione e liquidazione) sono migliori di quelle che offre attualmente il mercato finanziario. Rompere il rapporto di lavoro è, quindi, un pessimo
affare. Aggiungiamo che il reddito a disposizione calerebbe bruscamente (20 – 30 per cento) e che comunque il lavoratore attivo è più protetto rispetto a chi è fuori dai tradizionali circuiti. Meglio, quindi, attendere anche perché le prospettive di un futuro impiego – stante la crisi occupazionale che si profila all’orizzonte – sono più incerte. Non sarebbe quindi il caso di riaprire il tema della previdenza? Un allungamento – volontario o meno – della vita lavorativa abbasserebbe il debito previdenziale, contribuendo a rendere meno fragili le debolezze finanziarie per l’Italia. Questa misura sarebbe sufficiente a tranquillizzare i mercati e ridurre l’onere per il debito pubblico. Non si dimentichi che, rispetto agli equivalenti titoli pubblici tedeschi, paghiamo attualmente qualcosa come 15 miliardi in più. Ma forse questo non basta. In Italia esiste, attualmente, un eccesso di risparmio che non trova un impiego adeguato. Per contro pesa il debito pubblico, che alimenta le preoccupazioni del Ministro dell’economia, ed offusca l’immagine del Paese. Dietro quel debito, tuttavia, c’è un grande patrimonio che fu stimato equivalente. Perché non venderlo alle famiglie, consentendo loro un rendimento superiore a quello offerto dal mercato? Così si prenderebbero due piccioni con una fava. Si valorizzerebbe ulteriormente la ricchezza finanziaria delle famiglie e si abbasserebbe il debito pubblico, dimostrando la solvibilità del “sistema Ita-
lia”. Sembrerebbe l’uovo di Colombo, anche se non mancheranno le difficoltà tecniche. Questa del resto era una vecchia idea del professor Guarino, riposta nel cassetto a causa delle cattive condizioni dei mercati finanziari. Ma quest’ultima circostanza non è determinante. Il problema è costituire un fondo di investimento, le cui quote siano poi offerte al pubblico. Il patrimonio del fondo dovrebbe essere dato dai beni attualmente posseduti dallo Stato, che verrebbero ceduti. Per renderlo attrattivo ed in grado di garantire un rendimento adeguato per i sottoscrittori delle quote, sarebbe sufficiente valutare gli asset ad un valore inferiore ai prezzi di mercato. La gestione del fondo offrirebbe pertanto i margini necessari per corrispondere ai sottoscrittori il giusto rendimento. I calcoli sarebbero un po’ complessi, ma nulla a che vedere con gli algoritmi che sono propri del sistema finanziario. Per invogliare gli investitori si potrebbe poi pensare ad una garanzia dello Stato: costa poco e tranquillizza il popolo delle formiche. Con quali risultati? Una riduzione immediata dello stock del debito pubblico ed una minore spesa per interessi dovuta alle sue diverse componenti. Il debito che scende, il minor premio del rischio. Qualcosa che può valere, ogni anno, diversi punti di Pil. Somme che potrebbero essere impiegate per una politica attiva a favore delle famiglie. Di quelle stesse famiglie che finora hanno dato molto, e ricevuto poco.
Roma. In tempi non sospetti Elsa Fornero ha parlato di «compensazione tardiva». E per l’economista e massima esperta previdenziale «il problema non si sarebbe neppure posto se avessimo applicato in toto la riforma del 1995. La quale adottava per tutti il principio contributivo e uniformava l’età pensionabile per gli uomini e per le donne». Invece? Invece abbiamo deciso di escludere chi aveva 18 anni di contributi di anzianità, rendendo la riforma operativa tra 30 anni e determinando uno slittamento. E così si è salvaguardato questo privilegio. Quello che sembra un vantaggio in realtà è una compensazione a posteriori, un qualcosa che si ritorce contro le donne. Il perpetuarsi di questa discriminazione non favorisce il loro ingresso nel mondo del lavoro, non le spinge a investire sul capitale umano. Eppoi chi va in pensione prima, avrà un assegno più basso dopo. Questa discriminazione come si traduce in termini economici? Nel pubblico impiego la sperequazione si traduce in assegni che sono il 70 per cento di quelli degli uomini. I maggiori ostacoli riguardano l’ingresso nel mondo del lavoro? Non soltanto questa fase, perché le retribuzioni sono sempre più basse e le carriere meno rapide. Certo, ci sono i pregiudizi, i comportamenti di chi seleziona, che prima di assumere una donna ricorda che starà a casa sempre più di uomo. Non è un caso che in Italia i figli debbano gravare soltanto sulla vita lavorativa delle madre. I congedi parentali per gli uomini non mancano, ma chi li prende viene tacciato di essere una persona poco produttiva, di non tenere alla carriera. Mancano i servizi. In Olanda chi ha un figlio ha dirotto a una serie di aiuti e assistenze: la pluricultrice nei primi sei giorni, un aiuto monetario per il pagamento dei pannolini, stanno a casa, a turno, entrambi i genitori. Eppoi ci sono gli asili nido. A Torino invece le mamme si
sono viste recapitare una lettera dal Comune per comunicare che gli asili nido, invece che dal primo, aprivano il 15 settembre perché non c’erano risorse… Certo, alla fine si deve decidere tra tempo pieno e part time, ma un conto è poter scegliere e l’altro è dover essere costretti a scegliere come da noi. Non resta che portare a 65 anni l’età pensionistica per le donne? Ma anche questa sarebbe una follia. Sbaglio o anche il ministro Brunetta ha ripetuto che si deve rinnovare anche nell’ambito dei dipendenti per modernizzare la pubblica amministrazione? Si deve recuperare il princi-
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La disparità sull’età previdenziale non facilita l’ingresso nel mondo del lavoro e comporta assegni più bassi. Servono maggiori servizi
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pio del 57-65, portando l’età minima a 60 anni e tenendo conto che chi va in pensione prima ha anche un assegno più leggero dopo. Ma non si dovrebbe alzare l’età pensionistica in generale? Gli errori storici hanno molti padri – sottolineo padri, non madri – anche perché è sempre passata la concezione di un sistema pensionistico che doveva assorbire i contrasti sociali. Così c’è una sproporzione tra quanto si spende per la previdenza e quanto per le altri voci del welfare: meno per la sanità, poco per la famiglia, poco per la formazione on the job. Sacconi se ne sta zitto. Siccome la minaccia di sanzione dell’Unione europea riguarda i dipendenti statali, il ministro avrà pensato che la cosa compete alla Funzione pubblica. Se poi dobbiamo essere maliziosi, non vedo disparità di vedute ma soltanto la volontà di non rubare la scena al collega Brunetta. Il quale ci riesce benissimo a conquistarla.
panorama
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Proposte. Il bonus del governo non è sufficiente a fronteggiare quella che ormai è una vera emergenza
Una rivoluzione contro il precariato di Marianna Madia l Decreto legge 185, il cosiddetto anticrisi, contiene una misura che fornisce ai lavoratori precari che perderanno il lavoro un piccolo bonus, corrispondente al 10% della loro retribuzione annua. Circa una mensilità, sulla carta. La misura è infatti finanziata, per il prossimo anno, “soltanto”per 289 milioni di euro. Una somma di per sé ragguardevole ma, calcolano gli economisti, assolutamente insufficiente a fronteggiare le domande che potrebbero venire dai lavoratori con contratti a progetto finiti senza lavoro, che potrebbero superare il milione. Il governo inoltre inserisce nella norma alcune limitazioni che sembrano voler escludere il più possibile, piuttosto che aiutare realmente le categorie senza protezione. Anzitutto, la lettera della legge esclude ingiustamente e arbitrariamente una importante categoria di lavoratori precari, quella delle cosiddette“finte” partite Iva. Secondo i dati Istat,
I
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
dei quasi 200.000 che possiedono una partita Iva nel 2007, circa il 70% l’ha aperta su richiesta del committente. Le aziende indubbiamente risparmiano sui costi ma i lavoratori, che di fatto svolgono un lavoro subordinato, soffrono oneri maggiori e l’assoluta mancanza di tutele.
Inoltre, la limitazione del bonus a coloro che lavorano in “settori in crisi” induce a molte perplessità. Cosa vuol dire“settore in crisi” per qualcuno che ha perso il lavoro? Non parla forse lo stesso Decreto di una crisi internazionale gravissima alla base delle misure introdotte? Possono esservi settori che non sono dichiarati in crisi? Ancora una volta, il governo usa la logica del bonus, dell’una tantum. È indubbiamente un fatto positivo che vi sia un allargamento delle garanzie per chi finora non ne ha giovato. Ma un intervento così localizzato e modesto nell’entità rischia di non avere effetti significativi. Occorrono molte più risorse affinché i lavoratori
escano dalla disoccupazione. Altri paesi legano gli ammortizzatori, continuativi e consistenti, a dei percorsi di formazione e riqualificazione. Il governo deve comprendere che un problema così vasto e serio, come quello della crisi occupazionale e del precariato, non può essere affrontato con una misura così blanda. Colpisce che il bonus sia dichiarato sperimentale. Anche la detassazione degli straordinari lo era e l’esperimento è fallito mi-
la 833 (chiusura dei manicomi, interruzione di gravidanza, servizio sanitario nazionale) furono tre grandi leggi di sistema. I legislatori dell’epoca le pensarono come una risposta universale ai bisogni della società. L’inclusione fu la linea guida delle riforme che oggi compiono trent’anni. Occorre mettere in campo un nuovo universalismo capace di rispondere ai bisogni del 2008, allo stesso modo in cui gli uomini politici di allora risposero a quelli del 1978. Ora come allora è centrale la tutela della persona, in questo caso del lavoratore. L’emergenza precariato rischia di diventare un disastro sociale per più generazioni. Occorre una grande legge di sistema sull’inclusione sociale che riveda radicalmente i sistemi di protezione sociale legati al lavoro, includendo seriamente chi finora ne è stato escluso. Mai come in questa fase così dura e drammatica vi è bisogno di un’altra grande “intelligenza della Nazione” pari a quella che agì tre decenni fa.
I 289 milioni di euro previsti dal decreto anticrisi lasciano fuori troppi lavoratori: è arrivato il momento di immaginare una grande riforma seramente. Il bonus rischia di fare la stessa fine, bruciando risorse senza incidere in modo sufficiente sui redditi e sui consumi. Credo che non occorrano esperimenti ma riforme.
Nel 1978 vennero approvate, con il consenso di forze politiche contrapposte, tre grandi leggi che stabilirono la qualità degli interventi in campo sociosanitario nel nostro Paese. La 180, la 194 e
Se n’è andato a 85 anni Horst Tappert, simbolo di un’epoca che non c’è più
Addio a Derrick, l’ispettore del secolo scorso orst Tappert è morto in una clinica di Monaco di Baviera all’età di 85 anni. La notizia non dice nulla. Ma se la si dà in un altro modo, allora, acquista tutto il significato di fine di un’epoca che giustamente gli va attribuita. Ecco la notizia vera: è morto l’ispettore Derrick. Visto? E’ praticamente superfluo, forse addirittura offensivo, dire chi era l’ispettore Derrick. E non è una bestemmia dire che era più noto e magari anche più apprezzato e sotto sotto perfino più simpatico del tenente Colombo. Troppo cerimonioso il personaggio del grande Falck, mentre l’Ispettore era più pratico, andava subito al sodo senza fingere distrazione né compiacimento per la sua bravura da copione nello scoprire il colpevole.
H
Metteva in ordine le idee davanti a un grande boccale di birra e con il suo inseparabile impermeabile si presentava a casa dell’assassino. La sua caccia all’omicida era la passione preferita di pensionati e simpatiche vecchiette che non si perdevano una sola puntata del telefilm tedesco del secolo scorso. Una serie televisiva riproposta continuamente che ha retto con ottimi ascolti la concorrenza delle fiction di ultimissima generazione così piene di tecnologia ed effetti speciali. Quale il suo segreto?
Lo potremmo chiamare “l’ispettore dal volto umano”. Dove per volto si intende, prima che il suo abito morale, proprio il volto: la faccia.
Occhi intensi, espressivi ma fermi, un capello sempre in ordine tirato indietro, un mascella quadrata e un modo di parlare deciso senza essere rude, poco incline al sentimentalismo ma rispettoso della sensibilità altrui. Derrick era un tipo spartano. L’abbigliamento era quello classico, di buona qualità ma frutto di acquisti ai mercati generali. Essenziale era anche il suo ufficio: la scrivania, il telefono, le risorse su cui contare, l’automobile decisamente da anni Settanta. Derrick piaceva perché trasmetteva la sicurezza che danno le persone serie. L’Ispettore era un funzionario dello Stato. Non era un tipo alla Kojak: niente lecca-lecca, niente piedi sulla scrivania, niente parolacce, niente
vestiti a righe, niente scenate. Lo stile di Derrick erano le indagini. Non c’era spazio per altro. Derrick non aveva bisogno di crearsi un personaggio. Il suo stile era lui. Derrick era un uomo di provincia che sapeva come va il mondo e sapeva dare a ogni cosa il suo giusto valore. Il suo fascino era tutto qui. E qui è da ricercarsi il segreto del successo di questa fortunatissima serie televisiva che era seguita praticamente da tutti. Da pensionati e vecchiette si è detto, ma anche da giovani e padri di famiglia. Perché Derrick dava sicurezza. Anzi, era qualcosa di più. Un esempio.
Vabbè, direte, non facciamola troppo lunga. Era pur sempre un telefilm: una finzione, non certo realtà. Certo, certo. Ma in quella finzione non c’era la pretesa, che invece c’è oggi, di essere una rappresentazione realistica della realtà. C’era pur sempre, invece, la creazione di uno stile, di una
sceneggiatura, la ricreazione di un ambiente sociale, e la messa in scena di alcune figure - la moglie, il marito, l’operaio, la ballerina, il professore - che rendevano le storie de L’ispettore Derrick credibili. Ecco, questo era il segreto dell’Ispettore: era credibile. Proprio perché non ambiva a dare lezioni di realismo, proprio perché era semplicemente un telefilm girato sui canoni classici dello sceneggiato in cui c’è un omicidio e la ricerca dell’assassino, era un telefilm credibile in cui le cose umane avevano ancora una loro radice di sincerità e verosimiglianza.
