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ISSN 1827-8817 81231

Quel che v’ha di più orrendo al mondo è la giustizia separata dalla carità

di e h c a n cro

François Mauriac 9 771827 881004

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

Verso il 2009 La politica

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

IPOCRISIE INTERNAZIONALI Perché nessuno ricorda che Israele ha ceduto unilateralmente la Striscia reprimendo i propri coloni? E perché nessuno ha chiesto il cessate il fuoco quando partivano i razzi dei terroristi?

Attenti, il sistema è di nuovo bloccato di Renzo Foa n anno fa, di questi giorni, l’Italia era guidata dal fragile governo di Romano Prodi e si presentava con un sistema politico certamente debole, ma ancora aperto ad una possibile autoriforma. Già si intravedeva una delle possibili alternative, quella che sarebbe passata alla cronaca come il mancato tentativo di Franco Marini, ovvero la chance che per breve tempo fu affidata all’allora presidente del Senato di guidare un esecutivo per attuare con una maggioranza trasversale una piccola riforma elettorale con qualche risvolto istituzionale. Sappiamo come e perché questa ipotesi sia poi sfumata, come e perché sia prevalsa ancora una volta la visione generale – o meglio l’illusione – della comodità del bipolarismo, come e perché sia rimasto tutto bloccato, anche se nella speranza agitata da Silvio Berlusconi e da Walter Veltroni di un dialogo in vista di un grande accordo per cambiare tutto, cominciando dalla realizzazione del bipartitismo. se gu e a p ag in a 8

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Come tutti gli altri giornali domani liberal non uscirà per tornare in edicola giovedì 2 gennaio. A tutti i nostri lettori tanti cari auguri per un felice anno nuovo

Verso il 2009 L’economia

Subito quattro grandi riforme. O l’Italia muore di Enrico Cisnetto ari lettori di liberal, oggi è l’ultimo giorno del “maledetto”2008, che passerà alla storia come l’anno di una crisi finanziaria mondiale senza precedenti, ed è inevitabile predisporsi al 2009 domandandoci se per caso non si debbano mettere le agende indietro di otto decenni, tornando al 1929. Dico subito che il continuo aggravarsi di una crisi che è partita nel luglio 2007 con lo scoppio della bolla speculativa immobiliare e dei mutui subprime ed è arrivata al furto con destrezza da 50 miliardi di dollari di Madoff passando per il fallimento della Lehman e per la nazionalizzazione di banche americane ed europee, fa di quanto è successo nei diciotto mesi scorsi il più grave accadimento che l’epoca del capitalismo abbia mai visto, ben maggiore dunque degli effetti borsistici che si ebbero con la caduta di Wall Street ottanta anni fa.

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Le verità nascoste sulla guerra di Gaza alle pagine 2,3,4 e 5

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MERCOLEDÌ 31 DICEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

250 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Analisi. I raid in realtà favoriscono anche la componente moderata di Abu Mazen, finora schiacciata dall’ala islamica

L’enigma di Gerusalemme Senza un accordo fra Anp e Hamas la pace è impossibile Ma se non si sconfiggono i terroristi nessun negoziato può prevalere di Mario Arpino intervento telefonico del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner nei confronti di Ehud Barak, al quale chiede 48 ore di sospensione degli attacchi “per motivi umanitari”, si potrebbe prestare molto bene alla strategia di guerra israeliana. Secondo l’analista Alex Fishman, notoriamente vicino al ministero della Difesa, quattro giorni di attacchi aerei (a questo punto, oltre tutto, gli obiettivi fissi su cui si può puntare selettivamente cominciano a scarseggiare) dovrebbero aver ricondotto Hamas alla riflessione, ovvero alla valutazione del disastro cui Gaza andrebbe incontro se perseverano in un’impari e inutile muro contro muro. Può darsi che per riflettere occorra un po’ di calma, soprattutto perché non è facile per le fazioni mettersi d’accordo, e proprio per questo è possibile che i militari israeliani e il loro Governo mostrino una certa sensibilità verso la richiesta di sospensione.

L’

Secondo Fishman, il ragionamento potrebbe essere di questo tipo: «…al quarto giorno di operazioni aeree noi siamo ancora nella fase A dell’attacco, e ci stiamo muovendo verso la fase B, quella di terra. Questo, cari nemici, è il momento di trattare, se pensate di volerlo fare. È la vostra opportunità. Altrimenti, la vostra prossima occasione si presenterà solo dopo il termine della fase terrestre. Voi sapete cosa significa, e sapete anche qual è il livello di distruzione che possono portare i carri, specie se supportati dall’aviazione. In quella fase, come sapete, non saranno più possibili attacchi di precisione. Se l’attacco parte, è irreversibile e per parlare bisogna attenderne la fine…». Questo è il senso del discorso. Certo, il linguaggio è assai crudo, ma efficace. Durante l’intervallo (non chiamiamolo tregua) Hamas potrebbe effettivamente venire a più miti consigli, e tutto andrebbe in modo diverso. Non resta che sperare che sia davvero così, altrimenti, stiamone certi, gli israeliani continueranno. Al di là della

Gaza, la verità nascosta Perché nessuno ricorda che Israele ha ceduto unilateralmente la Striscia persino reprimendo i propri coloni? E perché nessuno ha chiesto il cessate il fuoco nei mesi scorsi, quando partivano i razzi dei fondamentalisti? di Vincenzo Faccioli Pintozzi è una verità nascosta, dietro agli scontri che infiammano Gaza. Con la lodevole eccezione di Piero Ostellino, nessuno ha ricordato che la Striscia è stata donata – con gesto unilaterale – da Israele all’allora Olp in cambio di pace. Ma c’è di più: nessun giornale, nessun opinionista, nessun governante ha mai chiesto il cessate il fuoco mentre partivano i razzi dei fondamentalisti di Hamas contro i territori israeliani. Le richieste di pace, di tregua, di dialogo sono giunte soltanto dopo che il governo di Israele ha risposto al fuoco con il fuoco. Quindi, la teoria che vede in Israele un orrendo aggressore non ha fondamento. Anche se la Striscia di Gaza è da circa 60 anni l’epicentro degli scontri fra Israele e Palestina – da cui giungono i reportage più disperati, gli appelli più accorati, le lacrime meno sincere – è necessario oggi più che mai ricordare che, sin dal 1994, è stata donata da Gerusalemme all’allora Organizzazione per la liberazione della Palestina. In cambio di pace. Una pace siglata durante gli accordi di Oslo, che hanno posto fine a un’occupazione militare che durava sin dalla Guerra dei sei giorni, e disattesa da Hamas. Circa 27 anni di dominio incontrastato, che Israele avrebbe potuto mantenere armi in pugno fino ai giorni nostri senza sforzi eccessivi.

C’

to, fino alla presa di potere di Hamas, un relativo benessere alla popolazione locale. L’Autorità palestinese, guidata da Yasser Arafat, ha scelto la città di Gaza come la sua prima sede provinciale. Nel settembre 1995, Israele e l’Olp firmarono un secondo accordo di pace che estende l’amministrazione dell’Autorità palestinese alla maggior parte delle città della Cisgiordania. La pubblica amministrazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania sotto la leadership di Arafat si è trasformata in un esempio di malagestione che sarebbe rimasto nella libri di storia della stessa Palestina. Una malagestione costellata di corruzione, di abusi di potere e di ricatti. Ricatti contro la stessa popolazione palestinese, usata come cavie da laboratorio per ottenere le generose sovvenzioni della comunità internazionale poi sparite nel nulla. Una malagestione che ha consegnato il potere politico ad Hamas, abilissima nel gestire fondi che puzzano di Teheran a favore della popolazione civile e nello sbandierare il Corano come guida morale per i propri leader. Ma che nel suo statuto fondativo indica come obiettivo imprescindibile la cancellazione dello Stato di Israele dalla cartina geografica. Da rimpiazzare con uno Stato islamico.

Ricordate questa fotografia? Sono i coloni israeliani sgombrati dal loro stesso governo dalla Striscia di Gaza, che veniva ceduta ai palestinesi in cambio di pace…

Certo, il governo guidato (ancora per poco) da Olmert ha mantenuto sino a due anni fa il controllo dello spazio aereo, le acque territoriali, l’accesso off-shore marittimo, l’anagrafe della popolazione, l’ingresso degli stranieri, le importazioni e le esportazioni nonché il sistema fiscale della Striscia. Ma ha anche garanti-

Ora si rimprovera a Gerusalemme la sua durezza, e si piangono (giustamente) le vittime civili di un attacco che sembra ancora molto lungo. Ma nessuno rimproverava Israele quando, con la stessa durezza, sgomberava i suoi stessi coloni dalla Striscia di Gaza, che veniva ceduta ai palestinesi in cambio di pace. Una pace che Hamas (e insieme a lei il suo padrone iraniano) non vuole.

pietà per le vittime, ciò che sta accadendo tra Israele ed Hamas, viste le premesse, prima o poi doveva accadere. Gaza, una striscia mediterranea lunga 45 chilometri e larga dieci, è abitata da un milione e mezzo di palestinesi. Ma Israele lotta contro Hamas, non contro di loro, anche se in una sciagurata fase terrestre saranno loro le prime vittime. Dopo l’estromissione forzata di al Fatah da parte degli integralisti di Hamas, nel cui statuto c’è la distruzione di Israele, Gaza è diventata la spina nel fianco del processo di pace.

È una questione che va risolta e, constatata l’immobilità internazionale di fronte alle continue provocazioni, la parola è passata agli F. 16. E non poteva che essere così. Ma ora sta per passare ai corazzati. C’è solo da sperare che non sia un’esca, come era stato nel giugno 2006, per provocare incendi di proporzioni maggiori. Ma Israele, nonostante la crisi politica, è preparata ad affrontare ogni minaccia nei 360 gradi, e lo è da sempre. È una nazione mobilitata, abituata a convivere, da sessant’anni, con guerre e guerriglie. Che ha sempre vinto, e sa che solo per questo continua ad esistere. Questa volta deve, oltre tutto, riscattare di fronte al mondo, ma sopra tutto di fronte al suo popolo, le incertezze e i dubbi sulla capacità combattiva delle sue forze armate nei fatti di giugno – luglio 2006. Oggi non ripeterà gli stessi errori e non si lascerà più imbrigliare dalle ipocrisie dell’opinione pubblica internazionale. Oltre tutto, chi ha avuto la pazienza di scorrere le dichiarazioni dei vari leaders mondiali si sarà accorto che questa volta nessuno, nemmeno quelli dei Paesi musulmani, dà esplicitamente ragione ad Hamas. Tutti, o quasi, la indicano come responsabile, e la distinguono dal popolo palestinese. Tutti, tranne Ahmadinejad e il movimento di Hezbollah. Il problema di Israele è e continua a essere esistenziale, anche se non si trova più a fronteggiare i grandi eserciti arabi


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Italia. Il ministro Frattini: «Lavoriamo con Parigi a un testo in 4 punti»

Una risoluzione Onu per fermare Hamas Intanto Olmert respinge le proposte di tregua di Massimo Fazzi na risoluzione delle Nazioni Unite in quattro punti, che preveda l’effettivo (e controllabile) disarmo di Hamas. È la proposta di pace a cui collaborano il governo italiano e quello francese, dopo il “no” di Olmert alla tregua proposta dal ministro degli Esteri Kouchner. Israele ha ribadito che l’operazione militare contro Hamas continuerà «fino al raggiungimento degli obiettivi preposti». Che, all’atto pratico, risultano essere la distruzione di Hamas. Il no di Olmert non preclude però che la proposta di risoluzione e i suoi 4 punti possano avere miglior fortuna. Nel testo, si propone il cessate il fuoco immediato, la piena ripresa degli accessi degli aiuti umanitari per la popolazione civile, il dispiegamento di osservatori internazionali per controllare il disarmo di Hamas e una presenza europea sul territorio. A elencarli è stato il ministro degli Esteri Franco Frattini nel corso delle comunicazioni del governo al Senato sulla crisi in Medio Oriente. Secondo il titolare della Farnesina, «il primo punto è quello di un cessate il fuoco immediato e il secondo quello di una ripresa immediata dei flussi umanitari. Il terzo punto, che gli amici americani hanno formulato informalmente, prevede un meccanismo di osservatori internazionali per garantire il rispetto della tregua e i flussi umanitari». Il ministro, non nascondendo gli ostacoli a una proposta del genere, chiarisce che si potrebbe prevedere «una formula sufficientemente elastica per un graduale dispiegamento di osservatori che potrebbe essere accettata anche dalla Lega araba, a condizione che prima di ogni cosa vi sia un cessate il fuoco». Inoltre, secondo Frattini, il testo dell’Onu dovrebbe includere «un richiamo a una risoluzione del 2005, quella che per la prima volta fece riferimento ad un accordo tra Israele e l’Anp per una presenza europea sul territorio di personale Pesd». A questi punti, conclude il ministro, «potrebbe aggiungersi il riferimento esplicito all’impegno della mediazione condotta dall’Egitto per riprendere lo sforzo per la riconciliazione nazionale palestinese e la richiesta di un brevissimo cessate il fuoco unilaterale da parte di Israele in vista del vertice della Lega Araba del 2 gennaio». Nel frattempo, con la diplomazia del mondo al lavoro, è passato anche il quarto giorno di bombardamenti sganciati sulla Striscia di Gaza. Il bilancio dell’Onu è di 360 morti e 1.400 feriti. Tra questi ci sarebbero almeno 40 bambini. E tuttavia, nonostante Olmert abbia chiarito di voler prendere in considerazione la proposta

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europea di tregua, rimane per il momento la parola d’ordine del governo israeliano: «I raid aerei sono il primo capitolo di una serie di fasi già programmate». Fra queste non dovrebbe esserci però la temuta invasione via terra: il ministro israeliano Tzipi Livni avrebbe infatti assicurato alla Farnesina che tale ipotesi «non è allo studio». Un’assicurazione ribadita dal presidente Shimon Peres all’inquilino del Quirinale, Giorgio Napolitano. Che non ha tuttavia fermato i raid degli F. 16 con la Stella di Davide, che hanno continuato a

Non si fermano i raid aerei di Israele, mentre sembra allontanarsi l’ipotesi di un’invasione via terra della Striscia. Continua il lancio di missili Qassam: colpita anche Ber Sabáa, finora mai raggiunta

Sopra, un soldato israeliano. A destra, militanti palestinesi di Hamas. Nella pagina a fianco, Angela Merkel delle “tre guerre”. Da sempre è condannata a vincere militarmente, e ne è consapevole. Perdere una volta sola significa perdere per sempre, tanto più che la minaccia oggi è insidiosa, subdola e globale. Per questo, quando si parla di Israele, concetti o parole “politicamente corrette”, come autodifesa, reazione proporzionata, attacco preventivo, spostare la guerra in territorio nemico (quello di Gaza è stato dichiarato tale), e altri ancora, hanno un significato diverso dalla normalità delle logiche correnti. È bene che ce lo ricordiamo quando, misurando

le cose con il nostro metro, formuliamo giudizi buonisti.

La strategia militare di Israele è molto semplice, e trova preciso riscontro e compendio nella missione delle sue forze armate: assicurare l’esistenza dello Stato e la sicurezza dei suoi cittadini. Non ci sono, oggi, altri eserciti o altri governanti che abbiano un compito così drammatico. Giusto l’auspicio di due popoli in due stati, come aveva già previsto l’Onu nel novembre 1947. Ma se i palestinesi non si mettono d’accordo tra di loro, come è possibile che lo facciano con Israele?

bombardare per tutto il giorno la Striscia. Fra gli obiettivi colpiti, anche Rafah. Prosegue anche il lancio di razzi palestinesi contro Israele: quattro le vittime israeliane. Sderot è stata nuovamente colpita da razzi sparati da miliziani palestinesi appostati ai margini della Striscia.

Un edificio è stato centrato in pieno e, secondo fonti locali, tre persone sono rimaste ferite in modo non grave. Un razzo del tipo Qassam lanciato dalle milizie di Hamas contro il territorio israeliano è caduto a 56 chilometri di distanza dalla striscia di Gaza. Secondo quanto ha annunciato il sito internet del movimento islamico, il razzo è caduto nella zona israeliana di Ber Sabáa: si tratta del luogo più lontano mai colpito dai missili palestinesi lanciati da Gaza. Oltre mezzo milione di israeliani (che vivono nelle città meridionali di Sderot, Ashqelon, Ashdod, Kiryat Gat e Netivot) hanno avuto istruzione di osservare puntigliosamente gli ordini ricevuti dal comando delle retrovie. In particolare devono prestare la massima attenzione al suono delle sirene di allarme e cercare rifugio in un tempo massimo di 45 secondi. In quelle città, su ordine del comando delle retrovie, le scuole resteranno chiuse fino a nuovo ordine.


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Islam. I leader fondamentalisti vedono nella Palestina la grande opportunità di creare uno Stato islamico staccato dalla Cisgiordania

La mano dell’Iran Le ragioni di Israele e la miopia del mondo che non vede la mano di Khamenei nella Striscia di Gennaro Malgieri li islamisti sono i peggiori nemici dei palestinesi. Strumentalizzano le loro sofferenze, si appropriano delle loro vite, pagano con vile moneta i sacrifici che gli vengono richiesti. Distruggono senza pietà le loro comunità e li lanciano all’attacco di un nemico assai più potente contro il quale non avranno mai la meglio. Per di più gli stanno facendo perdere l’anima e tradire lo spirito coranico. A Gaza si sta consumando una tragedia non certamente voluta da Israele, ma da chi muove contro lo Stato ebraico restando nell’ombra e mandando allo scoperto i più sprovveduti, avvelenati da una propaganda criminosa orchestrata altrove, lontano dalle povere case palestinesi dove vivono, nella disperazione e nella paura, migliaia di donne, bambini e uomini cui è stato detto di combattere fino alla morte senza fargli sapere il motivo vero di un bagno di sangue tanto assurdo quanto privo della speranza che da esso possa nascere un’èra di pace. La Striscia di Gaza è, infatti, l’obiettivo sul quale si concentrano le mire degli islamisti più feroci: l’Iran tiene le file della

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rovincialismo, gossipmania, voyerismo. Potrebbe essere questa la spiegazione delle scelte editoriali di tre quotidiani che ieri hanno deciso di dedicare ampio spazio alla vicenda delle dimissioni Cristiano Di Pietro dall’Italia dei Valori. Da alcuni giornali tradizionalmente vicini alle posizioni del centrodestra e di Israele arrivano le sorprese più grandi. Non hanno resistito alla tentazione e, forse per non rovinare il clima delle feste natalizie ai lettori con immagini e cronache cruente, hanno dato conto della decisione sofferta, quasi strappalacrime, del figlio del Tonino nazionale. Il Tempo ha dedicato il titolo di apertura a Di Pietro, mentre la spalla e l’editoriale sono per Israele e Hamas argomento al quale vengono riservate anche le prime due pagine.

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rivolta contro Israele. Ha individuato in questa porzione tormentata di territorio palestinese, il luogo dove costruire un piccolo Stato islamico, fondato sulla sharia, e staccato dalla Cisgiordania. È questo l’intendimento degli ayatollah di Teheran, e in particolare della Guida spirituale Alì Khamenei il quale, tempo fa, nella distrazione del resto del mondo, emise una

L’Europa non può continuare nel suo balletto senza senso. La politica deve saper scegliere fra amici e nemici: ora più che mai, è necessario decidere fatwa che si sarebbe rivelata decisiva ai fini dell’escalation terroristica contro Israele: «Difendete Gaza con ogni mezzo», disse. Ed è stato preso in parola. Perché l’Iran dovrebbe dedicare tanta attenzione ad una minuscola striscia di terra se non avesse l’intenzione di farne un’enclave islamista nel cuore del Mediterraneo? Se l’obietti-

vo dovesse essere raggiunto, esso avrebbe uno sbocco nell’aria strategica più inquieta e cruciale della Terra, con la possibilità di condizionare, attraverso sistemi terroristici, la vita dei Paesi arabo-mediterranei e costituire una permanente minaccia per l’Europa.

