ISSN 1827-8817 90103
Ogni posizione distruttiva e potenzialmente violenta non può non essere severamente condannata
di e h c a n cro
9 771827 881004
Aldo Moro
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Per sfruttare la crisi come “un’occasione” bisogna avere il coraggio dei tedeschi
Caro Napolitano, imitiamo la Germania di Enrico Cisnetto anno appena iniziato potrebbe darci quella “grande occasione” di cui ha saggiamente parlato il presidente Napolitano, oppure farci tornare indietro di 80 anni, quando alla Grande Depressione dell’economia mondiale da noi corrispose il consolidamento del fascismo.Tutto sta a noi: se saremo in grado, come ha detto il Capo dello Stato, di «valorizzare le energie vitali, superare le debolezze, risolvere di slancio i problemi che ci trasciniamo», possiamo farcela. Ma ciò significherebbe tendere a superare con decisione un capitalismo fatto di poche grandi imprese super-protette e incapaci di giocare una partita nello scenario globale (si pensi alla Fiat per tutte), di un numero troppo ridotto di medie imprese con buone performance (specie nell’export) e di un reticolato di milioni di mini e micro-imprese.
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Per Putin, Grozny val bene una moschea di Enrico Singer a pagina 17
L’ex presidente del Comitato di Bioetica risponde a “Repubblica” sul biotestamento
I due Cavalli dell’Apocalisse
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Folla inferocita ai funerali di Rayyan: a Gaza è completamente finito il cibo
Si decide il destino di Hamas Fallito l’appello del movimento per un “venerdì di sangue” di Vincenzo Faccioli Pintozzi i decide in queste ore il destino di europea e l’iniziativa di pace del G8 lanHamas. Il temuto attacco via terciata ieri dal ministro Frattini sembrano ra da parte delle forze militari avere poche speranze di realizzazione. israeliane nella Striscia di Gaza, Anche perché il famoso venerdì nero di un attacco a cui difficilmente il moviGaza, convocato da Hamas al posto della mento terroristico musulmano potrebsperata terza intifada, è divenuto molto be resistere, sembra infatti essere divemeno incisivo delle numerose proteste nuto con i giorni inevitabile. Passata la contro il Papa che hanno agitato il mondo prima settimana di raid aerei, con le vitmusulmano nei mesi scorsi. Ma ha cotime che superano le 400 unità (di cui munque dimostrato che la Striscia è un un quarto civili, secondo le Nazioni argomento che mette d’accordo quasi tutUnite), aumenta infatti anche la capati i gruppi islamici: Hezbollah, Fratelli muUn palestinese cammina cità di fuoco dei guerriglieri palestinesi. sulmani, l’enorme calderone iraniano soaccanto alle macerie Che con i loro razzi arrivano troppo vino quelli che hanno denunciato con più della Striscia di Gaza. I raid israeliani cino a una centrale nucleare fondamenforza l’azione militare israeliana. Che, sehanno fatto più di 400 vittime tale non soltanto per Israele, ma per tutcondo il Programma alimentare mondiato il Mediterraneo. Mentre esplode il dolore del mondo islami- le, ha ridotto Gaza in una situazione“disastrosa”dal punto di vico per la situazione di Gaza, con dimostrazioni sparse per i sta dell’accesso al cibo. Paesi di tutto il mondo, l’ipotesi di tregua proposta dall’Unione se g ue a p a gi na 4
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SCANDALO ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA La Sapienza, che aveva rifiutato il Papa, chiama Valerio Morucci a tenere una lezione. Per fortuna il rettore blocca tutto. Resta però gravissimo l’assurdo vizio di alcune nostre istituzioni di considerare i brigatisti come star della tv o della cultura
colloquio con Francesco D’Agostino di Gabriella Mecucci l dibattito su etica e testamento biologico si arricchisce di un nuovo capitolo. Luca e Francesco Cavalli Sforza, in un articolo pubblicato ieri su la Repubblica hanno legato la questione a quella, non meno delicata, del diritto al suicidio. Un articolo lungo e complesso che ha, almeno, il merito di sgombrare il campo da equivoci. «Il caso di Eluana Englaro - scrivono - ci getta in faccia con evidenza macroscopica, anzi spaventosa, questo dato di fatto: perché una persona non dovrebbe avere il diritto di morire?». Ma la loro sembra una risposta spaventosa a una domanda spaventosa. «Il loro argomentare - risponde a liberal Francesco D’Agostino, presidente emerito del comitato di Bioetica e fine giurista cattolico non andrebbe preso sul serio».
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Professor terrorista alle pagine 2 e 3
se gu e a p ag in a 8 seg2009 ue a p•agEinURO a 9 1,00 (10,00 SABATO 3 GENNAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Star system. Le proteste di studenti e professori fanno saltare la manifestazione annunciata per il 12 gennaio
Il professor terrorista L’Università di Roma invita l’ex-br Valerio Morucci a tenere una lezione sulla memoria. Il Rettore Frati interviene e blocca tutto di Riccardo Paradisi unedì 12 gennaio dalle 18.30 alle 20.30, si terrà un incontro con Valerio Morucci su “Cultura, violenza, memoria”». A firmare questa convocazione, corredata di un documento di 13 pagine scritte dallo stesso Morucci dal titolo Schegge di memoria, dagli scontri di Valle Giulia all’incontro con Giangiacomo Feltrinelli, è la segretaria del dottorato di ricerca in Letterature di lingua inglese dell’Università La Sapienza di Roma. Una comunicazione come molte altre, se non fosse che Valerio Morucci non è un fellow visitor come gli altri.
«L
È l’ex brigatista rosso che il 16 marzo del 1978 partecipò al gruppo di fuoco di via Fani dove persero la vita i cinque agenti della scorta di Aldo Moro e dove
di convocazione», dice infatti Rosy Colombo, ordinario di Letteratura inglese, «sono trasecolata e con me, altri colleghi e molti studenti. Mi sarei aspettata però una reazione pubblica e più corale. Invece, le critiche sono rimaste tra le mura dell’ateneo, limitate al botta e risposta tra i singoli». La reazione all’evento ha aspettato a diventare pubblica e corale dopo le feste. Tanto da indurre il preside della facoltà di Scienze Umanistiche Roberto Nicolai ad annullarla. Ad aprire il fuoco polemico del resto era stato lo stesso rettore della Sapienza Luigi Frati definendo assolutamente inopportuna l’iniziativa: «Il seminario, se vogliono, lo facciano a via Fani a Roma, davanti alla lapide che ricorda quell’eccidio». Per Frati ci sono aspetti «particolarmente critici di una iniziativa
I parenti delle vittime tornano a parlare di ”un mondo al contrario”. Dove i carnefici di ieri hanno diritto di parola e agibilità pubblica mentre le vittime sono consegnate all’oblio il presidente della Dc venne rapito per essere poi assassinato dopo 55 giorni di prigionia. L’invito arrivato a «docenti e studenti» circolava dal 12 dicembre scorso scatenando da subito violente polemiche tra i promotori dell’iniziativa, in testa il professor Giorgio Mariani ordinario di Letteratura angloamericana nella facoltà di Scienze umanistiche, e quanti hanno subito cominciato ad additare come «cattivo esempio la legittimazione accademica verso chi si è macchiato di sangue». Ma è una polemica ancora tutta interna alle mura della Sapienza: «Quando ho letto la lettera
incongrua riguardo alle stesse giustificazioni apportate a sostegno del seminario». Già, ci sono anche le giustificazioni. A fornirle è lo stesso ideatore dell’iniziativa Mariani: «Le autorità di polizia vedono con favore questi incontri che possono avere un contenuto educativo perché aiutano le nuove generazioni a scansare la tentazione di ripetere scelte sbagliate».
Sta di fatto che il Sap, il sindacato della polizia, non ha esitato a definire vergognosa l’iniziativa della Sapienza: «A trent’anni del rapimento di Aldo Moro e dal massacro della sua scorta – si legge in una nota diffusa dal Sap – è vergognoso che a uno dei protagonisti di questi drammatici avvenimenti, Valerio Morucci, venga concessa la possibilità di tenere lezioni a La Sapienza, dove invece è stato vietato al Santo Padre di tenere una conferenza. È un mondo alla rovescia che non accettiamo». E che non accettano naturalmente nemmeno i parenti delle vittime del terrorismo. Bruno Berardi, figlio del maresciallo
È comunque gravissimo il vizio di considerare le Br come delle star di Gennaro Malgieri ono su Marte, temporaneamente purtroppo, e apprendo la notizia – Internet arriva fin qui e chissà fino a dove – che un exterrorista, tale Valerio Morucci, autore del sequestro e partecipe dell’assassinio di Aldo Moro, è stato invitato dal professor Giorgio Mariani, ordinario di Letteratura angloamericana nella facoltà di Scienze umanistiche della Sapienza di Roma, a tenere una conferenza. Fortunatamente, il rettore dell’Università, professor Frati, ha annullato la sciagurata iniziativa e restituito un po’di credibilità a un’istituzione che nel corso del tempo è andata decadendo in misura opposta alla celebrità che acquisivano i Morucci ed i suoi affini, ormai star televisive e celebrati autori di memorie dei loro anni ruggenti e sanguinosi. Tutto bene quel che finisce bene? Manco per niente. Resta il fatto che qualcuno abbia pensato che una faccenda del genere rientrasse nel novero delle cose normali. E qui, sul Pianeta rosso, dove soggiornano coloro che non capiscono più da che parte giri il Pianeta Terra e vi si sono autoesiliati, sia pure per poco tempo onde far posto ad altri che premono per disintossicarsi, la notizia non ci ha lasciati sgomenti. Commentandola ci è venuta in mente, guardate un po’ che associazioni di idee provocano taluni eventi, che quando la maionese impazzisce non c’è modo di riacchiapparla: è inevitabile buttarla via e ricominciare daccapo. Che sul Pianeta Terra, si agiti, come diciamo quassù, un’umanità che assomiglia tanto a branchi di pesci in acquario i cui andamenti sono incomprensibili, è pacifico. Ma che in una piccola parte di esso chiamata Italia la degenerazione comportamentale abbia superato di gran lunga quella che pur si riscontra in altri Paesi, ci sembra francamente abnorme.Al punto di esserci chiesti, noi marziani onorari, dalla precaria cittadinanza terrestre, se davvero quel che leggevamo corrispondeva a verità. E cioè che un ex militante delle Brigate Rosse si sarebbe dovuto esibire all’Università di Roma, non per parlare di letteratura angloamericana, ma per rendere edotti una quantità di idioti sul suo percorso post-carcerario.
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Un tempo, quando la Terra era popolata di esseri umani degni di questo nome, il tutto si sarebbe risolto in una sonora risata e un calcio nelle terga agli esimi docenti, collaboratori, ricercatori, bidelli che si sono assunti l’onere di una decisione tanto bislacca da essere derubricata tra le follie italiane il cui catalogo comincia ad essere piuttosto nutrito. Ma oggi no, non si può far finta di niente. Poco ci frega qui su Marte, ma pur sempre con passaporto terrestre, quali siano stati i nobili intenti che hanno portato Morucci, in trent’anni, dall’essere terrorista patentato e riconosciuto (da se stesso, innanzitutto) a docente universitario. Ci frega tantissimo, invece, che in quella stessa università, pronta ad accogliere con tutti gli onori il brigatista emerito, al Papa, capo della cattolicità universale, successore di Pietro e vescovo di Roma, venne impedito di fatto un po’ di mesi fa di tenere una lectio magistralis in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Perfino i nostri amici marziani, attenti più di quanto si possa immaginare alle pazzesche vicende terrestri, ci hanno guardato come solitamente facevamo noi con chi credevamo un marziano. E, per quanto abbiano capito poco il nostro smarrimento, si sono preoccupati poiché dovunque c’è una qualche forma di vita esiste anche una gerarchia di valori, di sentimenti, di pensieri, di idee. Perfino in Italia è così, naturalmente. Con la piccola (e per taluni trascurabile) differenza che anche una gerarchia capovolta è pur sempre una gerarchia. Secondo qualcuno al Papa non dovrebbe essere concesso nessuno spazio, mentre a Morucci non si dovrebbe negare una cattedra. Anche se ci è stata messa una pezza, non è un buon inizio di anno per la nostra sempre meno amabile Italia.
di Polizia Rosario, ucciso dalle Br a Torino nel 1978 e presidente di “Domus Civitas-Vittime del terrorismo e mafia”, ha annunciato che se Morucci dovesse presentarsi alla Sapienza per partecipare a una lezione su quegli anni la sua associazione manifesterà davanti all’Università in segno di protesta.
C’è chi però, come il direttore (a tempo) di Liberazione Piero Sansonetti è convinto che non sia giusto inchiodare le persone al loro passato. «Se Morucci ha pagato il suo debito con la giustizia perchè dovrebbe essergli impedito l’ingresso all’università? Per altro Morucci non andrebbe a predicare la lotta armata, ma a testimoniare che stava dalla parte sbagliata». È la stessa tesi che ha fino ad oggi, salva la buona fede di chi la sostiene, ha legittimato e sostenuto le apparizioni pubbliche degli ex terroristi ormai diventati degli abitué del circuito pubblico e mass-mediatico. Non è un dibattito che nasce oggi quello sull’opportunità di dare voce e pubblicità ai protagonisti della lotta armata. A far parlare gli ex terroristi aveva cominciato del resto Sergio Zavoli intervistandoli nella trasmissione La notte della Repubblica. Ma in un contesto espiatorio, quasi inquisitoriale. Un’atmosfera diversa insomma dalle ospitate al Maurizio Costanzo Show o dalle presentazioni alle librerie Feltrinelli dei libri pubblicati sulla lotta armata per famose case editrici. O rispetto al presenzialismo nei talk show – dove ex terroristi sono stati per anni presentati in veste di opinionisti – e nelle università. L’ex capo delle Br Renato Curcio esattamente un anno fa partecipava in qualità di sociologo, malgrado le contestazioni, a un convegno organizzato all’università di Lecce sulla globalizzazione e il lavoro precario. «Sono molto importanti i contesti dove vengono presentate le testimonianze degli ex terroristi – dice a liberal l’ex esponente della commissione Giustizia Marco Boato – è assurdo farli salire moralmente in cattedra o impartire lezioni di storia. Però si deve anche prendere atto che una fase storica si è conclusa. E che chiudere loro la bocca non serve a niente, tanto meno a capire cosa avvenne in quegli anni». Il contesto, appunto. Quello
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Parla “l’irriducibile” Marcello Cini, capo della rivolta contro Ratzinger
PIERO SANSONETTI, DIRETTORE DI LIBERAZIONE «Se Morucci ha pagato il suo debito con la giustizia non vedo il problema se parla all’Università»
MARCO BOATO, (VERDI) EX PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE GIUSTIZIA «È importante il contesto dove vengono chiamati a parlare gli ex terroristi. Ma chiudere loro la bocca non ha più senso»
BRUNO BERARDI, PRESIDENTE DI DOMUS-CIVITAS VITTIME DEL TERORISMO «Se Morucci dovesse presentarsi alla Sapienza per partecipare a una lezione manifesteremo davanti all’Università»
LUIGI FRATI, RETTORE DELL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA «Se Morucci vuole tenere una lezione sugli anni di piombo lo faccia in via Fani, davanti alla lapide che ricorda l’eccidio»
a cui si appella il sociologo Luigi Manconi che parla di “errore” rispetto all’annullamento del dibattito con Morucci. Ma allora il contesto più adeguato non sarebbe quello che indica il rettore Frati che ha invitato Morucci a tenere una lezione sulla violenza e la memoria in via Fani invece che alla Sapienza? In quella via Fani dove Morucci ha anche ambientato un suo racconto pubblicato dalla rivista Accattone: «La macchina ci ar-
riva davanti sbucata da un ricordo inatteso... Una molla mi spinge in avanti. Scendo dal marciapiede e mi trovo in un acquario, vischioso come una palude... Gli altri sono accanto a me ma non li vedo. So che stanno sparando. So che anch’ io sto sparando. Ma non sento i colpi». Chissà, forse è questa memoria un po’ attutita dei terroristi – dove gli spari non si sentono – che ancora disturba chi stava dalla parte che non sparava.
Il Papa no, Morucci sì? «Non mi scandalizzerei» «S
ignor Rettore, apprendo che recita è cambiato il programma dell’inaugurazione del 705esimo Anno Accademico dell’università di Roma La Sapienza, che in un primo momento prevedeva la presenza del ministro Mussi a ascoltare la Lectio Magistralis di papa Benedetto XVI. Il Papa ci sarà, ma dopo la cerimonia di inaugurazione, e il ministro dell’Università Fabio Mussi invece non ci sarà più. Come professore emerito dell’università La Sapienza - ricorrono proprio in questi giorni cinquanta anni dalla mia chiamata a far parte della facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali – non posso non esprimere pubblicamente la mia indignazione per la Sua proposta, comunicata al Senato accademico il 23 ottobre». Sono le prime battute dell’appello che il fisico Marcello Cini faceva al rettore della Sapienza di Roma per protestare contro la decisione di far inaugurare l’anno accademico a Benedetto XVI. Un attentato, secondo Cini e gli oltre sessanta firmatari dell’appello, alla laicità dell’istituzione universitaria. Professore ieri lei protestava contro la partecipazione del Pontefice all’inaugurazione dell’anno accademico. Oggi la Sapienza invita l’ex Br Valerio Morucci. Però nessuno protesta. No guardi, la sua domanda è malposta. Mettere così le cose significa fare informazione distorta, continuare a confondere i piani. Perché? In primo luogo perché nessuno ha mai detto che il Papa non possa venire a parlare alla Sapienza. Semmai i motivi della protesta che lei ha ricordato erano appuntati sul fatto che Benedetto XVI veniva chiamato a inaugurare l’anno accademico, una cerimonia fondativa della laicità di un’istituzione che tale deve restare. Non mi sembra che Morucci sia stato invitato a inaugurare l’anno accademico. Il confronto tra i due casi non ha alcun senso dunque. Non è un’argomentazione un po’ causidica la sua professore? Niente affatto. Né causidica né formalistica. Si tratta di piani diversi: è capzioso confonderli. Ammetterà però che l’impatto simbolico di un ex terrorista che viene invitato a tenere una lezione sugli anni di piombo all’università è abbastanza violento. Guardi io non ho seguito così da vi-
cino questa vicenda, ma non mi risulta che Morucci sia stato invitato a fare apologia della lotta armata o a giustificare quella pagina orribile della nostra storia. Ci mancherebbe altro… Appunto, quindi cerchiamo di valutare il contesto. Dunque se Morucci ha scontato i suoi debiti contratti con la giustizia, se è tornato un libero cittadino, non vedo per quale motivo gli si dovrebbe negare il diritto di partecipare a un’iniziativa interna all’università. Forse per opportunità o se vuole per rispetto alle vittime del terrorismo. Lo ripeto, se Morucci fosse presentato come un eroe sarebbe del tutto inopportuno farlo parlare in un aula universitaria. Ma se intervenisse come testimone di un’epoca potrebbe essere interessante e utile sentirlo. Soprattutto se si riuscissero a illuminare angoli di quel periodo che appaiono ancora oscuri. Nessuno scandalo dunque. Nessuno scandalo. Glielo ripeto: non confondete i piani. Non perdete di vista i contesti dentro cui av(r.p.) vengono le cose.
«L’ex terrorista non è stato invitato a inaugurare l’anno accademico come avvenne con il Papa. È ingiusto dunque confondere i piani»
mondo
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Guerra. Ammassati carri e soldati al confine, l’aviazione cerca di difendere la centrale atomica di Dimona. Fallita la prova di solidarietà del mondo arabo
Il Venerdì nero di Hamas Gerusalemme apre (agli stranieri) il valico di Eretz Il Pam denuncia: completamente finito il cibo a Gaza di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima E mentre lungo il confine con il Territorio palestinese sono ammassati soldati e carri armati, l’esercito ha autorizzato l’evacuazione degli stranieri residenti a Gaza. I palestinesi con passaporto straniero hanno iniziato a lasciare l’area, grazie alla concertazione di Gerusalemme con le ambasciate di riferimento. Si tratta in totale di 367 persone: 168 russi, 85 ucraini, 28 moldavi, 25 kazaki, 15 bielorussi, 33 americani, sette turchi e sei norvegesi, secondo cifre fornite dal ministero degli Esteri israeliano. Il valico di Eretz - nel nord della Striscia, sede scelta per il trasferimento dei civili non palestinesi - era stato chiuso sabato dopo l’inizio delle operazioni israeliane. Inoltre, la Corte suprema israeliana ha ordinato che i giornalisti stranieri siano riammessi nella Striscia di Gaza: il grado più alto della magistratura israeliana ha legiferato in tale senso dopo la decisione dell’Associazione della stampa estera per Israele e i Territori palestinesi di presentare ricorso contro la decisione dell’esercito di sigillare Gaza e di impedire l’accesso ai media dopo l’inizio dell’offensiva.