Oggi avviene il contrario: si cerca di riprodurre la realtà, si ricorre direttamente alla realtà - la vita in diretta, come si dice - e così la realtà svanisce e l’umanità diventa fasulla, insincera, posticcia. Una volta c’era il telefilm, oggi c’è la fiction. Così - per dirla con una battuta e ricordando il titolo di un celebre libro - si è compiuto il delitto perfetto: la realtà è stata uccisa. Ci vorrebbe proprio lui, il nostro ispettore Derrick, per scoprire il colpevole. Ma lui Horst Tappert non c’è più. Se n’è andato per sempre. Portandosi dietro il suo impermeabile. Ora è lì, nell’altro mondo, e forse un po’ gli mancheranno la sua birra e la telefonata nel cuore della notte. Senz’altro mancherà a noi.
panorama
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Polemiche. Quando si parla di ”peace-keeping” viene sottovalutato il lavoro di tutti quei volontari che operano nell’ombra
Chi ha paura della Croce Rossa? di Mario Arpino segue dalla prima Perfino nelle regioni più fortunate in cui regna la pace, non infrequentemente eventi disastrosi inducono, specie sui più deboli, le stesse sofferenze prodotte dagli eventi di guerra. Ecco allora che c’è sempre bisogno di loro. «Ama, conforta, lavora, salva». “Loro”, quelli che hanno adottato questo motto, sono i Volontari e le Volontarie della Croce Rossa Italiana. Lo fanno sull’esempio dato, ancora prima di Florence Nightingale, da Cristina Belgioioso Trivulzio durante la Repubblica Romana, o, dieci anni dopo, da quelle donne di Castiglione dello Stiviere che, tra le migliaia di corpi di soldati francesi, piemontesi, boemi e croati dell’Impero austro-ungarico, dopo la battaglia di Solferino cercavano di salvare qualche vita o, almeno, di alleviare qualche sofferenza.
Durante i miei quarantacinque anni di vita militare, la presenza della Croce Rossa Italiana è stata una vera costante, e non solo nelle emergenze, ma anche nelle attività propositive,
I terremoti del Friuli e dell’Irpinia, poi il Libano, la Somalia, il Mozambico, la Bosnia, il Kosovo, l’Albania: un modo attivo «In pace e in guerra» legislative e normative. Come non ricordare, ad esempio, i problemi di identità del Corpo Militare, o i problemi esistenziali ed organizzativi delle Infermiere Volontarie, gli interessati dualismi connessi alla nascita e al contenuto ideologico di alcune Ong, i problemi per la qualificazione come organi ausiliari delle Forze Armate, l’addestramento per la partecipazione al servizio di Ricerca e Soccorso?
L’essermi occupato spesso di questioni operative, in incarichi di forza amata o interforze, mi ha consentito spesso di vivere gli eventi da vicino, con immediatezza, o di esserne in alcune occasioni addirittura all’origine come componente responsabile nella struttura organizzativa militare. Nello svolgere e riavvolgere il film della delle cose viste, fatte, o di quelle anche solamente condivise, insieme ad
elicotteri, soldati, marinai, aviatori, colonne mobili, centri radio, sale operative,“pallets”, carrelli elevatori, velivoli da trasporto, tendopoli, case diroccate dalle bombe o dai terremoti, fango del Vajont o sabbia dei deserti, “loro” compaiono spesso. Anzi, sempre. Sono fiduciosi, preoccupati ma rassicuranti, lindi nel biancore delle volontarie, verdi nei loro camici sotto la tenda-ospedale, inzaccherati sotto la pioggia nelle uniformi da campo, affaticati da giorni di impegno totale, stanchi ma pronti a continuare, sorridenti anche con gli occhi cerchiati di rosso. Come dei veri soldati. Sono loro, sempre loro, in ogni occasione, quelli che, senza ricompensa alcuna, si sono assunti il compito di essere pronti a partire entro due ore dalla chiamata, sempre e dovunque, al fianco dei soldati. Sono loro, i Medici Volontari della Croce Rossa, che lasciano l’ospedale dove forse ricoprono posizioni di prestigio, ed accorrono. Sono loro, le Infermiere Volontarie, che non chiedono mai nulla, ma che arrivano per prime in aeroporto, e quando arrivi tu sono
Conti. Il Centro Studi di Mario Baldassarri prevede un 2009 terribile e una ripresa lentissima
«Caro Tremonti, rileggi i dati...» di Alessandro D’Amato
ROMA. Quando finirà? Dal momento in cui è cominciata la crisi dei subprime, gli organismi internazionali hanno cominciato a effettuare previsioni su previsioni per pronosticare il giorno in cui questa potrà dirsi superata. Il Centro Studi “Economia Reale” di Mario Baldassarri ha detto la sua in un rapporto che è insolitamente ottimistico.
Secondo i dati, il 2009 sarà l’annus horribilis: il commercio mondiale dovrebbe subire nel prossimo anno un brusca frenata, passando dal 5,6% di quest’anno all’1,5% dell’anno prossimo. Nel 2010 tuttavia tenderebbe a tornare sopra il 5% per poi crescere ulteriormente sopra al 7% nel biennio successivo. «Anche il Prodotto Interno Lordo Mondiale appare seguire lo stesso profilo – si aggiunge poi. Una forte riduzione della crescita che passa dal 2,4% del 2008 ad appena l’1% nel 2009. L’anno successivo però sfiorerebbe il 3% per salire al 4% nel biennio finale del periodo». Nel dettaglio, nel rapporto si pronostica un Pil mondiale in crescita dell’1% nel 2008, del 2,9% l’anno successivo e del 4% tra 2010 e 2011; gli Stati Uniti pagheranno la crisi con un -0,4% l’anno prossimo,
seguito da un 2,5% e un 3,7 medio. Insomma, il fortissimo rallentamento dell’economia sarà appannaggio soprattutto del prossimo anno, ma la crescita mondiale potrebbe reagire già da subito, e la luce fuori dal tunnel potrebbe perlomeno vedersi in tempi relativamente rapidi. Trainata, come al solito, dagli Usa, e dalle solite Cina e India, che si ricollocherebbero intorno all’8-9%. Ma anche in questa visione, a soffrire
0,4% seguito da un +1,2% e un +1,9%, da noi il -0,8% del 2009 sarà rimpiazzato da un modesto +0,5% l’anno successivo e da un +1,3% nel 2011. Il motivo? Innanzitutto, Baldassarri ricorda che il profilo ciclico di ogni economia nazionale dipende per circa 2/3 da quelle condizioni “esterne” e solo per 1/3 dalle decisioni degli stessi governi nazionali. In più, i governi virtuosi – quelli senza deficit o con sbilanci controllabili – saranno certamente nelle condizioni di fare di più rispetto al nostro, e Baldassarri dice anche che il piano di sostegno di Tremonti risponde alle necessità dell’emergenza, «ma non può certo essere sufficiente a fronteggiare la crisi e rilanciare in tempi relativamente brevi un più accettabile tasso di crescita».
L’Europa ricomincerà a correre a partire dal 2010. Solo il nostro Paese resterà al palo: «Il ministro affronta soltanto l’emergenza» sarà comunque l’Europa, la cui crescita invece sarà ancora debole, soprattutto per quanto riguarda l’area euro. Il -0,6% dell’Ue e il -0,5% della zona della moneta unica del 2009 verranno rimpiazzati da un 1,3% nel 2010 e da una crescita maggiore del 2% negli anni successivi. Incoraggiante, anche se non basterà per uscire dalle secche. In questo contesto, a soffrire di più saranno i paesi come l’Italia: se per la Germania si immagina una crescita negativa l’anno prossimo (0,7%), seguita da due anni positivi (+1,1% e +1,8%), e per la Francia un -
La soluzione. Invece, se l’Italia potesse contare su una politica monetaria europea che tagliasse in modo più deciso i tassi di interesse e riportasse il cambio dollaro/euro verso la parità nel 2011, il tasso di crescita sfiorerebbe il 3% a fine periodo, il deficit pubblico sarebbe azzerato ed il debito pubblico scenderebbe sotto il 100% del Pil nel 2011.
già pronte con la sacca, sotto l’ala dell’ Hercules.
Mi vengono in mente i terremoti del Friuli, dell’Irpinia, il Libano, la Somalia, i venti mesi dell’Albatros in Mozambico, la Bosnia, l’Albania, con le lunghe file di profughi dal Kosovo al valico di Morini, i campi di Kukes, quello di Valona, quello in Macedonia, vicino a Katlanovo, dove c’erano i ragazzi della Garibaldi, e mille eventi ancora… E l’entusiasmo delle Infermiere Volontarie Elicotteriste, spesso frustrato da una burocrazia che qualche volta siamo persino riusciti a superare: non è anche questo qualcosa da ricordare? Nel mio film, c’è anche l’ultimo episodio in cui mi sono occupato di Croce Rossa. Ormai prossimo al congedo, ricordo di aver partecipato alla votazione del Consiglio dell’Ordine Militare d’Italia in cui, per la prima volta, veniva assegnata la decorazione di «Cavaliere O.M.I.» ad una donna, una crocerossina. Il conferimento era “alla memoria”. Lei era l’Infermiera Volontaria Sorella Luinetti Maria Luisa, Ispettorato di Saronno, trucidata a Mogadiscio il 9 dicembre 1993.
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Giovedì sapremo se la Ru486 sarà introdotta in Italia. Abbiamo chiesto il parere a Lilli Gruber,
E tu la prenderesti l
di Gabriell rmai è questione di un paio di giorni e poi sapremo se la pillola Ru486 o “pillola abortiva” verrà introdotta in Italia: per giovedì è fissato il Consiglio di Amministrazione dell’Aifa che dovrebbe dare il parere definitivo, mentre dal punto di vista tecnico scientifico il farmaco è già stato approvato. Questa parte dell’iter si era già praticamente concluso prima della caduta del governo Prodi. La voce del Vaticano si è già alzata contro l’introduzione in italia della Ru486. Il mondo politico vede il centrosinistra schierato – tranne poche eccezioni – a favore. In questo senso va almeno la dichiarazione dell’ex ministro Livia Turco, mentre nel centrodestra è decisamente maggioritario il no alla pillola. L’Udc oltre ad essere contraria a questa pratica abortiva, ha anche espresso alcune perplessità sul comportamento del governo giudicandolo “inerte”.
O
L’uso della Ru ha destato un forte dibattito e non solo per ragioni etiche, ma anche per questioni riguardanti la salute della donna. Il New England
sposte sono risultate tutt’altro che scontate, ricche di cautele, di interrogativi, di dubbi. La più favorevole all’uso della Ru 486 è Lilli Gruber, giornalista ed ex-parlamentare europea del centrosinistra. «Non si capisce – dice – perché ogni volta che ci si trova di fronte a decisioni che pongono problemi etici, la reazione è quella di una chiusura. Nel caso specifico questa chiusura penalizza le donne. Non comprendo infatti che cosa dovrebbero fare secondo le gerarchie ecclesiastiche, visto la posizione che queste hanno sulla contraccezione. Continuo a pensare che la cosa più importante sarebbe introdurre l’educazione sessuale nelle scuole. Solo così si potrebbe decidere avendo a disposizione tutte le informazioni utili: le ragazze potrebbero saperne di più anche sulla Ru e questo sarebbe per loro un grande vantaggio».
Dimmetralmente opposta a quella di Lilly Gruber è la risposta di Irene Pivetti. L’expresidente della Camera, cattolica fervente e osservante, non ha un attimo di esitazione: «Sono contrarissima – dice –
Già nel dicembre del 2005, il New England Journal rese noto che la mortalità per aborto chimico registrata era dieci volte superiore a quella per aborto chirurgico Journal of Medecine nel dicembre del 2005 rese noto che la mortalità per aborto chimico registrata era dieci volte superiore a quella per aborto chirurgico. Invece un grande clinico come Umberto Veronesi è da sempre favorevole alla sua introduzione.
Su questo spinoso argomento abbiamo sentito l’opinione di numerose donne culturalmente e politicamente orientate in modo diverso. Le loro ri-
perché quello con la Ru è comunque un aborto e io sono in radicale disaccordo con la scelta di abortire. Anzi con questa pillola lo si rende più semplice, lo si banalizza. Un modo da parte della società di scaricarsi la coscienza. E poi mi domando: quali e quanti rischi ci sono per la donna? Non dispongo di tutti dati scientifici utili a valutare questo problema, ma la mia opinione è molto netta: l’aborto con la Ru, così come quello chirurgi-
Sopra, la copertina che liberal, il 1 marzo 2008, dedicò alla Ru486, quando la Francia propose di vendere il farmaco in Italia. A destra, il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella
I pericoli
A oggi, il totale dei decessi accertati in seguito all’aborto medico sono 16 (9 per sepsi, tuttora inspiegate, e 7 per cause differenti). L’ipotesi formulata è quella secondo cui il mifepristone, principio attivo della Ru486, potrebbe interferire con il sistema immunitario della donna favorendo l’infezione. Nel 2005, il New England Journal rese noto che la mortalità per aborto chimico «è dieci volte superiore di quella per aborto chirurgico». Il metodo, ancora oggi, è lungo, incerto, doloroso e pericoloso; e avendo inoltre un elevato tasso di fallimenti, esiste il rischio che, qualora la gravidanza dovesse continuare, il bambino possa nascere con serie malformazioni. Con la Ru486 l’aborto, un intervento prettamente ospedaliero, oggi diventa invece un fatto privato, una sorta di aborto-fai-da-te in cui lo spazio per incontrare altre donne e sostenerle in una materinità difficile non esiste più. La 194, la legge italiana che regola l’aborto, non lo permette al di fuori delle strutture ospedaliere pubbliche: introdurre dunque in Italia la Ru486, significa mettere le condizioni per cambiare la legge. Quella stessa legge che tutti, a parole, dicono di non voler toccare.
co, è un atto barbarico». Anche Anselma Dell’Olio, è decisamente contraria, ma il suo è un argomento che nasce dalla militanza femminista: «L’uso della Ru lascia le donne più sole che mai ed è comunque una terribile manipolazione del nostro corpo. Il fatto che apparentemente sdrammatizzi la pratica abortiva, favorisce inoltre la deresponsabilizzazione dei maschi. No, sono proprio contraria». Isabella Bossi Fedrigotti, scrittrice raffinata e editorialista del Corriere della Sera, accetta invece la possibilità di introdurre la Ru 486, ma lo fa con grande cautela invitando a vigilare. «Se le donne che la useranno – dice – lo faranno stando in ospedale, allora può essere una soluzione utile. I medici la consigliano. Ma solo se avviene in strutture sanitarie e non in solitudine, a casa propria, senza un’assistenza medica adeguata. Se dovessero esserci dati che comportassero interrogativi e dubbi che una tale pratica aumenta i rischi per la salute della donna, mi sentirei ancor più a disagio. E inviterei al massimo di cautela, ad accertamenti attenti».
