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ISSN 1827-8817

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Le false opinioni somigliano

di e h c a n cro

alle monete false: coniate da qualche malvivente e poi spese da persone oneste

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Joseph De Maistre

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

Una polemica inventata sul discorso di Capodanno del Capo dello Stato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Europa, fallimento totale

Noi, la destra, il ”Riformista” e il messaggio di Napolitano

Debacle di Sarkò e della Ue: senza alcun esito le missioni. E in Italia si apre una polemica contro Frattini per aver riferito male al Parlamento un suo colloquio con la Livni, mentre Antonio Martino lo definisce un “fifone”

di Renzo Foa abato scorso gli amici del Riformista ci hanno collocato, assieme a Libero, tra «i giornali di destra» che hanno polemizzato con il messaggio di fine anno del presidente della Repubblica avendolo definito una “predica inutile”. Conosciamo il direttore e i giornalisti di quella testata come gente che sa leggere, che sa scrivere e sa ragionare. Che cos’è successo, allora, sabato scorso? Perché si è verificato un blackout? Già, perché se avessero ragionato anche solo un istante, si sarebbero accorti che mentre nell’aggettivo “inutile” usato da Libero (con l’aggiunta di “noioso”) c’era effettivamente un attacco a Napolitano, nel nostro richiamo einaudiano (le “prediche inutili”, appunto) c’era viceversa una critica esplicita ai leader e alle forze politiche.

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L’Occidente nacque a Lepanto e a Vienna di Michael Novak a pagina 12

Bossi minaccia il governo

Tutto il Nord va allo scontro per Malpensa di Franco Insardà alpensa è sempre più avvolta nella nebbia. Lo scalo lombardo è al centro di una querelle che rischia di avere effetti dirompenti sul governo e sulle alleanze locali. Domani Umberto Bossi incontrerà Berlusconi per ribadire le posizioni della Lega sulla nuova Alitalia e sul possibile partner straniero. Il Carroccio chiederà, nel caso in cui non venga difesa l’operatività di Malpensa, un’immediata liberalizzazione dei diritti di traffico aereo e per i lavoratori coinvolti lo stesso trattamento dei dipendenti di Alitalia. Ieri è saltato anche l’incontro tra il numero uno di Lufthansa, Wolfgang Mayrhuber con i vertici della Cai, trasformato, poi, in una conference call con il presidente Roberto Colaninno.

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L’ESERCITO ISRAELIANO COMINCIA L’ATTACCO ALLA CITTÀ

La battaglia di Gaza City

alle pagine 2, 3, 4 e 5

L’ex ministro, veltroniano, lascia. Morando nuovo commissario a Napoli

La Iervolino spacca il Pd Dopo le inchieste, la nuova giunta. Ma Nicolais si dimette di Errico Novi

ROMA. Alla fine Rosetta si concede

povero Giorgio Nugnes, morto suicida, di persino un gesto di cavalleria: «Mi auun dipietrista costretto alle dimissioni dal guro che Luigi Nicolais ritiri le dimissuo leader, e di un bassoliniano, Gennaro sioni, io collaboro per radicare il partito Mola, titolare della delega ai rifiuti. Camnella città». È un fair play da vincitori. bia poco nella sostanza, e anzi l’unica veAlla fine a Napoli ha trionfato il vecra novità è nella fuga a gambe levate delchio potere, quello imperturbabile del l’uomo che avrebbe dovuto pensionare sindaco Iervolino e di Antonio BassoliBassolino: Nicolais appunto, spacciato da no. Ha perso il Pd come partito, come anni ormai come il futuro possibile goverstruttura ufficiale, nella persona dell’ex natore, o primo cittadino del capoluogo. ministro alla Funzione pubblica, nonL’idea che circola nei palazzi del potere ché scienziato illustre, che ieri ha lanapoletani è ben diversa: lì sanno che il Rosa Iervolino ha attribuito le deleghe sciato la carica di segretario provincia- dei nuovi assessori della giunta di Napoli. segretario nazionale è messo male, malisle. Poi è arrivata la nomina di Enrico simo, e che loro, gli intoccabili, hanno una Si consolida l’asse con Bassolino Morando a commissario del Pd a Napoprospettiva in fondo in fondo migliore delli. Comunque la repubblica autonoma partenopea va avanti, la sua. Dovesse pure sciogliersi il Pd, non ci sarebbe alcun traucon un rimpasto che in realtà consiste nella sostituzione dei ma. Il centrodestra? Improbabile che possa approfittarne. tre assessori arrestati per l’inchiesta sul “Global service”, del se g ue a p a gi na 7

s eg u e a pa•giEnURO a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 6 GENNAIO 2009

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

3•

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Diplomazie. Il presidente francese non si fida della troika della Ue e le divergenze interne paralizzano gli sforzi

Il fallimento annunciato Gerusalemme respinge la mediazione europea e quella di Sarkozy Abu Mazen cerca la sponda di Mosca in vista del voto all’Onu di Enrico Singer li aerei si sono quasi incrociati sulla pista di Sharm el Sheik: quello della troika europea che, dopo un incontro con il presidente egiziano, Hosni Mubarak, ripartiva alla volta dell’aeroporto Ben Gurion in Israele e quello del presidente francese, Nicolas Sarkozy che arrivava da Parigi per un colloquio con lo stesso interlocutore. Una missione della Ue, l’altra dell’Eliseo. Come se la Francia non facesse parte dell’Unione – che Sarkozy ha guidato fino al 31 dicembre scorso da presidente di turno – e come se uno dei tre membri della troika non fosse proprio il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, che accompagna il ceco Karel Schwarzenberg – rappresentante dell’attuale presidenza della Ue – e lo svedese Carl Bildt che si prepara per la presidenza del secondo semestre del