La situazione nella Striscia rimane infatti in bilico, un bilico che evidentemente vuole essere tenuto quanto meno poco noto. Nonostante le rassicurazioni fornite a Parigi da Tzipi Livni – secondo cui a Gaza «non c’è alcuna crisi umanitaria» – il Programma alimentare mondiale ha infatti denunciato una situazione alimentare “spaventosa”. In un comunicato firmato da Christine Van Nieuwenhuyse, rappresentante del Pam nei territori palestinesi, si legge infatti: «La situazione attuale a Gaza è spaventosa e molti prodotti alimentari di prima necessità non sono più disponibili. Sono necessari circa 6,4 milioni di euro per soddisfare la necessità di prodotti alimentari venuti meno a causa dell’aumento dell’intensità dei combattimenti».
Il Programma, che cerca di operare nelle zone a rischio fame, ha avviato da due giorni
nell’area un programma di distribuzione urgente di pane a Beit Hanoun per circa 15mila persone: «La penuria di grano fa sì che la maggioranza dei forni e delle panetterie abbiano cessato l’attività a Gaza e il pane, prodotto di base dei palestinesi, è venuto a mancare improvvisamente». Appare però fallito il “Giorno della rabbia” convocato da Hamas. Si sono
Un morto in Marocco e arresti al Cairo. Il “Giorno della rabbia” non coinvolge neanche l’opinione pubblica internazionale verificati infatti incidenti e decine di arresti in numerose città arabe teatro di manifestazioni e proteste contro i bombardamenti israeliani sulla Striscia di
Gaza, ma nel complesso nessuno ha fornito aiuto concreto ai palestinesi. In Marocco la stampa locale ha riferito della morte di uno studente che era rimasto ferito negli scontri di piazza con la polizia. Al Cairo attivisti dell’opposizione musulmana si sono scontrati duramente con le forze dell’ordine e 40 persone (attivisti riconosciuti dei Fratelli musulmani) sono finite in manette.
In Afghanistan circa 3mila persone sono scese in piazza a Kabul manifestando al grido di “Morte a Israele”, “Morte agli infedeli” e “Allah è grande”. Nel mirino dei dimostranti, che hanno esploso un colpo d’arma da fuoco contro l’effigie del premier israeliano, Ehud Olmert, anche gli Stati Uniti e il presidente Bush. In mille hanno protestato ad Herat, nella parte occidentale dell’Iraq. Manifestazioni si sono svolte anche in numerose città del Pakistan, dove
A lato, soldati israeliani arrancano nella sabbia del deserto che circonda la Striscia di Gaza. Nella pagina a fianco, un uomo cammina accanto alle macerie. Sotto, il “falco” di Hamas ucciso nei raid israeliani di tre giorni fa, Nizar Rayyan, autore di un testamento spirituale di odio
i dimostranti hanno inneggiato al jihad e alla guerra contro Israele. A Srinagar, nel Kashmir, sono state bruciate bandiere israeliane.
Proteste di poco conto anche in Occidente: a Bruxelles, dove alcune migliaia di dimostranti hanno risposto all’appello di
Il testamento spirituale di Nizar Rayyan, il falco ucciso dagli israeliani e sepolto ieri
«Morirò da martire, ma Israele sparirà» ualunque cosa Israele faccia ad Hamas, sarà inutile. Israele perderà lo scontro con Hamas perché è destinata a perdere. Si apre così, con un incoraggiamento ai suoi uomini e una considerazione ai limiti della profezia, il testamento spirituale di Nizar Rayyan, il “falco” di Hamas ucciso tre giorni fa nel corso dei raid aerei di Israele sulla Striscia di Gaza. I funerali di Rayyan si sono svolti ieri: durante le esequie, il suo braccio destro Fathi Hammad ha dichiarato: «Non riposeremo fino a che non avremo distrutto l’entità sionista». E le sue parole trovano una sinistra eco nel testamento del falco, reso pubblico sempre ieri. «Se ci uccidete – scriveva Rayyan – noi diventeremo dei martiri: i martiri più amati da Allah e dal popolo palestinese. In questo modo, vinceremo. Se non ci uccidere, che sia per considerazioni politiche o morali, rimarremo per sempre nei nostri territori. E avremo vinto, con la nostra semplice presenza». Ogni mossa compiuta da Israele, si legge ancora nel testo, «non fa altro che confermare questa idea. I blocchi, le limita-
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zioni, i check point non fanno altro che aumentare l’appoggio interno ad Hamas e fiaccare la fiducia nella pace, che non può esistere con il popolo ebraico».
La «grande esperienza di Hezbollah» durante la guerra del Libano, conclude il leader ucciso, «è l’ultima dimostrazione del fatto che ho ragione. L’unica cosa che dobbiamo fare per vincere la grande guerra della Palestina è, in definitiva, sopravvivere». Una sopravvivenza che sembra essere lo scopo della dirigenza di Hamas: questa, secondo fonti interne, avrebbe iniziato a trasferire uomini e documenti in Libano, da dove - con l’appoggio di Hezbollah - questi avrebbero il compito di riprendere la guerra contro Israele appena possibile. Come scriveva Rayyan, infatti, «soltanto isolando e facendo spaventare l’entità sionista potremmo pensare a cancellarlo dalla mappa». Un progetto che, vista la tiepida risposta del mondo arabo alla chiamata verso una terza intifada, sembra essere condannato al fallimento.
una quarantina di associazioni; all’Aja (Olanda), un migliaio di persone si è raccolto davanti le rappresentanze diplomatiche di Washington e Tel Aviv; in Francia, ci sono state proteste a Parigi e in decine di altre città; urla e slogan anche a Washington - di fronte al Dipartimento di Stato - e a Panama, davanti l’ambasciata israeliana.
Condoleezza Rice ha detto di essere pronta a lavorare per una tregua duratura, e ha sottolineato che «non è pensabile» un accordo che riporti la situazione a com’era prima dei raid. Ovvero sia, a una Hamas dotato di missili e senza gestione in grado di tenerli a terra. Eppure, l’amministrazione Bush è agli sgoccioli e, come sottolinea la stampa araba e quella internazionale, l’appello della Rice «lascia il tempo che trova». Tuttavia, il vero problema di Israele non è l’opinione pubblica internazionale, ma il rischio che corre la centrale nucleare di Dimona. Secondo il Times di Londra, infatti, i razzi colpiscono ormai anche la cittadina di Beersheba, a una trentina di chilometri dalla centrale, dove si ritiene si trovi l’arsenale nucleare mai pubblicamente dichiarato d’Israele. Hamas ha ampliato il raggio dei suoi lanci grazie ai nuovi missili Grad, dalla gittata più lunga degli artigianali Qassam, che vengono contrabbandati nella Striscia dal mare e tramite i tunnel sotto il confine egiziano. Funzionari israeliani riferiscono che Hamas si è dotato anche di una dozzina di missili Fajr-3
mondo
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YouTube, Twitter e video-blog: l’info-offensiva di Gerusalemme
Ma molti dicono: una guerra solo mediatica di Andrea Mancia ualcuno già inizia a chiamarla “War 2.0”. Ed è l’altra faccia della guerra contemporanea, quella che non si combatte per aria, terra o mare, ma in quella zona - a metà strada tra la realtà e l’immaginazione - in cui abitano i media, vecchi e nuovi. Una guerra che negli ultimi anni è diventata sempre più importante, visto il ruolo esercitato dalle “opinioni pubbliche” mondiali nei confronti dei governi occidentali. E nella quale gli israeliani si sono sempre, sistematicamente, ritrovati a soccombere nei confronti del “nemico”. Almeno fino ad oggi. Qualche esempio in ordine sparso. Nell’autunno del 2000, la morte del dodicenne palestinese Muhammad al-Durrah diventa il simbolo della furia cieca dell’esercito israeliano. E le immagini della sua uccisione, girate da un operatore palestinese per la televisione France 2, fanno il giro del mondo scatenando un’ondata di commozione e sdegno. Dovranno passare due anni prima di scoprire che si era trattato di una “montatura” orchestrata ad uso e consumo dei media e delle organizzazioni non governative filo-palestinesi. Nell’aprile del 2002, nel corso dell’operazione “Defensive Shield” condotta durante la “seconda intifada”, le Israel Defense Forces“bonificano” il campo profughi di Jenin, utilizzato dai terroristi come avamposto per gli attacchi condotti contro le città e i villaggi israeliani della West Bank. Immediatamente, nel mondo arabo (e nei media occidentali) si inizia a parlare del “Massacro di Jenin” e di centinaia di morti palestinesi, quasi tutti donne e bambini, macellati dalle brutali forze d’occupazione. La Cnn parla di 500 morti. Ed è una delle stime più basse tra quelle che circolano, come impazzite, negli organi internazionali d’informazione. In realtà i morti palestinesi sono una cinquantina (numeri confermati in seguito anche da Fatah), di cui 5 civili, contro le 23 vittime tra i soldati israeliani. Il “massacro” più equilibrato della storia. La campagna di disinformazione contro Israele raggiunge il suo culmine, nel 2006, durante la seconda guerra in Libano. Le condanne per gli «attacchi indiscriminati» e i «crimini di guerra» si succedono quotidianamente. Alcune agenzie di stampa - Reuters in prima linea - vengono colte con le mani nel sacco a “ritoccare” fotografie in senso anti-israeliano (un fotografo, autore di almeno una decina di “falsi”, viene licenziato). Dopo un attacco aereo ordinato dal primo ministro Olmert, i giganteschi titoli dei giornali che parlano di «migliaia di morti civili» spingono addirittura gli israeliani a sospendere per 48 ore qualsiasi operazione militare dall’aria, permettendo a Hezbollah di riorganizzarsi ed estendere il conflitto. Pochi giorni più tardi, Human Rights Watch smentisce la strage. Ma ormai il danno è fatto. Sono solo alcuni tra le decine di casi in cui Israele, pur conseguendo risultati importanti sul fronte militare, va incontro ad una sconfit-
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ta disastrosa sul fronte mediatico. Secondo uno schema di triangolazione, ormai consolidato, che coinvolge l’estremismo islamico, i mezzi d’informazione internazionali, la maggior parte delle organizzazioni “umanitarie” (finanziate spesso dai governi europei) e - naturalmente - le Nazioni Unite. Questa volta, però, gli israeliani hanno deciso di combattere anche su questo fronte. Con tutte le armi a loro disposizione.La parte più “visibile” di questa offensiva è rappresentata dalla decisione dell’Idf di aprire un “canale”su YouTube (il più noto sito Internet per la condivisione dei video) per mettere a disposizione di tutti le riprese dei bombardamenti di precisione effettuati a Gaza durante l’operazione “Cast Lead”. Un modo per dimostrare, con i fatti, che l’aeronautica israeliana non colpisce indiscriminatamente. Seguendo una politica a dir poco ambigua (che permette agli utenti di “segnalare” il contenuto sgradito), YouTube ha in realtà cancellato molti dei video dopo poche ore. Ma si è trattato di un tempo sufficiente per permettere l’inizio di una diffusione “virale” che ha contagiato estese porzioni del cyberspazio. «La blogosfera e i new media rappresentano una vera e propria zona di guerra. Una zona di guerra in cui dobbiamo diventare competitivi», ha dichiarato il maggiore Avital Leibovich, responsabile dell’esercito per i rapporti con la stampa internazionale. «La cosa più importante - ha aggiunto - è riuscire a diffondere la verità». E alcuni alti ufficiali sono già pronti a dare vita a “video-blog” personali - anche in inglese e in arabo - per comunicare direttamente con l’opinione pubblica, scavalcando l’intermediazione dei media tradizionali. E quella su YouTube non è un’iniziativa isolata. Il consolato israeliano di New York ha organizzato una conferenza stampa su Twitter (un servizio di “microblogging” molto diffuso) per rispondere alle domande dei media sulla situazione a Gaza. La scorsa settimana, migliaia di abitanti palestinesi della Striscia hanno ricevuto un messaggio, sui loro telefoni cellulari, con cui l’esercito israeliano li invitava ad allontanarsi in fretta dalla case dove i militanti di Hamas avevano accumulato armi (e che dunque potevano essere obiettivi militari). Il governo e l’esercito hanno messo in piedi una serie di siti Internet - molto curati e aggiornati - in cui chiunque può consultare documenti e statistiche relative al lancio di missili da parte di Hamas sulle città meridionali del Paese. Si tratta solo di un primo passo, naturalmente, perché per recuperare lo svantaggio mediatico accumulato negli ultimi anni ci vorrà più di qualche sito Internet e di una decina di video. Ma si tratta di un passo importante che, almeno dentro i confini israeliani, qualche risultato sembra averlo prodotto: l’81% dei cittadini israeliani appoggia l’intervento militare a Gaza. Adesso è arrivato il momento di convincere anche il resto dell’Occidente.
Secondo l’esercito, «la blogosfera è una zona di guerra nella quale diventare competitivi», per opporsi alla disinformazione filo-palestinese
di fabbricazione iraniana con una portata ancora più ampia. Molti temono che sia solo questione di tempo prima che Dimona arrivi nel raggio di azione dei missili lanciati dalla Striscia. «Il peggior incubo d’Israele - scrive il quotidiano britannico - è che presto tutte le sue città si trovino sotto la minaccia di razzi, sia Katyusha degli Hezbollah libanesi sparati da nord, che missili di Hamas sparati da sud». Un rischio che
sembra invitare i carri dentro la Striscia di Gaza, ma che alla fine riporta l’attenzione della comunità internazionale su uno scontro che sembra non voler alcuna interferenza al suo interno. La minaccia di un disastro nucleare alle porte del Mediterraneo, infatti, terrorizza i governi di metà Unione europea, che domenica farà sentire la sua voce. E forse, questa volta, con la forza che le è mancata fino ad oggi.
economia
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Proposte. L’invito del Presidente a superare la crisi presuppone coraggio: ce l’avrà davvero Tremonti?
Napolitano alla tedesca di Enrico Cisnetto segue dalla prima
Eppure, si tratta di micro-imprese già da anni tecnicamente fuori mercato ma mantenute in vita in questi anni da cure che hanno i contorni dell’accanimento terapeutico: credito facile e a basso costo (checché se ne dica), tolleranza verso un alto livello di evasione fiscale e di ricorso al nero, e da proventi straordinari per operazioni immobiliari e finanziarie.
Se fossimo davvero in grado di cambiare paradigma, potremmo persino coltivare “great expectations” per questo 2009 ancora in culla. Purtroppo, però, i prodromi sono infausti. Se da 15 anni scivoliamo sul piano inclinato del declino, se siamo l’unico paese occidentale a chiudere il 2008 con il segno meno e se la recessione ci porterà nel 2009 un’ulteriore decurtazione del pil ben maggiore di quella che dovranno subire gli altri paesi (pronostico tra -2% e -3%, contro un -1% dell’Eurozona e degli Usa), il quadro è desolante. Eppure basterebbe guardare alle esperienze altrui per capire che davvero la crisi può essere una grande occasione, e le assonanze con il 1929 foriere di una rinascita. Basta guardare alla Germania. Nel 2005, al culmine di un clamoroso processo di turnaround industriale succeduto alla riunificazione e pen-
sato per adeguarsi agli standard imposti dalla globalizzazione, la disoccupazione tedesca toccava la cifra record di 5,2 milioni di unità. «I livelli del 1929», annunciavano allarmati i quotidiani teutonici. «Vedete, i tedeschi stanno peggio di noi», diceva l’allora ministro Tremonti per rassicurare gli italiani. Ma se oggi Berlino registra un boom inverso, con il 2008 che ha visto il livello più alto di occupati mai registrato dalla riunificazione del Paese nel 1990 – che oggi consente alla Germania di sopportare la recessione derivante dalla crisi finanziaria con la consapevolezza che è
zionali”in grado di stare agevolmente sui mercati internazionali. Così, le tre parole d’ordine degli ultimi Governi tedeschi sono state “Reformieren, Investieren, Zukunft gestalten”, ovvero “risanare, riformare e investire”. Per questo non vi è stato alcun timore nel riformare il sistema pensionistico con la soglia innalzata al 67 anno d’età, né si è esitato a procedere ad una radicale ricostruzione dell’apparato industriale negli ex Länder orientali. A tal fine, gran parte dei fondi comunitari sono stati devoluti a progetti di investimento e sviluppo (industriale, informati-
euro) e può permettersi di affrontare la crisi con animo più tranquillo del nostro.
Non serve, dunque, la sfera di cristallo per capire qual è la direzione da seguire. Basterebbe, semplicemente, copiare. Ma anche per questo serve coraggio: il coraggio di lasciar chiudere le imprese che non sono più competitive, di evitare i soliti ammortizzatori sociali “conservativi”, di dimenticare per una volta l’italianissima combinazione della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti (nel caso americano, gli aiuti all’auto di Detroit sono dettati soprattutto dal fatto che nelle casse delle aziende delle quattro ruote sono anche contenute le pensioni di milioni di lavoratori, mentre da noi non è così). Ma anche, di rendersi conto che per affrontare la sfida dimensionale è necessario un processo di consolidamento delle nostre imprese, per sfuggire al nostro nanismo congenito. Se questo coraggio, ancora una volta, mancherà, possiamo seguire la solita via: continuare con l’accanimento terapeutico, con il sostegno ai famigerati distretti già fuori mercato (il tessile, il manifatturiero e il calzaturiero di bassa qualità, l’elettrodomestico bianco). Continuando, nel frattempo, a lamentarci della globalizzazione e dello strapotere dei cinesi. In questo caso, la “grande occasione”di cui ha parlato Napolitano, sarà andata totalmente sprecata. Solo che, questa volta, sarà davvero troppo tardi metterci una pezza. (www.enricocisnetto.it)
L’unica strada è tagliare le imprese e le spese che non funzionano, come fece la Germania dopo l’unificazione. Invece fin qui l’Italia ha sempre privatizzato i profitti e socializzato i costi transitoria e soprattutto che essa sarà la prima ad uscirne (senza le ossa rotte) – ciò si deve proprio alla ristrutturazione messa in atto nel decennio scorso. Da un lato, con la delocalizzazione nell’est europeo di tutte le produzioni manifatturiere ad alta intensità di lavoro e a basso contenuto di know how e innovazione; dall’altro, con una grande opera di selezione darwiniana per cui si sono rafforzati i “campioni na-
co, tecnologico) che prevedono nuove infrastrutture e imprese allocate in particolare nei distretti industriali della Sassonia, Sachsen-Anhalt e Brandeburgo. Infine è stato messo in cantiere un programma di incentivi da 25 miliardi di euro, destinati alle medie imprese, alle infrastrutture viarie, agli investimenti previsti per la ricerca e la tecnologia (a tal fine, fino al 2010 il 3% del pil verrà destinato a ricerca e innovazione). In questo modo, la cifra “monstre” di 5 milioni di disoccupati è stata gradualmente riassorbita e oggi la Germania vanta già un numero di senza lavoro inferiore alla media dell’Eurozona (7,1% contro il 7,7% dell’area
in breve Sono il 30% gli avanzi di capodanno Sulle tavole degli italiani è rimasto quasi un terzo dei prodotti acquistati per festeggiare il Capodanno, costato circa 2,6 miliardi di euro in cibo e bevande consumati in casa o nei locali pubblici. È questa la prima stima della Coldiretti sulla festa di fine anno durante la quale si sono consumati più cotechini e zamponi rispetto a salmone, ostriche e caviale.Tra gli «avanzi» della tavola si segnalano soprattutto i dolci e la frutta ma anche i secondi piatti di carne o pesce, la pasta e gli spumanti immancabili compagni delle feste di fine anno nel corso delle quali, tra case private, ristoranti, piazze e luoghi di intrattenimento, sono stati consumati 60 milioni di bottiglie con una prevalenza schiacciante delle produzioni italiane rispetto allo champagne.
In Brianza ci sono più Mohamed che Brambilla Ci sono Più Mohamed che Brambilla, in Brianza: con 178 attività aperte contro 174, i primi hanno superato i secondi nella classifica dei cognomi più diffusi tra gli imprenditori stilata dalla Camera di commercio di Monza. Anche i Fumagalli, con 134 ditte individuali, devono cedere il passo agli stranieri, un esercito di 3.000 imprenditori tra i quali Mohamed è il cognome più diffuso. Le ditte individuali con titolare straniero rappresentano nella zona di Monza e Brianza il 9,8% del totale, dato inferiore rispetto al 12,2% lombardo.
La Borsa di Milano apre bene il 2009 Primo squillo per la Borsa valori, che chiude la seduta in deciso rialzo iniziando il nuovo anno con una partenza sprint carica di ottimismo. L’indice Mibtel segna un progresso del 2,71%, a 15.505 punti, mentre l’S&P/Mib sale del 2,53% e l’All Stars del 2,35%; ancora bassi gli scambi, poco sopra gli 800 milioni di euro, a causa del periodo festivo. Sul listino in evidenza Fiat e Unicredit, dopo le misure di rafforzamento patrimoniale annunciate.
politica
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è quell’antico adagio (attribuito anche a Carlo Marx) secondo il quale la storia, quando si ripete, «una prima volta è una tragedia, la seconda è una farsa…». Ed è naturale ricordarselo quando si vuole associare la frammentaria e slabbrata “questione morale” di queste settimane con la Tangentopoli degli anni Novanta. D’altronde le incertezze, se non le vere e proprie “marce indietro”, che si manifestano a Potenza e a Pescara trasmettono la sensazione di un lavoro di indagine spesso approssimativo e frettolosamente liquidatorio. Come se la magistratura inquirente si dimostrasse negli atti culturalmente mediocre, a livello almeno pari alla qualità del personale politico e affaristico chiamato pesantemente in causa.