Fiamma Nirenstein, giornalista, saggista, parlamentare del Pdl, inizia con una dichiarazione di principio: «Sono stata favorevole alla 194 e non ho cambiato idea. Sono favorevole con la sua applicazione integrale e quindi anche con tutte quelle parti che favoriscono la prevenzione dell’aborto. Su questo tema, ritengo che la parola chiave sia proprio la prevenzione, tutto ciò che arriva dopo, che comporta per la donna la drammatica scelta dell’aborto è indesiderabile. Io comunque mi fido delle donne: sono loro le prime a difendere il nascituro. Naturalmente per quanto riguarda la Ru486, per dare una valutazione approfondita, occorrerebbe
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Irene Pivetti, Anselma Dell’Olio, Isabella Bossi Fedrigotti, Fiamma Nirenstein, Dalila Di Lazzaro
la pillola assassina?
la Mecucci conoscere anche eventuali rischi per la salute. Su questo però preferisco non dare un giudizio visto che non conosco tutti i dati scientifici che sarebbero utili per esprimerlo». Dalila Di Lazzaro, attrice e soprattutto una donna che ha saputo reagire con grande umanità e intelligenza alle dure prove a cui la vita l’ha sottoposta, esordisce così: «A quindici anni mi sono accorta di aspettare un figlio e ho deciso di tenerlo. Benedico Dio di aver fatto quella scelta, di averlo avuto e conosciuto. Capisco benissimo il dramma di una donna che si trova davanti a questo bivio e non sono certo contraria al progresso scientifico. Credo però che occorrerebbe prima di tutto imparare a rispettare il corpo della donna. Ci vorrebbe una disciplina maggiore e non la troppa faciloneria che vedo dilagare. E poi mi fa un certo effetto accorgermi che gli immigrati fanno molti figli e noi invece niente o quasi. Così si perdono le proprie radici, non si difende la propria cultura. Insomma, io sono perché l’aborto venga evitato anche se non mi piace colpevolizzare le donne. Purtroppo la vita è difficile. Se poi la Ru comporta dei rischi, allora le mie cautele aumentano. Credo che bisognerebbe andarci con i piedi di piombo».
Insomma, chi si immagina le donne schierate coralmente a favore della Ru, si sbaglia di grosso. Come sempre prevale la saggezza, l’attenzione verso il nascituro, i timori per la salute e per la solitudine in cui scelte così pesanti vengono fatte. Una tale gamma di opinioni così problematiche da parte di chi la pillola la dovrebbe usare, renderebbe necessario un confronto sulle cose, non gridato e non ideologico. Tutto il contrario purtroppo di ciò che è avvenuto sino ad oggi.
Il governo Berlusconi se la prende con l’Europa (come aveva fatto Prodi)
Cara Roccella, perché non fate niente? di Luca Volontè segue dalla prima
vescovo, la saggezza serebbe discesa sull’esecutivo iberico.
Le cosce delle soubrette Mediaset “sì”, ma la vita di ragazze ed embrioni “no”. Questa è la verità: i difensori spartani di un certo mondo cattolico non batteranno ciglio, si comporteranno esattamente come hanno fatto sulla scuola paritaria. Accontentarsi di una riduzione è meglio che ricevere un taglio netto, nulla di più sbagliato se si fosse impostata la vicenda per quella che era. Le scuole paritarie (-20 milioni) sono servizi senza i quali,pensiamo alle materne, centinaia di migliaia di famiglie non sapranno che fare. Un servizio per tutti indispensabile, ma taluni in sacrestia pare abbiano altre ragioni ignote da difendere. Tant’è che dopo l’uscita del “libro bomba” del Cardinale Martini, nel quale si apre alla autodeterminazione e alla disponibilità sulla propria vita, evoluzione della famosa intervista con Ignazio Marino di due anni fa, le cose si son fatte molto complesse nel circuito culturale cattolico.
Adriano Pessina, dopo aver preso atto dei successi editoriali e dei riconoscimenti accademici di Vito Mancuso, deve aver pensato di accodarsi ai è uscito allo “martiniani” ed scoperto,contraddicendo pesantemente la nota dottrinale “Dignitas Personae”. Non ce ne fosse già a sufficienza, purtroppo ancora una volta si son dovute registrare malevole interpretazioni sulle parole del Cardinale Bagnasco, nella cui lettera pastorale non si trova il buonismo verso il peccato di adulterio ma l’esaltazione del perdono come parte integrante dell’amore coniugale. Certo se si fanno uscire notizie dal Palazzo Vescovile frammentarie... difficile che un qualche giornalista del Corriere della Sera, dove il direttore si nota per numero di figli e compagne, non estrapoli solo i passag-
Zapatero non ha nemmeno atteso che monsignore atterrasse a Roma per annunciare un controllo rigido sulla libertà religiosa e una nuova legge sull’aborto rapido. Si possono far scelte sgangherate, almeno nei tempi, anche oltretevere. L’ultima, quella di non voler suggerire una più adeguata formulazione delle proprie opinioni al Cardinale Barragan che, proprio sulla vicenda Ru486 da cui siamo partiti, ha detto di “comprendere l’imbarazzo delle ragazze incinte”. Imbarazzo? Se il figlio nel grembo è un imbarazzo allora fa bene il governo a stare con le mani in mano davanti alla pillola, almeno si tolgono le ragazze dall’imbarazzo. Ma per favore! Un embrione umano è una persona a tutti gli effetti e se ti mette in imbarazzo una persona, sei tu che devi cambiare e non certo lei che deve essere eliminata. Ci vuole solo buon senso nelle cose, il buon senso di evitare sotterfugi e inciuci tra Stato Italiano e Vaticano, definendo pubblicamente gli spazi di collaborazione e di accordo.
Le cosce delle soubrette Mediaset “sì”, ma la vita di ragazze ed embrioni “no”. Come sulla scuola paritaria, un certo mondo cattolico non batterà ciglio gi più indulgenti verso la propria condizione. Tirem innanz, c’è da inquietarsi della scelta vaticana di “premiare” il vescovo “difensor fidae” più accanito contro le misure di Zapatero. Forse si sperava che, portando a Roma il
Un minimo che a volte sembra smarrito anche in coloro che dovrebbero intervenire e si voltano dall’altra parte, pur di non esser loro stessi disturbati. Si dice che anche al di là del Tevere sia la stessa solfa. Non pestare i piedi è la regola per andare avanti ma la carriera può non coincidere con la salvezza dell’anima. Tuttavia il Papa conosce tutto e guida con saggezza, conosce l’impudicizia che lui stesso aveva denunciato nella Via Crucis davanti a Giovanni Paolo II e giuda come un buon pastore con la sua ferma e dolce parola. In fondo, a noi poveri cristi, non resta che la cosa più saggia: stare davanti al bambinello Gesù con i palmi aperti, per farci cambiare.
mondo
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Venezuela. «Anche nel prossimo febbraio le “mani bianche” sventeranno con forza l’avvento della dittatura»
La sfida di Yon Parla il leader del movimento studentesco che impedì a Chávez di vincere il referendum del 2007 colloquio con Yon Goicoechea di Giampiero Ricci
CARACAS. IlVenezuela negli ultimi anni è divenuto un laboratorio politico sotto continua osservazione. E non solo per essere il terzo Paese al mondo per risorse petrolifere. Da una parte il governo di Hugo Chavez che si batte per trasformare la società secondo il suo personalissimo “Socialismo del XXI secolo”, ovvero il tentativo di rinnovare l’esperienza comunista cubana di Castro. Dall’altra una società civile legata ad istituzioni democratiche consolidate, che lotta pacificamente per il rispetto delle proprie libertà e per impedire il consolidamento di una dittatura. La battaglia politica si respira giorno per giorno, in ogni momento, soprattutto per le strade dove si trovano i gazebo dei chavisti che sostengono la propaganda per gli emendamenti costituzionali proposti
“
torale. Chavez ha annunciato che attraverso l’iniziativa dell’Assemblea Nacional, riproporrà, per il febbraio prossimo una riforma costituzionale che preveda ancora una volta l’eleggibilità senza limiti di mandati per il presidente. Incontriamo Yon Goicoechea, studente dell’Università Cattolica, Presidente dell’Istituto Metropolitano de la Iuventute e leader del movimento studentesco venezuelano protagonista dell’inaspettato “No” del 2007 alla “riforma” che allora prevedeva, oltre alla rieleggibilità a tempo indeterminato del presidente, anche la nazionalizzazione della Banca Centrale, limitazioni del diritto alla proprietà e alla pluralità di espressione politica. Signor Goicoechea può raccontarci come tutto ebbe inizio?
Il mio Paese può votare per un presidente, ma non può volerlo per tutta la vita. Nella nostra storia, chi ci ha provato è sempre stato sconfitto. Si può sfidare l’opposizione, ma non la cultura di un popolo dal presidente, ma dove si incontrano anche studenti che hanno già ricominciato azioni di protesta e manifestazioni, gli stessi studenti protagonisti della sonora sconfitta di Chavez nel dicembre 2007 allorché il Presidente si presentò alle urne con la sua prima proposta di riforma e fu costretto ad accettare il responso delle urne solamente grazie all’intervento dell’esercito. Il terreno dello scontro è continuamente accidentato da interventi governativi autoritari, estensione forzosa del controllo sui media, minacce ai dissidenti che legittimano moralmente le violenze cui facilmente si abbandonano frange radicali, la creazione di un “esercito del presidente”fuori dalla tradizionale catena di comando, ricerca continua di alleanze internazionali militari in chiave anti-occidentale. Così, mentre sono state appena chiuse le recenti amministrative di novembre, già ci si prepara all’ennesima battaglia elet-
”
Tutto cominciò durante le discussioni politiche nelle diverse università del Paese cui seguì la decisione di stabilire una relazione duratura tra i diversi leader delle università, un network tra di noi per discutere della situazione politica. Iniziò come un esercizio accademico ma dopo la chiusura della Rctv, la più grande rete televisiva in Venezuela - una rete privata, che fu chiusa dal presidente Chavez perché giudicata non in linea con il proprio pensiero “rivoluzionario” e perché seguiva una linea d’opposizione al governo in carica -ci riunimmo e andammo tutti in strada a dimostrare il nostro disaccordo sulla decisione, realizzammo l’importanza e il potere che i giovani hanno in una società, così decidemmo di creare un Parlamento Nazionale degli Studenti, invitando tutti i rappresentanti di tutte le università del Venezuela. In Venezuela noi abbiamo questa situazione speciale per cui l’estrema destra ha perso tutti i
rappresentanti nelle Università e in tutte le Università i rappresentanti sono di centro-destra, centro-sinistra o anche centro, così fu davvero facile riunirci tutti quanti contro la proposta di emendamento della Costituzione. Decidemmo di confrontarci con la proposta di Chavez e organizzammo 45 tra dimostrazioni e marce, a Caracas e simultaneamente in altre otto città del Venezuela, le maggiori. La più grande fu di 200mila mila persone, la più piccola di 10mila. Ci rendemmo garanti della regolarità del referendum, entrando nei seggi come osservatori. Che tipo di messaggio avete diffuso nel Paese? Libertà. La voglia di considerarla un fenomeno umano che va oltre l’idea di libertà puramente economica. Penso che la strategia di comunicazione del liberalismo nel mondo di oggi sia errata e ciò è dovuto ad una concentrazione eccessiva sul fenomeno economico. La libertà è molto di più di un fenomeno economico. È importante naturalmente che esista un sistema economico imperniato sulla libertà, ma la libertà ha a che fare anche con la natura umana, con il riconoscimento che le persone possono essere diverse; noi difendiamo il valore della libertà nel suo significato più ampio di rispetto delle idee degli altri. Noi difendiamo la libertà, lo Stato di diritto, la non discriminazione e la libertà di espressione. Difendiamo anche l’idea di riconciliazione in Venezuela, malgrado il nostro sistema politico e sociale sia molto polarizzato. E la strategia di comunicazione? Mani bianche. Ci colorammo le mani di bianco per simboleggiare due cose. Prima di tutto che noi non eravamo corrotti, avevamo le mani pulite, non eravamo figli della precedente stagione politica. La base del chavismo è il rigetto del passato, ma noi non veniamo del passato, noi siamo il futuro, io ho ventiquattro anni, Chavez quando arrivò al potere ne aveva quaranta e soprattutto come lui non appartenevamo al passato, condannare un passato
corrotto non basta a garantirsi un presente corretto. Noi siamo il futuro del Venezuela e non siamo qui per viverci da “corrotti”. Mani bianche a simboleggiare ciò ma anche il fatto che noi veniamo in pace. Noi veniamo per costruire dialogo, per costruire ponti nel Venezuela poiché questo è un Paese diviso, non solo politicamente ma anche socialmente: povertà, esclusione dalla società, sono fattori che creano due differenti realtà nello stesso Paese. Durante i giorni delle marce la reazione di Chavez fu di un’iniziale sorpresa, ma dopo il risultato del dicembre 2007 i toni si sono alzati superando il livello di guardia e provocando atti violenti da parte di fanatici chavisti. Com’è la situazione oggi? Il pericolo per l’incolumità fisica c’è sempre. Sono stato aggredito fisicamente e anche ca-
lunniato in pubblico (il riferimento è alla satira apparsa sulla rete di Stato che ritrae Yon come un prezzolato per aver ritirato il Milton Friedman For Advancing Freedom Award consegnatogli dal centro studi statunitense Cato Institute, ndr). In una conferenza che stavo tenendo è stato messo un esplosivo sul palcoscenico, sono stato percosso e offeso in ogni modo. Ma questa gente è una minoranza. I chavisti radicali sono una minoranza, la maggioranza di quelli che votano per Chavez non sono come quella gente, questo è un Paese pacifico, qui non c’è più stata una guerra da tanto tempo e questa è proprio di una società pacifica, la gente rigetta la violenza, ci possono essere persone che non sono d’accordo con me o che mi odiano ma rigettano comunque l’aggressione fisica come soluzione alle diversità politiche. Sì, qualche volta
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ho avuto paura, qualche volta ho paura, ma sono totalmente convinto che ne valga la pena: io voglio vivere felice nel mio Paese, non voglio andare da nessuna altra parte, voglio essere felice con la mia famiglia qui, credo che sia un mio diritto sperare che questo avvenga nel mio Paese. Qual è la situazione politica nel Paese dopo le elezioni amministrative dello scorso novembre? Molti osservatori ritenevano che il sostanziale pareggio potesse portare ad una tregua tra governo e opposizione... Credo che il risultato sia stato bilanciato, perché Chavez ha vinto la maggioranza degli Stati, ma l’opposizione, seppure in alcuni casi divisa, ha vinto negli Stati più popolosi e nelle città più importanti, inclusa la capitale; nel voto popolare c’è stato quasi un pareggio, con l’opposi-
zione più avanti seppure di poco, ma anche se il risultato è stato molto bilanciato, è l’opposizione che sta incrementando i consensi, Chavez ha perso spazio, prima controllava tutto, oggi controlla meno Stati e non i più importanti. Il gioco non consisteva nel vedere chi vinceva più Stati ma chi avanzava. Noi siamo avanzati mentre Chavez è tornato indietro. Come giudica la recente svolta comunicata da Chavez, che vuole un nuovo referendum per riformare la Costituzione, anche se questa volta il quesito sarà unico e verterà solamente sulla possibilità di ricandidarsi indefinitamente da parte di un presidente eletto? È un terribile errore, perché il Venezuela dovrebbe prepararsi ad affrontare la crisi economica mondiale in arrivo. Siamo un Paese esportatore di petrolio, la nostra economia è quasi interamente basata sul petrolio e quindi sul suo prezzo, perciò la crisi internazionale colpirà duramente la nostra società, perché i mercati petroliferi stanno rallentando e noi vendiamo il petrolio a tre mesi. Nel 2009 osserveremo i frutti della stagnazione che stiamo vivendo in questi giorni. È per questo che Chavez ha bisogno di forzare la sua rielezione ora, perché potrebbe non essere in grado di farlo poi. Avremo una situazione sociale davvero difficile e la responsabilità di un governo dovrebbe essere quella di pensare alle soluzioni, di trovare il modo di lenire i danni. Inoltre noi abbiamo già deciso sul quesito che ci viene riproposto. È costituzionalmente illegittimo riproporre un medesimo quesito nello stesso periodo legislativo. Ma lo Stato di diritto, come noto, necessita oltre che di istituzioni democratiche anche dell’indipendenza della magistratura. In Venezuela abbiamo istituzioni democratiche ma non esiste l’indipendenza della magistratura e pertanto non ci sarà alcun Tribunale che alzerà il dito decretando l’illegittimità costituzionale della proposta di Chavez. Voteremo quindi di nuovo, ma io credo nel popolo venezuelano. La gente venezuelana, anche quelli che votano per Chavez, possono volerlo Presidente ma non lo vogliono per tutta la vita. Nella storia del Venezuela diversi presidenti hanno provato a farlo ma sono stati sempre sconfitti, perciò Chavez con questa nuova sfida non affronta solo l’opposizione ma la cultura venezuelana. Cosa farete voi del movimento studentesco, questa volta?
