ISSN 1827-8817 90102
di e h c a n cro
Ho portato le mie opinioni
a sinistra, al centro, a destra; e sono rimaste incrollabili
9 771827 881004
Emile Gondinet
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Otto anni di lavoro per un importante libro di memorie di grande attualità
Forlani torna in campo e riscrive Tangentopoli di Errico Novi n silenzio durato un quindicennio rotto da un libro-intervista costruito in otto anni di lavoro. È quasi un kolossal della memoria Potere discreto. Cinquant’anni con la Democrazia cristiana, il volume, edito da Marsilio, nel quale Arnaldo Forlani affida alle cure di Nicola Guiso e Sandro Fontana la sua idea del passato dc e del presente dei centristi. Oltre, naturalmente, a esprimere giudizi molto duri su Tangentopoli, un’operazione che secondo l’ex segretario della Dc seguì un preciso disegno politico: «Indagini e inchieste hanno avuto in determinate aree un taglio liquidatorio, di sommaria semplificazione, e sono state platealmente indirizzate in certe direzioni. Si è proceduto in modo difforme a seconda dei partiti». Certo, si parla di quindici anni fa, ma si tratta di qualcosa di drammaticamente attuale.
U
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
GAZA: IL FALLIMENTO DELLE DIPLOMAZIE Sarkozy riceve un secco no dalla Livni. L’Europa non ha ancora capito che il cessate il fuoco chiesto a Israele è verificabile, quello chiesto ad Hamas è solo un inganno
Il bluff della tregua alle pagine 2 e 3
se gu e a p ag in a 13
La «rivoluzione» di Benedetto XVI di Guglielmo Malagodi a pagina 6
Chiusi da Mosca i rubinetti ucraini
Il gas è ancora il cappio dello zar Putin di Luca Volontè Ucraina è stretta nel gelo, assediata dal Generale Inverno, il miglior alleato in questa strategia di conquista dello Zar Putin. Gazprom, il colosso dell’energia guidato da Mosca, ha annunciato il taglio delle forniture nei confronti di Kiev. Noi stiamo al caldo e il nostro premier (desideroso di un presidenzialismo russo) è amico della Russia: pensiamo che questo ci eviti di prenderci la responsabilità verso noi stessi e l’intera Unione europea? La nuova Armata Rossa è il gas. Ma quando serve, come in Georgia, le armi vengono rispolverate. Due giorni fa, l’autoproclamatasi Repubblica di Ossezia ha chiesto un intervento internazionale per bloccare le truppe georgiane al confine, un replay di agosto.
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se gu e a p ag in a 4
L’invito del Capo dello Stato al dialogo sulle riforme accolto solo pro forma da Pdl e Pd
La ”predica inutile”di Napolitano Ipocrita consenso formale al discorso del presidente di Riccardo Paradisi l messaggio di fine anno del pregli opposti schieramenti. Non abbracci sidente della Repubblica è tradiconfusi, ma nemmeno guerre come tra zionalmente un distillato di linnemici. Il rischio infatti – ha aggiunto guaggio istituzionale e un capolaNapolitano – è quello di allontanare i voro di equilibrio. La titolarità del cittadini dalla politica, soprattutto i giovani». Per questo il presidente della ReColle obbliga del resto a una mediapubblica ha rinnovato l’appello «ai prozione ponderata delle posizioni in tagonisti della vita politica a nome dei campo rispetto ai problemi del Paese, cittadini a creare anche in Italia il clima obbligo rispetto al quale il discorso che già esiste in grandi Paesi democradel presidente Giorgio Napolitano tici in politica e nelle istituzioni. Si ridel 31 dicembre non ha fatto ecceziocerchi pazientemente l’accordo su mecne. Eppure, a leggerlo bene, il ragiocanismi elettorali che rendano più linamento del capo dello Stato contieneare e sicura la formazione delle magne messaggi sufficientemente esplicigioranze». Insomma parole chiare: la ti da essere capiti da chi, come le forze politiche, dovrebbe avere orecchie per ascoltare e per in- priorità del Paese, sollecitato dalla crisi economica, è un diatendere. «Le diversità anche decise non devono preoccupa- logo vero tra maggioranza e opposizione per rendere possire – ha detto il capo dello Stato nel suo messaggio – ma è bile la riforma delle istituzioni. importante che vi sia più dialogo, più ascolto reciproco, tra se g ue a p a gi na 8
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CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
1•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 2 gennaio 2009
Guerra. Sale il numero delle vittime, anche se i raid aerei israeliani sembrano meno devastanti dei primi giorni. Ucciso il “falco” di Hamas, Nizar Rayyan
Nessuna tregua per Gaza Gerusalemme richiama i riservisti: attacco di terra? Intanto aumentano i consensi per il partito di Barak di Vincenzo Faccioli Pintozzi
imane un miraggio la possibilità di una tregua a Gaza. Dopo sei giorni di bombardamenti aerei, che hanno provocato circa 410 vittime e più di 1.700 feriti, sembra impossibile trovare una conclusione che non preveda l’uso delle armi sulla Striscia. Fallite le missioni diplomatiche dell’Occidente, cadono anche le linee dei moderati di Hamas. Questi, che con molta probabilità avevano in giornata aperto alla proposta dell’Unione europea, si sono ritrovati in minoranza. Il loro “sì” condizionato alla tregua è stato infatti smentito in serata dal portavoce del gruppo, Fawzi Barhoum, che ha ribadito di non aver rilasciato alcun commento su tale questione. Nel comunicato rilasciato ieri mattina si leggeva invece che «Hamas accetterà questa iniziativa (della Ue) a condizione che l’aggressione (israeliana) cessi, che il blocco sia revocato, che tutti i valichi siano aperti e che noi otteniamo delle garanzie internazionali per cui l’occupante non ricomincerà questa guerra».
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Barhoum ha invece spento ogni speranza, dichiarando: «Si tratta di un falso comunicato, destituito di ogni fondamento e propagato da agenti ostili al fine di seminare il dubbio sulle posizioni di Hamas». Ma il sesto giorno di raid aerei sulla Stri-
scia di Gaza riporta anche una eccellente: Nizar vittima Rayyan, leader di una corrente estremista di Hamas, morto sotto un bombardamento dell’aviazione.
La notizia è stata confermata dallo stesso movimento islamico, che ha giurato vendetta a Israele per quanto avvenuto. Rayyan era considerato uno dei maggiori esponenti dell’orga-
In giornata, Hamas apre a una tregua “a condizioni”. Poche ore dopo arriva la smentita: si combatte fino alla vittoria nizzazione: un “falco”, da tempo favorevole alla ripresa degli attentati suicidi contro Israele. Il colpo è stato durissimo, anche perché Rayyan era impegnato nel tentativo di sollevare tutta la Palestina nella terza intifada. Subito dopo la conferma della sua morte, un comunicato apparso sul sito web di Hamas chiede «a tutti i buoni musulmani di scendere in strada per protestare contro l’offensiva israeliana a Gaza a Gerusalemme e in Cisgiordania». La richiesta è quella di organizzare marce imponenti dopo la preghiera del
zipora Livni, in arte Tzipi, rovina il Capodanno dell’Eliseo mettendo una pietra sulle aspirazioni nutrite da Sarkozy di chiudere in bellezza il suo semestre alla guida dell’Unione europea. Dopo il gran rifiuto espresso da Olmert al piano Kouchner, presentato d’urgenza da Parigi, è il ministro degli Esteri a dire no a una tregua nella Striscia di Gaza. Dove, secondo un comunicato emesso dallo stesso dicastero, «non c’è alcuna crisi umanitaria», e di conseguenza non c’è alcun bisogno di una tregua ai raid. La Livni ha sottolineato poi al leader francese - nel corso del colloquio avuto dai due ieri a Parigi - che Israele sta fornendo aiuti alla Striscia e che, anzi, li ha pure aumentati. Parlando con i giornalisti alla fine
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venerdì a partire dalla moschea di al Aqsa a Gerusalemme e da tutti i templi in Cisgiordania.
L’appello è stato raccolto immediatamente dagli studenti iraniani. Centinaia di giovani musulmani si sono riuniti ieri a Teheran per manifestare contro gli attacchi su Gaza, confermando la volontà di spostarsi nella Striscia «per combattere e morire contro Israele». La manifestazione è avvenuta nell’area della vecchia ambasciata americana ed è stata organizzata dalle “Brigate dei martiri volontari”, nati subito dopo l’appello della Guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, che domenica aveva invitato i Paesi arabi a mobilitarsi contro Israele per «i crimini commessi a Gaza». Nel corso della manifestazione, sono state bruciate le fotografie del primo ministro israeliano Ehud Olmert e del presidente egiziano Hosni Mubarak, accusato di essere complice d’Israele. Circa 150 manifestanti si sono radunati davanti alla casa del Premio Nobel per la Pace, l’avvocatessa Shirin Ebadi, accusata di sostenere Israele e gli Usa. In favore della posizione di Hamas anche il presidente del Parlamento libanese, Nabih Berri, che ha invitato gli arabi a «sostenere la resistenza palestinese nella Striscia di Gaza, per
Militanti di Hamas pattugliano le zone di confine della Striscia di Gaza, dove non si fermano i raid aerei dell’aviazione di Gerusalemme. I morti degli ultimi sei giorni salgono a 410, mentre i feriti superano le 1.700 unità. Nella pagina a fianco, soldati di Tsahal
dimostrare che Israele non può spezzare la volontà del popolo arabo». Berri è alleato al gruppo sciita Hezbollah, contro cui Israele lanciò la guerra in Libano nel 2006. Parlando durante l’apertura della conferenza dell’Unione parlamentare araba convocata a Tiro per discutere della crisi nella Striscia di Gaza,
Gran rifiuti. Israele spezza l’ultimo sogno di gloria dell’Eliseo
del meeting dell’Eliseo, la Livni ha aggiunto: «Il governo israeliano deciderà quando sarà il momento di cessare le sue operazioni militari nella striscia di Gaza. Nelle sue operazioni, Israele distingue la guerra contro il terrorismo, contro Hamas, dalla popolazione civile. Così facendo, noi manteniamo la situazione umanitaria a Gaza esattamente come deve essere». Tuttavia, come ha spiegato sempre ieri il primo
ministro israeliano Ehud Olmert, «non desidera una guerra lunga» contro Hamas nella Striscia di Gaza, e «non ha intenzione di allargare il fronte». «Non abbiamo dichiarato guerra agli abitanti di Gaza - ha continuato - bensì ad Hamas, nei cui confronti agiremo col pugno di ferro». Israele, ha concluso Olmert, «non poteva accettare oltre una situazione in cui centinaia di migliaia di israeliani vivevano nella
Nel frattempo, però, cresco-
paura, nell’angoscia e nell’incertezza». Nel buco lasciato dalla Francia, che ha perso l’occasione di divenire il principale mediatore del conflitto, tenta di subentrare il premier ceco Mirek Topolanek, da ieri presidente di turno dell’Unione europea. Questi, pur essendo notoriamente scettico riguardo al ruolo internazionale dell’Unione, ha annunciato una missione in Medio Oriente per disinnescare il conflitto nella Striscia di Gaza.Vi parteciperanno il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, e quelli di Francia e Svezia, Bernard Kouchner e Carl Bildt, oltre all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Javier Solana, e al commissario per le Relazioni esterne dell’Ue, Benita FerreroWaldner.
Tzipi Livni a Parigi rovina il Capodanno di Sarkò di Massimo Fazzi
Berri si è scagliato contro Gerusalemme e «il suo atteggiamento terroristico». Il presidente dell’Unione, il leader dell’Assemblea legislativa irachena Khaled al Attiyah, ha definito l’attacco israeliano a Gaza «un crimine contro l’umanità».
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La partita diplomatica si gioca sul “come” controllare Hamas
La battaglia degli Osservatori di Stranamore iamo nel XXI secolo, ma il modo in cui le diplomazie cercano di affrontare la guerra in corso è tanto inadeguato da apparire tragicamente ridicolo. Si parla di cessate il fuoco, di aprire varchi per far passare convogli umanitari, dello spiegamento di osservatori che dovrebbero verificare che le parti smettano di combattere, ma tutto questo non tiene conto della natura del confllitto. Che, almeno in questa fase, consiste di guerra aerea o comunque indiretta, con una parte che usa velivoli ad ala fissa, elicotteri e aerei senza pilota e l’altra che risponde, come può, con razzi d’artiglieria. Non c’è un fronte, non ci sono truppe a contatto. Però si ragiona come se si stesse svolgendo uno scontro…ottocentesco. Si pensi ad esempio ai proposti “osservatori”, chiave di volta delle tregue proposte nella Striscia: ma che diamine potrebbero osservare? Come si può sapere quando, da dove e chi lancia un piccolo razzo a partire dalla striscia di Gaza? E chi mai può “osservare” cosa fanno i velivoli israeliani? Al massimo si possono registrare, gli effetti a terra della “violazione”, ben sapendo che falsificazioni sono possibili da entrambe le parti. Non parliamo poi di una eventuale verifica della cessazione del contrabbando di armi da parte di Hamas. Come no, non ci riesce Israele, figuriamoci qualche osservatore europeo. In realtà non c’è alcun modo per controllare che i contendenti rispettino un eventuale cessate il fuoco.
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no in Israele i consensi per il Partito laburista di Barak, un segnale che sottolinea la vicinanza dell’elettorato alla linea dura adottata dal comandante in capo di Tsahal. A 40 giorni dalle elezioni politiche, i laburisti guidati dal ministro della Difesa risultano essere la formazione politica che ha tratto maggior vantaggio dall’operazione. La destra religiosa è invece in netto calo rispetto ai proonostici.
Se si votasse oggi, dice un sondaggio rilanciato dal quotidiano Haaretz, il Labour conquisterebbe 16 seggi contro gli 11 attribuiti la settimana scorsa prima dell’inizio dell’offensiva. Kadima, il partito del premier Ehud Olmert guidato ora dal ministro degli Esteri Tzipi Livni ne guadagna uno (da 26 a 27). Più marcata la crescita della destra del Likud: 2 parlamentari in più (da 30 a 32). Sul fonte opposto arretrano di 4 seggi gli ortodossi dello Shas. E sempre Haaretz riporta un dato che spiega questi movimenti politici: l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza sarebbe estremamente popolare in Israele. Il 52 per cento della popolazione
vuole infatti che i raid proseguano, mentre il 19 per cento ritiene indispensabile che si dia il via anche all’offensiva di terra. Solo il 20 per cento degli intervistati chiede che si raggiunga un cessate il fuoco «il prima possibile».
Ancora mistero sull’attacco via terra, annunciato come imminente nel secondo giorno di raid aereo e ancora fermo al suo posto. Secondo fonti del governo israeliano, il via libera ai carriarmati arriverà soltanto quando sarà fiaccata del tutto la contraerea di Hamas, quei razzi Qassam che continano a partire dal sud della Striscia diretti verso Israele. Fonti dello Stato maggiore dell’Idf, l’Israeli Defence Force, sostengono che l’intervento delle due divisioni schierate lungo la linea di confine con la Striscia di Gaza «aumenterà la pressione su Hamas fino a convincerli ad accettare una tregua a lungo termine a condizioni più favorevoli per Israele». Il gabinetto di sicurezza ha inoltre autorizzato la mobilitazione di altri 2.500 riservisti, oltre ai 6.500 già richiamati in servizio dall’inizio delle operazioni.
aveva una sufficiente intelligence. Dopo 6 giorni di operazioni, oltre cinquecento sortite dei velivoli ad ala fissa e centinaia di sortite di elicotteri da combattimento e aerei senza pilota: la lista dei bersagli “facili”è quasi svuotata. Ora si devono colpire bersagli mobili o di opportunità il che non è tecnicamente semplice e può provocare più vittime tra i civili. Quanto ad Hamas, fino ad ora è riuscita a lanciare forse 250 razzi, ottenendo poco o niente, sia in termini militari, sia in termini strategici e politici. I pochi razzi tirati qua e là, con minima precisione, nell’arco di sei giorni…fanno meno vittime di quanto non sia accaduto in Italia durante gli stupidi giochi pirotecnici del capodanno. Può anche essere che tra qualche tempo Israele trovi conveniente fermare la sua macchina bellica aerea. Ma non lo farà certo alle condizioni di Hamas o accontentandosi delle formule escogitate a Palazzo di Vetro o a Bruxelles.
Va anche ricordato che Israele in tutta la sua storia militare è stata perennemente in corsa contro il tempo. Naturalmente solo quando vinceva. Basta pensare alla guerra del ’56, a quella del ’67, nella seconda fase di quella del ’73, persino alle operazioni in Libano del 2006. Ad Israele si chiede sempre di fermarsi, quando è in vantaggio o sta trionfando sul campo. Anche quando sono i suoi i nemici ad iniziare le ostilità. È logico quindi che questa volta cerchi di ottenere il massimo risultato tecnico, per concedere un cessate il fuoco alle proprie condizioni. Un po’ come ha fatto la Russia con la Georgia questa estate. Del resto Israele si rende conto che per ridimensionare militarmente Hamas fino ad un livello che consenta a Fatah di regolare i conti quanto realizzato in questa prima settimana ancora non basta. Peraltro Tsahal non ha alcuna intenzione di impegnarsi nell’occupazione della Striscia, anche se Hamas non è certo Hezbollah. Al massimo si pensa a un raid in forze e ad una bonifica della fascia a ridosso dei confini nord/est. Ma anche questa non sarebbe una opzione indolore. Quindi, meglio mantenere ancora un po’ la pressione usando gli aerei e il blocco dei confini e dei valichi. Nella consapevolezza che i ritmi della politica internazionale sono del tutto inadeguati alla realtà bellica contemporanea.
Tra qualche tempo Israele potrebbe fermare la sua macchina bellica. Ma non lo farà certo alle condizioni di Hamas o a quelle escogitate a Bruxelles. Che continua a chiedere atti sempre unilaterali
Ma poi, perché mai Israele dovrebbe sospendere le ostilità mentre sta ottenendo risultati militarmente significativi (compresa l’eliminazione di alcuni dei capi militari di Hamas) senza subire né perdite militari né pagando un prezzo troppo elevato per la popolazione civile? La storia insegna che si raggiunge una tregua quando conviene ad entrambi i belligeranti, mentre a chiedere un cessate il fuoco è di norma chi sta soccombendo. Chi vince non ha convenienza a dare all’avversario l’opportunità di recuperare, muovere uomini e mezzi, riorgarifornirsi. nizzarsi, Questo è particolarmente vero nella guerra moderna, che ha ritmi molto elevati e si svolge sull’intero arco delle 24 ore. In questi casi un “blocco” di 48 ore può davvero cambiare le sorti del confronto. C’è peraltro da dire che Israele ha quasi finito di colpire gli obiettivi strategici e militari fissi o sui quali
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mondo
Russia. Nonostante la vendita delle azioni dei giganti energetici, la crisi nell’ex Urss peggiora di giorno in giorno. Il governo teme proteste popolari e blocco industriale
Cannonate di Gazprom Chiusi i rubinetti a Kiev, il Cremlino subisce l’attacco dei media. Che lo accusano di ignorare la crisi di Amar Masala econdo Vladimir Putin, la Federazione russa dovrebbe essere in grado di attraversare la crisi finanziaria del 2009 con difficoltà minime. Quanto successo a Mosca lo scorso fine settimana sembra dar ragione al primo ministro russo. Domenica ingorghi e file per l’acquisto dei regali di fine anno hanno bloccato la Prospettiva Kutuzovskii e paralizzato la Chaussée Varsavia. Per ora lo spettro della crisi economica non sembra aggirarsi tra le vie della capitale russa. Non diversamente dai loro colleghi di altre capitali europee anche i consumatori russi vogliono trascorrere le festività in maniera spensierata. Tra le élite federali vi è però chi inizia a pensare ai modi in cui fronteggiare la prossima difficile congiuntura. Del resto, non riflettere sugli scenari economici della Russia 2009 sarebbe da irresponsabili. Tra ottobre e novembre dell’anno che ci ha lasciato, la produzione industriale del grande Paese slavo e ortodosso è calata del 10,8 per cento. A novembre il volume degli stipendi rimasti in arretrato è raddoppiato.