C’
Spiccano nelle cronache confuse e spesso contraddittorie di questi mesi i protagonismi fuori misura da parte togata (fino alla desolante guerricciola tra procure) e insieme lo psicodramma esistenziale che attanaglia il Partito Democratico che ritrova lacero e sporco il mantello virginale di una “purezza” politica su cui ha costruito per almeno due decenni il mito autoreferenziale della propria presunta morale superiorità. La “diversità”, tanto spesso sbandierata, non esiste; oppure, se esiste, esiste nel peggio: ovvero nello squittire sorpresi di fronte alle attività di indagine, nell’immaginare comunque complotti e congiure a proprio danno esclusivo, nella difficoltà di accettare e condividere la condizione umana dove errori e debolezze, traffici e clientele non sono separabili per area di appartenenza ideologica. E il richiamo all’epopea di Mani Pulite suo-
Tangentopoli. Tutte le differenze tra la terribile stagione del 1992 e le inchieste di queste settimane
Dalla tragedia di Milano alla farsa di Napoli di Giuseppe Baiocchi prima dell’intervento dei procuratori. Dopo la caduta del Muro di Berlino, era emersa la stanchezza per un sistema bloccato e le avvisaglie del “nuovo” erano già ben presenti nei comportamenti elettorali (l’unico ambito nel quale si
Stupisce come in queste settimane i «signori in toga» non si siano interrogati sulla loro tragedia: in pochissimi anni hanno dilapidato il patrimonio di autorevolezza, di prestigio e di consenso diffuso na davvero stonato, anche perché non ricorrono (a parte presunti “mariuoli” o “mele marce” o faccendieri senza colore politico) le condizioni particolari e irripetibili che segnarono quella stagione.Toccherà soltanto agli storici futuri delinearne contorni e retroscena: e forse solo loro potranno rispondere al vero interrogativo che in quegli anni esagitati venne sostanzialmente ignorato: che cioè la crisi della politica, di un sistema di potere, insomma della Prima Repubblica, era già in atto e si avviava a un fisiologico ricambio ben
gliato di mutamento, dopo decenni di immobilismo dovuto a sostanziali vincoli internazionali, ci mise il cappello l’apparato mediatico-giudiziario, che riuscì, con indubbia abilità e con il fattivo concorso di “poteri non eletti”, ad arrogarsene iniziativa e merito e a segnare per molti anni la vicenda pubblica del Paese. È l’analisi pacata che viene facendo, anche su queste colonne, la memoria garbata e rispettosa di Arnaldo Forlani, la cui statura politica
svetta di gran frontata con le ipocrisie delle del tritacarne informativo.
lunga se conambiguità e le vittime attuali giudiziario e
Quello che infine colpisce è assistere oggi allo sbriciolamento dei miti su cui da Tangentopoli in poi si è alimentata la lotta politica. E stupisce come i signori in toga non si interroghino sulla loro tragedia: in pochissimi anni hanno dilapidato il patrimonio di autore-
Il presidente: «Più trasparenza»
esercita, in democrazia, il legittimo esercizio della sovranità popolare e l’unico strumento con il quale si manifesta il sacrosanto giudizio e l’eventuale sanzione politica). Allora, su un processo certamente trava-
NAPOLI. «Se non avessi ritenuto possibile la convergenza sulle riforme, non avrei fatto il discorso di fine d’anno. L’ho fatto nella fiducia e nella convinzione che il messaggio potesse essere raccolto. Però non soltanto dalle forze politiche ma da tutte le componenti della società, perché quello di cui c’è bisogno non è soltanto un impegno possibilmente rinnovato e possibilmente convergente delle forze politiche, ma c’è bisogno di una forte mobilitazione collettiva». Lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che, da Napoli, è tornato a parlare con i giornalisti a proposito del messaggio di fine anno e in particolare sul punto delle riforme che tante adesioni (sia pure di facciata) aveva suscitato tra le forze politiche. Invece, a proposito della sua città e dell’inchiesta sugli appalti di Alfredo Romeo, Napolitano ha detto: «A Napoli c’è bisogno di trasparenza e rigore nell’uso del denaro pubblico e c’è necessità di un nuovo costume dei partiti e delle forze politiche che risponda davvero all’interesse pubblico». Poi, il presidente si è concesso un tradizionale caffè (con annesse sfogliate) al Gambrinus, in piazza Plebiscito, insieme moglie Clio.
volezza, di prestigio e di consenso diffuso. Quelli che apparivano gli “angeli vendicatori” del cittadino vessato dalla “casta” sembrano oggi la corporazione meno credibile, più litigiosa, e inutilmente potente e irresponsabile. Dedita non al servizio del cittadino, ma ciarlieri soggetti di frammenti di un potere che a loro non appartiene. Un esempio banale del discredito: essersi turati il naso per quattordici anni per non sentire l’ammorbante e inconfondibile “odore di reato” che saliva dai rifiuti campani…
Ma, comunque andranno le inchieste, i processi e le sentenze, l’altro vero sconfitto è quel ceto tra intellettuale e politico che del giustizialismo ha fatto bandiera prevalente se non esclusiva: non esistono gli “onesti” per nascita o per appartenenza (vale anche per Di Pietro e i suoi “cari”). Quando si lucra sul moralismo in una congerie di normative paralizzanti, si finisce per uccidere l’arte nobile e complessa della politica, che richiede, oltre all’onestà personale, anche lungimiranza, efficacia e confronto sincero con il popolo sovrano. D’altronde, anche questo è già stato detto, il “moralismo” è «l’ultimo rifugio degli incapaci, se non addirittura talvolta dei mascalzoni»...
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società
Polemiche. Un singolare articolo di Luca e Francesco Cavalli Sforza, apparso ieri su “Repubblica”, deforma il senso del testamento biologico
I Cavalli dell’Apocalisse «Un referendum sul diritto al suicidio è semplicemente un’idea folle. E filosoficamente infondato» colloquio con Francesco D’Agostino di Gabriella Mecucci segue dalla prima E aggiunge: «È l’ennesimo caso in cui uno scienziato forte della sua fama per i meriti grandi o piccoli che gli vengono riconosciuti nella sua discliplina (il discorso vale per Luca, quanto al figlio si fa forte del nome del padre), ne approfitta per fare ragionamenti filosofici, giuridici, bioetici per i quali non ha nessuna competenza». Ne viene fuori una confusione che «non meriterebbe di essere nemmeno presa in considerazione se non perché partecipa di un gioco mediatico perverso; argomentazioni tanto banali e inaccettabili che se le sostenesse uno studente nella sua tesi di laurea lo bocceremmo». Quali sono, professor D’Agostino, queste tesi tanto banali e inaccettabili? I Cavalli Sforza riprendono un tema anche nobile del dibattito filosofico: e cioè la legittimità del suicidio. Allora, cominciamo col dire che dal punto di vista filosofico l’opinione di gran lunga prevalente (da Aristotele a Plotino, da Kant a Hegel sino a Schopenauer) è contro il suicidio. A favore abbiamo solo gli stoici a proposito dei quali i Cavalli Sforza citano la decisione di Seneca di togliersi la vita in modo del tutto improprio. Occorre infatti ricordare che gli stoici non ritenevano legittimo il suicidio – come pensano i nostri due genetisti – perché l’uomo poteva liberamente disporre della propria vita, ma perché coglieva da alcuni segni una volontà del fato, del dio inteso alla maniera panteistica che li esortava a togliersi la vita. Cioè la motivazione era religiosa e non individualistica. Quanto a David Hume a cui pure fa riferimento l’articolo, egli poneva la questione suicidio come estrema conseguenza di un ateismo radicale. Dio non c’è e quindi l’uomo è l’unico signore della propria vita, quindi anche della sua fine. L’argomento di Hume è un argomento raffinatamente teoretico, non da proporre alle masse. Come del resto era elitario, allo stesso modo, l’ateismo degli illuministi. Mi scusi, professore, ma
Togliersi la vita può essere l’affermazione della libertà interiore?
Le tesi dei due genetisti ROMA. «Se la Chiesa davvero crede nella libertà dell’uomo, perché non lascia le persone libere di morire? Nessuno ha chiesto la nostra opinione, prima di metterci al mondo: perché non dovremmo essere liberi di andarcene?». È questo il passaggio cruciale di un lungo articolo di due genetisti Luca, il padre, e Francesco, il figlio, Cavalli Sforza, apparso ieri su la Repubblica. In verità, il saggio prende le mosse dal tema del testamento biologico e, nel tentativo di proporne la necessità e legittimità, si arriva a ribadire il diritto a morire e a suicidarsi: un tema sul quale i due studiosi propongono un referendum. Ma vediamo i punti più significati dell’argomentare. «In passato – si legge – ci si è suicidati anche solo per onore. I suicidi, imposti da tiranni, come quello di Seneca, non sono visti come sconfitte, ma come affermazione di libertà interiore anche davanti alla morte».
«Negare la libertà di morire – spiegano i due genetisti – è ridicolo per due ragioni: intanto perchè chi vuole suicidarsi prima o poi ci riuscirà, se non è stretto in una camicia di forza o reso incosciente dai farmaci (e beninteso ci sono situazioni che lo esigono). Ma nessuno in definitiva può impedirgli di uccidersi una volta tornato a casa. Seconda ragione: la nostra morte è certa, già che siamo vivi, anzi è forse l’unica certezza universalmente riconosciuta. Perché mai una per-
sona nel pieno delle proprie facoltà mentali non dovrebbe essere libera di decidere il tempo e il modo della propria morte, anziché affidarli alla natura e al caso?». Dunque – incalzano i Cavalli Sforza – «una società che voglia dirsi civile non può negare ai suoi membri il diritto di decidere della propria morte. Il testamento biologico, riforma elementare rispetto alla libera volontà dell’individuo, è un tabù da noi in sede legislativa. I tentativi di riportarlo all’attenzione sono ricacciati come polvere sotto il tappeto. L’idea che una persona possa possa disporre le condizioni della propria morte, in determinate circostanze.. è così controversa da terrorizzare i politici. Eppure, né i politici, né i medici, nè gli ecclesiastici, nè nessuno probabilmente, sa che cosa accade o non ccade in quello spazio intermedio fra la vita e la morte che è il coma. Nessuno sa se rimanga qualcosa del nostro io o di ciò che chiamiamo “coscienza”. Già che nessuno lo sa, perché la scelta non dovrebbe spettare al diretto interessato?» E infine: «Non si può pretendere che i cittadini si esprimano per referendum su temi che richiedono competenze speciali, come l’ingegneria genetica o le stratergie energetiche, ma a chi spetta, se non a loro, decidere se chi è nato è libero di scegliere la propria morte? È sperabile che vincerebbe il parere: “Io sono padrone della mia vita”».
dall’argomentare dei Cavalli Sforza sembra che il suicidio oggi sia un reato... Questo è destituito di ogni fondamento: il suicidio non è più un reato da due secoli e mezzo. Quindi non c’è nessuna criminalizzazione in chiave giuridica. Il suicidio è semplicemente un atto extragiuridico perché non può esistere una sanzione adeguata nei confronti di chi lo pratica. Chi si suicida, infatti, muore. La sanzione esisteva un tempo solo in chiave canonica e riguardava il divieto della sepoltura religiosa. Cavalli Sforza vuol portare con questo articolo un contributo al dibattito sul testamento biologico. Lei è contrario a questa discussione? No. Penso però che il dibattito debba essere impostato in mo-
“
Occorre ragionare tutti insieme per arrivare a una buona legge sulla fine della vita umana. Se si chiama in causa la facoltà di morire, facciamo a pezzi la deontologia medica
”
do totalmente diverso. Ciò che giustifica la discussione sul testamento biologico non è la legittimità del suicidio, ma il diritto di un paziente competente e in formato a scegliere o a rifiutare una terapia. La possibilità insomma di dire no a una cura salvavita. Le cose sono profondamente diverse. Rifiutare le terapie significa prendere atto della complessità della medicina contemporanea e dei tanti problemi che può far sorgere l’accanimento terapeutico. In questo senso è giusto ragionare tutti insieme per arrivare a una buona legge sulla fine della vita umana. Se noi chiamiamo in causa il diritto al suicidio facciamo a pezzi la deontologia medica. Perché? Così facendo, i medici diventerebbero tecnici della vita e della morte indipendentemente dalla
società
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Tutti i limiti di un dibattito senza regole
Il dovere di vivere e il diritto di morire di Laura Palazzani a vita e la morte sono fatti: siamo coscienti di essere vivi e altrettanto consapevoli che siamo destinati a morire. Eppure questa considerazione, apparentemente banale, fa emergere inevitabilmente domande di natura filosofica e morale: la vita umana ha un valore? E, se ha un valore, quale?
L
Esistono due risposte filosofiche contrapposte. Da un lato la tesi di chi riconosce alla vita un valore in sé e per sé, oggettivo e assoluto: da tale assunto discende il «dovere di vivere», quale responsabilità verso se stessi e verso la società e il ‘diritto di vivere’, quale garanzia delle condizioni di possibilità per esistere. Dall’altro lato la tesi di chi ritiene che il valore della vita sia relativo alla decisione individuale (è il soggetto che decide se sia preferibile vivere o morire): da ciò discende l’affermazione del ‘diritto di morire’, quale scelta di libertà ed autodeterminazione. Queste le posizioni sul piano teorico che delineano la nota contrapposizione tra teorie della «indisponibilità» e della «disponibilità» della vita umana. Ma bisogna fare alcune precisazioni. Chi afferma che esiste un «dovere di vivere» non ritiene che bisogna vivere «ad ogni costo», tentando in ogni modo di prolungare la vita e posticipare la morte, anche quando il medico si trova di fronte ad un malato per il quale non c’è più nulla da fare e quando le terapie sono futili, sproporzionate e onerose per il paziente inguaribile, ormai destinato ad una morte inevitabile (il cosiddetto accanimento terapeutico). Chi afferma il «diritto di morire» non può ritenere equivalente la scelta di un malato terminale che chiede insistentemente l’eutanasia a causa di sofferenze che ritiene soggettivamente inaccettabili e la scelta suicida di un giovane fisicamente sano. La complessità della realtà esige riflessioni attente alle sfumature che vanno oltre gli schematismi concettuali. In particolare, nell’ambito bioetico e biogiuridico, di fronte alle nuove possibilità di intervento tecnologico e scientifico alla fine della vita umana, emergono situazioni emblematiche che costrin-gono a ripensare ai confini del valore della vita umana. Ne è esempio la questione del rifiuto delle terapie, recentemente affrontata, nell’ottobre dello scorso anno, dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel parere «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico».
Riconoscere la possibilità di rifiutare delle terapie significa solo riconoscere l’esistenza di situazioni di particolare drammaticità
Eluana Englaro. Nella pagina a fianco, il genetista Francesco Cavalli Sforza
situazione patologica in cui il paziente si viene a trovare. Se viene riconosciuto il diritto a morire, al medico non resta – se richiesto – che dare la morte indipendentemente dal contesto, dalla malattia, dalle condizioni di chi lo chiede. Se io ho, facciamo un esempio, il diritto di sposarmi, non è che devo spiegare perché sposo quella donna piuttosto che un’altra. Questa banalizzazione delle tematiche del testamento biologico dei Cavalli Sforza fa cadere le braccia. Uno dei problemi più seri della medicina di oggi è quello dell’abbandono terapeutico. Sa-
rebbe veramente sconfortante risolverlo dicendo: è il paziente che lo vuole. Cavalli Sforza dice però che se io voglio suicidarmi, nessuno me lo può impedire... Questo è evidente. E addirittura Cavalli Sforza coglie tutta la drammaticità dell’atto del suicidarsi. Ritiene crudele abbandonare le persone a un suicidio autogestito. Ma se il suicidio è un diritto umano fondamentale, allora deve essere garantito e assistito. Ma questa è eutanasia volontaria bella e buona. La dinamica suicidaria è
qualcosa di tremendamente drammatico e complesso, non è certo semplificabile. Dietro ogni suicidio ci sono vicende terribili di abbandono, di nevrosi, di patologie psichiatriche, altro che scelta di un uomo libero e completamente presente a se stesso. Nella stragrande maggioranza dei casi le cose non stanno affatto così. Le ragioni di un suicidio sono un mistero antropologico profondo, non possono essere lette con le lenti semplificate proposte da Luca e Francesco Cavalli Sforza. Pensi che nemmeno il buddismo, che pure è la religione che meno dà valore alla vita individuale, considerata come inserita nel tutto, è contraria al suicidio.Vede in questa questa scelta un atto di volontà individuale che contraddice l’abbandono ai destini cosmici. E comunque l’idea di proporre un referendum sul diritto di morire fa cadere le braccia. Il diritto che viene affrontato col testamento biologico infatti è quello di rifiutare certe cure giudicate troppo dolorose o comunque un inutile accanimento terapeutico.
Un paziente che vive una condizione di malattia che ritiene soggettivamente insostenibile (si pensi al diabetico che rifiuta l’amputazione di un arto anche se sa che tale scelta anticiperà la sua morte) non ha il dovere di continuare ad esistere: accettare il rifiuto delle terapie (anche salva-vita) non significa legittimare il diritto di morire e l’eutanasia. Il rifiuto consapevole delle terapie si situa dunque in una sorta di «posizione intermedia» tra gli estremi, dovere di vivere e diritto di morire. Indubbiamente, il medico ha una responsabilità morale e deontologica nei confronti del paziente: è chiamato ad accertare che la sua scelta sia davvero consapevole (ossia sappia quali sono le conseguenze della sua decisione), a persuaderlo ad accettare le cure ed evitare la morte, ad assisterlo in modo adeguato. Ma il medico deve accettare, sul piano giuridico, la volontà del soggetto autonomo che rifiuta consapevolmente le cure, avendo il dovere di non imporre con la forza un trattamento sanitario (in altre parole, non può legarlo e portarlo in sala operatoria). Riconoscere il «diritto al rifiuto delle terapie» (in condizione di lucidità, attualità e autonomia) non significa affermare il «diritto di morire». Semmai significa riconoscere l’esistenza di situazioni, di particolare drammaticità, in cui il soggetto possa legittimamente richiedere il non inizio o la sospensione di terapie che ritiene soggettivamente troppo gravose: il medico ha il dovere, nell’ambito della relazione con il paziente, comunque di non abbandonarlo, accompagnandolo con opportune cure palliative che, anche se non curano, almeno possano alleviare il dolore e accompagnarlo «nel» morire.
panorama
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Mugugni. Il Nord protesta per il ridimensionamento di Malpensa. Il Sud contesta la sorte di Bari e Brindisi
Decolla l’Alitalia degli scontenti di Alessandro D’Amato
ROMA. Fatta l’Alitalia, bisognerà evitare di disfarci intorno l’Italia. E il compito a una prima occhiata sembra tutt’altro che facile, visto che dal Nord al Sud dello Stivale, soprattutto dopo la “quasi-ufficialità” dell’accordo con Air France, sono cominciate a piovere critiche feroci al piano industriale messo a punto dalla Cai di Rocco Sabelli e Roberto Colaninno. I mal di pancia settentrionali sono estrinsecati benissimo dalla Pad a ni a, dal l e cui colonne si esecra la scelta di abbandonare Malpensa (66 destinazioni su Fiumicino e solo 35 sull’asse Malpensa-Linate,
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
con i voli intercontinentali ridotti a 3 nell’aeroporto varesino), ma anche la decisione di azzerare i voli cargo per il trasporto merci, che avrà ricadute occupazionali piuttosto pesanti. Toni non morbidi, ma di tutt’altro tenore rispetto a febbraio 2008, quando sul forum dei Giovani Padani si leggevano messaggi di
gnie; iniziativa condivisibile, ma visto che la questione degli slot era stata già sollevata prima dell’approvazione del decreto Alitalia sia alla Camera che al Senato (dove la Lega ha votato sì), non si capisce in che modo la questione si possa riaprire. Insomma, sia nei toni che negli argomenti sono finiti i
La Lega è pronta a scaricare «Cai-Air France» e sul quotidiano verde fioccano le urla: «E adesso Milano diventerà come Bratislava!» questo tenore: «Ora aspettiamo il segnale da Bossi per scatenare l’inferno nelle strade!!!», oppure «Cedere ad Air France che è concorrente attuale di Malpensa vuol dire diventare come l’aeroporto di Bratislava».
Sempre sul quotidiano verde, il presidente dei deputati leghisti alla Camera Roberto Cota dichiara che la Cai, con le scelte anti-Nord, non sarà mai una grande compagnia, e dice si batterà perché vengano liberati i diritti di atterraggio che Cai vuole tenere occupati per non favorire le altre compa-
tempi in cui la Lega saliva sulle barricate per lo scalo varesino, gridando ai quattro venti che ogni ipotesi di ridimensionamento doveva essere cancellata e Malpensa doveva restare un hub. Anche se «il Carroccio è più agguerrito che mai», fanno sapere dalle parti del quotidiano. Mentre l’assessore ai trasporti della Regione Lombardia, Raffaele Cattaneo si dice «pronto a scaricare questa CaiFrance».