A dire la verità, l’Unione europea sembra quantomeno disattenta di fronte alle mire iraniane e spesso e volentieri eccede in aperture di credito verso il regime dominato dal clero e ferreamente “presidiato” da Ahmadinejad, i cui miliziani stanno stringendo una morsa di terrore attorno ai cittadini, preludio dei “festeggiamenti” per il trentesimo anniversario della rivoluzione khomeinista. Evento che il presidente intende solennizzare ripresentandosi alle elezioni nella prossima primavera con il dichiarato scopo di ottenere finalmente la bomba atomica e di cancellare Israele dalla carta geografica. Intanto si esercita nel tentativo di fare sua Gaza appoggiando senza riserve il primo ministro palestinese, nonché padre-padrone di Hamas, Ismail Haniye il quale, non a caso, rifiuta ogni contatto con Fatah e l’Olp e

Nella foto, l’ayatollah Ali Khamenei, massima autorità religiosa e politica dell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad. Nei giorni scorsi, ha emanato un editto religioso (una fatwa) che garantisce la qualifica di martire dell’islam a chi muore combattendo a Gaza considera il presidente Abu Mazen (con il quale dovrebbe lealmente ed istituzionalmente collaborare) un suo nemico. Una bizzarria che nasconde un progetto: il distacco di Gaza dalla Cisgiordania per farne uno Stato islamico, sul modello, se si vuole, di quello tentato in Somalia. I vicini sono inquieti. In particolare la Giordania e la Siria. Per non parlare dell’Egitto il cui raìs si sta molto adoperan-

do perché la carneficina abbia fine. Ma, al momento, non sembra che i tentativi della diplomazia egiziana abbiano dato i frutti sperati. Occorrerebbe che Mubarak si schierasse apertamente non soltanto contro l’Iran, ma anche contro i nuovi satrapi di Gaza chiudendo definitivamente i tunnel “umanitari” e lanciando un ultimatum al primo ministro. Può farlo senza mettersi contro buona parte del suo Paese e del mondo arabo?

Affari di famiglia. Le strane aperture assai provinciali del “Tempo” e del “Giornale”

I valori dei Di Pietro più forti delle bombe Il direttore del Giornale, Mario Giordano, si sa non conosce mezze misure e la sua scelta supera gli altri quotidiani. L’apertura del suo giornale ha un titolo molto esplicito: «Di Pietro jr si dimette, ora tocca a Tonino», al quale ha affiancato l’editoriale e il richiamo del ritratto di Cristiano affidato alla sagace penna di Filippo Facci. Poi alle pagine due e tre una serie di articoli sulla saga della famiglia Di Pietro e sull’inchiesta e gli interrogatori del caso Romeo. Il Giornale dedica, poi, la tradizionale foto di taglio alla polemica scoppiata a Genova per il presepe della chiesa di

Nostra Signora della Provvidenza dove, in un primo momento, c’era anche una moschea. E della guerra in Medio Oriente? Di Israele? Di Gaza? C’è spazio, ma soltanto al centro della prima pagina e da pagina 6 a pagina 9. Anche il Corriere della Sera pur aprendo con il focus su Gaza ha riservato il taglio di prima pagina al figlio del leader dell’Italia dei Valori e le pagine due e tre. Foto grande di Cristiano, guarda un po’ al cellulare, affiancato al famoso papà intento a leggere. Da una parte la cronaca della giornata con l’ex pm che commenta sul suo blog: “il gesto

corretto” dell’amato figliolo, mentre a pagina tre l’inviato a Montenero di Bisaccia racconta il ”giorno più lungo” di Di Pietro jr che annuncia: «l’ho fatto per papà». E il leader della Lega, Umberto Bossi, in un’intervista dichiara: «Tonino? Penso alla sua sofferenza». Quando si dice la solidarietà paterna. Per avere notizie di Gaza bisogna arrivare al ”primo piano” di pagina dieci. Insomma i valori della famiglia Di Pietro su tutto. Anche sui missili e le bombe in Medio Oriente. (f.i.)


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Stampa&ideologie. Dalla parte degli israeliani solo quando sono vittime

La sinistra degli smemorati di Frano Insardà l copione è di quelli già visti. Israele è il protagonista che, per la stampa e l’ideologia di sinistra, passa dal ruolo di vittima a quello di carnefice a secondo dei casi. Ogni volta che il conflitto israelo-palestinese ha dei sussulti la teoria è sempre la stessa: come può un popolo come quello ebreo che ha tanto patito infliggere sofferenze? E quando qualcuno tenta di spiegare che lo Stato d’Israele ha diritto a difendersi dagli attacchi la risposta dei commentatori di sinistra è: i palestinesi sono dei poveracci che vivono in situazioni precarie, mentre gli israeliani hanno un’economia florida. Tutti sembrano ignorare la tesi esposta lunedì sul Corriere della Sera da Piero Ostellino secondo la quale gli israeliani hanno costretto i loro coloni ad abbandonare la Striscia di Gaza in cambio di un accordo che Hamas, invece, non ha rispettato, lanciando migliaia di razzi Qassam.

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Intanto la Striscia di Gaza si avvia a diventare quello che molti osservatori già chiamano l’Hamastan cui, con ignoranza e pressappochismo, negli anni scorsi molti leader europei, compresi alcuni politici italiani, hanno dato una mano credendo che la pace nella regione potesse davvero passare per il rinsavimento di un manipolo di terroristi. Nel frattempo, mentre le diplomazie occidentali si fregavano le mano per aver finalmente stabilito un rapporto con Hamas, l’Iran accoglieva centinaia di militanti delle Brigate al Kassam per addestrarli e rispedirli a Gaza; inviava numerosi consiglieri militari e strateghi del terrore nella Striscia; forniva nuovi e più potenti mortai da utilizzare contro Israele, oltre ai micidiali razzi Grad in grado di colpire un bersaglio a 40 km di distanza.

Dal 1993 gli stanziamenti finanziari dell’Iran a favore di Gaza sono saliti da trenta milioni di dollari a trecento milioni. Un impegno tutt’altro che umanitario, dal momento che i palestinesi di Gaza vivono sempre più miseramente e la loro classe dirigente è sempre più aggressiva. Quando nel 2002 gli israeliani sequestrarono la nave iraniana “Karina A” vi rinvennero cinquanta tonnellate di armi: erano destinate ad Hamas e ad altri gruppi terroristici dell’area.

Oggi, lievemente distaccatosi da Hezbollah, non più ritenuto strategicamente prioritario, perché in qualche modo, anche per l’intervento della Siria,“costituzionalizzatosi” nel nuovo contesto libanese, il regime iraniano punta molto su Gaza. L’obiettivo è di espandersi sulle rive del Mediterraneo. Se dovesse riuscirci, la guerra infinita mediorientale diventerebbe inevitabilmente totale.

L’Europa, di fronte a questo pericolo, non può continuare con i balletti nei quali si è finora esibita con scarso successo. È necessario scegliere da che parte stare. Chi invoca, giustamente, la soluzione politica per risolvere il conflitto israelo-palestinese, deve sapere che è proprio della politica individuare l’amico ed il nemico. Nella tormentata regione mediorientale non è difficile immaginare da che parte stare. Nonostante gli eccessi delle reazioni israeliane conseguenti le minacce di Hamas. Ma, come si sa, tutto si tiene. I palestinesi non c’entrano nulla: sono vittime del terrore che vive e si nasconde tra di essi che, se potessero, farebbero volentieri a meno delle “preoccupazioni” di Teheran per i loro destini. A Gaza, tutto vorrebbero tranne che diventare burattini nelle mani di torvi integralisti pronti a lanciare la “guerra santa” contro nuovi Satana annidati sulle rive del Mediterraneo.

vita normale. E mentre cadono missili sul sud d’Israele, tutti dovrebbero domandarsi a cosa porta il criminale attacco israeliano”. Anche Liberazione dà una lettura parziale e ideologica della tragedia mediorientale puntando su un altro aspetto: le elezioni di febbraio in Israele. Il quotidiano di Rifondazione comunista titola, infatti: “Carneficina elettorale” illustrando l’articolo con l’immagine di un ragazzino palestinese tra fuochi e macerie.Tutti gli articoli sono dedicati all’operazione militare “piombo fuso” e sulle vittime palestinesi, anche se all’interno si dice che “almeno sessanta razzi di tipo Grad e Qassam hanno raggiunto anche ieri il territorio israeliano”. Ed ancora “Un razzo da Gaza ha ucciso un manovale beduino. La seconda vittima tra la popolazione israeliana, di questa guerra”.

Un discorso a parte merita l’editoriale di Gad Lerner su Repubblica che, ribadendo una tesi più volte sostenuta, scrive: «Israele riesce a mettersi dalla parte del torto e del disonore pur avendo ragione nel denunciare la sofferenza delle sue contrade meridionali bombardate e, di più, la ferocia del regime imposto dagli scheicchi fondamentalisti alla popolazione di Gaza che tengono in ostaggio con la scusa di proteggerla». Il giudizio di Gad Lerner sul “suo” Israele in effetti è la maledizione stessa di questo popolo e conferma quell’orientamento della sinistra italiana che si schiera dalla parte degli israeliani quando li si ricorda come vittime delle persecuzioni razziali e di attentati, se reagiscono legittimamente ai continui attacchi, come in questi giorni, vengono invece aspramente criticati.

Gli ebrei vengono aspramente criticati quando reagiscono legittimamente agli attacchi come accade in questi giorni

Le prime pagine dei giornali di sinistra in edicola ieri confermano queste posizioni. Sia il manifesto che l’Unità illustrano le loro prime pagine con le foto di sguardi innocenti per illustrare la tragedia puntando il dito su Israele. “Gaza ci guarda” è il titolo di prima pagina del quotidiano diretto da Concita De Gregorio che nelle pagine interne ripropone immagini di palestinesi disperati e israeliani in assetto di guerra con l’immancabile ragazzino con kefia che scaglia la pietra. Il manifesto parla di “Attacco mirato” e nell’editoriale di Zvi Schuldiner si sostiene che “Gaza è un’enorme prigione controllata dagli israeliani e circa un milione e mezzo di palestinesi non sa più cosa sia una


politica

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Dipietrismi. Dopo il caso del figlio Cristiano l’ex pm deve affrontare la furia del suo deputato Barbato: «Partito in mano a brutte facce»

Ora chiamiamola Italia dei veleni di Angela Rossi

ROMA. Una situazione a dir poco imbarazzante con il partito che rischia di sfuggire dalle mani del suo leader, Antonio Di Pietro. Il momento che l’Italia dei valori sta attraversando, dopo i riflessi delle vicende giudiziarie campane che hanno colpito soprattutto il Pd, è difficilissimo. Quello che sembrava l’ultimo atto in ordine di tempo, le dimissioni da ogni incarico di partito di Cristiano Di Pietro, è in realtà solo la punta di un iceberg. Il movimento dell’ex pm è percorso da tensioni molto gravi, che per il momento sono culminate non solo nell’annuncio di autosospensione ma in un vero e proprio atto di accusa che il deputato campano Franco Barbato affida a un’in-

tervista in edicola oggi su Panorama e che le agenzie di ieri hanno anticipato: «O facciamo pulizia o me ne vado, mi sospendo dagli incarichi in Campania perché qui nel partito spuntano camorristi, strane facce, gente alla quale io nemmeno stringerei la mano», è il durissimo affondo del parlamentare.

Tenendo fede al suo modo di dire le cose senza mezzi termini Barbato ha scelto una linea di distanza da Di Pietro che si era già intravista all’indomani dell’esecutivo nazionale dell’Idv convocato per i fatti campani. Già allora infatti il deputato aveva dichiarato di non essere d’accordo con la linea im-

Le posizioni incoerenti del Pdl sul figlio di Di Pietro

Se solo l’avversario è obbligato a dimettersi e dimissioni non finiscono mai. O almeno: Cristiano Di Pietro rischia di vedersi imposta un’infinita marcia del gambero. Lasciata l’Italia dei valori, ora dovrà smetterla di fare il Consigliere provinciale ad Isernia. Poi magari gli verrà chiesto di autoinfliggersi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, come un malfattore recidivo. Poi magari l’esilio, o chissà. Forse c’è del vero in quel che ha detto Daniele Capezzone lunedì scorso, dopo l’annuncio che il figliol prodigo (di Tonino) era stato messo al bando: «Sembra la sceneggiata di ’O zappatore». Il portavoce di Forza Italia ha ovviamente intenzioni cruente, verso la dinastia dipietrista, e immagina che non ci sia atto di contrizione abbastanza duro da poter bilanciare le malefatte di famiglia. Ma la teatralità eccessiva, quella, è indiscutibile. Deriva dall’equivoco secondo cui l’Italia dei valori sarebbe la sola forza degna di rappresentare, nell’ordine, onestà, legalità, giustizia, onore. Un po’troppo. È fatale che quando poi uno, che ha il difetto di essere il figlio del capo, osa segnalare al telefono qualche amico, scoppi il finimondo.

L

Non si sa più in che forma portare l’agnello all’altare. Non lo sa nemmeno Di Pietro senior. La vicenda surreale non basta però a giustificare gli eccessi del Pdl, da quello di Capezzone alle promesse di Gasparri. Anche secondo il presidente dei senatori del Pdl la fuoriuscita dal partito non basta: «È farsesca. I Di Pietro non avranno tregua». Ma nel centrodestra non si è sempre difeso il pregiudizio d’innocenza fino alla condanna di terzo grado? E perché adesso bisognerebbe imporre a Cristiano l’autocastrazione per aver raccomandato qualcuno? E seppure tra lui e l’ex provveditore di Napoli Mautone fossero intercorsi altri scambi, e se ancora si scoprisse di peggio e di più, non dovrebbe valere sempre lo stesso discorso, vale a dire che nessuno può essere obbligato a dimettersi se non dopo che si è pronunciata la Cassazione? In questo strano Paese l’unica regola rispettata davvero costantemente è appunto l’esasperazione dei toni: vale per i magistrati, per i politici di destra (e Gasparri se non altro è uno che dice qualcosa, gli altri, quasi sempre, si consegnano a un’esistenza da fantasmi) e per quelli di sinistra. Nessuno difende davvero, per esempio, il principio di garanzia per chi è un semplice sospettato. (e.n.)

posta dal leader, il quale aveva deciso di ritirare i rappresentanti del suo partito da tutte le giunte della regione. Secondo Barbato laddove si stava lavorando bene si doveva continuare a farlo, valutando caso per caso le possibilità di dimettersi o continuare, e per questa sua linea di comportamento era già entrato in rotta di collisione con il leader.

In realtà nelle amministrazioni locali non si è verificato alcun esodo di dipietristi, ad eccezione del Comune e della Provincia di Napoli: nel resto della Campania molti rappresentanti dell’Idv non hanno presentato dimissioni e hanno continuato a sedere tranquillamente al loro posto, come a Caserta dove l’Idv conta un assessore comunale. In ogni caso l’affondo di ieri di Barbato, con la richiesta che si faccia chiarezza in maniera definitiva e concreta all’interno del partito, è deciso: «L’Idv corre il rischio di diventare il partito taxi su cui salgono quelli che vogliono rubare, arraffare, farsi i fatti propri. Io che sono il guardiano del dipietrismo in Campania dico che i conti non tornano. Ma le pare che quando riapre la Camera dovrò sedere a fianco del collega di partito Americo Porfidia, indagato per camorra dal brillante e coraggio-

«Rischiamo di diventare il rifugio di camorristi e ladri», dice il parlamentare napoletano dell’Idv, che avrebbe dovuto lanciare a giorni il progetto di trasformazione del movimento in lista civica nazionale so pubblico ministero che conduce le inchieste sui Casalesi? Rispetto a casi come questi le dimissioni di Cristiano Di Pietro sono una pagliuzza».

La tensione nell’Italia dei valori rischia di oltrepassare il livello di guardia, a maggior ragione in Campania. Le divergenze potrebbero riflettersi anche sull’organizzazione stessa del partito: era stato previsto per i primi giorni dell’anno il varo di un progetto innovativo, proposto proprio da Barbato: la trasformazione del movimento in una grande lista civica nazionale con la quale andare oltre l’attuale struttura. Il primo passo avrebbe dovuto compiersi con la nascita del centro studi Altra Campa-

nia. Il deputato “ribelle” aveva avanzato già un anno fa la proposta, che era fatta propria dallo stesso Antonio Di Pietro durante l’ultimo esecutivo nazionale del partito. Nelle intenzioni si dovrebbe creare un’organizzazione attraverso cui rivolgersi a un elettorato trasversale, in modo da rendere l’Italia dei valori una sorta di catalizzatore di istanze per ora legate all’aspetto locale.

Quasi una Lega alternativa a quella di Bossi, una variante che avrebbe potuto pescare in un bacino di utenza molto ampio e nel Sud Italia trovare quell’accoglienza impossibile da ottenere per il Carroccio, a causa dei pregiudizi antimeridionalisti. Lo spazio per il progetto dunque c’era: raccogliere umori e anime diverse tra loro, farsi portavoce di un malcontento e di quella rabbia diffusa verso la politica, in modo da

pescare consensi nell’elettorato di sinistra che considera il Pd un partito troppo moderato. Le prime mosse verso la creazione di una lista civica nazionale in realtà hanno preso l’avvio addirittura nel 2003, quando proprio lo stesso Barbato fondò un governo civico insieme al consigliere regionale del Lazio Roberto Alagna. Ne nacque un network attraverso cui furono messe in rete liste civiche di varie regioni, dalla siciliana Primavera nazionale a quella capeggiata da Riccardo Illy a Trieste. Lo sbocco ulteriore arrivò nel 2007, quando il progetto fu presentato a Roma insieme ad Oliviero Beha, Pancho Pardi ed Elio Veltri. Appena dopo Capodanno, Barbato che insieme ad Alagna rivendica il copyright di tale iniziativa, sarebbe partito con Altra Campania, in modo da capitalizzare il momento che il Pd attraversa a livello giudiziario nella regione governata da Bassolino. Oggi forse il progetto non è in cima alle preoccupazioni dei rappresentanti dell’Italia dei valori, che prima di veleggiare verso nuovi approdi dovranno fare i conti al proprio interno.


economia

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in breve

ROMA. Per Capodanno il pieno possesso del marchio Alitalia. Entro l’Epifania l’arrivo del partner straniero, la comunicazione dell’accordo con Air France, che porterà in dono 350 milioni di euro cash e un network mondiale che collega 187 Paesi e trasporta circa 75 milioni di passeggeri all’anno. Per la Cai di Roberto Colaninno e di Rocco Sabelli è corsa contro il tempo per risolvere – prima del via ufficiale previsto per il 13 gennaio – i tanti nodi ancora aperti. Ieri l’assemblea dei soci presieduta dal patron della Piaggio ha prima sancito sancire il cambio del nome e la ragione sociale in Alitalia, quindi ha ratificato l’ingresso nel consiglio d’amministrazione dell’imprenditore napoletano Ninni Carbonelli D’Angelo. Il titolare del marchio Kisene ha sottoscritto una del 4,1 per cento pari a un investimento di 35 milioni di euro. Più che su quello di Carbonelli D’Angelo, tutti gli occhi sono puntati all’iingresso nel capitale della società del partner strategico: un colosso del volo che con una quota intorno il 20 per cento dovrebbe garantire il grosso del business ai soci italiani: l’acquisto del traffico in code sharing in partenza dalle rotte italiane verso destinazioni internazionali. Come la vecchia Alitalia anche la nuova dovrebbe muoversi con Air France e nell’ambito dell’alleanza Sky team. L’accordo dovrebbe essere comunicato entro la Befana, non appena saranno chiuse le poche questioni tecnico-amministrative ancora aperte. A quanto si sa i legali dei due gruppi avrebbero lavorato anche durante le feste per consegnare dopo il Capodanno all’Ad di Alitalia, Rocco Sabelli, e a quello di Air France, Jean-Cyrill Spinetta, una bozza dell’accordo. Bozza che i due Ceo vogliono e devono presentare in via definitiva ai rispettivi consigli d’amministrazione nei primi giorni di gennaio. A quanto si sa buona parte dei dettagli sono stati già definiti, anche perché dal punto di vista commerciale aiuta non poco il vecchio accordo di code sharing tra la vecchia gestione della Magliana e il vettore francese. Quello che di fatto vede Qui accanto, il presidente della nuova Alitalia, Roberto Colaninno, e l’amministratore delegato, Rocco Sabelli. La prossima settimana i due manager dovrebbero chiudere e comunicare ai soci l’accordo di partnership con Air France

Appalti, Rutelli: «Romeo finge confidenza con me»

Verso il decollo. Entro l’Epifania sarà comunicato l’accordo con il vettore francese

Alitalia, la Befana porta in dote Air France di Francesco Pacifico classificati con gli stessi codici orari gli aeromobili delle compagnie italiana e transalpina. Più complesso il discorso su come remunerare il traffico comune tra le due compagnie. Il vecchio accordo che fu stilato nel 2003 tra l’allora Ad della Magliana Pier Francesco Mengozzi e Spinetta – quello basato sullo schema del virtual company e che metteva assieme costi e ricavi – è diventato inapplicabile perché nel calcolo dovrebbero rientrare non soltanto

i voli tra l’Italia e la Francia, ma anche quelli tra l’Italia e l’Olanda. Così si guarda a un meccanismo che calcoli meglio i volumi di traffico tra i tre diversi Paesi europei.