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No israeliano agli osservatori: sarebbe più utile impedire il riarmo di Hamas da parte di Iran e Siria 2009. Un via vai che si è ripetuto più tardi a Gerusalemme e poi a Ramallah e che continuerà oggi in Libano e in Siria e che basta da solo a dimostrare quanto sia divisa l’Europa di fronte alla guerra nella Striscia di Gaza. Una spaccatura che è già un fallimento: ieri sera a Ramallah c’è stato anche un incontro apparentemente “chiarificatore” tra Sarkozy e Schwarzenberg che, in realtà, è servito soltanto a stendere un velo pietoso sulle divergenze. Che non sono tanto sull’obiettivo da raggiungere - la fine «più rapida possibile» dei combattimenti, come ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Javier Solana, che accompagna la troika - quanto sulla valutazione dell’intervento militare israeliano e, in particolare, sull’offensiva terrestre lanciata sabato.

Per Nicolas Sarkozy si tratta di una mossa che «allontana la possibilità di una tregua». Per la nuova presidenza della Ue oltreché per la cancelliera tede-

Una telefonata con l’israeliana crea un equivoco sull’attacco di terra

Scoppia il caso Frattini-Livni E Martino: «È un fifone» ROMA. Cosa si sono detti veramente i ministri Franco Frattini e Tzipi Livni nella fatidica telefonata di una settimana fa? Liberal è in grado di ricostruirlo, svelando la genesi dell’incomprensione che ha causato un caso politico nazionale. Walter Veltroni aveva definito la posizione della Farnesina «inadeguata», ma l’attacco vero è arrivato proprio dalle fila del centrodestra. «È un fifone», così l’ex ministro della Difesa, Antonio Martino definisce il ministro degli Esteri, Frattini, per spiegare la scivolata diplomatica sulla crisi di Gaza.

La querelle nasce dall’intervento fatto nell’audizione congiunta delle commissioni Esteri, a palazzo Madama il 30 dicembre. «Sia la collega Tzipi Livni, sia il presidente Peres al presidente Napolitano, hanno confermato di non avere intenzioni di sferrare un attacco su Gaza, per le conseguenze che questo produrrebbe: sia una rioccupazione – se pur temporanea – di Gaza, da cui Israele si era totalmente ritirato, sia per le conseguenze ancor più tragiche in termini di vite umane». In pratica Frattini dava per certo che Tsahal non avrebbe varcato i confini della Striscia. Domenica guardando le agenzie sarà caduto dalla sedia. «Il nostro amico Frattini è un fifone, ed è anche colpa del nostro governo se si ha l’impressione che l’unica politica estera europea sia quella incarnata da Sarkozy», continua Martino nell’intervista alla Stampa di ieri. Ma cosa ha generato quello che le nostre fonti israeliane definiscono un misunderstanding. Le frasi incriminate della telefonata con la Livni che potrebbero aver ingenerato l’incomprensione sono: «Non vogliamo rientrare a Gaza. Non è nostra intenzione rioccupare quel territorio. Lo abbiamo lasciato per sempre». Precisiamo che non si tratta di una ricostruzione stenogra-

fica del colloquio, che è “riservato” per definizione. La Livni esprimeva così un disinteresse di Gerusalemme per Gaza, che non andava interpretato come una volontà di subire supinamente gli attacchi dei missili Qassam. Il senso era che ogni operazione militare sarebbe stata a tempo. Tanto per capirci, non sarebbe stata una occupazione “temporanea” come la prima avvenuta in Libano, e durata anni. Solo il tempo di «azzerare» le capacità militari di Hamas, per lasciare spazio all’ala politica e difendere la popolazione civile israeliana dei centri più colpiti dagli attacchi. L’unica maniera per difendersi è occupare le zone di lancio. Per cui l’azione di terra era militarmente inevitabile. Parliamo di Hamas, un’organizzazione che all’articolo 22 e 28 del proprio statuto elenca i nemici «sabotatori» da combattere e tra questi «il Rotary e i Lions club», oltre al drappello di congiurati sionisti, massoni e quant’altro. L’Europa non si rende conto che l’ala militare dei Fratelli musulmani, per loro stessa definizione, non abbia alcuna intenzione di aprire un dialogo.