E se il Nord piange, il meridione non ha niente da ridere. Capofila delle lamentele è la
Puglia: il piano dei voli previsto dalla Cai penalizza fortemente gli scali di Bari e Brindisi, con sette rotte al giorno soppresse. Una diminuzione di capacità (cioè di posti disponibili) pari a circa un quinto del totale, con oltre 200 posti/giorno in meno tra Bari e Roma. E anche i prezzi ne risentono: per un BariFiumicino si spendono 237 euro; a settembre, il costo del biglietto per la stessa prenotazione era inferiore ai 200 euro. In un’intervista rilasciata alla Gazzetta del Mezzogiorno, il direttore di Aeroporti di Puglia, Marco Franchini, chiede anche lui la liberalizzazione degli slot e ricorda che la vecchia Alitalia ha ancora un debito di 5 milioni di euro con l’azienda pubblica: «Gli annunci e i programmi definiti da Cai ci inducono a pensare che le regioni del Sud e la Puglia, almeno in questo momento non interessano più di tanto la nuova compagnia. – dichiara Franchini - L’attivazione di nuovi collegamenti sia da Bari che da Brindisi con altri vettori in alternativa a Cai è la nostra risposta. Chi deve intendere intenda».
Sempre di più gli internauti che cliccano in rete i siti dedicati agli oroscopi
L’Italia e la sindrome del “Saturno contro” l futuro è aperto» diceva quel gran pezzo di filosofo di sir Karl, ma quando arriva la fine dell’anno e si intravede l’anno che verrà un po’ tutti vogliono sapere qualcosa del loro futuro (quando forse sarebbe più utile sapere qualcosa del proprio passato). Magari per gioco, solo per curiosità, per avere un po’ di fortuna o per scacciare la sfiga, ma un po’ tutti s’informano sul proprio oroscopo. Un po’ tutti? A dare ascolto ai numeri pare che siano ben sei milioni e mezzo i risultati che dà il mondo di Internet se si batte la parolina magica “oroscopo”. Sei milioni e mezzo: una nazione, un piccolo Stato stellare.
«I
Sapere qualcosa della propria vita futura - non il futuro remoto, ma quello prossimo, quello a portata di mano, quello che avverrà tra qualche mese - è insensato, ma anche umano, troppo umano, umanissimo, perché non c’è nulla di più umano dell’insensato. Si può comprendere chi legge gli oroscopi sui giornali, chi ascolta l’oroscopo alla radio, chi si rivolge all’amico o all’amica che è sempre ben informata. Tuttavia, anche se il desiderio di sapere se si sarà fortunati o se bisognerà toccare ferro è umanissimo, il profluvio di previsioni astrologiche della televisione italiana è veramente una stupidaggine. Di più:
cattivo gusto. L’ansia della previsione dal tempo della vita al tempo della natura - sembra essere diventata la malattia delle trasmissioni televisive.
Vabbè, direte, non esageriamo, in fondo vale con gli oroscopi e con gli astrologi quanto si dice per la classica superstizione: non è vero ma ci credo. Eppure, c’è gente che non esce di casa se sa di avere Saturno contro e c’è altra gente che controlla le previsioni meteo ogni tre-quattro ore. La parolina “meteo” ha superato nel mondo del web la parolina più cliccata di sempre: “sesso”. Se non sappiamo in anticipo non siamo più in grado di vivere. Dobbiamo sapere se pioverà o non pioverà, se Giove è con noi o contro di noi, se la Borsa scende o sale, se avremo o non avremo l’influenza. L’illusione di avere nelle nostre mani il nostro destino o, meglio, l’illusione di sapere che c’è un destino è diventata
qualcosa di più di un’illusione: un’abitudine. Viviamo nel migliore dei mondi possibili della scienza ma la superstizione non è mai stata così diffusa. Credere di poter sapere tutto di tutto è una prassi che sconfina nella certezza religiosa. Sapere cosa “dicono le stelle” dovrebbe significare abbandonarsi al mistero o a un insondabile destino, ma nel nostro tempo tecnico e scientifico l’influsso astrale è diventato una sottomarca della scienza e della tecnologia. Si crede per davvero che l’astrologia sia il metodo scientifico applicato alle stelle. La superstizione contemporanea appare diversa da quella del passato: un tempo la superstizione nasceva dalla troppa ignoranza, oggi nasce dalla troppa conoscenza. Quasi a conferma del fatto che l’uomo è quell’animale che non sopporta né troppo buio né troppa luce. Sta nel mezzo, a metà strada tra cielo e terra, è un impasto di certezze e incer-
tezze, ignoranza e conoscenza, luce e ombra. Dove il paradosso è proprio questo: quando si vuole vedere più del dovuto, quando si vuol sapere più di quanto sia dato sapere, quando si vuole conoscere non solo il passato ma anche il futuro si cade nel buio più pesto perché gli dèi si vendicano e ci ricordano che gli dèi sono loro e noi siamo solo uomini. Persino la figura dell’astrologo è cambiata. Un tempo l’astrologo mischiava stelle, ironia e cuore: ci metteva un po’ di mestiere, perché pur si deve campare, ma pur guardando “il cielo stellato sopra di me” non dimenticava “la legge morale dentro di me” e restava con i piedi per terra facendo sano uso dell’ironia e della conoscenza del cuore umano che è così debole e così appassionato.
L’astrologo oggi è invece un professionista, e la professione che esercita la lettura delle stelle - non è più un’arte, ma una scienza, con tanto di corso di aggiornamento e perfezionamento. Il suo linguaggio è diventato gergale, pieno zeppo di tecnicismi e così, allontanandosi dal cuore degli uomini, si è impoverito. Il vero guaio degli oroscopi, infatti, non è la cialtroneria, ma la noia. Non hanno nulla da dire e, purtroppo, non lo sanno neanche dire. La superstizione come professione è impoetica.
panorama
3 gennaio 2009 • pagina 11
Allarme nelle tesorerie. I questori delle Camere già sul piede di guerra aspettando un faccia a faccia col superministro
Tremonti taglia i rimborsi ai partiti di Francesco Capozza
ROMA. Tremonti, si sa, non è un personaggio che rimane impresso per la sua simpatia. Quando c’è da tagliare o da mettere in riga, non guarda in faccia a nessuno. Nemmeno quando si tratta di far stringere la cinta a casa propria. Il 2009, poi, non sembra di certo iniziare con un’inversione di tendenza in tal senso. Anzi. Tesorieri di partito e questori di Camera e Senato sono già sul piede di guerra aspettando un faccia a faccia col superministro per capire se i conti fatti dal Tesoro sui rimborsi elettorali ai partiti sono esatti, oppure si è trattato solo di un refuso nella documentazione approdata sulle scrivanie dei deputati questori Colucci, Mazzocchi (Pdl) e Albonetti (Pd). L’allarme, infatti, sarebbe già stato messo nero su bianco e riposto in un allegato al bilancio preventivo della Camera. All’appello, stando alle indiscrezioni, mancherebbero la bellezza di 100 milioni di euro. Più precisamente, a fronte di una tranche da 260 milioni spettanti ai partiti che hanno
Togliere fondi ai politici, visti come ”la Casta”, potrebbe essere la tattica più convincente per autocandidarsi alla successione di Berlusconi partecipato alle elezioni del 2008, il ministero diretto da Tremonti avrebbe messo in conto per quest’anno di stanziarne solo 161. Al documento i tre tesorieri parlamentari hanno allegato una dura nota di commento in cui definiscono «in-
sufficiente» lo stanziamento previsto nel «capitolo 1638 del preventivo per il bilancio dello Stato per l’anno 2009, in merito all’erogazione dei rimborsi elettorali». Il terrore che si respira nelle tesorerie dei partiti (indistintamente di destra, cen-
tro e sinistra) è che il ministro dell’Economia voglia cavalcare l’onda della crisi economica per tagliare i rimborsi elettorali piuttosto che metter mano ad altre voci messe in bilancio dal governo Berlusconi. Il mal di pancia, però, è diffuso e ha colpito proprio nel bel mezzo delle ferie natalizie anche Rocco Crimi, tesoriere di Forza Italia, partito in cui milita anche Tremonti. Crimi avrebbe fatto sapere che la misura, se fosse confermata, risulterebbe un ennesimo duro colpo alle finanze dei partiti, ricordando che già nel 2008 i rimborsi erano stati ridotti e, per di più, erogati con un forte ritardo. Secondo la prassi consolidata negli ultimi tre anni, i partiti che hanno diritto al rimborso elettorale (tutti quelli che hanno superato l’1%) si vedono liquidare 3/4 del rimborso che gli spetta, poi, ad ottobre, dovrebbe arrivare il saldo.
Dovrebbe, appunto, perché, come ricordato, già nel 2008 rischiava di saltare per la solita presunta mancanza di fondi. C’erano voluti i richiami dei
presidenti delle Camere Gianfranco Fini e Renato Schifani perché Tremonti si muovesse a caritatevole pietà e trovasse i rimanenti soldi da sborsare ai partiti. Viene da chiedersi se i fondi non ci siano davvero, e allora ci sarebbe da preoccuparsi, oppure se la strategia del ministro dell’Economia sia piuttosto quella di accreditarsi alla pubblica opinione come difensore della moralità economica in tempi di ristrettezze per tutti. E magari tornare in vetta alla classifica di gradimento tra i politici agli occhi degli italiani. Tagliare ai partiti, che nell’immaginario collettivo sono visti come ”la Casta” che ruba soldi al cittadino, potrebbe essere la tattica più convincente per autocandidarsi alla successione di Silvio Berlusconi. E a questo obiettivo Tremonti sta lavorando da tempo. Logico allora che i partiti si tengano stretto il borsello e guardino alle mosse dell’inquilino di via XX settembre con particolare apprensione. Gli ultimi blitz del ministro sono falliti miseramente, stavolta ce la farà a far passare la sua linea?
Cortigiani. Dopo i quadri politici, ormai anche gli intellettuali napoletani hanno abbandonato il governatore
Povero Bassolino, dittatore solitario di Antonio Funiciello
NAPOLI. Antonio Bassolino è un uomo solo. Lui fa finta di niente, ma ormai non se ne trova uno nel Pd disposto a difenderlo. Di più: non se ne trova uno che non ti dica che l’unica soluzione al disastro napoletano muove dalle sue dimissioni. Naturalmente c’è da obiettare al Pd di non aver voluto considerare, se non in linea vagamente teorica, la possibilità di sfiduciarlo, ritirando l’appoggio in seno al consiglio regionale campano e provocando così l’immediata destituzione dell’ultimo re di Napoli. Rimasta questa soltanto un’ipotesi di scuola, su Bassolino si è caricato così un cumulo di responsabilità più morali che politiche.
Nessuno prova a stare dalla sua parte. Il più recente dei suoi finti sostenitori, il presidente del Consiglio Berlusconi, ha simulato nei mesi scorsi un lavoro di squadra con Bassolino al solo scopo di poterlo ancora additare - oggi e domani che l’emergenza rifiuti tornerà a farsi sentire - come il principale se non l’unico colpevole delle periodiche tracimazioni del fiume carsico dell’immondizia campana. Intanto l’intellighenzia partenopea che lo aveva eletto nuovo mecenate del rinascimento napoletano, non gli risparmia accuse pesantissime, da
Roberto Saviano a Domenico Starnone che non esita a definire Napoli «la tomba del centrosinistra». Su Bassolino piovono attacchi anche dai vecchi amici come Isaia Sales, segretario regionale del Pci e più volte deputato. A lui il presidente della Campania aveva assegnato la delega per la gestione dei fondi co-
con la nomina a commissario della Federazione provinciale del Pci, che era stata travolta, insieme alla giunta comunale del sindaco socialista Nello Polese, dallo scoppio di Tangentopoli. Occhetto e D’Alema inviarono a Napoli il dirigente ormai romano
In città tutti lo schivano, Saviano e Starnone lo accusano di tutti i mali. Ormai solo Velardi gli è rimasto vicino, ma è una solidarietà ambigua munitari; considerata la gestione poco brillante degli stessi, dovrebbe essere l’ultimo a intervenire. E invece giù nuove accuse contro la «Napoli bancomat» presso cui tutti passano a prelevare. A Bassolino non è rimasto che Velardi, giunto in suo soccorso da Roma via D’Alema e approdato al ghiotto assessorato al turismo, da cui però dopo aver difeso a spada tratta l’imprenditore Romeo, è lecito, non fosse che per scaramanzia, disattendersi imbarazzanti difese d’ufficio.
E pensare che la carriera politica napoletana di Bassolino - pochi lo ricordano - cominciò nei primi anni Novanta
d’adozione, imponendolo poi nel ’93 come candidato sindaco ad una città che si era stretta intorno all’amato filosofo Aldo Masullo, allora capogruppo pidiessino al Comune, invocando-
lo nuovo sindaco di Napoli. Dopo la caduta di Polese, Masullo che era stato anche capolista del partito alle amministrative, tentò invano di formare una «giunta del sindaco» di alto profilo che conducesse a nuove elezioni. Napoli lo seguiva, ma Roma decise diversamente. Difficile immaginare quanto molti degli attuali dirigenti del Pd rimpiangano quella prova di forza all’insegna di un logoro centralismo democratico. Una scelta che, alla prova dei fatti, si è dimostrata assai infelice.
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LE MEMORIE DI FORLANI Anticipiamo un altro capitolo dal libro-intervista di Sandro Fontana e Nicola Guiso all’ex segretario Dc. La storia degli ultimi mesi del partito e l’egemonia che, comunque, la “diaspora“ democristiana esercita in tutti gli attuali schieramenti
La Dc nella Second
«Berlusconi ha vinto perché si è richiamato a noi: ma il suo non c’è anche Casini. A sinistra i cattolici devono stare attenti a non Nell’ottobre ’87 hai favorito la creazione del “grande centro”con i dorotei di Piccoli e gran parte dei fanfaniani. Con quale obiettivo? L’equilibrio interno e il rilancio convinto del pentapartito. Sulla formula di governo ci venivano attribuite tendenze contrastanti e anche negli alleati crescevano i malumori. Compattando il nostro centro davamo più sicurezza alla linea decisa dai congressi. Nel marzo 1988 Goria si dimise e dopo lunghe trattative De Mita formò finalmente il governo pentapartito. Perché volle mantenere la segreteria della Dc, una scelta che aveva il precedente negativo di Fanfani? Non si trattava tanto di una scelta, quanto del ratto che era ormai vicina la scadenza congressuale. Era una questione pratica. Da presidente del consiglio nazionale Dc quali erano i tuoi rapporti con il segretario alla guida del governo? Assolutamente cordiali e costruttivi. Pensavamo entrambi che la collaborazione con i socialisti fosse necessaria non solo alla governabilità ma anche per un efficace confronto a sinistra sui temi istituzionali, questione che a lui stava particolarmente a cuore. Anche gli altri alleati di governo condividevano questa linea. Nell’aprile ’88 Segni fondò il movimento contro la proporzionale per il maggioritario, che cosa ne pensavi? Assecondava un’onda antipartito, danneggiava la centralità e il ruolo della Dc.
Questo giudizio era condiviso nel partito? Non del tutto. Si era fatta molta retorica su riforme e cambiamenti confondendo e mettendo insieme questioni diverse. Chi ricordava il valore della proporzionale nella lotta al trasformismo e per il radicamento popolare dei partiti era considerato un po’ fuori corso. Parte della nostra direzione non riteneva di assumere una posizione netta e temeva l’isolamento su linee giudicate conservative. Era condizionata dagli at-
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avversione crescenti per il sistema politico? Se ne parla sempre, nelle democrazie. Si è pure scritto che la campagna per il cambiamento è stata particolarmente assecondata dal mondo economico e finanziario per controllare meglio la politica, ma non penso che si possano semplificare così, o solo così, certi fenomeni. Di sicuro la critica antipartito si accentuò fino ad assumere aspetti molto coinvolgenti. Crisi e transizioni sono sempre determinate da un con-
Il tentativo dell’88 di Mario Segni di abolire il proporzionale e introdurre il maggioritario voleva danneggiare la centralità e il ruolo della Dc teggiamenti generalizzati della stampa e dai sondaggi d’opinione. C’era, e d’altronde c’è ancora, la convinzione diffusa, semplicistica, che solo uno schema rigidamente maggioritario risolva i problemi della governabilità e della funzionalità istituzionale. Un mese dopo nelle elezioni del maggio ’88 per il rinnovo di 1200 amministrazioni comunali e di tre province, democristiani e socialisti guadagnarono in voti e percentuali, mentre il Pci perse un altro 4% di consensi. La Lega ottenne nuovi successi ma nel complesso i risultati, poi confermati nelle elezioni regionali e amministrative del 1990, evidenziavano la buona tenuta dei partiti di governo. Perché allora si parlava tanto di disamore e
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corso vario di fattori, non tutti coerenti e necessariamente razionali. È un fatto che la partecipazione elettorale e l’orientamento del voto stavano però a indicare che alla base della società non c’era il distacco di cui si diceva. Il fatto che in Italia il consenso di un vasto elettorato sia andato nell’ultimo decennio a un movimento come Forza Italia, diverso dai partiti tradizionali e guidato da un imprenditore, non indica una direttrice di marcia più liberista, meno vincolata a regole solidariste? Le più svariate prediche sul rinnovamento possono aver dato un vantaggio a chi in effetti appariva come la maggiore novità, ma c’è un’altra faccia della medaglia che viene sottovalutata e che, secondo me, è stata importante. Berlu-
sconi ha lasciato comprendere meglio di altri, specie nella prima fase, che non voltava le spalle alla Dc e ai suoi alleati. Questo collegamento “solidaristico”che dalla scesa in campo fino all’approdo nel Ppe ha avuto una sua coerenza è stato ragione non secondaria del successo. A proposito di elezioni, perché avevi considerati buoni i risultati delle regionali e delle amministrative del ’90 e, in particolare, anche quelli delle politiche del ’92? Perché era giusto ritenerli buoni. Erano stati ottenuti in una fase ormai diversa e non bisognava interpretarli come una sconfitta. Le cose nuove anche nella prospettiva di un bipolarismo postideologico andavano innestate nel tessuto, nella intelaiatura consistente che c’era. Come poi hanno fatto i comunisti, che pure il confronto elettorale con noi lo avevano perso davvero. Non avevamo tenuto bene nelle amministrative e nelle regionali; il Psi era in progresso e il Pci perdeva. Un dato sfavorevole era quello della “lega lombarda”, con il 15% dei voti a Milano, sottratti al centro, ma il risultato generale ci assegnava la grande maggioranza dei consiglieri comunali, dei sindaci, e dei presidenti provinciali e regionali. Due anni dopo nelle elezioni politiche, pur registrando una flessione, assai minore però di quella comunista, portavamo alle Camere, con il 30% dei voti, 316 parlamentari. Il nostro partito usciva dalla prova di gran lunga come il più forte e rappresentativo. Sono fatti che avrebbe-
ro dovuto far riflettere gli amici preoccupati di non apparire abbastanza nuovi. Anche dopo, a divisioni ormai intervenute, ho continuato a pensare che al di là di qualche sussulto di fierezza, la tendenza prevalente a liquidare sommariamente il passato sia stata un errore dei nostri amici in entrambi i campi. Come potevano però raccogliere in modo credibile i voti della Dc essendo in fronti contrapposti? Dico solo che i risultati potevano essere diversi da quelli avuti da ciascun gruppo, più favorevoli; non penso a tutti i voti che aveva la Dc. Mi spiego: io non considero assurdo che nei due poli contrapposti ci siano tendenze democristiane. Sono le stesse che c’erano già all’interno e nell’elettorato del grande partito unitario. Allora prevalevano le ragioni dell’unità, legate alla “scelta di civiltà”. Sugli orientamenti particolari di programma economicosociale e di formule di governo prevaleva la responsabilità comune per la scelta occidentale e la difesa della libertà. Era un impegno favorito dall’incoraggiamento della Chiesa, da noi interpretato sempre in modo franco e autonomo. Quelle tendenze diverse c’erano, e un vasto elettorato le riconosceva e dialetticamente le avallava. Non è detto che analoghe corrispondenze non possano manifestarsi in un quadro diverso e bipolare, facendo ritrovare sostegni elettorali più consistenti. Dipende molto dalla franchezza con cui i nuovi partiti sapranno definire una
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In senso orario: Arnaldo Forlani, Pier Ferdinando Casini, Mario Segni, Mino Martinazzoli e Silvio Berlusconi. Secondo Forlani gli “eredi della Dc“ dovrebbero richiamarsi in modo più efficace e meno astratto alla grande esperienza storica del partito di De Gasperi
da Repubblica
n è un movimento “democratico” e nel Ppe sacrificare i propri valori in nome dell’unità» identità riconoscibile e naturalmente dalla capacita di organizzazione, di presenza e di dialogo. È vero che De Gasperi fin dalla Liberazione a chi avanzava l’ipotesi dei due partiti di ispirazione cristiana esprimeva una decisa contrarietà, pensando che si sarebbero scontrati portando elementi impropri e artificiosi di divisione fra i cattolici e indebolendo il fronte della democrazia. Aveva certamente ragione nella drammatica situazione di allora con riferimento al quadro ideologico e storico del confronto con fascismo e comunismo, ma in una prospettiva democratica ormai cambiata e più “normale”, tramontate le vecchie ideologie totalitarie, le cose potrebbero presentarsi in un altro modo. Dico potrebbero, perchè la mia è una riflessione che non esclude
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dovuto richiamarsi in modo generico alla loro matrice ideale, ma alla concreta esperienza che c’è stata e ha accompagnato l’Italia per mezzo secolo. Per essere capiti dagli elettori bisognava riproporsi in modo franco, senza voler apparire diversi rispetto alla propria storia. Forza Italia non potrebbe essere catalogata come una riedizione della Dc? Più che pensare a riedizioni, bisogna guardare alla capacità o meno di interpretare in modo coerente la esperienza che c’è stata, in una linea di ammodernamento. Non si capisce, ad esempio, perché piuttosto che divaricare non dovrebbero trovare ragioni di intesa più ravvicinata quelli che stanno già nello stesso partito europeo o chiedono di entrarci. Forza Italia è apparsa a molti co-
Ho privilegiato Casini, se così si può dire, perché persegue un obiettivo che era e resta democratico: unità tra quanti credono nel Ppe affatto altri progetti innovativi, come quello di due grandi aggregazioni all’interno dei due poli. Pensando a questi partiti di comune derivazione credi davvero che potrebbero raggiungere il risultato elettorale complessivo che realizzava la Dc? Da soli pare difficile, l’ho gia detto; non ho la palla di vetro per previsioni così precise. E poi altre forze intanto sono venute e cresciute al centro; penso solo che gli eredi della Dc non avrebbero
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me un movimento che poteva garantire continuità rispetto alle esigenze di equilibrio e di sviluppo già interpretate dalla Dc e dal suo sistema di alleanze. Non c’è dubbio, che il travaso di voti a suo favore non sarebbe avvenuto in così larga misura se non avesse rifiutato la critica distruttiva alla nostra esperienza e ad essa non si fosse invece solidalmente richiamata. Non escludo naturalmente che le cose si possano cambiare o siano già cambiate, come dice Casini; la politica, pure
ingessata, e così personalizzata è ora molto mobile... L’opinione che per il successo di Forza Italia siano state invece decisive la televisione e una imponente macchina organizzativa e finanziaria avrebbe dunque per te poco fondamento? Televisione, propaganda, giornali, mezzi di pressione, ne ha avuti a favore, ma altrettanti, e forse più se mettiamo in conto poteri forti e livelli istituzionali diversi, ne ha avuti contro. Più decisivo è stato partire con la convinzione che la Dc e i suoi alleati non erano stati politicamente e correttamente sconfitti, e quelle direttrici dunque andavano riprese con le integrazioni e le alleanze che i cambiamenti intervenuti rendevano necessari e possibili. Che poi questa linea sia stata seguita sempre bene e in modo giusto è un altro discorso, ma da lì Forza Italia è partita e su quella spinta ha mantenuto la maggiore capacità rappresentativa. Fra gli ex democristiani è notorio che hai privilegiato Casini, ma quale spazio resterebbe all’Udc se Berlusconi seguisse e sviluppasse la linea che indichi? Ho privilegiato, se così si può dire, un obiettivo che era ed è democratico e conseguente: l’unità fra quanti aderiscono al Partito Popolare Europeo. Così vorrebbe anche il senso comune. Che però, come sappiamo, e tutt’altro che comune! Non credo che nelle dispute insorte si possano stabilire in modo netto torti e ragioni, e non dimentico neppure che ci so-
no posizioni e storie diverse, quelle che Adornato nei suoi convegni di Todi cercava meritoriamente di comporre. E però penso anch’io che partiti nazionali dovrebbero integrarsi sulla base degli impegni comuni che assumono ormai su scala europea. L’Udc a Strasburgo ha favorito senza incertezze l’ingresso di Forza Italia nel Partito Popolare e continua a pensare che sarebbe ora coerente riprendere una iniziativa seria, mirata a realizzare unitariamente la sezione italiana dello stesso. E per i Dc che hanno scelto l’altra alleanza confluendo nella Margherita o nell’Udeur, c’è una diversa prospettiva? La questione a sinistra e più complessa perché l’alleato più robusto e meglio attrezzato è stato per mezzo secolo l’avversario principale, e pure essendo importanti le revisioni intervenute, divergenze e condizionamenti sono più forti. Fondere e integrare identità e storie di matrice così diversa è impresa comunque suggestiva e porrà agli uni e agli altri problemi più seri che per ora rimangono sottesi e stemperati dall’antiberlusconismo comune e dalla avvenuta condivisione del potere. Detto questo, penso che l’esigenza di semplificare e ridurre il panorama dei partiti è comunque giusta e dovrebbe essere corrisposta sull’uno e sull’altro versante.
