ISSN 1827-8817 81227
La paura bussò alla porta.
e di h c a n o cr
La fede andò ad aprire. E non trovò nessuno
Martin Luther King 9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Donna dell’anno 2008 Perché è ancora viva. Ed è diventata il simbolo della sofferenza umana. Ma anche perché ha preso sulle sue fragili spalle il lacerante dibattito tra la sacralità della vita e l’utilitarismo delle nostre scelte
Eluana Englaro Otto pagine speciali con interventi di Ammirati, Binetti, Cardini, Doninelli, La Porta, Valzania (da pagina 9) La lezione di Harold Pinter
Un razzo fuori controllo di Hamas cade su Bet Lahiya e uccide due bambine
Israele: «Ora basta: siamo pronti a rispondere a qualunque costo»
L’ultimo atto di un genio del teatro
di Antonio Picasso
di Nicola Fano
Torna la guerra sulla Striscia di Gaza l primo bilancio negativo, ironia della sorte, è a carico dei palestinesi: dopo decine di razzi e colpi di mortaio sparati dalle milizie palestinesi verso Israele (senza provocare danni), è un missile palestinese fuori controllo a uccidere. E a morire sono due bambine di Bet Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza: due sorelline palestinesi di 5 e 13 anni chiuse nella loro casa per timore della guerra. Per quanto tragico, l’episodio segna soltanto un momento nell’escalation di violenza che ha avvolto la Striscia, a pochi giorni dalla fine della tregua concordata con Israele. E ora, l’occasione delle festività natalizie lascia un preoccupante spazio d’azione per le fazioni più estreme, sia tra gli
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Una donna palestinese passeggia davanti a un murales della Striscia di Gaza che inneggia alla “resistenza contro Israele”
seg2008 ue a p•agEin a 9 1,00 (10,00 SABATO 27 DICEMBRE URO
CON I QUADERNI)
israeliani sia tra i palestinesi. Le cancellerie di tutto l’Occidente sono “chiuse per ferie”. Quale occasione migliore, quindi, per tornare allo scontro a fuoco? Allo scadere del cessate il fuoco, una settimana fa, la tensione nella Striscia di Gaza ha subito una pericolosa impennata che potrebbe portare Israele e le fazioni che controllano la Striscia a un nuovo conflitto armato. Da Israele, ora, si teme una reazione di peso, anche se ieri è stata concessa dai militari di Tel Aviv l’apertura di tre varchi nel cordone militare che circonda la Striscia, una sorta di corridoio umanitario per permettere di portare generi di prima necessità alla popolazione civile, ormai al limite per mancanza di cibo e medicinali.
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arold Pinter vestiva sempre un maglione nero con il collo alto alla marinara. E portava i basettoni, quelli che andavano di moda negli anni Settanta: ha continuato a portarli fino all’ultimo. Sicché, più che uno dei più grandi scrittori del Novecento, sembrava un marinaio dei Doks, un po’ beone e un po’ sbruffone: ma non era né l’un né l’altro, naturalmente. Solo, sapeva guardare le cose con un occhio clinico che gli consentiva sempre di essere dalla parte dell’osservato, più che dalla parte dell’osservatore: una lezione che aveva imparato da Beckett con il quale, tuttavia, non era mai stato in grande sintonia personale, malgrado i due si professassero amici.
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• CHIUSO
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Scenari. Mentre riesplode la guerra a Gaza, tutta la politica israeliana invoca una risposta militare
I piani segreti di Gerusalemme A tregua conclusa, riprende l’offensiva di Hamas contro Israele che promette una risposta dura «a qualunque costo» di Antonio Picasso segue dalla prima Nel frattempo, Il governo Olmert ha dichiarato di aver ammonito ripetutamente il movimento di resistenza islamico, che controlla Gaza dal giugno 2007, che «non rimarrà a guardare» mentre i razzi Qassam continuano a cadere su Sderot. Il premier israeliano si è rivolto direttamente ai palestinesi di Gaza chiedendo loro di rovesciare Hamas, «unica, vera fonte dei loro guai». Il Ministro degli Esteri e leader di Kadima Tzipi Livni, a sua volta, ha sfoderato un’intransigenza nei confronti di Hamas che fa temere il peggio. Incontrando il presidente egiziano Mubarak, che le chiedeva moderazione, la Livni ha posto come “condizione imprescindibile” per un nuovo negoziato la fine del predominio di Hamas a Gaza.Lo scrittore Amos Oz, da anni voce critica dell’interventismo armato, ha sottolineato che «Israele deve difendere i suoi cittadini dagli attacchi».
Il governo israeliano, nel frattempo, ha dato il via libera all’esercito per un’operazione militare circoscritta nella Striscia. L’operazione potrebbe scattare già nei prossimi giorni e si svilupperebbe sulla base di raid aerei e incursioni di terra contro Hamas e gli altri gruppi armati, per colpire obiettivi ben definiti. La realtà, tuttavia, è più complessa di quanto sembra. Non va dimenticato che
Israele è un Paese in campagna elettorale. E, come in tutte le democrazie occidentali, anche lì i candidati sentono la necessità di lanciare al rialzo per vincere nei sondaggi e arrivare con una forza numerica di peso al rush finale. Ma è altrettanto vero che l’opinione pubblica nazionale è elettrizzata. Il mancato processo di pace e l’incognita iraniana hanno fatto sì che in Israele la questione sicurezza sia tornata a essere una
a popolazione di Israele «vuole la pace, e su questo non ci devono essere dubbi. Rimane però il fatto che la situazione nel Paese è oggettivamente peggiorata, in questi ultimi giorni, e sono 60 anni che sopportiamo attacchi indiscriminati. In qualche modo, dobbiamo andare avanti». È l’opinione di Lisa Palmieri Billig, rappresentante in Italia e presso la Santa Sede dell’American Jewish Committee e corrispondente in Italia del Jerusalem Post, che in una conversazione con liberal analizza l’aumento della violenza nella Striscia di Gaza. Com’è oggi la situazione di Israele, e cosa pensa di questa escalation di aggressività da parte del governo? Più che di aggressività, io parlerei di un aumento della nostra difesa. Sono
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Persino Amos Oz, da anni critico contro l’interventismo armato, ha dichiarato che il Paese «deve difendere i suoi cittadini». Intanto Kadima e il Labour fanno a gara a chi è più duro con Hamas priorità rispetto alla pace con i palestinesi. E quando si parla di sicurezza lo sguardo viene automaticamente rivolto alla Striscia. Un rigore uguale e contrario si riscontra nelle po-
sizioni palestinesi. In questo caso, oltre alle ragioni strettamente contingenti all’escalation, si aggiungono le esigenze legate alla condizione di vita della popolazione palestinese
Opinioni. Parla la corrispondente del “Jerusalem Post”
«Se voi italiani foste colpiti da razzi austriaci…» colloquio con Lisa Palmieri Billig di Vincenzo Faccioli Pintozzi 60 anni che Israele cerca la pace, e in alcuni casi siamo stati vicinissimi a ottenerla. Ma non possiamo dimenticare che oggi, al potere in Palestina, c’è Hamas: un’organizzazione che nel suo statuto dichiara di volere uno Stato islamico, assolutamente incompatibile con l’idea di convivenza con gli israeliani. Questa è arrivata al potere grazie alla corruzione lasciata da Arafat, di
cui nessuno parla mai, che ha spinto i palestinesi a votare qualcun altro. Peccato che questi siano militanti, pronti a sparare razzi contro Israele: una dittatura del fondamentalismo. L’Italia cosa farebbe, se piovessero dal cielo missili sparati dall’Austria o da altri Paesi del confine? Gli israeliani vivono con l’incubo degli attacchi: i bambini hanno due minuti per raggiungere i rifugi, e
di Gaza. Condizione che gli osservatori internazionali da tempo denunciano come ai limiti della crisi umanitaria. Con luce e gas rigidamente razionati, hanno la meglio coloro che, incidendo sulla suscettibilità collettiva, attribuiscono colpe e responsabilità al “nemico di sempre”. In questo senso, ben poche probabilità di successo può avere l’autorizzazione di ieri, da parte degli israeliani, alla riapertura temporanea dei
se non ci riescono muoiono. Israele tollera questa situazione, ma non può farlo per sempre. Davanti a nuovi attacchi, cosa deve fare? Su questa situazione pesa anche l’ombra delle prossime elezioni governative, che decideranno il futuro dei colloqui di pace? Naturalmente, in questa instabilità e incertezza politica gli israeliani sono irrequieti. Hanno paura della situazione, di Hamas e dell’aumento del terrorismo. All’orizzonte abbiamo Benjamin Netanyahu, meno arrendevole sugli argomenti di pace, che ovviamente spinge tutti gli altri candidati a promettere agli elettori maggiore sicurezza e quindi meno tolleranza nei confronti dei terroristi. Ma questo è un prodotto della situazione attuale, oggettivamente peggiorata.
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Il nuovo governo Usa ignora la questione islam e quella dell’Iran
Ma Obama cosa pensa del Medio Oriente? di Daniel Pipes ue avvenimenti accaduti ai primi di dicembre riassumono i differenti punti di vista dell’operato di George W. Bush in merito al Medio Oriente. Nel primo, lo stesso Bush ha offerto un discorso di commiato, dichiarando che «nel 2008 il Medio Oriente è più libero, più fiducioso e più promettente di quanto lo fosse nel 2001». Nell’altro, un giornalista iracheno, Muntadar al Zaidi, ha lanciato una scarpa contro Bush, mentre il presidente americano parlava a Baghdad. urlandogli: «Eccoti il bacio d’addio, razza di cane!». Ironia della sorte, la vera e propria impudenza di al Zaidi ha confermato l’idea di Bush in merito a una maggiore libertà; avrebbe osato lanciare una scarpa a Saddam Hussein? Se Bush mi piace e ne penso bene, ho mosso comunque delle critiche in merito alla risposta da lui data all’islam radicale nel 2001, alla sua politica arabo-israeliana del 2002, a quella irachena del 2003 e alla sua politica della democratizzazione del 2005. Sia nel 2007 che nel 2008 ho criticato i punti deboli delle sue iniziative generali riguardo il Medio Oriente. Oggi, sono in disaccordo con la sua asserzione che il Medio Oriente è più fiducioso e promettente di quanto lo fosse nel 2001. Prendiamo in esame alcuni esempi in cui le cose sono degenerate: l’Iran ha pressoché costruito il suo armamentario nucleare e sembra che stia facendo progetti per un devastante attacco a impulsi elettromagnetici contro gli Stati Uniti. Il Pakistan sta per diventare un Paese armato di nucleare, uno Stato canaglia islamista. Il prezzo del petrolio è arrivato al livello massimo mai raggiunto per collassare a causa della recessione guidata dagli Stati Uniti. La Turchia stava per diventare un fedele alleato del paese maggiormente anti-americano al mondo. L’Iraq (o un paio di scarpe?) continua a ricordare agli americani che è stato fatto qualcosa di sbagliato, di essersi accollati delle spese, di aver subito delle perdite, e di avere un’immensa potenzialità di pericolo. Il rifiuto di riconoscere l’esistenza di Israele come Stato ebraico è diventato più diffuso e virulento.
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Nella pagina a fianco, una donna palestinese passeggia davanti a un murales che inneggia alla “resistenza” contro Israele. Sopra, un soldato israeliano e, a fianco, Barack Obama valichi di frontiera per consentire l’ingresso di aiuti per la popolazione. Le Brigate Ezzedine al-Qassam e Jihad islamica – i gruppi più inflessibili e portati all’azione, stanno guadagnando terreno. La linea del dialogo, che l’Egitto ha sempre cercato di portare avanti, sembra esse-
te israeliana, gli errori e le superficialità del governo Olmert portano a chiedersi quale potrebbe essere il futuro premier israeliano disposto a caricarsi del peso di una nuova guerra, sia di fronte alla nazione sia di fronte alla comunità internazionale che cambia.
Sposare l’integralismo anti-palestinese non farebbe altro che fomentare il fuoco acceso dagli integralisti islamici, votati al martirio e pronti a metterlo in pratica ogni giorno re stata abbandonata del tutto. E anche coloro che in seno ad Hamas si erano esposti a eventuali negoziati sono stati costretti a retrocedere. Lo dimostra la visibilità che i media locali stanno dedicando ad Ahmed Jaabri, il comandante delle Brigate Qassam, rispetto al leader di Hamas, Ismail Haniyeh, disponibile a rinnovare la tregua in cambio di maggiori concessioni circa la riapertura dei valichi e l’ingresso di beni di prima necessità. Jaabri, secondo la stampa israeliana, sarebbe ormai tanto potente da interfacciarsi direttamente con la Segreteria di Hamas – sia a Gaza sia a Damasco, con Khaled Meshal – senza intermediari e soprattutto con un potere contrattuale senza precedenti.
Ciononostante, è giusto osservare i pericoli smettendo le lenti di ingrandimento. Da par-
Lecito chiedersi se la nuova amministrazione Obama, che dovrà affrontare priorità nazionali quali la crisi economica degli Usa – e per questo non potrà permettersi distrazioni e squilibri in ambito internazionale – sarà disponibile a lasciare carta bianca a Israele. Inoltre, il ritorno di Tzahal nella Striscia – sconfessando il gesto di Sharon tre anni fa – è una cosa. Un intervento chirurgico contro le milizie palestinesi è un’altra. La prima non farebbe che apparire come una dichiarazione di guerra contro le forze opposte. In questo caso, altro non si farebbe che il gioco delle frange più estremiste delle fazioni di Gaza, irremovibile nel rifiutare un confronto e votate a una guerra di cui i palestinesi stessi pagherebbero le conseguenze in prima persona. *Analista Ce.S.I.
Oriente. D’accordo, ma lo fanno ora che sono al posto del conducente; e cosa intendono fare per determinare la politica statunitense per il Medio Oriente?
Un’anteprima è esposta nel volume Restoring the Balance: A Middle East Strategy for the Next President, un importante studio pubblicato a quattro mani da due leoni liberal: la Brookings Institution e il Council on Foreign Relations. Apogeo di uno sforzo durato 18 mesi, il testo ha coinvolto 15 studiosi, 2 curatori (Richard Haass e Martin Indyk), un ritiro a un centro congressi Rockefeller, molteplici viaggi d’informazione e un piccolo esercito di organizzatori e gerenti. Questo lettore è stato colpito da due grosse lacune. Innanzitutto, se il volume si occupa di sei argomenti (il conflitto araboisraeliano, Iran, Iraq, controterrorismo, proliferazione nucleare e sviluppo politico ed economico), i suoi specialisti non hanno quasi nulla da dire in merito all’islamismo, la più pressante sfida ideologica dei nostri giorni, né riguardo alla proliferazione nucleare iraniana, il pericolo più pressante dei nostri giorni. Essi inoltre riescono ad aggirare questioni come la Turchia, l’Arabia Saudita, il negazionismo arabo di Israele, il pericolo russo e il trasferimento di benessere a Stati esportatori di energia. In secondo luogo, lo studio offre raccomandazioni da politica disfattista. «Portare Hamas dentro l’ovile», consigliano Steven A. Cook e Shibley Telhami, arguendo che l’organizzazione terrorista venga inclusa in un «governo di unità palestinese» ed esortata ad accettare lo sfortunato Piano Abdullah del 2002. È difficile immaginare una sola politica più controproducente nel teatro arabo-israeliano. Sull’argomento Iran, Suzanne Maloney e Ray Takeyh scartano tanto un attacco americano contro le infrastrutture nucleari iraniane quanto una politica di contenimento. Piuttosto, in un incredibile “cambio di paradigma” essi sollecitano un impegno con Teheran, il riconoscimento di «certe realtà sgradevoli» (come il crescente potere iraniano) e la creazione di «una struttura per regolare» l’influenza iraniana. Come suggeriscono questi esempi, uno spirito di debolezza e di appeasement permea Restoring the Balance. Cosa è accaduto all’efficace promozione assicurata degli interessi americani? Se si spera che Obama ignorerà tale disperato scritto da quattro soldi, si teme altresì che la mentalità in stile Brookings-Cfr dominerà i prossimi anni. Se così dovesse essere, l’operato di Bush, per quanto inadeguato appaia oggi, brillerebbe rispetto a quello del suo successore.