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La disoccupazione, già alla cifra record del 6,1 per cento nel primo trimestre del prossimo anno, salirà ancora. Si tratta di indicatori che il Paese non conosceva dal 1998. E se finora la stampa aveva abbellito le prospettive adeguandosi a quanto richiesto dai leader del Cremlino, ora l’atteggiamento dei media sta cambiando. Sabato per illustrare la drammaticità della futura crisi finanziaria l’austero Kommersant ha preso un’iniziativa clamorosa. Il quotidiano, rinunciando a ogni contributo redazionale e utilizzando una legge federale che consente di rendere note le insolvenze, ha riempito le sue trentasei pagine con le dichiarazioni di bancarotta di diversi imprenditori russi. Il sasso nello stagno era però già stato lanciato a novembre. Con un contributo puramente fantastico pubblicato sul quotidiano economico Vedomosti, il sociologo Evgenij Gontmakher dipingeva un quadro inquietante di quanto potrebbe accadere in conse-
Ricatti. L’ultimo atto della guerra ucraina ci riguarda da vicino
Il cappio di Putin di Luca Volontè segue dalla prima Sappiamo tutti cosa significa, dato che l’Ossezia è riconosciuta soltanto dal Nicaragua e dalla Russia. Secondo voi, chi interverrà di nuovo? Certo la decisione di “non scegliere” nel mese di agosto, le minacce urlate e le strette di mani sotto i tavoli con la Russia, hanno caratterizzato la diplomazia europea dei mesi scorsi.Senza offesa, ma una politica del “bau bau”, voce grossa e niente denti, non serve a nulla. Così come imputridisce la vicenda georgiana, così si è resa ridicola l’ispezione dell’Osce per controllare le elezioni in Bielorussia di 20 giorni fa, quando vennero pubblicate addirittura foto di militari russi che uscivano dai seggi dopo aver votato per la conferma dell’alleato di Putin alla guida del Paese.Rapporto ufficiale finale: le operazioni si sono svolte con grande correttezza.
Ok, si dirà che la Georgia e la Bielorussia non sono poi così vicine a casa. E l’Ucraina? La terra del primo cristianesimo russo, dove si andrà a votare tra pochi mesi - dopo un confusionario scioglimento del Parlamento e la rottura tra premier e presidente della Repubblica - è sotto assedio da mesi. Passaporti russi vengono concessi a cittadini ucraini - eredi dei deportati di Stalin - per consentire una “invasione”in difesa dei cittadini di di razza russa. Putin ha immaginato per l’Ucraina anche un’altra opzione: ha stretto una formidabile alleanza con l’ex premier e bloccato la fornitura di gas. Così si è messo in ginocchio il Paese, sia politicamente che energeticamente. L’Unione europea è naturalmente latitante, come lo è stata la Nato dopo la scoperta che il mi-
nistro della Difesa dell’Estonia era al soldo del Kgb. La notizia è stata rilanciata soltanto dai media statunitensi e inglesi. Ovviamente in Italia si è evitato di commentare: in fondo siamo anche noi un poco ucraini. Senza il gas russo dove andremo? Putin e la Russia hanno tutta la mia stima, hanno una loro strategia geopolitica e sono convinti che ogni Stato dell’ex Unione sovitica che non sia entrato nella Ue debba essere o di-
La produzione industriale del grande Paese slavo e ortodosso è calata del 10,8 per cento. A novembre il volume degli stipendi arretrati è raddoppiato
ventare un proprio “satellite”. La Russia è anche convinta che la Ue sia destinata a rimanere sempre più nell’ombra del mondo e che gli Stati Uniti del neoeletto Barack Obama non saranno interventisti come quelli di Bush. Io penso che Putin sarà un grande Zar - come lo pensava anche Solgenitzin - e sono sicuro che alle strette sarebbe meglio per l’Europa uno Zar russo che un Califfo islamico. Con Putin condivido l’idea che Obama avrà troppo da fare in patria, però non posso rassegnarmi al letargo della Ue, nè al ritorno a una nuova fase del vecchio imperialismo sovietico del Novecento. Non sono il solo: da ieri è iniziata infatti la presidenza Ceca della Ue, certo euroscettica ma sicuramente guardinga verso i russi. Da lassù Vaclav Havel semper docet. E l’Italia da che parte starà?
guenza della prossima crisi finanziaria. Già il titolo del lavoro Szenarij: Novocherkassk2009 è indicativo. Novocherkassk è una cittadina della regione meridionale di Rostov dove, nel 1962, la polizia sovietica aveva brutalmente represso manifestazioni di protesta operaie. Secondo il “racconto” di Gontmakher, il venir meno della forza trainante dell’industria (in Russia ci sono 700 città simili a Novocherkassk), potrebbe condurre a disordini e repressioni anche nel 2009.
Il pezzo di fantapolitica descrive quanto il governo teme. Lo dimostra la reazione, questa molto reale, delle autorità. Secondo il Servizio federale ispettivo per i mass media nazionali, l’articolo, “potrebbe essere considerato un tentativo di incitare attività estremiste”. In questo senso va una lettera ricevuta dal quotidiano il 21 novembre. Gontmakher, pur dicendosi meravigliato dalle reazioni governative, ha
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relle cui gli osservatori internazionali non hanno dato l’importanza che meritava.
Nella foto grande, un operaio lavora in un’azienda di gas russo. Sopra, il premier ucraino Yulia Timoshenko, protagonista di una crisi di governo a Kiev. Nella pagina a fianco, Putin dichiarato di comprendere i timori dell’esecutivo. «Naturalmente sono preoccupati, ed è giusto che lo siano» ha detto il sociologo. Del resto nel suo recente incontro online a domande e risposte, Putin ha messo da parte il suo iniziale ottimismo per affermare che l’anno prossimo il numero dei lavoratori disoccupati dovrebbe passare dagli attuali 1,7 milioni ai 2 milioni. Più crudamente le previsioni parlano di un calo della domanda che dovrebbe durare per almeno
quarantotto mesi. Secondo la Nezavisimaja Gazeta, al calo economico e finanziario potrebbero accompagnarsi tentativi di separatismo fiscale e rischi di proteste di massa nelle regioni federali.
Alcuni cenni che il potere locale voglia sfruttare l’indebolimento del consenso centrale sono già stati notati. A novembre si è avuto un duro scambio di battute tra il presidente Dimitry Medvedev e il sindaco di Mosca Jurj Luzhov. Una que-
In televisione il primo cittadino della capitale aveva propugnato il ritorno all’elezione diretta dei governatori, abolita dalla Duma nel 2004 su proposta di Putin. La risposta del potere centrale è stata netta. Chi fa tali proposte deve abbandonare ogni incarico e rinunciare alla politica. Quasi contemporaneamente anche un altro peso massimo della federazione russa, il leader del Tatarstan, Mintimer Shaimijev, aveva criticato aspramente il Cremlino su questioni riguardanti consultazioni locali e referendum. Si tratta di prese di posizioni significative poiché entrambi i politici sono membri di primo piano di Russia Unita, il “partito del potere”. Fatto ancora più importante, per sostenere le loro richieste i due leader hanno fatto appello direttamente al popolo. Anche durante la crisi del 1998 il tentativo di far nascere un movimento dissidente anti-Cremlino era stato guidato da loro. Ovviamente quanto accade oggi non è minimamente paragonabile al 1998. La forza del potere centrale è ancora enorme e i due sono stati subito costretti alla ritirata. Indebolito dalla crisi economica e finanziaria, il governo russo non intende infatti dare la minima possibilità a
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qualsiasi forma di protesta popolare. Molti cittadini federali hanno sofferto la transizione russa al capitalismo. Ma ora è soprattutto il popolo delle Ipo - le Initial Public Offerings - a sentirsi deluso da quanto sta avvenendo nel Paese. Era stato proprio Putin a sponsorizzare l’acquisto popolare delle azioni di importanti aziende russe come il gigante energetico (gas e petrolio) Rosneft, e della seconda banca russa, Vtb. L’allora presidente federale aveva presentato l’offerta delle azioni come una chance per i tutti cittadini che potevano acquistarle. Un altro tassello dell’economia in pieno boom. Che qualcosa potrebbe scricchiolare nella “verticale del potere”federale, ne da prova quanto avvenuto nell’estremo oriente della Federazione.
A Vladivostock il 21 dicembre l’ennesima tassa sull’importazione di vetture giapponesi usate è stata aspramente contestata. La misura presa dall’esecutivo per sostenere l’industria automobilistica nazionale colpita dalla crisi, ha scatenato le proteste di una associazione di difesa dei diritti degli automobilisti locali. In questa regione, l’importazione di migliaia di vetture nipponiche è un commercio che da lavoro a circa 200mila persone. Ma al di là dei loro temi concreti, queste manifestazioni catalizzano i primi effetti sensibili
della crisi economica. Un quadro che potrebbe ripetersi a gennaio con i lavoratori delle ferrovie russe. Gli operai hanno annunciato che, se il piano di licenziamenti previsto dalla direzione andrà in porto, daranno il via da subito a contestazioni di massa.
A Vladivostock in una settimana vi sono state cinque manifestazioni tutte contrassegnate da slogan a volte duri. Anche i sondaggi rivelano che il malcontento accompagna il deteriorarsi degli indicatori economici. Certo, le previsioni del vice rettore dell’Accademia del lavoro e relazioni sociali sono apocalittiche. Per Alexandre Khoroshilov, nella prima metà del 2009 in Russia vi saranno dai cinque ai sei milioni di licenziamenti. È dunque possibile che l’aumento delle tariffe di gas, acqua, elettricità e trasporti, previsto per gennaio, possa essere rinviato. Per ora l’unica cosa certa è che anche la Russia si avvicina alla zona rischio e si prevede che giugno 2009 potrebbe rappresentare il suo momento cruciale. Ovviamente tra gli analisti russi vi è anche chi afferma che in caso di tensioni sociali la repressione non avrebbe nessun senso e sarebbe meglio sfruttare le difficoltà economiche per ristrutturare i fondamentali della società. Ma questa è una chance che, in Europa, non solo il governo di Mosca potrebbe sciupare.
politica
pagina 6 • 2 gennaio 2009
Benedetto XVI. Importante discorso teologico del Papa nell’omelia per la Giornata Mondiale della Pace
La «rivoluzione» di Cristo di Guglielmo Malagodi a storia terrena di Gesù è l’inizio di un mondo nuovo, perché ha realmente inaugurato una nuova umanità, capace, sempre e solo con la grazia di Cristo, di operare una “rivoluzione”pacifica. Una rivoluzione non ideologica ma spirituale, non utopistica ma reale, e per questo bisognosa di infinita pazienza, di tempi talora lunghissimi, evitando qualunque scorciatoia e percorrendo la via più difficile: la via della maturazione della responsabilità nelle coscienze». È questo uno dei passaggi centrali dell’omelia pronunciata ieri a San Pietro da Benedetto XVI durante la messa per la solennità di Maria Madre di Dio, in occasione della 42esima Giornata Mondiale della Pace.
«L
Parole importanti, che riprendono i temi approfonditi nel Messaggio “Combattere la povertà, costruire la pace”, in cui vengono analizzate le differenze tra due tipi di povertà, da un lato quella «scelta e proposta da Gesù», dall’altro «la povertà da combattere per rendere il mondo più giusto e solidale». Si tratta, per il Pontefice, di una distinzione essenziale: «Il primo aspetto trova il suo contesto ideale in questi giorni, nel tempo di Natale. La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la povertà per se stesso nella sua venuta in mezzo a noi. Questa povertà Dio l’ha scelta. Ha voluto nascere così, ma potremmo subito aggiungere: ha voluto vivere, e anche morire così. L’amore per noi ha spinto Gesù non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero». «Testimone esemplare di questa povertà scelta per amore spiega Papa Ratzinger - è san Francesco d’Assisi. Il francescanesimo, nella storia della civiltà cristiana, costituisce una diffusa corrente di povertà evangelica, che tanto bene ha fatto e continua a fare alla Chiesa e alla famiglia umana». Di fronte a questa povertà “scelta”, però, c’è anche quella «che Dio non vuole e che va combattuta». Si tratta di «una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica. In questa accezione negativa rientrano anche le forme di povertà non materiale che si riscontrano pure nel-
in breve Un morto a Napoli per il Capodanno L’arrivo del nuovo anno è stato salutato in tutta Italia con festeggiamenti, concerti di piazza ma anche botti che hanno causato varie decine di feriti e colpi di pistola che hanno provocato anche un morto. A perdere la vita è stato un giovane di 25 anni raggiunto alla testa da una pallottola vagante nei quartieri Spagnoli a Napoli. Colpi sparati in aria hanno raggiunto anche tre persone, tra cui una bambina, nel milanese. In gravi condiziono sono tra gli altri un bimbo a Reggio Calabria e un uomo nel Salernitano. A Napoli e provincia un primo bilancio parla di 70 feriti dai botti, una quindicina in meno rispetto all’anno scorso.
Gli italiani non risparmiano sui cenoni
le società ricche e progredite: emarginazione, miseria relazionale, morale e spirituale».
Sulla scia dei suoi «predecessori», Benedetto XVI analizza anche il «complesso fenomeno della globalizzazione, per valutarne i rapporti con la povertà su larga scala». «Di fronte a piaghe diffuse - dice - quali le malattie pandemiche, la povertà dei bambini e la crisi alimentare, ho dovuto purtroppo tornare a denunciare l’inaccettabile corsa ad accrescere gli armamenti. Da una parte si celebra la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e dal-
sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo». Occorre, insomma, cercare di mettere in moto un «circolo virtuoso» tra la povertà «da sce-
«Ci sono due tipi di povertà, quella “scelta e proposta” da Gesù e quella “da combattere” per rendere il mondo più giusto e solidale. Questa è la povertà che minaccia la convivenza pacifica» l’altra si aumentano le spese militari, violando la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna a ridurle al minimo. Inoltre, la globalizzazione elimina certe barriere, ma può costruirne di nuove, perciò bisogna che la comunità internazionale e i singoli Stati siano sempre vigilanti; bisogna che non abbassino mai la guardia rispetto ai pericoli di conflitto, anzi, si impegnino a mantenere alto il livello della solidarietà».
«L’attuale crisi economica globale - prosegue Ratzinger va vista anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla, nella sua complessità, quale
gliere» e quella «da combattere». «Per combattere la povertà iniqua - spiega il Pontefice - che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali». Questo, però, «comporta scelte di giustizia e di sobrietà, scelte peraltro obbligate dall’esigenza di amministrare saggiamente le limitate risorse della terra. Quando afferma che Gesù Cristo ci ha arricchiti “con la sua povertà”, san Paolo offre un’indicazione importante non solo sotto il profilo teologico, ma anche sul piano sociologico. Non nel senso che la povertà sia un
valore in sé, ma perché essa è condizione per realizzare la solidarietà. Quando Francesco d’Assisi si spoglia dei suoi beni, mostra a tutti la via della fiducia nella Provvidenza. Così, nella Chiesa, il voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a tutti l’esigenza del distacco dai beni materiali e il primato delle ricchezze dello spirito».
Ecco dunque, il messaggio da raccogliere oggi: «La povertà della nascita di Cristo a Betlemme, oltre che oggetto di adorazione per i cristiani, è anche scuola di vita per ogni uomo. Essa ci insegna che per combattere la miseria, tanto materiale quanto spirituale, la via da percorrere è quella della solidarietà, che ha spinto Gesù a condividere la nostra condizione umana». L’ultima parte dell’omelia, Benedetto XVI la dedica alla crisi mediorientale, invocando Maria perché «ci aiuti a seguirne le orme, a combattere e vincere la povertà, a costruire la vera pace, che è opus iustitiae». «A Lei conclude Ratzinger - affidiamo il profondo desiderio di vivere in pace che sale dal cuore della grande maggioranza delle popolazioni israeliana e palestinese, ancora una volta messe a repentaglio dalla massiccia violenza scoppiata nella striscia di Gaza in risposta ad altra violenza. Anche la violenza, anche l’odio e la sfiducia sono forme di povertà, forse le più tremende, “da combattere”. Che esse non prendano il sopravvento!».
La crisi economica ha influito poco, in media, sul settore alimentare: a Natale e a Capodanno, secondo la Confederazione italiana degli agricoltori, i consumi sono diminuiti dello 0,5% rispetto all’anno passato mentre la spesa è aumentata del 5% con un esborso complessivo di oltre 6 miliardi di euro. Secondo una stima diffusa ieri, in tutto sono state 120 milioni le bottiglie di bollicine stappate e 850 milioni di euro spesi durante le feste, di cui 80 milioni solo a Capodanno.
Tangenti Total, revocati gli arresti Revocate le ordinanze di custodia cautelare ordinate dal Gip di Potenza, Rocco Pavese nell’ambito dell’inchiesta lucana sulle presunte tangenti pagate per i lavori al giacimento di petrolio Tempa rossa della Total. Il tribunale del Riesame ha restituito la libertà all’imprenditore Francesco Ferrara (a capo dell’Ati di imprese), all’amministratore delegato di Total Italia, Lionel Levha, al responsabile del progetto lucano, Jean Paul Juguet e ad altre quattro persone. Annullata anche la richiesta di arresti domiciliari avanzata dal sostituto procuratore Henry John Woodcock nei confronti del parlamentare del Pd, Salvatore Margiotta, negata dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera.
economia
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Sembra fatto l’accordo fra Air France e la nuova Alitalia: l’annuncio ufficiale dovrebbe arrivare entro il 10 gennaio. Sotto, Jean-Cyril Spinetta, vero e proprio condottiero della “campagna d’Italia” dei francesi
Business. La compagnia francese entra in Alitalia: in aprile avrebbe speso di più e in cambio avrebbe avuto qualcosa in meno
Il grande affare di Air France di Alessandro D’Amato
ROMA. Un affarone. Nonostante non ci sia ancora nulla di ufficiale, i giornali danno per fatto l’accordo tra la Cai e Air France-Klm: rispettate dunque le previsioni di questi giorni, il partner ufficiale per la nuova compagnia che risorge dalle ceneri della vecchia Alitalia parlerà francese. L’intesa sarà ufficializzata intorno al 10 gennaio, ma già oggi sono trapelati molti particolari dell’accordo vincolante che legherà Roberto Colaninno e Rocco Sabelli a Jean-Cyril Spinetta e Pierre-Henri Gourgeon: il contratto porterà Air France-Klm al 25%
coalition of the willings, Achille D’Avanzo), mentre l’esecutivo arriverà a 9 componenti (due in più); nello statuto sono inoltre presenti dei meccanismi di tutela delle minoranze che dovrebbero permettere ai transalpini una serie di check & balances sulla gestione e sulle scelte strategiche. In più, si parla di un «patto industriale» tra Italia e Francia che permetterebbe a Parigi di uscire dal capitale in caso di decisioni contrarie ai loro interessi, senza alcuna penale da pagare. Importante anche la “soluzione diplomatica” raggiunta sulla famosa clausola di lock-up, che è finita già sotto la lente degli osservatori: dopo quattro o cinque anni, il partner in minoranza potrà acquistare senza alcuna limitazione le azioni dei soci italiani. Questo significa che anche i più riottosi tra i soci più riottosi, tra i quali erano serpeggiati in questi mesi malumori sull’affare e sulla sua gestione da parte della coppia Colaninno-Sabelli, potranno scegliere se uscire subito, come avevano paventato, o in un termine comunque già segnato dagli accordi italo-francesi. La nuova Alitalia (il cui nome sarà Alitalia S.P.A.) aderirà all’alleanza Sky Team, nella quale è già presente Air France, e dovrà quindi uscire da Star Alliance, nella quale era presente Air One.
Spinetta ha ottenuto, di fatto, di controllare il vettore con un investimento pari a un quarto di quello stabilito otto mesi fa: eppure Berlusconi bloccò tutto perché non voleva «svendere» del capitale della nuova Alitalia, con un esborso complessivo di 310 milioni (270 milioni di costo delle azioni più un premio di altri 40 milioni).