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Ciriaco De Mita e Bettino Craxi, i due protagonisti della politica italiana degli anni Ottanta. A destra Alcide De Gasperi con la figlia Romana e, infine, Aldo Moro: molti attribuiscono alla sua scomparsa la principale causa del tramonto della Dc
Cosa consiglieresti agli amici dell’uno e dell’altro campo sia che rimangano autonomi sia che confluiscano e si fondino con altri partiti? Direi loro che è giusto riconoscere i cambiamenti e le revisioni intervenuti a destra e a sinistra, e perseguire quindi le possibilità di incontro e di integrazione. Meno giusto sarebbe invece per obiettivi unitari adeguarsi troppo a ipocrisie e ambiguità. La democrazia si è affermata, le alleanze internazionali hanno garantito la pace, si è realizzata la Comunità Europea, siamo fra i paesi più progrediti, perché le ideologie e le tentazioni illiberali sono state sconfitte. Per andare avanti verso le cose nuove, la storia non dovrebbe mai essere rovesciata. Se la crisi della politica si accentuasse e lo scontro tra i poli diventasse sempre più aspro e improduttivo, perché non si potrebbero ritrovare le diverse anime Dc? La scena è cambiata, e particolarmente in Italia, dove c’era il Partito Comunista più forte d’Europa. Questi amici ora impegnati nelle opposte sponde la riunificazione nemmeno la vorrebbero, e comunque non sarebbero in grado
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zione che ne dovrebbe trarre. Potrebbe strutturare meglio il movimento secondo una vita democratica reale, con una capacità maggiore di riflessione, con organi collegiali di direzione veri al centro e alla periferia. So come reagirebbe: approverebbe cordialmente, ma pensando in realtà che queste sono cose vecchie, che adesso si balla con musica diversa, che la Dc non c’è più anche per colpa delle sue dispute interne. Sono considerazioni che ho già sentito da altri. Ma non dovrebbero dimenticare che la conclusione della nostra vicenda ha cause del tutto estranee alla struttura democratica del partito e che anzi, se abbiamo governato per cinquant’anni qualche ragione è proprio nei modi del nostro confronto interno. Sul referendum promosso da Segni per una sola preferenza era manifesta la contrarietà di Craxi, che invitava gli elettori ad andare al mare, mentre la Dc era divisa. Eri favorevole o contrario alle preferenze? Ero contrario al referendum ma la nostra direzione decise di evitare indicazioni rigide. L’abolizione delle preferenze non migliora-
Il ”mattarellum”, che introduceva un sistema con il 75% di maggioritario e un 25% di proporzionale, fu ritenuto da Martinazzoli il ”meno peggio” di promuoverla; neppure con l’aiuto del papa, si diceva da ragazzi per le cose troppo difficili. Per tenere insieme“le diverse anime”anche nel nostro passato occorrevano delle capacità di mediazione che ormai scarseggiano. Essi vengono però da una storia importante che ha radici lontane, e più da vicino mezzo secolo di lotta e di governo; averne coscienza li aiuterebbe a non perdere la bussola nel mare dove oggi si trovano a navigare. Guardare indietro da dove si viene non vuol dire tornare indietro, serve a ritrovare l’orientamento per andare avanti nella direzione giusta. Se il capo di Forza Italia ti chiedesse un consiglio? Gli direi di dare più importanza alla sua collocazione nel Partito Popolare Europeo, alle conseguenze di identità e di organizza-
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va il sistema. Lo ha reso anzi più chiuso, più partitocentrico. La proporzionale con la possibilità di scegliere i candidati aveva difetti ma offriva agli elettori più possibilità di giudizio e di rappresentanza per categorie e associazioni varie. Erano certamente necessarie delle correzioni e bisognava limitare e regolare finanziamenti e propagande personali, ma era una libertà, un margine di autonomia da valorizzare. Una delle critiche più diffuse al sistema era però proprio quella di aver fatto dilatare i costi e in particolare, con le preferenze, le spese dei candidati! Sui costi delle campagne elettorali e le spese dei candidati non credo che le cose siano migliorate. La eliminazione delle preferenze e il metodo in prevalenza
maggioritario e uninominale, erano stati spiegati con l’obiettivo di far contare di più gli elettori rispetto alle macchine dei partiti, ma nei fatti avvenne esattamente il contrario. Anche con il ritorno alla proporzionale i poteri e le decisioni sulle candidature sono stati da allora centralizzati al massimo, sino a essere affidati in esclusiva ai vertici nazionali. Prima, e in particolare nella Dc, si arrivava alla scelta dei candidati e all’approvazione delle liste con un complesso lavoro di selezione periferica che coinvolgeva non solo tutti gli organi collegiali delle province e delle regioni ma anche all’esterno settori e categorie vari della società. Sul sistema elettorale c’erano già indicazioni a favore di quello tedesco, che da decenni ha dato buona prova ai fini della rappresentatività e della governabilità. Perché la Dc che lo aveva proposto per prima non l’ha sostenuto allora fino in fondo e in modo risoluto? Nel ‘93, la nuova segreteria, con Mino Martinazzoli e Sergio Mattarella, aveva fatto sondaggi con i vari partiti registrando la difficoltà di accordo su modelli prevalentemente proporzionali. La campagna referendaria contro le preferenze e le suggestioni a favore del maggioritario e dei collegi uninominali facevano ritenere improbabile ogni altra soluzione. Forse c’era ancora qualche possibilità di riflessione, ma sta di fatto che trovò subito buona accoglienza nella maggioranza e nelle opposizioni la proposta che introduceva il maggioritario al 75% con una quota proporzionale al 25%. Ai nostri dirigenti sembrò il meglio o il meno peggio che si potesse ottenere. Come si è arrivati alla elezione di Martinazzoli, voluta soprattutto dai basisti? Ho fatto delle consultazioni su mandato dell’ufficio politico e fra i nomi più ricorrenti c’era Martinazzoli. Non si può parlare davvero di scelta imposta; fra le varie indicazioni prevalse questa in una certa logica di rinnovamento e insieme di coinvolgimento il più unitario possibile. Si era parlato molto anche di Bodrato. Chi preferivi dei due?
Dovevo registrare le indicazioni. Martinazzoli era considerato meno di corrente, più moderato e conciliante, Bodrato lo avevo conosciuto meglio anche nei compiti di governo, alla Pubblica Istruzione, e ne avevo apprezzato sempre la risolutezza e insieme il modo scrupoloso di prepararsi su ogni questione. Perché la maggioranza era per Martinazzoli? Ripeto, lo ritenevano più moderato, meno di corrente. Da presidente del gruppo aveva dimostrato equilibrio ed era stato in buoni rapporti con tutti. Che cosa ti ha spinto ad accettare la candidatura al Quirinale nelle tortuose giornate del maggio 1992? Non sono state tanto tortuose. Quando si ritenne che la mia candidatura avrebbe favorito una più larga convergenza ho cercato di dimostrare agli amici e agli alleati che difficilmente sarebbe andata in porto. Ho cercato cioè di far capire perché al Quirinale non fosse mai stato eletto il segretario del partito di maggioranza, e come fosse poco realistico immaginare che ciò potesse avvenire con chi era considerato interprete con Craxi e Andreotti della formula di governo al centro delle polemiche e dello scontro parlamentare. Gli ostacoli già incontrati su altri nomi democristiani, i più autorevoli, ci avevano portato anche ad assecondare candidature diverse e più indipendenti che potevano favorire la ricerca di un accordo fra maggioranza e opposizione, ma per una ragione o per l’altra non erano mai state sufficientemente condivise. Quando la mia disponibilità fu ritenuta necessaria dalla maggioranza, e specialmente dai democristiani e dai socialisti, non potevo sottrarmi a un passaggio obbligato e l’ho affrontato con assoluta serenità. Così, quindi in modo tutt’altro che tortuoso, almeno da parte mia, abbiamo concorso ad aprire la via della soluzione cosiddetta “istituzionale”, quella che portava ai due presidenti delle Camere. Però all’ultima votazione sul tuo nome, il “quorum”è mancato solo per 29 voti, che probabilmente sarebbero venuti se tu non avessi ritirato la candidatura. Perché l’hai fatto quando i con-
sensi crescevano? Sarebbe stata comunque un’elezione strettamente maggioritaria, considerata troppo di parte per un ruolo arbitrale e di garanzia! L’aumento dei voti sul mio nome è stato tuttavia utile perché ha intimorito i comunisti e spianato rapidamente la strada per una soluzione concordata. È vero che i “franchi tiratori”erano per lo più amici di Andreotti che puntavano alla sua candidatura? Da lui personalmente non poteva venire alcuna contrarietà. Se qualcuno dei suoi non era d’accordo, io sapevo che lui non c’entrava. Nei vari sondaggi, a partire dagli alleati, avevo proposto proprio la sua candidatura ma avevo dovuto registrare che non c’erano le condizioni di riuscita. A pensare male si fa peccato ma si indovina? Meglio evitare il peccato, specie se non si indovina. L’elezione di Scalfaro fu preceduta dall’assassinio di Falcone. Due mesi prima, era stato assassinato Salvo Lima, principale esponente della corrente andreottiana in Sicilia. Hai pensato, come altri, a un collegamento fra le due “esecuzioni”e la corsa al Quirinale? Sono collegamenti assurdi. Perché Scalfaro e non Spadolini? Erano egualmente disponibili, ma uno solo poteva essere eletto. Ho detto a entrambi che invidiavo la Repubblica di San Marino che prevede i due capitani reggenti. Il nostro rapporto con Spadolini era ottimo, ma i gruppi parlamentari dc non potevano non privilegiare chi di loro faceva parte sin dalla Costituente. Inoltre erano favorevoli a Scalfaro i comunisti, e poi anche i socialisti. De Gasperi è stato politicamente “uomo solo” e senza eredi, come appare oggi da scritti celebrativi, e cortometraggi televisivi? Fu un personaggio che può passare indenne attraverso retoriche e pregiudizi. Parlandone bisognerebbe stare ai fatti, come a lui piaceva. Con De Gasperi si è realizzata la ricostruzione dell’Italia, ne ha guidato la rinascita democratica, soprattutto da lui sono venute scelte decisive di politica
il paginone
Parla il curatore del libro: in Forlani si ritrovano le idee di Luigi Sturzo
«È arrivata l’ora di riabilitare la Prima Repubblica» colloquio con Sandro Fontana di Errico Novi
ROMA. «Ci sono voluti otto anni per pubblicare questo libro. Forlani ha sempre avuto idee molto chiare sul passato, anche su quello recente, ma per esprimere una sintesi ragionata sui fatti abbiamo preferito attendere». Sandro Fontana con Nicola Guiso ha raccolto l’intervista testimonianza dell’ex segretario della Dc. E non nasconde la difficoltà principale incontrata nella preparazione di Potere discreto: prevenire contestazioni scomposte da parte dell’Italia politica che ha costruito se stessa sul mito di Tangentopoli e sulla criminalizzazione degli anni Ottanta. Di quel periodo cioè in cui, dice l’ex senatore e direttore del Popolo, «proprio Arnaldo Forlani ha realizzato la terza fase del disegno di Moro, con il superamento di una visione tolemaica del sistema: “Il futuro non sarà più nelle nostre mani, e se non saremo capaci di un sussulto d’intelligenza questo futuro sarà addirittura contro di noi”, diceva Moro. Forlani ha consentito al leader del più piccolo dei partiti alleati, Giovanni Spadolini, di diventare presidente del Consiglio». Su questa lunga attesa deve aver pesato anche il carattere di Forlani, misurato e attento. Ha pesato il fatto di dover ricostruire cinquant’anni di storia italiana e la volontà mia e di Guiso di valorizzare la testimonianza di un grande protagonista. Certo, Forlani è sempre stato una persona molto equilibrata, guidata da una moderazione di fondo. Ma capace di esprimere giudizi originali, per nulla scontati: per esempio sulla fine dell’unità dei cattolici e il futuro dei moderati. Molti lo hanno visto come una figura dalla visione semplicistica. Andrebbe mandata a memoria la frase di Godetti su Salvemini, citata nella nostra prefazione: «Più ci ripensi e più ti avvedi che il suo semplicismo apparentemente ingenuo non è affatto un’idea comune, e che è molto difficile dire di più». Fare un discorso storico sugli ultimi venti anni è d’altra parte molto difficile. Sempre per quella mistificazione dei cosiddetti nuovisti, di chi non ha saputo far altro che denigrare il passato, cioè
la Prima Repubblica. Se davvero si pretende di rinnovare bisogna anche promuovere una qualche forma di progresso concreta, non solo denigrare quello che è stato. Nel quindicennio tra la morte di Moro e la stagione di Mani pulite, di cui Forlani è stato il regista, l’Italia scavalcò la Gran Bretagna nella classifica Ocse dei Paesi più industrializzati, vide l’inflazione ridursi dal 16 al 4 per cento. E fu segnata da una delle idee di fondo attorno alle quali ruota la visione di Forlani. Vale a dire? La sua attenzione quasi religiosa nei confronti del ceto medio. Che non nasce solo dalla necessità di tenere uniti i lavoratori dipendenti con gli autonomi, ma soprattutto dall’idea che con l’interclassismo si realizza al meglio la sintesi tra mercato e solidarietà. Un obiettivo che anche la politica di oggi dovrebbe considerare prioritario. Appunto. Questa è la lezione di Sturzo, innanzitutto. È lui ad insegnare che grazie al ceto medio si sono compiuti i passi decisivi nella storia d’Italia: il Risorgimento, la Costituente, purtroppo anche il 28 ottobre del 1922, come Forlani ricorda nel libro. Le scelte di De Gasperi sull’estromissione della sinistra e di Moro sul voto anticipato nel 1972 derivano sempre dalla preoccupazione di non lasciar scivolare il ceto medio lontano da una rappresentanza politica di centro. Queste valutazioni sono sempre state ben chiare nell’agire politico di Forlani. Questo libro, insomma, è anche una risposta meditata, ma chiara, a chi ha criminalizzato la Prima Repubblica. Ci voleva del tempo perché il terreno fosse sgombro dalla faziosità isterica e si potesse storicizzare. Ce ne è voluto, eppure basterebbe notare che gli alfieri di Mani pulite sono intervenuti dopo decenni di silenzi e complicità rispetto alla questione del finanziamento illecito. Non avevano mai detto niente prima e nel caso di Forlani hanno individuato responsabilità che non sono mai riusciti a provare. Adesso è venuto il tempo di rileggere quella stagione politica con i fatti e non con le mistificazioni.
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interna ed estera. Oggi la validità di quelle direttrici è largamente condivisa e suona strano sentire che è rimasto solo. Ha avuto sempre la piena solidarietà del suo partito, del vasto mondo cattolico, quella degli alleati e della opinione democratica nazionale e internazionale. Ha avuto contro e ha dovuto affrontare la dura e sistematica ostilità degli oppositori. Forse in certe ricostruzioni storiche c’è l’inclinazione a compiacere qualche altra opinione, e magari anche gli avversari di ieri. Ha eredi? Se ora sono d’accordo con lui anche molti di quelli che lo avversavano, ciò significa che l’eredità è stata raccolta, e si tratta di capire chi veramente la custodisce meglio, chi in coerenza vorrebbe valorizzarla, chi la usa in modo strumentale. Si potrà semmai dire che non ha avuto eredi della stessa statura, ma questo capita, e comunque lo si dice in genere di tutti i grandi personaggi.