Oggi è facile criticare Bush. Ma i problemi della regione sono tanti, e fino ad ora nessuno ha saputo risolverli
La Russia è riemersa come forza ostile nella regione. I tentativi democratici sono collassati (in Egitto), è cresciuta l’influenza islamista (in Libano) oppure essi hanno spianato la strada agli islamisti per ottenere il potere (a Gaza). La dottrina dell’azione preventiva è stata screditata. Due successi di Bush - un Iraq senza Saddam Hussein e una Libia senza armi di distruzione di massa - non hanno affatto bilanciato questi fallimenti. Prevedibilmente, i critici di Bush stroncano il suo operato in fatto di Medio
politica
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Bilanci. Secondo Rosario Priore, dopo Mani pulite la corruzione è cresciuta: «Andrà così finché la politica non ritroverà il suo primato»
Peggio di Tangentopoli «In troppe Procure c’è ancora voglia di “pulizia etica”. È il momento di dare al sistema un riassetto radicale» colloquio con Rosario Priore di Franco Insardà
ROMA. Parlare con Rosario Priore è come sfogliare il libro della storia italiana degli ultimi decenni. È stato lui infatti il titolare delle inchieste sul rapimento Moro, sulla strage di Ustica, sull’attentato a Papa Giovanni Paolo II, sul rapimento di Emanuela Orlandi e su altre vicende ascrivibili alla categoria dei “misteri”del Paese. Dottor Priore, il 2008 è stato un anno difficile per la giustizia italiana? Direi un annus horribilis. Non è il primo e, purtroppo, non sarà nemmeno l’ultimo. A partire dagli anni ’50 il sistema giudiziario è stato appesantito da arretrati paurosi e successivamente dalle esternazioni di ogni genere da parte degli operatori di giustizia. Un anno che si chiude tra mille polemiche. L’ultima, quella che riguarda la revoca degli arresti domiciliari per l’ex sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso da parte dello stesso gip che nove giorni prima aveva disposto la misura restrittiva. Ovviamente non conosco i fatti specifici, né gli atti. Posso soltanto immaginare una certa precipitazione nell’emissione di provvedimenti che attengono alla libertà personale e che per tale ragione meritano sempre un’attenta ponderazione. La magistratura è sempre più sotto accusa da parte della classe politica. Come se ne può uscire? La magistratura, o almeno la sua parte ispirata da spinte di pulizia etica, ha intrapreso delle vere e proprie guerre: contro le burocrazia, le polizia e i servizi. Non è però abituata alle reazioni clamorose come quelle di chi può e deve parlare. Mi riferisco ai politici che hanno questo diritto e dovere e che sono i titolari di quella primazia che si tende a infirmare oramai da quasi un ventennio. Sarebbe possibile uscire da questa situazione soltanto con una riforma radicale del servizio giustizia che oggi non garantisce assolutamente alcuna efficienza. Dopo 16 anni si è tornato a parlare di Tangentopoli. Secondo lei esistono analogie con il ’92-’93? Negli intenti sì. Nella realtà probabilmente ci sono delle diversità. Se l’intento era quello di sfruttare le inchieste per distruggere i par-
titi, con una storia, in altri tempi, gloriosa o i centri di potere e creare la repubblica dei giudici, si può dire che queste spinte oggi sembrano essere venute meno o cadute in sonno. Relegando così quel progetto nel terreno dell’utopia. Ma Tangentopoli, secondo lei, è mai finita? L’utilizzare le inchieste giudiziarie per mettere sotto scacco delle forze politiche può non finire, perché questa tentazione sussiste sempre e può nuovamente divampare, specie se, come sta accadendo ora, i fuochi sono tanti e sparsi ovunque nel nostro Paese. Tangentopoli - neologismo orrendo ma entrato nell’uso comune - è un fenomeno diverso dalla corruzione, i cui numeri, lungi dall’essere azzerati o ridotti, sono anzi aumentati dalla metà degli anni ’90. Senza però dire propter, ma semplicemente, se potessimo considerare tangentopoli di gene-
re femminile, post eam. Oggi come allora il ruolo della magistratura e dei media sembra tornato decisivo. Ma nella sostanza è davvero così? Lo potrebbe essere se gli operatori dell’informazione e della giustizia fossero in buona fede. Altrimenti si produrrebbero soltanto effetti devastanti. Abruzzo, Campania, Cala-
bria, Basilicata, Sicilia, ma anche Genova e Firenze: la corruzione non ha confini geografici. Non ne ha. La corruzione segue i portatori del male e sta perdendo i suoi caratteri endemici, per assumere quelli di una vera e propria pandemia. Che supera anche le Alpi. Già un tempo occupavamo un posto abbastanza basso nelle classifiche mondiali per il livello di corruzione, oggi siamo al di sotto di molti Paesi africani, asiatici e sudamericani. Soprattutto in quelle regioni come la Campania, la Calabria, la Puglia e la Sicilia dove la presenza della criminalità organizzata è elevatissima. Oggi, purtroppo, dobbiamo registrare la presenza di questo cancro un po’dappertutto, specie nelle grandi città. La sinistra si è sempre dichiarata estranea a un certo modo di fare politica. Gli ultimi episodi dimostrano il contrario. Che cosa ne pensa? Se potessi usare un linguaggio moraleggiante potrei dire che le tentazioni sono tante e lo spirito e la carne sono deboli. Ma, più laicamente, dico che anche gli uomini della sinistra vivono in questa cultura e in questa società così impregnata di illegalità e intrisa di corruttela. La tesi della diversità ha retto per molti anni, ma negli ultimi tempi questa convinzione sta venendo meno. La corruzione è un male italiano? Sì. Ma connota anche altre aree del pianeta, per parlare soltanto di quelle più vicine e con le quali abbiamo tanti commerci e relazioni. Quelle, cioè, che comprendono tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Gli esiti di alcune inchieste inducono molti giovani a seguire gli esempi di corrotti e corruttori. Purtroppo
Rosario Priore ha condotto le inchieste su alcune delle vicende più drammatiche del dopoguerra, dalla strage di Ustica al rapimento Moro e all’attentato a papa Wojtyla. Il suo giudizio sullo stato del sistema giustizia nel nostro Paese è pesante e segnato da rilievi critici sia verso gli amministratori che nei confronti dei magistrati, spesso ancora pervasi dalla tentazione di mettere sotto scacco la politica
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Si può immaginare che a Pescara ci sia stata precipitazione nell’emettere provvedimenti cautelari. La diversità morale? Anche la sinistra vive in questa società, così impregnata di illegalità la criminalità rende bene. Ci vuole poco a rendersi conto che i criminali, non raramente purtroppo, la fanno franca e vivono bene, mentre chi lavora onestamente è in difficoltà a metà mese. Oggi possiamo ancora parlare di indipendenza della magistratura? Indipendenza è un sostantivo nobilissimo, di grande portata. Si è sempre usato per gli Stati, rispetto ad altri Stati, almeno in questo ordinamento internazionale che ci è stato consegnato dai trattati di Westfalia. E quando uno Stato conquista l’indipendenza si festeggia l’evento per secoli. Ma ben si sa che nei rapporti tra gli Stati quello che conta è il loro peso. E di fronte a questi pesi l’indipendenza assoluta è una chimera. Il Costituente ha usato questo termine anche per l’ordine giudiziario, al quale si può applicare lo stesso ragionamento. Se l’ordine giudiziario riuscirà a superare la primazia della politica, si potrà dire che avrà compiuto il tratto maggiore della sua lunga marcia. Quella
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marcia intrapresa, una volta usciti dalla turris eburnea, per non essere dipendenti anzi per condizionare o addirittura subordinare altri poteri. Da anni si parla di riforma della giustizia. Si riuscirà mai a farla? Ritengo di sì, se ci saranno condivisione e maggioranza. Si potrà davvero arrivare a una riforma condivisa, secondo lei? Purché si abbandonino prassi e ideologie da guerra civile. Quel clima, per intendersi, che ha impedito di scrivere una storia minima del secolo scorso, come è avvenuto, cioè, nella commissione Stragi. Tutti concordano sui problemi della giustizia civile: perché secondo lei non si riesce a fare almeno quella? Non sono mai stato ottimista, su questo: la natura stessa dei nostri concittadini, la litigiosità, anzi la rissosità, non viene assolutamente meno con il passare dei secoli, si accresce sempre di più per la
politica
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decadenza delle regole morali e dell’educazione. Per la giustizia penale le divisioni sono abbastanza nette: c’è chi vorrebbe riformarla senza modificare la Costituzione e chi, invece, ritiene che sia indispensabile mettere mano alla Carta. Con chi è d’accordo? Senza la riforma della Costituzione l’opera mi sembra vana. Ovviamente chi parla di immodificabilità, sul piano giuridico, non sa quel che dice. La Costituzione è revisionabile e di fatto è assoggettata a continue revisioni. Ovviamente non si discute qui della re-
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piattiti sui pm e che in molti casi i pm usino discrezionalmente l’azione penale. È d’accordo? Se i fatti sono mille e mala pena si possono fare dieci inchieste e un numero minore di processi è evidente che si è operato in modo discrezionale. Quando non arbitrario. E così tutti possono vedere chi guida la danza. Una delle critiche più frequenti al Csm è quella di essere condizionato dalle correnti della magistratura. È un’accusa fondata? Questo non lo so, ma se fosse vero potrebbe essere un’ovvietà. Il
Le intercettazioni vanno ridotte, ma non abolite. Superare l’obbligatorietà dell’azione penale, separare le carriere e riorganizzare il Csm sono gli interventi minimi per rimettere in piedi il sistema visione dei principi fondamentali e della parte prima, ma della revisione, peraltro non estesa, della parte seconda. Ricordando peraltro a chi sproloquia sulla Carta che per suo espresso dettato soltanto la forma repubblicana non può essere soggetta a revisione. La maggioranza vuole soriformare stanzialmente l’obbligatorietà dell’azione penale, la separazione delle carriere e la struttura del Csm. È questa, secondo lei, la strada per far uscire la giustizia dalla crisi? È soltanto il minimo del minimo. Comunque sarebbe un primo passo. Altro punto fondamentale, che ancora non si affronta, è la questione dell’accesso in magistratura e degli avanzamenti di carriera. Si sostiene che i gip sono ap-
Anche le intercettazioni nell’agenda di gennaio, il premier non cita il federalismo. Violante critica il pm di Pescara, l’Idv tira scarpe contro Palazzo Chigi
Berlusconi: subito l’intervento sulla giustizia ROMA. Certo che sarà l’anno delle riforme, dice Berlusconi. Quali? «Dovremo cominciare dalle intercettazioni e dalla giustizia, questioni che ci occuperanno molto». Il presidente del Consiglio riesce a guadagnare la tribuna principale anche a Santo Stefano, in collegamento telefonico da Milano con la comunità “Incontro”di don Pierino Gelmini. Fa capire anche che la sua visione resta ancorata all’unilateralismo. «Sarà un anno terribile per il governo del Paese ma sono sereno e ottimista, disponiamo di due gruppi in Parlamento che ci garantiscono la vittoria». Non cita neanche il federalismo: in cima ai suoi pensieri ci sono i conti da regolare con la magistratura. E la spontaneità delle risposte date durante il collegamento con don Gelmini vale più di mille rassicurazioni a Bossi. Sono propositi che tagliano corto su tutte le schermaglie messe in scena nei giorni scorsi
di Errico Novi e nella mattinata di ieri dal Pdl e dal Partito democratico. La scarcerazione del sindaco dimissionario di Pescara, Luciano D’Alfonso, aveva accentuato la tensione tra il partito di Veltroni e la magistratura, e dunque indirettamente aperto un ulteriore seppur piccolo spiraglio per il dialogo. In realtà le pur favorevoli premesse sono sempre contraddette dalle polemiche. Il canovaccio non cambia. Da una parte il Pdl che incalza con sadismo, con Daniele Capezzone che ritira fuori il refrain della «alleanza-sudditanza con Di Pietro» e fissa il pro memoria: «Nell’anno che si apre il Pd sarà chiamato a una scelta chiara: da una parte c’è il dialogo con la maggioranza per le riforme, dal federalismo all’economia e alla giustizia», dall’altra c’è appunto la relazione pericolosa con i dipietristi (che hanno scaricato scarpe vecchie davanti Palazzo Chigi). Finisce che i veltroniani sono ancora una volta co-
stretti a reagire con stizza: Giorgio Merlo risponde al portavoce di Forza Italia e a Maurizio Gasparri: «Il necessario confronto non può nascere dai diktat della destra: se pensano che l’opposizione sia una semplice variabile della maggioranza di governo le riforme se le fanno da soli».
Eppure il quadro sarebbe davvero propizio. Luciano Violante non risparmia critiche ai giudici pescaresi, raccomanda «molta prudenza» ai colleghi e, a tutti, «una valu-
tazione seria dei dati nei confronti di tutta la magistratura. Non sussistevano le ragioni per le quali il sindaco di Pescara è stato arrestato, è caduta un’amministrazione per ragioni a quanto pare insussistenti». L’Anm si difende per voce del segretario Giuseppe Cascini: è lui a ricordare che la revoca degli arresti è arrivata solo dopo le dimissioni da primo cittadino, con cui è venuto meno il rischio di inquinamento delle prove. Restano le perplessità di Walter Veltroni e dei suoi, compreso il ministro ombra alla Giustizia Lanfranco Tenaglia che lamenta un appiattimento degli investigatori sullo strumento delle intercettazioni: «Bisogna recuperare una cultura delle indagini». A voler essere ottimisti sarebbe un primissimo passo per costruire la strada delle riforme condivise. Ma il gioco dell’inseguimento, con Berlusconi che fa sempre da lepre, sembra destinato a durare.
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fenomeno delle correnti, per di più condizionanti, è naturale in ogni realtà politica. Non posso dire come esse operino all’interno del Csm. Potrebbe essere utile, da un punto di vista politico e storico, mettere in cantiere degli studi e delle analisi sull’operato delle correnti. L’Anm, dal suo canto, si difende non considerandosi una lobby. Lobby è un termine che nella cultura dove ha avuto origine non assume affatto un valore negativo. Sono delle formazioni che legittimamente dovrebbero servire a tutelare gli interessi di un gruppo. Noi siamo stati capaci, a parte le sue evoluzioni nel mondo anglosassone, di dargli delle connotazioni perverse. Altro argomento delicato che rispunta ogni qual volta ci sono delle inchieste che coinvolgono i politici è quello delle intercettazioni. Secondo lei vanno abolite? Assolutamente no. Vanno sicuramente ridotte. In ogni inchiesta di criminalità organizzata e di terrorismo ben si sa quale ne sia stato l’apporto determinante. Ciò che spaventa è la loro diffusione contra legem. Le trascrizioni si possono trovare su internet e su ogni altro media dove chiaramente vi si leggono nomi e costumi di chi senza alcuna colpa cade nella ragnatela della comunicazione. Insomma, dottor Priore, la giustizia italiana è messa proprio male. Purtroppo sì, è il grande malato della nostra società. Qualche anno fa sono stato ospite di un convegno in Svezia durante il quale i rappresentanti dei vari Paesi illustravano i problemi principali dei loro sistemi giudiziari. Rimasi colpito dal collega svedese che, dopo il nostro intervento su cosche, bande, sequestri e violenze di ogni genere, illustrava, come se fosse una tragedia, l’escalation dei furti delle confezioni di latte davanti alle villette delle principali città. Ecco, il loro cruccio maggiore era come debellare questo increscioso fenomeno…
economia
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Depressione. Crolla a novembre la produzione industriale (-8,1 per cento) e il Sol Levante teme per il 2009
L’auto frena il Giappone di Simone Carla li 829 miliardi di dollari pubblici finora stanziati e l’azzeramento del costo del denaro non sono bastati. Il Giappone corre sempre più verso la depressione, tanto che sono in pochi a scommettere che l’anno sarà chiuso in positivo. L’ultimo campanello d’allarme è arrivato ieri mattina: tra novembre e ottobre la produzione industriale è crollata dell’8,1 per cento. E un altro -8 per cento è atteso per dicembre. Il Sol Levante, frenato dal debito pubblico e oramai fermo da circa 7 anni, paga il combinato disposto tra crollo della domanda americana per auto ed elettronica e uno yen che a fronte delle svalutazioni delle altre valute si è scoperto improvvisamente forte. Talmente forte da sorprendere anche la politica che, dopo anni di iniezioni di liquidità, non sa cosa come uscire dalla deflazione.