«Frattini è attanagliato dal terrore di sembrare troppo aggressivo con i palestinesi, il risultato è che avalla l’idea, sciaguratamente sbagliata – continua Martino - che sia in corso un attacco di Hamas contro Israele». Il capo della Farnesina si è difeso confermando la versione iniziale e ha aggiunto che andrà nei Territori palestinesi «appena le condizioni saranno mature». Ma le fonti israeliane di Liberal sottolineano come non ci sarebbe stato alcun interesse d’Israele nel mettere in imbarazzo un Paese amico come l’Italia, dando false o parziali informazioni sulla reale volontà di Gerusalemme. Insomma il ministro sarebbe scivolato su di una buccia semantica.

sca Angela Merkel - il diritto di Israele di difendersi da Hamas è sacrosanto. Il risultato? Un pasticcio di contrapposizioni, di proposte e di giudizi che ha dato un altro colpo alla credibilità della diplomazia europea che, proprio in questo momento di interregno a Washington in attesa dell’insediamento di Barack Obama, ha avuto l’occasione - che a questo punto di può definire mancata - di giocare un ruolo da protagonista. Ai negoziatori europei ha risposto in modo molto chiaro il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, che, dopo l’incontro con la troika della Ue, ha ribadito i punti-chiave della posizione di Gerusalemme. Le operazioni militari in corso a Gaza con la ricerca casa per casa degli arsenali di Hamas e dei tunnel scavati per far arrivare le armi sono «una forma di legittima autodifesa». L’equazione secondo la quale «Hamas può sparare su Israele, ma quest’ultimo deve rimanere pressoché passivo» è finita: ogni volta «che saremo attaccati risponderemo». La guerra al terrorismo non può finire con un accordo: «Se firmassimo un accordo con Hamas non saremmo più in grado di far avanzare il processo di pace».

A questo punto la proposta della troika europea di inviare osservatori internazionali nella striscia di Gaza, subito dopo la conclusione di un cessate il fuoco, «non è utile».Tzipi Livni ha detto che sarebbe più opportuno organizzare una missione internazionale con il compito di impedire il riarmo di Hamas da parte dell’Iran e della Siria. Nella conferenza stampa a conclusione dei colloqui tra la Livni e la troika europea, il ministro degli Esteri ceco, Karel Schwarzenberg, ha rilanciato la richiesta della Ue per arrivare, almeno, a una tregua umanitaria. Ma nella delegazione europea, la sensazione netta è che per Israele una tregua sarà possibile soltanto dopo che l’esercito avrà realizzato tutti i suoi obiettivi a Gaza. Come dire quando avrà individuato e distrutto i tunnel per i rifornimenti clandestini di armi e i depositi dei missili che Hamas continua a lanciare conto le città del Negev - trenta anche ieri - e quando avrà disarticola-


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Allarme anche in Libano, trovati missili katiuscia pronti al lancio vicino al confine meridionale

Il vero piano di Israele: snidare le cellule di Hamas tra moschee e ospedali di Pierre Chiartano entre le truppe di Gerusalemme cominciano gli scontri e i rastrellamenti a Gaza city, scatta l’allarme Hezbollah a nord. Da giorni si susseguono i rapporti dell’intelligence militare su movimenti sospetti lungo il confine in Libano. Il 26 dicembre, nel settore controllato dai militari italiani, sarebbe stato sequestrato un lanciatore katiuscia. A nord est di Nakura, a soli 5 chilometri dal confine israeliano, un reparto del contingente italiano di Unifil 2 avrebbe scovato 8 razzi inseriti in un lanciatore mobile: cinque vettori da 122mm e 3 da 105 mm. Lo stato operativo dell’arma era con il timer inserito, ma senza spolette d’innesco. Cosa potrebbe voler dire? Sarebbe stata necessaria una semplice operazione, in un secondo momento, per far partire la micidiale salva di razzi verso Israele. Contemporaneamente, ieri mattina, è stata data la notizia della mobilitazione dei riservisti di Tsahal, l’esercito di Gerusalemme, verso il confine nord del Paese. Pianificazione combinata per alleggerire la pressione su Gaza? Difficile da dire, visto che Gerusalemme a sud ha reagito solo dopo aver subito attacchi per un anno e mezzo (dal 2007), con oltre 3mila lanci. Ma non si potrebbe escludere, vista la totale irrazionalità della logica che ha guidato la rottura dell’ultima tregua da parte di Hamas.

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ganizzando l’ultima difesa, ieri ha dato il via allal vera operazione. Yuval Diskin, direttore dello Shin Bet, il servizio segreto interno d’Israele, ha dichiarato ieri che «il lancio di missili contro Israele potrebbe continuare ancora per alcuni giorni» prima che tutte le zone di lancio possano essere occupate dalle forze di terra. È confermato inoltre il momento di grande difficoltà vissuto dalla leadership di Hamas all’estero. «Cercano un accordo per un cessate-il-fuoco e sono stati presi in contropiede dal mancato appoggio dei Paesi arabi. La situazione a Gaza – continua Diskin – è simile. La leadership di Hamas, nella Striscia e all’estero, sa di subire un attacco che è una minaccia per la sua stessa esistenza».

L’intelligence di Tsahal afferma che «si sono resi conto che, violando la tregua, hanno commesso un errore strategico»

Le operazioni militari israeliane potranno finire soltanto quando saranno individuati e distrutti i tunnel e i depositi dei missili Qassam to la struttura militare del movimento fondamentalista islamico. Alla troika della Ue,Tzipi Livni ha ripetuto quello che aveva già detto a Sarkozy quando, il 31 dicembre, lo aveva incontrato all’Eliseo: a Gaza le forze armate israeliane «stanno facendo di tutto per evitare vittime civili», Israele «non ce l’ha con i palestinesi, ma con Hamas». Il ministro degli Esteri ha ricordato anche che nella conferenza di Annapolis, la scorsa estate, il suo Paese aveva confermato il processo di pace che dovrebbe portare alla nascita dello Stato palestinese, ma che ad Hamas «non può essere data legittimazione attraverso un accordo». È Hamas che continua a non rispettare le condizioni poste dalla comunità internazionale, Europa compresa, che prevedono, al primo punto, il riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele. Le missioni parallele della Ue e di Sarkozy si sono poi spostate a Ramallah dove gli incontri sono stati con il