Nessuna difficoltà anche sulla governance, nodo che avrebbe reso più complesso un accordo con Lufthansa. Se i tedeschi avessero chiesto in un primo tempo un figura manageriale scelta direttamente dai vertici del vettore tedesco. A coordina-

La compagnia transalpina dovrebbe entrare nel capitale con 350 milioni di euro. Nuovi timori sul futuro di Malpensa mentre Fantozzi avverte i creditori: «Non ci sono attivi sufficienti per tutti» re l’alleanza tra Alitalia e Air Francia sarà un account manager, che di anno in anno sarà nominato dall’uno o dall’altro socio. Ma se l’accordo con il partner straniero va avanti a marce forzate, Colaninno e Sabelli devono chiudere prima del 13 gennaio fronti non meno ardui. Intanto ci sono gli ultimi cascami delle

querelle sindacali, innanzitutto sul versante dei piloti. A inizio di gennaio riprenderanno i tavoli, che ieri hanno visto interessati i rappresentanti dei lavoratori di terra. Se per questa categoria è in corso un braccio di ferro con l’azienda sui servizi da dare in outsorcing, i piloti vogliono monitorare che siano rispettate le clausole annunciate da Cai al tavolo di Palazzo Chigi. Fronte non meno impegnativo quello con gli enti locali. La regione Lombardia è su tutte le furie dopo aver scoperto che a Malpensa resterà soltanto un volo internazionale. L’assessore Raffaele Cattaneo ha chiesto un tavolo tecnico, anche perché lo scalo vede ridurre le rotte da 200 a 40. Cai avrebbe già replicato di voler un ridimensionamento di Linate. Non meno grattacapi li ha il liquidatore della vecchia Alitalia – la bad company –, Augusto Fantozzi. L’ex ministro ha confermato in un’intervista all’Espresso che «gli attivi non basteranno a pagare tutti i passivi. In totale ci sono 3,2 miliardi di passivita, e gli asset di Alitalia non sono tantissimi. Oltre a quello che incassiamo da Cai, c’è quello che incasserò da cargo, manutenzione, i call center Alicos». Circa 700 milioni di euro nell’ipotesi migliore.

«Mi sembra che le conversazioni di cui mi è stata data lettura sino piuttosto un modo per accreditare con gli interlocutori una confidenza arbitraria». Francesco Rutelli ha commentato così l’ascolto di una conversazione telefonica intercettata tra l’ex assessore suicida Nugnes e l’imprenditore Romeo nell’aprile 2007 in cui Romeo fa balenare all’interlocutore, che appare aspirare a ruoli politici più di spicco in altre conversazioni, la possibilità di incontrare Rutelli. «Prendo atto che Romeo assuma di aver ricevuto un invito da me personalmente. Era l’epoca del congresso nazionale della Margherita. Escludo di aver formulato un invito personalmente a lui, perché si trattava di inviti standardizzati indirizzati a molte migliaia di persone».

Immigrazione, al via i primi rimpatri coatti Sono partiti ieri i primi rimpatri coatti degli extracomunitari giunti a Lampedusa nei giorni scorsi. Lo si è appreso dalla Questura di Agrigento. Le operazioni hanno preso l’avvio proprio ieri sera con 38 egiziani imbarcati su un volo che li ha riportati al Cairo. Era stato lo stesso ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ad annunciare due giorni fa il rimpatrio immediato degli irregolari di nazionalità accertata. Nella mattinada di ieri hanno invece lasciato Lampedusa circa 90 persone imbarcate sul traghetto di linea per Porto Empedocle.

Gruppo Tirrenia, stop i prossimi 27 e 28 gennaio Sciopero nazionale di 48 ore, per il 27 e 28 gennaio prossimi, dei lavoratori del gruppo Tirrenia che manifesteranno in contemporanea a Roma. Previsto il blocco totale dei collegamenti con le isole maggiori e minori. È la risposta decisa da Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uilt, che sul dossier Tirrenia accusano il governo di «immobilismo», ma anche di «un’accelerazione incomprensibile del processo di privatizzazione senza una preventiva verifica con le organizzazioni sindacali» su regole e metodi.


politica

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Illusioni. Finora il bipartitismo non ha sortito effetti positivi né sul piano dell’azione di governo né sul terreno dell’attività legislativa

2009, tornerà la politica? Sono già falliti, dopo pochi mesi, i due “partiti omnibus” Ora il sistema italiano è di nuovo bloccato di Renzo Foa segue dalla prima Ma sappiamo soprattutto che ora, nel passaggio tra il 2008 e il 2009, benché l’esecutivo guidato da Berlusconi appaia forte, è il sistema politico a mostrare non più solo debolezza, ma anche vistose crepe. Che al centro della crisi c’è “l’impossibile condizione” del Partito democratico. E che questa è la prima domanda sugli scenari politici per l’anno che si apre.

Di questa “impossibile condizione” è stato testimonianza, proprio qualche giorno fa, il modo in cui un quotidiano come La Repubblica ha presentato alcune notizie mescolando quelle che riguardano le inchieste della magistratura e quelle più strettamente politiche. Così ci è stato spiegato, nelle stesse righe, prima che il

sugli appalti a Napoli, «è stato interrogato per cinque ore respingendo tutte le accuse»; poi ancora che il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro ha proclamato, a proposito di alcune intercettazioni telefoniche pubblicate da giornali, che «mio figlio ha sbagliato»; e infine ci è stato spiegato che «in serata si è dimesso il presidente della Regione Sardegna Renato Soru». In altre parole un evento strettamente politico, come la sfida lanciata dall’ex patron (o, se si vuole, ancora patron) di Tiscali è stato usato come corollario per segnalare l’ennesima convulsa giornata attraversata dall’opposizione di centrosinistra ed è stato aggiunto, senza preoccuparsi di sottolineare le necessarie distinzioni, ad altri eventi classificabili sotto la voce “cronaca giudiziaria”. Confusione? Incu-

Benché l’esecutivo di Berlusconi appaia forte, è il modello politico a mostrare non più solo debolezza, ma anche vistose crepe. E al centro della crisi c’è anche “l’impossibile condizione” del Pd ria? Direi di no. Semplicemente ormai tutto ciò che riguarda il Pd (ormai, con il suo alleato dell’Idv) viene considerato da un giornale più che amico, direi da un giornale sponsor come può essere considerato Repubblica, in un unico modo, sia che si tratti dell’interrogatorio di un inquisito sia che si tratti di una mossa strettamente politica. Non è certamente un buon segno.

giudice per le indagini preliminari «ha firmato l’ordine di scarcerazione» per il sindaco (dimissionario) di Pescara e segretario del Pd abruzzese (dimissionario anche da questa carica) Luciano D’Alfonso; poi che l’imprenditore Alfredo Romeo, nel quadro dell’inchiesta

Della possibile seconda Tangentopoli si è già molto parlato. Sono state ampiamente sottolineate le affinità tra la situazione di oggi e quella della stagione 1992-94, a cominciare dal logoramento del rapporto tra il mondo politico e l’insieme della pubblica opinione. Si è discusso anche molto delle differenze, in primo luogo della differenza costituita dal fatto che in questo momento è maggiormente colpita l’area che proviene dal filone Pci-Pds-Ds che invece fu direttamente favorito da “mani pulite”. Probabilmente questo filone se non

ci fosse stata l’implosione, in parte autonoma in parte indotta dalla pressione della magistratura, dei cinque partiti (la Dc, il Psi, il Psdi, il Pri e il Pli) che avevano composto fino al 1993 la maggioranza, avrebbe oggi una forma completamente diversa da quella che ha. Avrebbe dovuto davvero cambiare nel profondo se avesse dovuto fare davvero fino in fondo i conti con le culture più forti del cattolicesimo liberale o del riformismo socialista, se “lo sferragliar di manette” non avesse risolto il problema dei conti che doveva fare con la modernità. Invece ha proceduto facilitato dai vuoti che si sono via via aperti, vincendo due volte le elezioni dopo il 1994, grazie solo però alla candidatura-guida del moderato cattolico Romano Prodi, perdendole invece tutte le volte che si è presentato proponendo direttamente o indirettamente altri leader o altri candidati premier come sono stati Achille Occhetto, Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Non è riuscito cioè ad imporre una propria egemonia a livello nazionale, mentre per uno strano gioco del destino si è impadronito qua e là per l’Italia della quasi totalità del potere locale. Quel potere locale dove oggi si stanno dipanando i fili della possibile seconda Tangentopoli. E qui c’è comunque una lezione da annotare e di cui tener conto: nelle regioni, nelle province e nei comuni le facoltà di controllo delle assemblee elettive sono quasi inconsistenti rispetto ai poteri esercitati dai governatori, dai presidenti e dai sindaci. Il che non ha certo favorito, nell’ultimo quindicennio, la qualità dell’amministrazione a livello locale e soprattutto non l’ha posta al riparo dai guasti del malgoverno (se non vogliamo già tornare a parlare di guasti di un sistema di corruzione). Con una domanda conseguente: non è il presidenzialismo ad essere un modello debole ed esposto a degenerazioni?

Si è già molto parlato anche degli altri malanni del Partito democratico, ad un anno e mezzo dalla discesa in campo

A fianco, in senso orario: Silvio Berlusconi, Luciano D’Alfonso, Antonio Di Pietro e Walter Veltroni. In basso, Renato Soru (a sinistra) e Alfredo Romeo (a destra)

di Veltroni con il famoso discorso del Lingotto. Ora la mia impressione – l’ho già scritto e mi dispiace dovermi ripetere – è che è ingiusto scaricare sul leader l’intera responsabilità di un fallimento e che in ogni modo il Pd si sarebbe trovato nella condizione in cui si trova ora. Troppo vistoso è stato il ritardo con cui è partito, troppo anchilosate sono le sue culture di riferimento, troppo logoro il suo personale politico per poter pensare che sarebbe stato possibile un destino più roseo. Non avrebbe certo avuto effetti diversi una guida di Romano Prodi o di Enrico Letta o di Rosy Bindi. Il problema però è che oggi il Pd e il sistema mediatico che lo sostiene (a cominciare dalla Repubblica) paiono convinti che il problema vero sia solo un cambio di leadership e non sia invece rappresentato da quell’insieme di condizioni in cui l’immagine di una nuova leadership è solo una parte, mentre la parte più importante è costituita dalle in-

novazioni programmatiche, dal linguaggio e dalla credibilità delle intenzioni. È un dato che va annotato in questi giorni di Natale, durante i quali è emersa la sfida di Renato Soru: cioè del presidente sardo che ha alle spalle una lunga storia di imprenditore di successo e una breve storia di dirigente politico e che ha deciso di presentarsi nel 2009 come l’unico possibile leader dall’immagine vincente del Partito democratico, se come tutto lascia intendere dovesse ottenere di nuovo un mandato popolare alle elezioni anticipate che si svolgeranno tra pochi mesi. Un po’ come Veltroni nel 2001, quando fu eletto sindaco di Roma, Soru potrebbe assumere il ruolo del leader di ricambio, l’unico in grado di vincere, a fronte di quelli sconfitti di oggi che vengono tutti dalla storia del PciPds-Ds o di quelli che vengono da altri ceppi e che sono già logorati come purtroppo è il caso del giovane Enrico Letta o è il caso del meno giovane France-


politica

La vera questione che si affaccia con l’arrivo del nuovo anno è: comincerà a delinearsi un’alternativa alla leadership dell’attuale presidente del Consiglio? sco Rutelli.

Se “l’impossibile condizione” del Partito democratico è il fattore dominante della crisi politica italiana – oltretutto l’attenzione dei media è tutta concentrata lì – e se la concorrenzialità dell’Italia dei valori di Di Pietro è stata la novità del 2008 che si sta chiudendo, non bisogna certo trascurare gli altri rilevanti fattori di logoramento. A questo proposito resto convinto che il principale di questi fattori sia costituito da una parola-chiave negativa usata però troppo spesso con una valenza positiva. Cioè la “semplificazione” che avrebbe introdotto il voto dello scorso aprile, favorendo l’esistenza di due rilevanti gruppi parlamentari

(quello del Pdl e quello del Pd) e marginalizzando tutti gli altri. In chiave positiva è tornato a parlarne in questi giorni anche una persona misurata e prudente come è il presidente del Senato Renato Schifani. Confesso che per me è al momento difficile trovare effetti positivi della “semplificazione”. Non ci sono stati certamente sul piano dell’azione di governo. Non sono stati particolarmente visibili sul terreno dell’attività legislativa. Non sembra neppure che ci sia una grande e definitiva chiarezza nel rapporto tra gli alleati della maggioranza, cioè tra Pdl e Lega. Ma, soprattutto, c’è un punto su cui le leadership del centrodestra stentano a dare delle risposte compiute: a differenza di quel che accadde tra il 2001 e il 2006 non sembra che ci sia alcuna reale ambizione per quello che riguarda, se non una rivoluzione, almeno una trasformazione liberale della società e delle istituzioni. Nono-

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stante tutte le parole finora consumate sulla “legislatura costituente” e da ultimo sul possibile presidenzialismo, non si vedono grandi o trainanti impulsi riformatori. La stessa illusione della virtuosità del passaggio dal bipolarismo al bipartitismo si sta consumando in un quadro di paralisi sempre più generalizzato. Non solo di paralisi, ma anche di incertezza se questa stretta dovesse concludersi con la consumazione del Pd e con la nascita come semplice atto notarile del Popolo delle libertà, lasciando un quadro politico davvero semplificato: un leader riconosciuto da una buona maggioranza degli italiani, cioè Silvio Berlusconi, ma nessun partito fortemente egemone, nè partiti omnibus come Pdl e Pd, nè ancora grandi partiti identitari come potrebbero essere la Lega o l’Udc.

La mancanza di forti soggetti identitari è molto probabil-

mente il principale fattore di grande debolezza del sistema politico. Si tratta di un sistema che è fondato, come si ricordava prima, essenzialmente sulla figura di un leader carismatico come Berlusconi, che oltretutto non ha al momento alternative né credibili competitori: la fragilità consiste in questa riduzione della politica al massimo protagonista della stagione dell’anti-politica, il quale paradossalmente è stato più forte tra il 2001 e il 2006, quando guidava una coalizione composita e articolata, mentre in questa legislatura la sua azione di governo già appare meno efficace. Restano per il 2009 tutte le domande a cui il 2008 non ha saputo dare risposta. La prima riguarda il Pdl: cosa sarà? Riusciranno ad amalgamarsi davvero le anime di Forza Italia e di Alleanza nazionale? Prenderà corpo una forza politica o il tutto continuerà ad essere ridotto alla forma di gruppi parlamentari? La seconda riguarda il Partito democratico: reggerà e per quanto alla bufera in cui si trova, scoprendo giorno dopo giorno vecchie verità sul rapporto tra giustizia e politica, sui buchi della sua storia, sulla sua debolezza culturale? Quanto resisterà alla concorrenza del giustizialismo di Di Pietro da una parte e, dall’altra, del moderatismo dell’Udc che graffia e incide sulla sua anima cattolica? E a sua volta l’Udc, all’appuntamento delle elezioni europee, riuscirà a presentarsi come un centro concorrenziale, come l’inizio di un’alternativa alla mancanza di solidità del berlusconismo, inteso come un leader solo al comando senza però un vero partito alle spalle? Per non parlare poi della Lega, la quale questa volta si gioca davvero tutte le carte per imporre la sua visione del federalismo non a colpi di maggioranza, ma attraverso il dialogo. Ci riuscirà o no questa volta? Bastano solo queste domande a rivelare che il bipartitismo in Italia è ancora un assetto che non c’è e che probabilmente non ci sarà, perché non saranno né il Pdl né il Pd due soggetti capaci di rispondere alla profondità della crisi italiana ed a rassicurare un’opinione pubblica di nuovo stanca e spaventata. Ma la vera questione che si affaccia con l’arrivo del 2009 potrebbe essere un’altra: con lo sfilacciamento provocato dalla possibile seconda Tangentopoli, con la crisi del Pd, con le difficoltà del Pdl ridotto ad “un leader solo al comando”, con il bisogno di un dialogo costituente, con una profonda crisi sociale, ci sarà l’inizio della risposta della politica alla lunga e interminabile stagione in cui ha continuato a prevalere l’anti-politica? Comincerà cioè a delinearsi – questa è la domanda delle domande – un’alternativa alla leadership di Silvio Berlusconi?


il personaggio

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Polemiche. Un suo articolo sulla “Stampa” parla di democrazia svuotata e nel Pdl c’è già chi teme una “fronda dei presidenti”

Anche Pera non ci sta Dopo le critiche di Fini al cesarismo arriva un altro affondo contro il Cavaliere di Riccardo Paradisi in corso una degenerazione del sistema politico italiano», è in atto un «sequestro del Parlamento da parte del governo». A lanciare l’allarme sul rischio per la democrazia italiana sulle colonne del quotidiano La Stampa di martedì è addirittura Marcello Pera: esponente del Pdl e soprattutto ex presidente del Senato.

«È

Dichiarazioni che hanno un peso particolare e rappresentano un caso politico anche per la loro durezza: «È in corso da tempo – scrive l’ex presidente del Senato – una crisi degenerativa che ha cambiato il nostro sistema, ne ha eroso la natura

tivo ultradecisionista, seppure in forma più sfumata, erano venute nei giorni scorsi anche dal presidente della Camera Gianfranco Fini: «Dal ’94 tutti abbiamo fatto le riforme in modo non coordinato, abbiamo dato vita a un presidenzialismo spurio, senza capire che il presidenzialismo ha bisogno di un Parlamento forte. Negli Stati Uniti il congresso ha cambiato l’80% del piano del Presidente Bush, a conferma che il presidenzialismo funziona quando c’è un Parlamento forte». Non esiste dunque solo un clamoroso caso Pera, esiste una continuità di critiche che all’interno del centrodestra si appuntano sul progressivo avvitamento decisionista del governo

«Berlusconi fino a un certo punto è stato la salvezza della democrazia. Ora il sistema che ha creato, a immagine di un consiglio d’amministrazione, si è trasformato in un rischio per il pluralismo» democratica, lo ha lasciato in sospeso e ora lo espone persino ad avventure come quella del federalismo». Le ragioni di questa deriva, secondo Pera, sono da un lato «il sequestro della rappresentanza parlamentare», dovuto a una legge elettorale in cui il deputato, una volta eletto, «ha perduto qualunque interesse al suo territorio di riferimento e il cittadino elettore non ha avuto più suoi rappresentanti», dall’altro «il sequestro del Parlamento, diventato una propaggine esterna del presidente del Consiglio». E «Se per caso questa non risulta maneggevole – incalza Pera – ecco nascere la richiesta di riforme». Insomma il Parlamento, secondo l’esponente del Pdl, sarebbe ormai ridotto a una funzione meramente notarile: le Camere si limiterebbero a mettere il timbro su decisioni già prese e la flebile voce di un opposizione in piena crisi politica sarebbe appena funzionale a dare una legittimità a questo progressivo svuotamento della democrazia. Un’analisi grave appunto che però non giunge come un fulmine a ciel sereno sul dibattito politico italiano. Le stesse critiche di Pera, rivolte a un esecu-

in carica e del suo leader. Paolo Guzzanti, deputato del Pdl e ex presidente della Commissione Mitrokhin, forse ha il diritto alla primogenitura delle analisi che, con toni diversi, Pera e Fini hanno fatto in questi giorni. «Mi fa piacere – dice Guzzanti a liberal – che anche l’ex presidente del Senato confermi quello che io, per primo nel centrodestra, ho scritto e urlato lo scorso ottobre. È vero: la nostra è una democrazia ad altissimo rischio, abbiamo un presidenzialismo di fatto che non è previsto nella costituzione scritta ma è entrato nella costituzione reale, pratica del Paese».