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Il 2009 si annuncia un anno molto difficile, soprattutto per il settore industriale, contraddistinto da una produzione con bassi margini di riconversione. E del quale il calo record dell’8,1 di novembre – il più alto dal 1953, da quando si è iniziato a rilevarlo – è la perfetta cartina di tornasole. «Non abbiamo ancora visto il peggio», ha sentenziato Kyohei Morita, capo economista della filiale giapponese della Barclays davanti alle telecamere di Bloomberg, «Anche perché il problema è di natura fiscale, non di politica monetaria». Guarda caso dove l’esecutivo si è mosso con più celerità. In un anno l’industria giapponese ha visto calare i suoi volumi di produzione del 16,2 per cento. Questo dato segue la forte contrazione subita dalle esportazioni – 26,7 per cento – nell’arco dei primi dieci mesi dell’anno. Non ha portato benefici alle vendite il differenziale di almeno 23 punti base tra yen e dollaro, e che all’improvviso è stato eroso dal maxitaglio voluto da Ben Bernake. Non a caso la Fuji heavy industries ha annunciato ieri lo stop alla produzione addizionale. La Subaru chiuderà l’anno – ma a livello globale – con 70mila vetture costruite in meno. Queste decisioni si tramutono velocemente in licenziamenti. Toyota, secondo costruttore al mondo e che a fine anno segnerà la prima perdita operativa nella sua storia (1,2 miliardi di euro), ha tagliato 3mila contrattisti. Sempre sul versante automobilistico la Subaru ha
in breve Sardegna, si vota il 16 e 17 febbraio Dopo le dimissioni di Renato Soru le elezioni del quattordicesimo Consiglio regionale e del presidente della Regione Autonoma della Sardegna si terranno domenica 15 e lunedi’ 16 febbraio 2009. Lo ha deciso la Giunta, convocata oggi in seduta straordinaria dal vicepresidente della Regione, Carlo Mannoni. Le elezioni, secondo la Statutaria, devono svolgersi entro 60 giorni dalla data dello scioglimento del Consiglio, ma la Giunta ha scartato l’ipotesi del prossimo 22 febbraio, in quanto la data coincide con alcuni eventi (tra tutti la Sartiglia di Oristano) che coinvolgeranno decine di migliaia di persone in vari centri della Sardegna.
Scontro Fisco-Cgil sulla lotta all’evasione
confermato un piano di licenziamento per 800 persone, che dovrebbe riguardare soprattutto personale a tempo determinato. Stesse misure dovrebbero essere prese da colossi come Sony e Canon, forse le realtà maggior colpite in Giappone dal calo dell’export. Si teme che su contrattisti, stagionali e part time la mannaia della crisi colpirà in maniera furiosa. Si calcolano oltre 80mila cessazioni di rapporti di lavoro, più del doppio di quanto si prevedevano a novembre. Così il picco di futuri licenziamenti diventa un sollievo soltanto per la Borsa: ieri, paradossalmente, la piazza di Tokio è salita dell’1,63 per cento, forse nella speranza che ai licenziamenti segua quella riorganizzazione del lavoro e dei costi che si attende da 10 anni. In realtà il livello di disoccupazione salito a 2,56 milioni di persone – centomila in più rispetto al 2007 – finisce soltanto per acuire gli effetti della deflazione che vive il Paese. Non caso l’indice dei
La crisi di vetture ed elettronica nipponica sul mercato americano mette in ginocchio il Paese. Salgono la disoccupazione e il livello di deflazione. Il governo di Taro Aso è ancora indeciso sul da farsi prezzi al consumo ha segnato tra novembre 2008 e novembre 2007 una crescita dell’uno per cento, mentre nello stesso lasso di tempo le vendite al dettaglio sono diminuite dello 0,9. Comparto più colpito, va da sé, quello automobilistico (-7,7 per cento), seguito da quello dei carburanti (-7,2). Reggono soltanto l’abbigliamento (+0,7 per cento) e l’alimentare (+4,7).
Da più parti si chiede che il prossimo pacchetto per stimolare l’economia sia sostanzialmente di natura fiscale. Il ministro delle Finanze, Kaoru Yosano, ha spiegato che «governo, imprese e politica devono fare uno sforzo per tenere in piedi l’economia». Ma questa dichiarazione, detta in contemporanea dell’uscita dati sulla produ-
zione industriale, è apparsa nel Paese troppo retorica. Retorica soprattutto perché non è ancora chiara la strategia dell’esecutivo. L’unica certezza è che servono correttivi per evitare che il crollo dell’export deprima gli investimenti su R&S e capitale lavoro. Ma in attesa che il premier Taro Aso trovi una quadra, c’è chi come il ministro Yosano suggerisce di rilanciare la cartolarizzazione di commercial paper, di cambiali, emesse dalle imprese per autofinanziarsi nel breve termine. Non manca però chi punta a nuove immissioni di liquidità sui mercati, per alzare il monte prestito verso le aziende. Le prime a non credere a questa misura, di successo negli anni Novanta, sono però le imprese.
Procede a gonfie vele la lotta all’evasione fiscale, secondo l’Agenzia delle entrate. Per la Cgil, invece, si tratta «dell’ennesima grossolana mistificazione». Fisco Oggi, rivista online dell’Agenzia delle entrate, venerdì mattina ha fatto sapere che tra il 1° gennaio e il 30 novembre di quest’anno le riscossioni da accertamento hanno raggiunto i 2,3 miliardi (+46% rispetto allo stesso periodo del 2007), di cui 1,5 miliardi provenienti da strumenti deflativi (+54%) e oltre 800 milioni derivanti da ruoli (+33%). Secondo il leader della Fp-Cgil, Carlo Podda, invece, i dati dell’Agenzia delle entrate sono «l’ennesima grossolana mistificazione. Chiunque sa che questi numeri sono riferiti all’attività di accertamento che l’Agenzia ha effettuato nell’anno precedente».
Il maltempo stringe l’Italia È il ghiaccio e il vendo freddo dell’Artico a rappresentare il più grande pericolo di questi giorni: la perturbazione che viene dal Nord porterà ancora neve, soprattutto nell’Italia settentrionale, venti forti e temperature polari. Nevica da mercoledì in Piemonte e le temperature quasi ovunque si sono abbassate repentinamente nelle ultime ore. Non solo a nord, visto che anche la Basilicata è sotto la neve: temperature vicine allo zero in provincia di Potenza e nel materano.
economia
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A sinistra, Palazzo Marino, la sede del comune di Milano. L’amministrazione meneghina è quella che in Italia presenta ai suoi cittadini il conto fiscale più salato: 2.302,94 euro tra tributi e addizionali contro una media nazionale di 1.586,14 euro. In basso, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Sembrano fallire miseramente tutti i tentativi dell’inquilino di via XX Settembre per far abbassare agli enti locali la pressione tributaria
ROMA. La promessa di attutire i vincoli del patto di stabilità è arrivata troppo tardi. Così gli enti locali italiani, ancora scottati dal taglio dell’Ici (ben 4 miliardi di euro in meno) e indebitati fino al collo (quasi 5,5 miliardi) sono pronti a presentare un conto molto salato attraverso le notifiche di Ici, Tarsu e affini. Nel 2009, infatti, le tasse locali cresceranno del 4,6 per cento, passando da un monte di 101,6 miliardi di euro a un totale di 106,2 miliardi. Il differenziale tra l’imposizione del centro e quella della periferia è un +0,4 per cento. Lo rivela uno studio condotto da Krls Network of Business Ethics su commissione dell’associazione Contribuenti italiani, che sarà pubblicato nel numero di gennaio del mensile Contribuenti.it. Non a caso il suo presidente Vittorio Carlomagno chiede che venga istituito «un Garante per la sorveglianza dei tributi, una figura da istituire presso il ministero dell’Economia, una sorta di Mister Fisco sul modello Mister Prezzi: un organismo importante perché ha calmierato i prezzi, può usufruire del lavoro della Guarddia di Finanza». Una figura quindi del tutto diversa dal garante del contribuente previsto dalla legge 212 del 2000, «il quale tra l’altro non ha poteri».
Maglia nera per la più alta pressione fiscale il comune di Milano. Ogni suo abitante dovrà versare il prossimo anno circa 2.302,94 euro tra tributi e addizionali contro una media nazionale di 1.586,14 euro. Segue Napoli con 2197,06. Ma il capoluogo retto dalla giunta Iervolino è riuscita a conquistare il secondo gradino del podio grazie a un’imposta monster sui rifiuti: 283 euro contro la media nazionale che non va oltre i 217 euro. Senza contare poi la qualità del servizio. Piazza d’onore invece per Aosta con 2176,41 euro procapite, mentre Bologna non va oltre il quarto posto con una pressione fiscale di 2137,92 euro per ogni suo cittadino. Discorso diametralmente opposto per Isernia: qui il conto per ogni abitante arriva a 668,03 euro. Il continuo aumento della fiscalità locale potrebbe rendere ancora più accesso il dibattito sul federalismo fiscale e spingere a una riscrizione della bozza di ripartizione delle imposte concordata dal ministro Roberto Calderoli e i rappresentanti di Comuni, Province e Regioni, quando si passerà alla stesura dei decreti delega. Allo stesso modo potrebbe esserci un ulteriore stretta da parte del governo sulle spese e sui vincoli all’uso di swap o di altri contratti di finanza derivata. Benché
Salassi. Nel 2009 la pressione fiscale di Regioni, Province e Comuni salirà del 4,6 per cento
Tasse, in arrivo la stangata di sindaci e governatori di Francesco Pacifico previsto dalla riforma del Titolo V della Costituzione, si ampliano sempre di più le divergenze tra i diversi modelli fiscali locali. Al riguardo nota Carlomagno: «Ci sono cittadini che dalla Campania, la regione con la maggiore pressione fiscale, stanno trasferendo la residenza in Molise o in Lazio per pagare meno su ticket sanitari, rifiuti, accise sulla ben-
ti di sovvenzione sono l’Ici – che si applica di fatto soltanto sulle seconde abitazioni – l’addizionale comunale Irpef e la tariffa rifiuti urbani, la Provincia può mobilitare i fondi ricevuti attraverso imposta su Rc auto, addizionale sulla bolletta Enel e imposta di trascrizione. Il bottino principale è destinato alle Regioni. Questi enti locali gestiscono Irap, com-
Il Comune più esoso è Milano. Seguono Napoli, Aosta e Bologna. Isernia offre le condizioni migliori. Tra imposte e addizionali, in totale i cittadini pagano agli enti locali 106,2 miliardi di euro zina, o per le addizionali comunali e regionali. La verità è che abbiamo pessimi amministratori locali che invece di razionalizzare la spesa e migliorare i servizi, pensano ad acquistare nuovi auto blu e cellulari. C’è uno spreco di risorse incontrollabile». La Krls Network of Business Ethics ha anche radiografato i diversi balzelli applicati dagli enti locali. Se per i Comuni le principali fon-
partecipazione all’Iva, addizionale regionale Irpef e compartecipazione sulle accise della benzina. Non a caso il 54,2 per cento di quanto chiesto ai contribuenti a livello locale va nelle casse delle Regioni, mentre il 40,7 dei Comuni e il rimanente 5,1 alle Province. Al riguardo, e sempre nei giorni scorsi, il centro studi Sintesi di Venezia aveva reso noto che l’Irap, l’Irpef regionale, la Rc auto, l’Ici, l’Irpef comunale sono cresciute negli ultimi cinque anni del 10,1 per cento.
Intanto arriva una nuova stretta sulla lotta al sommerso. Se nei giorni scorsi la Guardia di Finanza aveva fatto sapere che nei primi dieci mesi dell’anno l’Iva evasa aveva raggiunto 2,3 miliardi di euro (+45 per cento rispetto al 2007) e le violazioni all’Irap 19,4 miliardi (+30 per cento), ieri l’Agenzia delle entrate ha annunciato che tra il 1 gennaio e il 30 novembre di quest’anno le riscossioni da accertamento hanno infatti raggiunto i 2,3 miliardi. In totale un +46 per
cento rispetto allo stesso periodo del 2007. Più precisamente 1,5 miliardi sono stati recuperati attraverso strumenti deflativi (+54 per cento) e oltre 800 milioni derivanti da ruoli (+33). Un anno fa, nello stesso periodo, gli incassi da accertamento si erano fermati a 1,6 miliardi. Dall’amministrazione fanno notare che stanno portando risultati i nuovi istituti del contenzioso tributario come l’adesione, l’acquiescenza e la conciliazione giudiziale. Il segretario della Funzione pubblica della Cgil, Carlo Podda, contesta questi dati: «Chiunque sa che questi numeri sono riferiti all’attività di accertamento che l’Agenzia ha effettuato nell’anno precedente». E Podda teme una marcia indietro nel 2008. Dubbi li ha espressi anche Vittorio Carlo Magno di Contribuenti.it: «Soltanto il 18 per cento ha fiducia nell’agenzia delle entrate. Eppoi come ha spiegato Bankitalia l’evasione cresce se la guardia di Finanza ha scoperto che 9 esercenti su dieci non sono in regola e 7 su 10 non emettono scontrini». Nel mirino di Carlomagno anche «i grandi patrimoni, dove si annida il sommerso. Senza contare che l’Agenzia parla di una riscossione iscritta a ruolo per 46 miliardi, quando a malapena se ne recuperano 7».
in edicola il secondo numero del 2008
I QUADERNI DI LIBERAL Alla fine dell’anno nero del mercato e delle borse, la risposta agli interrogativi più urgenti della nostra epoca • Dio ci salvi dal New Deal • L’enigma delle banche • Paradosso! Più Stato e più mercato • Pinocchio a Wall Street • La crisi non è di sistema • La vera chance dell’Europa • Il capitalismo di massa • Meno figli meno sviluppo • Cronaca di un disastro annunciato Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Pierre Chiartano, Giancarlo Galli, Jacques Garello, Ettore Gotti Tedeschi, Carlo Pelanda, Michele Salvati, Carlo Secchi
Donna dell’anno 2008 Perché è ancora viva. Ed è diventata il simbolo della sofferenza umana. Ma anche del dibattito lacerante tra la sacralità della vita, l’utilitarismo dell’esistere, la garanzia di un’esistenza decorosa
Eluana Englaro Proviamo tutti a metterci nei suoi panni di Maria Pia Ammirati urante le giornate di pioggia Eluana probabilmente manca la sua passeggiata mattutina nel parco, e le suore, che l’accudiscono e la proteggono maternamente, forse le fanno fare un giro nei corridoi della clinica, che immaginiamo chiari dagli alti vetri e le mattonelle di graniglia. La pelle di Eluana è bianca e sottile, il suo reticolo venoso delicatamente esposto, i capelli lisci ancora scuri di una lunghezza media pettinati di frequente per tenerla in ordine. La pelle è sempre più fragile e chi l’assiste deve girarla spesso per evitare le piaghe da decubito. A una certa ora, sempre la stessa, attraverso il naso e la bocca viene infilato un sondino per acqua e cibo, in parole povere Eluana viene reidratata e alimentata, le due azioni senza le quali morirebbe. Le altre funzioni sono svolte attraverso catetere e clistere, anche queste con ordine meticoloso e costante. Eluana di notte chiude gli occhi e di giorno li riapre, alterna cioè il giorno e la notte perché ad un certo punto il suo cervello, isolato dal resto del corpo e dalle sue funzioni, si addormenta. Quale groviglio di pensieri agitasse la mente di una giovane donna, che usciva appena dall’adolescenza, quella mattina freddissima del 18 gennaio di sedici anni fa, mentre si schiantava contro un muro a una velocità non enorme, ma abbastanza violentemente perché il suo cranio si aprisse in due profonde ferite e il suo collo si spezzasse in due? Quello stesso cervello che oggi avrebbe i pensieri di una donna matura adulta, forse serena, è fermo alle 4 di quel mattino d’inverno, quando cioè Eluana tornava a casa nel pieno dell’esuberanza della giovinezza e della vitalità a cui il caso mette per contrappasso l’incidente mortale.