L’occasione sarà l’aumento di capitale per 1,1 miliardi che i soci italiani di Alitalia sottoscriveranno a breve. La smentita arrivata ieri da un socio Cai, l’imprenditore napoletano Ninni Carbonelli D’Angelo – «non siamo ancora alla firma» – pare essere assolutamente di prammatica. Intanto è stato firmato il closing tra AP Holding, società controllata dal Gruppo Toto, e Cai per il passaggio di proprietà alla Compagnia aerea italiana di Air One, Air One CityLiner, Eas (European Avia Service) e Air One Technic per un controvalore di 300 milioni di euro. In base agli accordi, il Gruppo Toto reinvestirà 60 milioni in Cai. Gli accordi prevedono anche che il nuovo consiglio di amministrazione venga elevato da 15 a 19 membri, di cui tre appannaggio dei francesi (il quarto andrà a un aggregato dell’ultim’ora alla
E basta andare a confrontare i numeri delle precedenti offerte con quelli attuali per capire che l’accordo attuale conviene ai francesi molto più di quelli che avevano stipulato con il governo italiano nelle due precedenti occasioni, quegli accordi che erano poi saltati per le resistenze dei sindacati e il no dell’attuale presidente del Consiglio, che si di-
ceva non-disposto a una “svendita” di Alitalia. Il progetto francese prevedeva 1.700 esuberi: 1.400 sono nella parte Fly che ha 11.172 addetti, 300 tra i 3.200 lavoratori di Az Servizi. Dal punto di vista economico, l’offerta pubblica di scambio sui titoli di Alitalia che Air France aveva varato a dicembre prevedeva un concambio di un’azione ogni 70, che avrebbe permesso di rilevare il 49% delle azioni di proprietà del ministero dell’Economia. Poi, a marzo, è stata aggiornata in pejus: la valorizzazione dei titoli Alitalia è diventata pari a quasi 10 centesimi, contro i 35 promessi nella prima offerta. Ovvero, per un controvalore un anno fa di quasi due miliardi, e nove mesi fa di 1,2 miliardi di euro. Oggi, Air France entra in Alitalia da socio forte per un quarto di quella cifra, con la prospettiva tra qualche tempo di prendere il pieno controllo della compagnia. Un tempo che potrebbe anche essere più rapido degli accordi oggi sottoscritti, soprattutto nel caso che il piano industriale messo a punto da Colaninno e Sabelli non doportare vesse agli obiettivi indicati nel primo e nel secondo anno di gestione. D’altronde, il tempo passato dalla prima soluzione prospettata (12 mesi) ha contribuito a far deteriorare ulteriormente il valore
della compagnia, e ne è testimone il valore attribuito da Cai e accettato dal governo e dal commissario straordinario per l’acquisto della società: «Il Ministro delle Attività produttive, recependo la valutazione di due advisor indipendenti (Banca Leonardo e Rotschild), ha autorizzato a cedere Alitalia a un prezzo pari ai suoi debiti, ossia 1248 milioni di euro – ricorda il professor Ugo Arrigo dell’Università Milano Bicocca - In otto mesi il valore di Alitalia, o, per chi preferisce, la sua valutazione, si è ridotta di 1383 milioni di euro».
Intanto, sono state ufficializzate le dimensione del network di voli che costituiranno il business della nuova compagnia. Come previsto, dalle scelte industriali esce fortemente ridimensionato l’aeroporto di Milano Malpensa: rispetto al piano, che già tagliava ulteriormente rotte e voli rispetto al dehubbing di Maurizio Prato, dal 13 gennaio gli intercontinentali passano dalle 20 frequenze settimanali alle appena 13. Colaninno ha già fatto sapere che gli investimenti sull’aeroporto varesino verranno effettuati soltanto in concomitanza con un ripensamento del ruolo di Linate, che dovrebbe diventare city airport. Altrimenti, Malpensa avrà solo 3 rotte intercontinentali. Con buona pace dei maldipancia leghisti e della Regione Lombardia.
politica
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Quirinale. Nel discorso di Capodanno il presidente chiede dialogo per le riforme: ma, al solito, la risposta di Pdl e Pd è evasiva
La “predica inutile” Tutti plaudono a Napolitano, ma in realtà già da oggi faranno come se niente fosse di Riccardo Paradisi ialogo dunque: al cui altare però, ha specificato Napolitano, non si può chiedere il sacrificio delle differenze, sale del pluralismo. Piuttosto si deve impedire che il normale confronto politico degeneri in una rissa continua, come è avvenuto in questi anni. Fin qui il cuore politico del discorso del presidente della Repubblica, rispetto al quale le forze politiche non solo hanno mostrato apprezzamento ma anche comprensione.
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A scorrere le dichiarazioni che le agenzie hanno cominciato a battere dopo un minuto dalla fine del discorso di Napolitano tutti, dalla maggioranza all’opposizione, dal Partito democratico al Pdl passando per l’Udc, sembrano assumere come proprio il valore del dialogo predicato dal capo dello Stato. «Lavoreremo in Parlamento alla ricerca delle necessarie convergenze per affrontare i problemi reali, avendo a cuore innanzitutto l’interesse del Paese – ha detto il segretario del Pd Veltroni – Il rilievo dato nel discorso del presidente della Repubblica alla gravità della crisi economica e alle sue conseguenze sociali è molto importante, davanti a sottovalutazioni e a nascondimenti da altri operati». Non è da meno l’esponente del Pdl Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera: «Ha ragione Napolitano quan-
do sostiene che l’unica cosa di cui aver paura è la paura. L’Italia ha in sé la forza e la capacità per reagire. Compito della politica è permettere a queste energie di emergere. Dobbiamo mostrare al Paese – dice ancora Lupi – che la politica non è mera delegittimazione
Fa parte della patologia politica italiana considerare il Capo dello Stato come un mero notaio o peggio un semplice cerimoniere. Non è proprio così dell’avversario, ma un lavoro costante che ognuno svolge nel rispetto del proprio ruolo per il raggiungimento del bene comune». Lorenzo Cesa, segretario Udc: «L’appello del capo dello Stato è, ancora una volta, una iniezione di realismo, responsabilità e fiducia. Ci auguriamo dunque che tutte le forze politiche sappiano ascoltare chi da tempo ha dato prova di indubb i a lungimiran-
za e profonda consapevolezza». Addirittura Antonio Di Pietro, che non ha saputo rinunciare al suo antiberlusconismo compulsivo nemmeno a Capodanno, si è detto favorevole al dialogo. «Il richiamo del capo dello Stato alla corresponsabilità tra maggioranza e opposizione per affrontare al meglio la grave crisi economica trova pronta e disponibile l’Italia dei valori. Il problema però, sta tutto qui: il presidente del Consiglio vuole davvero occuparsi degli interessi di tutti i cittadini o continuare solo ad occuparsi dei suoi?». Insomma al netto di punte polemiche rivolte agli avversari – ricavate da interpretazioni soggettive del discorso di Napolitano e da deduzioni parziali – sembra salire dalle forze politiche un plauso bipartisan verso il Colle.
Tutto bene dunque, se non fosse che l’omaggio rivolto all’appello del presidente della Repubblica sembra ogni anno destinato a esaurirsi in una esercitazione retorica, in un atto dovuto, in un consenso di prammatica che lascia immancabilmente il posto alla ripresa della rissa esattamente al punto dove era stata lasciata. Come definire allora questa coazione a un consenso formale e a un’indifferenza sostanziale rispetto ai discorsi di Capodanno del presidente della Repubblica? «Io la definirei ipocrisia – dice a liberal, andando per
Nell’immagine a fianco, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sotto, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il segretario nazionale del Pd Walter Veltroni. Soprattutto a loro è rivolto l’invito del Capo dello Stato al dialogo
le spicce, Gianfranco Pasquino – docente di scienze politiche dell’Università di Bologna storicamente vicino alla sinistra riformista. Le forze politiche si dimostrano assolutamente ipocrite secondo il professore. Non solo ognuno degli attori politici capisce quello che vuole capire – e Napolitano è stato sufficientemente chiaro tanto che l’onere della prova è sugli attori politici – ma finge di avere memo-
ria corta una volta consumato il ritualistico dirsi assolutamente d’accordo con quello che dice il Colle»
Tanto più che Giorgio Napolitano, continua Pasquino non è un improvvisatore: «In virtù della sua lunga navigazione politica conosce bene i suoi interlocutori. Certo, è un uomo molto cauto, il suo migliorismo nel Pci era talmente moderato da non aver consentito a una corrente del partito di combattere la partita per la socialdemocrazia in tempo utile. Queste doti e questi difetti Napolitano li ha portati al Quirinale, dove – ragiona il professore – interpreta molto bene il suo ruolo di ammonitore, esercitando una persuasione morale nei confronti dei partiti, scegliendo con grande cura i termini e gli aggettivi da adottare». E non c’è ombra di dubbio sul passaggio di Napolitano in materia di riforme costituzionali, dove il presidente è stato chiaro sul fatto che si possono fare le riforme fondamentali solo se con-
politica
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Quel vizietto italiano di snobbare il Quirinale
Tutti i consigli apprezzati (ma inascoltati) del Colle di Francesco Capozza erzo messaggio di fine anno, quello pronunciato mercoledì sera a reti unificate, per Giorgio Napolitano. Salito al Colle il 10 maggio del 2006, già dal 31 dicembre di quell’anno si è trovato a dover fare i conti con una situazione politica difficile, con un governo, quello di Prodi, che già allora rischiava ogni giorno di cadere al Senato. Il nuovo capo dello Stato dovette fare ogni sforzo possibile per cercare di aprire una stagione di dialogo sia tra la maggioranza e l’opposizione, sia tra egli stesso e l’opposizione berlusconiana che non l’aveva voluto votare, contrariamente a quanto fece con Ciampi. Quel messaggio di fine anno portò a un unico successo: il rapporto personale tra Napolitano e Berlusconi cambiò radicalmente, trasformandosi da una sorta di reciproca diffidenza a una simpatia che entrambi non si sarebbero aspettati. Per il resto, le parole pronunciate due anni fa rimasero inascoltate, e il governo Prodi si trovò ad affrontare la sua prima crisi (quella a seguito della relazione del ministro degli Esteri D’Alema sull’impegno italiano in Afghanistan) già a metà del gennaio 2007.
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divise. Insomma, secondo Pasquino non è normale che ai moniti del capo dello Stato segua prima il consenso e poi l’indifferenza: «Fa parte della patologia politica italiana considerare il capo dello Stato come un mero notaio o peggio un semplice cerimoniere. Non è proprio così: il presidente è il guardiano della Costituzione, colui che ha il potere di sciogliere le Camere e di nominare il presidente del Consiglio. Non sono cose da niente. E poi alcuni presidenti possono avere un prestigio tale da esercitare una pressione reale sulla politica. Ora, a me sembra, secondo recenti sondaggi, che mentre la presidenza della Repubblica è a oltre il 70% nel gradimento degli italiani i partiti politici sono sotto il 5%». Dati, sembra dire Pasquino, di cui farebbe bene a tenere conto.
Più laico lo sguardo del politologo d’area berlusconiana Gianni Baget Bozzo. Per lui il coro rituale degli applausi al presidente della Repubblica fa parte di un codice collaudato di omaggio formale e sostanziale alla sua autorità morale ma rientra poi nella fisiologia dello scontro politico il fatto che le ostilità riprendano con vigore dal primo gennaio, soprattutto in una situazione politica incandescente come l’attuale. «D’altra parte – dice Ba-
get Bozzo – è legittimo dubitare che la maggioranza possa stipulare un accordo con l’opposizione per fare le riforme istituzionali. Sarebbe meglio certo, e questo è anche l’auspicio di Napolitano, ma temo che l’interesse del Pd alla riforma della giustizia sia un riflesso condizionato delle inchieste che hanno colpito il partito di Veltroni. Del resto l’unico che parla di giustizia in termini riformisti è Luciano Violante che è diventato un libero battitore con qualche autorevolezza. Se la sinistra fa le riforme col governo salta il Rubicone. E non credo che lo farà».
Insomma censurabile o no, sembra sia normale che i presidenti della Repubblica siano ascoltati con rispetto senza che a questa riverenza corrispondano atteggiamenti conseguenti. «Mi auguro – ha detto ieri il vicepresidente del Senato Vannino Chiti – tutti riuscissimo a cambiare atteggiamento, non limitandoci ad applaudire Napolitano ma seguirne con serietà le indicazioni. Nobile auspicio. Ma i discorsi dei presidenti della Repubblica, compresi quelli di Napolitano, sembrano destinati in Italia a rimanere autorevoli prediche. Autorevoli, ma come sconsolato ammetteva, Luigi Einaudi, inutili.
sato, che quelle dichiarazioni d’intenti saranno state solo “chiacchiere da caminetto”.
Basta guardare al passato per rendersi conto che quello a cui assistiamo è un film già visto. Oscar Luigi Scalfaro, per esempio, fu osannato per il suo primo, forte messaggio da presidente, quando la sera del 31 dicembre 1992 parlava di «questione morale che tocca anche uomini politici, persone note e pare allargarsi creando preoccupazioni e sconcerto; la questione sociale, che vede disoccupazione, sottoccupazione, prospettive ancora più preoccupanti mi fanno dimenticare il clima gioioso di festa». Ancora più scalpore, e approvazione, suscitò la condanna di quel «tintinnar di manette» che aveva lambito anche il Colle e che, da lì a qualche mese, avrebbe cancellato gran parte della classe dirigente del Paese. Anche allora, come oggi, applausi a scena aperta e richiamo pressoché unanime alla coesione politica e sociale. Sappiamo tutti, invece, come andò. E ancora, basta tornare all’ultimo dell’anno del 2001, con Carlo Azeglio Ciampi: «Il dialogo fra le due parti, per essere costruttivo, presuppone che nella maggioranza la disponibilità all’ascolto, attento e aperto, della voce dell’opposizione, prevalga sulla tentazione di affidarsi sbrigativamente al rapporto di forza parlamentare; e che nell’opposizione la consapevolezza del diritto del governo di portare avanti il proprio programma prevalga sulla tentazione del ricorso sistematico all’ostruzionismo. Una democrazia funziona bene se ciascuna istituzione esercita il proprio compito rispettando i limiti delle proprie competenze». La mattina dopo il clima politico sembrava cambiato, ma bastarono pochi giorni perché il governo Berlusconi II iniziasse a scrivere da solo le regole della comune convivenza, approvando a colpi di maggioranza numerose leggi sulla Giustizia e cambiando autonomamente la legge elettorale. Che senso ha, allora, questa falsa coesione tra le parti se poi risulta essere nient’altro che un castello di carte? Ci verrebbe quasi da consigliare al Presidente Napolitano di innovare ulteriormente, l’anno prossimo, il messaggio di fine anno: non facendolo e godendosi anch’egli il Capodanno con la propria famiglia. Tanto, a ben vedere, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Maggioranza e opposizione già nel ’92 non diedero peso al discorso di Scalfaro. Così come nel 2001 ignorarono Ciampi
Quel richiamo al «senso di responsabilità di tutte le forze rappresentate in Parlamento» cadde nel vuoto, nonostante il plauso generale appena il presidente ebbe finito di parlare. Per il messaggio di fine d’anno del 2008, Napolitano, ha deciso di dare un imprinting nuovo alla forma, ma non ai contenuti. L’unica nota di continuità col passato è stata la ridda di dichiarazioni che hanno fatto seguito alle sue parole, tutte, ovviamente, all’insegna della condivisione. Neanche il tempo di spegnere le telecamere ed ecco la telefonata al Colle del premier (bruciato sul tempo da Gianni Letta) per congratularsi del discorso «ottimo e condivisibile sotto tutti i punti di vista». Poi è stata la volta del leader democratico Veltroni, che, dopo aver elogiato Napolitano, si è lanciato addirittura nella seguente dichiarazione: «Nel rispetto della distinzione dei ruoli tra opposizione e maggioranza, lavoreremo in Parlamento alla ricerca delle necessarie convergenze per affrontare i problemi reali, avendo a cuore innanzitutto l’interesse del Paese». Uno scoop? Una nuova stagione del dialogo si apre con l’avvento del nuovo anno? Macché. Siamo pronti a giurare che con l’Epifania accadrà, come già in pas-
panorama
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Paradossi. Il governo chiede una tassa retroattiva di due euro a tutte le compagnie che atterrano in Italia
Alitalia salvata (anche) dai voli low-cost di Luisa Arezzo
ROMA. In periodo di magra, anche due euro fanno traboccare il vaso. Se poi al piccolo obolo si aggiunge anche una polemica di principio, l’esborso diventa un caso. E le centinaia di mail di protesta arrivate in questi giorni alla compagnia low cost Easy jet ne sono il simbolo. Tutto nasce dal crac Alitalia: nell’ultima manovra finanziaria – per coprire alcune spese relative alla crisi della compagnia aerea - è stata introdotta una piccola tassa su tutti gli imbarchi dagli aeroporti che sorgono sul territorio italiano. Si tratta, appunto, di 2 euro in più rispetto alle solite tasse che paghiamo quando voliamo. Con qualsiasi compagnia aerea. Alla sua introduzione, altre compagnie, come RyanAir, (che ha comunque impugnato il 2 ottobre il decreto sul piano di salvataggio presso la Commissione Europea) hanno modificato il costo delle tasse aeroportuali: BluPanorama ha notificato l’aumento, ma Easy jet ha pensato bene di chiedere – a partire da una settimana fa – il rimborso di tale obolo ai viaggiatori che hanno già vola-
to con lei dal 28 ottobre in poi. Insomma, ha reso retroattiva la tassa. Apriti cielo!
I clienti si sono scatenati sul web, anche perché la compagnia non ha escluso la possibilità di recuperare l’addizionale comunale sui diritti d’imbarco (questa la corretta dizione) direttamente dalle carte di credito. Sommersa dalle proteste, Easy jet ha pubblicato un comunicato stampa sul proprio sito, con il quale spiega le proprie ragioni: «Il governo italiano ha imposto una tassa di 2 euro ai passeggeri, retroattiva al 28 ottobre 2008, su tutti i voli in partenza da un aeroporto italiano al fine di sovvenziona-
Easy jet è l’unica ad aver chiesto ai passeggeri il contributo straordinario. E lo ha preteso anche da chi era già partito e atterrato da tempo re Alitalia. EasyJet si è opposta fermamente a questa tassa. Infatti, mai nella storia dell’aviazione civile, i passeggeri sono stati obbligati a pagare una tassa per sovvenzionare la banca-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
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rotta di una compagnia aerea». Formalmente, l’addizionale è una tassa che va in parte nelle casse dei comuni con uno scalo aeroportuale e in parte al Fondo speciale per il sostegno al reddito, all’occupazione e alla
riconversione e riqualificazione del personale del trasporto aereo. In definitiva, è facile arrivare alla conclusione che nel 2009 il Fondo dovrà ampiamente sostenere gli ammortizzatori
sociali per i dipendenti di Alitalia in esubero, e sarebbe impossibile farlo senza un adeguato aumento che, secondo la via scelta dal governo, verrà in buona parte sostenuto dai passeggeri di tutti i voli aerei in transito in Italia. Questo il fondamento della protesta di EasyJet.
Resta il fatto che la compagnia è stata l’unica, tra le tante che volano in Italia, a chiedere i due euro in via retroattiva. E questo perché: «Al contrario di altri vettori, abbiamo già versa-
to le somme richieste dal governo italiano - dice Elisa Ravella, marketing manager di EasyJet – e ci sembra assurdo dover ascrivere una voce di passività nel nostro bilancio per finanziare i danni causati dalla cattiva gestione di un’altra compagnia aerea. In questo momento siamo in attesa che l’Unione Europea prenda una posizione su questa situazione paradossale». I viaggiatori sono avvertiti: se ritengono che i due euro, soprattutto se “retroattivi”, siano un sopruso, sanno con chi prendersela.
In un nuovo libro, tutti i vizi e le metafore dell’illustre fustigatore di costumi
Arbasino perso nell’Italia a vita bassa
uesto articolo potrebbe essere intitolato «Una gita a Chiasso per fare tanto chiasso» oppure «Fratelli d’Italia e cugini d’Europa» oppure «Arbasino o della vita medio-alta». Perché Alberto Arbasino (da qui in poi AA) si conferma - ma mica ce n’era bisogno, è che si fa così per dire - lo scrittore italiano, ironico scapigliato, che più frequenta (e con risultato) la critica di costume e la critica dei costumi, nel senso proprio dei vestiti. Nel senso: «Ma guarda quello lì come cazzo si è combinato...».
Ora, l’ultimo libro di AA - quello uscito nella Biblioteca minima della Adelphi - s’intitola La vita bassa. Ma si sarebbe potuto chiamare semplicemente Vita bassa (l’osservazione, forse, è di Edmondo Berselli, se non sbaglio, ma potrei anche sbagliare, dati i fumi e i veleni di Capodanno), senza quell’articolo determinativo femminile singolare che - diciamo la verità - suona male. Così, secco, Vita bassa, coglie molto meglio nel segno. AA è snob non poco, ma che volete che sia! Gli va perdonato, perché la lettura dei suoi testi o delle sue parlate scritte - che non dovete per forza leggere da capo a coda, ma se volete potete saltare un po’ di qua e un po’ di là, così l’effetto straniante di non capirci un cavolo sarà
completo - è travolgente (come si capisce leggendo anche questo mio pezzo di giornale). AA ha ragione da vendere quando dice e ridice la storia della metafora della vita bassa e bassissima. Dice AA: «E la vita bassa, da noi, non diventerà una Metafora illuminante e dirigibile, nella pubblicistica “easy” satura e beata di cose che sono sempre metafore di altre cose?». E certo che lo diventerà. Anzi, ora ora lo è già diventata grazie al nostro fratello italiano, come direbbe Jovanotti che ora tutti chiamano Lorenzo. C’è sempre una metafora che è d’uopo: «Non solo il mercato e i mercatini, anche gli scarichi paiono ormai ingorgati eppure insaziabili di metafore del nostro tempo, del nostro paese, della nostra condizione, dell’esistenza umana, di Dio, dell’ermeneutica, di tutto». E vaiii, metafore a più non posso, “passo dopo passo” come diceva Antonio Bassolino (chissà per-
ché non lo dice più): «Anche metafore di metafore, metafore polivalenti?». Come un centro sportivo polivalente, verrebbe da dire per usare un’altra splendida metafora. «Moratoria sulla metafora? Sennò, bufera sulla bufala, mozzarelle mozzafiato, riflettori accesi su Roma nun dà la bufala stasera?».