Tutto ha inizio, secondo Guzzanti, nel 2001 «quando l’attuale presidente del Consiglio scrisse sulla scheda per le elezioni politiche: “Berlusconi presidente”. Io lo approvai, anche se ricordo che Cossiga segnalò la gravità di quel fatto non solo simbolico. Oggi accade che questo governo, come e peggio di

un presidenzialismo compiuto, ha espulso tutti gli elementi di disturbo dal circuito decisionale. Casini è fuori dalla maggioranza, Fini è depotenziato, il suo partito annesso al Pdl. Berlusconi, che era stato costretto nella sua precedente legislatura a un atto di discontinuità, adesso ha un governo che risponde come un guanto alla sua mano. È un consiglio d’amministrazione che fa quello che dice lui».

Pensare al presidenzialismo in questa situazione per Guzzanti è un errore: «Il parlamento non ha il peso per bilanciare un potere dell’esecutivo ancora più forte dell’attuale. È piuttosto un’ assemblea di nominati, me compreso, che non esercita sul governo il minimo controllo né agisce la minima iniziativa. Il parlamento è un impiegato del governo». Ma Guzzanti tiene a precisare che il problema non è Berlusconi, la sua persona – «Dire, come fa Di Pietro, che il Cavaliere è come Hitler o Videla è una follia» – piuttosto il sistema che ha creato. Un sistema – ragiona Guzzanti – che va benissimo per lui ma che non va bene per il Paese». La deriva peronista c’è secondo Guzzanti. «Dopo le mie critiche – racconta Guzzanti – ho subìto la reazione dei descamisadi berlusconiani spiritati che non sono entrati nel merito delle mie critiche ma mi hanno accusato di tradimento e altre amenità varie». Ma soprattutto è il culto della personalità che è stato costruito intorno a Berlusconi a preoccupare Guzzanti. «Nel corso della legislatura 2001-2006 fummo convocati

Un’immagine dell’ex presidente del Senato Marcello Pera. Sotto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi

ad un assemblea di Forza Italia. Io pensavo a un congresso ed ero contento: finalmente si può dire la propria. Invece era una celebrazione del capo: corpo di ballo, colombe che volavano, il leader circondato da guardie del corpo che facevano quadrato, come pretoriani, intorno alla sua figura, isolandolo dai dirigenti e dai suoi rappresentanti. Ecco in quel momento mi accorsi che eravamo nella fase due del berlusconismo. La peggiore». Sì, perché secondo Guzzanti «il primo Berlusconi ha avuto una funzione straordinaria, ha costruito una destra di governo con le sue mani, ha sconfitto una sinistra arrogante e perico-


il personaggio

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Quando il centrodestra non era ancora il Pdl

La nostalgia di Marcello di Giancristiano Desiderio arcello Pera, senatore del Popolo della Libertà, è il maggior critico dell’idea presidenzialista del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Lo è diventato ieri con un articolo su La Stampa. Prima di Natale il capo del governo ha esposto un’idea semplice che ha in testa: nei fatti della realtà politica italiana esiste già la “repubblica presidenziale” quindi il Parlamento non deve far altro che realizzare il presidenzialismo anche di diritto. A questa impostazione del presidente del Consiglio o, meglio, a chi si meraviglia di questa tipologia di politica riformatrice il senatore Pera risponde così: «Chi si stupisce non è stato attento a ciò che è accaduto. È in corso da tempo una crisi degenerativa che ha cambiato il nostro sistema, ne ha eroso la natura democratica, lo ha lasciato in sospeso, e ora lo espone persino ad avventure. Il federalismo, che darà un colpo d’accetta al bilancio statale e di martello all’unità d’Italia, sarà l’ultimo episodio».

M

ha il merito di dirle con la sua solita didattica chiarezza. Ma ciò che rende l’intervento dell’ex presidente di Palazzo Madama interessante è, da un lato, il disincanto sulle riforme proposte (federalismo, presidenzialismo) poiché sono effetto della degenerazione democratica e non un rimedio, e dall’altro lato, la nostalgia per quel tempo in cui il centrodestra non era ancora il Pdl. Si chiede Pera: «La nostra Costituzione è ancora un patto che lega gli italiani? È ancora uno strumento efficiente e adeguato?». E, sconsolato, aggiunge: «C’è

Un tempo l’obiettivo comune era la politica dell’alternanza. Oggi, se non si ha un buon sistema politico, non si avrà né una legge elettorale decente né una riforma istituzionale efficiente

Secondo Pera, le camere, i cui componenti son tutti dei nominati, si limiterebbero ormai a una funzione puramente notarile. Mentre andrebbe riaffermata la centralità del Parlamento losa. Berlusconi fino a un certo punto è stato la salvezza della democrazia. Il guaio è che adesso il sistema che ha creato si è trasformato in un rischio per la democrazia».

E così Guzzanti annuncia che il primo atto che farà dopo la pausa natalizia sarà quello di presentare un disegno di legge per rendere le primarie obbligatorie in tutti i partiti. «Va ripristinata la prassi democratica, serve una rivoluzione parlamentarista. Se c’è un forte potere nell’esecutivo ce ne deve anche essere uno nel legislativo. Del resto questa maggioranza ha oggi un ampio consenso, un tempo di legislatura ancora lungo, se non pensa ora a riformare un sistema politico borderline quando pensa di farlo?» Guzzanti cerca alleati nel centrodestra per questa battaglia. E spera che dietro la sortita di Pera esista un progetto, una prospettiva, non si tratti

di un semplice sfogo. «Spero che l’ex presidente del Senato abbia un disegno. Servono elementi di rottura di un fronte liberale che ha bisogno di una scossa politica». Ma se Guzzanti pensa alla possibilità di una seconda rivoluzione liberale dentro l’area politica maggioritaria del Paese c’è invece chi, all’interno del Pdl, liquida le riflessioni di Pera come dei riflessi condizionati dalla mentalità istituzionalista che muoverebbe anche le dichiarazioni di Fini. Insomma secondo questa lettura, che circola insistentemente all’interno del Pdl, il partito dei presidenti di Camera e Senato tornerebbe a farsi sentire proprio in occasione di un’annunciata stagione di riforme. La cui possibilità di successo dipenderebbe da un esecutivo forte in grado di tracciare un’agenda politica e di rispettarne le scadenze. Il presidenzialismo, in particolare, potrebbe rappre-

sentare un bilanciamento al federalismo. Ma qual’è il confine tra capacità decisionale e deriva decisionista? Paolo Pombeni, politologo dell’università di Bologna, ricorda che questa è una vecchia disputa. Che risale ai tempi di Gladstone. «L’evoluzione dei sistemi parlamentari è andata nella direzione di una sempre maggiore potere decisionale del governo. Del resto i governi nascono ormai da elezioni dirette, non da maggioranze parlamentari. Certo quando si ha un parlamento nominato dai partiti la capacità del Parlamento diventa molto relativa. Ma è anche vero che la preferenza è stato anche un grande strumento di corruzione».

La soluzione per Pombeni non è nel marchingegno elettorale o istituzionale che si può escogitare ma nella coscienza politica del Paese. Ormai sopita: «Si sono disseccati gli ambiti di dibattito pubblico fuori dal parlamento. Le grandi riviste politiche degli anni ’50 e ’60, dove si sono formate intere generazioni di attori politici, non esistono più.Tutto è talk show».

Adesso il nostro articolo dovrebbe proseguire spiegando in cosa consiste quella che Pera chiama la «crisi degenerativa» e invece ci fermiamo qua perché sono cose che dovrebbero essere abbastanza note: legge elettorale illiberale (definita «una porcata» dal suo stesso padre, Roberto Calderoli, attuale ministro semplificatore) che consente alle segreterie dei partiti di “nominare” il Parlamento, che espropria di fatto la libertà di scelta degli elettori, che trasforma il Parlamento in un club governativo e scolla ulteriormente il Palazzo dal Paese. Tutte queste cose sono abbastanza note, ma Pera ha il merito di dirle e non tacerle e, soprattutto,

stato un tempo in cui, soprattutto nel centrodestra, queste domande erano all’ordine del giorno». Oggi non più, oggi non si usa più fare buone domande.

La difficoltà nella quale da tanto tempo ci muoviamo come in un labirinto è più o meno questa: si chiede questa o quella legge elettorale e si vuole questa o quella riforma istituzionale per ottenere un buon sistema politico, ma il problema è da capovolgersi: se non si ha o, meglio, non si è un buon sistema politico non si avrà né una legge elettorale decente né una riforma istituzionale efficiente. C’è stato un tempo in cui il centrodestra aveva maturato una critica storica, politica e istituzionale della Costituzione e, da parte sua, la sinistra, difendeva il sistema di cui si sentiva erede. Da parti opposte si lavorava, forse, ad un obiettivo comune: la “democrazia dell’alternanza”. Oggi il Pdl è una corte e il Pd è un cortile e la democrazia è in vacanza.


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il paginone L’ULTIMA INTERVISTA INEDITA DI BUSH

Interrogato dal presidente dell’American Enterprise Institute, Christopher De Muth ha tracciato un vero e proprio bilancio dei suoi anni alla Casa Bianca

Ho due consig

Anche se oggi lo Stato interviene nell’eco La sicurezza e la pace del mondo sareb Signor presidente, che cos’ha in testa stamattina? Innanzitutto, grazie di essere il leader che sei e grazie all’American Enterprise Institute per il livello culturale del suo lavoro. Gli uomini politici hanno bisogno del sostegno del pensiero filosofico, quindi apprezzo tutto quello che fate. Ho pensato di dover condividere qualche riflessione sulla presidenza e sono contento di rispondere alle tue domande, anche di politica estera. In primo luogo, ritengo che per prendere buone decisioni e avere una Casa Bianca che funzioni bene, il presidente abbia bisogno di esprimere un insieme di principi dai quali non deve sviare, che siano, in altre parole, inviolabili, come l’universalità della libertà. Questo è il cuore della mia politica estera, un caposaldo della quale è la mia ferma convinzione che la libertà sia universale, e che si addica ai metodisti come ai musulmani, agli uomini e alle donne. Sono appena tornato da un Congresso di donne afgane, e credo che abbiano il diritto di essere libere esattamente come le

donne americane. Secondo, credo nella saggezza collettiva degli americani. Penso che dovremmo avere fiducia negli individui e nelle decisioni che prendono per le loro famiglie; c’è sempre una frizione tra il governo – che potrebbe spendere meglio il denaro – e le persone, e questa tensione è stata alla base della mia politica di taglio delle tasse. I benefici della riduzione delle imposte sono stati oscurati dalla recente crisi economica, non c’è dubbio, ma quando alla fine si guarderà indietro se il taglio sia stato efficace o meno, sarà difficile contestare 52 mesi di ininterrotta crescita dei posti di lavoro come risultato di tale politica. Dunque la mia speranza è che quando la crisi passerà – e passerà – le persone continueranno a scrivere e ad appoggiare una politica di riduzione delle imposte. Anche la mia politica sociale è stata tutta improntata a consentire alle persone di prendere decisioni per se stessi e un tentativo di creare un mercato per la politica sanitaria individuale. Io sono stato un fermo sostenitore del mercato. Questo potrebbe sembrare contraddire alcune mie recenti decisioni, ma credo fortemente nell’idea che il mercato rappresenti davvero una società libera, perché, in fin dei conti, le persone producono beni e servizi in base alla

Il presidente dell’American Enterprise Institute Christopher De Muth domanda degli individui. Ricordo quando andai in Cina perché mio padre era inviato e tutti indossavano gli stessi abiti – non esisteva la domanda interna – e poi ci sono tornato per le Olimpiadi e ho trovato una società nella quale il mercato comincia a funzionare. È una Cina molto diversa, e una società basata sul mercato non sarà solo più libera, ma anche più promettente. Ritengo che un presidente debba farsi carico dei problemi. La tentazione, talvolta, in politica, è semplicemente scansarli perché difficili da risolvere, e quindi lasciare che se ne occupi qualcun altro. Per me uno di questi problemi è stato la riforma della legge sull’immigrazione, e in questo caso ho scelto di dare alla que-


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gli per Barack Obama

onomia, la nostra stella polare deve restare il libero mercato bbero a rischio se gli Stati Uniti diventassero “isolazionisti” stione il massimo risalto. Ovviamente non abbiamo avuto successo nel fare una riforma esaustiva, ma sono contento di averci provato. Parte della presidenza consiste nella buona volontà di pensare che non importa quanto difficile appaia il problema, perché se va risolto bisogna andare oltre. Noi lo abbiamo fatto e credo che ora ci sia un progetto per il futuro per cambiare il sistema, che non funziona. Chiaramente, c’è bisogno di avere frontiere più forti – e noi stiamo provvedendo – ma le persone devono essere trattate con dignità, dobbiamo essere una speranza per coloro che vivono nella legalità, e ci vogliono progetti di lavoro a tempo, in modo che i nostri datori di lavoro - che fanno affidamento su persone che fanno mestieri che gli americani rifiutano - non siano penalizzati. Comunque il lavoro del presidente è affrontare questi problemi, e, in sintesi, guardare oltre l’orizzonte. Talvolta questo pone in conflitto con il potere legislativo, che ha una visione di breve termine rispetto all’esecutivo. I provvedimenti sulla sicurezza sociale, che tu hai menzionato, sono l’esempio di una presidenza che ha guardato oltre il momento, e ha capito che questo sistema è destinato a fallire se non si interviene. Ho lavorato per trovare solu-

zioni. Piuttosto che limitarmi a richiamare l’attenzione sui problemi, ho usato un paio di volte l’occasione del discorso sullo stato dell’Unione per parlare di come possiamo cambiare la struttura dei benefici – basata sulla ricchezza – per il futuro, e ho anche parlato di una questione controversa, i libretti di risparmio. Se in qualsiasi momento si passa da un piano di vantaggi definito a uno di contributi stabilito, e si è gli unici a dover decidere dei benefici, è improbabile voler rinunciare a tale prerogativa. Ci sono anche ambiti in cui questo non accade, ma ho usato la presidenza, il potere esecutivo, il concetto stesso di presidenza per progettare una strada futura. La riflessione finale su questa istituzione è che sia più importante dell’individuo, e che faccia grande il nostro Paese. I presidenti vanno e vengono con la loro forza e le loro debolezze, ma la nave dello Stato va avanti perché l’istituzione è più grande della singola persona. Il lavoro del presidente non è solo prendere decisioni, anche perché talvolta queste arrivano inaspettate. Si vorrebbe il meglio e ci si prepara al peggio, ma si tratta anche di portare stabilità all’istituzione stessa. Sono contento del progresso costituito dal No Child Left Behind

I presidenti devono scendere a compromessi per avere le leggi che veramente vogliono. Lei ne ha fatti molti per vincere la sua prima grande battaglia legislativa, il programma No Child Left Behind. Guardando indietro ce ne sono alcuni di cui si rammarica? (il piano per l’educazione varato durante la prima amministrazione Bush, che prevede un controllo costante dell’educazione giovanile a tutti i livelli ndr). La filosofia di questa legge era che in cambio di denaro si dovesse agire, il che, certo, ha creato qualche problema. Alcuni repubblicani e conservatori si sono chiesti quale vantaggio ci fosse per il governo federale di insistere sul concetto di responsabilità, per-

ché in fondo questo non dovrebbe essere compito del governo, e la gente - dall’altra parte – non vuole essere controllata, ma io credo che sia un valore repubblicano e conservatore pretendere i risultati, e se si spendono soldi mi sembra sensato chiedersi se si stanno ottenendo i risultati. Inoltre, come sai, ho portato avanti il conservatorismo compassionevole. È conservatore pretendere la responsabilità, è compassionevole volere che i bambini del centro città siano in grado di leggere bene. Spesso il sistema era così rigido che i distretti scolastici distribuivano i bambini a seconda dell’età, senza chiedersi se il bimbo in questione fosse in grado di leggere, scrivere e fare le operazioni. Dunque il principio base del No Child Left Behind, è rimasto piuttosto intatta nella legge, e sta funzionando. La legge sul servizio sanitario – una legge abbastanza controversa - è stata scritta dai repubblicani e riflette qualche compromesso al suo interno.Tuttavia, i due principi cardine sono rimasti intatti: uno, se si sta per fare una promessa bisogna riformare la legge in modo che sia effettiva. Per esempio, in passato si sono spesi migliaia di dollari per la chirurgia ma non dieci centesimi per i farmaci che potevano prevenire la neces-

sità di quell’intervento. Abbiamo inserito principi orientati al mercato. Forse ricordi il dibattito sui costi di tutto questo; il Cbo ha presentato una determinata cifra, ma ora penso sia il 40 per cento in meno di quanto è stato anticipato, proprio grazie al mercato, anche se avrei voluto che la legge si spingesse oltre. Certo, si fanno continui compromessi con il Congresso, ma la chiave è scendere a compromessi senza rinunciare al principio ispiratore. Si può discutere dei vari punti, ma non svendere il principio interno alla legge.

Ho parecchie domande anche riguardo l’abbandono del settore automobilistico. Detroit non è un esempio di come i gruppi di interesse pensino di poter arrivare ad un accordo più con l’esecutivo che con il Congresso?


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È un interessante punto di vista. Primo, lasciami fare un passo indietro: stai dando per scontato qualcosa che deve ancora accadere. Questo è un momento difficile per il libero mercato. In circostanze normali gli enti in fallimento sarebbero lasciati al loro destino, ma ritengo che queste non siano circostanze normali per molte ragioni: il nostro sistema finanziario è interconnesso a livello nazionale e internazionale, e siamo arrivati al punto in cui - se una importante istituzione fallisse - molto probabilmente ci sarebbe un effetto domino in tutto il mondo, e le persone comuni ne sarebbero duramente colpite. Quello che rende questa questione difficile da spiegare, soprattutto ai giovani, è perché dovrebbero usare i loro soldi per gli eccessi di Wall Street. Capisco questa frustrazione, capisco il nervosismo della gente a riguardo, ma ero nella sala Roosvelt quando il presidente Bernanke e il ministro Paulson, dopo un mese in cui ogni fine-settimana chiamavano e dicevano che dovevamo fare questo per Aig e quest’altro per Fannie e Freddie, sono entrati e hanno detto che il mercato finanziario era completamente congelato e che se non avessimo fatto qualcosa sarebbe stato possibile assistere a una depressione peggiore di quella del ‘29. Ho analizzato la situazione e ho deciso che non volevo essere presidente durante una depressione simile, o all’inizio di una cosa del genere, e dunque ci siamo mossi, e l’abbiamo fatto in modo forte. Il settore automobilistico ovviamente è molto delicato e ho esposto in merito un paio di principi: uno, sono preoccupato per una bancarotta disordinata e per ciò che comporterebbe a livello psicologico e per i mercati, che stanno cominciando a sciogliersi ma c’è ancora molta incertezza. Sono anche preoccupato all’idea di immettere denaro buono in una situazione cattiva, che significa prescindere dal successo che avranno queste automobili, e poi c’è un’altra considerazione: sento un obbligo nei confronti del mio successore. Ho pensato a cosa significherebbe per me diventare presidente in questo periodo, e credo che la buona politica non sia fargli trovare una catastrofe ancora peggiore il suo primo giorno di lavoro. Queste sono alcune delle considerazioni che ci stanno guidando. Dobbiamo inoltre ricordare che una maggioranza del Congresso ha votato per un piano che noi ritenevamo buono. Non ho ottenuto i voti necessari al Senato per portarlo avanti, ma sommando Camera e Senato si arrivava alla maggioranza, dunque il Congresso, in qualche modo, ha espresso il suo favore per una via d’uscita, una strategia per la sopravvivenza. Penso che, in circostanze normali, senza dubbio il tribunale fallimentare sarebbe la strada migliore per smistare crediti, debiti e ristrutturazione, ma queste sono circostanze straordinarie. Per i politi-

ci si tratta di problemi rilevanti, perché la gente non saprà mai quanto peggio avrebbe potuto essere. Per le persone è semplice chiedersi la ragione delle tue decisioni, il perché di determinati investimenti piuttosto che altri, perché i ragionamenti cambiano in assenza della catastrofe. Le persone guardano solo al fatto che i loro soldi vengano usati perché Wall Street ha esagerato. Era l’ultima cosa che avrei voluto fare, tuttavia mi sono sentito costretto ad agire in questo senso perché la vita sarebbe diventata più difficile. Abbiamo perso 533mila posti di lavoro lo scorso mese. Che cosa produrrebbe sull’economia la perdita di un ulteriore milione? Che conseguenze avrebbe avuto sui mercati? Come avrebbe influito sui lavoratori? E così, come puoi vedere, ci siamo tuffati dentro questa decisione, e - se sarà necessario – andremo oltre.