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Da quella notte i pensieri di Eluana sono stati mediati, anzi il cervello di Eluana è stato mediato da quello di altri: infermieri, medici, dottori, genitori. Ognuno di loro ha pensato, supposto, sentito immaginato provato avvertito qualcosa al posto di Eluana, ognuno di loro ha provato a mettersi nei suoi panni, nella sua testa per provare e riprovare una sensazione, un impercettibile movimento che la risvegliasse prima dal coma, e poi dallo stato vegetativo permanente subentrato a un anno dall’incidente. Più di tutti il padre, Beppino Englaro, ha cercato una scintilla negli occhi della figlia che non fosse solo la speranza per sé, ma la reale possibilità di una vita normale, mentre da sedici anni la figlia è un corpo da trattare, da pulire, da gestire. Beppino, come la stampa per consuetudine chiama il signor Englaro, ha sostituito la testa di Eluana con la sua, pensa cioè attraverso un cervello che funziona e che interpreta i desideri (e le necessità) di un corpo in disuso. Il padre (e la madre) di Eluana ha certo dovuto superare la fase di disperazione di un genitore che sopravvive a un giovane figlio, senza però arrivare alla rimozione del corpo. Forse i primi tempi del coma Beppino ha ringraziato Dio che la figlia si fosse salvata, e allora quando i genitori della ragazza hanno capito che le cure di un corpo non danno più garanzie di affetto, di scambio di necessità? È il tempo che decide il distacco, o la sofferenza dell’altro diviene urgente al punto da abdicare al concetto di sacralità della vita, un concetto radicato anche nella forma più laica del pensiero moderno? Resta forse solo questo da ricordare a Natale sul caso Englaro, Eluana è oggi il simbolo della sofferenza, ma anche del dibattito lacerante tra la sacralità della vita, l’utilitarismo dell’esistere, la garanzia di un’esistenza decorosa. Dobbiamo a lei (e a chi ha combattuto sedici anni per lei) di aver acceso l’attenzione su drammi che vivono in tanti, e che è nostro dovere condividere e non solo discutere.
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DONNA DELL’ANNO 2008
Eluana Englaro
Le argomentazioni degli uni e degli altri si fanno sempre più sottili, ma la vita solo apparentemente addormentata di Eluana ci parla con un linguaggio semplice e diretto. Sono viva e sono affidata alle vostre cure, perché da sola non sono in grado di badare a me stessa: che volete fare? uante cose Eluana continua a insegnarci dal suo letto! È in silenzio, eppure è sempre più capace di porci domande davanti alle quali annaspiamo, in cerca di una soluzione che il cuore e la mente pongono dalla parte della vita, mentre una intelligenza calcolante e astratta pone dalla parte della morte. Eluana ci interpella tutti, ci coinvolge in un dibattito a cui è difficile sottrarsi: medici, scienziati, giuristi, filosofi ed economisti, giornalisti in tutte le loro più moderne dimensioni comunicative, associazioni di pazienti e associazioni di familiari, persone comuni…
Q
Se da un lato il tono culturale diventa sempre più sofisticato e le argomentazioni degli uni e degli altri sempre più sottili, dall’altro la vita solo apparentemente addormentata di Eluana ci parla con un linguaggio semplice, immediato e diretto. Sono viva e sono qui tra voi, sono affidata alle vostre cure, perché da sola non sono in grado di badare a me stessa: che volete fare? Vi chiedo: in che modo reagirà quella solidarietà umana, che ha reso grande la tradizione culturale italiana, moltiplicando in Italia e nel mondo i segni della nostra cooperazione internazionale, della generosità creativa con cui sappiamo trovare soluzioni di accoglienza per i più fragili e i più diseredati… Oggi
Stanno tentando di staccare la spina alla nostra civiltà di Paola Binetti
Non c’è dubbio che se Eluana ha bisogno di essere salvata, tutti noi abbiamo bisogno di essere ancora una volta redenti dalle nostre colpe
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al centro dell’attenzione di tutti sono i miei bisogni di assistenza e domani ci saranno quelli di molte altre persone che stanno nelle mie condizioni e di cui oggi non si parla. Oggi c’è una mobilitazione di intelligenze e di affetti, di preghiere e di iniziative per cui la mia vita, nonostante tutto appare protetta. Ma domani quando sarà applicata la sentenza che permette di sottrarmi cibo e acqua : badi bene si permette!, non si ordina… chi difenderà le migliaia di persone che versano nelle mie condizioni… chi interverrà a loro favore, chi si ricorderà di loro, chi tenterà almeno di spezzare un circuito vizioso in cui la morte si avvicina sempre un po’ di più, sento che soffia alle mie spalle, nonostante un manipolo di coraggiosi tenti di allontanarla in tutti i modi , ricorrendo a tutti i possibili strumenti di difesa…
Dove la pietà stenta ad arrivare, la politica e la burocrazia cercano di ricordare princìpi e criteri. Non a caso pochi giorni fa il ministro Sacconi ha emesso una sua ordinanza, semplice e chiara: il Sistema sanitario nazionale è in un certo senso una grande casa della salute e in questo spirito va utilizzato. La morte è un incidente di percorso, previsto e prevedibile, ma certamente non è la ragion d’essere di queste strutture volute per accogliere i malati, per alleviarne le sofferenze e non certamente per anticiparne la morte… Il ministro ha tentato con coraggio di affermare una verità evidente per sé: vado in ospedale a farmi curare, se necessario a morire perché non si è riusciti a fare di più e di meglio. Ma non vado perché qualcuno organizzi la mia morte, oltre tutto con un rituale mediatico che preoccupa e
spaventa per la forza dei mezzi dispiegati a legittimare l’interruzione di una vita, che chiede solo una semplice manifestazione di solidarietà umana. Eppure qualcuno dice che non c’è spazio neppure per la solidarietà umana di chi vuole prendersi cura di me. Estranei e quindi non autorizzati a schierarsi dalla mia parte, estranei perché non parenti stretti e quindi esclusi dalla umana pietà di chi non si rassegna a veder morire una persona viva come siamo vivi noi.
Lo ha decretato la Corte di Strasburgo qualche giorno fa. «La Corte - si legge nella decisione dei giudici - rileva che i richiedenti non hanno alcun legame diretto» con Eluana Englaro. «Inoltre - prosegue il testo - la procedura giudiziaria interna, di cui criticano il risultato e lamentano le conseguenze, non li tocca direttamente in quanto la decisione della Corte d’appello di Milano del 25 giugno 2008 è un atto giudiziario che non interessa, per la sua natura, le parti coinvolte nella procedura e gli stessi fatti che sono oggetto della procedura stessa». Ecco perché, concludono i giudici, le associazioni che hanno presentato il ricorso «non potrebbero dunque essere considerate vittime dirette delle violazioni che adducono. I richiedenti non possono essere considerate vittime di una mancanza da parte dello Stato ita-
DONNA DELL’ANNO 2008
Eluana Englaro
La tua immobilità, la nostra cecità di Sergio Valzania ara Eluana, questa è una lettera di ringraziamento. Non capita spesso di ricevere da una persona quanto io, e mi auguro molti altri, abbiamo avuto da te in termini di stimolo alla riflessione e alla consapevolezza. La tua tragedia ci costringe a pensare al significato della morte e della vita, ai diritti che noi uomini possiamo avanzare su di essa, a come e quanto la sua forza rischi a volte di entrare in conflitto con realtà fisiche, prima ancora che valori astratti, molto significative e degne di considerazione. Penso al problema del dolore, che nessuno può essere chiamato a sopportare contro la sua volontà, e a quello della dignità di ogni essere umano, che deve essere tutelata con forza perché è attorno a essa che si costruiscono tutte le forme di rispetto di cui gli uomini hanno diritto. Come decidere quando un dolore diventa insopportabile o quando una condizione di vita rappresenta una lesione inaccettabile alla dignità di una persona? E chi può assumersi la responsabilità di prendere decisioni su questi argomenti?
C
liano nella protezione dei diritti garantita dagli articoli 2 e 3» della Convenzione europea dei diritti umani, dunque le richieste dell’associazione sono «irricevibili. Trattandosi di una procedura che riguarda terzi e a cui i richiedenti non avevano parte», conclude infine il testo, la Corte ha dichiarato l’esposto «irricevibile perché manifestamente infondato”». La tristezza di questa sentenza sta tutta in quella «irricevibilità» che capovolge totalmente il senso dei legami umani che hanno fatto grande la cultura occidentale, alla luce della tradizione cristiana. Se l’indifferenza è il grande peccato del nostro tempo, allora la sentenza di Strasburgo lo ha decisamente sdoganato e ne ha fatto un modello di riferimento. «I richiedenti non hanno alcun legame diretto» e quindi non possono e non debbono occuparsene… Ma che senso ha allora un Tribuna-
le per i diritti dell’uomo, chi può porre questioni, sollevare interrogativi, denunciare ingiustizie… chi può schierarsi dalla parte degli ultimi, chi può farne presenti le offese alla loro dignità, solo chi ha un legame diretto… Ma che tipo di legame, solo il legame di natura e non quello di cultura? Ma se così fosse, che ne sarebbe della grande famiglia umana, che vive impegni di solidarietà che attraversano il tempo e lo spazio, che cercano valori condivisi e si agganciano alla tutela degli stessi diritti di cui godiamo per il solo e semplice fatto di essere uomini…
Rawls, il grande studioso della giustizia e della giustizia globale, laico a 360 gradi, supera una visione meramente contrattualistica dei rapporti interpersonali proprio appellandosi al valore della solidarietà come fonte di giustizia e di impegno
reciproco. Ora Strasburgo ci invita a farci da parte: non hai un legame diretto e quindi disinteressati, come dire occupati solo di ciò che ti tocca e ti riguarda, alla luce del più spinto individualismo e della consacrazione della suprema indifferenza. Peccato, questo sì che è un peccato... e peccato che tutto ciò sia avvenuto intorno a Natale, quando ancora una volta ricordiamo il valore della Vita, che salva e che redime, perché non c’è dubbio che se Eluana ha bisogno di essere salvata, tutti noi abbiamo bisogno di essere ancora una volta redenti dalle nostre colpe. Dio si è fatto uomo, perché l’uomo imparasse a prendersi cura dell’uomo, perché quanto c’è di più nobile dell’uomo trovasse nella relazione di aiuto e nell’etica della cura la più alta manifestazione della propria somiglianza con Dio.
Un’altra questione sulla quale la tua vicenda, e quindi la tua persona, ci ha costretti a riflettere è quella relativa ai diritti che i rapporti di sangue e gli affetti possono costituire fra uomini e donne. Ci hai obbligati a domandarci fin dove si possa spingere l’autorità di un genitore nella definizione di cosa sia bene o male per suo figlio o sua figlia. Di fronte alla tua vicenda e alla grandezza delle decisioni che sollecita, può parere una piccola cosa la pressione della famiglia tradizionale, che in molte situazioni si spinge fino all’imposizione diretta, in vista della scelta di un modello di vita o di un coniuge, o più semplicemente di un lavoro. Eppure lì si annida la radice della questione, ossia quale sia l’ambito nel quale devono essere maturate le decisioni radicali rispetto all’esistenza. Le scelte sono molte e divergenti: la famiglia, la società civile, la gerarchia religiosa, l’ambito scientifico, la struttura giudiziaria. Soprattutto però la tua persona ci sollecita a domandarci che cosa sia la
vita. Una entità la cui natura sfugge completamente alla nostra comprensione e si ritrae di fronte alle nostre tecniche di ricerca. Per questo osserviamo sbigottiti la tua esistenza diversa da quella abituale degli uomini e delle donne eppure identica alla nostra se paragonata al modo di essere di un oggetto inanimato.
Il nostro ringraziamento si concentra quindi su un dato fondamentale, che tu ci ricordi con il tuo rimanere in vita senza che si sappia con certezza cosa si racchiuda nel soffio del tuo respiro. Ci ricordi la nostra ignoranza, la nostra inconsapevolezza, la nostra incomprensione dei fenomeni fondamentali dell’esistenza. Ci chiami a riflettere su quali sono le poche attività che ci rendono migliori: lo studio, la preghiera, la dedizione agli altri, la cura degli af-
Per non rifiutarmi a dichiarare un’opinione, concludo dicendo che non riesco a condividere un progetto di morte realizzato attraverso la mancata somministrazione di acqua e cibo. Sembra un trattamento da non infliggere neppure ad una pianta fetti. Immobile ci sottolinei la grandezza dei doni dei quali godiamo, e la responsabilità che abbiamo nei confronti di chi ce li ha elargiti, e anche di noi stessi. Per non rifiutare la responsabilità di dichiarare un’opinione, concludo dicendo a bassa voce che non riesco a condividere un progetto di morte realizzato attraverso la mancata somministrazione di acqua e cibo. Alla nostra sensibilità sembra un trattamento che non deve essere inflitto neppure ad una pianta.
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Voglio che Eluana
VIVA
però...
non voglio che diventi una bandiera. Per questo motivo sono contrario a fare di lei la “donna dell’anno” di Luca Doninelli crivo queste righe con il proposito di spiegare perché sono in disaccordo con chi ha voluto eleggere Eluana Englaro donna dell’anno. La vicenda tragica di Eluana ha costretto molti di noi, e tra questi anch’io, ad attraversare i diversi strati della propria coscienza, superando le petizioni di principio, le tentazioni politiche e i luoghi comuni che un pensiero sempre più globalizzato (e sempre meno pensiero) depo-
S
sita incessantemente in noi. Per tanto tempo mi sono fermato alla considerazione del “principio sacro e inviolabile” della vita umana; ho sostenuto in tutte le occasioni che mi erano date la specificità di questo caso (è il primo caso di vera e propria eutanasia in Italia); ho fatto notare, a chi si ostinava a usare l’ottusa espressione “staccare la spina” che qui non c’è nessuna spina da staccare. Ovviamente, ho commentato in varie occasioni
la presa di posizione (realizzata attraverso una non-presa di posizione) della corte di Cassazione, dopo la (per me) delirante sentenza dei giudici milanesi. Ma il caso, o meglio, la realtà dei corpi, chiedeva di superare questa posizione, di lasciar perdere i principi più o meno inviolabili e di interrogarmi in profondità.Tu - mi sono detto - sostieni che la vita è sacra: dimmi, allora, cosa te lo fa sostenere? Che esperienza fai tu della vita, che ti porta ad
affermare la sua sacralità? E non rispondere che è la fede a fartelo dire, perché sarebbe solo una scappatoia: che cos’è quello che tu chiami fede? Cosa ti fa conoscere di questo pezzo di materia che siamo? Realtà dei corpi, dicevo. Eluana è infatti quel corpo lì, che se ne sta fermo, non risponde però apre gli occhi e sembra vedere, guardare. E in quegli occhi, l’anima: che si vede, ma che forse non c’è. Qualcuno dice così. A noi però basta il corpo.
Il papà di Eluana, Beppino Englaro, è un altro corpo molto ingombrante. Non si è mai tolto dal centro della scena. Vuole affermare il proprio diritto davanti al mondo. Sulle prime non lo comprendevo, credevo che il diritto che affermava fosse soltanto quello all’eutanasia. Ma questo è solo il risvolto giuridico del problema, e se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo procedere oltre. Eutanasia non significa, qui, solo “buona morte”. La buona morte appartiene al regno del “si fa ma non si dice”. Nessuno mi toglie dalla testa che tante volte, in un modo o nell’altro, si sia ricorso a questa pratica forse discutibile (nota anche come “il brodino delle undici”) ma tutto sommato pietosa, diciamo: imperfettamente pietosa. La differenza, stavolta, è che Beppino Englaro vuole affermare davanti al mondo il diritto a que-
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sta azione. Non gli basta compiere l’azione, perché è una persona morale, e sa che un atto è morale solo se è compiuto idealmente davanti al mondo intero. È dunque il mondo a dover riconoscere il suo diritto, per questo continua a lottare.
Ma di che diritto si tratta? Non del diritto all’eutanasia qui sta la prima ragione del mio disaccordo con la scelta troppo ideologica di conferire alla povera Eluana un titolo che non le è pertinente. Beppino Englaro ha una precisa idea di chi è sua figlia, ha cioè
DONNA DELL’ANNO 2008 spettata: quello che credevamo di conoscere ha mostrato un volto più profondo, insospettabile, e d’un tratto tutto quello che sapevamo di lui assume un sapore nuovo.