Noi combatteremo. Abbiamo già iniziato a lavorare sull’organizzazione delle manifestazioni ma le proporremo a tempo debito. È vero che la nostra è una società fortemente politicizzata, in Venezuela tutto è politica, politica sociale, ma noi abbiamo bisogno della socializzazione della politica, la gente è stufa di scontri, di ideologia, di sfide elettorali che si succedono da anni, la democrazia non è solo votare, certo votare ma anche l’esercizio delle prerogative e delle responsabilità del governo. Io penso che la prossima consultazione referendaria di febbraio sia un grave errore, ma non possiamo fermarci, verrà il momento per riposarsi, ma non è questo, adesso dobbiamo combattere per godere di quel momento nel futuro e dobbiamo vincere perché se vincesse Chavez verrebbe sovvertito il principio alla base della nostra Repubblica. Scegliemmo di essere una Repubblica, l’abbiamo ratificato diverse volte, le Repubbliche sono costituite da persone libere ed eguali, una rivoluzione che si basa sulla rielezione di un singolo Presidente è una monarchia. Abbiamo rigettato questo rischio per secoli, lo rigetteremo ancora. Qualsiasi sia il risultato del prossimo referendum, si corrono rischi di instabilità e di esplosione di conflitti sociali? Nella precedente consultazione referendaria si decideva su due diversi modelli di Stato: comunismo e democrazia. In questo caso si decide solamente della rielezione del Presidente. È certamente una questione importante, ma non è la stessa cosa. Io penso che queste elezioni sono più pericolose per Chavez, perché se vince avrà solo ottenuto il diritto a ripresentarsi e non vorrà dire certo che è stato rieletto, ma se perde la sua stagione politica si concluderà incontrovertibilmente nel 2012.
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Quale ruolo può ricoprire l’esercito in un eventuale momento di tensione? L’esercito in questi anni è stato un fattore di equilibrio, tanto che Chavez ha dovuto formare una propria forza militare fuori della tradizionale catena di comando, perché è impopolare all’interno degli ambienti militari. Nel centro a maggior densità di militari il Psuv (il partito di Chavez, ndr) è calato del 25 per cento. Credo che l’esercito sventerebbe qualsiasi tentativo di frodare il voto o di imporre soluzioni che non rispettino il risultato elettorale. Ciò certamente non basta, dobbiamo batterci. Io non penso che dobbiamo batterci per vincere per paura di Chavez, non credo che sarà possibile per lui di riuscire a trasformare il Venezuela in un Paese comunista, la gente non lo vuole, non è poi ancora molto chiaro cosa sia il suo “socialismo del XXI secolo”. Chavez porta ad esempio l’istituzione de le “misiones”, istituzioni ispirate alla sua visione di politica assistenziale. Quali sono i risultati? In alcuni casi i risultati sono buoni ma è la sostenibilità del progetto che manca del tutto. Prendiamo ad esempio la misione Robinson: l’alfabetizzazione delle fasce popolari più indigenti, non si può dire che non sia una cosa buona, ma si può dire che è insufficiente. Abbiamo bisogno di un piano nazionale per l’educazione e non di iniziative saltuarie, abbiamo bisogno di creare qualità, di
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In queste missioni viene impiegato personale medico proprio della Cuba castrista. Sì è qui che vengono impiegati. Per i primi due anni i risultati sono stati soddisfacenti per la formazione del nostro personale medico, ma adesso la spinta iniziale si sta perdendo e anche in quelle missioni dove lavora ancora il personale medico cubano ci si chiede dell’utilità della cosa. Un esempio è quello della misione Barrio Adentro, creata per dare assistenza sanitaria ma buona per curarti un raffreddore e poco altro. Non è sbagliato fornire assistenza aggiuntiva, ma non può essere l’unico tipo di assistenza sanitaria. Le misiones non possono essere il fulcro di una politica del welfare, possono servire a gestire le emergenze ma poi c’è bisogno di una politica nazionale che fornisca servizi al cittadino. Che poi questi servizi possano o debbano essere offerti dalla mano pubblica o da quella privata dipende dai punti di vista, ma noi non abbiamo né un sistema pubblico né un sistema privato. Insomma, quella di Chavez è solo ideologia: la gente avrà sempre bisogno degli ospedali. Per il movimento studentesco quale dovrebbe essere la strada per uscire dalle pastoie ideologiche e dal clima di scontro continuo? Credo che sia necessario tornare ai principi. Dobbiamo comprendere che la strada per usci-
La solidarietà è un valore. Ma è un valore anche quello di dare a tutti gli individui la possibilità di raccogliere i risultati del proprio lavoro e della propria forza di volontà formare le giovani generazioni, non basta alfabetizzare! Abbiamo le risorse per farlo, siamo un Paese in via di sviluppo ma non siamo un Paese povero. Non sono più i tempi della Cuba di Fidel!
Nella foto in alto, un manifestante per il “no” al referendum proposto da Hugo Chávez (qui a fianco) nel dicembre 2007
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re dalla povertà non passa per il petrolio, passa per il lavoro, l’istruzione e la volontà. C’è bisogno di partecipazione per poter comprendere che non esistono soluzioni facili. Una sola persona non può essere la risposta ad un problema sociale. La solidarietà è un valore, come lo è quello di dare la possibilità a tutti di raccogliere i risultati del proprio lavoro e della propria forza di volontà. Così nasce la responsabilità individuale ma così nasce anche la responsabilità collettiva. Nel ringraziarla per la sua disponibilità e per concludere, una domanda personale: che significato ha per lei la parola “libertà”? Avevo un professore, un professore molto conosciuto qui da noi, che ci diceva così: non esistono definizioni uguali per tutti della parola libertà, ma ogni essere umano sente la stessa cosa quando ascolta quella parola.
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Successioni. Nomine e rimozioni sono ancora decise dal lìder maximo. Nonostante il cambio al vertice
A Cuba comanda ancora Fidel di Maurizio Stefanini
idel Castro è tornato al potere a Cuba? In realtà, come hanno sempre osservato gli analisti più accorti, non è che l’avesse mai ceduto del tutto. Sì: dal 24 febbraio scorso ha passato al fratello Raúl gli incarichi di presidente e comandante delle Forze armate rivoluzionarie. Però è sempre lui il segretario del partito Comunista. E, si ricorderà, nell’Unione Sovietica e in quegli altri Paesi dell’Est europeo pre-caduta del Muro di Berlino che la Cuba castrista ha preso a proprio modello costituzionale, era il segretario del partito Comunista il vero leader, quando le cariche al vertice non coincidevano. Leonid Breznev, e non il primo ministro Aleksej Kosygin, e meno che mai il presidente del Praesidium del Soviet Supremo Nikolaj Podgornyj. Con lo stesso voto in cui poi il Parlamento dell’Avana investiva formalmente Raúl della successione, gli dava però anche l’approvazione per poter consultare sempre il fratellone in tutte “le decisioni di speciale trascendenza” per il futuro dell’isola: ovvero, quelle relative a difesa, politica estera e economia nazionale. Adesso, da qualche mese ci sono segnali che queste “consultazioni” si stanno trasformando in interventi unidirezionali, con i quali Fidel decide direttamente come prima della malattia. «L’uomo sta al comando di nuovo come ai vecchi tempi», avrebbe addirittura rivelato in condizioni di anonimato un funzionario dell’apparato alla stampa di Miami.
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Sopra l’uragano Gustav che nello scorso agosto ha sconvolto Cuba. A sinistra Fidel Castro. In basso l’ex ministro Marta Lomas profonda”. Stavolta non c’è stata alcuna spiegazione ufficiale sulla destituzione, ma il 16 Fidel ha scritto un articolo dedicato alla riunione del G-20 a Washington, e lì ha dato la sua personale visione di Obama, molto meno entusiastica: «Molti sognano che con un semplice cambio di comando alla testa dell’Impero esso sarebbe più tollerante e meno bellicoso. Non si conosce ancora il pensiero
gestire concretamente la situazione. Ed è stato pure Fidel a rifiutare l’offerta del governo di Washington di aiuti ai sinistrati per 6,3 milioni di dollari, dopo che da Raúl erano arrivati segnali incoraggianti. Tutto ciò spiegherebbe pure il perché le riforme economiche promesse da Raúl stanno andando al rallentatore. Da ultimo, il ritorno di Fidel è confermato anche dagli ospiti stranieri. II presidente brasiliano
Nell’Urss, il vero leader era il segretario del partito Comunista, non il presidente. Oggi quel ruolo è ricoperto da Castro senior, che detta ancora la linea
Ogni tanto, continua, «solleva il telefono per controllare una riunione o sapere delle discussioni in Consiglio dei Ministri». Il primo segnale importante lo si ebbe già il 23 aprile, quando saltò il ministro dell’Educazione Luis Ignacio Gómez e lo stesso Fidel scrisse un articolo per spiegare che il reprobo aveva perso la sua “coscienza rivoluzionaria”e abusava di viaggi all’estero: un imprimatur buono a chiarire che, malattia o non malattia, non si muove a Cuba foglia che Fidel non voglia. D’altronde, nello stesso articolo spiegò come pure aveva
avuto un ruolo nella nomina del generale Leopoldo Cintra Frías a comandante dell’Esercito Occidentale e del suo collega Álvaro López Miera a capo di stato maggiore e viceministro delle Forze armate rivoluzionarie. L’11 novembre è stata poi Marta Lomas, ministro dell’Investimento straniero e della Collaborazione Economica, a approfittare di una fiera internazionale all’Avana per dare il proprio “benvenuto” all’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti; il 12 novembre i giornali di tutto il mondo hanno titolato «sull’accoglienza ufficiale positiva di Cuba a Obama»; ma il 13 Marta Lomas è stata sostituita. «Quello che abbiamo sentito è che il Comandante si è arrabbiato con lei per queste dichiarazioni e ha chiesto chi l’aveva autorizzata a parlare a nome del governo», ha testimoniato la solita “gola
più intimo del cittadino che prenderà il timone su questo tema. Sarebbe sommamente ingenuo credere che le buone intenzioni di una persona intelligente potrebbero cambiare quel che secoli di interessi e egoismo hanno creato». Ma soprattutto la ripresa di protagonismo di Fidel si è vista con gli uragani che hanno devastato Cuba a agosto.