Potrebbe essere maleducazione richiamare la retorica della campagna elettorale durante una transizione, ma ricordo il neopresidente Obama incolpare, durante la competizione, l’amministrazione Bush per la crisi. Cosa ne pensa? Sto guardando oltre, alla vera storia di questa crisi finanziaria che verrà raccontata. Non c’è dubbio che parte della crisi dipenda dagli eccessi delle concessioni nel mercato immobiliare. La mia amministrazione, precedentemente, ha espresso preoccupazione per le implicite garanzie governative e l’industria dei mutui di Fannie e Freddie, ed eravamo preoccupati per l’eccessiva facilità di concessione e per la correlazione alle implicite garanzie governative, così abbiamo chiamato un esperto, ma il problema sarà completamente risolto quando analizzeranno finalmente cosa è andato bene e cosa no. Quando sei il presidente puoi ragionare sulle cose, puoi analizzarle, ma quando ricevi telefonate dal ministro del tesoro che dice che dobbiamo fare qualcosa per Aig, altrimenti ci sarà un collasso internazionale, la tua mente è lì. E lì è la mia testa.

Ha qualche consiglio da dare al nostro nuovo presidente riguardo Fannie e Freddie,

tipo abolire questi istituti? No, il mio consiglio per tutti i dirigenti eletti, dopo che questa crisi sarà passata, è di ricordare che il mercato e la libera impresa sono ciò che hanno reso grande questo Paese, e che queste misure sono temporanee. Non sono una scusa per il governo per entrare nelle società automobilistiche, o per essere sempre coinvolti nell’erogazione dei mutui. Bisogna ricordare che c’è un giusto ruolo per il governo che è quello della supervisione, e che il vero compito dell’esecutivo è quello di creare un ambiente in cui coloro che corrono dei rischi si sentano a loro agio nel farlo, e dove i capitali si muovano il più liberamente possibile. Questo è il motivo per cui, ad esempio, sono un grande sostenitore del libero commercio, che apre i mercati, dà – quello trasparente, aggiungerei – alle persone l’opportunità di rischiare e vendere i propri prodotti a livello internazionale. Il pericolo, certamente, è che le persone che credono che il governo possa gestire l’economia meglio del settore privato useranno questa decisione come pretesto per mantenere l’esecutivo coinvolto, e questo è il motivo per cui l’Aei sarà importante a lungo dopo la mia presidenza, per parlare dei meriti del mercato e della libera impresa. Partecipando a questa conferenza internazionale la cosa più interessante sono state le persone che mi hanno detto di difendere il mercato e il commercio. Una delle grandi paure che ho – sono un paio – è che gli Stati Uniti possano diventare isolazionisti. Lo siamo stati in passato e sì, può essere faticoso aiutare i popoli a liberarsi dalla tirannia, sostenere il progresso o aiutare il continente africano a sconfiggere l’Hiv/Aids, ma pensare che siamo stanchi e chiederci se queste cose le possa fare qualcun altro può portare all’isolazionismo, e questo mi preoccupa molto. Il mondo ha bisogno del coinvolgimento americano. Siamo una nazione compassionevole, forte e rispettabile. L’altra mia preoccupazione è il protezionismo, che tende ad essere il gemello dell’isolazionismo, e lo temo perché, se si studia storia dell’economia, si capisce che il protezionismo è ciò che ha reso la Grande Depressione ancora più grave, il dazio SmootHawley. Se si desidera lo sviluppo e che le nazioni povere migliorino la propria condizione, si deve essere avvocati difensori del commercio. È una cosa che richiede sovvenzioni, ma l’ammontare di ricchezza prodotta dal commercio supera la quantità di denaro che il mondo spende in sovvenzioni.

Guardando indietro, quale pensa sia il suo lascito maggiore nel

Nella foto in alto, il presidente Bush a un vertice Fao. Sopra con il re saudita Abdallah. In basso, alcuni manifestanti iracheni dimostrano con la scarpa lanciata dal cronista contro il presidente Usa


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campo della bioetica? E quale pensa sia stata la sua più grande realizzazione? C’era qualcosa di più che poteva essere fatto? Ho detto agli americani che credo in una cultura della vita. Credo che una società sana sia quella che protegge i più fragili tra di noi, e – chiaramente - i più vulnerabili sono quelli che non sono ancora nati. Ovviamente l’aborto è una materia molto controversa, che crea tante emozioni. Io ho cercato di rifletterle tutte sostenendo che le persone in buona fede sono in disaccordo sulle cose, lo capisco, ma, durante la mia presidenza, ho cercato di aiutare l’avanzata della cultura della vita. Uno dei contrasti più antichi è quello tra la cultura della vita e la scienza. Leon Kass mi ha insegnato attraverso questo processo che le tensioni esistono da molto tempo e continueranno ad esserci. La questione fondamentale con le cellule staminali è la seguente: si può distruggere la vita per salvare la vita? E’ un problema difficile per molte persone. Io sono giunto alla conclusione che ci sono altre possibilità per salvare vite piuttosto che la distruzione della vita stessa, e mi sono preoccupato del fatto che ci siano molte persone nel nostro Paese che non vogliono che i loro soldi siano usati per questo scopo. Ho portato avanti una politica che ritengo razionale. C’erano decisioni prese sulle cellule staminali embrionali già sviluppate, e quindi dovremmo andare avanti con la ricerca su di esse, ma da questo punto in poi non si distruggeranno più vite con i soldi federali, anche perché da quando siamo intervenuti le cellule adulte della pelle sono state usate per sviluppare l’equivalente delle cellule staminali embrionali. La scienza

è andata avanti, e - nello stesso tempo - siamo stati in grado di rivendicare qualcosa per la cultura della vita. E’ stato un argomento veramente emozionante, ed è ciò che succede quando si confrontano materie controverse. Io credo che il presidente dovrebbe avere un insieme di valori e rimanere su quelli.

La proprietà societaria è uno dei suoi temi più importanti. Sopravviverà alla crisi finanziaria? Recupereremo i nostri obiettivi? Le iniziative che lei porta avanti in nome della grande proprietà torneranno dopo la crisi? Assolutamente. Il pericolo, ovviamente, è che il governo sia così coinvolto che il mercato non si sviluppi, ma io penso che il mercato talvolta crei degli eccessi, e che noi stiamo vivendo le conseguenze di questi eccessi. In Texas ho detto che Wall Street si è ubriacata e che noi smaltiamo i resti della sbornia. Questo è successo. Non c’era molta trasparenza e non c’era abbastanza liquidità da far sentire alle persone l’esigenza di immettere prodotti nel mercato. Il pericolo, certamente, sarà quello dell’eccesso di regole invece di una regolamentazione razionale che bilanci la situazione, e - se faremo questo - le cose diventeranno più difficili per la proprietà societaria perché sarà ostacolato il fiorire della libera impresa. Tuttavia la proprietà della piccola attività è stata parte integrante del passato del nostro Paese, e continuerà ad esserlo in futuro. La chiave è la politica fiscale. Valu-

teremo le piccole attività al di là della capacità di mantenere il capitale e la crescita? Molte piccole imprese pagano singole imposte sui guadagni perché hanno pochi capitali investiti o sono a responsabilità limitata. Quando si sostiene di tassare i ricchi, quando si comincia ad aumentare le imposte a questa fascia più alta, si colpiscono anche molti piccoli imprenditori, e la politica si dovrebbe porre il problema di come incoraggiare la crescita della piccola imprenditoria, non come penalizzarla. Regolamentare eccessivamente tutta l’economia renderà la vita più difficile agli imprenditori, e io spero solo che questo non accada, ma non penso succederà. Capisco i timori, li condivido, e ci sono tante persone che come l’Aei si pronunciano contro il mantenimento del governo alla direzione dell’economia. Una buona politica fiscale e buone regole aiuteranno la crescita delle piccole attività, e lo stesso vale per il settore immobiliare. La chiave ovviamente sta nei tassi di interesse. Il mercato immobiliare seguirà questo miglioramento quando ripartirà, anche se ci vorrà un po’. Non sono un economista, ci vorrà del tempo, ma ci sono segnali incoraggianti come la crescita dell’insieme delle applicazioni dei mutui. Non so se sarà sufficiente ad estinguere il numero di case ancora invendute, ma è un buon segno. A tal proposito, si parla molto di incentivi e mi piacerebbe ricordare ai nostri concittadini che c’è un pacchetto di incentivi che sta per essere varato, e che riguarda la riduzione del prezzo della benzina. Se si applica questa riduzione e la si ammortizza nell’arco di un anno, si ottengono circa duemila dollari a famiglia.

Nella storia, in tempo di guerra, i presidenti non hanno lasciato il comando ai militari ma sono stati comandanti supremi loro stessi. Sì, è vero, ma si fa molto affidamento sull’esercito. Ci sono quattro pilastri per un presidente in caso di guerra: il primo sono gli americani, ed è stato un compito difficile convincere la gente che quello che succede in Iraq ha a che fare con la nostra sicurezza interna, che lo stesso vale per l’Afghanistan e che il primo dovere era rimuovere i regimi che minacciavano la pace e la nostra sicurezza. Il compito successivo non è sostituire un uomo forte con un altro, ma incoraggiare una democrazia a crescere perché stiamo combattendo una battaglia ideologica, ed è l’ideologia della libertà che ogni volta sconfigge quella dell’odio. Un secondo pilastro sono

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i nemici. Sanno che li inseguiremo sempre e dovunque, tenendo alta la pressione su di loro.Terzo, nel caso dell’Iraq, gli iracheni, che volevano sapere se l’America fosse intenzionata a mantenere la parola, perché in caso contrario si sarebbero rivolti ad una milizia locale che avrebbe garantito la sicurezza delle loro famiglie, e il quarto è l’esercito, che deve sapere che le missioni che lo coinvolgono sono giuste, gli obiettivi chiari e che il presidente non prende decisioni sulle loro vite in base a un sondaggio.

Si è attirato una valanga di critiche per aver detto di aver guardato nell’anima di Vladimir Putin e di aver visto un amico. Ho guardato nei suoi occhi e ho visto la sua anima.

Nei suoi occhi? Esatto.

Questo è successo nel 2001, ma il Putin del 2004 è stato molto diverso, e nel 2008 ancora di più. Cosa pensa dell’evoluzione del Cremlino durante la sua presidenza? C’è un terreno comune tra Russia e Usa: riguarda la preoccupazione sulla proliferazione degli armamenti nucleari, e si coopera costruttivamente per assicurarsi che le materie prime non cadano nelle mani di regimi dittatoriali o gruppi terroristici. Secondo, abbiamo trovato un terreno comune sull’Iran, che ci crediate o no, perché i russi sono preoccupati che l’Iran sviluppi armi nucleari e la capacità di usarle quanto lo siamo noi. Ho raccontato pubblicamente che Vladimir ed io stavamo parlando – nel 2006, mi pare – e lui è andato dal leader iraniano e gli ha riferito che io pensavo che loro dovessero avere energia nucleare per scopi civili e che lo stesso pensava lui, ma che non credeva che avessero il diritto di arricchire l’uranio perché avevano violato i trattati Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica ndt), e che perciò non li consideravamo degni di fiducia. Se avessero continuato a insistere nell’arricchimento significava che volevano qualcosa di più dell’energia nu-

cleare civile. Ovviamente abbiamo molte divergenze sulla Georgia. Ho visto Vladimir alle Olimpiadi, proprio quando le truppe russe sono entrate in azione; gli ho espresso le mie preoccupazioni e lui mi ha comunicato le sue. Direi che il nostro rapporto è ancora amichevole, anche se non l’ho più visto perché c’è un nuovo presidente. Credo che ci siano sia interessi comuni che molte tensioni, e il presidente si è messo in una posizione da cui può affrontare tali problemi in modo da non mandare segnali negativi ai suoi alleati.

I politici conservatori credono che li aspetti un periodo durissimo. Che consigli ha per loro per gli anni a venire? Guarda la storia. Penso tu abbia l’età per ricordare il 1964. E’ stato un anno di distruzione per i conservatori e i repubblicani. In Texas la legislatura era composta da 149 democratici e un repubblicano, e non c’erano repubblicani nel senato texano. C’era un membro eletto nel Congresso – Bruce Alger – e non so se ci fossero repubblicani alla Corte di giustizia. La mia opinione è che la politica sia fatta di cicli. Per vincere è importante candidare persone fedeli a dei principi. La maggior parte degli americani crede in quello in cui crediamo noi, che il governo dovrebbe essere limitato e agire saggiamente, che le tasse dovrebbero essere basse, che dovremmo incoraggiare l’impresa e le piccole attività, e che dovremmo avere una forte difesa nazionale. Sono un po’ preoccupato per la piega presa dal dibattito sull’immigrazione. Il nostro partito è stato etichettato come “contro” le persone. Un conto è dire che si vuole rafforzare i confini, ma se un gruppo di persone pensa che un partito politico sia contro di loro non importa cos’altro si intendeva dire, ma il tono, secondo me, a volte deve essere “anti”qualcosa. A un certo punto della nostra storia abbiamo avuto troppi ebrei e troppi italiani. Dicevano di non poter credere che quella fosse l’America nella quale erano venuti a vivere, e che erano “anti” persone che erano “anti” loro. In sostanza dobbiamo lavorare molto con gli americani di origine latina, dire loro che ci teniamo, che li ascoltiamo e che condividiamo i loro valori: fede e famiglia, piccola imprenditoria, reducismo militare. Se non mi sbaglio la comunità latina serve nell’esercito, in percentuale, più di qualsiasi altro gruppo. Torneremo, assolutamente, ma io sarò fuori gioco come il vecchio saggio che si guarda intorno e si sente rimproverare di non aver agito diversamente a suo tempo.


economia

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Previsioni. Restando fermi alle misure adottate finora dal governo il 2009 sarà davvero terribile

Sull’orlo dell’abisso

Ci vogliono 200 miliardi e quattro grandi riforme Altrimenti l’Italia rischierà di uscire dall’euro di Enrico Cisnetto segue dalla prima Ma dico anche, con altrettanta fermezza, che rimango convinto – come lo sono sempre stato in questo lungo periodo di crisi – che la Grande Depressione mondiale che seguì al crack borsistico del ’29 non ci sarà. Sono sicuro che gli Usa abbiano ancora buona parte dei fondamentali economici in salute – a cominciare dal predominio nella ricerca e nell’innovazione tecnologica – e che l’Asia sia in grado di continuare a crescere a ritmi non distanti dalle due cifre, con la Cina che dimostrerà di saper convertire il suo modello di sviluppo export oriented verso uno molto più

si”lungo le quali si dislocherà il denaro, il ruolo strategico, le forze militari. In particolare, l’Asia – sulle cui spalle per almeno un biennio verrà posta la tenuta del pil mondiale – diventerà baricentrica, mentre gli Stati Uniti dovranno volenti o nolenti rinunciare alla modalità unilaterale e l’Europa dovrà sforzarsi di ritrovare un ruolo per evitare la marginalizzazione. Insomma, il mondo cambierà profondamente molti dei suoi paradigmi, ma andrà avanti.

deficit già oltre il tetto del 3% per il solo decrescere del denominatore (il Pil, che unico in Europa, insieme con quello greco, ha il segno meno), e ben sapendo che l’allentamento dei parametri di Maastricht si tradurrà nel fatto che Bruxelles accetterà uno sfondamento del deficit, ma non del debito, sul quale l’Italia ha la coscienza così sporca – visto che in 16 anni siamo passati dal 108% di debito-pil del 1992 (quando firmammo i patti euro-

Purtroppo, cari lettori, non altrettanto fiducioso mi sento di essere nei confronti dell’Italia e, per alcuni versi, dell’Europa.

I provvedimenti più urgenti, innalzare l’età pensionabile a 65-67 anni, togliere la sanità alle Regioni e riaccorpare la spesa, eliminare le Province e tagliare il debito secondo lo schema Guarino basato sulla domanda interna (cosa che, tra l’altro, le consentirà di risolvere pressanti problemi sociali, e dunque di tenuta politico-istituzionale). Certo, sono enormi i problemi che la crisi lascia aperti e che le (gracili) istituzioni sovranazionali prima ancora che i singoli paesi dovranno risolvere, a cominciare dalla necessità di ridare un ruolo e una governance al sistema finanziario, riducendo la leva del debito entro limiti fisiologici ma nello stesso evitando di criminalizzare meccanismi che sono indispensabili allo sviluppo economico. Ma sono fiducioso che la componente salutare di questa crisi – spazzare via gli eccessi del turbo-capitalismo, ricondurre il mercato alla sua funzione di strumento e non di fine, riconsegnare alla politica le responsabilità decisionali che le competono – alla fine prevalga sulle pur pesanti conseguenze negative che ha già generato nel corso dell’anno che sta per chiudersi e che genererà nel duro biennio 2009-2010. Certo, questo comporterà un profondo ridisegno della geografia economico-politico-militare del mondo, ridefinirà gli assetti, genererà nuovi centri di potere, favorirà il crearsi di nuove “as-

Per noi l’anno che si apre sarà davvero terribile – come si è lasciato scappare persino quell’inguaribile ottimista di Berlusconi, salvo poi dire, come d’abitudine, che è stato travisato – e le premesse non lasciamo molto spazio alla speranza. Prima ci siamo baloccati nell’idea che la crisi potesse solo sfiorarci, fino al punto di affermare che – in una logica di tipo mors tua vita mea che non ha senso in un’economia globalizzata – noi ne avremmo guadagnato perché per gli altri sarebbe andata peggio. Poi siamo stati costretti ad annunciare un piano di salvataggio – per ora virtuale, ma c’è da domandarsi se ci sarebbero i soldi nel momento in cui dovesse davvero scattare – del sistema creditizio, cioè di quelle stesse banche che solo poche settimane prima erano state fiscalmente punite dalla cosiddetta “Robin tax”perché ree di aver guadagnato troppi soldi. Quindi abbiamo annunciato grandiosi piani anti-recessione senza disporre delle risorse necessarie, visto che il 2008 si chiude con il

A sinistra, Cesare Geronzi. A destra, Giulio Tremonti

pei con l’obbligo di scendere sotto il 60% in un tempo “ragionevole”) al 104% di oggi (e nel 2009 sarà 105106%) – che un economista ascoltato come Roudini pronostica una nostra uscita dall’euro nel giro di cinque anni se non sistemiamo i problemi strutturali che ci trascinia-

mo dietro, di cui l’eccesso di debito è il primo. Naturalmente, mentre la montagna (il governo) partoriva il topolino (la manovra anti-recessione), non ci siamo fatti mancare il solito, trito e ritrito dibattito tra “rigoristi”, favorevoli alla prudenza di Tremonti sui conti pubblici, ed “espansionisti”, cioè quelli che avrebbero voluto che Berlusconi approfittasse – come probabilmente era nel suo animo di fare – del preannunciato allentamento dei vincoli europei per fare un po’ di deficit spending pur di rianimare la crescita. Una contrapposizione fittizia, quella tra queste due scuole di pensiero, perché in realtà hanno ragione e torto entrambe. La prima ha ragioni da vendere: con il fabbisogno che in 11 mesi è cresciuto di un terzo rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (14 miliardi in più, da 41.749a 55.800 milioni), e con il debito che in agosto ha segnato il record storico con 1.667,2 miliardi, non ci sono significativi margini di sforamento dei parametri comunitari.