Quando dico queste cose penso sempre a me bambino che guardo pieno di meraviglia il volto felice di mio nonno Sandro - un popolano fiorentino ateo e comunista - alla vista del cupolone del Duomo della sua città. Quello è stato, da allora e per sempre, mio nonno, a dispetto di tutti i suoi difetti, quelli a me già noti e quelli che avrei scoperto negli anni a venire. Io l’avevo conosciuto in quell’istante lì, e quell’istante era per sempre. Oppure penso a me ventenne su una cinquecento in compagnia di un amico più anziano di me, Valter. Siamo diretti da Firenze a Radda in Chianti, il suo paese natale. Valter è felice perché torna al suo paese. Io sono fatto di questa terra qui, mi fa: non di una terra qualunque, ma di questa. E d’improvviso accosta e scende in un vigneto a raccogliere un pezzo di terra umida: annusa, mi fa, annusa, io di questo sono fatto. E questa è la fotografia che continuo a conservare di lui, che in quei giorni (ma nessuno di noi due lo sapeva) era già malato del male che lo avrebbe ucciso pochi mesi dopo. Non tutte le persone che conosciamo, fossero anche i nostri fratelli o i nostri figli, suscitano in noi la domanda: chi è?
una precisa idea dell’unicità, dell’irripetibilità, della dignità di questa ragazza, che è il tesoro più grande della sua vita. Per metterci di fronte a Beppino Englaro, dialogare con lui, e magari esprimergli il nostro disaccordo, dobbiamo innanzitutto cercare di stare al livello della sua esperienza di dolore e d’amore, e cercare in noi, nella nostra vita, qualcosa di analogo, affinché scaturisca quella parola decisiva, capace di illuminare quanto - a dispetto di tutti i principi sacri e inviolabili - continua a rimanere buio. Proviamo a chiederci - ma chiediamolo davvero a
noi stessi, senza nessun “aiutino” - che cos’è, per noi, un uomo. Non “l’uomo”, no: prima di arrivare lì ce ne vuole. Io parlo solo di “un” uomo. In altre parole mi domando quand’è che questa o quella persona mi si sono rivelate nella loro interezza, tanto da farmi esclamare: ecco, lui è proprio così! Ci sono infatti momenti in cui un individuo esce dalla scorza del suo carattere o da quella delle idee che ci siamo fatti sul suo conto e si rivela, magari per un istante, che tuttavia diventa per noi definitivo, perché è l’istante di una conoscenza suprema e ina-
Che è la stessa domanda che Simone e amici si ponevano tutti i giorni che passavano in compagnia di quel loro amico di Nazareth, Gesù. Ma che è una domanda che ricorre in noi tutte le volte che ci imbattiamo in una personalità affascinante. L’idea che ci facciamo dell’Uomo - stavolta quello con la “U” maiuscola - è la sommatoria di tutte le eccezionalità nelle quali ci siamo imbattuti. Chi non viva questa esperienza non può avere nessuna idea concreta, fondata, dell’uomo, e deve accontentarsi delle teorie, dell’ideologia e della politica. Bene. Eluana era una personalità affascinante. E dico “era”, non “è”. Per ovvie ragio-
Eluana Englaro
Tu - mi sono detto - sostieni che la vita è sacra: dimmi, allora, cosa te lo fa sostenere? Che esperienza fai tu della vita, che ti porta ad affermare la sua sacralità? E non rispondere che è la fede a fartelo dire, perché sarebbe solo una scappatoia: che cos’è infatti quello che tu chiami fede? ni. Suo papà era, e forse è ancora, innamorato di lei. Di quella Eluana là: bella, vitale, allegra, intelligente - insomma, una forza della natura.Vedere la vita prorompere, prepotente, in coloro che abbiamo generato è l’esperienza di orgoglio e di trionfo più alta che un uomo possa provare. Difficile tornare indietro da quel punto. Per quest’uomo, Eluana è quella là, ed è morta per sempre, è morta dentro di lui: la sua fotografia, stampata per sempre nella sua anima, non coincide più con nulla di riconoscibile nel mondo circostante. Il mistero di quella personalità si è dissolto, e il mondo deve riconoscere questa cosa, perché nessun’altra esperienza ci può dire che cos’è un uomo, se non quella sorpresa, quell’istante, quel flash improvviso e definitivo. È una dinamica profonda, quella che conduce un uomo a riconoscere davvero, nel profondo, un altro uomo. È questa dinamica che rende la vita pienamente umana, staccandola dal suo sostrato biologico. Quando questa dinamica diventa impossibile, cosa resta di umano non soltanto nella persona colpita dalla disgrazia, ma anche nel rapporto che la lega ai suoi cari? In questo senso, capisco bene perché Beppino vuole che Eluana se ne vada in pace verso il suo destino. La perdita di una persona amata, in questo senso, a chi più sa più spiace. Chi ha cercato di rispondere alla sorpresa di un volto amico che d’un tratto si fa trasparente, si rende conoscibile in modo più profondo, chi ha scattato quelle fotografie segrete e decisive per il costituirsi della propria antropologia personale, patisce in modo più drastico lo scandalo della scomparsa, della morte. Ma la morte, per quanto crudele e nemica, ha una sua pedagogia: per questo san Francesco la chiamava “sorella”. Essa rivela, attraverso la fragilità di tutte le cose, che anche quell’immagine profonda e sorpendente, anche quel “chi è?” finalmente uscito dal buio, non era a sua volta che il riverbero di qualcosa (come la chiameremo?, l’anima?, l’essenza umana?, la creaturalità?) che non è mai stato nostro. La meraviglia, l’orgoglio, la felicità innamorata di un papà di
fronte alla bellezza di un figlio è il segno di qualcosa che non si può possedere, che non appartiene al padre né alla madre né al marito né a nessun altro. La morte è la lama che separa l’immagine dal mistero che l’ha prodotta. Eppure in quell’immagine c’era qualcosa di eterno, di definitivo. Ma cos’era, se poi tutto si dissolve, se la strada che un tempo si era aperta oggi è definitivamente chiusa? Il cristianesimo nasce dal giorno, dall’ora, dall’istante in cui alcune persone impaurite scoprirono che la promessa di eternità contenuta in quel flash era stata mantenuta. L’uomo di cui per tre anni, tutti i giorni, si erano chiesti “chi è costui?”, tanto eccezionale - eccezionalmente buono, amorevole, giusto, intelligente - si dimostrava in tutto; l’uomo che non avevano potuto abbandonare mai, anche quando non capivano, tanto era evidente che il segreto delle loro vite stava nelle Sue mani; ebbene, quell’uomo, dicevano le ultime notizie, era risorto. Il cristianesimo è l’avventura di uomini che scoprono questa verità inaudita, e cioè che la definitività e la profondità di quell’immagine rivelatrice sono non più l’oggetto di una perdita. Cristo è risorto perché morì nell’anno 33 e io ne faccio esperienza qui e ora. Il cristiano è un uomo che sa che Cristo è vivo, e lo sa perché lo constata nella vita quotidiana: una vita sempre investita, anche nel dolore, da una luce e da un amore inimmaginabili.
È per questo legame con Cristo vivo oggi che noi diciamo che la vita umana è sacra. È sacra perché non è nostra, non ci appartiene, ma soprattutto è sacra perché è sostenuta da un destino buono, da un destino che è fatto per l’uomo. C’è Qualcuno che ama Eluana perfino più di Beppino, questo è il punto. Ma per arrivare a questo punto, ce ne vuole: non è come dirlo. Per evitare il legalismo o gli slogan bisogna sudare. Noi desideriamo con tutto il cuore che Eluana viva finché può farlo. È più che un suo diritto, è la struttura profonda delle cose. Non facciamone, però, una bandiera: non allontaniamola ideologicamente dal pensiero e dal cuore di suo papà. Donna dell’anno? No, grazie.
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DONNA DELL’ANNO 2008
Eluana Englaro
È lei oggi il nostro Gesù di Franco Cardini
Natale mi trovavo a Betlemme per un convegno sulla pace nel mondo. A un passo da dove, secondo la tradizione, Gesù è nato 2008 anni fa (in realtà, pare, 2015: c’è stato un errore di computo che ormai si è consolidato). Mi riesce difficile sfuggire alla tragicità di questo paradosso: trovarsi qui, nella città del Principe della pace, a parlar di pace mentre sulla piazza antistante la sede del convegno sostano i ragazzi armati fino ai denti della polizia palestinese: e a un centinaio di emtri si erge, minaccioso e dannatamente concreto nella sua assurdità, un muro di cemento alto sei metri sulle torrette del quale vegliano altri ragazzi armati fino ai denti, quelli dell’esercito israeliano. Ragazzi che potrebbero tranquillamente, se solo fose possibile, scherzare e giocare insieme: e magari vorrebbero farlo.
A
E pensare che tanti altri giovani oggi buttano via la vita per un momento di eccitazione, uno sballo in discoteca, un cocktail di pillole e una corsa in auto a fari spenti
Una situazione allucinante: che quasi ogni giorno provoca morti, e sofferenze, e lacrime. Un cerchio di violenza e di odio che probabilmente tutti o
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quasi i protagonisti di esso vorrebbero spezzare, se solo sapssero come fare. Una realtà folle, estranea a qualunque ragione e a qualsiasi tipo di razionalità. Eppure, anche questa è vita. E qui si continua a sperare, da entrambe le parti. In un futuro diverso e migliore, in cui i ragazzi dell’una e dell’altra parte potrenno tornar a ridere, a giocare e a fare all’amore. Vivere e sperare: è mai possibile far altro?
Ho visto, in questi giorni, famiglie israeliane piangere ricordando i loro giovanissimi morti. Ho visto famiglie palestinesi fare lo stesso. Può darsi che i loro sentimenti, come i loro ideali nazionali, siano avversi e nemici fra loro. Ma le loro paure, il loro dolore, le loro speranze, sono identiche. Sarà la coscienza di questa somiglianza che prima o poi dovrà vincere sopra la logica spietata, lucidissima e aberrante della guerriglia e della repressione. Altrove, nel mio paese inquesto momento lontano, nessuno muore di bombe o di missili o di colpi di mitra. Si muore di altro: e non è detto
che sia meglio. Si butta via la vita per un momento di eccetitazione, uno sballo in discoteca, un cocktail di pillole e una corsa in auto a fari spenti. L’adolescenza ha sempre avuto con sé, ghignante e disperata compagna, l’attrazione della morte. Decenni fa si andava cantando in guerra, si buttava il cuore oltre l’ostacolo, si moriva col pugnale tra i denti. Oggi si getta via il bene inestimabile della vita in cambio del brivido d’un’esperienza nuova, o del fantasma della trasgressione, o per dimostrare a se stessi e agli altri di essere tragicamente liberi: e si confonde il concetto di libertà con l’assurda negazione del limite, con la schiavitù al peggiore e più spietato dei padroni cioè alla propria irragionevolezza, al proprio cieco arbitrio.
Per questo, anche per questo, oggi penso ad Eluana. Penso all’insegnamento prezioso e profondo che essa sta dando a noi tutti: specie ai più giovani. Penso alla giovinezza che Eluana non ha avuto, alle gioie grandi e piccole che le sono state negate: a quel
ch’essa sarebbe in grado di dire sulla bellezza e sull’inestimabile valore della vita, sulla sua santità, se fosse in grado di spiegarcelo dall’abisso del suo silenzio, a noi che la vita troppo spesso - quando non la buttiamo via - la spendiamo nella futilità e nella noia o la impegnamo nella corsa dietro a falsi e spregevoli obiettivi.
Eluana, oggi, è nel mondo quanto di più simile si possa immaginare al Cristo sulla croce. Eluana ha preso sulle sue fragili spalle il peso della nostra noia, del nostro egoismo, della banalità delle nostre vite per darci in cambio, nel muto dolore della sua esistenza, l’insegnamento più forte e più luminoso. Quello che ciascuna vita è insostituibile e irripetibile: che non è soltanto un diritto, ma è soprattutto un dovere (dinanzi a se stessi e agli altri) viverla, e viverla bene, e viverla fino in fondo. Lei, che non può farlo, sta insegnando a farlo a noi che non vogliamo o non sappiamo. Eluana vegeta, ci è stato detto: e quella non è vita. Ne siamo certi? Evidentemen-
DONNA DELL’ANNO 2008 Eluana, oggi, è quanto di più simile si possa immaginare al Cristo sulla croce. Ha preso sulle sue fragili spalle il peso della nostra noia e del nostro egoismo per darci in cambio, nel muto dolore della sua esistenza, l’insegnamento più forte e più luminoso te no. Di quel “vegetare” in silenzio e nell’immobilità, noi non sappiamo nulla: quella ragazza immobile in quel lettuccio è un mistero tremendo e insondabile. Vorrei che qualcuno mi assicurasse con piena competenza e assoluta coscienza che Eluana non sogna nemmeno. Perché se invece sogna, nessuno potrà mai spiegarci a fondo e in pieno l’intensità e la preziosità di quei sogni sui quali riposa il senso e il nucleo d’un’esisten-
Eluana Englaro
za umana. E chi di noi oserà sul serio sostituirsi a Dio e affermare che ormai la sua vita è inutile e irrilevante, e che qualcuno ha il diritto di troncarla creando così un precedente terribile, che potrebbe domani contribuire a fondare una futura civiltà all’insegna della disumanizzazione?
Questa immane tragedia esige rispetto. Per tutti. A cominciare dal padre, che ormai è stanco e ha perduto ogni fiducia. Come non comprenderlo, come condannarlo? Eppure è anche per lui che bisogna ripetere con forza, gridare a voce spiegata, che la speranza non va mai uccisa, che non si deve mai chiudere la porta al miracolo. In questo Natale, Eluana è il nostro Gesù. Come i bambini appena nati, o addirittura in grembo alla madre, non sa e non può esprimersi. Ma non c’è nulla più d’un bambino che nasce che sia capace di esprimere che cos’è l’amore. E amore è vita: il contrario della morte, il contrario della disperazione. Non priviamoci di Eluana, della luce del suo sacrificio che per noi è esempio. Non siamo in grado di farne a meno.
Che triste talk show, abbiamo torto tutti di Filippo La Porta ensate davvero che tutta la discussione e riflessione pubblica sul caso di Eluana Englaro abbia fatto crescere il nostro paese, ne abbia rafforzato la coscienza civile? A me sembra invece confermare alcuni tradizionali vizi italici: quella riflessione è stata cioè un teatro verbosissimo in cui ciascuno fa a gara nell’esibire la propria superiorità morale e nell’impegnarsi a scomunicare chi ha posizioni diverse. E’ vero che lo stesso Beppino Englaro ha deciso di rendere pubblica la vicenda, di farne un caso politico, eccetera per poterla risolvere - dal suo punto di vista - più rapidamente. Però in tutti i talk show che ho visto non c’era veramente attenzione, rispetto, pudore. Un fatto tragico diventava mero tema di discussione, uno tra i tanti, e veniva per lo più strumentalizzato con logiche di schieramento partitico.
P
Tutto mi sembra finto, esibito, enfatico. A partire da quelli che con un tono accorato, commosso e con un tremito della voce dicono “Eluana”, simulando una familiarità, una prossimità che non c’è e non ci sarà mai! E anzi è proprio questo tic da dare una coloritura di ipocrisia a tutto il resto. Come ha detto sul Foglio Alfonso Berardinelli, nella vicenda Englaro si manifesta il tragico dell’esistenza. Perciò hanno tutti “torto”. In base alle nostre conoscenze scientifiche, interrompere l’alimentazione causa una probabile sofferenza (si fa morire la persona di fame e di sete). Così come prolungare l’alimentazione e idratazione forzata causa probabile sofferenza (si alimenta qualcuno in modo innaturale). Appunto: ci troviamo nel cuore – tragico – dell’esistenza stessa, che non è né buona né cattiva, ma un meccanismo cieco, neutro, governato dalla necessità, dalla legge causa-effetto, e in ciò, dicono alcuni teologi, rivela l’esistenza di un Dio che ha voluto creare qualcosa
su cui non aveva potere! E il tragico significa che non ci sono compensazioni.
Nella tradizione ebraica, come ha osservato George Steiner, il tragico non c’è veramente poiché alle infinite pene di Giobbe il Signore promette comunque una ricompensa finale. Ma la vita non è edificante né garantisce alcuna happy
Questa discussione è un teatro verbosissimo nel quale ciascuno fa a gara nell’esibire la propria superiorità morale e nell’impegnarsi a scomunicare chi ha posizioni diverse end. Siamo in presenza di una dialettica senza sintesi. Il che dovrebbe saggiamente sconsigliare dichiarazioni plateali, condanne senz’appello dell’interlocutore, prese di posizione definitive e ricattatorie. In questo caso nessuno di noi - verosimilmente - è chiamato ad assumersi in prima persona una responsabilità così grave (per cui “si sbaglia” comunque…) o a prendere decisioni irrevocabili. Ci troviamo tutti a prudente distanza. Il che rende il dibattito un po’ accademico e pretestuoso. Né alcun testamento biologico scioglierà mai tutti i dubbi, dal momento che andrà comunque “interpretato” da qualcuno e applicato a una vicenda che sarà sempre diversa da quella precedente… Non so se l’ultima parola spetta a un giudice o a chi è affettivamente vicino alla persona coinvolta. So che siamo tutti abbandonati a noi stessi, in balia delle circostanze. E perciò – tragicamente – liberi.