Stare dietro ad AA non è cosa semplice. Troppo vario, troppo curioso, troppo eclettico, troppo linguistico, troppo carloemiliogadda e quando è troppo è troppo e il troppo stroppia e tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Però, però, la metafora della vita bassa è intrigante, assai. Il colpo del genio di AA, la sua zampata o il suo zampino: «E se la vita bassa, per i prossimi Lévi-Strauss e Mauss e Bataille e Leiris e Caillos (in un aggiornato Musés de l’Homme con foto in bianco e nero di “indigeni” autentici con ad-
domi e glutei ridondanti odierni esibiti di fronte e profilo), diventasse un Segno antropolo- ed etnometodo-logico strutturale e culturale di tutto un Inconscio o Conscio tribale ed elettorale non solo giovanile e sgargiante, come i totem e tabù e le penne e gonnelle e facce dipinte dei più rinomati aborigeni?». Aggiunge AA: «Funzione segnica un pochino ruffiana o equivoca?... Feticcio peraltro pochissimo studiato, per ora, nonostante la prensilità così “easy” e “quick” degli apparati mediatici specializzati». Sarà quello il trionfo della vita bassa. Ma passando dalla metafora alla realtà, voi la vita bassa l’avete mai vista? Non dico una sola vita bassa. Intendo dire tante vite basse, dieci, cento, mille vite basse tutte insieme. Mutande fuori, pantaloni alle caviglie, pance e pancette, rotoli e rotolini, ombelichi e fianchi, culi chiappe e pacche tutto fuori, tutto de fori. L’Italia è una e una sola, unita tutta, da Milano a Palermo, dalla vita bassa. Tu le vuoi dire: «E alzati ‘sti pantaloni, mettiti le mutande dentro, non vedi che sei un animale, vestiti in modo decente». Ma ci rinunci perché capisci che non capisce, capisci che la vita bassa è la sua lingua e il suo modo di essere. Urleresti «ma vatti a fare una gita a Chiasso», ma non serve più a niente perché intenderebbe solo chiasso.
panorama
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Provocazioni. Una volta si chiamavano “casse mutue”: ora potrebbero essere un grande strumento in mano ai sindacati
Idea: adesso privatizziamo il welfare di Claudio Melchiorre crisi economica avviata e pienamente operante, scopriamo che ci sono attese per circa mezzo milione di persone in cassa integrazione e capiamo che gli accordi sulla mobilità e il corredo di misure necessarie a coprirle, magari ci avranno pure fatto indebitare, ma hanno evitato, in passato, che il clima in Italia si imbarbarisse. La questione se ci siano i soldi per finanziare queste misure, resta lì. Un Paese che si trova in una recessione seria e pesante, per gran parte indipendente da fenomeni internazionali, contrariamente a quanto dice Tremonti, può immaginare di mantenere queste reti di protezione?
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La risposta di tutti è: seppure non può, si deve. D’accordo. Ma una riflessione va fatta. È giusto che si lasci una misura tanto importante alla discrezionalità di bilancio di uno Stato impavido solo nel cercare indebitamento? La risposta logica sarebbe no. No, perché lo Stato resta inefficiente e sprecone. Certo, non investe in titoli Lehman, ma è quanto meno sciatto nel perse-
La crisi porterà un milione e mezzo di nuovi cassintegrati: perché continuare ad affidarsi a uno Stato inefficiente e sprecone? guimento del bene comune. Ed allora, con le dovute cautele e garanzie, pensiamo all’ipotesi di privatizzare questa funzione dello Stato. Protagonista di questa innovazione dovrebbe essere il sindacato. Basterebbe che si riappropriasse dello strumen-
to dei fondi di solidarietà e questa funzione di equilibrio di un sistema economico tornerebbe ad essere non solo un fattore di scarsa preoccupazione, ma anche di equilibrio del sistema. In fase di riforma contrattuale, di conseguenza, l’invito è quello di
creare le condizioni per tornare alle società di mutuo soccorso, su base contrattuale. Il sistema Paese ha bisogno di pensare al futuro, ricordando le lezioni del passato. La lezione di oggi è che il nostro Paese ha avuto una ricchezza importante, ma non ha saputo difenderla e mantenerla. Per far partire nuovamente un ciclo positivo si devono innanzi tutto trovare le risorse e la responsabilità, il gusto del rischio e della sfida. La prima risorsa dovrebbe essere il credito. Le banche però non hanno fatto il loro mestiere. Potremmo ricominciare a riflettere sulla possibilità di creare su basi liberali una grande democrazia economica competitiva: in Italia, avendo molte leggi che pochi rispettano, siamo nelle condizioni perfette per intraprendere questo cammino. In fondo, siamo più liberali di quanto immaginiamo. Se solo accettassimo il rischio di mettere un limite all’assunzione pubblica di gente svogliata e non credessimo che i soldi generano da soli risultati. Non è un’inezia. Che potrebbe essere risolta coinvolgendo sindacati e lavoratori in una nuova
accumulazione originaria del capitale, simile a quella che fu realizzata attraverso il risparmio delle famiglie e il buon senso dei banchieri di allora, per ottenere il big spurt italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, con uno strumento nuovo, anzi vecchissimo: le casse mutue.
Riappropriamoci delle funzioni sociali. Otterremo servizi, autoregolazione, e anche quella concentrazione di capitali necessaria per innescare nuovamente la crescita. Difficile? Troppo ottimistico? Non credo. Anzi, ovvio e semplice da fare. E comunque meglio dell’inazione e delle preghiere ai Santi Tassi che contraddistinguono le attuali misure dei governi e delle banche centrali del mondo. I tassi non sono Dio. Che tra l’altro si infastidirebbe alquanto ad essere scambiato con un indice di costo che oggi pare sempre più arbitrario e innaturale. Meglio, molto meglio, l’umano interesse ad avere una rete di solidarietà funzionante. Proposta fatta. Vedremo cosa succederà ai contratti e ai fondi di solidarietà privati.
Polemiche. Ormai si tende a confondere il “popolarismo” con il “populismo”: più che sinonimi, sono contrari
Ma Berlusconi ha mai letto don Sturzo? di Flavio Felice e Maurizio Serio l termine “populismo”presenta a tutta evidenza una stretta parentela col termine “popolarismo”, per via della comune radice linguistica: “popolo”. Sul piano semantico però questa affinità si rivela falsa, giacché il “popolo” del populismo è ben diverso da quello del popolarismo.
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Il populismo è una matrice politica, tipica delle fasi di modernizzazione, che può operare sia in contesti democratici che in regimi autoritari; rispettivamente, per definire l’opposizione alle degenerazioni dei primi o per fornire il sostrato simbolico alle azioni di governo dei secondi. Pur adottando uno stile politico aggressivo e autoritario, nelle sue manifestazioni anti-establishment o nella difesa delle proprie posizioni, esso solitamente non va al di là della violenza verbale. Dal punto di vista ideologico, il populismo non è necessariamente conservatore, bensì si manifesta piuttosto riformista, quando non rivoluzionario. Invero, esso si pone come un superamento della democrazia, perché mira precipuamente a sovvertire le basi della rappresentanza, sostituendola con il principio di identità, nel senso che conferisce il primato alla rassomiglianza e alla similitudine fra governanti (leader) e governati (popolo). Da questo discendono due aspetti molto importanti: la concezione della leadership, che mira all’identificazione
fra il capo e il popolo, seppure in termini di aspirazioni, e la concezione dello stesso popolo, inteso come comunità organica coesa, tale da confinare ogni alterità politica dietro la categoria discriminante di“non-popolo”.Viceversa, è sostanzialmente diversa la nozione di “popolarismo” con la quale ci riferiamo alla dottrina politica ed economica elaborata e attuata da Luigi Sturzo col suo Partito Popolare (1919). Scriveva Sturzo nella lettera di presentazione di tale associazione: «Popolo e libertà è il motto di Savonarola;
re piuttosto il metodo della partecipazione alla vita civile. Per Sturzo, solo la persona pensa, agisce, soffre e sceglie. La stessa idea di Sturzo di chiamare il proprio partito“popolare”e non “del popolo”è emblematica di come egli intendesse il ruolo del partito nel contesto democratico: come uno strumento di partecipazione. Si rifletta sul fatto che affermare che il proprio partito rappresenti “il Popolo”significa precludere una legittimità “popolare” a tutti coloro che non si riconoscono in quel partito: si può finire (e si finisce) per pretendere di rappresentare il discrimine tra “il popolo” e “il non-popolo”. Per Sturzo, al contrario, l’essere “popolare” o “democratico” è un attributo e non la sostanza. Un partito può essere popolare (cioè non elitario), democratico (ossia non autocratico), ma solo pretenziosamente può definirsi “del popolo”, ovvero “della democrazia”.
La scelta di chiamare il proprio partito “popolare” e non “del popolo” è emblematica dell’idea di uno strumento democratico di partecipazione popolo significa non solo la classe lavoratrice ma l’intera cittadinanza, perché tutti devono godere della libertà e partecipare al governo. Popolo significa anche democrazia, ma la democrazia senza libertà significherebbe tirannia, proprio come la libertà senza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcune classi privilegiate, mai dell’intero popolo».
Nella prospettiva sturziana, non vi è spazio per quel populismo contemporaneo (e nostrano) in cui il leader è convinto e pretende di incarnare il popolo, né per una nozione di popolo organicistica: l’attributo“popolare”sta ad indica-
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LE MEMORIE DI FORLANI In un libro-intervista della Marsilio, provocato da Sandro Fontana e Nicola Guiso, l’ex segretario Dc parla per la prima volta del tramonto della Prima Repubblica. Anticipiamo il capitolo sul ruolo della magistratura. Domani pubblicheremo la parte dedicata alla politica di oggi
Tutta la verità su
«Abbiamo sbagliato a non reagire, a chiudere Le inchieste furono “ideologiche” e volutament La fine del comunismo comportava quella della Dc? Alla fine degli anni Sessanta, parlando in Campidoglio in occasione di un incontro fra i dirigenti dei nostri partiti europei, avevo espresso l’opinione che quando in Italia fossero state assicurate, con il tramonto delle ideologie totalitarie, le condizioni della democrazia, l’impegno politico dei cattolici avrebbe avuto connotazioni diverse, probabilmente differenziate. Su questo non tutti eravamo d’accordo, ma non c’è dubbio che con lo sfaldamento del comunismo è venuta meno una ragione forte della unità democratico-cristiana che derivava da vicende tutte drammatiche: la dittatura fascista, la guerra, la Liberazione, la minaccia sovietica, la scelta occidentale. Non sarebbe rimasta comunque la esigenza primaria di unità per la difesa dei principi e dei valori propri dell’ispirazione cristiana? La stessa obiezione mi fu rivolta allora. Rispondevo che questa difesa sarebbe potuta riuscire egualmente e forse più efficace se condotta da diverse sponde. Adesso non ne sono così sicuro, perché è diventato più difficile distinguere opportunismi e coerenze. Quali erano le opinioni della Chiesa? Favorivano la continuità dell’impegno unitario. Il giudizio ripetuto a Loreto, ancora nel 1985, da Giovanni Paolo II sull’unità dei cat-
tolici, «determinante per la libertà e il progresso dell’Italia», era stato sempre largamente condiviso. Come ha valutato le iniziative comuniste di cambiare nome e riferimenti ideologici? Hanno accelerato una revisione che procedeva troppo lenta e intermittente. Tornando ai fatti interni della DC, attribuisci a qualcuno responsabilità particolari per la sua fine? Qualche errore del gruppo dirigente c’è stato sicuramente nei tempi e nelle modalità. Non bisognava concludere una grande esperienza quando era sotto attacco, oggetto di travisamenti. È mancata poi una strategia chiara che avesse a riferimento il Partito Popolare Europeo e il concorso a nuove iniziative di più larga convergenza nazionale, ma questo è un aspetto che forse non consente di attribuire responsabilità particolari, perché riguarda diversità oggettive di linea politica ormai difficilmente componibili. Come mai mancò la capacità reattiva, la risposta politica a un disegno giustizialista che mirava alla liquidazione della Dc e dei suoi alleati? La soggezione che ha coinvolto larghe fasce della società, strumenti mediatici e livelli istituzionali diversi, ha condizionato anche il nostro partito. Errori di valutazione, perchè la Dc era ancora la forza di gran lunga più rappre-
sentativa nel panorama nazionale; e quando quel disegno si delineò bisognava capire che l’attacco non era affatto di aiuto al rinnovamento e alla qualità della politica. Penso che in questa mancata comprensione sia la ragione della scarsa reattività. Sulla frammentazione avvenuta allora non hai rilievi da rivolgere a qualcuno in particolare? Non si è fatto molto per evitare le prime dissociazioni. Alcune, come ad esempio quella di Casini, potevano essere evitate, da lì ne sono partite altre. Il giustizialismo ha trovato appoggi anche nella DC; non ricordi il grido di una deputata che reclamava processi nel partito per assecondare quelli dei magistrati? Non c’è stato niente del genere, almeno alla mia presenza, però avrei capito meglio quel grido piuttosto che la reticenza. Sarebbe stato giusto all’interno l’esame serio delle questioni relative al finanziamento dei partiti, delle responsabilità collegiali o meno che ne sarebbero dovute derivare, dell’utilizzo differenziato che della legge veniva fatto in sede giudiziaria. Sarebbe stato giusto dover esprimere in modo chiaro un giudizio e formulare proposte conseguenti. Invece, tranne i numerosi pronunciamenti personali di solidarietà, si è preferito politicamente mettere la testa sotto la sabbia,
concorrendo così ad accreditare l’idea che a sbagliare erano stati quelli a cui era capitato di assumere determinati incarichi. Gli adempimenti legali relativi al finanziamento del partito erano affidati solo alla segreteria amministrativa? Un errore che avremmo dovuto riconoscere insieme è stato appunto di aver continuato sempre a rimettere a un solo ufficio, e praticamente a pochissime persone, compiti complessi, con obblighi difficili da corrispondere. Il reperimento dei fondi, la loro gestione, i relativi adempimenti legali, sono stati da noi considerati compito esclusivo degli amministratori, sapendo tutti che occorrevano risorse aggiuntive rispetto a finanziamento pubblico, tesseramenti e contributi degli iscritti. Come si spiega questa mancata assunzione di una responsabilità comune? Non lo so; a volte c’è una maggiore inclinazione a favorire i ricambi e ad assecondare le penitenze, che tocca solo ad altri di sopportare. Con questo non dimentico però la sensibilità di tanti, non solo amici di partito, che sono stati solidali in modo sincero e aperto. Cosa tanto più apprezzabile quando cambiano gli scenari e diventano comprensibili gli adattamenti. Era possibile senza una spinta giacobina imboccare una via diversa per rinnovare la politica e i partiti?
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Una riflessione a trecentosessanta gradi, durata 8 anni Alcune immagini dell’era Tangentopoli: Di Pietro con la sua famigerata toga, Silvio Berlusconi e Bettino Craxi e infine il Palazzo di Giustizia di Milano con, in basso, il trio Davigo, Colombo, D’Ambrosio. In apertura di pagina Arnaldo Forlani
Arnaldo in campo: giudizi taglienti ma solito stile mite di Errico Novi segue dalla prima Si permette suggerimenti non richiesti per il futuro assetto dell’area moderata. Ma sempre con un tono piano, garbato, che non lascerebbe spazio nemmeno al consueto scetticismo di Silvio Berlusconi verso quelle che, immagina Forlani, il Cavaliere considererebbe «cose vecchie», perché adesso «si balla con una musica diversa».
u Tangentopoli
e la Dc mentre eravamo sotto attacco. te indirizzate solo contro alcuni partiti» Voltando le spalle ai cinquant’anni nei quali la democrazia è stata costruita è più facile che tornino vecchi errori e che i cambiamenti siano regressivi. Se vengono meno, ad esempio, gli strumenti di una reale partecipazione politica il sistema cambia in peggio. I gruppi di derivazione democristiana, pur in campi diversi, potrebbero concorrere con proposte comuni a evitare questi rischi? C’è di sicuro qualche buona intenzione, ma bisognerebbe farla capire, tradurla in proposte semplici. La legge proporzionale con premio e vincolo di maggioranza potrebbe aiutarli a definire meglio
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ché reagire c’erano piuttosto accompagnamenti di favore e atteggiamenti passivi non solo nei partiti, ma anche nei vari organismi rappresentativi e istituzionali. In molti casi c’è stata una voluta ignoranza in merito alle vicende processuali. Da un punto di vista tecnicolegale su quali basi hanno preso l’avvio i procedimenti che hanno coinvolto i partiti? La legge che regolava il finanziamento prevedeva che le donazioni fossero sottoscritte presso un ufficio della Camera oppure figurassero a bilancio di società. Per adempimenti del genere, da realizzarsi fra l’altro in tempi diversi,
A quel tempo pensavo anch’io che l’unità dei cattolici non fosse più indispensabile. Oggi non ne sono più tanto sicuro identità e programmi. Per essere veramente innovativi in modo utile e indipendentemente dalle scelte di coalizione, a destra e a sinistra, unitarie o meno, non dovrebbero aver paura di richiamarsi più apertamente alla esperienza della DC, anche se a qualche rinnovatore questo potrebbe dispiacere. Perché è stata tardiva e inefficace la reazione anche degli altri partiti messi sotto accusa? Nei periodi di transizione si assecondano i fatti nuovi. Così anzi-
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le segreterie amministrative non erano nemmeno professionalmente attrezzate né al centro né alla periferia. Questa è stata la “illegalità”penalmente utilizzata per colpire determinati partiti. Che in un quadro normativo del genere ci fossero aspetti discutibili è provato dal fatto che per decenni la legge è stata ignorata e che infine si è decisa per questi “reati” una amnistia, fino al 1989. Le vicende giudiziarie che hanno condizionato la politica non sono state però solo di questa natura, cioè indiriz-
zate alle segreterie di determinati partiti. L’offensiva come è noto ha avuto anche aspetti diversi, non legati a questioni amministrative, come dimostrano i casi di Andreotti, Gava, Darida, Mannino e tanti altri, non solo nel nostro partito, risoltisi poi spesso con tardive assoluzioni a danni largamente procurati. Come e quando hai pensato a un condizionamento politico, cioè a procedimenti giudiziari non obiettivi sul finanziamento dei partiti? I primi a essere inquisiti sono stati i segretari amministrativi, che provvedevano agli adempimenti legali e di bilancio, e poi privati e società che potevano avere aiutato i partiti. Le pressioni esercitate facevano intendere come l’obiettivo fosse quello di raggiungere determinati livelli e si lasciava intravedere indulgenza per chi era interrogato, magari già agli arresti cautelari, a condizione che venissero coinvolti appunto i dirigenti politici. Prendiamo in concreto, e per cercare di capire, il mio caso perché è emblematico, e perché riguarda il processo Enimont, che è stato quello maggiormente enfatizzato e attorno al quale si è costruita una atmosfera di linciaggio, anche con tragiche conseguenze. Come segretario politico della DC io sono stato condannato pur non avendo mai richiesto o ricevuto alcun contributo, e pur non essendo mai intervenuto per favorire particolari soluzioni. La vicenda cioè non ha mai avuto interferenza alcuna da parte mia o della nostra direzione.