presidente dell’Anp, Abu Mazen, che poco prima aveva avuto un colloquio telefonico con il presidente russo, Dmitri Medvedev, che si è concluso con un appello comune per un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza. È evidente che Abu Mazen, oltre a quella europea, cerca la sponda della Russia in vista del voto che ci sarà all’Onu, probabilmente venerdì prossimo, su una risoluzione per fermare i combattimenti. Il presidente palestinese è partito per New York subito dopo i due incontri separati con la trokia europea e con Sarkozy. Tra i Paesi che in queste ore si stanno schierando, è da notare che la Turchia - in lista d’attesa per entrare nella Ue - ha preso una posizione duramente antiisraeliana. Il premier, Recep Tayyip Erdogan, ha detto che «Israele sarà maledetto per gli innocenti morti sotto le bombe e per le lacrime delle madri palestinesi». Un altro elemento di polemica nel già diviso fronte europeo.

Comunque anche in questo caso non ci sarebbe un interesse politico ad aprire un secondo fronte, neanche per i seguaci di Nasrallah, che si stanno appena riprendendo dai danni della guerra del 2006. Ma la situazione è fluida e la presenza di oltre 400mila palestinesi in Libano, con alcune cellule di terroristi legati ad al Qaida, non garantisce dall’azione di gruppi isolati. La logica però non aiuta, perché anche in questo caso Hezbollah, come Hamas, hanno dimostrato di seguire altri percorsi da quelli guidati dalla responsabilità politica. A sud, invece, azzerare la capacità militare di Hamas è, in sintesi, il piano operativo di Tsahal, con l’operazione Cast Lead, che domenica ha dato il via all’ingresso delle truppe nella Striscia di Gaza e ieri l’attacco a Gaza city essersi posizionato sul terreno. Prima per dividere in due, lungo la linea di 12 chilometri che separa il confine con Israele e la costa mediterranea. Poi per incominciare la vera missione: ripulire Gaza dall’ala militare di Hamas. Dopo essersi tenuto alla larga dalle zone densamente abitate, dai campi profughi e dagli ospedali dove Hamas starebbe or-

«Hamas preferisce combattere in zone urbane densamente popolate – spiega il capo di Sato maggiore dell’esercito con la stella di David, Gabi Ashkenazi – e l’intensità dei lanci è minore del previsto, ma non è stata ancora annullata». Ora i combattimenti sono a breve distanza, per garantire maggiori risultati e meno vittime civili. Secondo il capo dell’intelligence militare il maggiore generale Amos Yadlin «Hamas si è resa conto che, violando la tregua, ha commesso un errore strategico». Dozzine di basi sono state danneggiate, i depositi di armi, le infrastrutture e i laboratori militari distrutti. La capacità di muoversi attraverso i tunnel è stata decisamente ridotta. «I leader dell’organizzazione sono in grado solo di badare a se stessi. Sta montando la rabbia fra i palestinesi per questa situazione», l’analisi del capo dell’intelligence militare. Comunque i militanti islamici si starebbero posizionando negli ospedali e nelle moschee, nella convinzione che gli israeliani non li attacchino. Ne sono sono stati segnalati nelle città di Gaza city, Jabalya, Khan Younis e Rafah che sarà il ruolino di marcia per le operazioni. Contemporaneamente a sud stanno tentando di riaprire i tunnel che li collegano al territorio egiziano. Il grosso del lavoro sarà snidare queste cellule militari nascoste fra i civili.


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Analisi. La leadership del movimento ha subito una profonda trasformazione È tornata ad essere un comando militare a tutti gli effetti, come alla nascita

Fino alla fine di Hamas? Per quanto possa essere pesante, l’attacco israeliano nella Striscia difficilmente potrà annientare il nemico di Antonio Picasso e incognite relative ad Hamas non riguardano unicamente il suo destino una volta che sarà finita l’offensiva israeliana, ma anche la sua situazione attuale. I bollettini che continuano a giungere dalla Striscia di Gaza potrebbero portarci alla conclusione che il movimento islamista è sull’orlo del baratro. La tattica di penetrazione nella Striscia adottata da Tsahal sta dimostrando che l’obiettivo ultimo è colpire al cuore Hamas, sia in termini operativi sia per quanto riguarda la sua leadership. Tuttavia, se c’è una cosa che la guerra del Libano del 2006 ha insegnato a Israele, è proprio evitare di esporsi in affrettate dichiarazioni di vittoria. Infatti, l’avanzata delle truppe israeliane nella Striscia, sebbene così incalzante, non esclude una futura reazione da parte di Hamas. I raid aerei, il cannoneggiamento dell’artiglieria e l’ingresso dei Merkava avranno sicuramente gravato sulla sua operatività. Tuttavia non l’hanno ancora colpito al cuore. È anche vero che, in un fronte di guerra come a Gaza, è difficile localizzare l’establishment di Hamas. Ammesso e non concesso che essa si trovi nella Striscia. Più volte è stato detto che il movimento presenta una serie di fratture interne che da un lato hanno condizionato la sua linea politica, facendo prevalere quella più radicale, dall’altro potrebbero rappresentare il potenziale spazio di manovra per l’isolamento delle frange più estreme e il conseguente confronto con i fautori del moderatismo.