Per questo, pensare di costruire un piano di rilancio dell’economia usando il deficit spending è da folli. Ma anche il

partito degli “espansionisti” ha più che mai titolo nel dire che prima della recessione importata con la crisi finanziaria internazionale l’Italia viveva da tempo in “crescita zero”e prima ancora aveva comunque un tasso di sviluppo inferiore di almeno un punto a quello europeo e di oltre due a quello americano, e che dunque qualcosa bisogna pur fare per uscire dalle secche di un disastro che per noi si rivelerà più grave perchè la crisi congiunturale si somma a quella strutturale preesistente. Anche se ha torto nell’immaginare che la reazione antirecessiva possa avvenire semplicemente spendendo di più di prima, a parità di tutte le altre condizioni. Allo stesso modo, hanno torto i “rigoristi” nel rispondere semplicemente “non ci sono soldi”, e amen. Il fatto è che è il quadro della finanza pubblica che va messo in discussione, per creare le condizioni virtuose di una politica espansiva, cioè per fare in modo di avere risorse – e ingenti, visto che la crisi non si risolve bevendo un bicchier d’acqua – e nello stesso di non aggravare il bilancio dello Stato, condizionato da quel maledetto macigno del debito. Perché è suicida


economia

31 dicembre 2008 • pagina 17

Il mondo del credito vede il pericolo del credit crunch

Alle banche non piace il piano di Tremonti di Francesco Pacifico

ROMA. Ci ha lavorato per mesi il ministro, ma non è detto che andrà a buon fine la sua sortita contro le banche. Ottenuto il via libera dall’Unione europea per il suo piano di sostegno da 20 miliardi di euro, Giulio Tremonti ora deve convincere gli istituti a emettere obbligazioni con un tasso d’interesse del 7 per cento in cambio di moneta sonante. Cioè di recuperare liquidità pagando allo Stato rendimenti fuori dai livelli di mercato. Forti dell’alleanza con Mario Draghi, le banche hanno impedito al Tesoro di introdurre un innalzamento coatto all’8 per cento del ratio Tier 1. È bastata soltanto un’indicazione – tra l’altro come chiesto dall’Europa – ad aumentare la patrimonializzazione per garantire maggiore stabilità a tutto il sistema. E proprio a questa facoltà Tremonti ha legato la possibilità di attingere ai fondi pubblici dopo l’emissione di obbligazioni convertibili. Dal mondo delle banche si fa notare che il piano del ministro del Tesoro ha principalmente un valore simbolico: la dotazione di 20 miliardi di euro e la possibilità di far sottoscrivere allo Stato propri bond, dimostra al mondo che gli istituti italiani hanno alle spalle il proprio governo. Un messaggio non da poco per chi andrà in cerca di scalate facili, quando la liquidità non sarà più un problema.

Nel nuovo anno bisognerà tirare fuori il coraggio e rilanciare la politica dell’offerta. Aiutando il nostro capitalismo a mettersi finalmente in sintonia con la globalizzazione sia stare a guardare sperando che la “nottata” passi presto – magari con la scusa che “la crisi è mondiale, noi non possiamo farci niente”, o peggio facendo leva sull’idea del tutto infondata che “noi stiamo meglio degli altri” – sia agire semplicemente allargando il perimetro della spesa pubblica. Dunque, come conciliare la necessità di fronteggiare la nostra malattia più grave, il “rachitismo” (crescita insufficiente) - siamo l’economia occidentale che, col Giappone, ne soffre di più e da più lungo tempo – con le ristrettezze di bilancio? Intanto stabiliamo che la cura ricostituente ci costerebbe, se vogliamo debellare il male una volta per tutte, almeno 200 miliardi di euro, non un po’ di spiccioli per la social card o per il ritardato pagamento dell’Iva da parte delle imprese. E siccome quella cifra non si fa con il deficit spending neanche se a Bruxelles chiudessero entrambi gli

occhi, ecco che sono solo quattro i pozzi da cui possiamo – e dobbiamo – pescare tutti quei soldi: quello della previdenza (innalzando l’età pensionabile subito a 65-67 anni), quello della sanità (togliendola alle regioni e riaccorpando la spesa), quello degli assetti istituzionali (via le province e gli enti di secondo e terzo grado, dimezzare il numero di comuni e regioni, semplificare il semplificabile) e quello del debito (tagliarlo secondo lo schema Guarino non solo sarà un obbligo europeo, ma è necessario per ridurre la montagna di oneri passivi che genera). Insomma, questa è l’occasione giusta – l’ultima? – per convertire spesa corrente improduttiva in spesa per investimenti.

E, d’altra parte, quale migliore momento per acquisire il consenso necessario a misure straordinarie se non quello di una crisi che dal primo all’ulti-

mo cittadino tutti sentono come epocale? Berlusconi ha più volte detto che vuole passare alla storia, ma con la “manovretta” che ha messo in piedi con Tremonti per ora rimane inchiodato alla mera cronaca. Se davvero vuole dare una svolta a se stesso, al suo governo e, soprattutto, al Paese, deve scegliere con coraggio la strada che gli abbiamo indicato delle “quattro grandi riforme strutturali”, che sole ci possono dare le risorse necessarie a rilanciare la politica dell’offerta – l’unica che possiamo e dobbiamo manovrare, quella della domanda, come ha giustamente ricordato il ministro Brunetta, dipende dal mondo, non dall’Italia – aiutando il nostro capitalismo a mettersi finalmente in sintonia con la globalizzazione. Insomma, cari lettori, chiudiamo il pessimo 2008 e ci accingiamo ad aprire il terribile 2009 senza avere ancora la percezione né della portata della recessione che il nuovo anno ci porterà, né tantomeno delle opportunità di “epocale ristrutturazione” del Paese che la crisi stessa ci offre. Ma il 2009 sarà così: ora o mai più. Buon anno a tutti, nonostante tutto. (www.enricocisnetto.it)

Di conseguenza, nessuno crede a una valenza miracolosa dei Tremonti bond. Anche perché le banche temono che sottostare a condizioni così onerose – innanzitutto un rendimento del 7 per cento al sottoscrittore – finisca per ampliare i rischi di un credit crunch. Nonostante tutti gli indicatori possano far pensare al contrario, al momento grandi e piccoli gruppi bancari non hanno ridotto il monte prestiti. Certo, tutte le richieste vengono vagliate con maggiore attenzione, ma il calo degli impieghi va imputato soprattutto alla prudenza delle aziende. Non a caso, e parlando della sua città Genova, il tributarista Victor Uckmar ha detto: «Il credito è una bellissima cosa se si sa cosa si vuole fare. Non basta un finanziamento, bisogna anche avere delle prospettive». Infatti in questa fase il problema riguarda le aziende che devono rifinanziare le proprie esposizioni. Anche perché le nuove condizioni vengono calcolate rapportando debito e margine lordo. E in tempi di crisi, si sa, il Mol difficilmente cresce. Questo lo stato dell’arte, ma purtroppo la situazione è destinata a peggiorare tra il primo e il secondo trimestre dell’anno che sta per iniziare. E guarda caso i livelli di credit crunch saranno più alti quando dovranno essere implementati i Tremonti bond. Quando il calo dell’Euribor e la maggiore flessibilità sui requisiti di Basilea 2 potranno allentare il deficit di liquidità. Nei primi sei mesi del 2009, e con la Germania nostro principale pagatore in crisi, inizierà a manifestarsi il crollo degli ordinativi per le industrie italiane manifatturiere. Le stesse che hanno finora dovuto scontare un calo sulle commesse totali tra il 40 e il 50 per cento. Come già accaduto in passato, il primo effetto è il rallentamento dei pagamenti da parte delle grandi imprese verso le piccole e medie realtà. Le quali hanno di per sé più difficoltà ad accedere al credito. Nel contempo le banche, vedendo aumentare i rischi di insolvenza, finiscono gioco forza per stringere i cordoni della borsa, verso una restrizione del credito. Quello che non vuole il ministro. Si attende quindi un aumento delle sofferenze, che gli istituti di credito metteranno a bilancio già con le prime trimestrali. Le stesse sofferenze che potrebbero giustificare il rifiuto delle banche a emettere i Tremonti bond.

Gli istituti temono che il maxirendimento chiesto dallo Stato (7 per cento) possa ridurre e non ampliare le risorse per i prestiti alle aziende


cultura

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Leggende. Da Anita a Battistina Ravello, da Giuseppina Raimondi a Francesca Armosino: storie di amori difficili o sbagliati, nelle pieghe degli ideali

Garibaldi fu fregato Donne e politica furono il tallone d’Achille di un uomo votato alla religione della libertà di Nicola Fano aribaldi fu fregato: dalle donne e dalla politica. Un bell’esempio di italiano tipico. Quanto alla politica, malgrado una recente vulgata un po’ ignorante lo voglia “colpevole” dell’Unità d’Italia, gli storici da decenni hanno dimostrato che l’Unità (imperfetta, incompiuta) di questo Paese la fece la politica di Cavour (“governare il caos”, diceva il Conte) mercanteggiando a destra e a sinistra in Europa l’allargamento del Regno sabaudo e consegnandosi mani e piedi da un lato al protettorato francese, dall’altro alla burocrazia torinese. Garibaldi ebbe solo il merito – e scusate se è poco – di imporre la nascita di un Regno costituzionale in luogo di uno assolutista; di fatto garantendo a tutti i nuovi italiani – grazie alla sua marcia da Marsala a Napoli – un margine di libertà particolarmente elevato per l’epoca e per quell’angolo remoto e infetto del mondo che era l’Italia della metà dell’Ottocento. Proprio liberal, qualche set-

G

timana fa, pubblicando in anteprima i verbali inediti delle riunioni del gabinetto Cavour durante la spedizione dei Mille, ha ricordato come i cavourini si siano serviti di Garibaldi, invece che sostenerlo nella sua battaglia. Se avesse vinto Garibaldi, se non si fosse dovuto fermare a Teano, se fosse entrato a Roma nel 1860 sull’onda di una grande rivoluzione nazionale e popolare, non saremmo il Paese delle mediazioni eterne, delle liti e dei traffici che siamo. E la nostra identità non sarebbe incompleta, com’è, nei fatti, oggi. Prima i Mille e poi i Volontari di Garibaldi erano per metà lumbàrd e per metà meridionali: pensate che effetto simbolico se – insieme – avessero conquistato la Roma delle paure papaline. Forse oggi nessun gerarchetto avrebbe potuto gridare impunemente «Roma ladrona!». Invece andò come andò: Roma fu raccolta undici anni dopo dalle mani dei francesi che erano occupati in battaglia altrove nel mondo e che quindi, dopo aver regalato Venezia

a Vittorio Emanuele II nel 1866, gli regalarono pure Roma, a patto che non facesse troppa caciara e che rinunciasse al proposito garibaldino (guarda caso) di un paese in armi.

Dunque: Garibaldi fu fregato dalla politica. La questione femminile è più complessa. Di Anita (Anita Ribeiro da Silva) sappiamo tutto: Garibaldi – lo dice lui stesso nelle Memorie – la scovò in un porto brasiliano scrutando con il suo cannocchiale.“Tu sarai mia”, le disse, a bruciapelo, in italiano, invece di presentarsi per bene: «Piacere José Garibaldi». Comunque, Anita l’italiano non lo imparò mai, benché una certa agiografia fascista negli anni Trenta del Novecento l’abbia eletto modello pieno di femminilità italiana. Garibaldi la sposò alcuni anni dopo, nel 1842 (Anita era a propria volta maritata e solo allora era rimasta vedova), ma il primo figlio della coppia, Menotti, era nato nel 1840: e da allora quella donna gli rimase sempre accanto, fino alla drammatica morte di lei nel 1849. L’unica cosa significativa che si può aggiungere è questa: Anita fu uccisa dalla Chiesa. La Chiesa intesa come struttura di governo politica e temporale. Incinta e febbricitante, Anita seguì il suo José nella terribile ritirata da Roma nell’agosto 1849: gli orrori compiuti dalla guardie papali contro i sodali di Garibaldi (esecuzioni in massa e senza processo, fu trucidato in piazza finanche padre Ugo Bassi, un prete, guida spirituale del generale) imponevano ai volontari garibaldini di non fermarsi. Fosse stata accordata loro una tregua umanitaria per curare i feriti e i malati (tra i quali Anita), forse la moglie del generale sarebbe sopravvissuta e magari avrebbe pure imparato a parlare bene l’italiano, per la gioia di Mussolini. Invece no. Asserragliati a San Marino, ai garibaldini fu offerta una resa oltraggiosa e il generale, liberati i suoi dall’impegno di seguirlo, fu costretto a rimettersi in marcia. Con Anita.

Se avesse vinto lui, se non si fosse dovuto fermare a Teano, se fosse entrato a Roma nel 1860 sull’onda di una grande rivoluzione nazionale e popolare, non saremmo il Paese delle mediazioni eterne, delle liti e dei traffici che siamo Che morì pochi giorni dopo dalle parti di Comacchio, in povertà assoluta, priva di cure e di sostegno umano se non quello del marito e di qualche paesano impaurito dalle eventuali ritorsioni della Chiesa. Ed ecco spiegato perché dopo il 1849 Garibaldi – uomo di fede assoluta, cristiano convinto – cominciò a elaborare un odio feroce nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. E pensare che oggi c’è qualche fanatico che lo accusa di ateismo: magari frequentassero qualche archivio, leggessero qualche carta con un po’ d’onestà intellettuale…

Dopo Anita, Garibaldi non ebbe più grandi amori in senso proprio e romantico: ebbe due altre mogli, dozzine di amanti e centinaia di spasimanti. Nonché

otto figli (tutti regolarmente riconosciuti), da tre donne diverse. La storia degli altri due matrimoni, fra loro collegati, è molto significativa del personaggio e bisogna raccontarla per bene. A cavallo fra il 1859 e il 1860, cioè dopo i suoi propri successi nella Seconda guerra d’Indipendenza a fronte delle sconfitte piemontesi, Garibaldi decise di regolarizzare la sua “immagine pubblica”: di prendere moglie insomma. Aveva avuto lunghi legami d’affetto con donne straniere (Maria Esperanza von Schwartz e Emma Roberts); a Caprera l’aspettava una donna del popolo di nome Battistina Ravello, la balia di Teresita (figlia di Anita), che gli aveva dato una figlia (chiamata Anita a propria volta). Serviva una moglie vera da presentare in so-


cultura

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Nel 1867, nelle braccia di Emma Collins

Quella fuga romanzesca C

A sinistra e in basso due immagini di Giuseppe Garibaldi. Sopra le sue donne: la brasiliana Anita, Battistina Ravello Giuseppina Raimondi e Francesca Armosino

cietà: l’Italia è ragionevolmente puritana oggi, figuriamoci centocinquant’anni fa, che non era nemmeno Italia, ancora. Insomma, Garibaldi, quasi cinquantatreenne, si fidanzò con una ragazzina nemmeno diciottenne della buona società lombarda: la marchesina Giuseppina Raimondi, figlia di un nobile di provata fede garibaldina. Il fidanzamento procedette a singhiozzo: Garibaldi, in visita nella tenuta dei Raimondi sul lago di Como, cadde da cavallo e fu costretto a rinviare le nozze. Le quali si celebrarono in gennaio in pompa magna. Solo che un congiunto della ragazzina passò un biglietto a Garibaldi nel quale c’era spiegato come la neomoglie fosse incinta di un altro e avesse acconsentito alle nozze proprio per mettere a tacere lo scandalo. «Troia!», l’apostrofò il gagliardo generale, e non aveva tutti i torti. Poi prese armi e bagagli e se ne tornò a Caprera, ma le nozze ormai erano celebrate e i due erano ufficialmente marito e moglie. Garibaldi fu fregato dalle donne, appunto: da questo matrimonio

ridicolo il generale si liberò solo al tramonto della propria vita, per un cavillo assurdo. Questo: nel gennaio 1860, appena dopo il passaggio della Lombardia dall’Austria al Piemonte, a Como vigevano ancora le leggi austriache. In base alle quali un matrimonio non consumato poteva essere sciolto. Che Garibaldi non avesse consumato con la ragazzina non si sa: ma per vent’anni lo urlò a mari e monti, fino a ottenere l’annullamento del matrimonio nel 1880. Ma perché tutto questo accanimento formale da parte di un uomo profondamente e radicalmente libero? Un’altra donna, è ovvio. Che risponde al nome di Francesca Armosino, a propria volta ex serva di Casa Garibaldi a Caprera. La quale a partire dalla metà degli anni Sessanta diede a Garibaldi altri tre figli: Clelia, Rosa e Manlio. Donna semplice e pratica, Francesca non si intendeva molto con i figli di primo letto (Menotti,Teresita e Ricciotti: Rosa, l’altra figlia di Anita era morta presto e Anita, la figlia di Battistina Ravello viveva a Londra) per di più il suo uomo si avviava alla vecchiaia in totale povertà (Garibaldi non accettò fino alla fine vitalizi o aiuti dallo Stato e sulla carta d’identità si dichiarava «contadino»): insomma, costei voleva regolarizzare il rapporto in modo da garantire ai figli una certa tranquillità futura. Senza contare che il ruolo di badante del vecchio generale le andava un po’ stretto: voleva essere la signora Garibaldi. E così insufflò nelle orecchie del marito la richiesta pressante di annullare il matrimonio con la marchesina libertina e sposarla, una buona volta. Cosa che le riuscì, s’è detto, nel 1880. Fu una battaglia ra-

gionevole, poiché solo nel 1875 Garibaldi aveva accettato un modesto assegno statale per i figli mentre alla sua morte, nel 1882, lo Stato consegnò una cospicua pensione alla signora Armosino Garibaldi, cui comunque spettò il diritto di vivere a Caprera, nella casa del fu eroe, vita natural durante lei e i figli di lei: Clelia, morta quasi novantaduenne, vi rimase fino al 1959. E proprio lì a Caprera s’ambienta un’altra, inedita storia di donne: quella con Emma Collins di cui parliamo qui accanto.

Insomma, in vecchiaia, fregato dalla politica e dalla donne, Garibaldi fu costretto ad abdicare parte dei suoi princìpi di rispetto reciproco e libertà (che comunque lo hanno consegnato alla storia), consentendo che gente qualunque proclamasse neanche troppo sommessamente: «tiene famiglia». Ebbene, Anita era straniera e non fa testo d’italianità (a dispetto del Duce); non ho mai avuto simpatia per l’italianissima signora Armosino – ma costei mi perdonerà ovunque si trovi, ora – mentre giudico di colossale grandezza la marchesina Giuseppina Raimondi che riuscì a mettere in scacco l’uomo più coraggioso e amato di quello scorcio di Secolo. Ma in entrambi i casi si tratta di storie esemplari, sommamente italiane, che forse avrebbero dovuto persuadere Giuseppe Garibaldi che il suo sublime proposito di fare l’Italia era irragionevole: al contrario di come sosteneva Massimo D’Azelio, l’Italia era da fare (e come fu fatta lo abbiamo visto), ma gli italiani erano già fatti da un pezzo: furbi, servi, azzeccagarbugli e all’occasione disonesti. Come oggi, del resto.

aprera è un luogo splendido. Un vincolo militare e paesaggistico l’ha lasciata quasi intatta dalla morte di Garibaldi a oggi. Ma nel 1854, quando Garibaldi ne acquistò metà con l’eredità lasciatagli dal fratello, doveva essere ancora più bella. Un luogo aspro e terribile: sferzato dal vento di ponente ma pieno di cale protette e bastioni naturali. Garibaldi la scelse come luogo d’autoesilio. Un’isola di un’isola di un’isola: per raggiungerla bisogna navigare dal continente in Sardegna poi dalla Sardegna alla Maddalena e infine dalla Maddalena a Caprera (oggi c’è un ponte che le unisce, ai tempi di Garibaldi no). Sapeva, evidentemente, che presto sarebbe stato messo spesso ai domiciliari dal nascituro Regno d’Italia. E Caprera era una prigione ragionevole. Che il generale si occupò di rendere confortevole quanto possibile. Con le sue braccia vi costruì una casa bianca (ancora oggi visitabile), poi un mulino e le stalle. Ne bonificò il terreno, vi coltivò uva, frutta, cereali e magnifici olivastri.Vi introdusse specie biologiche rare che gli arrivavano in regalo da tutto il mondo (ancora oggi, il viale d’ingresso nell’isola, contornato di eucalipti piantati da Garibaldi, è uno spettacolo); vi fece crescere una pineta e vi fece pascolare pecore, capre, cavalli e un asino, di nome Pio IX.