Mentre infatti il fratello scompariva dalla circolazione per non tornare a farsi vedere in pubblico che 17 giorni dopo il passaggio di Gustav, lui tra il 31 agosto e il 16 settembre pubblicava ben quattro “riflessioni”sui giornali e una lettera alla tv su come affrontare l’emergenza, dando modo a vari analisti di ritenere che fosse lui a
Lula ad esempio è con Fidel che ha parlato, e all’attore Sean Penn venuto a intervistarlo Raúl ha detto: «Fidel mi ha appena chiamato e mi chiamerà di nuovo dopo che abbiamo finito. Lui vuole sapere ogni cosa della quale parleremo». Gli stessi visitatori che testimoniano della sua lucidità dicono però che Fidel è magro e debole come non mai. Insomma, né al potere, né senza di esso: in una transizione infinita che ricorda veramente il Patriarca di Gabriel García Márquez.
in breve L’Iraq in piazza per il reporter anti-Bush L’Iraq si mobilita per il cronista che due giorni fa ha tirato le sue scarpe al americano presidente George W. Bush. Montasser al Zaidi, sciita di 28 anni, giornalista del canale tv al-Baghdadiya, che trasmette dal Cairo, è stato arrestato, sottoposto a perizia psichiatrica ma non ancora formalmente incriminato. Ma ha già raccolto un’ondata di consenso. Ieri i manifestanti, che hanno affollato Sadr City, roccaforte del leader religioso anti-Usa Moqtada al-Sadr, hanno lanciato le proprie scarpe contro i veicoli militari americani. Anche a Najaf, città sciita, la folla ha espresso tutto il suo dissenso contro l’America di Bush, gridando e protestando. Il lancio delle scarpe, infatti, è un’ingiuria particolarmente grave per la cultura araba e islamica, tanto più che il cronista ha tacciato il presidente Usa di “essere un cane”, offesa pesantissima poichè si tratta di un animale considerato impuro dai musulmani. Al Zaidi rischia una condanna a due anni di carcere per oltraggio a un capo di Stato straniero in visita.
Gli Usa all’Onu: attacchiamo i pirati L’amministrazione Bush ha chiesto alle Nazioni Unite di approvare una risoluzione che permetta di attaccare la pirateria nei mari della Somalia. Al Palazzo di Vetro, i 15 Paesi del Consiglio di Sicurezza (tra cui l’Italia) stanno esaminando una risoluzione sulla guerra alla pirateria nei mari della Somalia. Per la prima volta dal 1993, dai tempi di “Black hawk down” e del fallimento della missione Unosom, gli Usa propongono di tornare a metter piede sul territorio della Somalia. Per dare la caccia ai pirati, i paesi autorizzati dall’Onu potrebbero avere anche il permesso di inseguire i pirati a terra, oltre alla possibilità di condurre operazioni in mare con le marine che abbiano concordato la loro azione con l’Onu e con il governo di transizione del Paese nordafricano.
mondo ome due anni fa, l’onda verde di Hamas è tornata ad attraversare le strade di Gaza City, incitando la popolazione a un rinnovato sostegno per il movimento islamista. Andando oltre la grottesca messinscena del rapimento di Shalit – trovata che ha suscitato lo sdegno di molti, anche tra i palestinesi – le celebrazioni del 21esimo anniversario della fondazione di Hamas fanno luce su due aspetti sostanziali dello stato dell’arte della Striscia e, quindi, di tutto il processo di pace. Lo “spirito di Annapolis”, per prima cosa, appare definitivamente compromesso. Il 2008, salutato come “l’anno della pace”, si sta concludendo con una serie di incognite. Certo, molte delle responsabilità sono da attribuire alla crisi di governo in Israele. La conseguente attesa delle elezioni ha congelato tutti i negoziati in corso. D’altra parte, l’intransigenza di Hamas – e di tutta la costellazione di gruppi armati attivi nella Striscia – non ha fatto altro che complicare le cose. Al summit dello scorso anno, Hamas non aveva partecipato. Una scelta, questa, che Haniyeh aveva pagato con un calo di consensi. Oggi tuttavia, il fatto che Annapolis non abbia fornito ancora risultati concreti gioca in favore del movimento islamista, il quale insiste sull’errore commesso da Abu Mazen nel trattare con il “nemico” e nel farsi da quest’ultimo “raggirare”.
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Sostenitrici di Hamas festeggiano il ventunesimo compleanno dell’organizzazione nel corso di un’imponente manifestazione a Gaza City. La popolarità del partito islamico aumenta con l’avvicinarsi dell’inverno e i conseguenti disagi causati dalla politica israeliana, che taglia ciclicamente energia e passaggio di combustile per cercare di fermare il lancio di razzi contro Sderot. In basso, il leader di Hamas Haniyeh
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Un secondo elemento – più strutturale e sostanzialmente ciclico – riguarda le condizioni di vita della popolazione a Gaza. La chiusura dei valichi e il blocco navale imposti da Israele, infatti, si fanno sentire maggiormente nei mesi invernali. La mancata erogazione di luce elettrica e di carburante incidono significativamente sul morale della popolazione. Da un punto di vista umanitario ed economico, la Striscia è ormai al collasso. D’altra parte, i tentativi di intervento della comunità internazionale non sono sufficienti. Da tutto questo a un ritrovato consenso da parte di Hamas – la sola forza politica palestinese da sempre presente a Gaza, a fianco della popolazione stremata – il passo è breve. Ma Hamas dispone anche di altri spazi di manovra. Nel confronto, non esclusivamente verbale, con Fatah, sembra che quest’ultimo perda progressivamente terreno in seguito alle dichiarazioni del suo presidente, Abu Mazen. L’invito a farsi da parte – ribadito da Haniyeh durante il suo comizio a Gaza l’altro giorno – è la naturale reazione di Hamas alle intenzioni del presidente dell’Anp a prolungare il suo mandato. Secondo la Legge Fondamentale dell’Anp del 2002, l’incarico si concluderebbe il 9 gennaio 2009. In quella data, i poteri dovrebbero passare per due mesi nelle mani del Presidente del Consiglio Legislativo, Abdel Aziz Dweik. Tuttavia, quest’ultimo – in quanto esponente di Hamas – è detenuto da due anni in un carcere israeliano. Sulla base di questo ostacolo e adducendo anche la mancanza delle condizioni di sicurezza, Abu Mazen chiede una dilazione di un altro anno, volendo far coincidere così le elezioni presidenziali con quelle politiche, ma soprattutto avendo a disposizione altri
Medio Oriente. Il “movimento verde” sale nel gradimento popolare e aspetta l’inverno
Hamas compie 21 anni Israele libera 227 palestinesi di Antonio Picasso dodici mesi per risalire la china dei consensi. Tuttavia, questi bizantinismi non sfuggono ad Hamas. Anzi, Haniyeh sta pressando sull’elettorato facendo leva su un Abu Mazen, a suo dire, ormai compromesso con Israele e interessato esclusivamente a conservare il potere. Il movimento islamico, invece, si presenta come il solo soggetto politico che ha agito unicamente in
Lo spirito di Annapolis appare definitivamente compromesso. E i militanti islamici mettono in scena il rapimento e la prigionia del caporale Shalit favore della popolazione e che da questa è stato eletto democraticamente nel 2006. Senza tuttavia aver mai potuto governare, in seguito alla contrarietà sia della comunità internazionale sia della stessa presidenza dell’Anp. Elementi, questi, che riscuotono un indiscutibile appeal presso l’opinione pubblica palestinese. Stesso discorso per quanto riguarda Israele. In questo caso, la forza di Hamas poggia sulla sua resistenza militare di fronte alla pressione di Tzahal. Non è un caso, infatti, che Khaled Meshal, dal suo esilio a Damasco, abbia fatto sapere dell’intenzione dei suoi uomini di non rinnovare la tregua in scadenza dopodomani. Il persistere degli scontri fra i soldati israeliani, le cui incursioni all’interno della Striscia sono note,
e i miliziani di Jihad palestinese, che continua a lanciare razzi su Sderot e Ashkelon, riduce il cessate il fuoco raggiunto quest’estate a uno sterile accordo di facciata.
Di conseguenza, di fronte a un’Israele che non vuole cedere e che, al contrario, minaccia un rientro delle sue truppe nella Striscia – operazione da sempre ventilata, ma scarsamente realizzabile – Hamas mostra anch’essa i muscoli e non abbassa la guardia. Al contrario, sbeffeggia il nemico, ricordando che il caporale Shalit è nelle sue mani da più di 900 giorni. E infine, accoglie con freddezza la decisione del governo Olmert di liberare gli oltre 200 detenuti palestinesi accusati di collusione con il terrorismo. Agli occhi di Hamas, il fatto che di questi solo 15 siano suoi militanti è un provocazione e un palese rifiuto a negoziare. Haniyeh, in questo senso, è stato chiaro: Shalit libero in cambio di mille uomini di Hamas. Una condizione pesante per Olmert, il quale non si può permettere di lasciare al suo successore – chiunque sia – un’eredità tanto amara. Così, mentre Abu Mazen cerca di sopravvivere e Israele si arrocca sulle sue opzioni militari – scartando a priori qualsiasi opportunità negoziale – l’onda verde di Hamas avanza, sul piano politico e soprattutto su quello dei sondaggi. *Analista Ce.S.I.
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Illusioni. Parte da Madrid una mostra sull’intera parabola del creatore ceco che lavorò con tutti i più grandi registi
Da Faust a Prometeo L’Europa rende omaggio a Josef Svoboda uno dei massimi scenografi del Novecento di Nicola Fano ggi si apre a Madrid (e nel corso del 2009 girerà altri paesi europei), la mostra Josef Svoboda Escenógrafo de la luz, curata da Giorgio Ursini Ursic e Ángel Martínez Roger, la maggiore retrospettiva mai dedicata al grande scenografo ceco, colui che più e meglio di ogni altro ha coniugato l’artigianato teatrale alla tecnologia. Nato nel 1920 a Cáslav, un piccolo centro a Est della Boemia e morto nel 2002 a Praga, fu Svoboda a inventare la celebre Laterna magika, il teatro praghese che a partire dagli anni Sessanta mescolava luci, ombre e proiezioni in un gioco continuo di rimandi onirici. Fu lui, ancora, a firmare tutti i grandi spettacoli cechoviani di Otomar Krejka, uno dei padri della regia del secondo Novecento. Insomma, il suo segno è rimasto su tutto il teatro europeo.
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della sua morte): un testamento ma al tempo stesso una sfida da superuomo. Se quello di Strehler è sempre stato – per scelta al confine tra le fede e l’ideologia – un teatro fatto da uomini per altri uomini, Faust doveva esserne la summa e al tempo stesso il manifesto. Non a caso, per produrre le due parti di Frammenti che composero questa impresa, il grande regista fece prima costruire un teatro ad hoc, a Milano (il Teatro Studio, una sala scarna ma solo apparentemente povera) poi chiamò nella sua città una lunga serie di collaboratori vecchi
semplice – non tecnologica – che Strehler gli aveva chiesto, pur sembrando non crederci – creativamente – fino in fondo. Strehler vedeva in Faust il percorso di un uomo drammaticamente all’inseguimento della conoscenza per metterla a disposizione della società: in questo lo apparentava a un altro suo chiodo fisso teatrale: il Galileo di Brecht. Il Faust di Strehler era un uomo inquieto costretto ad accettare un patto con Mefistofele per acquistare un bene da condividre con l’umanità. È un martire della conoscenza, in un certo senso, un del Prometeo Novecento che offre il suo sacrificio alla società del consumo sfrenato, nella speranza di invertire la rotta dell’umanità perduta e riconquistarla al sapere, alla scienza, alla poesia. Quello con Mefistofele, in questo senso, non è un patto ma un calvario consapevole, con vasti echi anche alla tradizione cristiana che il socialista Strehler comunque considerava uno dei fondamenti identitari della comunità di uomini alla quale si rivolgeva.
Dopo le esperienze con Otomar Krejca e l’invenzione della “Laterna magika”, tornò in Italia per il kolossal strehleriano su Goethe
Anche in Italia Svoboda ha lavorato a lungo; in particolare, il testo inedito che pubblichiamo accanto è dedicato alla sua collaborazione con Giorgio Strehler, iniziata nel 1989, per l’allestimento di Faust di Goethe. Questo incontro inedito fra due artisti al tramonto della loro vita produsse una vera e propria primavera creativa destinata a segnare le parabole dei due grandi artisti. Il Faust di Goethe, per Strehler che scelse pure di interpretarlo in prima persona sulla scena, doveva rappresentare una summa del proprio lavoro, quasi un sfida nella sfida, poiché al controverso eroe goethiano voleva affidare anche il suo sostanziale testamento di uomo e di artista. In questo contesto, Strehler non chieste a Svoboda di dispiegare in quell’impresa il suo talento tecnologico, bensì di costruire un contenitore semplice e assoluto che rispecchiasse la semplicità e l’assolutezza del progetto. Strehler non fece mai mistero del fatto che Faust sarebbe stato il suo ultimo grande lavoro creativo (e così in effetti fu, se si esclude il Così fan tutte lasciato in sospeso al momento
L’adesione di Svoboda al mito di Faust era completamente di-
e nuovi per dar vita a un laboratorio che nel corso di quattro anni di lavoro ha portato all’allestimento di circa 6500 versi dei quasi 12000 che compongono le due parti del Faust goethiano. Fin dall’inizio, Svoboda realizzò una “scatola”
versa: per lui l’eroe di Geothe era un uomo di genio costretto a scendere a patto con Mefistofele per salvaguardare la sua stessa creatività. Un artista che sa di dover accettare dei compromessi per garantirsi futuro e autonomia. La parabola bio-
grafica di Svoboda lo rivela con chiarezza. Solo negli ultimi anni, per esempio, l’apertura degli archivi di Stato della Cecoslovacchia filosovietica ha mostrato che l’artista per molti anni ebbe rapporti piuttosto contradditori con la polizia politica. Ormai si può dire oggi – quasi inconfutabilmente – che Svoboda sia stato un informatore del regime. In realtà egli strinse un patto con Mefistofele per continuare le sue ricerche, per garantire a sé, ma anche al suo pubblico, quindi alla sua cultura e in ultima analisi al suo paese, uno spazio creativo autonomo. Non è una spiegazione assolutoria, questa, ma solo una lettura il possibile realistica della situazione sociale, politica e creativa della Cecoslovacchia dietro la cortina di ferro: un mondo chiuso nel quale era facile precipitare nel vuoto dell’ostracismo o nel martirio della dissidenza, purtuttavia un universo concentrazionario nel quale tenacemente Svoboda cercò la sopravvivenza aderendo a una sua idea personalissima di “socialismo” nel quale l’obbligo primario era quello di preservare se stessi e la propria creatività. Aveva altre opzioni, Svoboda? Certamente sì, come dimostrano le drammatiche biografie di tanti intellettuali cancellati dal regime, ma la strada che egli prese probabilmente tendeva principalmente a salvare le proprie
idee. Insomma, se per Strehler Mefistofele era il grande Capitale occidentale, per Svoboda era il Comunismo sovietico: in questo i loro approcci non solo erano diversi, ma erano addirittura opposti.