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Fino al mese scorso, si tendeva a indicare l’ex premier Haniyeh come l’esponente di maggior rilievo di questa fazione. A lui veniva contrapposto un altro dirigente dalle posizioni più rigide: Mahmoud Zahar, membro egli stesso del decaduto governo Haniyeh, in qualità di ministro degli Esteri, ma soprattutto promotore del colpo di mano operato dal movimento su

Gaza nel giugno 2007. Su una terza orbita, infine, viaggiava l’ufficio politico insediato a Damasco. Anzi, quello di Khaled Meshal e del suo portavoce, Abu Marzuk, viene spesso indicato come la Segreteria generale di Hamas. Oggi, questa distribuzione degli orientamenti – sebbene permanga – ha subito una significativa metamorfosi.

Con lo scadere della tregua, il 19 dicembre, ma soprattutto con l’intensificarsi degli scontri, le istanze favorevoli a un nuovo negoziato si sono indebolite progressivamente. La voce di chi voleva un rinnovo del cessate il fuoco e di un parallelo confronto con Fatah – ricordiamoci che Hamas non è solo il nemico di Israele, ma anche il più strenuo avversario del movimento che fa capo ad Abu Mazen – è stata coperta dagli strali di guerra lanciati da altri dirigenti del movimento. Non è un caso che, in questo momento di così elevata tensione, la figura di Haniyeh sia come scomparsa.Tre anni fa l’ex premier fu scelto per guidare il nascituro governo palestinese proprio perché convinto che Hamas necessitasse di effettuare lo stesso cambio di passo fatto da Hezbollah in questi anni e attualmente in corso d’opera. Haniyeh, allora, ebbe l’intuizione che, in seguito alla traspa-

rente vittoria riportata alle elezioni, Hamas sarebbe dovuto passare dall’essere un movimento politico-militare, caratteristica che ha sempre offerto ai suoi critici la possibilità di classificarlo unicamente come gruppo terroristico, a un partito politico a tutti gli effetti, come sta facendo appunto Hezbollah. Certo, l’operazione avrebbe richiesto anni e anche la rinuncia di alcuni dei suoi cardini ideologici, in primis il rifiutarsi di riconoscere Israele. Tuttavia, la leadership del governo palestinese era apparsa come un’occasione d’oro affinché Hamas cominciasse a seguire questo percorso politico. Ma l’opportunità non fu colta. In parte perché la comunità internazionale non diede ad Haniyeh la possibilità di governare. Ma in parte anche perché alla linea politica prevalsero istanze più radicali.

È difficile pensare a queste occasioni perdute nel momento in cui seguiamo le evoluzioni del conflitto. Tuttavia, per capire le responsabilità di Hamas in questa escalation – quelle israeliane non sono attinenti in questo spazio – bisogna risalire proprio a quei diciotto mesi che separano la nascita del governo Haniyeh dal colpo di mano a Gaza. Perché proprio

Militanti di Hamas rispondono al lancio di fumogeni con le pietre, al confine fra la Striscia di Gaza e il territorio israeliano. La dirigenza del movimento musulmano ha subito una profonda spaccatura, dall’inizio dei raid. È tornata infatti in auge l’ala oltranzista, che non vuole dialogare e che cerca a tutti i costi di ottenere la cancellazione di Israele quest’ultimo avvenimento avrebbe dovuto suggerire all’Occidente, alla presidenza dell’Anp e alla stessa Israele che, per evitare quanto sta accadendo oggi, ci si sarebbe dovuti spendere in favore degli esponenti più moderati all’interno di Hamas. La presa di Gaza va vista come spartiacque tra il periodo in cui, in seno al movimento, prevale la linea dei negoziati e quello in cui i fautori della corrente più oltranzista hanno preso il sopravvento.

Oggi, questi ultimi stanno gestendo la crisi nel modo più operativo possibile. Hamas, infatti, ha serrato i suoi ranghi. È tornato a essere un movimento politico con una forte prevalenza militare. Lo si vede nella sua propaganda e nelle dichiarazioni ufficiali. Le foto dei suoi miliziani armati e gli slogan che inneggiano alla resistenza ci confermano

che il movimento si considera in pieno stato di guerra. Di conseguenza, è il suo braccio armato, le Brigate Ezzedine al Qassam, a godere della massima esposizione mediatica. Uomini come Zahar – proprio ieri apparso in televisione – il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, oppure come il comandante delle stesse Brigate Qassam, Ahmed Jaabri, sono i protagonisti della barricata palestinese. Ed è significativo, inoltre, che nella lista dei caduti si leggano i nomi dei suoi più tenaci capi militari, primo fra tutti Nizar Rayyan, ma anche Muhammad al Shalfu e Husam Hamdan.

Vale a dire coloro che non hanno mai disposto di un’influenza politica pari a quella di Haniyeh, ma che ora, con una guerra in corso, hanno assunto il controllo del movimento. A dimostrazione di questo vi è la loro stessa morte per mano israeliana. Da mesi, infatti, Tsahal programmava un possibile attacco a Gaza. E, in questo periodo, ha studiato come colpire nel modo più preciso possibile sia l’establishment politico di Hamas sia i suoi quadri militari, dando la precedenza a questi, la cui operatività – logicamente – doveva essere la prima da eliminare.