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DONNA DELL’ANNO 2008
Eluana Englaro
Il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive. Fedor Dostoevski C’è un solo significato della vita: l’atto stesso di vivere. Erich Fromm Nessuno vive perché lo vuole. Ma una volta che vive lo deve volere. Ernst Bloch Talvolta si crede di poter risolvere, in vario modo, i problemi e le questioni ordinarie dell’esistenza. Si fa ricorso a complicati e anche difficili mezzi, dimenticando che basta un poco di pazienza per disporre ogni cosa in ordine perfetto e ridonare calma e serenità. Giovanni XXIII L’uomo non può mai smettere di sognare. Il sogno è il nutrimento dell’anima, come il cibo è quello del corpo. Paolo Coelho La felicità suprema della vita è la convinzione che siamo amati. Victor Hugo La vita d’una persona consiste in un insieme d’avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme, non perché conti di più dei precedenti ma perché inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico, ma risponde a un’architettura interna. Italo Calvino Noi tutti siamo rassegnati alla morte: è alla vita che non siamo rassegnati. Graham Green Non amare, né odiare la tua vita: ma il tempo che vivi, / Vivilo bene, lascia al cielo decidere quanto sia breve o lungo. John Milton
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cultura
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Il ritratto. Il premio Nobel per la Letteratura scomparso lo scorso 24 dicembre a settantotto anni
L’ultimo atto di un genio Viaggio nel “teatro dell’assurdo” La lezione del grande Harold Pinter di Nicola Fano segue dalla prima Beckett, sul tema, ossia sul rapporto fra percezione e chi percepisce aveva scritto Film, il geniale cortometraggio interpretato nel 1963 da Buster Keaton: ma Beckett era troppo sperimentale e troppo “francese” per Pinter, il quale invece al cinema ha dato le sceneggiature di alcuni dei più bei film di Joseph Losey, senza contare quel grande successo che fu La donna del tenente francese.
Insomma, parli di Pinter e viene fuori un mare di altre cose. La colpa è di una generazione di teatranti (inglesi, ma non solo) che a partire dagli anni Sessanta cercarono di allargare il proprio orizzonte affondando le mani nel cinema, appunto, nella televisione, nella narrativa. E Pinter le mani le aveva messe dappertutto (se le era“sporcate”, avrebbe detto Sartre) ma poi la sua grandezza sempre al teatro rimarrà legata: titoli come Il guardiano, Il calapranzi, Il compleanno stanno lì a dimostrarlo. Stanno lì a dimostrare la cauta rabbia di un mondo che non si riconosce più: se la storia è fatta di trasformazioni continue, il Novecento è stato il secolo più trasformista di tutti, tanto che oggi, che siamo altrove – in un altro secolo senza nome, per intenderci – a furia d trasformazioni abbiamo perso qualunque identità. Pinter lo diceva – tutto questo – con un certo anticipo e lo diceva a teatro, ossia in
Lo stesso giorno… È lungo l’elenco dei grandi personaggi, artisti, scrittori, registi, musicisti, che sono morti come Harold Pinter a cavallo tra la vigilia e il Natale. Nella data del 24 dicembre ad esempio sono scomparsi la grande collezionista d’arte Peggy Guggenheim (1979), lo scrittore Louis Aragon (1982), il drammaturgo John Osborne (1994). Charlie Chaplin morì il 25 dicembre del 1977. Era nato a Londra nel 1889 ed era una leggenda quando scomparve a Corsier sur Vevey. Johan Mirò, artista tra i più importanti del Novecento, anche lui morto il giorno di Natale. Era il 1983. Sempre tra gli esponenti delle avan-
un luogo che, dagli anni Sessanta in poi, si pensava fosse l’unico antidoto all’inutilità della televisione e alla spettacolarità esasperata del cinema hollywoodiano. A teatro si poteva ridere, si poteva piangere e si poteva pensare. Contemporaneamente, figuriamoci!
Tutto cominciò con uno studioso inglese, Martn Esslin, che coniò un’etichetta fortunatissima ma come tutte le etichette assai generica: il “teatro dell’assurdo”. Ionesco, Beckett, Tardieu, Pinter e il primo Adamov: ecco a voi il quintetto base del teatro dell’assurdo, con il nostro Dino Buzzati in panchina, volendo. Possono esserci autori tanto diversi, tanto lontani come questi cinque qui? Dell’idiosincrasia fra Beckett e Pinter s’è accennato,
guardie storiche, anche Tristan Tzara, che fu tra i fondatori del dadaismo, morì la notte di Natale del 1963 a Parigi. Giorgio Strehler, regista nato a Trieste nel 1921 è scomparso a Lugano nel Natale del 1997. James Brown è morto il 25 dicembre del 2006. Quello che verrà definito “il primo morto del rock”, Johnny Ace, si uccise con un colpo alla testa il giorno di Natale del 1954. Fu uno stupido incidente, causato da una roulette russa che però diventò il simbolo di quella vita sempre al limite che caratterizzerà lo star system della musica rock nei decenni successivi.
ma le cose non furono così limpide: resta leggendario il fatto che Pinter abbia svolto la sua educazione sentimentale su Murphy (non a caso il beckettiano fra i romanzi di Beckett) rubandone copia in una libreria: «Questo autore è così poco noto qui da noi – commentò – che tanto vale questo libro me lo tenga io, che l’apprezzo!». Adamov è finito a inseguire Brecht,Tardieu è rimasto brillante autore da boulevard e Ionesco ha svoltato sul fronte dello spiritualismo. Insomma, l’unico che è rimasto uguale a se stesso fino alla fine è stato Pin-
ter, che fin dagli esordi alla fine degli anni Cinquanta ha continuato a raccontare furie umane in un interno, mascherandoli da persone normali. Prendete Ben e Gus del Calapranzi: due killer che nella cucina in disuso di un locale chiuso aspettano ordini per andare ad ammazzare qualcuno. Se non fosse che quel maledetto calapranzi a un certo punto comincia a sputare assurde ordinazioni. Ma non era chiusa la cucina? E non era chiuso il locale? Che cosa vogliono da noi? I due personaggi, due “normali”assassini, vengono colti nel
Sapeva guardare le cose con un occhio clinico che gli consentiva sempre di essere dalla parte dell’osservato, più che dalla parte dell’osservatore. Una lezione che aveva imparato da Beckett
momento dell’insicurezza, quando qualcosa di inatteso e sconosciuto fa irruzione nella loro vita. E reagiscono come possono, come sanno: uno si innervosisce, urla e sbraita, l’altro pacioso aspetta l’evolversi degli eventi. E gli eventi evolvono con l’identificazione della vittima: il compagno nervoso, ovviamente. Un incastro geniale nel quale i giochi linguistici sono una ciliegina sulla torta (non si dice «accendi il bricco», si dice «metti il bricco sul fuoco», litigano i due). Come pure quel vecchio guardiano (in Italia, per la tv, lo fece niente meno che Peppino De Filippo e fu un capolavoro) con gli affetti rinsecchiti, espulso dal mondo e che il mondo vuole espellere da sé, alla fine. C’è sempre il gioco comico, dietro le spalle della disperazione. Del resto, anche Beckett quando mise in scena da sé Aspettando Godot (era il 1984) ne fece una specie di varietà. È il destino di quel teatro – come si diceva – che raccoglie la sfida del cinema e della televisione e va a cercare la sua specificità nella chiave ambigua, nel non poter essere catalogabile così o cosà. A quanto se ne sa, oggi autori del genere non ce ne sono e questo è un peccato: perché ora si ha l’impressione che il teatro non basti a se stesso, che debba per forza inseguire altri modelli e altri linguaggi in ciò, di fatto, testimoniando la sua decrepitezza. Pazienza.
Pinter se ne è andato a settantotto anni, con i suoi maglioni neri e i suoi basettoni. Ultimamente avevano fatto molto ru-
cultura
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Da “Festa di compleanno” del 1958 al premio Nobel del 2005
Quel «baratro svelato sotto le chiacchiere...» di Francesco Capozza morto all’età di settantotto anni il premio Nobel Harold Pinter, drammaturgo, regista e attore teatrale. Nato ad Hackney, un sobborgo di Londra, inizia la sua carriera teatrale come attore, prima frequentando grandi scuole di recitazione, poi girando l’Irlanda con una compagnia shakespeariana con lo pseudonimo di David Barron.
È
A sinistra, Harold Pinter agli inizi della carriera. A destra, lo scrittore all’epoca del Premio Nobel per la Letteratura (2005). Sopra due sue sceneggiature diventate film: Gli Insospettabili (1972, diretto da Joseph Mankiewicz, con Michael Caine e Laurence Olivier) e La donna del tenente francese (1981, diretto da Karel Reisz, con Meryl Streep e Jeremy Irons). In basso a sinistra, due immagini dell’opera teatrale L’amante more (prima ancora del Nobel che gli è stato assegnato nel 2005) alcune sue dichiarazioni un po’ estreme contro George W. Bush e la sua guerra in Iraq e contro Tony Blair («un utile idiota»). Sicché l’establishment della cultura con la C maiuscola lo considerava un po’un pazzerello facile a straparlare. Come se non fosse stato lo stesso Pinter giovanissimo infastidito, in una società in subbuglio, in quanto ebreo. Come se non fosse stato lo stesso Pinter che aveva sfidato la Corona in nome della sua obiezione di coscienza (due volte finì sotto processo). Come se non fosse stato lo stesso Pinter che aveva sfilato contro la guerra in Vietnam. Come se non fosse stato lo stesso Pinter che girava il mondo a difendere i diritti umani nel nome di Amnesty International (quando fare i “testimonial” non era una moda). Come se non fosse stato lo stesso Pinter che aveva puntato il dito sui massacri di mezzo mondo, continuamente. Sì, era uno scrittore scomodo, perché s’era dato il compito di guardare a raccontare, studiare e testimoniare: le scorciatoie non gli piacevano. Così dovrebbe essere un grande scrittore: «Mi lega ai miei personaggi un rapporto di ragionevole rispetto», diceva. Nel senso che secondo lui un personaggio dopo essere nato dalla sua penna aveva vita propria e, come tale, aveva la capacità di stupire tutti: lo scrittore per primo. Tutto il Novecento ha ricamato su questo concetto, e ancora oggi non
sappiamo se sia una verità o un vezzo d’artista (anticonformista sì, ma anche vezzoso era Pinter). Sempre Pinter diceva che spesso, prima di attendere alla stesura di un copione, faceva delle interviste ai suoi personaggi. È una tecnica intelligente e usuale di certi registi che intervistano gli interpreti sui rispettivi personaggi: ma chi non avrebbe pagato – anche caro – per assistere all’intervista di Pinter a Roote, il protagonista de La serra? In fondo, da ragazzo Pinter avveva cominciato in veste di attore: pare abbia debuttato a sedici anni nel ruolo del protagonista della “famosa tragedia scozzese” di Shakespeare, quella di cui non si dice il nome per nobili ragioni scaramantiche. Bene, su di lui non ha avuto effetti malevoli, se è arrivato dove è arrivato, nei sessantadue anni successivi.
Se ne è andato di Natale e lascia un bel vuoto, povero Harold Pinter. Se posso dire, ha avuto un gran peso nell’indirizzare la mia passione teatrale, fin da quan’ero liceale e una professoressa (illuminata) di inglese, ci faceva esercitare sui suoi testi. Ma questi sono fatti personali. Quando muore un grande le parole retoriche si sprecano: è anche facile lasciarsi prendere la mano da qualche esagerazione. Io, qui, vorrei fare solo una constatazione: non potremo più aspettarci qualche sua provocazione né qualche sua sorpresa. Mi pare una perdita notevole.
La sua carriera di drammaturgo inizia, quasi per caso, nel 1957, quando scrive per un amico un atto unico intitolato La stanza, in cui sono già evidenti i caratteri della sua futura produzione. Del 1958 il celebre Festa di compleanno, in cui due ignoti visitatori piombano a casa di un giovane misantropo che vive isolato. Ancor maggiore impatto suscita i lavoro di Pinter quando gli argomenti diventano più drammatici, e si capisce che il riferimento è, per esempio, alla tragedia dei desaparecidos argentini in Il bicchiere della staffa del 1984 o alla Shoah in Ceneri alle ceneri del 1996. Negli anni Settanta, Pinter si interessa maggiormente alla politica e cerca di portare al-
di Panama (2001) accanto a Pierce Brosnan e in Sleuth - Gli insospettabili (2007) di Kenneth Branagh.Tre anni fa l’Accademia di Svezia, nel premiarlo con il Nobel per la Letteratura, aveva motivato il riconoscimento attribuito sottolineando che «nelle sue opere svela il baratro sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe a entrare nelle chiuse stanze dell’oppressione». «Ho scritto ventinove pièces in cinquant’anni, non è abbastanza? Certamente lo è per me». Harold Pinter amava ripetere questa frase negli ultimi anni, segnati dalla malattia che lo aveva colpito nel 2002, dalla soddisfazione di aver avuto il Premio Nobel nel 2005, ma anche dalla rinnovata voglia di impegno politico e di difesa dei diritti civili, che lo aveva portato ad attaccare duramente Bush e Blair. Lo scrittore, scomparso a Londra lo scorso 24 dicembre all’eta di 78 anni, aveva infatti già consegnato la sua opera al passato, vendendo il suo archivo alla British Library, giusto un anno fa per 1,65 milioni di euro. Centocinquanta scatoloni contenenti lettere, manoscritti, fotografie.Tra le gemme preziose quel-
La sua carriera di drammaturgo inizia quasi per caso nel 1957, quando scrive per un amico un atto unico intitolato “La stanza”, in cui sono già evidenti i caratteri della sua futura produzione
l’attenzione dell’opinione pubblica casi di violazione dei diritti umani e di oppressione. Lettere di Pinter spesso appaiono sui giornali britannici come The Guardian e The Independent. Nel 1985 Pinter si reca in Turchia con il commediografo statunitense Arthur Miller, dove incontra molte vittime dell’oppressione politica. Autore del suo tempo, Pinter scrive anche testi radiofonici, volumi di poesia e sceneggiature per il cinema, legando il suo nome a film di qualità e successo, come La donna del tenente francese di Reisz, per cui viene candidato all’Oscar e al Golden Globe, Cortesie per gli ospiti di Schrader, Messaggero d’amore di Losey. Nel 1976 scrive la sceneggiatura di Ultimi fuochi di Elia Kazan e, nel 1981, della Donna del tenente francese di Karel Reisz con Jeremy Irons e Meryl Streep, poi candidato all’Oscar. Dalle sue opere vengono tratti i film Festa di compleanno (1968), Ritorno a casa (1973), Tradimenti (1983). Anche attore, una delle sue ultime apparizioni sul grande schermo è nel film di John Boorman Il sarto
la del capitolo segnato dalla sua amicizia con Samuel Beckett, con il quale condivideva la passione per cricket e il rugby, ma anche ovviamente quella teatrale.
Non è certo un caso, anzi, indica la forza di suggestione che ha la sua opera, il fatto che dal nome di Harold Pinter sia nato un aggettivo, pinteriano, che segue, ma si diversifica da beckettiano, derivato dal nome dell’autore di cui è sempre stato considerato un pò l’erede. Il primo esprime comunque un disagio, una sensazione forte di incertezza e timore, mentre l’altro ha un sapore di catastrofe e smarrimento più totale. Raramente un autore è stato così immediatamente metaforico per forza poetica, per qualità e invenzione drammatica come Harlod Pinter, che era considerato da tempo un classico del Novecento.
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cultura Design. Fino al 6 gennaio 2009, a Torino, la personale di Enzo Mari
nzo Mari è indiscutibilmente uno dei principali protagonisti del design italiano. Lo è per il modo appassionato con cui ha preso parte alle diverse stagioni e vicende del design in Italia, e anche per il numero di opere significative e per i premi che queste hanno ottenuto. La Galleria d’Arte Moderna di Torino, in occasione della nomina di Torino a capitale mondiale del Design per il 2008, ha inaugurato Enzo Mari: l’arte del design (fino al 6 gennaio 2009), una mostra che si articola secondo una scansione cronologica e presenta una selezione di 250 opere del designer di Novara.