E nel loro misurarsi con il grande progetto scenico del Piccolo di Milano riflettevano la contraddizione terribile che ha prima ingessato e poi distrutto il socialismo del Novecento: da un lato quello umano, quasi cristiano (alla Saint-Simon, per intenderci) di Strehler, dall’altro quello massimalista e antagonista di Svoboda. Anche per questa ragione Faust è stato uno degli spettacoli più drammaticamente significativi degli anni Novanta in Europa: perché metteva a confronto – fino a un certo punto consapevolmente – i due corni contraddittori della maggiore illusione del Novecento. Sia Strehler sia Svoboda, comunque, dovettero capire l’importanza del loro scontro creativo. Lo scenografo non si tirò mai indietro e ciò probabilmente non solo per il prestigio che quella collaborazione gli garantiva. Né Strehler volle mai privarsi dello scenografo, probabilmente intuendo che nella contraddizione naturale dell’“artigiano tecnologico” poteva esserci una chiave del suo tentativo titanico di racchiudere un secolo in un solo spettacolo, sia pure lungo molte
cultura
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Un inedito dell’artista sull’esperienza goethiana al Piccolo di Milano
Il mio viaggio nei sogni di Strehler di Josef Svoboda avorare con Strehler per me fu una festa. Quando Strehler “compra” una scenografia sa già perché, e perciò la usa in modo perfetto, e fino in fondo. Spesso, quando mi trovo a immaginare e poi a realizzare una nuova “invenzione”, vengo deluso dall’utilizzo che ne viene fatto; per questo per me lavorare con Strehler fu una festa. Lui aveva predisposto tutto in modo sublime, a cominciare dal copione: aveva già pronto il suo testo, una versione ridotta rispetto all’originale, come si poteva capire fin dal titolo della messinscena, Faust-frammenti. Mi era piaciuto molto il modo in cui aveva scelto solamente alcune specifiche scene; questo denotava estrema sensibilità, anche perché aveva selezionato delle scene quasi impossibili da rappresentare. Per esempio, quella con Margherita: l’incipit del suo dialogo con Faust Strehler lo realizzò come disputa. Ma quasi fosse una conferenza, mise semplicemente due leggii su un palcoscenico vuoto: uno per Faust, l’altro per Margherita, così ognuno poteva autonomamente leggere la sua parte. Poi un taglio: Faust andava da Margherita e recitavano insieme la scena più drammatica, quella nella quale Giulia Lazzarini dava il meglio di sé. E d’improvviso si faceva buio per due secondi. A quel punto, l’interno della cattedrale era creato solo tramite giochi di luce. Allora, dal fondo del palcoscenico, arrivava un’altra Margherita, una giovanetta di diciassette anni, e avanzava verso il pubblico seduto ai lati della scena e nei palchi, con solo la voce di Mefistofele di sottofondo. Un’idea assolutamente geniale: poiché solamente un’attrice matura come Giulia Lazzarini poteva recitare la scena precedente restituendole tutta la sua importanza, mentre la giovane attrice portò alla ribalta l’autenticità e l’inesperienza tipica della giovinezza. Fantastico! Tanto di cappello davanti ad un simile approccio.
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tra la terra e questa galassia, vedeva recitare nello spazio tra chiuso fra questi due estremi. Ci ho sudato, su questa spirale: avrò fatto più di cento bozzetti, ma non era mai quella che volevo. Eppure alla fine il supplizio fu ripagato. La spirale era magnifica: da un lato serviva per nascondere dei proiettori ma nello stesso tempo fungeva da superficie per le proiezioni; la leggerissima seta tremolava continuamente come fosse materia viva, soffiavamo del vento e si scuoteva quasi si trovasse in una tempesta galattica. E quella spirale generava un’altra spirale nera, che con un movimento circolare si posava a terra, e si trasformava, a sua volta, in un albero che poi prendeva fuoco.
La spirale vuole essere un universo senza fine, sinottico ed inviolabile, che trionfa sull’opera di Goethe. L’intuizione che fa scattare ha i caratteri dell’assolutezza e dell’infinito, perciò devono restare tali nel tempo. Certamente, si possono portare nello spettacolo varie tipologie di “infinito”, ritratte da diverse angolazioni: l’immagine infinita del cielo così come appare ad una vista umana, o come è nella sua intrinseca natura, con i suoi cambiamenti tra la notte e il giorno, l’alba e i crepuscoli; senza perciò perdere il suo essere cosmico, il simbolismo totale. In ogni modo, la spirale, non doveva restare un “oggetto utile”. E in questo senso, credo che quando ho pensato che potesse muoversi, piegarsi, spostarsi durante lo spettacolo, ho commesso uno sbaglio. Soltanto se abbiamo il coraggio di accettare la sua indubitabile fissità formale, l’immobilità della spirale è capace di serbare il proprio valore. C’è forse qualche giustificazione per creare uno spettacolo, a parte il fatto che in quel momento, per noi, è indispensabile? Forse sì, ma ci sono anche esigenze artistiche personali che devono porsi in relazione con ciò che interpretano. Con l’autore che portano in scena, voglio dire. In questo senso, la spirale può distruggersi solo una volta e cioè durante la guerra. A causa di un’azione brutale. I nostri cieli – quelli reali – sono intrisi della tecnologia dei laser, dei segnali radar, dei razzi: sono pieni di “star wars”, per dirla con una espressione onnicomprensiva. Ecco quindi che i cieli sono violentati dalla scienza di Faust che ne abusa in modo perverso e tutt’altro che umano. Allora, in tutto questo, inseriamo una proiezione “fantastica”, non umana, diabolica. Di Mefistofele, insomma . Potrebbero allora apparire e sparire delle nebulose, delle onde, ma niente di più. La spirale non si deve mai usare, né prima, né dopo, non può essere il soffitto del palazzo dell’Imperatore, neanche il tiglio di Baucis e Filemone, ecc. Quasi alla fine, per la prima volta e solo una volta, la spirale si muove: scivola lentamente e inonda il teatro senza fine; e poi senza fine avvolge il corpo nudo di Faust, che muore in mezzo alla sala, completamente spoglio, in posizione fetale, azzerato. L’ultima scena dello spettacolo è costituita proprio dalla spirale senza fine dove Faust viene inghiottito “dentro se stesso”.
La mia più grande invenzone fu una spirale di stoffa e di luce, simbolo di un universo senza fine
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ore come alla fine fu l’allestimento delle due parti di frammenti di Faust. E la prova di ciò, di questa singolare attrazione-repulsione, sta in due singolari epiloghi. Il primo riguarda Strehler che per il finale dello spettacolo (quello nel quale la morte di Faust, in contraddizione con Goethe, rappresenta quasi l’atto estremo della sua parabola di capro espiatorio) chiese a Svoboda un’invenzione tecnologica: quella spirale di luce che è rimasta l’immagine forse più suggestiva dello spettacolo. Svoboda – che pure acconsentì volentieri al cambio di rotta del grande regista – nell’ultimissimo scorcio della sua vita si batté per mettere in scena un altro Faust (utto giocato fra specchi, ombre e visioni), stavolta con la regìa del sodale di sempre, Otomar Krejca. È destino della grande arte misurarsi a distanza sulla pelle dell’umanità.
In queste pagine, tre scenografie di Josef Svoboda (nella foto piccola a sinistra): qui sopra, i ”Vespri Siliciani”; in alto, un’opera contemporanea a Ginevra; a sinistra, un classico ”Polyecran” realizzato nel 1967
Lo spazio scenico fra il palcoscenico e la platea era sovrastato da un’enorme spirale di tessuto, posta a livello del soffitto, fatta da una sottile seta giapponese, larga tre metri e lunga alcune centinaia. Avevo già pensato alla spirale mentre preparavo la scena per l’Odysseus (1987) alla Laterna magika: pensavo che la nave dovesse avere la forma di una spirale nella quale io sentivo codificato tutto l’universo con i suoi buchi neri... Però non avevo avuto l’opportunità di verificare il tutto nei miei laboratori di Praga. E la spirale, ormai, era entrata a far parte dei miei “sogni scenografici”: quando non ho l’occasione giusta per realizzare un’idea, preferisco metterla da parte e aspettare un’occasione migliore. Insomma, cerco di non sprecare i miei “sogni” in occasioni banali. Con Strehler percepivo chiaramente che il momento della spirale era arrivato: le mie idee sull’universo e la galassia gli piacquero assai, e la capacità della metamorfosi di questo oggetto affascinò entrambi anche per il fatto che non era altro che una soffitta teatrale al rovescio, cioè un simbolo estremamente teatrale. E il pubblico, seduto
cultura
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TARQUINIA. Giunto alla sua settima edizione, il Premio intitolato alla figura e all’opera del poeta Vincenzo Cardarelli (1887-1959) ha cambiato radicalmente pelle: e non solo perché da quest’anno gli eventi sono aumentati di numero, o perché si è deciso di coinvolgere maggiormente la cittadinanza, ma principalmente perché, come ha spiegato l’assessore alla cultura della provincia di Viterbo, Renzo Trappolini, s’è sentita la necessità di dare un’identità più forte e marcata alla manifestazione, orientandola verso un ambito specifico in cui non ci fosse concorrenza con altri premi dello stesso tipo. Così, archiviata l’esperienza di Maurizio Costanzo alla guida della direzione artistica, gli organizzatori del Cardarelli hanno deciso di puntare sulla critica letteraria nazionale e internazionale, chiamando al timone di questa nuova versione del Premio Massimo Onofri, critico, saggista e docente universitario.
Compagnon ha ricordato come, nonostante l’applicazione del loro meccanicismo alla scuola secondaria avesse, nei presupposti di base, una motivazione più che valida e certamente condivisibile – ovvero permettere a tutti gli studenti di accedere alla cultura partendo da uno stesso livello – i risultati abbiano poi dato torto a chi aveva scommesso sulla narratologia, fatto che ha reso difficile, se non quasi impossibile, l’eventualità che i giovani studenti francesi, passando all’età adulta, continuassero a occuparsi di letteratura, con tutte le conseguenze che ciò ha avuto sulla società civile transalpina. La discussione si è poi spostata sul modo in cui le nuove tecnologie potranno influenzare la fruizione della lettura, e sull’importanza della critica nel mondo contemporaneo, che, si è concluso, può assumere il non secondario ruolo di mediatrice tra l’universo delle lettere e chi vi si volesse avvicinare.
Poiché, dice da tempo Onofri, l’esistenza e le possibilità della critica – non esclusivamente di quella letteraria, ma soprattutto di quella che permette di decifrare la vita quotidiana: privata, pubblica o civile che sia – sono due dei fattori sui quali si misura il grado di democrazia di un Paese, l’appuntamento di venerdì sera ha visto coinvolti, in una sorta di processo pubblico, coloro che più di ogni altro, negli ultimi mesi, hanno rivestito i panni degli accusatori, e cioè i giornalisti del Corriere della sera Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, i celebrati autori di La casta, volume che ha goduto di un incredibile e inaspettato successo di pubblico, e appena riapparso nelle librerie in una nuova edizione aggiornata. Nella parte dei pubblici ministeri si sono calati i giornalisti de Il Foglio Andrea Marcenaro e Duccio Trombadori, mentre quella dell’avvocato difensore è spettata alla firma de Il Giornale Luca Telese, vero mattatore della serata, talmente accorato, appassionato e calato nel ruolo, da impiegare i termini tecnici dei processi veri, esibire plateal-
Letteratura. La carta vincente di Massimo Onofri: qualità, critica, poesia
La nuova identità del Premio Cardarelli di Alessandro Marongiu mente delle prove per smontare la tesi accusatoria, e alzarsi in piedi per invocare l’assoluzione della giuria popolare, costituita dalla moltitudine di tarquiniesi accorsi,
Onofri, i critici e giurati Filippo La Porta e Raffaele Manica, e il vincitore del premio per la Critica letteraria interquell’Antoine nazionale, Compagnon che, cresciuto
bro Il demone della teoria, la sconfitta inesorabile e il superamento della Teoria della letteratura e della semiologia che, a partire dagli anni Sessanta e per circa un venten-
Ad Antoine Compagnon è stato consegnato il riconoscimento per la Critica letteraria internazionale, ad Alfonso Berardinelli quello per la Critica letteraria nazionale, mentre ad Anna Cascella Lucani il Premio per la Poesia che è stata accolta (ma c’erano pochi dubbi) quasi all’unanimità. Sabato mattina è stata la volta dell’incontro tra Massimo
come allievo di Roland Barthes, nel corso degli anni si è progressivamente allontanato dalle idee del suo maestro, per sancire, con il li-
nio, avevano monopolizzato gli studi letterari, per poi «istituzionalizzarsi, trasformarsi in una tecnica pedagogica spicciola e arida».