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Ora per ora, la giornata che ha portato l’esercito di Israele a Gaza City

Alle sette della sera a Shejaiya si cominciò a combattere di Vincenzo Faccioli Pintozzi quilla il telefono, nelle case di Gaza City, e a rispondere è una voce pre-registrata in arabo. Che avverte: «Per la vostra sicurezza, siete pregati di evacuare questa abitazione». A ribadire il concetto ci pensano le decine di migliaia di volantini, lanciati dai mezzi israeliani in volo sulla Striscia, su cui si legge: «A causa delle azioni terroristiche che alcuni elementi stanno portando a termine dall’area in cui vivete contro lo stato di Israele, le forze israeliane sono costrette a una immediata risposta e azione nella zona; quindi, per la vostra sicurezza, vi chiediamo di evacuare l’area appena possibile». L’area è quella d Gaza City, e le truppe israeliane hanno praticamente tagliato in due la Striscia, impedendo gli spostamenti tra le due parti. Non sembra però che le truppe abbiano cominciato a entrare nelle aree densamente abitate, limitandosi per ora ad attestarsi ai margini. Anche se la prima violenta battaglia è avvenuta a Shejaiya, est della città, Secondo il corrispondente militare del primo canale della Tv israeliana, nel corso dei combattimento sono stati fatti prigionieri decine di miliziani di Hamas e di altre milizie che sono stati portati in Israele per essere interrogati. Tuttavia, il britannico Times punta il dito contro l’esercito di Israele, che starebbe usando proiettili al fosforo bianco - sostanza vietata che causa ustioni gravissime se entra in contatti con la pelle - per coprire con schermi fumogeni l’avanzata delle proprie truppe nella Striscia di Gaza. Secondo il quotidiano, che mostra sul giornale un’immagine dell’esplosione, l’uso di queste armi è stato registrato nel nord della Striscia: «Si tratta di nubi che assomigliano a tentacoli che si allargano verso terra da un’esplosione in cielo», come quelle che avvolgono la capitale della Striscia, un’area attorno alla quale si combatte furiosamente nel decimo giorno di guerra. Gaza City, ha dichiarato il ministro della Difesa Ehud Barak, «è parzialmente circondata». Intanto Israele ha ulteriormente intensificato le operazioni militari: 30 gli obiettivi bombardati nella notte, con la lista delle vittime (sempre in aggiornamento) che sale fino a 555 unità. Di questi, una novantina sono bambini, mentre incalcolabili sono i feriti. Hamas parla di 2.700 ricoverati, di cui almeno la metà «in gravissime condizioni».

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Nella lista dei caduti del movimento si leggono i nomi dei suoi più tenaci capi militari, primo fra tutti Nizar Rayyan, ma anche Muhammad al Shalfu e Husam Hamdan. Che diventano eroi Di tutt’altro genere è, invece, la situazione della Segreteria di Hamas a Damasco. In questi giorni di guerra, il radicalismo di Khaled Meshal è tornato a farsi sentire. Ciononostante, risulta difficile comprendere come un dirigente così importante per il movimento possa far prevalere la sua strategia presso uomini che vivono in un contesto completamente diverso. Perché una cosa è seguire lo svolgimento degli scontri dalla capitale siriana, un’altra è esserne testimoni rinchiusi nei bunker di Gaza. Il fatto che Meshal continui a essere considerato il Segretario di Hamas ha ben poco peso se si contestualizza la separazione – logistica e fisica – tra la sua Segreteria e il territorio in cui Hamas è attiva. Di conseguenza, i suoi appelli per una terza Intifadah vanno interpretati più come un tentativo di ribadire il proprio carisma di fronte a un movimento che ha difficoltà ad ascoltarlo. Infine, non resta che parlare di Abu Marzuk. A onor del vero, quest’ultimo – porta-

voce di Meshal, quindi anch’egli a Damasco – ha ricoperto finora un ruolo secondario, quasi da eminenza grigia, preferendo incarichi dietro le quinte rispetto ad altri di maggiore visibilità.

Ciò non toglie che sia sua la dichiarazione più propositiva che giunge da Hamas dallo scadere della tregua a oggi. Il suo invito, rivolto a tutti i palestinesi, di “unirsi e dialogare”, rispecchia la richiesta di Abu Mazen all’inizio di dicembre. Parole espresse a titolo personale, oppure anche a nome di Meshal? Il dubbio suggerisce l’eventualità che Hamas voglia provare a giocare l’ennesima carta. Per avere una nuova leadership che sappia traghettarlo oltre i problemi che sopraggiungeranno a conclusione di questa offensiva e che possa riprendere il discorso politico interrotto ormai un anno e mezzo fa. Prima con Fatah, poi magari con l’Occidente. *Analista Ce.S.I.

Da quando è scattata la fase terrestre dell’operazione Piombo Fuso si contano già novanta ulteriori vittime. Ma Barak ha fatto sapere che la campagna militare a Gaza andrà avanti «perché non è ancora stato raggiunto l’obiettivo fondamentale, porre al sicuro gli abitanti del sud del Paese dagli attacchi con i razzi e i mortai sferrati dalla Striscia dagli estremisti palestinesi». E fonti militari israeliane parlano di «almeno altre due settimane di scontri». A sua volta, il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni ha sottolineato che il suo Paese «non sta semplicemente ricorrendo alla legittima difesa, ma combattendo contro il terrorismo».Tuttavia Israele ha dichiarato di non voler colpire vittime civili: in quest’ottica, ha autorizzato nel pomeriggio di ieri l’ingresso nell’enclave dal valico di confine di Kerem Shalom di un convoglio umanitario, un’ottantina di camion carichi di aiuti destinati alla popolazione. L’iniziativa è stata giudicata «insufficiente» dall’Unione europea.