Bene, quando Garibaldi comprò la sua mezza isola, l’altra metà era di una coppia di eccentrici inglesi, il signore e la signora Collins. I quali non vedevano di buon occhio l’attivismo del nuovo vicino. Né apprezzavano il via vai di autorità e cospiratori di mezzo mondo sull’isola. La loro residenza (è ancora visibile, oggi, e anch’essa vale il viaggio) era riparata in una caletta interna, non direttamente alla vista della casa bianca di Garibaldi. Sta di fatto che i primi anni di vicinato non furono dei migliori. Al punto che quando nel 1864 una serie di nobili inglesi fece una colletta per regalare a Garibaldi l’altra mezza Caprera, i Collins vendettero volentieri. Benché – va detto – alla lunga i rapporti erano migliorati. I Collins con il ricavato si comprarono un podere alla Maddalena e lì non ebbero da lamentarsi di altri vicini troppo famosi. Garibaldi prese possesso dell’intera isola e la trasformò, di fatto, in una

repubblica autonoma nella quale ognuno dava secondo le proprie possibilità e ciascuno aveva secondo i propri bisogni.

Questa premessa per dire che ora sono spuntate una serie di biglietti amorosi di Garibaldi rivolti a Emma Collins, l’ex vicina di Caprera, datati alla fine degli anni Sessanta del secolo. Li ha trovati all’archivio dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, a Roma, la giornalista e scrittrice Barbara Minniti la quale, basandosi proprio su quelle righe, ha ricamato un romanzo storico che ha intitolato Casa Collins. Come si può leggere qui accanto, il presunto idillio tra i due si consuma nel pieno della storia (d’amore?) tra Garibaldi e la futura terza moglie Francesca Armosino. È improbabile che Garibaldi sia stato fedele alle sue donne: è noto che quando visse da dittatore a Napoli (settembre 1860) i suoi uomini gli misero accanto alcuni guardiani che avevano il compito precipuo di evitare che il generale impegnasse troppo tempo in corteggiamenti e smancerie. Tutto questo rende plausibile la relazione eventuale con la signora Collins, che però va segnalata per un solo motivo. Pare sia nata, questa relazione, nel 1867. Capitò, in quell’anno, che Garibaldi fosse recluso in casa, controllato a vista dai marinai sabaudi di stanza nel canale tra Caprera e La Maddalena: si temeva qualche suo colpo di testa per muovere guerra allo Stato della Chiesa con il proposito di liberare Roma. Garibaldi, che in effetti aveva già organizzato la campagna militare che sarebbe finita con la sconfitta di Mentana, scappò in modo romanzesco. I militari ne controllavano i movimenti con un cannocchiale giorno e notte: di notte Garibaldi, sveglio, se ne rimaneva sempre bene in vista. Ma una notte, al suo posto mise un uomo fidato, vestito alla sua stessa maniera e con una barba bionda posticcia. Il generale scese a mare in segreto (in quella che oggi si chiama Cala Garibaldi) e vogando disteso su una barchetta a remi, raggiunse la Maddalena, dove fu accolto proprio dalla Collins. Di lì, proseguì in barca fino a Palau e poi a Olbia a cavallo: da dove si imbarcò per il continente, beffando i sabaudi. Ebbene, come avrebbe potuto resistere a tanto avventuroso fascino una romantica donna inglese? (n.fa.)


spettacoli

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Musica. In Inghilterra il popolare reality rispolvera l’opera omnia del compianto Jeff Buckley Leonard allelujah, Cohen doc annata 1984, è la canzone più venduta di Natale in Inghilterra. Non nella versione originale del maestro canadese (peraltro risalita fino al numero 36 delle classifiche), ma grazie alle cover di due altri interpreti: la giovanissima Alexandra Burke, ultima vincitrice dell’X Factor locale, e il compianto Jeff Buckley, annegato undici anni fa a Memphis tra i flutti di un affluente del Mississippi. Si è ripetuto così un evento accaduto una sola volta nella storia della discografia britannica (la prima nel 1957, quando in cima alle charts si issarono con Singin’ The Blues Tommy Steele e Guy Mitchell); effetto, questa volta, di un singolare cortocircuito tra marketing televisivo e passaparola spontaneo che – è questa la vera notizia – impone finalmente all’attenzione generale un grande talento della musica strappato anzitempo al suo destino di gloria.

H

«Fosse ancora vivo, oggi Jeff se la vedrebbe con Bono e andrebbe in giro per il mondo a fare tournée», ha commentato al quotidiano inglese Independent mamma Mary Guibert, che dopo averlo cresciuto giovanissima e averne pianto la

E da X Factor torna il “navigatore delle stelle” di Alfredo Marziano scomparsa si incarica oggi di custodirne l’eredità artistica e musicale. Chissà se ha ragione. Buckley Jr, morto trentenne, assomigliava molto a suo padre Tim, stroncato a 28 anni da un’overdose. Non solo per il destino crudele che li ha accomunati e per quelle elasticissime corde vocali capaci di coprire otto ottave, ma anche per i tratti caratteriali: troppo fragili e anarchici, entrambi, per darsi in pasto alla bocca famelica dello star system. Con pochissima musica registrata consegnata ai posteri (qualche Ep, alcuni live, un doppio postumo e un unico vero album, Grace) Jeff è stato una cometa del rock, capace

A fianco, la vincitrice dell’ultima edizione inglese di “X Factor” Alexandra Burke. In basso, un’immagine dell’artista Jeff Buckley, scomparso prematuramente a trent’anni, morto annegato undici anni fa a Memphis tra i flutti di un affluente del Mississippi

L’artista, prematuramente scomparso a trent’anni, nel 1994 sfornò l’album “Grace” acciuffando l’ammirazione incondizionata di Jimmy Page e Robert Plant dei Led Zeppelin però di lasciarsi dietro una lunghissima scia luminosa e di orientare il cammino di tanti successori. Grace, nel 1994, suscitò l’ammirazione incondizionata di Jimmy Page e Robert Plant dei Led Zeppelin, e persino lo scorbutico Bob Dylan si sentì in dovere di spendere parole di ammirazione per il giovane artista. Le star “alternative” di oggi, Rufus Wainwright e PJ Harvey in testa, lo hanno mandato a memoria come un libro di testo.

E ora la sua Hallelujah diventa il test su cui si cimentano i concorrenti dei talent show televisivi: prima della Burke l’ha cantata Jason Castro, vincitore a marzo dell’ultimo American Idol, e anche in quel caso la versione di Buckley era riemersa in superficie diventando il brano più scaricato da Internet in terra americana. Cohen non sembra provare alcuna invidia. E’ stato il primo ad ammettere che l’interpretazione di Jeff, voce d’angelo caduto sulla terra, era persino più efficace della sua. La migliore possibile, per quell’irresistibile inno sacro

zeppo di citazioni bibliche ma anche di riferimenti all’amore profano. Buckley aveva saputo leggerla tra le righe come nessun altro, viverla con trasporto, passione e misura facendola per sempre sua. I fan dalla memoria lunga ci hanno provato a trascinarlo al numero uno, sfruttando la scia del programma tv e della sua grancassa promozionale: missione fallita di un soffio. «Tutto è successo naturalmente, senza nessuna spinta della casa discografica. E credo che a Jeff sarebbe piaciuto, l’avrebbe trovato molto divertente», ha raccontato all’Independent Mary, ancora incredula di quello che è successo. Suo figlio, prima d’ora, non era mai stato un artista per le masse. Neanche, però, il solito incompreso riscoperto post mortem. Nei primi anni Novanta il suo esordio venne accompagnato da un chiacchiericcio costante, l’eccitazione tipica che si prova di fronte alla next big thing: al Sin-è, il minuscolo locale dell’East Village newyorkese dove si esibiva ogni lunedì sera, andavano a vederlo mostri sacri della controcultura come Lou Reed e William Burroughs, e con loro i papaveri del music business, Seymour Stein della Sire e Clive Davis della Columbia. Fu quest’ultima a spuntarla, ingaggiandolo con un contratto – si disse allora – da due milioni di dollari. Un buon investimento, perché se è vero che Grace non fece subito il botto e non

scaldò più di tanto i dj delle radio, oggi quell’album è considerato uno dei dischi più belli e influenti degli ultimi vent’anni.

Gradualmente, anche i risultati di vendita (negli Stati Uniti, in Francia, in Australia) sono arrivati di conseguenza. Non poteva lasciare indifferenti, quella musica: radicata nella tradizione del rock e della canzone d’autore ma proiettata nel futuro, inquieta e meditativa, passionale e cerebrale in un succedersi di fortissimo e di pianissimo, di elegie pastorali e di convulse sfuriate elettriche. Musica avventurosa ed esplorativa, anche; come il padre Tim, che aveva intitolato un suo disco Starsailor, Jeff era un «navigatore delle stelle» e la musica una dolce ossessione da cui neppure la sua immagine da bel tenebroso poteva distoglierlo. «Mentre gli altri ragazzi guardavano la televisione o se ne stavano delle ore al telefono, lui restava in camera ad ascoltare i dischi di Hendrix e Led Zeppelin e a suonare la sua chitarra»; ricorda ora la Guibert a proposito della sua solitaria adolescenza. Nei giorni del tragico e bizzarro incidente che gli ha tolto la vita (una improvvida nuotata controcorrente al termine di una afosa giornata trascorsa in studio di registrazione) stava lavorando al suo secondo album, uscito postumo e incompleto con il titolo di Sketches For My Sweetheart The Drunk. Diventò un altro oggetto di culto, per chi si rendeva conto di avere perso troppo presto un artista originale e irripetibile. Curioso e ironico che a ricordarcelo, oggi, sia proprio una fabbrica dell’omologazione musicale come X Factor.


cultura

31 dicembre 2008 • pagina 21

in breve Fabrizio De André, a Genova la sede della fondazione Qui a fianco, un’immagine di Giulio Andreotti da giovane insieme con Attilio Piccioni, membro fondatore della Democrazia cristiana e più volte ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio dei ministri nei Governi De Gasperi V, VII e VIII

Ricordi. Notte di capodanno tra il ’43 e il ’44: nelle montagne pistoiesi con il parroco Butelli

Il Vin Santo di Don Biagio di Leone Piccioni a settembre ormai i tedeschi controllano con ferocia l’Italia settentrionale e centrale. Mussolini, ostaggio dei tedeschi, dovrebbe governare la Repubblica di Salò dove sono confluiti (anche numerosi) fedeli al Duce e alla cosiddetta Repubblica Sociale: Salò è in verità completamente in mano ai tedeschi come Mussolini. Bisogna riconoscere che ci sono stati anche tanti ingenui che hanno seguito quel vessillo. Ma ci sono anche tanti valorosi partigiani che si sono ribellati al fascismo, hanno rifiutato la viltà del re Vittorio Emanuele che è fuggito con la famiglia al sicuro nei territori controllati dai tedeschi. Al comando delle sue truppe, Salò ha posto il generale Graziani, perenne antagonista del generale Badoglio che è rimasto con il Re. Esce il «bando Graziani»: i nati dal 1925 in poi devono presentarsi alle armi: prevista, per chi sfugge al richiamo, la pena di morte. Ma intanto violenze contro i civili presi a retate e portati a lavorare in quella che si chiamava Linea Todt.

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Eccoci in casa nostra: mio fratello Piero nato nel ’21 è sotto le armi in Marina; io sono nato nel 1925, mio padre Attilio, è membro del Comitato di liberazione che opera clandestinamente. I tedeschi hanno una lista con i nomi delle persone più antifasciste: c’è anche mio padre. Lasciamo nello stesso settembre Firenze, dove vi-

vevamo, per rifugiarci sulla montagna pistoiese con la speranza di essere meno esposti: ci ha accolto nella sua canonica il parroco (e chi, se no?) di un piccolo paese, Campigio di Cireglio: vi si arriva solamente dalla strada statale.

Montecatini rischiando tutti i giorni un bombardamento. Si avvicina il periodo delle feste natalizie. Le mie sorelle aiutano il parroco allestendo quanto meglio si potesse gli addobbi della chiesa, con la protesta delle vecchie donne di sacrestia che stavano tutto il giorno intorno al parroco e che lui definiva le «badessissime». È un tempo da lupi: pioggia, vento, freddo gelido. Io dormivo con mio padre in una stanza a due lettini e la mattina per lavarsi un po’ nella bacinella bisognava rompere il ghiaccio. Quando ci spogliavamo, ogni abito tolto veniva ammucchiato sulle co-

Assai anziano, nello stesso tempo spiritoso e pio, con un carattere prettamente risalibile ai toscani buoni.Tra tutti i ricordi intensi e drammatici, rimarrà sempre quello delle sue candeline alla mezzanotte

andare assai presto a dormire. La notte dell’ultimo dell’anno, poco dopo le 21.30 mio padre e io eravamo già a letto, dopo una più ricca quantità di necci. Ci addormentiamo presto: a una certa ora ci pare che bussino alla porta con insistenza: è quasi mezzanotte. Dopo un po’ vediamo entrare il nostro caro parroco che ci porta del Vin Santo e dei biscottini, per festeggiare. Siamo del resto già più speranzosi sull’andamento della guerra. Questo memorabile parroco si chiamava Don Biagio Butelli: assai anziano nello stesso tempo spiritoso e molto pio, con un carattere prettamente risalibile ai toscani buoni. Si è talmente affezionato a Campiglio che rifiuta anche più vaste e ricche parrocchie che il vescovo gli offre. Passavamo con lui tutto il tempo anche di preghiera.

catasta di legna per difenderci dal freddo e dal gelo del periodo invernale. Un ragazzetto correva lesto su da Campiglio per dirci quando l’allarme era finito. Sono con noi le due mie sorelle che cercano di aiutare la vecchia madre del parroco, Brigida: una studia e sta preparando una tesi di laurea su Emilio Cecchi assegnatale da De Robertis. Io la aiuto per quanto posso e nel frattempo leggo per il giorno intero opere importanti raccolte in una piccola biblioteca del parroco dove non mancano i grandi classici italiani. L’altra sorella seguita ad andare a insegnare a

Dal settembre ad aprile la guerra ha preso un diverso andamento. Sui cieli chiari della montagna, nella luce stupefacente, assistiamo anche ai passaggi degli aerei di bombardamento e a un duello aereo tra un pilota tedesco e uno italiano. Precipitò l’aereo tedesco e molti si misero alla ricerca del pilota. Agosto è vicino; i partigiani ottengono dei successi, gli americani liberano la bella città di Firenze. Ma tra tutti i ricordi, molto intensi e drammatici, rimane quello delle candeline che alla mezzanotte del ’43 illuminano il Vin Santo e i biscottini che ci ha portato, per augurio, Don Butelli.

Noi ci arriviamo a piedi naturalmente con i nostri pochi bagagli. Quasi mai arrivavano pattuglie tedesche per rastrellamenti; avvertiti in tempo per scappare sulle cime più alte rifugiandosi in una specie di grande baracca innalzata proprio per offrire rifugio. Tra tanti sbandati arde di solito una

perte del letto sperando di avere un po’ di calore anche dal golf, giacchette, pantaloni… Non dirò del cibo anche perché dovunque in Italia il problema era gravissimo e noi eravamo assolutamente senza scorte. Ci hanno nutrito e - penso - conservati in vita i «necci»: i necci sono fatti con farina di castagne (le castagne del pistoiese sono tra le migliori) impastata e poi messa rapidamente a cuocere tra due tondini di ferro con un manico che si metteva sul fuoco. Si ascolta la Messa di mezzanotte di Natale mentre l’abitudine nostra (dopo aver ascoltato Radio Londra) era di

Sarà Palazzo Grillo, patrimonio dell’Unesco, nel centro storico genovese, la nuova sede della Fondazione dedicata a Fabrizio de André. Lo ha annunciato ieri il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando, che ha dichiarato in una nota alla stampa: «Oramai siamo ad un passo dall’accordo definitivo con la Fondazione Fabrizio De André perché questa possa essere trasferita da Milano ed avere sede fissa a Genova». Palazzo Grillo è un prestigioso edificio storico, nel cuore della città vecchia. I lavori potrebbero cominciare già nel 2009 e concludersi nel 2011.

Capodanno, salta per sciopero il concerto Piovani Salterà il concerto di Capodanno diretto da Nicola Piovani, previsto per domani al teatro Massimo Bellini di Catania, a causa di uno sciopero. Il teatro, hanno fatto sapere, cercherà di recuperare il concerto in un’altra data e gli acquirenti dei biglietti verranno rimborsati. Secondo il sovrintendente Antonio Fiumefreddo, «privare Catania del concerto di Capodanno è un atto di vergognosa irresponsabilità», e sostiene che lo sciopero «è contro il cambiamento, contro il teatro e contro la sua rinascita».

Classifica, Laura Pausini prima nelle hit La cantante italiana Laura Pausini, con il singolo “Primavera in anticipo”, per la sesta settimana consecutiva guida la classifica dei cd più venduti secondo la Fimi Nielsen. Ampliata la presenza degli italiani al vertice che salgono a 12. Dopo Laura Pausini, arriva Irene Grandi che risale di un posto con la traccia “Canzoni per natale”. In terza posizione, dalla sesta, sale anche Jovanotti con “Safari”. Per i brani più scaricati dal web, Giusy Ferreri è ancora in testa con “Novembre”, mentre nelle compilation resta al top “High School musical senior 3”.


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da ”The New Yorker” del 05/01/2009

Torna il sesso sessantottino di Ariel Levy lex Comfort era uno stravagante personaggio molto conosciuto negli anni Sessanta, quelli della liberazione sessuale, per intenderci. Un concentrato delle ovvietà del tempo, tra cui un forte relativismo culturale. Ha scritto, meglio sarebbe dire, prodotto il primo manuale illustrato sul sesso, The Joy of Sex.

A

Almeno il primo, di questo genere, ad aver avuto una certa diffusione negli Stati Uniti, dove la prima edizione fu pubblicata nel 1972. Da poco, in settembre, ne è disponibile una versione aggiornata. Un prontuario su come comportarsi a letto – o dove si preferisce - con un partner. Già nel 1961, lo scienziato inglese aveva esordito con un racconto che affrontava in modo immaginifico gli stessi argomenti. Il libro Come Out to Play raccontava di un alter ego di Comfort, il dottor George Goggins, che aveva aperto una clinica del sesso dove si insegnavano tecniche e pratiche per il bel vivere tra le lenzuola. Aveva brevettato un prodotto, il 3-blindmycin, che aumentava gli appetiti amorosi dei suoi pazienti, ma non agendo sulla libido, ma sul superego. Nel racconto ad un certo punto si sprigionava una nube “afrodisiaca” di 3blindmycin, che andava ad avvolgere Buckingham Palace. Comfort ha sempre sperato che Hollywood ne chiedesse i diritti per farne un film. Per lui il protagonista ideale per interpretare il ruolo dello scienziato britannico erotogeno era - senza alcun dubbio - Peter Sellers. Per il ruolo di coprotagonista femminile, invece, Comfort stravedeva per Sofia Loren. Ma il cinema non diede alcun segnale d’interesse e

l’autore si accontentò delle 12 milioni di copie che il manuale riuscì a vendere in mezzo mondo. In quegli anni andavano molto i pillow book giapponesi, dove, in maniera un po’ brutale, veniva spiegato dove mettere “cosa”. Comfort diede una risposta occidentale di tipo “rivoluzionario” allo sviluppo demografico attraverso un atto d’amore. Il successo della pubblicazione fu dovuta anche alla semplicità della sua struttura “narrativa”, modellata sulla falsa riga di un famoso e vendutissimo manuale di cucina. L’obiettivo finale era simile, cercare di condurre il lettore verso l’acquisizione di capacità da «Cordon Blue» nella materia. Un modo per eliminare vergogna e timidezze, e creare una sorta di «rivoluzione nella felicità dell’uomo». Il mantra di Comfort era «no al sesso aggressivo», perfettamente in linea con lo spirito sessantottino del tempo. Si definiva un «anarco-pacifista» e nei suoi scritti era spesso scivolato verso l’indeterminatezza utopica. Tanto da meritarsi, nel 1941, una recensione, meglio sarebbe dire una stroncatura, da parte di George Orwell del suo No Such Liberty.