Si scopre così che Forlani è capace anche di dire molto, di sbilanciarsi nonostante la sua proverbiale prudenza. Lo fa innanzitutto sul futuro dei moderati: «L’Udc a Stasburgo ha favorito senza incertezze l’ingresso di Forza Italia nel Ppe e continuo a pensare che sarebbe ora coerente riprendere una iniziativa seria, mirata a realizzarne unitariamente la sezione italiana». Non vuol dire che in nome degli «obiettivi unitari» ci si debba adeguare troppo «a ipocrisie e ambiguità». Ci vorrebbe allora democrazia nel nascente Pdl, quella su cui, secondo l’ex premier, si sono fondati i cinquant’anni di governo della Democrazia cristiana. Sono obiettivi all’apparenza irraggiungibili, ma Forlani ha il pregio di proporre e disegnare il futuro con un tono così aperto e pacato da disarmare qualsiasi miscredente. Agli eredi diretti del partito dei cattolici, Forlani riserva una esplicita sollecitazione: «Non dovrebbero avere paura di richiamarsi apertamente all’esperienza della Dc». Anche perché quella fine è stata ingiusta, soprattutto mal gestita, nota con una certa severità. «Non si è fatto molto per evitare le prime dissociazioni, come quella di Casini». In generale si abbassò la guardia con troppa rassegnazione di fronte all’incedere impetuoso di Mani pulite. Non si scioglie un partito quando è sotto attacco, bersagliato dai travisamenti e da un’offensiva giudiziaria condotta spesso con pregiudizio. Di certo, Forlani fa un’analisi molto lucida di quanto successe con le inchieste dei primi anni Novanta, che non fatica a ricondurre in un “disegno”: spiega che la vera domanda non deve riguardare tanto le distrazioni delle segreterie rispetto ai finanziamenti illeciti, ma il motivo che aveva indotto per decenni i giudici a non perseguirli. C’era una «radicalità del confronto politico» che portava «a non vedere il problema». Con la caduta del comunismo, caddero le inibizioni e dilagò un giustizialismo “liquidatorio”.
Uno sguardo dolente sul passato, sugli errori commessi sia dai politici sia dai giudici, ma con un occhio sempre proteso sul futuro della democrazia
Il risultato? «Voltando le spalle al mezzo secolo in cui la democrazia è stata costruita è più facile che i cambiamenti siano regressivi, soprattutto se vengono meno gli strumenti di una reale partecipazione politica». Questo accade agli occhi dell’uomo del Potere discreto, come recita il titolo del libro. Tutti i passaggi della vita pubblica italiana vengono ripercorsi senza mai scagliare accuse alla cieca, nel tentativo di sottrarre gli eventi al marchio indelebile dei giudizi affrettati. Discorso che vale anche in senso autobiografico: Forlani tiene a rivendicare di «non essere mai stato un uomo di corrente, nemmeno quando Fanfani mi affidò la sua». Non si può parlare di vocazione autoassolutoria, né dal punto di vista strettamente politico e nemmeno rispetto alle vicende giudiziarie, giacché l’ex segretario della Dc usa il metodo dell’analisi ragionata per tutti i protagonisti, non solo per se stesso. Ma con questa intervista si dimostra che prudenza e moderazione non impediscono necessariamente uno sguardo originale sul futuro.
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II segretario amministrativo della Dc ha ammesso di aver ricevuto contributi da varie parti e anche da Gardini e Sama, dirigenti Enimont in periodi diversi. È vero, io stesso ho ricordato di avere sempre indirizzato a lui chi manifestava l’intenzione di aiutare il partito. È ciò che tutti i segretari politici dovevano fare correttamente! Questo non è un reato e dunque la domanda era e rimane: perché la condanna? Degli eventuali mancati adempimenti previsti dalla legge non poteva rispondere chi quei compiti non aveva. Allora venne fuori che Gardini aveva portato un contributo anche alle Botteghe Oscure, ma il caso fu archiviato perché non si sapeva chi materialmente avesse ricevuto il danaro! Indipendentemente dagli aspetti giudiziari, come spieghi questa disponibilità ad aiutare partiti contrapposti? Avendo grandi disegni imprenditoriali a livello internazionale forse riteneva di potersi garantire così una più larga solidarietà politica. Non credo che sia stato il solo ad aiutare partiti di segno diverso. La legge sul finanziamento pubblico dei partiti era stata approvata in pochi giorni nell’aprile del ’74. Prevedeva pene severe per l’erogazione non registrata anche di modesti contributi ma era risibile circa il controllo dei bilanci. Perché concordaste una legge cosi discutibile? Capita che le leggi varate in fretta, per reazione a un fatto e sull’onda di pressioni varie, si rivelino poi di non facile applicazione. Alcune prescrizioni - come ad esempio quella per i partiti di verificare l’avvenuta iscrizione dei contributi nei bilanci societari, o la pubblica certificazione con doppia firma presso l’ufficio della Camera dei finanziamenti privati - rendevano molto improbabile la piena osservanza delle norme. Certamente
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tutti siamo eguali, ma alcuni lo sono di più. Di certo anche il Pci non era sostenuto solo dai contributi degli iscritti. Molti aiuti arrivavano da altre parti. Infatti quando queste fonti si sono prosciugate hanno chiuso e poi riciclato l’Unita, hanno venduto la sede delle Botteghe Oscure, molte di quelle provinciali e di sezione, e infine hanno licenziato centinaia di dipendenti. L’immagine virtuosa del Pci rispetto agli altri è artificiosa? L’organizzazione e la disciplina particolare vanno pure a loro merito ma la storia dell’autofinanziamento è in gran parte una favola, frutto della propaganda e delle compiacenze che hanno accompagnato il partito “diverso”. Sul finanziamento la posizione comunista è stata sempre particolarmente accorta e sensibile, nel senso della reticenza e della copertura. La loro contrarietà a rendere trasparenti i costi veri dell’organizzazione e delle strutture collaterali, a evidenziare lo scarto tra quelli dichiarati e quelli reali, è una lunga storia; fin dalla Costituente avevano avversato le proposte per definire lo stato giuridico dei partiti. Si conoscevano, grosso modo, i costi dell’apparato comunista? Avevamo calcolato che spendevano più di tutti gli altri partiti messi insieme. L’autofinanziamento copriva sì e no un terzo dei costi. C’è una documentazione con alcuni dati: cinquemila funzionari tra federazioni provinciali e organismi collaterali, centinaia di dattilografe e autisti, un migliaio tra giornalisti e tipografi, oltre quattrocento addetti solo alla sede centrale. Se molti finanziamenti ai partiti erano irregolari, non potevate prevedere che prima o poi la magistratura sarebbe intervenuta? È anche giusto chiedersi perché e come questo intervento per decenni sia mancato. Ho accennato prima solo a un aspetto, penso però che la risposta possa riguardare più compiutamente la natura e la
Anche nel mio processo si è agito in modo sospetto con cambiamenti precipitosi e immotivati del collegio giudicante l’errore è stato soprattutto dei partiti, perché sapevano di non essere attrezzati per corrispondere ad adempimenti del genere. Anche da questa riconosciuta e pratica difficoltà applicativa delle norme credo sia derivata poi la tolleranza dei magistrati, durata decenni, cioè almeno fino a quando una parte di loro non si è votata prevalentemente alla politica. C’è stata di sicuro molta leggerezza, e il fatto che anche ora non si intervenga con norme diverse, e si pensi di risolvere il problema solo con l’aumento del finanziamento pubblico - contravvenendo tra l’altro a un voto referendario -, indica che si continua sulla questione a tenere la testa sotto la sabbia. Come mai il Partito Comunista non ha pagato dazio per le stesse inadempienze? Perché nella fattoria degli animali
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radicalità del confronto politico che abbiamo vissuto. È avvenuto che in quel clima anche la magistratura (come d’altronde l’opinione pubblica, la stampa, altre istituzioni) fosse portata a non vedere il problema del finanziamento dei partiti e dei relativi mancati adempimenti amministrativi. E questo è avvenuto nei riguardi di tutti. L’inversione di tendenza e un diverso rigore erano indubbiamente da mettere in conto e noi l’abbiamo perfino sollecitato. Quel che non abbiamo previsto è l’irruzione di un particolare giustizialismo coordinato ad altri elementi di crisi nel quadro politico. Indagini e inchieste hanno avuto così in determinate aree un taglio liquidatorio, di sommaria semplificazione, e sono state platealmente indirizzate in certe direzioni. Le devastazioni hanno investito la politica e stra-
volto la giustizia, e non c’e dubbio che per quest’ultima sarà ancora più difficile la riparazione. Cosa si dovrebbe fare per ridurre i rischi di politicizzazione nella magistratura? Sulla base delle esperienze fatte, a parte il clima politico che ha condizionato o sollecitato impegni solidali e di non contraddizione corporativa, io penso che dovrebbe essere riconsiderato soprattutto il problema della professionalità. Buoni magistrati sono quelli che vogliono capire prima di giudicare. Dove il dubbio e l’approfondimento dovevano essere la regola, ci sono stati spesso la predeterminazione oppure opportunistici adeguamenti. Come evitare certi rischi? Si potrebbero ridurre, ma i politici vogliono capire veramente anche loro quel che è capitato? Ad esempio il presidente della Repubblica, che e a capo del Consiglio Superiore della Magistratura, potrebbe esaminare o far esaminare certe vicende processuali. Penso che se non altro verrebbero messi a fuoco meglio di quanto oggi non accada i problemi e gli aspetti qualitativi di una professione così particolare come quella dei giudici. Emerge in modo evidente questo aspetto. In relazioni ufficiali del Csm, viene rilevato che ci sono nella magistratura troppe incrostazioni correntizie, e che bisogna fare della professionalità e della preparazione dei giudici “il nostro cavallo di battaglia”. Questo è il cuore della questione, l’aspetto più importante. Si tratta di vedere come s’intende porre mano a un programma impegnativo in questa direzione! È possibile inoltre immaginare magistrati veramente autonomi e politicamente non condizionati se pensano di sviluppare e concludere la loro carriera personale candidandosi con questo o quel partito? II clima di cui parli ha coinvolto anche la Cassazione? Anche loro stanno sulla terra e il clima li coinvolge. Hanno preparazione e sensibilità diverse. Può capitare infatti che giudichino talvolta le stesse cose in modo differente o contraddittorio da una sezione all’altra. Il rischio della parzialità e del pregiudizio c’è sempre. Anche a quel livello l’amministrazione onesta della giustizia richiede la “buona volontà”, come dice Kafka in un famoso romanzo. È stato scritto che nel tuo caso si è proceduto in Cassazione in modo sospetto con cambiamenti precipitosi e immotivati nel collegio giudicante. È difficile avere dubbi. Ci fu la sostituzione del presidente e di alcuni giudici e poi tutto fu deciso con singolare rapidità. La relazione era affidata a un giudice che con Misiani aveva viaggiato nella Cina popolare. Ricordando di aver assistito con lui e con altri magistrati italiani ai processi dove le condanne venivano pronunciate e acclamate negli stadi «avemmo la sfacciataggine» dice Misiani, «di esaltare quei processi sostenendo che lì si realizzava la partecipazione del popolo all’amministrazione delta giustizia. Oggi c’è da vergo-
Raul Gardini, morto suicida in seguito all’inchiesta Enimont. In basso Antonio Di Pietro e Achille Occhetto. Si è molto discusso sulle parziali indagini della magistratura in merito ai finanziamenti di Gardini al Pci
gnarsi ma ci sentivamo nel pieno di uno scontro e se si perde di vista quel contesto capisco che nulla ha più senso». Che dei magistrati volessero concorrere a delegittimare ”lo Stato borghese”non è un segreto per nessuno. Da dove si dovrebbe partire per ricostituire una garanzia di obiettività? Intanto è un errore ritenere che le distorsioni siano da attribuire solo ad alcuni magistrati particolarmente agguerriti, sottovalutando il contagio. Se un atteggiamento appare conforme alle attese “politiche” e producente ai fini del successo e della popolarità, diventa tentazione che rapidamente si dirama. L’opportunismo è più comune e generalizzato che non il settarismo ideologico. Quindi ci sono state corrispondenze e allineamenti in qualche modo naturali, nel senso che, proprio come avviene in natura, il clima condiziona i diversi processi. Leggo quel che scrive un altro uomo di sinistra, presidente di sezione al Tribunale di Napoli: «Non riesco ad apprezzare una stagione che ha visto il rilancio dell’azione penale come strumento di lotta politica, conferendo ai procuratori un generale magistero morale e in conseguenza un ruolo politico protagonista. Una stagione, retta dalla convinzione della hegeliana giustizia virtuosa, ha emarginato quanti pensavano che il processo penale fos-
se soltanto l’accertamento di un reato e che l’accertamento giudiziario dovesse avvenire secondo regole rigorose e preservando le garanzie dell’imputato. Quando la sinistra ha scelto lo stato penale è stata l’antipolitica a vincere, ed è iniziata la svolta a destra del nostro paese». È difficile dir meglio. Anche il Pci-Pds è entrato nel mirino della magistratura e D’Alema ha ricordato che il suo segretario amministrativo ne ha sofferto sino a morirne. Lo conoscevo abbastanza bene, era di Pesaro e ogni tanto avevo occasione di parlare con lui. Una persona seria che è stata inquisita e poi giustamente prosciolta. In genere guardando anche ad altri processi si può dire pero che il Partito Comunista veniva giudicato in modo più corretto, senza le forzature usate nei nostri confronti: la differenza sta qui. Per gli irregolari finanziamenti ricevuti da loro non sono stati di fatto mai coinvolti i dirigenti politici. II presidente del Tribunale di Milano che doveva giudicarti aveva definito il pubblico ministero che ti accusava “un nuovo Garibaldi”. Non era un segnale? Un esempio plateale dell’adeguamento climatico, di cui dicevo. Più che cercare la verità si solidarizzava con un “pregiudizio”. Se però ci fosse stato allora il desiderio di ve-
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L’analisi della discontinuità nella storia democristiana
«Vi spiego perché Moro non era l’erede di Fanfani» lla lucidità dell’analisi, Forlani unisce un atteggiamento sincero: Potere discreto è un libro “nuovo” anche per questo, per la disponibilità dell’ex segretario democristiano a parlare senza la tradizionale riservatezza delle ragioni del proprio impegno. Se ne trova esempio nella risposta ad una delle prime domande del secondo capitolo, quando Fontana e Guiso gli chiedono se sia stato spinto dal dovere più che dalla passione: «Le due cose stavano insieme; con la guerra e la Liberazione per molti è stato così. Si è trattato, almeno per me, di una scelta difensiva, semmai, contro le passioni allora dominanti, rosse e nere». La consapevolezza di doversi guardare dagli opposti estremismi emerge anche dalla valutazione opportunamente “laica” che Forlani rivolge nel terzo capitolo agli intellettuali del dopoguerra, propensi in gran numero a sostenere la suggestione comunista: «Non poteva essere solo un fatto organizzativo ed attivistico. Penso che la formazione nel periodo fascista di tanti giovani intellettuali rendesse abbastanza conseguente il fiancheggiamento e la milizia nel nuovo grande partito di massa e nella sua ideologia totalizzante. Essa riproponeva tensioni che erano state anche del fascismo, solo “tradite”o deviate quando era sceso a compromessi, dicevano, con il capitalismo, la monarchia, la Chiesa».
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Una parte considerevole di Potere discreto è dedicata naturalmente alle vicende interne della Dc. Così nel quarto capitolo Forlani risponde quando gli si chiede se «Moro credeva nel partito che aveva ereditato da Fanfani: fra loro non parlerei di eredità, sono stati contestuali. Forse Moro era meno incline a utilizzare il partito come strumento propulsivo e di guida in ogni direzione, per esempio verso i gruppi parlamentari o gli eletti nelle amministrazioni locali, ma era ugualmente convinto che alla forza e alla organizzazione dei comunisti la Dc doveva rispondere in modo adeguato». Dell’epoca più recente Forlani parla, tra l’altro, per confutare la tesi secondo cui Forza Italia si è affermata solo in quanto espressione del “nuovo”che i media hanno invocato durante Tangentopoli: «Più decisivo è stato partire con la convinzione che la Dc e i suoi alleati non erano stati politicamente e correttamente sconfitti, e quelle direttrici dunque andavano riprese». Quando Guiso e Fontana chiedono quale spazio resterebbe al Centro se Berlusconi sviluppasse questa linea, l’ex segretario della Dc batte sulla sua tesi principale, secondo cui l’obiettivo da privilegiare è «l’unità tra quanti aderiscono al Ppe: non credo che nelle dispute insorte si possano stabilire in modo netto torti e ragioni, e non dimentico neppure che ci sono posizioni e storie diverse, quelle che Adornato nei suoi convegni di Todi ha cercato meritoriamente di comporre. E però penso che partiti nazionali dovrebbero integrarsi sulla base degli impegni comuni che assumono ormai su scala europea».
rità nel mondo politico, e più responsabile attenzione ai vari livelli istituzionali, questi aspetti sarebbero diventati subito ragione di scandalo. Pur attraverso queste forzature, non pensi che l’azione giudiziaria di quegli anni abbia almeno contribuito a ridurre i fenomeni di corruzione? Da quello che dicono diversi procuratori non sembra proprio. Per quanto riguarda la politica sono cambiati i partiti, nel senso che ora sono meno organizzati e dovrebbero avere minori spese, ma non è così. Aver confuso in modo sommario il finanziamento ai partiti con altri reati relativi a illeciti profitti non solo è stato ingiusto ma probabilmente ha dato spazio a malversazioni più astute e più professionali. Si è scritto che ora «la corruzione è in aumento ma non ne vogliamo piu sentir parlare». Qual era in pratica il rapporto del segretario politico con quello amministrativo, ad esempio il tuo con il senatore Citaristi? Di completa fiducia, da parte di tutti. Ha ricoperto quel ruolo con diversi segretari politici sin dal 1983, sempre riconfermato dal consiglio nazionale. Le diverse vicende giudiziarie che lo hanno inseguito con accanimento, e le stesse sentenze di condanna per finanziamenti ritenuti irregolari, ancorché liberi e volontari, confermano che non sono mai entrati in gioco interessi o profitti personali, e che ogni contributo indirizzato al partito mai è stato utilizzato per altri fini. Se la riservatezza che copriva le forme di finanziamento ai partiti aveva spesso ragioni che la giustificavano, non sarebbe stato più saggio e corretto disciplinare diversamente e portare comunque maggiore attenzione alla legge che prevedeva certi divieti? Che ci sia stata scarsa vigilanza è evidente. Prima ci siamo domandati, ad esempio, perché i magistrati siano intervenuti solo negli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino. Si può rispondere che nel nostro paese lo scontro politico ha avuto una radicalità tale da coinvolgere maggiormente istituzioni e società. La lotta ha richiesto strumenti più impegnativi di organizzazione. È anche a fronte di questa realtà che bisognava valutare il problema. I partiti contavano su risorse proprie che venivano dal tesseramento, da sottoscrizioni, da attività promozionali, come le feste dell’Unità per i comunisti o come quelle nostre dell’Amicizia, e infine dal contributo pubblico. Così si coprivano però solo parzialmente i costi, e i due fronti hanno continuato a ricevere aiuti da diverse parti, da privati, imprese cooperative, organismi e associazioni varie. Per il Partito Comunista almeno sino al 1989, c’erano poi gli aiuti sovietici e quelli derivanti da intermediazioni con i paesi dell’Est. La Dc e gli altri partiti democratici hanno sempre avuto aiuti prevalentemente
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interni, nazionali. Che però solo in parte venivano registrati secondo quel che la legge prevedeva. Ogni contributo, interno o esterno, veniva registrato dalla nostra segreteria amministrativa e messo a bilancio anche senza la indicazione nominativa dei contribuenti. Credo che così avvenisse in tutti i partiti, e probabilmente ancora avviene, perché non sento di privati facoltosi, associazioni o imprese, che tranquillamente, come in America, rendano pubblico il sostegno a questo o a quel partito. Se questa realtà fosse stata interpretata con maggiore obiettività, senza confondere fatti diversi, penso
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avvenuto. Ma non è tutto, occorre aggiungere che si è proceduto nei giudizi in modo difforme a seconda dei partiti. In seguito ai processi che hanno accompagnato la fine della prima Repubblica ci sono stati anche numerosi suicidi. Condividi proteste così tragiche? Sono contrario al suicidio, naturalmente; sappiamo poco di quel che siamo, e non sappiamo quel che saremo. Di suicidi ce ne sono stati diversi e ho cercato di capire. Il deputato socialista Moroni ha scritto ai familiari che «quando la parola è flebile non resta che il gesto». Allora la verità era spesso disarmata
I magistrati fecero una gran confusione tra finanziamento ai partiti, illeciti profitti dei singoli e corruzione sistemica che si sarebbe arrivati a cogliere meglio le vere corruzioni e ad avviare più utilmente l’opera di moralizzazione. Avremmo avuto meno teatralità, protagonismi più contenuti e probabilmente una transizione politica più seria e costruttiva. Tutti i partiti ricevevano finanziamenti dall’estero? In modo diretto, consistente e continuativo, si sa che arrivavano dall’Urss, al Partito Comunista o a organismi collaterali. E alla Dc e agli altri partiti democratici? Ho sentito solo di contributi modesti e sporadici di sindacati o associazioni americane a organismi più o meno corrispondenti del nostro paese. Per quanto riguarda la DC, se qualche aiuto, come pure si diceva, fosse andato a comitati vari o a correnti particolari, sarebbe stato più di danno che di vantaggio. Da segretario, per alcuni anni, della Unione europea dei democratici cristiani posso dire che noi più che riceverli i soldi eravamo chiamati a darli in diverse parti del mondo. Di finanziamenti ai partiti da parte delle Partecipazioni Statali scrive anche Ettore Bernabei in un suo libro, con rivelazioni che sembrano importanti se non altro per il ruolo che lui ha svolto. Dice che i grandi mutamenti nei processi produttivi e di sviluppo economico sono accompagnati da pressioni, da azioni di contrasto o di fiancheggiamento, ed è quel che sarebbe accaduto anche da noi negli anni in cui le Partecipazioni Statali sono state un volano forte dell’industrializzazione. Non lo so, ma che ci siano state azioni di sostegno in varie direzioni, orientative dell’opinione pubblica specie attraverso i mezzi di comunicazione, questo è possibile. Emanuele Severino ha scritto che «certa magistratura si è comportata come se non ci fosse alcuna differenza fra corruzione, illeciti arricchimenti e finanziamenti ai partiti inevitabili per la natura dello scontro politico in Italia». Ha ragione? È un rilievo oggettivo. E ciò che è
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e faticava a superare la soglia di certe aule e il settarismo della piazza. L’uomo onesto che diventa oggetto di procedimenti offensivi, vittima di errori incontrastati, in uno scenario ostile, può essere spinto a gesti estremi di rifiuto. Tu come hai reagito? In quel processo di Milano, a differenza delle altre occasioni sei apparso stanco e come sconcertato. Lo ero per come la verità poteva essere strapazzata in un tribunale, ma in sostanza anche allora sono rimasto abbastanza freddo al di là delle apparenze. Ero voluto andare per aiutare a capire; ma la volontà di capire in altri mancava, e così ore di discussione e interrogazioni aggressive e tendenziose hanno fatto apparire una immagine conclusiva di stanchezza. Ripeto però con serenità la mia opinione: le interconnessioni politicogiudiziarie ci sono state ma sul piatto che ha sbilanciato la giustizia hanno pesato altre diserzioni in egual misura. C’è stata, sottesa o manifesta, una disponibilità politica ritenuta necessaria alla salvaguardia di interessi generali, presunti. Il giusto e ripetuto rispetto per l’autonomia della magistratura è stato spesso una maschera che esonerava da ogni altro dovere di analisi e di controllo, dal dovere di cercare almeno di capire quel che stava accadendo. Hai parlato di clima, di contagio, una specie di caccia all’untore che ha coinvolto opinione pubblica e livelli istituzionali; non è assurdo che a distanza di oltre dieci anni non si possa fare chiarezza su queste vicende? Il tempo è questione relativa: dieci o quindici anni sono molti per chi l’ingiustizia la subisce ma per chi pensa di averne tratto vantaggio il tempo è volato e nemmeno se ne è accorto. Da certi intrecci politicogiudiziari è difficile uscire in modo chiaro e in tempi ragionevoli. Per gli untori, ad esempio, mi pare che ci son voluti due secoli, e infine la ostinazione manzoniana in decenni di studi e ricerche, per ristabilire una verità che giudici milanesi avevano stravolto. Altri tempi, naturalmente...