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linee guida si fondano. Il superamento dei vecchi ideologismi va bene ma bisogna comprenderlo in modo corretto perché c’erano idee giuste e altre sbagliate. Le fusioni saranno utili se muoveranno da approfondimenti onesti, e da programmi limpidi, oltre che da propositi di potere. Le prospettive unitarie potrebbero così essere insieme alternative e analoghe, entrambe egemoni nelle due alleanze del bipolarismo. Quali sono i confini nei due poli per i democratici cristiani? Possono davvero valorizzare nelle rispettive alleanze una loro identità? È una domanda alla quale è difficile rispondere da fuori campo; comprendo i dubbi di Pezzotta e le sue intenzioni. Occorre la verifica sul terreno. Io penso che possibilità nuove di integrazione e di processi unitari ci siano sui due versanti. Se Croce spiegava ai laici perché non possono non dirsi cristiani, quelli che cristiani vo-
Se oggi molti critici di De Gasperi sono d’accordo con la sua linea, vuol dire che la sua eredità è stata raccolta e il suo messaggio è passato Però della sua “solitudine” ne parla e scrive chi gli è stato vicino. Un uomo solo è il titolo del libro biografico della figlia Romana... Credo che nei ricordi più affettuosi e familiari prendano giustamente rilievo aspetti che sono magari di ogni esperienza umana, e però di sicuro accompagnano anche quella “solitaria”del potere. Ma in realtà De Gasperi è rimasto politicamente isolato, come altri d’altronde, solo con l’avvento e negli anni del fascismo, prima in carcere e poi nel quasi clandestino servizio della Biblioteca vaticana. Non fu certamente “solo” negli anni della rinascita nazionale, in cui ha costruito e guidato un grande movimento popolare, e governato con successo il paese; gli anni nei quali ha avuto più di ogni altro la fiducia della opinione democratica interna e internazionale e la dedizione totale ed entusiasta del suo partito, della quale era fiero. A destra e a sinistra si dovrà procedere comunque ad accorpamenti, per semplificare il bipolarismo e rendere più funzionale il sistema. Il professor Monti è sembrato auspicare la ricomposizione di un nuovo grande centro. Tremonti propone a riferimento il motto“Dio, patria e famiglia”per lo stesso obiettivo. Sei d’accordo? Sono d’accordo sulle esigenze da corrispondere e per le quali le ipotesi sono state teoricamente formulate: una politica cioè di sviluppo, coerente con le regole comunitarie, libera il più possibile da condizionamenti contradditori. Non è detto che ciò sia incompatibile con l’attuale sistema bipolare. Per questo, anche vedendo con favore convergenze e fusioni nell’uno e nell’altro campo bisogna capire bene su quali
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gliono essere più che dirsi, di certo ora non dovranno essere loro a confondere i piani, delimitando prospettive e orizzonti religiosi che sono diversi da quelli dei partiti. Nessun gruppo d’altronde, anche ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa, può pensare oggi a una rappresentanza in esclusiva che nemmeno la Dc aveva o pretendeva di avere.Vorrei però che per ogni processo unitario restasse non eludibile il riferimento alle ragioni di un movimento che ha avuto un ruolo importante nella rinascita democratica italiana e nella costruzione europea. Non dimentichiamo che gli oscurantismi totalitari del secolo scorso sono stati il risultato anche di una involuzione diretta a sradicare il cristianesimo dall’Europa. E non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che, per vie ovviamente diverse, si affermano e permangono tuttora politiche corrosive e spinte potenti verso eguali estraniamenti sociali dai valori cristiani. Senza indulgere a tentazioni integralistiche, l’esigenza di linee guida e di impegni convergenti deve avere quindi possibilità di espressione efficace anche in un quadro bipolare. Unirsi con altri, a destra e a sinistra, per confrontarsi sulle sfide che riguardano gli sfruttamenti e le violenze, gli squilibri e le ingiustizie, lo strapotere finanziario, le falsificazioni, la criminalità, le devastazioni ambientali, il terrorismo, è possibile e doveroso. Per i cristiani in particolare dovrebbe essere in coerenza con la ispirazione che ha guidato nel dopoguerra la rinascita democratica e comunitaria dell’Europa. Una politica cristiana come denominatore comune in campi avversi non è pretesa integralistica? No. Maritain la definiva, semplicemente, una politica più umana.
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Sri Lanka. L’esercito di Colombo espugna dopo dieci anni Kilinochchi, roccaforte della guerriglia
Le Tigri perdono la capitale di Massimo Fazzi er la prima volta in oltre dieci anni di scontri feroci, l’esercito regolare dello Sri Lanka è riuscito ad espugnare Kilinochchi, il quartier generale delle ribelli Tigri Tamil, nel nord dell’isola. Lo hanno annunciato i responsabili militari cingalesi, senza però precisare particolari sui combattimenti che si sono tenuti sul luogo. Secondo l’esercito, la capitale politica Tamil dovrebbe cadere in loro pieno possesso «entro due giorni». Uno dei responsabili dell’operazione, sotto condizione di anonimato, spiega: «I soldati sono entrati ieri mattina a Kilinochchi da due punti diversi e sono in corso intensi combattimenti. Nella notte 15 ribelli sono stati uccisi vicino alla loro roccaforte di Mullaitivu, nel nord-est». La notizia è stata confermata da fonti tamil, che parlano di un’accanita resistenza da parte dei ribelli e di centinaia di civili in fuga. La città di Kilinochchi, catturata dieci anni fa dai separatisti dell’Ltte (Tigri dell’esercito di liberazione tamil), ospita il quartier generale dei ribelli, una sorta di Gaza dello Sri Lanka. L’amministrazione tamil che si è instaurata a Kilinochchi rappresenta un primo abbozzo del futuro stato che i separatisti vorrebbero creare nel nord del paese. L’arrivo dei soldati governativi in città rappresenta dunque un’importante passo simbolico e strategico per il governo di Colombo, che da anni combatte non tanto contro la guerriglia ribelle, ma soprattutto contro la loro idea di separatismo. L’operazione ha scatenato l’euforia dei cingalesi.
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Latte avariato: manifestazione a Pechino In Cina i parenti dei bambini vittime del latte contaminato con la melamina hanno inscenato una manifestazione a Pechino e hanno improvvisato in strada una conferenza stampa nella quale hanno lanciato un appello al governo perchè intraprenda ricerche sugli effetti a lungo termine della sostanza tossica. Dopo un primo intervento della polizia e il successivo rifiuto di un albergo della capitale di ospitare la manifestazione, alcuni parenti delle vittime della melamina, sorvegliati da tre mezzi della polizia e ripresi da un operatore in borghese, hanno tenuto una conferenza stampa in strada, che si è svolta senza incidenti.
Crisi del gas: Gazprom accusa il governo ucraino
delle Tigri, è in corso infatti un ampio dibattito politico in tutta l’area del sud-est asiatico: molti Stati della zona non vedono così di cattivo occhio la loro presenza in Sri Lanka, e considerano la gestione politica dei tamil «più malleabile» di quella at-
Emergenza umanitaria in corso per le centinaia di sfollati, costretti dai militari a rimanere chiusi dentro campi temporanei inadatti a ospitarli
Secondo un sondaggio commissionato dal governo, il 75 per cento della popolazione «è fermamente a favore dell’azione militare, considerata l’unica strada per sconfiggere il terrorismo». Il dato, da prendere con le dovute cautele, è stato reso pubblico pochi giorni fa. Il governo di Colombo ne ha dato ampio risalto, sottolineando come non sia necessario l’intervento della comunità internazionale in quella che viene definita «una questione puramente interna allo Sri Lanka». La questione non si può, però, limitare a uno scontro interno. Dal 1975, anno di nascita
in breve
tualmente al potere. Molti analisti sostengono che la lunga permanenza in buona salute dei vertici della guerriglia – mai realmente sfidati da Colombo – sia da attribuire all’aiuto sotterraneo di entità esterne al Paese.
E che la situazione della popolazione tamil sia al momento disperata. Rukshan Fernando, coordinatore della Law & Society, ha visitato la regione di Vanni per ve-
rificare in loco la situazione dei profughi e dei campi di accoglienza gestiti dal governo. Secondo l’attivista, «quello che i media non raccontano e che il governo non dice allo Sri Lanka e al mondo è che questa popolazione [gli sfollati dalle zone di guerra ndr] è detenuta contro il proprio volere».
Dal 21 al 30 ottobre, quando gli scontri hanno iniziato a spostarsi verso le zone più densamente abitate da civili, centinaia di persone hanno attraversato il checkpoint di Omanthai abbandonando l’area del conflitto: 335 hanno raggiunto il campo allestito nella Menik Farm, altri sono stati destinati alla scuola di Omanthai (entrambe i luoghi si trovano nel distretto di Vavunya), oltre 100 km da Jaffna. Il governo, spiega ancora Rukshan, «ha fatto ogni sforzo per ‘invitare’ la popolazione di Vanni a trasferirsi nell’aree sotto il suo controllo. Ma non ha organizzato sistemazioni adeguate. Nello stesso, piccolo campo ci sono donne incinte, disabili mentali, pazienti affetti da diabete, asma, problemi di pressione, ragazzi e bambini soli. Senza alcun sostegno medico». Colombo «assicura un aiuto minimo. Le persone arrivate nei primi giorni hanno ricevuto una stuoia, asciugamani, lenzuola, vestiti, sapone da bagno e per lavare i vestiti. Gli ultimi arrivati stanno ricevendo soltanto poco cibo». Per Rukshan, che intende riferire sulla situazione all’Onu, i campi «sono in pratica luoghi di detenzione. Buona parte di questa gente vuole ricongiungersi con i familiari ospitati in altri centri, pochi vogliono restare nel campo: vogliono andare via e cercarsi un lavoro. Tutti vogliono assaporare la libertà. Ora in nome della ‘liberazione dalle Tigri’ si ritrovano detenuti e confinati dai ‘leoni’ in nome della ‘sicurezza nazionale’». Impossibile prevedere l’evoluzione della situazione. Il governo centrale, infatti, non ha intenzione di lasciare margine di dialogo ai ribelli, i cui leader sono riusciti a fuggire prima dell’intervento delle milizie regolari.
L’Ucraina «si è rifiutata sabato di consentire alla Russia di inviare attraverso il suo territorio l’intera quantità di gas richiesta per i clienti europei». È quanto denuncia il gigante energetico russo Gazprom. «Per quanto riguarda le prossime 24 ore, gli ucraini non ci hanno permesso di inviare il volume di transito da noi richiesto. Abbiamo fatto una richiesta per 303 milioni di metri cubi, ma è stata respinta e ci è stato consentito di inviare solo 296 milioni di metri cubi», ha affermato il portavoce di Gazprom Sergei Kupriyanov. Il governo di Kiev ha respinto in serata le accuse e ha parlato di problemi tecnici per spiegare i metri cubi in meno.
Bartolini nuovo comandante della missione Isaf Il generale Marco Bertolini assume oggi l’incarico di nuovo capo di stato maggiore del Comando internazionale Isaf in Afghanistan. La cerimonia è in programma, presso il quartier generale di Isaf a Kabul. Alla missione contribuiscono oltre 40 nazioni, della Nato e non. Il generale Bertolini, nato a Parma nel 1953, ha frequentato l’Accademia militare di Modena ed ha prestato servizio per gran parte della propria carriera nell’ambito della Brigata Paracadutisti Folgore.
mondo
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La nuova moschea costruita a Grozny e dedicata all’ex presidente, e muftì islamico, Ahmed Kadirov assassinato nel maggio 2004
Scommesse. Il Cremlino appoggia l’islamizzazione della Cecenia in nome della stabilità e l’ugonotto Enrico IV si convertì al cattolicesimo, nel 1593, per salire al trono di Francia - «Parigi val bene una messa» - l’ortodosso Vladimir Putin non si è certo fatto musulmano, ma per lui si può dire che Grozny val bene una moschea. La normalizzazione con la Cecenia, da sempre repubblica ribelle della Russia, tanto imperiale, che comunista, che postsovietica, passa per una svolta a 180 gradi della politica del Cremlino nei confronti dell’Islam. E la nuovissima moschea che è stata inaugurata nel centro della capitale cecena ne è il simbolo. Colossale: i quattro minareti sono alti 60 metri e sotto le sue cupole c’è posto per diecimila fedeli. Ma, soprattutto, primo nucleo di un complesso che, su 14 ettari, comprenderà, oltre a un albergo per ospitare i pellegrini da tutto il Caucaso, anche una università islamica che è già in costruzione e che dovrebbe essere inaugurata nel settembre di quest’anno. Ramzan Kadirov, il giovane presidente ceceno, ne è orgolioso. L’ha intitolata a suo padre Ahmad, il muftì antirusso che divenne a sua volta presidente, nell’ottobre del 2003, e strinse con Mosca il primo compromesso in cambio del riconoscimento del suo potere e del controllo sul territorio, ma che fu assassinato in un clamoroso attentato compiuto nel maggio del 2004 durante una cerimonia nello stadio della città.
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Per lo zar Putin, Grozny val bene una moschea di Enrico Singer sta antirussa. Così Ramzan che ha appena 32 anni e che, nel 2006, regalava soldi alle donne che indossavano l’hijab, adesso ha definito obbligatorio il velo islamico e ha bandito le minogonne dalle scuole in nome di una rinascita morale che intreccia dettami religiosi con le tradizioni degli influenti clan locali. Per rafforzare il suo potere, Ramzan Kadirov ha puntato su due pilastri: sul fronte esterno,
zia, che si dissolse nel 1944 per le deportazioni ordinate da Stalin che accusò i ceceni di avere appoggiato i tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, Grozny recuperò il suo rango di capitale e, grazie all’industria petrolchimica, si sviluppò fino a contare poco più di 400mila abitanti, prima delle tre guerre che hanno quasi dimezzato la sua popolazione sotto i colpi della zachistki, la pulizia etnica. Tutto questo, adesso, per Ramzan Kadirov appartiene al passato e la Cecenia dovrebbe rinascere definitivamente dalle sue ceneri con una formale autonomia, ma una sostanziale sottomissione a Mosca.
Prima della fine di quest’anno aprirà anche un’università islamica aperta a tutti i musulmani che vivono nella Federazione russa. E a Mosca c’è chi teme che i fondamentalisti ne approfitteranno
A uccidere Kadirov padre furono - a quanto pare - estremisti islamici contrari al patto con Mosca e da quando è Kadirov figlio a reggere la Cecenia la strategia concordata con Putin è quella di una “islamizzazione guidata” del Paese che dovrebbe tagliare l’erba sotto i piedi ai fondamentalisti togliendo loro gli argomenti di propaganda religioso-nazionali-
l’alleanza con Putin che ha chiuso tre guerre feroci con la Russia (1994,1996 e 1999) e, sul fronte interno, l’islamizzazione “controllata” del Paese. Oggi dalla capitale cecena sono scomparsi tutti i segni del conflitto armato con Mosca che aveva fatto della città la polveriera del Caucaso. Grozny - che in russo significa terribile è stata nel XIX secolo una fortezza della Russia zarista, ma da quando nel 1893 fu scoperto il petrolio, la sua popolazione passò da 15mila a 30mila abitanti. Nel 1922 Grozny divenne la capitale della regione autonoma di Cecenia, poi, nel 1936, della Repubblica socialista sovietica autonoma della Cecenia-Ingusce-
Tutto risolto, allora? In realtà ci sono molti punti deboli, sia nella strategia di Kadirov che in quella di Putin. Se in Cecenia è tornata la calma, la tensione si è spostata nella confinante Inguscezia dove i fondamentalsiti ripropongono l’unificazione con la Cecenia (e il Daghestan) con l’obiettivo di creare uno Stato islamico del Caucaso. E la sicurezza continua ad essere la principale preoccupazione per Ramzan Kadirov che, non a caso, vive blindato nella “cittadella presidenziale” che si è fatto costruire vicino
alla città di Gudermes con tanto di palazzo, moschea, pavoni che passeggiano nei giaqrdini e tank russi di guardia. Kadirov, insomma, non è ancora sicuro di avere la vittoria in mano. Ed anche a Mosca c’è chi non è convinto che i conti di Vladimir Putin siano giusti. È vero che riconoscere ai ceceni - in stragrande maggioranza musulmani - il diritto di professare la loro fede è decisione sacrosanta. Semmai tardiva e non ancora accompagnata da simile rispetto per le altre confessioni. Ma è anche vero che i fondamentalisti cercano di approfittare dell’apertura dei nuovi centri di culto e di studio per far deragliare l’islamizzazione controllata e per egemonizzarla. A partire dall’università che aprirà in settembre e che, secondo il gran muftì di Cecenia, Sultan Mirzaev, ospiterà 500 studenti che potranno iscriversi da «qualunque parte della Federazione russa». Tutti, naturalmente, dovranno studiare l’arabo per poter apprendere il Corano e si formeranno ai dettami della sharia. In sostanza, Grozny si propone come il cuore dell’Islam in Russia e questo potrebbe rivelarsi come un pericoloso boomerang per Putin. Per il momento gli agenti dell’esercito interno russo, con le loro divise azzurre, e quelli ceceni, di nero vestiti, pattugliano fianco a fianco l’area della moschea intitolata ad Ahmed Kadirv. Poi, si vedrà.
cultura
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Scrittori rimossi. L’autore di Azorin e Mirò; Allegri, gioventù; Quella strana felicità; Il Mister e La carriera di Pimlico
Il poeta del sublim(in)e La vita e il «modo unico di aderire alla realtà» Ritorno alla lezione di Manlio Cancogni di Filippo Maria Battaglia anlio Cancogni è probabilmente il più grande narratore italiano vivente. Nella misura del racconto lungo o del romanzo breve, il suo Azorin e Mirò è un capolavoro, «il più importante del dopoguerra» come ha scritto Luigi Baldacci. Eppure, buona parte dei suoi libri migliori non si trova più nelle librerie. Alcuni di essi, ristampati una decina d’anni fa da Fazi, sono già finiti nei circuiti reminders del “metà prezzo”; altri sono stampati e diffusi da una piccola (e meritoria) casa editrice emiliana, Diabasis; i romanzi che gli hanno fatto vincere i premi letterari più importanti (lo Strega con Allegri, gioventù; il Viareggio con Quella strana felicità) si possono acquistare solo dai librai specializzati nella vendita dell’usato. Capirne il perché è piuttosto difficile.
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Una risposta potrebbe essere quella del cosiddetto «percorso spurio» che ha portato
sorta di pudore di sentimenti tipica dei ventenni più inquieti: «Erano giunti ai limiti della periferia. Scendeva la sera. I due amici si fermarono accanto a una siepe che divideva la strada da un tratto di terra coltivato. Tutto taceva. Un uomo vestito poveramente si muoveva fra i solchi annaffiando i cavoli e le rape. Mirò fece il nome di uno scrittore che nei suoi libri, diceva, lui pure, quelle cose che erano loro sì care. Anche Azorin lo conosceva. Parlarono di altri autori; i loro gusti coincidevano. Infine confessavano il loro segreto. Erano scrittori tutti e due. Mirò decise di condurre l’amico a casa e di leggergli qualche pagina. Quella sera Azorin tornò a casa più tardi del solito. I genitori lo vedevano eccitato, che non s’accorgeva nemmeno di ciò che metteva in bocca, e la madre dovette raccomandargli di mangiare più lentamente. Mirò dimenticò persino di cenare. Non riusciva a star fermo, fumò una dietro l’altra tre sigarette, e i padroni
Probabilmente il più grande narratore italiano vivente, purtroppo buona parte dei suoi libri migliori non si trova più nelle librerie. La causa, forse, risiede nel suo cosiddetto “percorso spurio” Cancogni alla letteratura. In prossimità dell’uscita di uno dei suoi più fortunati romanzi, La linea del Tomori, Cesare Garboli aveva accennato all’intreccio di scritture che sembra imbrigliare tutta l’opera dello scrittore versiliese: un registro per così dire «esistenziale» (sulla linea di Giovanni Comisso e del primo Cassola); un altro più sporco e intrinsecamente impuro. Garboli aveva ragione, e la formazione del Cancogni scrittore lo conferma. L’autore dell’Amore lungo si innamora della scrittura giovanissimo, quando ancora è poco meno che ventenne. E condivide le ansie e i patemi di questo percorso di iniziazione con Carlo Cassola, uno dei due protagonisti del lungo racconto biografico Azorin e Mirò (Azorin è Cancogni, Mirò è Cassola). L’incontro tra i due è casuale, le affinità sono invece evidenti, sebbene velate da una
di casa lo sentirono passeggiare a lungo nella stanza dove la luce restò accesa fino a tardi». È un percorso di iniziazione segreto, possessivo, intollerante e pieno di disprezzo nei confronti del mondo che li circonda: «il loro modo di giudicare un libro era curioso. Non parlavano mai del pensiero dell’artista, del carattere dei personaggi, della trama; ma di questo o di quel paesaggio, di una frase, di poche parole: una sensazione, una breve descrizione di ambiente. Azorin di quei passaggi ne sapeva moltissimi, e li recitava a Mirò che, avendo poca memoria, ascoltava dalla bocca dell’amico ciò che egli stesso prediligeva. Nell’esprimere un giudizio erano parchi di parole. Pareva rifugiassero programmaticamente dalle espressioni troppo sonore e rese viete dall’uso, come da frasi troppo lunghe che sapessero di teoria». Ciò che conta infatti per Azorin
L’autore
Manlio Cancogni è nato a Bologna il 6 luglio del 1916, ma ha trascorso gran parte della propria vita in Versilia. Al tempo degli studi a Bologna, fu molto vicino a Gaetano Arcangeli, Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Franco Fortini. Da questo gruppo di giovani sarebbe in seguito uscita una serie di scrittori del secondo dopoguerra. A Roma conobbe Carlo Cassola, del quale fu grande amico fino alla morte di quest’ultimo. Conobbe anche Carlo Levi, Mario Luzi, Eugenio Montale, Luigi Silori, Luciano Luisi e molti altri. Durante la Seconda guerra mondiale fu arruolato nell’esercito. Combatté sul fronte grecoalbanese. Nel dopoguerra scrisse per il “Corriere della Sera”, “la Stampa”, “La Nazione del Popolo”, “Il Popolo”, “L’Europeo”, “Botteghe Oscure”, “L’Espresso” e altri giornali e riviste italiani. È stato un giornalista piuttosto attivo e in vista. Alla fine degli anni Sessanta diresse la “La Fiera Letteraria”. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta accumulò una serie di successi letterari per i suoi romanzi, alcuni dei quali ricevettero premi e riconoscimento di spicco. Dagli anni Ottanta, tuttavia, la figura di Cancogni andò defilandosi. Continuò sia la sua attività di giornalista che quella di scrittore, ma in una posizione decisamente più in ombra e riservata. Iniziò in questo periodo la sua attività di docente universitario negli Stati Uniti. Tra i riconoscimenti più prestigiosi, nel 1973 il Premio Strega, per il romanzo “Allegri, gioventù”. Nel 1985 vinse invece il Premio Viareggio con il romanzo “Quella strana felicità”.
e Mirò è il sub-liminare.Tutto il resto importa poco o punto: «Per me un governo o l’altro fa lo stesso. Della libertà, in fondo, non so che farmene, e quella che ci preme nessuno ce la può togliere. Dittatura, democrazia, imperialismo, internazionale… son tutte cose che non mi sfiorano. La vita, la vera vita, è sempre la stessa».