E
Una particolarità della selezione delle opere è certamente quella di essere stata affidata da Mari a un gruppo di amici che da sempre seguono il suo lavoro, chiamati a segnalare gli oggetti e i lavori che secondo il loro punto di vista hanno toccato il cuore e l’immaginario comune. La mostra quindi è costituita da una narrazione che ci ricorda i successi di Mari e gli oggetti del design italiano. Come il vassoio Putrella realizzato in un unico pezzo di trave da edilizia in acciaio (una putrella, appunto), piegata alle estremità. Particolarità dell’oggetto sono proprio le pieghe, fatte su un semilavorato che viene creato e usato proprio per la sua capacità di non piegarsi facilmente; il materiale, tipico dei cantieri e del mondo industriale, viene decontestualizzato e posto in un salotto o in un altro ambiente nobile, con un intervento creativo basato sull’ironia. Nel percorso espositivo poi incontriamo: In attesa, l’eclettico cestino per la carta dalla forma di tubo che con la sua inclinazione direzionale si predispone i cartocci di carta; e poi le sedute, come ad esempio Sof-sof, la sedia semplicissima in tondo di acciaio elettrosaldato su cui sono posti due cuscinetti che creano un netto contrasto con la struttura cromata. Questa seduta, prodotta nel 1972 per Driade, ha fatalmente anticipato un trend, ampiamente diffusosi poi nel corso degli anni settanta, caratterizzato da prodotti economici realizzati a bassa tecnologia, ma ottimizzati per la lavorazione industriale. Altre sedie notissime sono la Delfina, riconoscibile per la seduta e lo schienale in cotone e microfibra montati tramite una cerniera a zip: è un oggetto che gli valse il suo secondo Compasso d’Oro. E poi la Tonietta, prodotta nel 1987 per Zanotta, con struttura in alluminio e seduta in polipropilene con cui Mari vinse il suo terzo ComIn questa pagina, alcune delle più note e significative creazioni di Enzo Mari, considerato uno dei protagonisti principali del Design italiano contemporaneo
Il compasso d’oro del made in Italy di Angelo Capasso
La mostra si articola secondo una scansione cronologica e presenta una selezione di 250 opere del designer di Novara: da “Delfina” a “Putrella”, da “In attesa” a “Sof-sof” e “Tonietta”
passo d’Oro. La mostra è quindi un piccolo pantheon di divinità del mondo di Mari in cui è inevitabile ritrovare Formosa lo stranoto calendario da parete, realizzato nel 1970 per Danese, costituito da una piastra di alluminio si cui si montano pannelli in Pvc con i numeri e le date; e poi Sumatra il portadocumenti impilabile da ufficio, in plastica colorata. E’ il caso di ricordare anche Bric (realizzato insieme ad Antonia Astori nel 1977): un sistema di autoprogettazione e autocomposizione dell’arredo, composto da mobili modulari venduti in kit di montaggio. Il quarto Compasso d’Oro, l’ultimo per ora, Mari se l’è conquistato nel 2001 con Legato: un tavolo quadrato, realizzato da un piano in legno truciolare finito a ebano e gambe in acciaio con supporti in alluminio. Tutti gli oggetti in mostra propongono una genialità particolare che riesce a centellinare ironia e funzionalità, senza scadere nella retorica della decorazione. Del resto, la storia di Mari ci presenta un intellettuale ironico e profondo che ha prodotto studi importanti su questioni centrali per il Design, quali la percezione, l’aspetto sociale degli oggetti, la loro funzione nella vita quotidiana. Mari ha definito un nuovo modello di designer secondo il principio «non esiste poesia senza metodo». Il progettista quindi non si limita alla alla creazione di forme piacevoli: l’aspetto funzionale di ogni prodotto è sempre la qualità numero uno, così come lo è l’efficienza delle scelte progettuali nel campo dei materiali e delle lavorazioni.
Recuperando uno slogan del Movimento dell’Arte Programmata, di cui è stato un protagonista indiscusso, Mari dichiara rivolgendosi al fruitore: «Il nostro scopo è fare di te un partner». E’ una dichiarazione che anticipa l’interattività dei computer e considera l’utente non più un consumatore passivo, ma il deuteragonista di una storia fatta di soluzioni e di progetti atti a «riordinare il mondo del visibile», come intendeva uno dei padri del design, Peter Behrens. Mari è da annoverare indubbiamente tra i padri del “Design italiano”, quello che è stato già celebrato dalla grande esposizione Italy-The New Domestic Landscape del 1972, al Moma di New York. Quella mostra ha segnato la nascita della fama del “Made in Italy”nel mondo e raccoglieva i nomi più importanti del design italiano, tra cui Vico Magistretti, Ettore Sottsass, Paolo Lomazzi. Mari in quella occasione esponeva il vaso reversibile Pago-Pago (1969): un vaso in Abs stampato che poteva essere usato dritto o capovolto, cambiandone l’aspetto estetico. Il design diventa arte quando dilata la flessibilità degli oggetti, fino a raggiungere la flessibilità mentale di chi li crea.
spettacoli
27 dicembre 2008 • pagina 21
Musica. Spopola in tutto il mondo la boy-band “Fleet Foxes”, ingaggiata e prodotta dall’etichetta che scoprì i Nirvana
Parte la caccia alle “volpi” di Seattle di Alfredo Marziano rriva da Seattle, la città di Starbucks e di Amazon, della pioggia e della musica grunge, la rivelazione musicale del 2008. Ecco a voi i Fleet Foxes, cinque ragazzi poco più che ventenni che non frequentano ancora le radio e Mtv, ma che la stampa specializzata, MySpace, i blog di Internet e il pubblico dei concerti hanno già eletto al rango di star. Loro malgrado, perché le “volpi veloci” sono l’antitesi dei divi del pop, col loro van scassato e malamente riscaldato che ogni tanto li lascia a piedi, le barbe fluenti e i capelli lunghi da neo hippie, l’aria trasandata e i camicioni a scacchi d’ordinanza per ogni giovane “alternativo” che si rispetti. Incidono per l’etichetta che scoprì i Nirvana, la concittadina Sub Pop Records, ma in comune con il trio di Nevermind hanno poco o niente. Allora, nei primi anni Novanta, Kurt Cobain incarnava l’altra faccia del rampantismo postreganiano, il mal di vivere e l’inquietudine esistenziale della X generation; vent’anni dopo, Robin Pecknold e i suoi rispondono alle insicurezze del presente promuovendo una musica melodica ed eterea, magicamente atemporale (nessun indizio di modernità, nel disco: potrebbe essere stato inciso quarant’anni fa). Sono venuti a galla dal nulla e in pochi mesi, anche se Pecknold e l’amico d’infanzia Skye Skjelset, come lui di origini norvegesi e cresciuto fantasticando sul Signore degli anelli, suonano insieme da quando avevano undici anni e
A
hanno coltivato con ostinazione il loro sogno, finanziandosi il primo provino a forza di mance e donazioni da amici e parenti, prosciugando le carte di credito personali e attingendo ai sussidi di disoccupazione. Sono bastati un mini album e un cd, Giant Sun e Fleet Foxes, a stuzzicare i giornalisti e il pubblico più attento, scatenando reazioni inattese in Europa più ancora che nella madrepatria. Da allora è stato un florilegio di recensioni entusiastiche e di lodi sperticate, su Pitchfork come su Rolling Stone, su Mojo e su Uncut, corredate da trionfi nei referendum di fine anno (anche da noi, dove il mensile Musica e Dischi ha incoronato Fleet Foxes come miglior disco di debutto) e da riscontri importanti, oltre 200mila copie vendute solo nel Vecchio Continente con l’Inghilterra avanti a tutti.
In Italia, dove le vendite del cd sfiorano le 4mila copie, i Fleet Foxes sono ancora una delizia da iniziati, un nome carbonaro. Ma il loro affollatissimo concerto ai Magazzini Generali di Milano, il 15 novembre scorso, ha dimostrato che il tam tam funziona e che le giovani Volpi sono in grado di mettere d’accordo tutti, fratelli maggiori e fratelli minori, genitori e figli, con quella loro musica sospesa nel tempo e nello spazio: tra i Monti Appalachi e il Lake District inglese, la old time music della Carter Family e il folk fiabesco della Incredible String Band, le sognanti armonie vocali di Crosby, Stills, Nash & Young e corali ecclesiastiche che non ti stupiresti di ascol-
Il loro nuovo album, che porta il nome del gruppo, è intimo, spartano e naturalistico: colonna sonora ideale per il tempo attuale turbato da crisi economiche tare nella cattedrale di Canterbury, là dove venne assassinato Thomas Becket. «Ascoltare Smile dei Beach Boys mi ha cambiato la vita», racconta Pecknold, ventidue anni e idee chiare in testa. «In quel momento ho capito che nella pop music c’era spazio per l’avventura». E’ musica ingenua e candida, quella dei Foxes («Volevo che White Winter Hymnal suonasse come impara a fischiettar da Biancaneve e i sette nani, un motivetto da canticchiare
mentre si lavano i piatti»), col sapore arcano dei riti di passaggio e dei cicli delle stagioni, gli inni all’Inverno Bianco e le odi alla bellezza delle Blue Ridge Mountains, popolata di boschi magici, allodole cinguettanti e tigri di montagna. Ma con una sfumatura tenebrosa e macabra, e riflessioni anche seriose sulla mortalità e la perdita dell’innocenza: un po’ come il villaggio agreste animato e bizzarro, colorato e inquietante di Proverbi fiamminghi, il dipinto cinquecentesco di Peter Bruegel il vecchio che adorna la copertina dell’album di debutto. Sul palco sono ancora acerbi e un po’distratti, i Fleet Foxes, anche se piace la loro idea di comunione, di musica totale
Sopra e a fianco, due immagini della boy-band che sta facendo impazzire le giovani generazioni in tutto il mondo: i cinque “Fleet Foxes”
in cui i membri del gruppo si scambiano ruoli e strumenti, tutti leader e tutti gregari. Nessun egocentrismo, anche se è Pecknold a scrivere le canzoni e a stare al centro del palco, l’aria stropicciata, divertita e stupefatta di chi si trova lì un po’ per caso. Il culto che comincia a circondare la sua band sembra lasciarlo distaccato, quasi indifferente: «Una volta che hai finito un disco non ci pensi più. E nel momento in cui esce nei negozi hai già cominciato a detestarlo. La tua musica e quel che scrivi riflettono quel che sei in un determinato momento. E così, subito dopo, diventano immediatamente irrilevanti».
Sembra dica sul serio, e in fondo è proprio quell’approccio casual e spontaneo alla musica la sua dote migliore. Dimostra anche una certa saggezza, il giovane Robin, riflettendo sul fatto che il gruppo avrà un compito arduo nel tenere fede, in futuro, alle altissime aspettative. Ma intanto si gode l’accoglienza riservata a Fleet Foxes, un disco che suona fresco come certe brezze marine che soffiano sulla baia di Seattle. Un «classico istantaneo», come ha scritto l’autorevole Guardian, che rasserena e induce alla riflessione senza le stucchevolezze di certo folk rock in odor di new age. Musica intima e spartana, naturalistica e sussurrata: colonna sonora ideale, si direbbe, per il tempo attuale turbato da crisi economiche ed emergenze climatico-ambientali. Anche in musica, forse, è arrivato il momento di una nuova ecologia.
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da “Le Figaro” del 25-12-2008
“Renne magre” per Babbo Natale di Adele Smith un periodo di “renne magre”, potrebbe affermare un signore vestito di rosso e con la lunga barba bianca. E proprio in un Natale di crisi, Santa Klaus quest’anno non ha caricato giocattoli e bagatelle per bambini sulla slitta, ma abbigliamento e scarpe per il rigido inverno. Niente elettronica e più kit da sopravvivenza per posti dove il termometro affonda spesso parecchi gradi sotto lo zero.
È
N el le ci rca 200mi la letteri ne che sono arrivate all’ufficio postale di New York per Babbo Natale, il tenore delle richieste è decisamente cambiato. Qui è dove si concentrano più richieste in assoluto rispetto a tutta l’America. L’operazione gestita dalle poste americane e da centinaia di volontari è cominciata il 2 dicembre e dovrebbe arrivare a smaltire circa mezzo milione di richieste fino alla fine delle Feste. I newyorkesi, in tanti, che si sono mobilitati e hanno risposto all’appello del Natale, dovranno soddisfare le richieste dei bambini più bisognosi, mettendo anche mano al portafoglio. A quello personale o a quello delle aziende per cui lavorano. Una maniera per contribuire materialmente al difficile momento che tanti americani stanno attraversando. Capifamiglia senza lavoro, donne con figli dal reddito decurta-
to, vite improvvisamente cancellate dal ruolino di marcia della tranquillità e dalle sicurezze quotidiane. Impiegati di grandi società, come la Ibm, hanno deciso di rendere felici i ragazzini più sfortunati, pensando anche alla consegna dei pacchi dono direttamente a chi ne aveva fatto richiesta. Si sono naturalmente privilegiate quelle lettere dove l’appello al sentimento natalizio poteva trovare un terreno più fertile. Due ragazze che avevano chiesto un cappotto per l’inverno vedranno il loro desiderio appagato: Fabrice Pascual, dirigente di Air France, ha deciso di dirottare i budget di 800 dollari per all’acquisto di regali aziendali, a una buona causa. Per quest’anno niente più champagne e foulard ai clienti di riguardo, ma tante piccole grandi cose necessarie per i bimbi americani. Si sente forte il desiderio di fare qualcosa di buono, racconta Pascual, mentre prende un’altra lettera. «Guarda questo ragazzino di 5 anni, non chiede niente per se. Vuole solo sapere cosa faranno le renne una volta finito il giro di consegne». È la sensibilità sociale che avanza anche oltre Oceano? Forse, anche se lo spirito di collaborazione sociale all’interno di quella comunità è sempre stato forte. Sostenuto dalla cultura calvinista e da una spirito di frontiera che
non perdeva senso neanche nelle aree urbane. A maggior ragione in una metropoli come New York: una città dura e difficile. Camminando fra i volontari di questo progetto è facile capire come le motivazioni che li hanno spinti sono le più diverse, per merito e origine. C’è un artista di Soho, con ancora tracce di vernice verde sotto le unghie. Per lui il gioco ha preso la forma di un bambino malato. Ne è stato emotivamente conquistato e totalmente soggiogato, nel senso migliore del termine.
C’è poi la storia, un po’ triste, di una cameriera di Manhattan che vorrebbe passare con i suoi due bambini, di due e tre anni, l’ultimo Natale, visto che le è stato diagnosticato un tumore. Insomma piccole, grandi tragedie personali che corrono lungo il filo dello spirito del Natale: più Frank Capra che Mamma ho perso l’aereo. Tante storie che potrebbero popolare le pagine di un racconto dickensiano, ma con qualche eccezione, che non può che confermare la regola. «Mi hanno chiesto una Playstation e un lettore Mp3. Dovremmo insegnare a certi ragazzini i veri valori del Natale», afferma un altro volontario, sventolando la pagina di un’altra lettera, un po’ stupito da tanto egoismo. Si sa che i periodi di grande crisi economica sono i più adatti per fare pedagogia, per insegnare principi e valori cui molti giovani sembrano refrattari. In pratica le recessioni facilitano ciò che è più difficile da comunicare quando la fetta di pane è imburrate da tutte e due i lati.
L’IMMAGINE
La recessione è un’epidemia difficile da debellare perché il vaccino è in fase sperimentale Spesso si parla di federalismo fiscale che dai suoi sostenitori viene presentato come il rimedio a vere o presunte ingiustizie distributive. Dettato da spirito conservativo di salvaguardia di un maggiore benessere non tiene conto che in una economia molto interdipendente e globale è inutile creare artificiosi steccati di protezione. Nel tempo attuale, malgrado i doverosi messaggi governativi alla fiducia, gli economisti non sono in grado di prevedere durata, entità e conseguenze della crisi. La recessione economica, mi sia consentito il paragone, è come una epidemia non facilmente debellabile perché ancora il vaccino è in fase di sperimentazione.Vi è il rischio concreto che la recessione colpisca maggiormente le zone più ricche e industrializzate per cui il federalismo fiscale si rivelerà un rimedio inutile perché avrà seminato, da una parte, incomprensioni e dall’altra delusioni. Mentre la casa brucia, occorre trovare momenti e soluzioni coinvolgenti tutti e non occasioni di sterili campanilismi.