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Interventi. L’ex ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite analizza il problema somalo e traccia la strada per una vera soluzione
La pirateria? È terrorismo Le truppe Onu in Somalia sarebbero inutili. Ci sono troppe contraddizioni di John Bolton l recente, drammatico incremento della pirateria lungo le coste della Somalia, unito al collasso del governo del Paese, evidenzia la continua instabilità che attraversa l’Africa orientale. I leader dell’Unione Africana si incontrano di frequente e sempre con urgenza per parlare della Somalia, ma sfortunatamente il caos sta minacciando tutti i governi – dallo Zimbabwe al Sudan – che fino ad ora sono stati risparmiati dalla crisi. Sebbene il neoeletto presidente Obama speri di concentrarsi sull’attuale declino economico, il tumulto somalo è
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forza di pace Onu in Somalia non andrà - giustamente - da nessuna parte, perché ignora la drammatica esperienza di “costruzione della nazione” del 1993, in cui i peacekeepers, incluse le forze Usa, furono inviati con mandati vaghi e contrastanti, ritrovandosi ad affrontare numerose milizie locali e signori della guerra schierati in coalizioni intercambiabili e in concorrenza tra loro.
Questo intervento umanitario mal gestito si è concluso nel 1993 con il Black Hawk Down, la tragedia delle truppe ameri-
Sebbene Obama speri di concentrarsi sull’attuale declino economico, il tumulto somalo dimostra che il resto del mondo non se ne starà buono in attesa che gli Usa risolvano i propri problemi
Lo stesso Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki-moon, si è opposto alla proposta della Rice, rilasciando una delle dichiarazioni più incisive dall’inizio del suo mandato, due anni fa, particolarmente degna di nota perché critica di una iniziativa degli Stati Uniti. Ban Ki-moon ha giustamente affermato che, non essendoci una pace da mantenere, le operazioni di peacekeeping non sono ipotizzabili. Questa è una visione basilare delle Nazioni Unite, determinata dalla dura esperienza di molti decenni - inclusi i trascorsi in Somalia – e non dalla ciclica infatuazione per il più tranquillizzante ma perfido mantra “della responsabilità di proteggere”.
Secondo, la risoluzione 1851 del Consiglio di Sicurezza, che autorizza la forza contro i pira-
un ulteriore, convincente esempio del fatto che il resto del mondo non se ne starà buono in attesa che l’America risolva i suoi problemi interni. Purtroppo né l’Unione Africana né le Nazioni Unite sembrano in grado di affrontare l’instabilità somala o la minaccia della pirateria navale. Troppi statisti e analisti, infatti, insistono sulla necessità di risolvere insieme i due problemi, il che garantisce che per nessuno dei due verrà effettivamente trovata una soluzione, e – ancora più grave - l’amministrazione Bush accetta questo collegamento.
Recentemente ha proposto due risoluzioni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: una per inviare una forza di pace in Somalia per fermare la guerra civile in corso, e l’altra per autorizzare l’uso della forza contro i pirati, sia in mare che via terra. La visita a New York del Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, per sostenere queste risoluzioni, ha tutte le caratteristiche del suo infaticabile “progetto eredità”, ideato per lasciare alla storia un giudizio migliore del suo operato quando il suo mandato sarà scaduto. Ironia della sorte, l’esito del Consiglio di Sicurezza, molto probabilmente, avrà l’effetto opposto. In primo luogo, la proposta della Rice di una
Sopra, un militare impegnato in un’operazione anti-pirateria nelle acque della Somalia. Impegnati nella missione ci sono le Marine di quasi tutti i membri della Nato, a cui si sono aggiunte le forze navali della Cina. A sinistra, alcuni peacekeeper delle Nazioni Unite impegnati in Africa: la loro presenza è criticata nella lotta alla filibusta. Nella pagina a fianco, Condoleezza Rice cane a Mogadiscio, e il fallimento dell’intera operazione. L’ingenuo e mal pianificato “multilateralismo dogmatico”, così orgogliosamente propagandato dall’amministrazione Clinton, ha con tutta evidenza peggiorato la situazione in Somalia e sviato l’attenzione internazionale dal problema, piuttosto che portare ad affrontarlo in modo più pragmatico.
ti somali, è tutto fumo e niente arrosto, perché si applica solo nei casi in cui il governo somalo di transizione, vicino al collasso, informi il Segretario Generale dell’Onu prima della potenziale azione militare, e - data la fragilità del governo - le probabilità che sia in grado di mantenere segreta tale richiesta sono pressoché nulle, il che assicura ai pirati la possibilità
di allontanarsi da qualsiasi località bersaglio delle forze militari. Nessun provvedimento migliore di questo è stato adottato, perché in assenza di esso ogni nazione potrebbe agire per conto proprio, a prescindere dalle Nazioni Unite o dal governo somalo, ma, fortunatamente, la risoluzione non preclude altri approcci. Quindi siamo liberi di fare questo.
Nessuna delle proposte di Condoleeza Rice era adatta al contesto somalo. La semplice, spiacevole verità è che gli elementi per un accordo politico duraturo, attualmente, non esistono e non ci saranno ancora per parecchio tempo, perché guerre e anarchia si sono protratte troppo a lungo. Ahmedou Ould Abdallah, esperto mediatore Onu, sta facendo
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Analisi. Le ragioni della Cina, in acqua (soprattutto) per interesse
Pechino in campo contro la filibusta di Antonio Picasso on l’inizio della missione della Marina militare cinese, la pirateria nelle acque del Corno d’Africa si conferma essere un problema di dimensioni globali. Inevitabile, vista l’intersezione geografica dell’area, strategica sia da un punto di vista geopolitico sia commerciale. Nel 2008, sette navi battenti bandiera cinese, o che trasportavano materiale cinese, sono state attaccate dai pirati. Una di queste, con i suoi 18 membri dell’equipaggio, è ancora nelle loro mani. Pechino, quindi, ha sciolto la riserva se intervenire o meno con una sua task force composta da due cacciatorpediniere e una nave d’appoggio per il rifornimento. La sua missione, la prima in un mare così lontano dai confini naturali del Paese, avrà l’obiettivo di proteggere i traffici commerciali con i partner in Occidente e garantire la sicurezza per i convogli che trasportano aiuti umanitari per le organizzazioni internazionali. In questo senso, il ministero della Difesa cinese ha tenuto a precisare che le sue navi si atterranno scrupolosamente alle risoluzioni dell’Onu.Torna a suo vantaggio l’esperienza maturata nel fronteggiare fenomeni analoghi nei mari a lei più prossimi, dallo Stretto della Malacca al Mar della Cina, entrambi storici epicentri della “filibusta”asiati-
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che dell’Occidente, Europa, Stati Uniti, ma anche Russia, intendono far soccombere i loro interessi economici internazionali di fronte a un fenomeno eminentemente localistico com’è quello della pirateria. In parole povere: la globalizzazione non può fermarsi nemmeno se minacciata dalle piccole lance corsare che tentano di abbordarla.
Infine, c’è una serie di ragioni specificamente territoriali in gioco. E in questo caso, il problema è sia marittimo, sia relativo alle ricchezze naturali in terra d’Africa. In merito al primo aspetto, è evidente l’importanza strategica assunta dall’Oceano Indiano, coinvolto nella crisi del Pakistan, in quella iraniana e, in modo indiretto, in quella mediorientale. In aggiunta a questo, l’India ha sottolineato inequivocabilmente la sua intenzione di far di quelle acque un suo mare nostrum. Per quanto riguarda l’Africa, invece, la missione cinese è mossa dalla volontà di difendere i suoi interessi sulla terra ferma, oltre che contenere la presenza militare ed economica altrui, vedi Stati Uniti, Francia e ora anche India, quest’ultima primo competitor asiatico di Pechino, il cui peso in Africa è in forte crescita. La Cina è il principale partner commerciale della maggior parte dei Paesi africani. Il settore più dinamico è quello energetico. Nell’estate del 2007, in particolare, la China National Offshore Oil Corp (Cnooc) ha firmato un accordo con il governo provvisorio somalo per garantirsi il monopolio nella ricerca ed eventuale estrazione di petrolio nelle regioni del Mudug (Somalia centrale) e del Puntland. Detto questo però, i rischi di così tante flotte, in acque già di per sé instabili, sono evidenti, come ha sottolineato lo Yemen. Perché è vero che tutte le marine in azione stanno agendo sotto l’ombrello Onu, ma è altrettanto vero che le ragioni dei singoli interventi sono dettate da ambizioni e interessi nazionali.
L’Impero di Mezzo è il principale partner commerciale di quasi tutti i Paesi africani. E non può permettere ai pirati di rubare il petrolio che parte dalle coste del Continente Nero e diretto in Asia quello che può per facilitare la riconciliazione politica passo dopo passo, ma il suo lavoro non può essere portato avanti da un massiccio intervento “umanitario” esterno, o da qualche altro esercizio - fuori luogo - di costruzione delle nazioni. La pirateria e il terrorismo, invece, sono le minacce internazionali più tangibili che provengono dalla Somalia, e devono essere immediatamente affrontate, ma, ironia della sorte, le autorità militari occidentali, inclusa Washington, sono riluttanti. In parte perché temono di essere accusati di violazione dei diritti umani, e in parte anche perchè - ancora più paradossalmente - gli ufficiali della Nato sostengono che i pirati siano parte di un problema sociale che non può essere affrontato da solo.
Questa, ovviamente, è una deviazione radicale dall’atteggiamento americano di duecento anni fa nei confronti della pirateria. I governi europei di tutto il mondo erano contenti di pagare un tributo ai pirati berberi dell’Africa settentrionale, ma la giovane nazione statunitense decise di usare la forza per fermare gli attacchi al suo
commercio. L’America aveva ragione allora, e ne avrebbe anche oggi ad usare la forza per distruggere le basi e le navi dei pirati somali. Se tutto va bene, anche gli alleati Nato potrebbero partecipare, e forse altri Paesi come l’India e la Cina, dimostrando così che non si tratterebbe di un altro esempio del temuto “unilateralismo” americano. Ovviamente dovremmo preoccuparci moltissimo di non mettere in pericolo gli innocenti, perché i pirati, da terroristi quali sono, cercherebbero di usare i civili come scudi, ma - evitando la realtà che la forza è necessaria - la minaccia dei pirati si protrarrà a tempo indeterminato.
Liberarsi dei pirati somali non significherebbe risolvere tutti i problemi del Paese, ma è il primo indispensabile passo in quella direzione. Contemporaneamente e successivamente, Ould Abdalah e gli altri mediatori possono lavorare ad un accordo politico con il sostegno del mondo esterno, ma pensare che il mondo esterno possa porre rimedio, per prima cosa, all’anarchia, significa semplicemente prolungare, in ogni caso, l’agonia.
ca. Effettivamente la zona tra il Golfo di Aden e il Kenya è già interessata da missioni anti-pirateria. La Nato, dietro mandato Onu, ha il compito di scortare gli aiuti umanitari che giungono dal Mar Rosso e sono diretti in Somalia. La forza congiunta dell’Ue, non ancora operativa, sarà competente per il tratto di mare oltre Aden. Sta poi tornando la Russia, che vuole riaprire le basi navali ex sovietiche nello Yemen del Sud. Infine, l’India si è dimostrata logicamente disponibile a difendere i suoi rapporti commerciali con l’Occidente.
La decisione di Pechino offre molti spunti di riflessione. Prima di tutto conferma il crescente interesse cinese a partecipare come soggetto attivo – e non solo in termini diplomatici – alle missioni patrocinate dal Palazzo di Vetro. Segno, questo, che alla Cina va ormai riconosciuto lo status di potenza globale a tutti gli effetti. Fornendo un contributo concreto nelle missioni di pace, Pechino vuole aumentare il suo peso contrattuale in sede Onu. Il suo ragionamento è molto semplice: se alla risoluzione di un problema, nella fattispecie quello dei pirati, intervengono tutte le grandi potenze, la Cina non può restarne fuori. In generale quindi, né i giganti asiatici – Cina, Giappone e India – né le potenze economi-
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Cinema. “Greater”: viaggio nella quotidianità dell’International Meeting Point di Kampala, seguendo la lezione di Cl e don Giussani
La Comunione di Rose La toccante storia di un’infermiera ugandese nel documentario sull’Aids di Emmanuel Exitu di Pietro Salvatori rendete Comunione e Liberazione, il movimento ecclesiale nato dal carisma di don Luigi Giussani e ora guidato da don Julian Carron, il quale, per la sua fedeltà inossidabile al magistero della Chiesa fin dentro a quegli aspetti del reale (la finanza, la politica) all’interno dei quali far valere una propria originale appartenenza è quasi un tabù, è stato a lungo, e a tratti lo è ancora, considerato chiuso e intransigente. Poi prendete Spike Lee, eccentrico regista afroamericano, che, sull’onda del successo dei suoi primi film, è diventato in breve un’icona del-
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neggiatore, anche per la Rai dal suo romanzo, La stella dei re, pubblicato da Marietti, ha tratto la sceneggiatura per l’omonima fiction andata in onda nel gennaio 2007 - trasferitosi di recente dietro la macchina da presa per girare il suo primo documentario, Greater - sconfiggere l’Aids. Ed è stato proprio questo a connettere in modo strano e misterioso il movimento cattolico con il regista di Miracolo a sant’Anna.
“Greater” è infatti un viaggio nella quotidianità dell’International Meeting Point di Kampala, centro ugandese nel quale
La pellicola, premiata da Spike Lee al “Babelgum Film Festival”, a metà dicembre ha iniziato un tour che la porterà nei prossimi mesi in tutte le sale italiane la difesa dei diritti sociali e civili delle minoranze di colore e non, e, allargando un pò il campo visuale, una star del jet set progressista hollywoodiano. Ora provate a unire le due cose. Se non impossibile, l’unione è portatrice di uno stridore e di un’apparente incongruenza molto difficilmente colmabile.
Ci ha pensato Emmanuel Exitu, bolognese, una lunga carriera alle spalle come sce-
Continua il “tour” nelle sale italiane del documentario sull’Aids in Uganda “Greater” del regista Emmanuel Exitu (in alto a sinistra insieme con Spike Lee e, a fianco, con l’infermiera protagonista della pellicola, Rose Busingye). A destra, il famoso scatto “The Death”, da cui Exitu ha preso ispirazione. Sotto, la locandina del film “Italian dream”, diretto da Sandro Baldoni
l’infermiera specializzata Rose Busingye, che ormai da anni ha incontrato e accolto la novità di sguardo posta da Cl, ospita e si prende cura di persone affette dall’Aids. Ma chiunque si aspetti un documentario di denuncia rimarrà deluso. «I documentari di denuncia sono una truffa» dice infatti a liberal Exitu, prendendo ad esempio la famosissima inquadratura che valse un Pulitzer al suo autore, Kevin Carter, The death, che ri-
Mentre nel Regno Unito crollano gli incassi dei film di Natale, da noi (e in Francia) proprio non demordono
In Italia, tutti pazzi per i “cinepanettoni” di Alessandro Boschi artendo da una battuta di Ivano Marescotti, nelle sale (speriamo ci sia ancora davvero) con Italian Dream diretto da Sandro Baldoni con ben “una” dicesi “una” copia e che con cinetiramisu etichettava sportivamente la propria pellicola, vorremmo spendere solo questo inizio con i soliti trastulli che, proprio perché legittimi purtroppo non servono a nulla.
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Trastulli, dicevamo, costituiti dalle rimostranze di un certo cinema cosiddetto di qualità che viene sommerso regolarmente dalle valanghe più o meno azzurre
di film commerciali. Bene, ciò detto e sollevata la coscienza da imbarazzi autoriali, passeremo subito alle fredde cifre. Che ci dicono che nel periodo che va dal 1 gennaio 2008 al 14 dicembre dello stesso anno, le nostre sale hanno incassato 533.061.419 euro a fronte di 89.680.815 presenze. Nello stesso periodo del 2007 le presenze sono state invece 93.721.673 per un incasso di 555.603.275. Ciò, semplicemente, significa che il box office ha perso il 4,06 per cento e le presenze sono state il 4,31 in meno. Insomma, in confronto all’anno scorso si è perso. E chi è, o meglio, quale nazione ha perso di più nella globa-
lità del raffronto? Altre fredde cifre. Il cinema Usa (sissignori) ha aumentato, passando da un incasso di 317.789.721 (57,27%) a 330.860.255 (623,31%).
E l’Italia? Tranquilli, cinepanettoni e cihanno collezionato netiramisu 134.225.048 milioni di euro (25,21%) contro 131.669.237 (23,73%). E allora, da dove esce fuori questo dato complessivo in controtendenza? Innanzitutto dal Regno Unito. Che ha subìto un vero e proprio crollo, passando dai 51.925.092 (9,36%) milioni di euro dell’anno scorso, ai 19.771.088 (3,71%) di quest’anno. E non hanno nem-
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realtà del ricco e agiato occidente.Tutto parte da uno sguardo sulla propria malattia inconcepibile al di fuori di un’esperienza di fede, dell’incontro con Cristo. «Tu vali di più della tua malattia, hai un valore più grande», ripete incessantemente Rose ai propri pazienti, facendosi compagna di chi soffre, senza avere la pretesa di poter risolvere problemi tali da essere al di là di ogni possibile sforzo umano.