Orwell ne aveva identificato alla perfezione la cifra culturale improntata al relativismo. Una “malattia” del pensiero che avrebbe imperato in Occidente per tutto il secondo dopoguerra e che, ancora oggi, fa qualche vittima. Chi combatteva i nazisti, diventava nazista, non c’era differenza tra bene e male. La comunità scientifica di Sua Maestà,

cui apparteneva l’autore del manuale, non gradiva troppo il suo successo nello scrivere libri di cassetta. «È la messa in pratica delle teorie, ciò che gli intellettuali non amano troppo» era stato il commento sarcastico di Comfort, nel 1974. Il libro fu anche ignorato dalle vestali del femminismo. Probabilmente c’era troppa carne al fuoco, in quel periodo, per lasciare il tempo ai membri del Collettivo femminile di Boston per attaccare il manualetto dell’amore pratico.

La linea di fondo era: siamo tutti bisessuali, il sesso deve essere un’esperienza di reciproca soddisfazione che coinvolga tutto il corpo; per raggiungere questi obiettivi la comunicazione può essere utile. Ora nella versione recentemente aggiornata, grazie al lavoro di Susan Quilliam, una psicologa inglese piuttosto fuori dal coro, sono stati rinnovati i testi. Si è cercato di riproporre un messaggio “liberatorio” in un periodo che potremmo definire postfemminista. Forse nel tentativo di “ricicciare” il sesso alla sessantottina. Fra queste chicche c’è lo sdoganamento del deodorante. Nel caso non siate interessati al testo, restano le immagini.

L’IMMAGINE

Vizi privati e pubbliche virtù: lasciate fumare in pace Obama Fumerà o non fumerà? E se fumerà, si nasconderà o si farà vedere? La presidenza di Barack Obama sembra nascere con un problema che assilla gli americani e il mondo occidentale: fuma o non fuma?, si nasconde o si fa vedere? Alla vigilia della sua elezione e subito dopo la sua vittoria tutti dicevano: «Si può fare, si può cambiare». Le più grandi aspettative erano e sono state rivolte al neo presidente americano e sembra incredibile che oggi queste aspettative si riducano al fumo della sua sigaretta. Da una parte verrebbe da dire «lasciatelo in pace», dall’altra si può fare la considerazione che «alla fine Obama è un uomo come gli altri». Certo è che gli americani e il resto del mondo si attende da Obama qualcosina di più della sua correttezza igienico sanitaria alla Casa Bianca. Che faccia ciò che vorrà: lasciatelo fumare in santa pace, magari un piccolo vizio privato potrà rafforzare le sue virtù pubbliche. L’ultimo desiderio è che Obama non fumi l’ultima sigaretta.

Gennaro D’Agostino

DUE PESI E DUE MISURE Obama al mare, Obama a prendere il sole, Obama che gioca a golf. «W Obama», insomma, che se ne è andato a ricaricarsi, visto l’immane compito che lo aspetta (così hanno presentato la notizia delle sue vacanze alcuni media). L’avesse fatto Berlusconi, l’Unità & Co. come avrebbero commentato il giorno dopo? Più o meno con questo titolo:“L’Italia è in difficoltà, milioni di famiglie non arrivano a fine mese, ma lui prende il sole”. Ma si sa, siccome è Obama e il mondo è cambiato (com’è che non ce ne siamo accorti?), è tutto ok.

Lettera firmata

POLITICI NAPOLETANI, IMITATE DI PIETRO JR Le dimissioni del figlio di Di Pietro sono state un atto dovuto, co-

me attestato dallo stesso padre e leader dell’Idv. Peccato che la stessa saggezza, mirata ai valori dell’onestà e della responsabilità, non sia posseduta da certi personaggi napoletani, che dovrebbero fare lo stesso gesto per una miriade di motivi, primo tra tutti, la restituzione ai cittadini della libertà del ricambio per una gestione differente, di tante situazioni che scivolano sotto gli occhi in modo inaccettabile .

Bruno Russo

Il granchio, un grande trasformista Il granchio decoratore (Dromidia antillensis) vive nei mari più temperati. Per difendersi dai predatori questi minuti crostacei si sono specializzati nell’arte del camuffamento, sviluppando una tecnica molto originale. Prima di tutto scelgono dai fondali una spugna, un’anemone o un corallo e poi se lo caricano sulle “spalle”, portandoselo in giro, sicuri di non essere riconosciuti guardarsi attorno per vedere se a qualcuno scappa da ridere.

CHE RIDERE... IL PARTITO DEGLI ONESTI

STREET ART: L’ARTE DELL’IMBROGLIO

Non esiste alcun partito politico al mondo che si definisca «il partito dei disonesti». Ne esiste invece uno e uno solo al mondo, il Pd che si autodefinisce «il partito degli onesti», senza nemmeno

Ho letto recentemente in un articolo: «l’arte deve stimolare, deve essere un piacere per tutti, deve saper soprendere. Quale luogo migliore delle strade della città per riunire tutte queste caratteri-

stiche?». Questa frase espressa da un writer abusivista che ossessiona Milano da decenni con le sue icone, può considerarsi un manifesto perfetto della “filosofia”dei writers: la loro odiosa ipocrisia, arroganza e vanagloria spacciate per attività “sociali”. Con una disinvoltura degna dei peggiori tiranni della storia, questi individui, non solo fanno i pre-

potenti, ma cercano di far passare invadenza, esibizionismo e sete di controllo del territorio come “servizio pubblico” e “vera” arte. Migliore addirittura di quella dei grandi artisti del passato che si “limitavano” a colorare tele e ad esporle in luoghi dove solo chi lo desiderava andava a vederle. Di certo non peccano di faccia tosta!

Angelo Mandelli


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Sono tua più per diritto che per dono Mio amato, se mai avessi motivo di lamentarti di me per qualcosa che posso aver consapevolmente fatto, tutte le altre donne avrebbero il diritto di schiacciarmi sotto i piedi e considerarmi del tutto indegna. Ecco cosa rispondo a ciò che mi hai scritto ieri, riguardo al tuo desiderio di comportarti meglio con me... tu! Ma come potresti comportarti meglio? Mi hai sollevata da terra e portata nella vita e nel sole! Sono diventata tua più per diritto che per dono (seppure anche per dono, amore mio!), perché ciò che tu hai salvato e riportato in vita è certamente tuo. Tutto ciò che sono lo devo a te... se adesso provo gioia per qualcosa, o se la proverò in futuro, è solo grazie a te. Lo sai bene. Così come io ho sempre saputo, fin dall’inizio, di non avere alcun potere contro di te... Carissimo, nell’emozione e nella confusione di ieri in me c’era ancora posto per un pensiero, che era più di una semplice sensazione: pensavo che delle tante, tantissime donne che prima di me si erano trovate nel luogo in cui io mi trovavo in quel momento, e per lo stesso motivo, forse nessuna, da quando quell’edificio è una chiesa, ha avuto ragione di provare una fiducia e una devozione così assolute nei riguardi dell’uomo che stava sposando... neppure una! Elizabeth Barret Browning a Robert Browning

ACCADDE OGGI

SPERIMENTARE PER L’ANIMA SOGNARE PER IL CUORE Fede e Ragione sono per me concetti completamente barbari e limitati. Come pensi di comprendere la Vita basandoti su ciò che ti hanno inculcato sin da bambino, per dogma e/o per partito preso? Come pensi di comprendere la Vita basandoti sulla mera razionalità, suggeritati dal tuo freddo cervello? È per questo che preferisco di gran lunga la sperimentazione diretta, ovvero la comunione mistica con il Divino: qui ed ora. Comunione mistica percepibile per mezzo di un’emozione inconoscibile ed incomunicabile: durante un amplesso; quando due bimbi si abbracciano; quando due gatti giocano assieme; quando la/il tua/tuo amante ti bacia per la prima volta, o per la seconda o via discorrendo; quando ti batte il cuore nel ricevere un regalo; quando mangi il più succulento dei piatti preparati da amorevoli mani; quando doni un sorriso a qualcuno; quando presti soccorso ai bisognosi; quando preghi o meditati così intensamente da vedere Dio dentro te stesso; quando compi un rituale ancestrale; quando leggi un appassionante romanzo che ti rapisce completamente; quando scrivi le cose che ami. Quando ami. Agli uomini di fede consiglio sempre di andare oltre il dogma e di sperimentare: troveranno l’Anima. Ai razionalisti consiglio sempre di andare oltre la mente: troveranno il Cuore.

Luca Bagatin

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

31 dicembre 1955 La General Motors è la prima compagnia statunitense a fatturare oltre un miliardo di dollari in un anno 1961 Il Piano Marshall cessa dopo aver distribuito più di 12 miliardi di dollari in aiuti per ricostruire l’Europa 1963 Crolla la Federazione centro africana, dando vita a Zambia, Malawi e Rhodesia 1968 Marien Ngouabi assume la presidenza del Congo 1980 Il generale dei carabinieri Enrico Riziero Galvaligi viene freddato da un commando delle Brigate rosse 1990 Garry Kasparov conserva il titolo di campione del mondo degli scacchi, battendo Anatoly Karpov 1999 Boris Yeltsin si dimette da presidente della Russia, verrà sostituito da Vladimir Putin 2002 Stromboli viene evacuata in seguito ad una forte eruzione, con conseguente tsunami, avvenuta il giorno prima 2002 In Cina viene inaugurato il primo tratto ferroviario servito da un treno a levitazione magnetica. Velocità massima: 430 km/h

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

NON DIMENTICHIAMO LE SUORE PIEMONTESI Come cristiano, voglio ricordare le due religiose piemontesi rapite in Africa, quasi due mesi fa, tra il 9 e il 10 novembre, a Elwak, nel nordest del Kenya, al confine con la Somalia: Caterina Girando, 67 anni, originaria di Boves (Cuneo), e Maria Teresa Olivero, 60 anni, anch’essa cuneese, di Centallo, appartenenti al Movimento missionario Charles de Foucauld di Cuneo, presente da tempo nella regione keniota, con una piccola comunità. Per loro, però, non vi è stata nessuna mobilitazione di politici, nessuno striscione di protesta popolare, nessuna campagna stampa. Eppure, sono italiane e missionarie cristiane. Io credo che la stampa debba ricordare Caterian Girando e Maria Teresa Olivero in questi giorni che preludono all’anno nuovo, sperando che l’inizio del 2009 porti alla loro liberazione e al ritorno alla loro così preziosa e indispensabile opera umanitaria, al servizio di bambini e persone bisognose di quella terra tanto sfortunata e lacerata. E, naturalmente, il mio pensiero di cristiano, appena uscito dalla celebrazione del Santo Natale con la convinta speranza che “Dio non è morto”, va anche ai popoli dell’India, della Cina, dell’Iraq, del Sudan e del Congo – ricordati dal Papa nel suo discorso natalizio – che soffrono e patiscono gravi atrocità, tante malattie e dura povertà, dimenticati dai media, dai governi nazionali e dall’Onu con indifferenza e cinismo.

Angelo Simonazzi

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

dai circoli liberal

L’EPOCA DELLE “PAROLE MAGICHE” Il bipartitismo immaginato da Berlusconi e Veltroni, dopo le ultime vicende politiche, giudiziarie ed elettorali in Italia, rimane una chimera. Gli elettori italiani hanno giudicato i roboanti proclami dei due leader niente più che “parole magiche”. La politica ha bisogno di cure diverse, decise ed efficaci, i venditori di fumo non servono, producono solo aria fritta, tanto che incominciano a perdere terreno e consensi. Gli amici che stanno lavorando alla “costituente di Centro” devono essere attenti e riflessivi in questo particolare momento, perché hanno uno spazio enorme da sfruttare, operando con impegno e serietà. La loro ispirazione culturale è garanzia per una concreta azione di governo. Benedetto XVI negli ultimi mesi si è rivolto ai cattolici, per invitarli a fare emergere una nuova generazione di laici cristiani impegnati in politica. Il Sommo Pontefice, profondo conoscitore della realtà planetaria in perenne fermento, percepisce che questioni come tutela della vita e della famiglia, immigrazione, fame nel mondo, educazione, lavoro, giustizia e pace sociale, possono diventare residuali nel mondo dell’economia globale, che sempre più si adegua a forme di capitalismo selvaggio. Il valore sociale del capitale è del tutto trascurato, e sono in pochi a far sentire la loro voce a favore di chi ha più bisogno. Benedetto XVI spera nell’opera di cattolici attivi, non più in letargo, come vorrebbero in tanti. La cultura cattolica e i suoi esponenti in campo religioso, politico, economico e sociale possono dare ancora tanto per una buona politica. In Europa, dopo il protestantesimo, l’illuminismo, il comunismo, oggi è la volta dell’agnosticismo nichilista e del relativismo culturale ed etico, che insistono nel voler rendere marginale il pensiero cristiano. Le recenti e rozze prese di posizione di Fini e di Brunetta nei confronti dell’operato della Chiesa cattolica sono il segno del decadimento della politica. Uomini delle istituzioni che non sanno cosa fare per il buon governo del Paese tirano in ballo la Chiesa per giustificare le loro incapacità. Ex fascisti ed ex marxisti non possono avere titolo per spiegare a chi ha avuto sempre a cuore le sorti della libertà e del bene comune, cosa debbono fare oggi. I cattolici sanno come devono agire, anche in questa confusa e incerta epoca di “parole magiche”. Approfondire la lezione di due grandi esponenti del cattolicesimo-liberale come De Gasperi e Don Sturzo può significare il rilancio di idee mai superate e la valorizzazione del confronto politico, parlamentare ed istituzionale. Come non riferirsi ai due storici esponenti cattolici nel momento in cui la politica odierna tenta di varare riforme per costruire nuove istituzioni? Riforma delle autonomie locali, equità fiscale, sviluppo, sicurezza sono capisaldi dell’esperienza storica di governo dei cattolici-liberali, costante del pensiero politico popolare. Raffaele Reina C I R C O L I L I B E R A L P R O V I N C I A D I NA P O L I

APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL

ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529

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PAGINAVENTIQUATTRO Londra. I docenti inglesi vogliono tornare al creazionismo

Contrordine: nelle scuole Dio batte di Silvia Marchetti

harles Darwin si sta rivoltando nella tomba. Finché il dibattito evoluzionismo-creazionismo ha investito l’America lontano dai lidi britannici va bene, ma che oggi siano proprio i suoi concittadini a tradirlo è davvero troppo. Tant’è: un sorprendente numero di insegnanti inglesi di scienze boccia l’esclusività dell’insegnamento scolastico delle sue teorie “animali”- che vogliono l’uomo discendente dalla scimmia - e chiedono invece che nelle aule venga spiegato anche il creazionismo, ossia la versione “soprannaturale”, secondo la quale tutti siamo stati creati direttamente da Dio, senza passaggi intermedi e strane forme di mutamenti fisici. Stando a un sondaggio nazionale Ipsos-Mori, effettuato tra i maestri e le maestre di scienza di 923 scuole primarie e secondarie, ben tre su dieci vorrebbero che oltre all’evoluzionismo i loro ragazzi imparino in aggiunta le teorie creazioniste. Una percentuale che stupisce, se si considera che si tratta proprio degli “scienziati”scolastici. Tra gli insegnanti ordinari i favorevoli salgono addirittura al 73 per cento. È vero, quello di Dio contro Darwin è uno scontro che va avanti ormai da anni, ma colpisce che parta dai professori una simile richiesta. Il motivo principale è semplicemente quello di poter dare agli studenti un maggior grado di imparzialità nello studio dell’uomo, e per farlo oc-

C

corre insegnare loro le due versioni “antitetiche” dell’origine della vita. Nelle scuole del Regno Unito oggi si insegna infatti soltanto una versione dell’orgine dell’uomo: quella evoluzionistica, per ovvi motivi che attingono al politically correct e al multiculturalismo del melting pot anglosassone che non include nei programmi scolastici pubblici le ore di religione. Le uniche eccezioni sono rappresentate, ovviamente, dagli istituti privati d’ispirazione puritana o cattolica. Il sondaggio conferma un cambiamento di atteggiamento che sta avvenendo in Gb.

DARWIN

Non è caso che tutti i professori di scienza intervistati abbiano espresso il loro supporto alle teorie del dott. Michael Reiss, l’ex direttore per l’istruzione della prestigiosissima Royal Society – da secoli l’accademia di scienze e lettere che forgia la cultura nazionale del Paese – che a settembre ha rassegna-

posta “assurda”di Reiss. Lo stesso governo laburista ha sempre vietato l’inserimento del creazionismo e della teoria del disegno intelligente (una versione mix a metà tra i due) nei programmi scolastici, ma sta di fatto che i professori inglesi stanno cambiando mentalità e chiedono un aggiornamento dei testi e dei contenuti didattici. Insomma, il Big Bang non basta a spiegare tutto. «L’origine soprannaturale non può essere cancellata soltanto perchè non ha un fondamento scientifico sul quale poggiare - aveva scritto Reiss in un editoriale pubblicato sul Guardian alcuni giorni prima di dimettersi - l’importante è stimolare il dibattito tra i ragazzi e affrontare i loro dubbi. Dopotutto la scienza è soprattutto questo». Non solo: commentando i risultati del sondaggio Ipsos che gli danno ragione, Reiss aggiunge che «sono molti i ragazzi che credono nel creazionismo. Perché si dovrebbe dunque privarli di una simile versione? L’obiettivo dei professori che insegnano le materie scientifiche è anche quello di rispettare questi ragazzi. L’unico approccio corretto è semplicemente di evitare di presentare le teorie creazioniste e il disegno intelligente come fossero supportate da dati scientifici».

Tre insegnanti di scienze su dieci vorrebbero spiegare ai loro alunni, oltre all’evoluzionismo, le teorie creazioniste. Se si contano i maestri di tutte le discipline, nelle medie e superiori, il numero sale fino a sette to le dimissioni proprio per “colpa”di Darwin. Ovvero, è stato il primo ad appoggiare l’idea di introdurre l’insegnamento del creazionismo durante le lezioni di scienze e mettere fine una volta per tutte all’esclusività dell’approccio evoluzionista. Oltre la maggioranza dei professori la pensa infatti esattamente come lui, ossia che per parlare del ruolo di Dio nell’origine dell’uomo non bisogna necessariamente farlo all’interno delle ore di religione ma che è possibile affrontare l’argomento anche da un punto di vista scientifico.Tutto ciò allarma gli scienziati duri e puri del Regno Unito, quelli che non parlano con i ragazzi e stanno chiusi nei laboratori. La spiegazione soprannaturale dell’universo non può entrare nei libri di scuola, affermano, soprattutto nei libri di scienza. Due premi Nobel nonché membri della Royal Society – Harry Kroto e Richard Roberts – si sono fatti portavoce dell’establishment scientifico inglese mettendo subito “all’indice” la pro-

Ma non tutti i professori sono illuminati. Chris Higgins, vice rettore dell’università di Durham, vede il pericolo di un ritorno indietro ai tempi bui dell’ignoranza e della superstizione: «Se iniziamo con l’accettare l’alternativa soprannaturale alle teorie di Charles Darwin nelle scuole presto finiremo con l’insegnare astrologia, alchimia ed esoterismo e a dire che la terra è al centro dell’universo. Ciò che la scienza ha dimostrato non può essere negato».


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