Secondo fonti palestinesi, le vittime salgono a 555 unità. Continua anche il lancio di razzi contro Israele: colpito e distrutto un asilo nido, vuoto al momento del colpo

Una posizione a cui si accosta anche l’Onu. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Antonio Guterres, ha chiesto infatti l’apertura delle frontiere della Striscia di Gaza per permettere ai palestinesi di lasciare il territorio. I palestinesi, ha scritto Guterres in un comunicato, «devono poter lasciare la Striscia di Gaza e trovare la sicurezza in altri Paesi, conformemente al diritto internazionale». Intanto si sono intensificati i tiri di razzi da Gaza, che anche ieri sono riusciti a raggiungere località che distano da Gaza una quarantina di chilometri, come la città di Ashdod. Qui, un razzo qassam ha colpito un nido di infanzia, che fortunatamente era vuoto, ma che è stato distrutto dal missile. Ma i razzi hanno raggiunto anche numerose altre localita, inclusa la città di Sderot, dove un appartamento è stato distrutto. Due persone sono state lievemente ferite. Dopo giorni di silenzio, la dirigenza di Hamas a Gaza ha cominciato a dar segni di vita. Uno dei suoi maggiori esponenti, Mahmud al Zahar, in un discorso trasmesso dalla televisione di Hamas (che ancora riesce a operare da uno studio mobile) ha assicurato che «la vittoria arriverà, con l’aiuto di Allah» e ha affermato che «le sofferenze di questi giorni ci aiuteranno domani a realizzare i nostri obiettivi nazionali, inclusa la liberazione di tutta la Palestina».


politica

pagina 6 • 6 gennaio 2009

Riforme. La bozza Alfano sparisce dall’agenda del governo, aspettando la Consulta sul «lodo»

La giustizia congelata di Francesco Capozza

ROMA. Un gennaio caldo, anzi, caldissimo quello che aspetta il governo Berlusconi alla ripresa dalla lunga pausa vacanziera. Oltre al federalismo, che la Lega vorrebbe vedere approvato già prima della fine del mese (secondo Calderoli «Bossi è fiducioso sulla possibilità di portare a casa il federalismo entro breve. Ora il clima è quello giusto, ci aspettiamo che alle parole seguano i fatti»), alla questione Alitalia e Malpensa (con il governatore lombardo Formigoni che ci tiene a precisare che la partita è tutt’altro che chiusa, suscitando, ancora una volta, l’ira di Bossi e dei suoi), alla creazione (molto osteggiata dal Carroccio e dall’area aennina del Pdl) di due nuovi ministeri per la rossa Michela Vittoria Brambilla e per Ferruccio Fazio, c’è da risolvere la complessa questione legata alla Giustizia. Complessa perché, oltretutto, ha varie sfaccettature, tutte apparentemente spinose ancorché irrisolte. C’è la bozza Alfano sulla riforma del sistema giudiziario (che il premier, nella conferenza stampa di fine anno, aveva promesso sarebbe stata presentata nel primo Consiglio dei ministri di gennaio) che, a quanto sembra, non solo è tutt’altro che pronta, ma non sarebbe stata ancora messa nemmeno nero su bianco. C’è la proposta (spiazzante) di Lanfranco Tenaglia ministro della giustizia nel governo ombra del Pd - di allargare ad un collegio di magistrati le decisioni sulle misure di custodia cautelare e che da più settori della maggioranza è stata defini-

in breve Il sindaco di Pescara ritira le dimissioni Colpo di scena a Pescara dove il sindaco Luciano D’Alfonso ha ritirato ieri, ultimo giorno utile, le dimissioni da primo cittadino. Contestualmente, all’ufficio protocollo è stato depositato un certificato medico che attesta il suo impedimento al lavoro per motivi di salute. In base al Testo unico sugli Enti Locali, le funzioni di primo cittadino saranno svolte dal vice sindaco Camillo D’Angelo. Le elezioni per il nuovo consiglio comunale, comunque, si terranno i prossimi 6 e 7 giugno, in concomitanza con le altre elezioni amministrative previste nel Paese.

Inflazione record per il 2008

Sullo sfondo della frenata sulla nuova proposta, le manovre del premier per intervenire sulle intercettazioni e poi l’attivismo di Violante per essere eletto alla Corte costituzionale ta «interessante» e «una buona base su cui ragionare». Al presidente del Consiglio, poi, preme anche il delicato tema delle intercettazioni («se ne esce qualcuna mia cambio Paese»), e una proposta, quella della presidente della commissione Giustizia della Camera, l’avvocatessa Giulia Buongiorno, ci sarebbe già: anche qui un collegio per valutare l’opportunità o meno di pubblicazione delle intercettazioni che riguardano personalità politiche e istituzionali. Non finisce qui. Entro fine mese la Corte Costituzionale potrebbe pronunciarsi sul Lodo Alfano e, sempre entro gennaio, scadrà il mandato del presidente della Corte stessa, Giovanni Maria Flick, il cui posto è da tempo stato prenotato da Luciano Violante.