Il film riesce a comunicare, attraverso le sue immagini sporche, non celebrative, questa gioia di vivere al punto tale da essere riuscito a superare una durissima selezione, fino ad arrivare, con la benedizione di giurati autorevolissimi, quali il
regista francese Michel Gondry, alla finale del Babelgum, dove è stato selezionato personalmente da Spike Lee.
«A me interessa proprio la gente che si impegna al di dentro di queste situazioni atroci ci racconta ancora Exitu - che si fanno portatori di una speranza, al di là del “lieto fine”, che spesso non è altro che una botta di fortuna del tutto indipendente da chi combatte in queste situazioni». La speranza dunque, che Exitu definisce come «una strana fiamma che brucia dentro ogni contraddizione», è il centro di una vicenda così singolare, della sinergia fra sensibilità tanto distanti. Una sinergia possibile solo attraverso il lavoro di un
Il regista: «Il film ha uno stile “sporco”, tende al linguaggio senza filtro tipico del reportage di guerra, dove si lavora in situazioni così estreme che non si può quasi mai preparare nulla»
trae una piccolissima bambina sudanese accasciata al suolo, e un avvoltoio che incombe minaccioso sullo sfondo. Foto che attirò giuste polemiche, in special modo dopo l’ammissione del fotografo di aver aspettato per oltre venti minuti, senza successo, che l’avvoltoio aprisse le ali. «Ecco, se questo è vero - prosegue Exitu - per me gli avvoltoi erano due nella foto, non uno. Chi fa un’operazione del genere non la fa innanzitutto per denunciare, ma per farsi bello, usando quei soggetti per fare carriera. A me questo tipo di denuncia non interessava».
E nel documentario emerge evidentemente dalle immagini, tanto che uno stupito Spike Lee, presidente del Babelgum Film Festival, concorso per documentari collaterale al Festival di Cannes, se ne è accorto semplicemente guardandolo: «E’ un film in cui ci sono storie che costituiscono una strana realtà, in cui nessuno sembra malato!», ha esclamato premiandolo.
In effetti la storia che emerge dalle immagini è una storia di una vitalità e di una voglia di vivere che manca in tante
meno partecipato agli europei. Di calcio, intendiamo. Chi invece ha assestato un vero e proprio colpo è stata la Francia. Loro, che gli europei li hanno fatti anche se sono durati poco, sempre di calcio parliamo, hanno fatto registrare un successo strepitoso, passando dai 5.596.398 di euro (1,01%) del 2007 ai ben 21.055.486 di euro (3,95%) di quest’anno.
Passando invece ai vincitori degli europei, sempre di calcio, e cioè gli spagnoli, assistiamo ad un altro trionfo. Se il 2007 era stato per gli iberici un anno in sordina con 1.837.262 (0,33%) appena, il 2008 che sta chiudendosi attribuisce loro un incremento record: incassati bel 9.570.825 (1,80%) e passaggio dal nono al quinto posto della graduatoria. Impressiona anche il flop clamoroso della Cina, che ha sì ospitato le Olimpiadi, ma è passata dal 7^ posto dell’anno scorso
(incasso 2.510.469 per una percentuale dello 0,45) al 24^ del 2008: incasso di 8.381 euro, nemmeno statisticamente rilevabile. Ma i numeri, si sa, non guardano in faccia nessuno. Il problema è che i questo caso non guardano nemmeno i film. Che però hanno anche i loro campioni di incassi. In questo momento, in cui Natale a Rio di Neri Parenti se la sta giocando con Madagascar 2 per il primato di pichichi (quello che in Spagna segna più gol, e non stupitevi di tutti questi riferimenti calcistici, celluloide e pallone hanno molto in comune), possiamo dire che di certo c’è che nel 2007 l’ha spuntata Shrek Terzo impostosi sul nostro (si fa per dire) Manuale d’amore 2 – Capitoli successivi in una classifica in cui il film di Giovanni Veronesi è ovviamente primo degli italiani, che occupano anche (o soltanto?) la nona e decima posizione con, rispettivamente, Ho voglia
di te e Notte prima degli esami – Oggi. A onor del vero va aggiunto che La ricerca della felicità, produzione Usa ma regia di Gabriele Muccino, risulta all’8^ posto. E quest’anno? Quest’anno il re viene dall’oriente (come ambientazione). Kung Fu Panda svetta con 17.035.738 e, sempre tra i primi dieci troviamo tra gli italiani Grande Grosso e… Verdone, terzo, Scusa ma ti chiamo amore di Federico Moccia, quarto, e Gomorra, 8^,vero crack cinematografico della stagione (speriamo per ovvi motivi anche della prossima, Oscar permettendo).
Ecco, in questo, se vogliamo, gli americani in confronto al 2007 hanno perso, perché pure assestandosi ancora in vetta con i loro blockbuster, è stata di oltre 3 milioni di euro in meno la differenza tra il “vecchio”Shrek Terzo e il “nuovo”Kung Fu Panda. Cartoni, ti fregano sempre.
regista che ha posto al centro del suo lavoro lo spettatore, cercando di portarlo nel cuore di una realtà che ha innanzitutto bisogno di essere compresa nei suoi tratti fondamentali. Una vicenda, quella umana di Rose, che deve essere scorta in quell’attimo di eccezionalità umana di cui è misteriosa testimone. Al contrario, sembrerebbe solamente un moralismo attivista come ce ne sono tanti in giro per il mondo.
Questa la geniale intuizione di Exitu, che da pochissimo ha iniziato un tour che porterà a presentare in alcune sale italiane un film che Sandra Ruch, direttrice dell’International Documentary Assosiation, ha definito come «un lavoro di altissima qualità visiva e narrativa».
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cultura
Libri/1. Arriva da Adelphi “Ricordi e commenti”, firmato a quattro mani dal musicista russo e dal suo assistente Robert Craft
Le “rimembranze” di Stravinskij di Jacopo Pellegrini na lezione ad ogni pagina. Con espressione felice un compositore, anzi il decano dei compositori italiani, ch’è anche e soprattutto un artista finissimo, ha riassunto la peculiarità e l’importanza di questi Ricordi e commenti firmati a quattro mani da Igor Fëdorovic Stravinskij e dal suo famulo-segretario-assistente – nonché erede – Robert Craft: una lunga densa eppur piacevolissima e pressoché sempre illuminante conversazione, basata sul più semplice degli schemi: domanda (breve) e risposta (lunga); un flusso didattico, per ribadire l’affermazione iniziale, assolutamente degno d’essere esperito. E se qualcuno nutrisse dubbi sulla veridicità di alcune notizie, tenga almeno presente questa riflessione dell’io narrante: «Mi chiedo se la memoria sia veritiera, e so che non può esserlo, ma che nondimeno si vive di memoria, non di verità».
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La frase appena citata non soltanto fornisce al lettore la chiave per accedere a questo “Igor Monumentum” cartaceo, ancor più impressionante di quello elevato in suoni dallo stesso Stravinskij al “collega” Carlo Gesualdo di Venosa, ma spiega anche la ragione del tono franco, diretto che emanano queste 414 pagine, per le quali dobbiamo essere grati all’editore Adelphi (costo euro 36, non poi troppi dato il valore intrinseco del libro). La traduzione di Franco Salvatorelli è buona, ma, come ogni umana impresa, perfettibile: perché volgere i titoli delle opere liriche russe in italiano (nel qual caso, Donna di picche è di gran lunga preferibile a Dama per lo spartito di Ciajkovkij, Galletto d’oro a Gallo per quello di Rimskij) se poi si conserva Pskovitjanka – ancora Rimskij – in luogo del più comune La fanciulla di Pskov? Qualche errore nella concordanza dei generi (il non la Choralion-Saal), qual-
Sotto Igor Stravinskij, celebre per i suoi balletti: in senso orario Petrushka, L’uccello di fuoco e La sagra della Primavera che qui pro quo (lecture = conferenza reso con «lettura», conference = incontro, colloquio con «conferenza», producer = regista con «produttore») e certi gergalismi (le cameriere polacche «sgallettate»), potevano essere evitati.
In origine le “confessioni” del musicista russo occupavano ben cinque tomi, usciti in Gran Bretagna tra il 1958 e il ’72 (tanto per complicare le cose, erano sei nella parallela edizione americana); con essi il lettore italiano aveva potuto fare parziale conoscenza quando, nel 1977, Einaudi riunì (apportandovi qualche taglio) i primi due volumi sotto il titolo Colloqui con Stravinskij. Nel 2002 Craft ha scelto e radunato in a New one-volume edition i passi a parer suo salienti dell’intero corpus: qualcosa si per-
de, moltissimo si guadagna (le sezioni conclusive “Sul comporre e su Beethoven”, impareggiabili). Si obietterà che l’intervistato era tenuto per contratto a essere sincero, e senza dubbio trattavasi di persona non «indifferente alla prospettiva pecuniaria» (così il curatore nella non poco spiritosa prefazione). Resta però il fatto che le risposte mostrano un totale sprezzo del pericolo nel proclamare le proprie convinzioni, nel giudicare (spesso condannare) gli altri e, almeno in apparenza, anche se stesso. Eppure, ben pochi acconsentirebbero ad ascrivere Stravinskij alla famiglia dei sinceri. A cominciare dall’interessato, il quale, nel paragrafo “Sul comporre”, dichiara che la sincerità è «un sine qua non che non garantisce nulla»; per poi aggiungere: «Certa arte insincera può essere eccellente». Con ciò volendo senza dubbio alludere alla propria, se è vero, com’è vero, ch’egli stesso vedeva nella musica una
L’opera è una densa, piacevolissima e pressoché sempre illuminante conversazione, basata sul più semplice degli schemi: domanda (breve) e risposta (lunga) costruzione razionale ponderata antisentimentale («È in ogni caso molto più vicina alla matematica […] che non alla letteratura»: p. 354). Si legga, in proposito, anche il suo manifesto estetico ufficiale, la Poetica musicale (1942), tradotta anche in italiano da Curci (1954).
Poco importa che buona parte delle idee e dei precetti ivi esposti sia scippata a Paul Valéry, ovvero sia rintracciabile negli scritti di coloro che stesero concretamente il libro, Pierre Souvtchinsky e Roland-Manuel: tutte le opinioni contenute nel libro rispecchiano in sostanza il “credo”del nome stampato in copertina. Nondimeno, la sincerità emotiva (quella rela-
tiva ai fatti del quotidiano è fuori discussione: difficilmente Stravinskij ha detto il vero), l’“espressione” dell’interiorità non è confinata al conversare dei Memories and Commentaries, prorompe anche dal pentagramma musicale più spesso di quanto non si creda (o di quanto non voglia l’autore): l’inno a Venere nell’atto III della Carriera del libertino viene definito da Madame Vera de Bosset Sudejkina Stravinskaja, seconda moglie del Nostro, «musica fra le più toccanti che Igor abbia mai scritto». Un altro ricordo, raccolto dalla viva voce del compositore da Maurice Perrin: «Alla prima prova di Perséphone il coro cantò con sentimentalismo il “Reste avec nous”. Egli [Stravinskij] chiese perché, e la risposta fu che «la musica sembra particolarmente espressiva». «Allora perché volete fare qualcosa che già c’è?».
Quanto alle petizioni di principio, Stravinskij ha un bel dire che «non è difficile capire come si fa la musica. Questo si può e si dovrebbe imparare» (p. 289), poiché «i compositori combinano delle note. Tutto qui», rifiutandosi di rispondere a quesiti sul ‘genio’. In un altro punto (p. 243), eccolo costretto a riconoscere che André Gide, suo collaboratore per Perséphone (1934), «mancava di entusiasmo e non riusciva a compenetrarsi con la insondabile irragionevolezza dell’uomo e dell’arte»; e, a corollario delle due frasi citate sull’apprendimento e la specificità dello scriver musica, deve persino ammettere che i «segreti della creazione sono forse nell’artista i segreti della natura» (p. 289: qui, c’informa Craft, Stravinskij cita Kant), e, addirittura, che «le cose di questo mondo» si riflettono nelle opere. Contraddizioni, queste, tutte fecondissime e illuminanti, rivelatrici d’una duplice consapevolezza: come nella creazione artistica sussista un fondo inconoscibile con le sole armi della ragione, e come il cuore pulsante, anche se imprigionato in una dura corazza, finisca lo stesso per venire alla luce. Per tenerlo a bada ci si servirà, alla bisogna, d’un sense of humor lucido ed aguzzo. Dopo la prima di Scènes de ballet Stravinskij ricevette dall’impresario che le aveva commissionate, Billy Rose, il presente telegramma: «Sua musica grande successo - stop potrebbe essere successo sensazionale se lei autorizzasse […] ritoccare orchestrazione»; laconica la risposta: «Soddisfatto grande successo».
cultura on si può fare torto peggiore a un’opera di genere, che caricarla arbitrariamente di significati che non ha e non richiede, magari allo scopo di nobilitarla, o peggio ancora a uso e consumo di quel critico che sperasse, così, di far notare la propria perspicacia andando a frugare lì dove a nessuno verrebbe in mente. Recensendo Il bambino che fumava le prugne (Il Maestrale, 240 pagine, 15 euro), esordio del quasi quarantenne romagnolo Luca Ciarabelli, non si corre davvero questo tipo di rischi: quello che appare, in superficie, un romanzo giallo – e dunque di genere –, a un’analisi neanche troppo approfondita, rivela d’essere ben altro e molto di più, e in primis una decostruzione in chiave semiparodica del giallo stesso. E se ne sentiva il bisogno, di questi tempi, in Italia, visto che gli scrittori contemporanei di gialli, oltre a ribattezzare per non meglio precisati motivi le loro opere indistintamente come “noir”, si prendono un po’ troppo sul serio, convinti come sono – ma se lo dicono da soli, l’un l’altro – di essere gli unici a saper raccontare la realtà italiana attuale.
N
Il libro di Ciarabelli, ambientato ai giorni nostri nell’antica e nobile Ravenna, città resa immobile e letargica dal suo passato glorioso – «Ravenna è un mosaico che vive», è lo spot un po’ lugubre che il sito dell’Ufficio Turismo usa per attirare i visitatori –, ha per protagonista Santo Ateo Miserino Bonarroti, tenente dei carabinieri d’origine romana che da tre lustri e oltre presta servizio nell’antica capitale, e che, perso ormai ogni legame coi colli laziali, cui gli pare in realtà di non esser mai appartenuto, non si è neanche mai ambientato nella regione che lo ospi-
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Libri/2. “Il bambino che fumava le prugne”, l’esordio (riuscito) di Luca Ciarabelli
Più giallo che noir, più romanzo che poliziesco di Alessandro Marongiu ta, tanto che ogni volta che sente una parola o un modo di dire nel dialetto locale, deve farselo tradurre in italiano. Già con quest’ultimo elemento, l’autore mostra una vena che potremmo dire canzonatoria, più che scanzonata, nei confronti di mode e vezzi letterari recenti, dato che nel suo mirino finiscono tutti quegli scrittori che, quasi fosse un imperativo morale, non riescono a non dare alle stampe romanzi senza una più o meno sbilanciata commistione tra lingua e parlata locale.
Questo espediente narrativo scelto da Ciarabelli, non solo non rende à la page Il bambino che fumava le prugne, ma crea un inciampo dietro l’altro e rallenta una storia che, consuetudine vorrebbe, dovrebbe invece procedere per colpi di scena, inseguimenti, botte e sparatorie. Ateo Bonarroti ha imparato a conoscere bene solo una parola in romagnolo, ovvero “zizulone”, epiteto che gli viene rivolto spesso per fargli presente, invero non troppo gentilmente, che passa le giornate con le mani in mano a spese dei contribuenti, come che fosse colpa sua il fatto che Ravenna (o almeno: la Ravenna del libro) sia città di tranquillità cimiteriale e in cui non si muove foglia. Tutto questo, però, va avanti fino al giorno in cui il tenente, che segue corsi serali di filosofia e vive in una appartamento grande come un coriandolo, è chiamato a trovare il colpevole del delitto di Asmodeo Baldini, archeologo semi-dilettante e tombarolo che, mentre cerca di distruggere a picconate il mosaico che raffigura il palazzo di Teodorico Re dei Goti nella chiesa del Santo Apollinare, viene ucciso con un’arma tra le meno ortodosse che il romanzo giallo ricordi, e cioè un veleno a base di prugne. Iniziano così due filoni di indagine: il primo, quello tradizionale, cerca di far luce sull’omicidio, e coinvolge ricchi rampolli e nobili dai nomi lunghissimi, malviventi che, nel nome, hanno scritto il loro destino (Scagnozzo Scagnozzi), vecchie storie ravennati di espropri e vendette, e ancor più vecchie storie legate al tesoro di Teodorico e alla tragica fine della sua amicizia col filosofo
Anicio Manlio Severino Boezio; il secondo, quello che dà un’impronta tutta personale al romanzo di Ciarabelli, riguarda l’identità del tenente protagonista che, imboccato un tunnel di riflessioni metafisiche nel tentativo di risolvere il caso, perde man mano contatto con la realtà quotidiana e, mettendo insieme gli indizi, comincia a rendersi conto di non essere né chi, né ciò che credeva. È qui che Il bambino che fumava le prugne opera un vero e proprio sabotaggio al genere: il mistero delle due morti – quella di Baldini e quella successiva di un personaggio secondario – finisce sullo sfondo della storia, perdendo in plausibilità e, di conseguenza, di interesse agli occhi dell’appassionato di detection story; al contempo, Ciarabelli è bravo a fare in modo che tutta l’attenzione sia dirottata sull’investigazione circa la vera natura di Bonarroti: e se è vero che anche questa soluzione si rivelerà assolutamente implausibile, è altrettanto vero che nessun lettore (compreso l’appassionato di cui sopra) ci farà più caso, trasportato in un luogo narrativo speziato d’Oriente e libero dai vincoli del tempo e dello spazio.
Ambientato nella Ravenna dei giorni d’oggi, il volume ci ricorda che nella Penisola c’è un numero confortante di giovani e talentuosi esordienti
In alto, la copertina del romanzo di Luca Ciarabelli “Il bambino che fumava le prugne” (Il Maestrale, 240 pagine, 15 euro). A fianco e sopra, particolari dell’interno della Basilica di Sant’Apolinnare in Ravenna
Il delizioso libro di debutto di Ciarabelli, oltre a essere una lettura in sé piacevole, induce anche qualche breve riflessione: intanto, ribadisce l’importanza nel panorama italiano delle piccole e medie case editrici come Il Maestrale, che, pur correndo dei rischi, hanno ancora il coraggio di scommettere su autori sconosciuti, badando più alla qualità delle opere che al tornaconto economico; poi, ci dice che nella Penisola c’è un numero confortante di giovani e talentuosi esordienti – oltre al noto Paolo Giordano, di questo 2008 vanno ricordati almeno Francesco Ceccamea (Silenzi vietati, Avagliano) e Marco Lazzarotto (Le mie cose, Instar) –, fatto che lascia ben sperare per il futuro della narrativa nazionale.
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Dal “Miami Herald” del 31/12/2008
A Cuba si festeggia la revolucion è qualcosa di grosso nell’aria. A Santiago de Cuba c’è uno strano attivismo che pervade militari e civili. I secondi sciamano per le vie del centro per effettuare controlli, verificare balconi, terrazze e anfratti nascosti. Il 6 gennaio prossimo Raul Castro farà un discorso che si annuncia storico. Già, ma perché? Sono passati 50 anni dalla revolucion e le aspettative di cambiamento volteggiano da troppo tempo nelle correnti d’aria dell’isola, senza concretizzarsi.