Ecco perché Azorin e Mirò, oltre ad essere il più bel racconto del dopoguerra, è - forse senza volerlo - il manifesto di una poetica, di un «modo unico e vero di adesione alla realtà»: «Azorin e Mirò si intendevano, e infine avevano coniato una parola che comprendeva tutte quelle cose, quelle speciali emozioni: “sub-liminare”, “realtà sub-liminare”. Cos’era il sub-limine, e quali erano le cose sub-liminari, e quali no? Bisogna subito dire che il sublimine era l’eccezione e il non sub-limine la regola; che tutte le cose potevano in un certo momento essere sub-liminari ma che era più il tempo in cui non lo erano, e che Azorin e Mirò soffrivano proprio di questo, della normale non sub-
liminarietà delle cose, e che perciò attendevano i rari istanti in cui il tessuto opaco delle cose si rompeva, e dal suo grigiore compatto scaturiva bello, puro inimitabile, il sub-limine». Ma questa – come ricorda Simone Caltabellotta – è una via sbagliata che alla fine non può che coincidere con una deriva narcisistica. Tanto più che l’estraneazione dalla realtà in quegli anni – siamo in piena dittatura – sarà uno dei capi d’imputazione più pressanti che si muoveranno a pubblicazione del libro avvenuta (la prima, parziale, edizione sarà stampata nel 1948 sulla rivista Botteghe oscure diretta da Giorgio Bassani). Si diceva prima del percorso spurio di Cancogni, del suo procedere a zigzag nella letteratura. Perché, più che alla narrativa d’autore, nel dopoguerra buona parte della sua popolarità si lega al giornalismo: lo scrittore versiliese è infatti uno degli inviati speciali dei due giornali diretti da Arrigo Benedetti, L’Europeo e L’Espresso. Per conto di quest’ultimo - corre l’anno 1956 dà avvio ad una delle più cele-
bri inchieste del dopoguerra, «Capitale corrotta = nazione infetta», che denuncerà parte della corruzione e dell’inefficienza della pubblica amministrazione romana.
E così come il Cancogni scrittore risentirà del Cancogni giornalista, specularmente il Cancogni inchiestista manifesterà una subitanea e immediata inclinazione al reportage letterario: «Qualche tempo prima, un ingegnere e geometra si erano presi a pugni in ufficio davanti al pubblico. L’uno e l’altro erano alle dipendenze di un grosso impresario il quale era solito lasciare mensilmente una busta con un compenso da dividersi fra i due. Andava di solito a ritirarla l’ingegnere che faceva le parti. Intascava per sé la maggiore, lasciando all’altro la più piccola. Ogni mese la parte del geometra diminuiva e infine s’era ridotta alle briciole. Un giorno in cui si doveva ritirare la busta, l’ingegnere era assente e andò a prenderla il geometra che la intascò senza farne parola al collega. Era scoppiata una lite e infine i due si erano presi a
cultura
Nella pagina a fianco, lo scrittore italiano Manlio Cancogni. A sinistra, un’immagine di uno dei suoi più grandi amici, l’autore de “La ragazza di Bube”, Carlo Cassola. A destra, dall’alto: Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio
cazzotti urlando come forsennati. C’era stata un’inchiesta e il geometra era stato trasferito in un altro ufficio».
« La s t o r i a - c o n cl ud ev a Cancogni nell’articolo - ricorda un episodio della prima parte delle Anime morte di Gogol, in cui due impiegati compiono insieme un certo affare, poi si litigano e vengono scoperti. Cicicov, il protagonista della storia, è mandato via: in Campidoglio si è più clementi: i fun-
zionari ritenuti colpevoli di qualche azione non corretta si cambiano di ufficio». Una narrazione unica, lontana sia dalla prosa irruenta di Giorgio Bocca, sia dal modello della cosiddetta “bella pagina” di Montanelli e di Biagi. Ma oltre alla letteratura e al reportage, all’eclettico percorso letterario dello scrittore vanno perlomeno aggiunti altri due tasselli: la poesia e lo sport. In Matelda (Fazi editore) Cancogni confessa che, ventenne, di
poesia conosceva solo la triade della lirica italiana moderna (e cioè Carducci, Pascoli e D’Annunzio) e di non amare nessuno di loro: «Così era inevitabile che da quei tre dovessi partire quando nella primavera del ’35 (mentre la vita pubblica cominciava a farsi inquieta e l’orizzonte internazionale a oscurarsi) Carlo Cassola, che abitava nel mio stesso quartiere (fra villa Adda e villa Torlonia) si mise a parlarmi di poesia e di poeti». Una frequenza, quella con la poesia, che accrescerà di ritmo e di intensità negli anni successivi e di cui risentirà buona parte della sua opera letteraria, tanto che a proposito del lirismo di Azorin e Mirò Geno Pampaloni scriverà di un «pamphlet letterario raccontato come una canzone».
Quanto all’altra passione, lo sport, lasciamo che sia lo stesso Cancogni a raccontarla in un’intervista rilasciata a il manifesto il 13 aprile del 2000: «lo sport è stato il mio primo grande amore negli anni Venti: il ciclismo, la boxe, l’atletica e l’ippica. Il calcio è venuto dopo quando avevo dieci anni». I
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motivi dell’infatuazione sono afferma lo scrittore - «prevalentemente di ordine estetico, ma anche morale. Io ho sempre visto nel calcio un’espressione artistica, l’ho sempre guardato sotto questa luce, mai da tifoso. A volte penso, senza paradosso, che certi momenti del football, valgono molto di più del meglio che si produce nel mondo letterario e artistico. Nel calcio ci sono una bravura, un’intelligenza e una capacità di esprimersi uniche. Tutto sommato mi dà più piacere vedere una partita di Maradona, col suo spirito istintivo e indomabile, che leggere un libro di qualche autorevole scrittore». Una provocazione? Mica tanto. Soprattutto se si considera che Cancogni al mondo degli sport ha dedicato due dei suoi più riusciti romanzi, La carriera di Pimlico e Il Mister. Talmente riusciti e apprezzati, che dopo lettura del primo - ricorda Beppe Benvenuto nella postfazione del libro Fazi - Elio Vittorini spinse per una sua subitanea pubblicazione nella collana dei “Gettoni” einaudiani: «In altre letterature vi sono
dei grandi scrittori che trattano di cavalli: Sherwood Anderson, William Faulkner… In Italia è con Manlio Cancogni che si arriva infine a guardare nelle faccende degli uomini attraverso il mondo entro a cui si allevano i cavalli. Ma… la visione che se ne ha risulta subito molto italiana e attuale, pur nella patetica nitidezza di verde e di fresco che conserva dai classici del genere».
Letteratura, giornalismo, sport: il percorso a zigzag di Cancogni è appena accennato. Si potrebbe scrivere anche della memorialistica, nel registro lucido e disincantato che ora si ritrova negli Scervellati (Diabasis), l’amara testimonianza di una guerra - la Seconda Guerra Mondiale – che lo scrittore visse e subì in modo anomalo, da «disobbediente della coscienza» e da «sofferto antipatriota». Ma forse questo già basta a intuire l’irregolarità del personaggio, le sue sofferte idiosincrasie, i suoi patemi e le sue sensibilità, che poi non sono altro che gli stessi patemi e le stesse sensibilità di ogni grande scrittore.
cultura
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ria pulita, verde, silenzio, tranquillità e strade larghe. A dirla così parrebbe la descrizione di un quartiere residenziale di una grande metropoli. Invece è la raffigurazione della città dei Morti, il più antico cimitero musulmano di tutto l’Egitto ancora in funzione, situato nella zona Est del Cairo - ai piedi della montagna del Moqattam - in cui oggi abitano circa un milione di persone.
A
Chi sono? Quali sono i motivi che hanno spinto questa moltitudine a trasferirsi all’interno di una necropoli? E soprattutto, che tipo di rapporto si instaura tra il mondo dei vivi e quello dei defunti? A dare una risposta a questi interrogativi ci ha provato l’antropologa italiana Anna Tozzi Di Marco con Il giardino di Allah, da poco uscito per l’editrice Ananke (pp. 160), che all’interno del cimitero - che ospita importanti monumenti funerari - ha passato alcuni anni. Grazie al sostegno del ministero degli Esteri italiano e del ministero dell’Educazione egiziano, infatti, questa studiosa ha potuto realizzare una ricerca sul campo vivendo all’interno della “Medinat al Amuat” (la città dei Morti) dal 1998 al 2005. «Ho passato molto tempo in questa necropoli», ha detto la ricercatrice, «osservando, partecipando a ogni momento della vita dei suoi abitanti: dai matrimoni agli scambi di visite, ai rituali funebri». Si tratta di un’area vastissima che si estende per dodici chilometri, attraversata da grandi arterie viarie e suddivisa, a livello amministrativo, in diciassette quartieri. «Alcuni di questi sono completamente urbanizzati, con acqua corrente, luce, scuole, un ambulatorio per le donne e i loro neonati e una farmacia», spiega l’antropologa. «In altri, dove le sepolture superano le abitazioni, ci sono i pozzi assorbenti. Tuttavia, in alcune zone, molto poche, manca tutto. Rete fognaria e smaltimento rifiuti sono le questioni più urgenti». Al contrario di ciò che molti erronea-
Sopra, una veduta della necropoli, nella zona Est del Cairo e, a fianco, la copertina del libro “Il Giardino di Allah” dell’antropologa Anna Tozzi Di Marco. A destra, l’interno della Città dei Morti
Il Cairo. Sono ormai un milione gli egiziani che da anni abitano l’antico cimitero
Quella città dei Morti popolata di vivi di Cristiana Missori mente pensano, ad abitare tra le tombe fatimide, mameluche e ottomane - dove hanno trovato sepoltura santi sufi, sultani come Qaytbey e Barquq, e importanti imam - non ci sono soltanto poveri. Chi sono infatti gli abitanti che oggi animano questa necropoli? «Non esiste una risposta univoca a questo interrogativo», afferma Tozzi Di Marco. «L’occupazione di questi luoghi di sepoltura», prosegue la studiosa, «ha inizio negli anni Cinquanta, quando dalle campagne molti abitanti si spostarono verso la capita-
le». Successivamente, una nuova ondata di arrivi si ebbe con la “guerra dei sei giorni” (1967) e l’occupazione del Sinai da parte degli israeliani. Centinaia di migliaia di profughi provenienti dalla regione del Canale di Suez vi trovano rifugio.
E così, se in principio doveva trattarsi di rifugi temporanei, in poco tempo le camere mortuarie - di cui anche le tombe più umili disponevano, al fine di consentire ai parenti dei defunti di fare visita ai propri cari - e le casupole costruite per ospitare i
pellegrini e i guardiani dei mausolei, si trasformano in vere e proprie dimore. «L’altissima pressione demografica, il cattivo stato delle case popolari, e più di recente, la crescita esponenziale dei prezzi delle case hanno fatto il resto», sottolinea la studiosa. «Uno studio sociologico degli anni Novanta, condotto dall’urbanista Galila al Kadi», aggiunge Tozzi Di Marco, «individua la comunità che vi abita come composta dalla classe medio-bassa». In base alla ricerca, a considerarsi residenti a tutti gli effetti, sono le
Nel libro “Il giardino di Allah” dell’antropologa Anna Tozzi Di Marco, che a Medinat al Amuat ha vissuto 7 anni, il racconto e la testimonianza diretta della trasformazione della zona di culto a vero e proprio quartiere della città
persone che dimorano nelle palazzine nelle aree maggiormente urbanizzate della necropoli - le quali non si ritengono abitanti di un cimitero, bensì di un quartiere. Ad essersi insediati nel cimitero dunque - oltre ai custodi - sono anche operai, piccoli professionisti, commercianti, musulmani ma anche cristiani, che hanno trasformato questi sepolcri in vere e proprie abitazioni. «Le tombe tradizionali», afferma l’antropologa, «includono una stanza per il morto, una o due stanze adiacenti e/o una corte chiusa, così da permettere ai parenti dei defunti di visitare i propri morti per lunghi periodi. I musulmani, passano molto tempo al cimitero, soprattutto le donne, che sono la vera memoria della famiglia». La caratteristica di coabitazione tra vivi e defunti nella necropoli è un aspetto originale e unico al mondo, sostiene la ricercatrice, secondo cui «la specificità socio-culturale di questo cimitero, è da salvaguardare, come d’altronde ogni diversità bio o culturale che sia». E da anni, l’antropologa organizza visite guidate nel cimitero. «La peculiarità delle mie visite guidate nel cimitero sta nel proposito di voler contribuire alla valorizzazione e alla conservazione della cultura autoctona, offrendo al visitatore un approfondimento su un aspetto originale della capitale egiziana: la coabitazione tra vivi e defunti».
Oggi la necropoli del Cairo dà riparo a circa un milione di persone. Tra i suoi abitanti, c’è chi vive lì anche da tre generazioni, senza soluzione di continuità. Per le autorità egiziane questa zona della capitale è una delle tante realtà scomode che mettono a nudo il fallimento delle politiche abitative adottate dal governo. Messo davanti al fatto compiuto, lo Stato non ha fatto altro se non prendere atto dell’occupazione del luogo e limitarsi a fornire elettricità, asfaltare alcune strade e aprire qualche scuola. La cosa forse più triste, però, è che per molti cairoti questo immenso quartiere - che sulle piantine della città viene raffigurato con uno spazio bianco (come a dire che lì non c’è nulla) - rappresenta qualcosa di cui vergognarsi, di cui non parlare.
spettacoli
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Musica. Si chiamano Ollabelle, vengono da New York e il loro terzo lp, “Before this time”, è già un successo internazionale
Il vintage dei nuovi Pink Floyd di Valentina Gerace erte volte è il destino a determinare gli incontri, che per quanto in apparenza fugaci o occasionali, possono spesso determinare qualcosa di veramente significativo. Un’amicizia, un sentimento o, perché no, una band musicale. E’ quanto è successo ai membri del gruppo newyorkese Ollabelle, la testimonianza in persona di quanto sia fondamentale nella vita trovarsi al posto giusto nel momento giusto.
C
Se oggi sono diventati una leggenda della musica gospel-folk americana, continuano a incidere dischi e a girare in tour per Stati Uniti, Australia e Europa, è grazie al loro fatale incontro avvenuto in uno dei tanti frizzanti localini di Manhattan, in occasione di una jam session che riuniva vari musicisti, accomunati dall’amore per il country e il folk. Oggi giungono al loro terzo album, Before this time, in uscita dal 5 dicembre, che non solo conferma il loro notevole talento come musicisti e cantanti, già solidificato da Ollabelle (2004) e Riverside battle songs (2006), ma dimostra una maturità e un’immaginazione fuori dal comune. Un interessante miscuglio di tradizione, suoni soul e gospel anni Sessanta, organi, chitarre slide, un piano vintage, e brani moderni, originali, che contengono un valore altrettanto classico e un’eco senza tempo. Gli Ollabelle hanno raccolto il loro migliore materiale live registrato nei vari locali di
NewYork, creando una raccolta nostalgicamente gotica, brani evocativi, lenti che ripercorrono i classici suoni della musica americana, facendo rabbrividire e lasciando un segno dentro, come le più storiche band sanno fare, dai Pink Floyd ai The Band. Canzoni folk vintage come John the Revelator, Saints, Elijah Rock si alternano a brani contemporanei come Brokedown Palace dei Greatful Dead che è il singolo dell’album o Ain’t no more cane dei The Band, in cui la carismatica Amy Helm dà il meglio di sè. L’album è impreziosito dalla presenza del padre di Amy, Levon Helm e dal chitarrista Larry Campbell (spalla di Bob Dylan, e spesso affiancato a grandissimi artisti come Elvis Costello e Emmylou Harris) che ha anche prodotto l’album di debutto della giovane band. E’ passato poco dal tragico 11 settembre del 2001 quando i membri della futura band si incontrano. Una data storica. Che ha cambiato l’America. Ma che ha anche accresciuto la solidarietà tra americani e l’amore per il loro magnifico Paese, la sua storia, le sue origini. Anche musicali. Cinque ragazzi, Amy Helm, Byron Isaacs, Fiona McBain, Glenn Patscha e Tony Leone provenienti da varie parti degli States e del Canada, con un passato da musicisti, venuti a New York in cerca di fortuna. Si ritrovano per fatalità a suonare insieme durante una tra le tante jam session che rende omaggio alla musica tradizionale afro-americana, coun-
La band propone un miscuglio di tradizione, suoni soul e gospel anni Sessanta. Un repertorio nostalgicamente gotico, fatto di brani evocativi che ripercorrono i classici suoni della musica americana try, gospel e folk. Suonando scoprono di avere qualcosa in comune, l’amore per la musica di antica ispirazione, suoni vintage anni ’60, il vecchio e tradizionale country, i ritmi che ricordano Memphis, New Orleans. E questa passione unita al loro talento si amalgama perfettamente, come per magia, in una sintesi di autenticità e tradizione. Amy Helm leder
del gruppo, figlia del leggendario Levon Helm dei The Band ha alle spalle una carriera da cantante e musicista, iniziata all’età di 10 anni. Una vena musicale la sua che risale ai nonni, anche loro musicisti di professione. Byron Isaacs ha lavorato come bassista con una varietà di artisti mentre coltivava anche la sua attività da solista. Tony Leone ha il suo passato da percussionista jazz. Fiona McBain si è trasferita da Sydney a New York e ha cominciato a farsi conoscere come cantante. Mentre il canadese Glenn Patscha attivo è già da anni sulla scena musicale di New Orleans. Il quintetto stava perseguendo ognuno il suo sogno. Ma la chimica che si è creata quella sera suonando insieme, quell’affinità musicale si è trasformata in una solida band, guadagnandosi rapidamente un posto nella scena musicale internazionale grazie alle loro brillanti e coinvolgenti esibizioni dal vivo. Le loro performance diventano sempre più frequenti. Fino a che la band sceglie il materiale per il loro album d’esordio, Ollabelle, la cui produzione esecutiva viene affidata a T-Bone Burnette. Un album che ricrea l’atmosfera di Music from big oink dei The Band (1968). 14 canzoni che racchiudono blues, gospel, folk, in un mix che racconta la musica tradizionale americana. Se nel primo disco gli Ollabelle
dimostrano di essere un gruppo di musicisti con un profondo feeling musicale, con Riverside battle songs del 2006 si confermano una band più che autentica e solida. Questa volta incidono brani originali, che ancora una volta dimostrano chiaramente di aver assorbito quei suoni vintage anni ’60, impregnati di folk, country, blues e soul, che hanno fatto la musica americana. Canzoni memorabili, che contengono un sapore classico, come Heaven’s Pearls, Fall Back, Dream the Fall, Blue Northern Lights, le cui tessiture riportano direttamente a quelle di Garth Hudson o come Reach for Love che avrebbe potuto cantare Rick Danko (The Band). E come poteva mancare una cover di Ola Belle Reed da cui la stessa band prende il nome (High on a mountain). Il produttore chitarrista Larry Campbell aggiunge altri strumenti come il pedal steel e il banjo conferendo agli arrangiamenti una preziosità già confermata dai cori e dalla splendida voce di Amy Helm.
Gli Ollabelle sono riusciti a creare una musica inimitabile, proprio grazie alla collaborazione dei suoi carismatici componenti. Un ibrido di stili musicali indigeni, folk, blues, gospel dove voci femminili si fondono e si alternano a voci maschili in arrangiamenti alla Ry Cooder, Pink Floyd o The Band. E non importa se la loro musica non sia prodotto del business musicale. Il loro unico interesse è che la gente ascolti e senta delle emozioni per ricongiungersi emotivamente a loro come in un cerchio.
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dal “Beirut Times” del 02/01/2009
I “guardiani”delle chiese di Warren Mass rrabbiate, intimorite e propense a lasciare il Paese. Sono le famiglie cristiane che qualche settimana fa si sono riunite nella chiesa di Sant’Elia di Ainkawa, una cittadina nel Kurdistan iracheno, poco lontano da Irbil. Le loro storie si assomigliano un po’ tutte. Molti vengono dalla capitale Baghdad, il capofamiglia è stato rapito e poi liberato dietro il pagamento di un sostanzioso riscatto. Così è maturata la decisione di lasciare il Paese. «Mi è rimasta una sola scelta, convertirmi all’islam, pagare una tangente alle milizie, spesso collegate ad al Qaeda, o dargli mia figlia», afferma costernato un uomo sulla quarantina.