A sinistra: Antoine Compagnon, cui è stato consegnato il riconoscimento per la Critica letteraria internazionale, e Anna Cascella Lucani, che ha ritirato quello per la Poesia. A destra, Alfonso Berardinelli, che ha ricevuto il Premio Cardarelli per la Critica letteraria nazionale
In serata, infine, nella chiesa di Santa Maria in Castello si è tenuta la cerimonia di premiazione, presentata dall’attore Pier Maria Cecchini e impreziosita dalla lettura, da parte di Ilaria Occhini, delle poesie di Vincenzo Cardarelli, nonché da un intervento fuori programma di Raffaele La Capria. Oltre a quello conferito a Compagnon, i riconoscimenti sono andati ad Alfonso Berardinelli, considerato «attualmente il più brillante e autorevole critico della cultura italiana» per la Critica letteraria nazionale; ad Anna Cascella Lucani per la Poesia, per via di una produzione «ancorata al “qui e ora”, e renitente alla trascendenza e persino alla memoria»; alla minimum fax per la Piccola e media editoria, per lo «specialissimo mix di giovanile freschezza e sicura maturità, sperimentalismo totale e disposizione all’eccellenza canonica novecentesca»; infine a Chiara Fenoglio e Fabrizio Patriarca ex aequo per l’Opera prima di critica letteraria, per i loro i lavori Un infinito che non comprendiamo. Leopardi e l’apologetica cristiana dei secoli XVIII e XIX e Leopardi e l’invenzione della moda.
sport
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Gli antieroi della domenica. Fermo immagine sulla “diva” tenace, cocciuta e veneta purosangue Federica Pellegrini
Protagonista per forza di Francesco Napoli
quorea creatura. A Federica Pellegrini si possono oggi solo accostare alcuni versi immortali di Eugenio Montale, quelli noti e da antologia di Esterina e dei suoi vent’anni, gli stessi della campionessa pluridecorata e pluriprimatista d’origine veneta. E i veneti si sa, sono un popolo di conquistatori, organizzatori, o meglio vittoriosi, secondo l’etimo indoeuropeo weneth che Giacomo Devoto portò con la consueta sapienza alla luce. L’impresa compiuta è quasi da leggenda, non come il suo collega Phelps alle Olimpiadi pechinesi, ma siamo nelle immediate vicinanze: oro e primato mondiale dei 200 sl in vasca corta (di 25 metri) agli europei croati di Rijeka (l’italiconostalgica Fiume), mentre è già suo quello in vasca lunga (di 50 metri). Deve averlo fatto per sé, certo, ma anche perché non ammette di essere pizzicata. Il coach, Alberto Castagnetti, l’ha criticata, come spesso fanno i trainer per pungolare, perché non si era allenata sufficientemente, a suo dire.
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L’impresa è quasi da leggenda: da un record a un altro (oro e primato mondiale dei 200 sl agli europei di Rijeka) passando per una “spettacolare” malattia in piscina fi ma non tanto per le sue performance quanto per constatare, finalmente, se il costume tirasse un po’ di più sotto le ascelle... la rivale italiana non doveva (di)mostrare alcunché in questa specialità.
Ma a Federica i suoi vent’anni non rappresentano la benché minima minaccia, anzi, il futuro non la “impaura”(Montale scrisse) affatto. Ha, da veneta purosangue, quasi un senso del dover essere protagonista per forza, contro tutto e tutti, anche contro un malore che l’ha colta
E lei, poi, l’ha smentito sfrontatamente e, piccata, ha rimandato al mittente l’accusa: un’altra volta impara a dirmi che non m’alleno, o una cosa del genere. Tiè! Ma è fatta così, prendere o lasciare. Meglio tenersela. Forse però l’avrà fatto perché quando vede il tricolore, quello con la fascia blu dei cugini d’Oltralpe, è proprio come se vedesse rosso. Infatti, appena la francesina del momento, Coralie Balmy, non più di una settimana fa si era impossessata dello scettro di donna più veloce del mondo su quella distanza, Federica ha pensato bene di ridimensionarla, di stracciarla abbassando quel neo record di quasi 2 secondi. E dire che Castagnetti riteneva inavvicinabile il tempo della francesina. Ma la Pellegrini fa le cose sul serio e via, scivola verso la nuova migliore prestazione con la naturalezza della campionessa di
In questa pagina, la nuotatrice italiana Federica Pellegrini, che di recente ha messo a segno imprese quasi da leggenda: oro e primato mondiale dei 200 sl in vasca corta agli europei croati di Rijeka, mentre è già suo quello in vasca lunga
rango. Una tenzone infinita con l’allenatore ma ancor più con le transalpine. Fatta di record e vasche bevute nel più breve tempo possibile, ma anche di amori strappati senza badar troppo alla liceità dei colpi portati, ma in amore si sa. Il ménage à trois con Laure Manadou e Luca Marin, il prendi e lascia fra i tre a colpi di dichiarazioni alla stampa e consimili colpi di fioretto degni della migliore Granbassi, con l’indeciso e forse maschilmente codardo Ma-
rin che si beava tra le donne (fatto poi salvo che ha perso tutte e due, “filippo e panaro” come si dice in alcune fiere del Mezzogiorno d’Italia), prima dell’Olimpiadi cinesi ha fatto storia nel gossip nostrano. La francese le ha provate tutte per rubare a Federica l’oggetto del contendere, anche una non meglio chiarita operazione che l’ha condotta ad avere su di sé la curiosità dei fotogra-
come impreparata pochi giorni prima di sbarcare a Fiume, a Genova, durante gli Assoluti a fine novembre. Era nell’acqua, spingeva braccia e gambe verso la mèta quando il cuore e il fiato non hanno più retto. L’Italia natatoria ha sospeso il respiro
con lei fin quando le agenzie non hanno conclamato che «nessun elemento di significato patologico» è mai esistito nel malore che ha colto Federica Pellegrini durante quella gara preparatoria agli imminenti e più decisivi Europei in vasca corta. Da fuoriclasse morde il freno, vuole subito rilanciarsi nelle amiche acque. Ma il nonnulla che l’ha presa, poco più di un sospiro, la tiene alla ribalta. Dopo i momenti d’ansia si distende anche il presidente del Coni, Gianni Petrucci. «Sono contento che Federica stia bene. Dovremmo esseri tutti contenti che un personaggio come lei non abbia nulla di grave e torni presto in piscina». Come è vero. Nella gran vasca della celebrità, poi, contende a Roberto Saviano il titolo di personaggio più popolare del 2008, segnando un incremento del suo indice di notorietà del 29%. Poco per lei che non si ferma neppure dopo aver conquistato il podio più alto della Top Ten - Personaggi femminili, Performer notorietà 2008 vs 2007.
Federica è sempre lì, non la turba «di ubbie il sorridente presente» e si slancia o, come meglio scrisse il premio Nobel ricordato in apertura, «Esiti a sommo del tremulo asse, / poi ridi, e come spiccata da un vento / t’abbatti fra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra», quell’acqua limpida e liscia che frange con la forza sublime della sfrontatezza, la stessa di Esterina, lasciando tutti con un palmo di naso a guardarla, un po’ da voyeur. Questa è la sola consolazione per chi appartiene inesorabilmente alla «razza / di chi rimane a terra».
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da ”El Paìs” del 15/12/2008
I corpi della memoria di Natalia Junquera na memoria condivisa anche nel lutto, per ricostrire lo spirito nazionale. In Spagna è stato messo a punto un protocollo per la riesumazione delle salme della Guerra civile. Il conflitto fratricida che caratterizzò gli anno Trenta del secolo scorso. In seguito al ritrovamento di una grande fossa comune, fatto non raro e frutto di casualità o ricerche storiche e documentali. Una dolorosa necessità, quella di stabilire un prontuario sul recupero dei corpi, che dovrà tenere conto di diversi aspetti che coinvolgono ancora i sentimenti di gran parte della popolazione iberica.
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Il governo ha elaborato una normativa sull’esumazione delle vittime, che si spera possa diventare legge. Il canovaccio seguito è quello sulla legislazione sulla Memoria storica del 2007, il documento reso noto da El Pais, riguarda sia gli aspetti tecnici, su come si debba dissotterrare una salma, e su chi debba farlo, ma anche aspetti politici che prevedono una continua collaborazione con i parenti delle vittime e le associazioni che li rappresentano. Infatti, il protocollo assomiglia già a quelli esistenti, stilati , ad esempio, dall’Associazione per il recupero della memoria che si è già occupata della ricerca di altre 4mila salme di caduti nelle Guerra civile. La novità starebbe nell’iter ufficiale intrapreso dal governo di Madrid. Francisco Etxeberria, un esperto in medicina legale che si è già occupato delle vicende cilene legate ai processi contro Pinochet ed è stato consulente del giudice Garzon, ha curato lo sviluppo tecnico del documento. Il lavoro di dovrebbe basare principalmente sulla collaborazione di team multidisciplinari che permetterebbero di ottenere il massimo delle informazioni possibili. Antropologi forensi e tecnici –
ad esempio - lavorando fianco a fianco darebbero la massima garanzia, a familiari e storici, sull’identità dei caduti e sul quadro degli eventi che ne avrebbero determinato la morte. Gli aspetti politici prevedono il coinvolgimento delle comunità territoriali, oltre che quello dei diretti discendenti delle vittime, di legali rappresentanti e delle associazioni riconosciute, che si occupano di questa materia. Un segno di attenzione verso una materia che dimostra essere ancora un delicato nervo scoperto nella storia spagnola.
Nel caso di controversie tra famiglie e altri enti, saranno le amministrazioni locali a dirimere i lodi. E alla fine a decidere, se quella salma o quelle salme debbano o meno essere riportate alla luce e con esse un pezzo di memoria e di sofferenza del Paese. Questo significa che sarebbe l’amministrazione socialista dell’Andalusia a dover decidere, eventualmente, la riesumazione di alcuni personaggi cari agli spagnoli. Nella stessa sepoltura, una fossa comune dove furono buttati i corpi dopo la fucilazione, in una località nei pressi di Grenada (Pulianas), starebbero insieme infatti il torero (banderillero) Francisco Galadì, l’intellettuale Dioscoro Galindo e il poeta Garcia Lorca. Un’icona di quel conflitto tra fratelli che aveva insanguinato la penisola iberica e coinvolto il mondo. I familiari dei primi due vorrebbero la riesumazione, mentre gli eredi di Lorca pre-
ferirebbero che il corpo del poeta rimanesse lì sepolto. Sono anche nate alcune polemiche sul testo del protocollo, promosse dall’Associazione del recupero della memoria e dal suo presidente, Emilio Silva. Molti dei parenti diretti sono persone molto anziane - di 80 o 90 anni - che non vorrebbero aspettare il nulla osta dalle amministrazioni locali, volendo esercitare un diritto che non dovrebbe trovare ostacoli burocratici, secondo Silva.
Nel documento studiato dal governo è previsto anche lo strumento dell’esproprio temporaneo dei terreni dove siano state individuate le fosse comuni. Attraverso i consueti canali della magistratura competente per territorio, della polizia e della Guardia civil si dovrebbe arrivare all’identificazione certa delle salme, per poterle restituire ai parenti, altrimenti i resti verrebbero inumati nel cimitero pubblico più vicino. Un posto dove, forse, quelle povere vittime potranno trovare finalmente la pace che l’odio e la violenza gli hanno sin qui negato.
L’IMMAGINE
Abruzzo: grosso calo elettorale e inefficienza delle amministrazioni L’affluenza elettorale in Abruzzo, almeno nella giornata di domenica, è un vero e proprio crollo: 17% in meno. Il disincanto verso la politica cresce sempre più e, forse, riguarda addirittura più clienti locali e meno la politica romana. Come se le amministrazioni locali non riuscissero a mostrare la loro efficienza e il loro contributo utile alla vita dei cittadini, ma solo le note inefficienze, gli abusi, le lungaggini burocratiche e l’immancabile corruzione. Poi, magari, la partecipazione elettorale troverà nuovo slancio e si tornerà al voto. Tuttavia, voto o non voto, partecipazione o calo del consenso, le amministrazioni – soprattutto quelle meridionali – brillano per inefficienza e malaffare. Lo ricordava qualche giorno fa, con una forte denuncia il presidente Napolitano. E non sembra che ci sia una via di uscita: né a destra né a sinistra. La vita delle amministrazioni incide troppo e troppo male sulla vita di aziende, cittadini e comunità.
Mariano Serra
L’EUROPARLAMENTO È COME UNA DISCARICA Ho letto che al governatore della Campania, Antonio Bassolino verrebbe garantita la candidatura al Parlamento europeo nel 2009, qualora si dimettesse entro Natale. Da cittadino comune ma pensante recepisco il seguente messaggio: devi lasciare la carica perché non ne sei più degno e per premio ti mandiamo al Parlamento europeo. Mi viene un forte dubbio: ma il Parlamento europeo è forse la discarica di Pianura o di Chiaiano?
Giuseppe Morea
TFR SENZA COPERTURA Vorrei chiedere, se noto, quanti sono i fondi pensione che hanno investito in Lheman Brothers? Quante sono le perdite conseguenti e, più in generale, a quanto si sti-
ma l’ammontare delle perdite di tali fondi a causa del crollo generale dei titoli azionari? In sostanza a quanto ammonta il Tfr italiano attualmente rimasto senza copertura? Chi devono ringraziare per questo danno i lavoratori che, a suo tempo, sono stati intensamente sollecitati alla scelta del fondo privato?
Il pericolo è il mio mestiere Non è un modo per combattere il freddo, ma l’esibizione di uno stuntman professionista. Uno che per lavoro fa incidenti in macchina, si lancia dai piani alti e prende cazzotti. Cercando di non farsi troppo male però. Ci sono alcuni trucchetti: prima di tuffarsi a torso nudo in mezzo alle fiamme, per esempio, gli stuntman si spalmano sulla pelle una speciale “gelatina” che protegge dalle ustioni
Angelo Rossi
IL SOLITO PARCO BUOI Credo si possa affermare che di solito i soldi non scompaiono nel nulla, le perdite di borsa da un lato, significano arricchimento dall’altro. Non so chi si sia arricchito in maniera così mastodontica nell’attuale dissesto finanziario mondiale, ma certamente a qualcuno è successo. Mi vengono in mente le sagge parole di Leibniz: «Perché
tanta gente dovrebbe essere ridotta in povertà per il bene di così pochi?». Sostanzialmente, come diceva Camus: «Siamo uccisi in guerra, come derubati in borsa, da gente che non conosciamo». È la solita storia del parco buoi e da sempre noi buoi ci ricaschiamo.
Maddalena Rossi
CHI È IL VERO ANIMALE? Perché sui giornali non si parla
mai o quasi del maltrattamento degli animali e dell’abbandono dei canili lager? Perché non si affronta il problema dei recinti dei privati, in particolar modo dei cacciatori, che sono più lager dei canili municipali?