C’
Il clima è febbrile, lo capisci dai palchi che si costruiscono con ortodossia geometrica, dalle troupe televisive che provano postazioni e sfondi per gli stand up dei commentatori. Racconteranno l’evento, secondo le lunghe e tradizionali liturgie del regime. Da settimane ormai fervono i preparativi per un appuntamento che vedrà ospiti e dignitari fare da testimoni al castrismo che non muore mai. «Le forze di polizia stanno diventando matte da giorni. Fermano e controllano tutti», spiega Tony, un meccanico, che al riguardo pare un po’ nervoso. Non sarà dunque un inizio dell’anno qualsiasi per barbudos e cubani. Era un giovedì del gennaio 1959, quando un giovane avvocato, fervente rivoluzione, emerse dalla giungla al comando di un gruppo di ribelli per rovesciare un’altro regime. Quello di Fulgencio Batista, già scappato assieme a una piccola corte. Si cambiò colore alla dittatura ad un costo eccessivo in vite umane. La data è particolarmente importante a Santiago de Cuba, considerata la “culla della rivoluzione”. E’ stato il luogo in cui Fidel Castro ha scelto di lanciare la sua campagna guerrigliera e dove ha affrontato i prima raduni di massa, dopo la vittoria. Nel 1953, lì ha condotto un attacco contro una caserma, fallito misera-
mente. La regione è quella delle montagne della Sierra Maestra, più tardi servita come base, da dove partivano i ribelli per compiere attentati a treni, teatri e avamposti militari. Il 3 gennaio del 1959, nello stesso luogo, nella stessa piazza in cui sono previsti i festeggiamenti, Castro aveva promesso la libertà di espressione e i diritti civili. Promesse rimaste disattese. Aveva anche accusato Batista di essere scappato con la cassa e «promesso di fare cose che non sono mai state fatte prima». Insomma la città appartiene ai simboli e all’iconografia della rivoluzione castrista. Fondata nel 1514 nella punta sudest dell’isola è stata capitale fino al 1553. Nel 1800 è stata la base delle operazioni contro gli spagnoli. Da sempre è conosciuta per lo spirito ribelle e la forte cultura nazionalista. Era il porto degli schiavi, per cui ha il più alto numero di afrocubani dell’isola. I santiagueros sono un popolo molto deciso e orgogliosi di essere cubani, come ricorda un cameriere avvicinato dal corrispondente - senza visto - del Miami Herald. «E’ vero che non mangiamo molto spesso. Ma prima della rivoluzione l’analfabetismo colpiva il 70 per cento della popolazione. Oggi sappiamo quasi tutti leggere, scrivere e pensare», commenta il cameriere. E’la notte tra mercoledì e giovedì quella dove si celebreranno i festeggiamenti. Nel locale arrivano casse di Havana Club, pacchi di cracker e fuori ci sono file di bancarelle per fare gli acquisti dell’ultimo momento. «Con un bastone, una latta e un po’ di rum, noi cubani siamo in grado di divertirci, quando il resto del mondo sembra sull’orlo del precipizio», è la semplice filosofia della pensionata Josefine. A mezzanotte saranno in piazza per sventolare le bandiere, anche se molti cubani si apprestano a
passare la festa in famiglia.Tutti a cucinare arrosto di maiale, riso e fagioli. L’eccitazione che si vive in questa data ogni anno, ora è moltiplicata. Ma non tutti sono contenti. «In piazza i festeggiamenti, quelli veri, è roba per pochi privilegiati del regime», si lamenta un avvocato che se ne starà a casa. «Non c’è nessuna emozione – si lamenta una ragazza – ci manca di tutto, cosa dovremmo festeggiare?».
La cattiva salute di Castro pone in sospensione tutto il Paese e gli investimenti stranieri stanno alla larga dal Paese. All’Avana il clima è un po’ diverso. C’è aria di ufficialità e si vede qualcuno indossare le magliette del cinquantenario. Bandiere enormi e gigantografie del giovane Fidel e di Camilo Cienfuegos un altro “eroe”arredano il centro. Ma nessuno ha più voglia di accalcarsi per venerare quei rivoluzionari.
L’IMMAGINE
Una letterina di buone intenzioni non guasta a Capodanno... e anche dopo Naturalmente ognuno di noi l’altra sera ha fatto i suoi bravi propositi: ha riproposto a se stesso di fare quella tale cosa e di riprendere quel tale lavoro, di essere più attivo e risolutivo, insomma, ognuno di noi ha cercato di mettere ordine dentro se stesso per un nuovo anno. Cerchiamo di iniziare non solo l’anno che verrà nel migliore dei modi possibili, ma addirittura la nostra stessa vita. Poi dal giorno dopo le cose prendono l’andazzo di sempre. I buoni propositi durano lo spazio di una notte e di un mattino. Perché? Forse perché non siamo bravi, perché siamo incapaci, perché siamo sfortunati? No, le cose riprendono il loro naturale corso e i nostri buoni propositi passano subito in secondo piano semplicemente perché il rito di fine anno è appunto una ritualità che ha un valore puramente momentaneo. È giusto, insomma, che le cose vadano così perché i buoni propositi e la nostra buona intenzione di mettere ordine nella nostra vita dovrebbe essere il proposito di ogni giorno e non solo dell’ultimo dell’anno.
Cristiana Desiderata
INFORMAZIONE ON LINE Ma è possibile che nessun legislatore italiano abbia ancora trovato il tempo per varare una legge che regolamenti l’informazione su internet? È legittimo che uno sprovveduto qualsiasi si alzi un mattino e apra un blog o un website, diffondendo notizie di varia natura?
Deborah Piscitelli
VIOLENZE E DISEDUCAZIONE IN TV I buoni proponimenti di non trasmettere, o quantomeno posticipare in seconda serata, film in cui le violenze e il disprezzo per la vita fossero predominanti, sono rimasti, appunto, solo proponimenti. Subito dopo Natale su Rai 2 e in prima serata è stato riproposto un film, Ritorno a Cold
Mountain (premiato anche con un Oscar) in cui una pur pregevole storia d’amore è stata purtroppo incorniciata da numerosi episodi di violenze gratuite, uccisioni a ripetizione ed efferatezze. Vorrei ricordare ai nostri programmatori che in questi giorni i bambini sono a casa, guardano la tv e memorizzano, subiscono e imparano.
Giuliano Torino
PUNIAMO I REATI GRAVI E NON I PECCATI VENIALI Non sono d’accordo con la proposta di legge che condannerebbe al ritiro della patente per un bicchiere di vino. La maggior parte degli incidenti, se non tutti, sono provocati da guidatori in preda ad alcol e droga, spesso re-
Tiro al bersaglio con raggi cosmici Se a proteggerci non ci fosse l’atmosfera, saremmo bombardati da una pioggia di particelle elettriche. Il nostro pianeta, infatti, è colpito dai “raggi cosmici” ossia radiazioni extraterrestri dalla misteriosa origine. In base a recenti ricerche, nascerebbero in galassie lontane, che si trovano a oltre 200 milioni di anni luce da noi, per poi catapultarsi verso il nostro e altri pianeti alla velocità della luce cidivi. Se non si è capaci di perseguire chi commette reati gravi, non è il caso di rifarsela con chi commette colpe veniali, come bere un bicchiere di vino.
Fabiola Margherini
IMITIAMO GLI USA E TORNIAMO AL LATINO Mentre in Italia si pensa di ridurre lo studio del latino ritenendolo
inutile, nel resto d’Europa e negli Stati Uniti ci si sta muovendo esattamente in senso opposto. Due terzi delle università statunitensi hanno riscontrato che la conoscenza del latino conferisce agli studenti una marcia in più. Il motivo è ben evidente: questa materia affina le capacità logiche e di ragionamento critico, allena la memoria, abitua all’attenzione
per il dettaglio. Non si tratta solo di impressioni, essendo tutto ciò comprovato dai risultati ottenuti nei test attitudinali cui gli studenti americani si sottopongono per iscriversi al college e alle graduate schools. I punteggi ottenuti nelle prove di capacità logicoverbali sono decisamente più elevati per chi ha studiato il latino.
Osvaldo Brescia
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Meglio una verità amara che una menzogna inzuccherata Marchesina Gentilissima! La di Lei lettera mi viene tutt’ad un tratto a svelare una verità molto sconsolante per me. L’amicizia dunque ch’Ella si compiacque di darmi è tale, che qualunque menoma inezia me la può far perdere in eterno? Su questo punto bisogna ch’io - come in moltissimi altri - mi confessi inferiore in molto alla Signoria vostra. No, l’amicizia ch’io le professo non può rivaleggiare in disinvoltura con quella che da Lei è sentita per me, non può vantarsi di tanta fragilità. Sia come si vuole, non pretendo, né desidero, né potrei alterare i miei sentimenti; ed anche a rischio di pigliar vetro in concambio di bronzo, m’ostino a credere impossibile per me il cessar d’esserle amico, anche s’Ella in eterno mi dimenticasse. Oh! quella parola «anche in eterno», e l’altra «richiamarmi importunamente» gliele voglio far rientrare in gola se mai la fortuna mi dà di rivederla. Le pare che le avrebbero mai dovuto uscir dal labbro? Tuttavolta s’Ella pensa così ha fatto bene a dir così. Sono tanto idolatra della sincerità, che anche quando amara, l’accolgo più volentieri d’una menzogna inzuccherata. In questa vita chi più ci sta bene è chi più ha l’anima somigliante a quella delle lumache, lenta, fredda, bavosa, addormentata, circonfusa di viscidume. Giovanni Berchet a Costanza Arconati
ACCADDE OGGI
AGRICOLTURA IN ROVINA I politici sono pressati da altre lobbies. Gli attuali contributi Pac consentono una sopravvivenza stentata alla nostra agricoltura: i conti economici di numerose aziende agrarie registrano perdite (talvolta maggiori con coltivazioni di contoterzisti). Qualche terzomondista giunge perfino a proporre l’abolizione o la riduzione degli aiuti Pac: si perverrebbe all’incolto e alla fine prevalente delle nostre attività agricole. Declinerebbero la cura del territorio, la pulizia, la bellezza e l’estetica rurale, lo spurgo dei fossi; mentre avanzerebbero il degrado, le sterpaglie e gli allagamenti. Malgrado il grande valore e merito del fattore umano che vi opera, la nostra agricoltura ha scarsa capacità competitiva nell’agone internazionale, anche perché polverizzata, frammentata, spesso non irrigua, penalizzata da gravosi adempimenti burocratici e divieti inesistenti altrove (come per le colture ogm). Le rese produttive negli Usa sono stabilmente superiori alle nostre; in alcuni Paesi Ue i costi di produzione – soprattutto di manodopera – sono molto più bassi. Nel Belpaese, il blocco dell’utilizzo di varietà resistenti alla piralide limita la produzione e determina mais con alti livelli di micotossine. Anche il mancato sviluppo del settore dei biocombustibili nuoce all’agricoltura. Le altre produzioni agrarie patiscono analoghe crisi di mercato. Fondamentalismo ambientalista e malintesa applicazione del “principio di precauzione” penalizzano l’agricoltura e danneggiano il Paese intero.
Gianfranco Nìbale
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
2 gennaio 1949 Luis Muñoz Marín diventa il primo governatore di Porto Rico eletto democraticamente 1955 Il presidente panamense Jose Antonio Remon viene assassinato 1957 Si fondono le Borse di San Francisco e Los Angeles 1959 Che Guevara viene nominato comandante della prigione de La Cabaña 1968 Christiaan Barnard esegue con successo il secondo trapianto di cuore 1971 66 persone muoiono nella ressa a Glasgow (Scozia), durante l’incontro di calcio tra Rangers e Celtic 1974 Richard Nixon firma una legge che abbassa la velocità massima a 55 miglia orarie, allo scopo di risparmiare carburante durante l’embargo dell’Opec 1974 Spagna: Arias Navarro diventa primo ministro al posto dell’ucciso Luis Carrero Blanco 1979 Sid Vicious viene processato per l’omicidio di Nancy Spungen 1992 Il Paraguay diventa un membro della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
IL RISPARMIATORE UMILE E UMILIATO Le banche di credito ordinario comunicano ai risparmiatori in conto corrente la riduzione del tasso creditore annuo a poco più di nulla (ad esempio 0,01%). Lo Stato tassa - come utile - la perdita reale subita dal risparmiatore: tale saggio nominale lordo è nettamente inferiore alla percentuale d’inflazione annua. Il risparmiatore subisce perdite reali anche croniche, tramite le inflazioni striscianti e soprattutto galoppanti – specie belliche, ma non solo. Diffuse perdite di valori azionari, e talvolta obbligazionari e creditizi, si verificano pure in periodi di pace, per crisi, fallimenti e decozioni di società ed enti emittenti (titoli Parmalat e obbligazioni argentine, fra gli esempi più gravi). A fronte del tasso sostanzialmente nullo a favore del depositante, le banche applicano un esoso,“usurario”saggio (12%; effettivo annuo 12,55%) su scoperti di conto, oltre alla «commissione trimestrale massimo scoperto di c/c» (circa 0,95%). Tali banche remunerano consiglieri d’amministrazione e supermanager con emolumenti stratosferici; hanno sedi lussuose, con eventuali preziosità e marmi sardanapaleschi. Talvolta devono finanziare aziende “politicamente interessanti” (anche fallimentari e “bancarottiere”); talaltra sovvenzionano restauri, mentre continuano le stragi stradali, dovute anche alla grave insufficienza, pericolosità e insicurezza della rete stradale. L’umile risparmiatore viene umiliato.
Lettera firmata
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
IL PARADOSSO DELLA SINISTRA GIUSTIZIALISTA Anche il 2009 si apre nel nostro Paese con il tema della Giustizia da riformare. Ma cos’è la Giustizia? La risposta probabilmente è «il rispetto delle leggi ovvero di ciò che è permesso e non». Il “diritto”, insomma. Ma ciò significa delimitare il concetto di Giustizia a “dike”. È un’idea di Giustizia che rifiuta ciò che nell’antica Grecia si definiva “themis”, la giustizia degli dei. Come la “jus” si contrapponeva nella Roma antica a “fas”. Il “dicere” latino, dire, illustrare, indicare, ha la stessa radice di “dike”. Efficace è quindi descrivere di giustizia come «mostrare con autorità di parola ciò che deve essere». Ma ciò che deve essere (Dike) rispetto a che cosa? Rispetto alla Themis, cioè il dover essere conforme all’Ordine Cosmico, alla Verità. Themis l’indicazione, Dike la norma. Come la pa-ce è un pa-tto di conformità all’ordine, alla verità. Eirene, in greco “pace”, ha la stessa radice “ver” di “verbum”, parola fondativa. Insomma se si cerca di approfondire l’origine del concetto di Giustizia, se ne percepisce l’aspetto sacro e cioè il senso del “diritto” arcaico di “via retta” in riferimento a un ordine che muta nel tempo, un qualcosa di sacro a cui tendere e conformarsi. Ora è difficile avere una Giustizia con la G maiuscola, se gli attori, dai politici ai magistrati, dai cittadini ai mass media, non si confrontano dialetticamente prima che sulla Dike, su una visione comune di Themis. Certo è dubbio che questo possa accadere se nella società è forte la tradizione del determinismo storico, sia di classe o di razza o del libero mercato, ovvero del ritenere che la storia è già segnata e che l’uomo non può influire sul suo andamento. È la visione che annulla la possibilità sia di concepire Dio, l’Ordine Cosmico, la Verità e quindi il senso del Sacro anche per la Giustizia, e sia l’esistenza della libertà umana, della possibilità di scegliere. Dà spazio all’asservimento del ruolo di giudice alle questioni partigiane e alla convinzione definitiva nel cittadino che appunto la Giustizia non esiste, visto che non funzionando le Leggi, Dike finisce per essere una tragica farsa. Con il rifiuto del Sacro a cui si deve invece tendere nella ricerca della Verità, si priva l’Uomo della convinzione che ad una Dike inadeguata si possa porre sempre rimedio ispirandosi a Themis. Per questo è un paradosso che proprio dalla sinistra culturalmente atea e dissacrante ci si erga a paladini della Giustizia. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
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PAGINAVENTIQUATTRO Miti. In un libro di Giancarlo Fusco la storia di un mondo ”maledetto”
Legione straniera, la vera Isola degli IGNOTI
di Marco Ferrari i tempi indomiti della Legione Straniera circolava una leggenda: «La Peste disse al Colera: “Vieni, andiamo ad uccidere un po’ di marocchini”. Si misero in cammino verso Meknès. Ma incontrarono la Carestia che disse loro: “È inutile che andiate avanti! Per noi non c’è niente da fare laggiù. C’è già passato Lyautey!”». Il generale Lyautey era chiamato “la tigre di Nancy”dai barbus del corpo d’armata coloniale istituito il 9 marzo 1831 da Luigi Filippo. Una storia lunga quasi centottanta anni che ci viene raccontata, con la solita arguzia di penna e impareggiabile inventiva, da Giancarlo Fusco nel volume La Legione Straniera appena ripubblicato da Sellerio e in cui sono raccolti quattro servizi giornalistici usciti nel 1961 sul quotidiano Il Giorno, in seguito allo scioglimento del primo reggimento dalla Legione di stanza in Algeria, quelli con i berretti verdi. Ma l’ispiratore vero delle vicende narrate sarebbe il cantante marsigliese Rick Rolando, ex legionario, vera enciclopedia in materia, già protagonista del libro di Fusco A Roma con Bubù, ripubblicato nel 2005 sempre dalla casa editrice palermitana. Un legame stretto che aveva consentito allo scrittore spezzino di pennellare il suo vero capolavoro letterario, Duri a Marsiglia, uscito per la prima volta nel 1974 e più volte riproposto da Einaudi.
A
conquiste coloniali del diciannovesimo secolo alla pacificazione del Marocco, dal secondo conflitto mondiale alla drammatica guerra d’Indocina, dalla sanguinosa guerra d’indipendenza d’Algeria del 1962 al terribile conflitto libanese e poi ancora Bangui nel 1996, Brazzaville nel 1997 sino ai giorni nostri che vedono il mitico corpo impegnato nelle missioni di pace, dall’Afganistan alla Costa d’Avorio. Dietro i chepì bianchi della Legione si celano tante storie di rivincite individuali e di passati da dimenticare che hanno portato al sovvertimento dell’esistenza cantando «Je ne regrette rien» in sfida al mondo intero che sembra non comprendere più la ritrovata gloria nella polvere e della sabbia. Quel «covo di delinquenti e di disgraziati» è stato invece la palestra del riscatto di tante persone, molte inimmaginabili: dietro il nome di Kurt Erch, arruolatosi nel 1914, si nascondeva in realtà lo scrittore pratese Curzio Malaparte; l’ultimo dei Bonaparte combatté nel 1939 col nome di Blanchard; Ernst Junger si arruolò nel 1913; Cole Porter fu un semplice legionario nella prima guerra mondiale quando non aveva ancora inventato Night and Day. Furono della partita nobili come Aage, bisnipote di Luigi Filippo, il principe georgiano Amilakvari, Bao Lang, figlio dell’imperatore dell’Annan, il conte di Parigi Bourbon-Orleans, il principe di Monaco Luigi II° Grimaldi e il principe fiorentino Ubaldini che, prima di arruolarsi nel corpo, fu Vescovo e ricevette anche la Legion d’Onore. Unica donna ad essere immatricolata fu invece Susan Travers, inglese, infermiera e conduttrice della jeep del generale Koenig.
Divi, nobili e reietti famosi cercavano lì l’anonimato. Proprio il contrario di quello che succede oggi nella società dello spettacolo
Da quel lontano 1831, ben 35.000 legionari sono caduti sul campo di battaglia: in gran parte “stranieri” per la Francia, «non per il sangue ricevuto, ma per il sangue versato» come si legge sui muri del Museo della Legione che si trova a Aubagne. Una cavalcata tra i grandi episodi della storia, dal tramonto infuocato di sangue di Camerone in Messico a Dien Biem Phu, dalle
I legionari sono adesso un corpo speciale impegnato in missioni di pace sotto l’egida dell’Onu ed hanno perso ogni alone di fulgido eroismo impresso nel “Libro d’Oro”della Lègion dove i misteriosi frères sans nom ritrovavano l’identità perduta e dunque la ragione del loro sacrificio, il riscatto, dopo interminabili battaglie tra le dune, marce forzate nelle sabbie del Sahara, inseguimenti di tuareg, sparatorie e ferimenti per una bottiglia di Pastis o un’offesa al nome della donna tatuato sul braccio. Immortalati dalla letteratura (Pierre Loti, Pierre Benoit, Ronald Colman) e dal cinema (Jacques Feyder, G.W. Pabst, Julien Duvivier, sino agli eterni Marocco, Casablanca e Beau Geste), i legionari cercano di restare attaccati al mito in un epoca di guerre tecnologiche ed economiche. Chiuse le roccaforti di Sidi-Bel-Abbès e di Fort Saint-Nicolais a Marsiglia, oggi ci si può arruolare a Nantes, Lyon, Lille,Tolosa, Marsiglia, Bordeaux, Nizza e Strasburgo oltre che nella centrale di Aubagne, nel quartiere Viénot. Le basi operative che ancora odorano di esotico sono a Gibuti, nella Guyana e a Calvi, in Corsica, con una paga che varia da 1.500 a 5.000 euro al mese, a seconda del ruolo e della missione. Per coloro i quali volessero cambiare vita ed evitare di essere inseguiti dalla troupe di Chi l’ha visto siamo in grado anche di offrire il numero di telefono per il reclutamento diretto, visita mediche permettendo: 0033 4 42181257. Auguri.