A
Le chiese cristiane della regione sono state costrette a pagare il racket della protezione alle milizie islamiche, come succedeva con la Mafia nella Chicago degli anni Venti. Queste organizzazioni hanno base nella città di Mosul, nella provincia di Nineveh, e hanno provocato una risposta da parte delle comunità cristiane della zona: le Church guards sono ora l’ultima difesa di chiese, fedeli e abitazioni. La storia dei cristiani in Iraq è antichissima e anticipa di quasi sette secoli quella dei musulmani, con l’arrivo dell’apostolo Tommaso, nel 37 dopo Cristo. Il gruppo più rappresentativo è formato dai caldei che utilizzano un linguaggio liturgico simile all’aramaico che si parlava in Palestina ai tempi di Gesù. Fra questi la maggior parte seguono il rito caldeo orientale che è cattolico, poi ci sono piccole comunità di rito assiro, protestanti presbiteriani, anglicani ed evangelici, infine ortodossi di liturgia greca, armena e siriana. Durante la dittatura secolarista del sunnita Saddam Hussein, non c’era mai stata abbastanza libertà di
movimento che consentisse al radicalismo sciita di colpire i vicini cristiani e sunniti. Col vuoto di potere creatosi dopo la sua caduta la persecuzione dei cristiani è diventato un problema quotidiano. «L’unica scelta che ci hanno lasciato – spiega padre Ayman Danna, il prete cattolico siriaco della chiesa di San Giorgio in Bertella, che gira armato con due pistole – è quella di vivere o morire. Dobbiamo essere forti». Il reverendo anglicano White, mandato a Baghdad nel 1998, dall’arcivescovo di Canterbury, è dello stesso avviso. Ora officia in una chiesa sotterranea e durante un’intervista alla Cbs, ha ammesso quanto la situazione dei cristiani non sia mai stata peggiore di come è oggi. La maggior parte degli uomini di quella comunità sono stati uccisi o rapiti. La chiesa è nel quartiere di Dora e il responsabile militare americano della zona, il colonnello Rick Gibbs, ammette che delle 13 chiese di cui è responsabile, nessuna è più aperta ai fedeli. Ha spiegato anche a quali pressioni psicologiche siano sottoposti i membri delle comunità cristiane. Nel 2006 tutti i residenti di Dora hanno ricevuto una lettera minatoria indirizzata ai cristiani. A nome di un fantomatico tribunale speciale dell’Esercito islamico clandestino si invitavano tutte le famiglie ad abbandonare le proprie case. Altrimenti il loro sangue avrebbe per sempre macchiato le case del quartiere.
La chiesa presbiteriana di San Paolo a Damasco è diventato il porto franco di tanti rifugiati. Le storie che raccontano sono tutte improntate alla pau-
ra di essere uccisi, rapiti, di subire delle conversioni forzate, soprattutto per le ragazze e i più giovani rappresentanti dell’ecumene iracheno. La paura fra queste persone è che si sia giunti ad un punto di non-ritorno. Si teme che in Iraq si possa instaurare un regime di stampo iraniano e non ci sia più speranza per i cristiani. Moltissimi iraniani, secondo le testimonianze, stanno ottenendo la cittadinanza irachena.
Un artista di Bassora racconta come sia facile finire nelle liste di proscrizione dei fondamentalisti. Lui vendeva quadri agli inglesi. E’ dovuto fuggire con la famiglia in Siria. Nonostante la natura brutale e sanguinaria di Saddam, molti ammettono come non fosse in cima alla sua agenda politica la persecuzione dei cristiani, che erano anche membri del governo. Tareq Aziz, il cui vero nome era Michael Yuhanna, ad esempio, apparteneva alla comunità caldea. I cristiani iracheni, in soli 5 anni, sono passati da 800mila a 250mila. Un vero esodo biblico.
L’IMMAGINE
Siamo un Paese che si meraviglia se un cittadino dimostra la propria onestà Ha destato meraviglia e scalpore la notizia della restituzione di 160mila euro da parte della cassiera di un supermercato di Cagliari, la quale aveva casualmente ritrovato la grossa somma di denaro davanti allo sportello di una banca.Tutti o quasi si sono stupiti del gesto della donna che, invece, si è stupita dell’altrui meraviglia: «Ho fatto quello che dovevo fare», pare abbia detto la cassiera. Ora, se ci pensiamo un po’, la donna ha proprio ragione: la restituzione di soldi o di qualunque altra cosa di valore o meno che ritroviamo per strada dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo. E invece in questa nostra Italia non lo è, o non lo è più.Tanto che la notizia non sta nella restituzione quanto nella meraviglia degli stessi servizi giornalistici televisivi nel raccontare il fatto. Siamo un Paese che si meraviglia se un suo cittadino dimostra con naturalezza la propria onestà.
Alessia Martorelli
MA DOV’È LA CRISI? Com’è possibile credere a dati che sfuggono alla concretezza delle immagini? Opulenza, ressa davanti ai negozi, stazioni intasate, aeroporti presi d’assalto, autostrade traboccanti, alberghi al collasso. C’è incongruenza, qualcuno mente. Non si capisce cosa sia realmente questa crisi. Come sempre chi aveva denaro da spendere, ha denaro da spendere; e chi non ne aveva, non ne ha. Questa è la verità, al di là delle speculazioni. La crisi è nata con l’euro e ora ce ne siamo accorti.
Vittorio Messina
IL FINTO ISOLAMENTO DEI CONIUGI ROMANO Olindo e Rosa si sono rivisti in carcere dopo neanche un mese dalla sentenza che stabiliva, oltre all’ergastolo, due anni di isola-
mento. Si rivedono come se nulla fosse, con tutti i costi che un trasferimento di un detenuto comporta. Forse i giudici di sorveglianza non hanno ben chiaro cosa significhi isolamento. Fatte le debite proporzioni, se un isolamento di due anni si interrompe dopo appena un mese, quanto potrà durare il loro ergastolo?
Ugo Ladoro
PERCHÉ GHEDDAFI NON RISPETTA GLI ACCORDI PRESI? Pareva che grazie alla mediazione con Berlusconi tutti i problemi con Gheddafi fossero risolti una volta per tutte. Gli accordi erano più che chiari: noi caliamo le braghe e diamo al dittatore libico tutto ciò che desidera: gli mettiamo a nuovo il paese coi soldi delle tasse degli italiani, gli costruiamo l’autostrada e una serie di
Quel che resta di un’oasi Questo fusto di acacia ha circa 500 anni. Un tempo era un albero forte, cresciuto in un’oasi bagnata da un fiume nel deserto del Namib meridionale. Col passare degli anni il corso d’acqua ha cambiato “tragitto” per adattarsi al movimento delle dune, modificate dal vento. E gli alberi si sono rinsecchiti fino a divenire scheletrici tronchi dall’aspetto sinistro ospedali. Lui, in cambio, ci perdona per tutto ciò che gli italiani hanno costruito durante il periodo coloniale. Così smetteranno come per incanto le partenze dei barconi di immigrati clandestini dalle coste libiche. Ma, a giudicare dal ritmo con cui avvengono gli sbarchi, oserei dire che l’azio-
ne di prevenzione libica non stia dando i risultati sperati. Gheddafi non sta rispettando gli impegni presi oppure non è capace di tener sotto controllo le coste.
Domenica Petti
LE SUORE RAPITE IN KENYA Non ci fosse stato il Papa a ricor-
darcelo, ci saremmo dimenticati per sempre che due nostre concittadine italiane sono ostaggi in Kenya da quasi due mesi. Certo si tratta solo di due suore volontarie di fede cattolico-cristiana e non di una giornalista di grande fede comunista. Che tristezza!
Salvatore
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
La stretta soffocante della solitudine e della gelosia Dolce amor mio, la tua desiderata e baciata e ribaciata lettera in data del 7 non partì da Milano che l’8. Vuoi sapere che cosa facessi la sera del 7 alle ore 8 1/2 mentre tu eri indubbiamente in letto leggendo l’Eneide? Amor mio, lo dirò non senza vergogna: quella sera e la appresso la passai bevendo per divertire la tetra malinconia che mi rattristava tutto e mi faceva cattivo. Io non mi lamento de’ tuoi silenzi o de’ tuoi ritardi: credo che tu, e per le occupazioni di casa necessarie e per le relazioni di società pur necessarie nelle attinenze e condizioni tue, abbia più di una ragione a quei silenzi e a quei ritardi. Ma ciò non di meno sto male, quando ho aspettato in vano un tuo dolce foglio. E la sera, e la notte specialmente, sto male, male, male: mille e mille orribili pensieri, freddi, avvelenati, striscianti, si contorcono in tutte le me fibre, come serpenti che rizzino il capo e guizzando mordano da ogni arte. E la gelosia del presente e del passato mi avvolge tutto e mi stringe e mi soffoca, come un polipo immenso, informe, senza capo, senza branche, senza occhi; e in quella stretta feroce avrei bisogno di urlare, di sfogarmi, di far non so che. E son sempre solo; e nella mia solitudine nutro e alletto tutti quei mostri. Giosuè Carducci a Lidia (Carolina Cristofori Piva)
ACCADDE OGGI
UN PROVERBIO PER DI PIETRO Sono rimasto molto deluso da Di Pietro. Proprio lui, grande conoscitore di proverbi popolari e detti contadini che non manca mai di citare nei suoi discorsi, ha dimostrato di non conoscere o di aver dimenticato il detto: «Quando vedi il fuoco in casa altrui, butta l’acqua in casa tua».
Luigi Oneglia
IL PROFESSORE PREVEGGENTE Quale migliore valutazione delle varie Tangentopoli e Calciopoli della seguente? «Una morale che ritiene di poter fare a meno di conoscere le leggi economiche non è morale, ma moralismo, cioè l’opposto della morale. Una conoscenza della realtà che ritiene di agire senza l’etica, misconosce la realtà dell’uomo, ed è quindi irreale». E di quest’altra, quale migliore definizione sintetica sarebbe possibile dare delle ideologie del nazionalsocialismo tedesco, del realsocialismo sovietico e del liberisocialismo cinese? Infine: «Oggi abbiamo bisogno di un alto grado di concretezza in campo economico, ma anche di un alto grado di etica, affinché la scienza economica si metta al servizio dei veri obiettivi e le sue conoscenze divengano politicamente applicabili e socialmente sostenibili». Attenzione perché le frasi estrapolate da un discorso tenuto a un convegno mondiale di economisti nel 1987 dal Prof. Joseph Ratzinger potrebbero essere ripetute dai più inaspettati podi mediatici
e di cronach di Ferdinando Adornato
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Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
3 gennaio 1925 Benito Mussolini annuncia la presa dei poteri dittatoriali in Italia 1926 Il generale Theodorus Pángulos si nomina dittatore della Grecia 1938 Franklin Delano Roosevelt fonda l’organizzazione March of Dimes 1946 William Joyce viene impiccato per tradimento 1954 Iniziano ufficialmente le trasmissioni televisive, su un unico canale, della Rai 1958 Lo Sputnik 1, primo satellite artificiale della storia, brucia al suo rientro nell’atmosfera 1962 Papa Giovanni XXIII scomunica Fidel Castro 1987 Aretha Franklin è la prima donna inserita nella Rock and Roll Hall of Fame 1990 L’ex leader di Panama Manuel Noriega si arrende alle forze statunitensi 1993 A Mosca, George H. W. Bush e Boris Yeltsin firmano il secondo Trattato Start 2004 Il rover della Nasa, Spirit, atterra su Marte 2004 Iniziano ufficialmente le trasmissioni televisive con tecnologia digitale terrestre della Rai-Radio Televisione Italiana
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
globali per commentare le presenti e nuove crisi macroeconomiche e geopolitiche che verosimilmente punteggeranno anche il 2009.
Matteo Maria Martinoli
DISPENDIOSO VIAGGIO IN ISRAELE DI POLITICI E VIP PADOVANI Un’enorme comitiva di oltre 170 vip padovani (ai quali si aggiunge perfino l’ex ministro Pierluigi Bersani) compie un viaggio senza precedenti in Terra Santa, in questi giorni. Il gruppo, guidato dal sindaco Zanonato, comprende personaggi illustri e altolocati di politica (sinistra, centro e destra), religione, banche, sanità, università, enti e associazioni. Donano ad Israele un modello in scala 1:4 della Cappella degli Scrovegni e un escavatore, giunti con una nave ad Haifa. Si afferma che gli scopi del viaggio – politici, religiosi, turistici e culturali – promettono “interessanti ricadute”. Il comune cittadino riflette, valuta e si pone alcune domande. Gli scambi, il dialogo e le promozioni richiedono necessariamente la presenza fisica in Israele di tante persone? Quanto costa a Pantalone – direttamente e indirettamente – tanta larghezza e dovizia di mezzi, nonché l’eccessiva numerosità del gruppo di fortunati turisti? I soldi spesi non potevano trovare finalità alternative come l’adeguamento e la pronta manutenzione delle insufficienti, pericolose e trascurate strade padovane; oppure l’intensificazione nel contrasto dello spaccio di droga?
Gianfranco Nìbale
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dai circoli liberal
L’EUROPA DEL GUSTO ALLA SCHIAVITÙ Il leader per diventare tale deve creare il “gusto”per essere apprezzato. L’apprezzamento della massa per quel determinato “gusto”, genera e conferisce potere al leader. La storia ha dimostrato poi che il tipo di “gusto” attraverso il quale essere apprezzati, diventa una gabbia di comportamenti al punto da distruggere lo stesso leader e il suo popolo. Ad esempio, è difficile che al leader che crea il “gusto del manganello” e genera così il suo potere, la storia riservi una pensione tranquilla tra i propri nipotini. L’uomo politico è anche vittima dell’emergenza, “prigioniero della crisi” e schiavo delle scadenze. Agisce in una “oscurità cronica” ed è costretto a prendere delle decisioni gravi perché non è sicuro delle conseguenze. Oppure non decide. Come ricordò Kissinger: «Nel 1936, nessuno poteva sapere se Hitler fosse un nazionalista incompreso o un folle. Con il tempo si lo si è accertato, ma lo si è pagato con milioni di vite». Basta trarre le conseguenze dal “gusto”con il quale un leader genera il proprio potere nel suo Paese. Putin ha stabilizzato la Russia con il gusto autoritario e rancoroso verso il mondo perché orfana di un impero. Il “gusto”del nazionalismo aggressivo. Ne è un esempio la formazione giovanile “Nashi” - i Nostri - dai metodi paramilitari, piena di odio e senza limiti nelle loro azioni punitive, di propaganda e di squadrismo antidissidenza. Putin e Ahmadinejad hanno avviato intense relazioni diplomatiche ed è fuori discussione il ruolo di sostegno ai progetti nucleari iraniani. Chavez, che ha ipotecato buona parte dei futuri introiti petroliferi per l’acquisto di armi dalla Russia, ha ottimi rapporti sia con Mosca che con Teheran. Tutti insieme confidano, con altri paesi tra cui la Cina, a sostituire il dollaro con l’euro. E con questa allettante prospettiva di superpotenza valutaria l’Europa coltiva l’ambiguità nella sua politica estera, dividendo l’Occidente. Dimentica che ciò ha consentito agli Usa di essere una difesa dei valori democratici occidentali per anni, è stato il controllo delle fonti energetiche ed il primato sia tecnologico che militare. Il dollaro ne è stata solo una conseguenza valutaria. Molti leader europei hanno basato la loro legittimazione al potere sulla creazione di un “gusto” nel popolo composto da un ambiguo antiamericanismo. Un “gusto” che rende compatibile l’essere democrazie liberali e allo stesso tempo minimizza su assassini di giornalisti o di dissidenti, volontà distruttive razziali e bellicose, azioni dei kamikaze, di razzi Katyuscha, Qassam e Grad e le azioni di nuove Hitler-jugend. Il “gusto” del “meglio rossi che morti” degli anni ’80, il gusto alla schiavitù. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
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PAGINAVENTIQUATTRO Traguardi. Come Jfk anche nella corsa allo spazio. Per battere Pechino
È la luna il primo obiettivo di di Maurizio Stefanini rima di tutto, io credo che questa nazione dovrebbe dedicarsi all’obiettivo da raggiungere entro la fine del decennio, di far sbarcare un uomo sulla luna e farlo tornare in salvo sulla terra. Nessun altro progetto spaziale in questo periodo potrebbe essere di maggior significato per l’umanità, o più importante per l’esplorazione a lungo termine dello spazio; e nessun altro progetto potrebbe essere più difficile o costoso da realizzare. Così diceva John Fitzgerald Kennedy al Congresso il 25 maggio 1961, a pochi mesi dal suo insediamento. Salutato da molti come “il nuovo Kennedy”, Barack Obama primo nero a diventare presidente degli Stati Uniti - avrebbe intenzione di emulare il primo presidente cattolico innanzitutto in questo: nel progetto di portare di nuovo un uomo sulla luna, entro il 2015. Che sarebbero sei anni, rispetto agli otto
P
Il governo cinese ha lanciato la sfida: gli Usa si devono dimostrare pronti a raccoglierla in poco tempo
che passarono tra il discorso di Kennedy e la storica passeggiata di Neil Armstrong. Ma mentre allora c’era da fare tutto dal principio, adesso ci sarebbe solo da riannodare le fila del discorso interrotto nel dicembre del 1972, con quel volo dell’Apollo 17 che fu l’ultimo a por-
gico che fino ad allora aveva esposto il suo territorio ai missili e bombardieri provenienti dai territori Nato, mentre invece gli Stati Uniti erano del tutto al sicuro. E la nuova possibilità di essere colpiti dallo spazio aveva infatti costretto gli Usa a cambiare del tutto le loro dottrine strategiche, dalla risposta massiccia a quelle flessibile: cioè, non più un attacco nucleare in risposta a ogni attacco sovietico anche convenzionale, ma una risposta graduata, forze convenzionali a forze convenzionali e armi atomiche solo dopo l’impiego di armi atomiche. A quel punto, vista l’esposizione dell’Europa Occidentale e la superiorità convenzionale del Patto di Varsavia, era stato l’Occidente a trovarsi in posizione di inferiorità. A parte il significato psicologico, il recupero della superiorità nello spazio sarebbe stato appunto necessario a ristabilire l’equilibrio.
Per questo, una volta ottenuto il risultato, la luna è stata dimenticata. Ma non a caso sarebbe stata di nuovo la sfida spaziale delle “Guerre Stellari” l’arma usata da Reagan per far scoppiare letteralmente il sistema sovietico, sotto il peso della propria arretratezza tecnologica. «Nessuna nazione con ambizione di leadership verso le altre nazioni può aspettarsi di restare indietro in questa corsa allo spazio», disse anche Kennedy. E «scegliamo di andare sulla luna in questa decade e di fare le altre cose, non perché sono semplici, ma perché sono difficili». Effetto di volano che la nuova corsa alla luna potrebbe avere per un’economia in preda alla più devastante crisi degli ultimi ottant’anni a parte, Obama si trova ora di fronte al programma spaziale cinese, che mutatis mutandis rischierebbe di mettere gli Stati Uniti in una posizione di inferiorità strategiche simile a quella che si determinò tra il 1957, anno del volo dello Sputnik, e il 1965, anno in cui il programma Gemini stabilì i primi primati spaziali americani. A quanto è trapelato, la nota di allarme militare in base al quale il team di transizione di Obama vorrebbe impostare la nuova corsa alla Luna sarebbe evidenziata da un particolare: la strategia vincente individuata consisterebbe nel cercare di integrare il lavoro della Nasa con quello del Pentagono, sull’assunto che i razzi militari potrebbero essere più economici e più rapidi da realizzare rispetto ai programmi dell’Agenzia Spaziale. Ciò anche perché negli ultimi decenni ha sempre avuto a disposizione molti più stanziamenti: i 22 milioni di dollari ricevuti nell’anno fiscale 2008 rappresentano un terzo in più rispetto alla Nasa.
OBAMA tare esseri umani sul nostro satellite. Ovviamente, non si tratta solo di ambizione di passare alla storia. Il problema degli anni ’60 era che con il programma spaziale dello Sputnik, di Laika, di Yuri Gagarin e di Valentina Tereshkova l’Unione Sovietica non aveva solo stabilito i record sportivi del mandare nello spazio il primo oggetto di fabbricazione umana, il primo essere vivente terrestre, il primo uomo e la prima donna. Aveva anche posto termine alla situazione di handicap strate-
Il Pentagono condivide in pieno l’esigenza, proprio per il crescente pericolo che il programma spaziale cinese potrebbe rappresentare per il suo sistema di satelliti: ormai, l’imprescindibile “occhio” dell’apparato militare Usa. In particolare, c’è il test con cui nel 2007 la Cina è riuscita a distruggere un suo satellite obsoleto, dimostrando di avere il know how per fare altrettanto nei confronti di altri satelliti invece in piena efficienza, ma di proprietà altrui. A settembre la Cina ha poi mandato i suoi taikonauti a fare la loro prima passeggiata spaziale, il suo primo robot dovrebbe sbarcare sulla luna nel 2012, e una missione umana dovrebbe seguire a pochi anni di distanza. Non sarebbe una minaccia per gli Stati Uniti in modo diretto, ma indicherebbe un livello di efficienza tale da configurare una chiara minaccia indiretta.