Cinzia Rotonda
A PROPOSITO DI CAVOUR In riferimento all’articolo “I verbali inediti di Cavour, pubblicato su li-
beral di sabato 13, precisiamo che essi sono tratti da I verbali dei governi Cavour (1859 – 1861), a cura di Marco Bertoncini e Aldo G. Ricci, Libro Aperto edizioni (pp. 120, ¤ 15). Il libro è il primo di una trilogia, concepita per i centocinquant’anni dall’Unità e per celebrare Cavour. L’anno prossimo uscirà un volume sul Cavour politico; nel 2010 un altro sul Cavour economista.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
La camera oscura dell’immaginazione Bimba mia. Senti una cosa. Le tue lettere mi piacciono poco; c’è qualcosa di freddino, di ritenuto, di non so che gelido, che non mi va. Mi piacevano più quelle care di I... È cosa che mi umilia; perché si direbbe che quando poco mi conoscevi, eri più confidente e abbandonata, e come mi ti sono avvicinato, il tuo cuoricino si sia più ritirato, alla guisa di quei piccoli insettini che, se gli approssimi un dito, ritraggono i tentacoli e fanno il morto. Il tuo ultimo ritratto è un assurdo. Io lo guardo e mi pari un’altra; è scomparsa quella luce di verità che illumina la tua fronte di scuola mistica; i tuoi occhi dicono al rovescio di quel che tu dici; la tua bocca mente, la tua posa è comica; il fotografo fu un ladro, t’ha tubato il morale. Se tu non ti fai rifare, io questo non lo guardo più, lo suggello e chi s’è visto s’è visto. Io ti guarderò dentro la camera oscura della mia immaginazione. Là troverò la mia I..., anzi la mia Idea, buona, semplice, schietta; ora lieta, ora mesta seconda la nuvola che passa; intelligente, fina, che sa più di quel che non sa di sapere; artista nell’anima, fanciulla e donna a un tempo; ti troverò là e mi basta. Sfido tutti i ritrattisti della terra, da Tiziano a Rembrandt, a farmiti eguale. Aleardo Aleardi a Ida F.
ACCADDE OGGI
RICUCIAMO IL DISTACCO TRA IL PALAZZO E IL POPOLO La crisi economica ha messo in evidenza che viviamo in un sistema di economia interdipendente e quindi globale, per cui non possono esserci zone immuni e inattaccabili come vorrebbero far credere certi partiti territoriali. A parte l’errore di aver voluto per troppo tempo prendere a modello tutto ciò che in politica e in economia è stato adottato oltre oceano durante le emergenze, e il pericolo di deflazione è una grave emergenza, bisogna dare risposte forti e queste devono essere date dalla classe politica sia perché ne ha il potere e il dovere sia per evitare la sfiducia nelle istituzioni visto che è sempre più in aumento il distacco tra il palazzo e il popolo. Per ottenere credibilità è necessaria sicuramente una riduzione numerica non solo dei parlamentari nazionali ma anche dei consiglieri e assessori regionali, provinciali e comunali; la riduzione delle indennità di questi ultimi; la soppressione degli enti inutili, di quelli superflui e dei carrozzoni.
Luigi Celebre
SALVATAGGIO DELLE BANCHE Quando la crisi economica è esplosa in modo clamoroso, nella sua drammaticità, col fallimento di importanti banche americane un po’ tutti i politici europei sono stati concordi nella necessità di salvare le banche. Un salvataggio senza dubbio doveroso per evitare il panico e al fine di tutelare i piccoli risparmiatori. Accantonata l’emergenza provocata dalla bufera non mi pare si
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
16 dicembre 1965 Viene lanciata la sonda Pioneer 6, per studiare il campo magnetico solare 1966 Il Libretto rosso di Mao viene pubblicato a Pechino 1971 Il Pakistan si arrende, portando alla fondazione del Bangladesh, ex Pakistan orientale 1973 O.J. Simpson diventa il primo giocatore della Nfl a correre per duemila iarde in una stagione 1984 Lancio della sonda sovietica Vega 1; obiettivi: Venere e la cometa di Halley 1985 A New York, i boss Castellano e Bilotti vengono uccisi; l’organizzatore dell’assassinio, John Gotti, diventa capo della potente Famiglia Gambino 1990 Jean-Bertrand Aristide viene eletto presidente di Haiti 1991 Le Nazioni Unite annullano la decisione secondo cui il Sionismo equivale al razzismo 1998 Operazione Desert Fox: statunitensi e britannici iniziano a bombardare obbiettivi iracheni, dopo che l’Iraq ha ostacolato l’operato degli ispettori Onu
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
stia provvedendo ad accertare se vi è stato difetto di valutazione da parte dei manager o se la ripercussione della crisi era, e in che misura, evitabile. I piccoli e medi risparmiatori, non pochi già scottati in passato, per erronei consigli si attendono una verifica dell’attività comportamentale degli intermediari monetari e ciò non per desiderio di rivalsa ma per essere tranquillizzati per il futuro. Una classe politica attenta e sensibile deve prevenire e prevedere, per quanto umanamente possibile, gli eventi che possono creare squilibri nel territorio e nelle famiglie. Non si può lasciare tutto al caso, alla fatalità e alla fortuna perché si rischia di andare alla deriva. Poiché viviamo in una società in continua e veloce evoluzione forse è opportuno rivedere le regole al fine di verificare se necessitano di modifiche, aggiornamenti o adeguamenti. E poiché le nuove regole devono guardare molto lontano è auspicabile che le riforme siano condivise anche dalla minoranza parlamentare. Poiché nessuno è unto dallo Spirito Santo, un po’ di umiltà democratica sicuramente gioverebbe alla migliore soluzione dei problemi.
dai circoli liberal
L’ASSURDO DELLA QUESTIONE MORALE Già dire “questione morale” e non “problema morale” fa differenza. Il termine “questione” rappresenta, infatti, la volontà di un rimprovero e di un addebitare ad altri qualcosa che non si addebita a se stessi. Voler discutere del “problema morale” esprime un modo diverso dal voler porre “la questione morale”. La prima dà il senso di una circostanza negativa da risolvere; la seconda include uno stato psicologico aggressivo. In effetti l’etimologia di “problema” richiama il concetto di “porre davanti” ciò che va risolto. L’etimologia di “questione”, invece, richiama il concetto di esigere una risposta. Ti pongo un “quesito”. È la stessa radice di questua, richiesta. In passato per dare un significato più conflittuale al termine “questione”, si utilizzava invece “quistione” cioè contesa, litigio, lasciando al termine “questione” l’ambito della discussione su temi filosofici e scientifici. Del problema morale quindi in politica si fa in effetti una “quistione”. Iniziò proprio Berlinguer. Disse: «La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima…». E il centrodestra da tempo si sforza di traghettare il ragionamento da “quistione” a “questione morale”, sbagliando. Sbagliando perché non è in discussione il fatto che in politica bisogna essere onesti consolandosi con il “mal comune mezzo gaudio”. Spadolini diceva che si vergognava di passare alla storia come uomo politico onesto: un aspetto indispensabile non può diventare un merito! Va invece affrontato il “problema” morale nei partiti e cioè: che si può fare per risolverlo? Ma ciò significherebbe per le parti politiche ricondurre la discussione sull’origine del problema morale nei Partiti, come la diagnosi di una malattia: l’analisi dei principi morali originari la cultura di alcuni partiti e di conseguenza il senso comune dei suoi dirigenti, che permane, riguardo l’etica nella conquista e gestione del potere ed infine gli inevitabili effetti nel comportamento dei loro avversari. Lo si evita perché per alcuni risulterebbe evidente che essendo improprio addirittura parlare di partiti, il che in democrazia è assai grave, mancano riferimenti precisi. Per altri si constaterebbe che i principi morali originari a cui molti dirigenti politici si sono riferiti, sono inesistenti, visto che al fine della conquista e conservazione del potere da parte del partito, non si doveva frapporre di fatto proprio alcun principio morale, se non per convenienza ed opportunità di circostanze. Al punto addirittura, e questo è proprio l’assurdo della situazione, di farne un uso spregiudicato trasformando un problema morale a cui si è concorso, in questione-arma politica. Il che continua a portare a medicine inutili, anzi tossiche. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
Lettera firmata
NON SE NE PUÒ PIÙ DELL’ANTIBERLUSCONISMO I media, compreso internet, pullulano delle solite vignette e beffe varie sulle solite questioni del conflitto di interessi di Berlusconi, degli averi di Berlusconi, delle battute scherzose di Berlusconi... Adesso basta.
Rossella Bruno
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
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PAGINAVENTIQUATTRO Diplomazie. Al via i collegamenti diretti fra l’isola e la madrepatria
Dopo 60 anni ripartono i voli fra la Cina e
TAIWAN di Vincenzo Faccioli Pintozzi
opo quasi 60 anni di gelo diplomatico, sono ripresi ieri i voli diretti quotidiani fra la Cina continentale e Taiwan, entità statale ancora formalmente non riconosciuta dalla diplomazia di Pechino. Al via anche i contatti postali diretti e i corridoi marittimi, che potranno finalmente evitare di passare per la Corea o il Giappone nella strada verso il sud dell’Impero di Mezzo. Il primo volo è partito alle 7.20 da Shenzhen (Guangdong) per Taipei; il secondo alle 8.00 da Shanghai. L’accordo fra il governo cinese e la controparte taiwanese, stipulato dopo quasi cinque anni di timidi approcci bilaterali, prevede 108 voli alla settimana, con cadenza giornaliera più frequente durante il fine settimana. Secondo il ministero taiwanese dei Trasporti, i contatti diretti permetteranno un risparmio annuo di 3 miliardi di dollari di Taiwan (circa 70 milioni di euro) per le compagnie aeree e i passeggeri; circa 35 milioni di euro per le compagnie di navigazione. Fino a pochi mesi fa, infatti, i voli e le navi non potevano effettuare la rotta diretta: erano obbligati da rigidissimi regolamenti a fare sosta in un aeroporto o porto
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terzo (Hong Kong e Macao, per gli aerei; Corea, Giappone, Hong Kong per le navi) che permettesse di rinnovare le carte di trasporto. In caso di mancato rinnovamento, le merci o i passeggeri venivano rispediti al mittente. Gli accordi si sono arenati per anni su antiche questioni diplomatiche e commerciali, inasprite dai due mandati presidenziali di Chen Shuibian, leader indipendentista dell’ex Formosa odiato da Pechino. Nel corso della sua gestione, si sono moltiplicati gli sgarbi e le scaramucce reciproche, concretizzate dalla richiesta annuale da parte di Taipei di ri-ottenere quel seggio alle Nazioni Unite perso negli anni ’70.
Con l’elezione di Ma Ying-jeou, leader dei nazionalisti del Kuomintang, alla presidenza di Taiwan, si è cominciato a parlare di voli diretti durante il fine settimana per passare a scambi reciproci su base quotidiana.
Ma, ex sindaco di Taipei noto per le sue politiche meno indipendentiste, è riuscito a sbloccare lo stallo pluridecennale assumendo posizioni più moderate del suo predecessore. All’atto pratico, non ha mai rivendicato un futuro indipente per Taiwan e ha cercato maggiori rapporti economici per aiutare l’isola e la Cina nella presente crisi economica mondiale.
Per formalizzare gli accordi sui voli, i due governi hanno compiuto un importante lavoro diplomatico. La delegazione taiwanese, composta da 19 membri, è stata guidata nel corso dei colloqui da Chiang Pin-kung, presidente
Tuttavia, l’accordo sui voli non diminuisce le tensioni fra Pechino e Taipei. Pur riconoscendo la nuova linea “morbida” del governo isolano, infatti, il regime cinese non ha alcuna intenzione di disarmare le centinaia di missili che tiene puntati contro l’isola. Inoltre, l’Assemblea del popolo cinese ha varato nel 2005 una legge anti-secessione che ammette l’uso della forza militare in caso di separazione da parte di «una qualche regione cinese». Anche l’opposizione interna a Taiwan non guarda di buon occhio l’accordo, che secondo il partito Democratico lega troppo strettamente le economie delle due nazioni. Con l’apertura di voli diretti, infatti, aumenterà anche il volume di import-export taiwanese verso la Cina, già oggi la principale voce nel bilancio dell’isola. Inoltre, i contestatori temono la fine dell’indipendenza di fatto di cui
L’accordo fra i due governi prevede 108 voli alla settimana, con una cadenza giornaliera più frequente durante il fine settimana. Secondo il ministero dei Trasporti di Taipei, si risparmieranno circa 105 milioni di euro ogni anno della Fondazione per gli scambi sullo Stretto (un’organizzazione para-governativa). La scelta del capo delegazione è di per sé un capolavoro diplomatico: un esponente di
spicco della vita politica dell’isola, che tuttavia non ricopre incarichi di governo e quindi non costringe Pechino ad ammettere l’indipendenza di Taiwan. Tuttavia, nel gruppo erano inclusi anche due vice ministri del nuovo governo di Taipei, a dimostrazione dell’importanza dell’incontro e della sua vicinanza con la politica. La controparte cinese è stata guidata da Chen Yunlin, presidente dell’Associazione (anch’essa “semi-governativa”) per le relazioni con lo Stretto di Taiwan. All’apertura dei lavori, Chen ha dichiarato che «la popolazione di entrambi i lati dello Stretto conta molto su questi incontri, che devono produrre veri risultati per smorzare i toni fra i due governi. Migliorare i nostri rapporti dipende da come procederanno le trattative».
l’isola gode sin dal 1949, quando Chiang Kaishek si rifugiò sull’isola per sfuggire dall’Armata rossa guidata da Mao Zedong. Ad oggi, soltanto 23 Stati (fra cui Città del Vaticano) riconoscono a livello diplomatico la Repubblica di Cina con capitale Taipei.
La Cina, da parte sua, considera Taiwan “un’isola ribelle”, che negli anni si è dotata di un parlamento democratico e di uno stile di vita libero. E non ha alcuna intenzione di rinunciarvi, nonostante l’appoggio che gli Usa da tempo concedono a Taipei. La strada della normalizzazione dei rapporti è soltanto un modo per riavvicinare le due popolazioni, non un modo per riconoscere l’indipendenza dell’isola. Che per Pechino fa parte del suo territorio.