Luigi Celebre
ORGANIZZAZIONI UMANITARIE, IMITIAMO LA GERMANIA La mia buca delle lettere è ingolfata di buste contenenti rosari, cartoline di auguri e messaggi vari, con allegati vaglia di conto corrente in bianco con l’invito a fare alcune offerte. I mittenti sono le organizzazioni sociali, dai nomi più disparati, di cui si conosce poco o niente, che scrivono per muovere la sensibilità della collettività sugli argomenti più disperati come la fame nel mondo e le malattie in Africa. Ora, specie dopo il servizio trasmesso da Striscia la notizia sull’argomento, è lecito chiedersi se questi fondi siano veramente destinati allo scopo promesso. Perché non pubblicare allora, come fanno in Germania, un elenco delle organizzazioni umanitarie veramente
affidabili che possa garantire a chi fa le offerte che i soldi inviati raggiungano il giusto fine?
Lettera firmata
Ospite sgradito!
ABOLIAMO I TIMBRI Una nuova disposizione ha allungato la scadenza di validità della carta d’identità da 5 a 10 anni, sia per eliminare un impegno degli uffici comunali, sia per ridurre gli incomodi ai cittadini. Provvedimento sicuramente da applaudire. Ma in Italia c’è sempre un però. I cervelloni romani nello stilare detto provvedimento hanno deciso che sia necessario, per l’ottenimento della proroga, il simbolo della burocrazia ossia il timbro. Conseguenze: il lavoro degli uffici si è ridotto in maniera impercettibile, il cittadino deve perdere ore lavorative per andare
Per giorni la sua casa è stata un minuscolo uovo del diametro di un capello. Ma adesso questa larva di Toxocara canis ha deciso di allargare i suoi orizzonti. E lo farà purtroppo a spese di un cane, di cui il verme è un fastidioso parassita. Una volta all’interno del corpo di Fido, lo scroccone si sistema nel suo intestino e lì comincia a rimpinzarsi delle sostanze nutritive ingerite dall’animale negli uffici comunali e fare la fila per il timbro.
Barbara Piccoli
FIGURE DI ONESTI L’onesto è spesso perdente, ma non piega la schiena per riverire i furbi. È anticonformista, tende a considerare la politica un male inevitabile. Carlo Cattaneo, deputato federalista ed illuminista, re-
sosi conto d’essere «inesperto di scherma parlamentare», lasciò l’aula - dominata da Cavour - e ritornò al suo paesello. Giuseppe Prezzolini lasciò l’Italia per «provare un certo senso di leggerezza», prima nella democrazia statunitense e poi in quella elvetica. Dante pagò con l’esilio il suo ruolo di ghibellino retto. L’onesto repubblicano Niccolò Machiavelli fu basto-
nato sia dai repubblicani che dai Medici. Al completamento dell’unità d’Italia (1870), Giuseppe Garibaldi rifiutò un premio di centomila lire, a lui offerto dal nuovo Parlamento. Confidò al figlio Menotti: «mi sarei coperto il volto dalla vergogna, ogni volta che mi fossero giunte notizie di depredazioni partitiche e di pubbliche miserie».
Lettera firmata
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
“Mi avete tolto la voglia di tutto, sono triste ovunque” Mia incantevole amica, sembra che siamo diventati assolutamente estranei l’uno all’altra, da quando sono esiliato in questo triste paese, e voi siete diventata aliena ai sentimenti di un cuore al punto di temere di tediarmi dicendomi i vostri crucci.Volete essere triste da sola, non mi dite nulla dei tanti piccoli particolari che sarebbero per me preziosi e che pure mi avevate promesso, se ve ne rammentate. Mi renderebbero felice, immaginerei ciò che fate in ogni ora del giorno, vi vedrei, saprei com’è fatto il vostro appartamento, a che ora recitate, in quali giorni recitate e tutte quelle altre piccole cose, incantevoli perché vi riguardano tanto da vicino. Invece non so niente. A poco a poco capiteranno mille fatterelli che vi parranno troppo noiosi da raccontare perché non mi avrete detto nulla delle cose precedenti. Non avrete più nulla da dirmi, mi scriverete soltanto controvoglia, e presto non mi scriverete proprio più. Ah! amica mia, questo paese è per me insopportabile, e quand’anche dovessi perdere quaranta fidanzate occorre che lo lasci. Amavo i miei genitori prima di conoscervi. Oggi il loro affetto mi sembra insipido.Voi mi avete tolto la voglia di tutto, sono triste ovunque. Ricevo le vostre lettere, sono folle per mezza giornata, tutti si accorgono del mio cambiamento d’umore. Le rileggo per venti volte e poi mi accorgo che il solo amore che c’è ce lo metto io. Stendhal a Mélanie Guilbert
ACCADDE OGGI
PROPOSTA PER IL GOVERNO: AFFITTI DETRAIBILI Lancio una proposta al governo: aiutare le fasce deboli è più che giusto. Perché non farlo sgravando l’affitto della cassa? Per tante famiglie è la spesa mensile maggiore e molto spesso è in nero. Se si potesse portare in detrazione dal reddito, si avrebbe un aiuto concreto e la certezza della dichiarazione del reddito del proprietario.
Alberto Cuffa
SALVAGUARDIAMO LA LIBERTÀ DI PENSIERO E DI ESPRESSIONE Ho saputo che l’Ue ha varato una norma che stabilisce una pena da 1 a 3 anni per chi «incita alla xenofobia». Ritengo che tale legge vada contro il sacro principio democratico della libertà di pensiero e di espressione. Io non sono razzista ma sono dell’idea che anche i concetti più detestabili vadano espressi liberamente senza bisogno dell’intervento repressivo dello Stato.
Gabriele
IN SARDEGNA SI VIAGGIA A BASSA VELOCITÀ In questi giorni si parla tanto della Freccia Rossa e dell’Alta Velocità, grazie alla quale da Milano si può raggiungere Roma in poco più di tre ore. E pensare che noi in Sardegna, per fare 210 chilometri e per andare da un capo all’altro dell’isola, abbiamo un trenino da far west che impiega più di 4 ore. Beati loro!
Fabrizio Sordu
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
27 dicembre 1963 Il Molise diventa una regione italiana autonoma
1968 La missione spaziale Apollo 8 rientra sulla Terra
1978 La Spagna diventa una democrazia dopo 40 anni di dittatura 1980 Il carcere dell’Asinara viene definitivamente chiuso e tutta l’isola sarà proclamata ufficialmente parco naturale 1985 Terroristi palestinesi uccidono venti persone negli aeroporti di Roma e Vienna 1985 La naturalista statunitense Dian Fossey viene trovata uccisa in Ruanda 1989 Viene adottata in Romania la bandiera nella sua forma attuale 1990 Viene sciolta la Federazione giovanile comunista italiana 1992 Iniziano le trasmissioni sperimentali radiofoniche dell’ente radiotelevisivo di San Marino 1996 Le forze dei Talebani riprendono il controllo della base aerea di Bagram, che consolida la loro zona cuscinetto attorno a Kabul 1997 Il leader paramilitare protestante Billy Wright viene assassinato in Irlanda del Nord
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
MA IL GOVERNO SI RICORDA ANCORA DEI PRECARI? Non se ne parla più, forse perché abbiamo cose più importanti a cui pensare, o perché quello che crea disagio per un po’ di tempo diventa abitudine. Così mi viene in mente che precarius deriva dal latino prex, preghiera. Bisogna pregare, allora, per trovare un lavoro; pregare che questo duri abbastanza prima di averne trovato un altro; pregare di aver ricevuto abbastanza soldi per arrivare alla fine del mese; pregare di poter lavorare senza più arrancare.
Giorgio
ALCOL E GUIDA/1 Penso che quest’ultima trovata in materia di tasso alcolico finirà per penalizzare soprattutto tutti quei cittadini che fino ad oggi si sono messi al volante dopo aver consumato normali pasti e giuste dosi di bevande e così facendo non sono mai stati un pericolo. Sugli ubriaconi, sui tossicomani e sugli adolescenti in cerca di sballo non avrà nessun effetto, perché costoro dei divieti se ne sono sempre infischiati.
dai circoli liberal
UN ANNO DI CIRCOLI LIBERAL, UN ANNO DI GRANDE IMPEGNO Con il Natale alle spalle e il Capodanno all’orizzonte, ci avviamo verso un altro anno di lavoro e siamo pronti a fare un bilancio “minimo” di quello che se ne va. La nostra “missione” politica e culturale è stata encomiabile. Come il nostro Presidente Ferdinando Adornato che ha fatto dei circoli liberal un movimento vero in “carne ed ossa”. Posso dire con orgoglio che l’attività dei circoli è stata qualitativa, quantitativa e frenetica al tempo stesso.Con i coordinatori Regionali, Provinciali e Comunali, sotto la guida dell’onorevole Angelo Sanza, abbiamo prodotto iniziative e portato liberal tra la gente Italiana, tant’è che con orgoglio, oggi, anche dopo i fatti di San Babila, liberal c’è! E più di prima è presente a promuovere e costruire il nuovo grande progetto politico Italiano, l’Unione di Centro. Questa è la vera scommessa per il 2009. Costruire insieme all’UdC di Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa, alla Rosa Bianca di Savino Pezzotta, ai Popolari Democratici di Ciriaco De Mita la Casa comune di tutti i moderati, liberali e cristiani Italiani. Gli unici che ancora oggi nel nostro paese, si “sparpagliati” ma mai divisi dalla loro grande storia politica e culturale, sanno dove stare in Europa. In quel Ppe ambìto da tutti, ma lontano per molti perché la moglie di Cesare “non solo deve apparire ma deve anche essere”. Allora io partirei da questa appartenenza forte, che ci dice e dice ai nostri concittadini chi siamo dentro e fuori dal nostro confine nazionale, senza lasciare spazi a dubbi né incertezze. Ci consegna inequivocabilmente i valori, i principi da difendere, le identità su cui edificare il nostro progetto politico futuro. Ecco perché, per dirla con Seneca, «Chi è dappertutto, non è da nessuna parte». Pd e PdL questo lo sanno, e allora giocano sulle divisioni o su chi per un pò di presente è disposto a vende il proprio passato. Allora questi signori, vanno via, inneggiano alla Libertà e alla democrazia ma cedono alla monarchia. Strano fenomeno questo che porta alla nascita di nuovi partiti, sigle e contenitori vuoti da portare in dote con un solo grande obiettivo: scardinare, far franare la montagna che per anni li ha accolti, custoditi e preservati fino a farli diventare quello che sono. Si sa la riconoscenza non è di questo mondo, ma «la politica senza valori è nulla, è solo Machiavellismo». Questo monito di Giovanni Paolo II non dimentichiamolo, portiamolo con noi nel 2009. Auguri a tutti! Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO CIRCOLI LIBERAL
Claudio Bruschi
APPUNTAMENTI
ALCOL E GUIDA/2 Credo che il ritiro della patente non sia affatto sufficiente. L’unica soluzione è cambiare l’imputazione da omicidio colposo a volontario con 10 anni di prigione da scontare. La persona che si mette al volante ubriaco o drogato è cosciente di quello che fa; quindi esiste tutta la volontarietà.
Lettera firmata
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Costumi. Brown si scopre puritano e attacca i «locali del peccato»
E Cameron (a sorpresa) difende i locali di di Silvia Marchetti
ap dance a rischio estinzione. In Gran Bretagna la crociata anti-sesso del governo laburista – preso da una voglia sfrenata di purificazione sociale – ha messo al lastrico i famigerati locali dove ragazze inglesi, russe e cubane si esibiscono in mosse erotiche. Per il premier Gordon Brown – scopertosi d’un tratto con un’anima puritana – si tratta di luoghi poco seri dove si venderebbe sesso facile a basso costo, insomma qualcosa di simile ai locali a luci rosse che fomentano il traffico della prostituzione, altro flagello britannico dopo la piaga del coltello. I club di lap dance - da sempre vanto della cultura del divertimento inglese - potrebbero dunque presto chiudere i battenti visto che il governo ha intenzione di inasprire la legislazione corrente in materia e dichiararli dei luoghi semi-fuorilegge, equiparandoli ai sexy-shop. Ma se da una parte i laburisti, presi dalla mano-dura contro la deriva della società – violenza, delinquenza, abuso di alcol, prostituzione – vorrebbero ripulire le strade di Londra dai passatempi “volgari”, dall’altra i conservatori si scoprono invece più tolleranti che in passato.
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Infatti, anche se a sorpresa, a difesa della lap dance è sceso in campo, seppur indirettamente, lo stesso giovane leader Tory David Cameron. In un’inversione di ruoli che sembra paradossale, i conservatori hanno capito che occorre modernizzare alcuni approcci politici antiquati all’insegna dei tempi che cambiano. Insomma, basta con una certa cultura “bacchettona” ma sempre con moderazione. I Tory, infatti, non difendono l’etica dei divertimento sfrenato rappresentato dalle ballerine di lap dance che può degenerare in giri di prostituzioni, ma che ci sarà mai di male a frequentare certi posti in determinate circostanze, tanto per passare una bella serata? Tant’è che alla conferenza nazionale dei conservatori che si è tenuta a novembre a Manchester ai delegati di partito e agli invitati alla 2-giorni sono stati consegnati (all’interno delle cartelline con i programmi politici e gli orari dei seminari) anche dei voucher del valore di dieci sterline per alcuni ingressi gratuiti al “Rocket Club”, locale di lusso famosissimo per le performance femminili attorno alla sbarra e dedicato esclusivamente al “divertimento dei veri gentlemen”. Nonostante la “promozione”abbia creato qualche sorpresa in platea, nessuno ha perso l’ocSopra, Paris Hilton balla in uno dei locali per strip-tease di Londra, che ne vanta un numero incredibile. Nella foto piccola, il leader conservatore David Cameron
LAP DANCE casione di passare una piacevole serata in compagnia di belle ragazze e un pò di gin. Insomma, perché distruggere l’universo della lap dance? Sta di fatto che i locali hanno di fronte in futuro incerto: l’intenzione del governo, a livello locale, è quello di far chiudere tutti quelli che sorgono vicino a scuole ed altri luoghi “sensibili”sotto il punto di vista sociale, tra cui ospedali e case di cura per anziani.
rando vita dura ai gestori dei locali. Cosa molto probabile. Ciò che stupisce, tuttavia, è proprio una simile crociata moralistica da parte del Labour: prima il divieto di fumo nei luoghi pubblici, poi la tassa sulla birra, ora la mannaia che si abbatte sulla tradizionale lap dance inglese. Alcuni ministri vorrebbero perfino convincere i businessmen ad evitare di frequentare di notte certi locali dopo il lavoro.
Motivo: potrebbero essere uno strumento di corruzione. Alcuni residenti delle zone più “hard”si lamentano che la movida notturna ha effetti negativi sulla loro vita e puntano il dito contro la “cultura della sessualizzazione”augu-
A Londra limitare le licenze sarebbe come negare l’accesso alle vetrine a luci rosse ad Amsterdam (per altro già successo, gran parte del quartiere è ormai storia). L’associazione che riunisce i gestori dei club di lap dance è sul piede di guerra. Nei mesi scorsi nella capitale londinese si è svolta una manifestazione delle ballerine di alcuni tra i più famosi club notturni. Ad oggi i luoghi dove si pratica la lap dance sono regolamentati (dal punto di vista delle licenze) alla maniera dei bar e dei pub, ma stando alla proposta del governo presto potrebbero venire assoggettati alle stesse norme (più restrittive) dei sexy-shop. Le misure allo studio rientrano nel pacchetto contro il crimine presentato dal governo alcune settimane fa, che pone un giro di vite sulla prostituzione. L’obiettivo del governo è vietare completamento la vendita di sesso, sia per le strade che nei locali, ma al momento si accontenta di inasprire le pene contro chi paga per servizi erotici, irrigidire la legislazione e limitare il rilascio delle licenze ai gestori dei club erotici. L’esecutivo sta infatti tornando sui suoi passi: nel 2003 aveva aumentato il riconoscimento delle licenze, facendo proliferare su tutto il territorio della Gran Bretagna i paradisi della lap dance. Ma oggi alcuni studi hanno dimostrato che questi club sono legati ad alti livelli di violenza sessuale e sono spesso fucine di prostitute e papponi. Oggi il governo si rende conto di avere fatto un errore ma forse è troppo tardi per cambiare la mentalità, i piaceri e le abitudini notturne degli inglesi. Anche i Tory, da sempre contro gli eccessi sociali, non possono negarlo.
Alla conferenza nazionale dei conservatori, ai delegati di partito sono stati consegnati anche dei voucher del valore di dieci sterline per alcuni ingressi gratuiti al “Rocket Club”, locale di lusso famosissimo per le performance femminili attorno alla sbarra