Con tanta carne al fuoco, ci si aspetterebbe un’agenda già ben delineata, con dei punti di coesione e delle idee chiare su ogni questione. La sensazione che si respira, però, è che sulla Giustizia domini una generale confusione ed un “tutti contro tutti”. A complicare ulteriormente la situazione (e il dialogo), potrebbe esserci, come sarebbe trapelato dalla

procura milanese, una brusca accelerata nel processo Mills. Ma andiamo con ordine. Partiamo dalla bozza Alfano che, come accennato, sarebbe tutt’altro che pronta per essere presentata al prossimo Consiglio dei ministri previsto per questo venerdì, o al più tardi per l’inizio della prossima settimana. Da via Arenula fanno sapere che sulla separazione delle carriere «ci si sta ancora ragionando», così come sull’obbligatorietà dell’azione penale. Lavori in corso, dunque, su diversi fronti. La cosa più probabile, se questa è la situazione, è che nella prima riunione dell’esecutivo verrà presentata solo qualche misura per velocizzare il processo penale. Giusto perché non si dica che il governo sulla questione ha ancora tutt’altro che le idee chiare. Ma il fatto che in una maggioranza apparentemente indissolubile non si sia arrivati ancora ad un accordo su un punto che lo stesso Berlusconi ha definito più volte «di primaria importanza», non è cosa da poco. La questione ruota tutta attorno ai continui “niet” della Lega, che pur di portare a casa il federalismo e blindare Malpensa sarebbe pronta a far saltare qualsiasi tavolo. È per questo che ai fedelissimi il presidente del Consiglio avrebbe confidato che «se non diamo a Bossi il federalismo entro breve, ci metterà i bastoni tra le ruote su qualsiasi cosa». Va da sé, quindi, che le

priorità dell’agenda governativa sono bruscamente cambiate.

Il problema di Berlusconi, però, non è solo il Senatur che punta i piedi, ma il fatto che, rispetto alle previsioni, c’è la possibilità che salti tutto il puzzle. Fonti vicine al premier ritengono molto probabile che la Consulta possa bocciare il Lodo Alfano. Se ciò avvenisse creerebbe un vulnus nell’esecutivo fin troppo imbarazzante e rimetterebbe in discussione anche le nomine future, a cominciare da quella di Violante al posto di Flick. Un forzista di primo piano ci rivela che «la nomina di Violante dopo la mancata elezione di Gaetano Pecorella è sicuramente più difficile. Adesso si tratta di vedere se e come Violante riuscirà ad influenzare la linea del Pd sulla Giustizia». Come dire, «chi ha orecchie per intendere, intenda». Ma una bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale avrebbe un effetto collaterale ancora più spiazzante: la non immunità del premier nel processo Mills. E questo sarebbe, ovviamente, un problema da non poco conto, anche perchè, a sentire chi ha letto le carte del processo, il Cavaliere stavolta rischierebbe davvero di essere condannato.Tutte queste ipotesi, è facile credere, preoccupano molto il Cavaliere che negli ultimi giorni si sta spendendo molto perché la sua maggioranza arrivi compatta agli appuntamenti che l’attendono dopo la pausa delle festività natalizie. E se per ottenere questo obiettivo c’è da rimettere mano all’agenda del governo, di certo non sarà un problema.

Confermata la discesa per il mese scorso dell’inflazione che a dicembre è scesa al 2,2% dal 2,7% di novembre. Il calo dell’inflazione a dicembre è dovuto soprattutto alla discesa dei prezzi dei carburanti. Il calo è significativo soprattutto per i carburanti: la benzina verde ha registrato una diminuzione congiunturale rispetto a novembre dell’8,1% e tendenziale, rispetto cioè a dicembre 2007, del 16,3%; per il gasolio il calo è stato invece del 7,6% su novembre e del 12,7% su dicembre 2007. Il tasso d’inflazione nel 2008 si è però attestato al 3,3%, il massimo dal 1996, contro l’1,8% del 2007. L’indice armonizzato europeo in media annua ha segnato +3,5%, il massimo da quando viene calcolato.

Incidenti stradali: diminuiti nel 2008 Meno incidenti sulle strade e autostrade italiane: dal 1° gennaio al 28 dicembre 2008 sono stati 122.254, il 9% in meno rispetto al 2007. È uno dei dati forniti dal Servizio polizia ristradale guardo all’attività di prevenzione e controllo sulle strade svolto dalla Polizia di Stato insieme all’Arma dei Carabinieri. Gli incidenti mortali, si legge su un approfondimento ospitato sul sito ufficiale www.poliziadistato.it, sono diminuiti del 5,5% mentre i decessi sono calati del 5,8% (184 morti in meno).


politica

6 gennaio 2009 • pagina 7

Pd federale. Il sindaco assegna le nuove deleghe e il segretario napoletano del partito, Nicolais, si dimette

La disfida di Rosetta lascia a terra i veltroniani di Errico Novi segue dalla prima Il quadro è questo, e la beffa del rimpasto morbido non fa che definirlo in maniera ancora più netta. Ieri Rosa Iervolino ha attribuito le deleghe ai nuovi assessori ed ha così lasciato evaporare l’ipotesi più ansiogena: il ritorno anticipato alle urne. Secondo fonti del Pd napoletano Veltroni sarebbe impallidito di fronte alle cifre degli ultimi sondaggi: si votasse oggi per eleggere il nuovo sindaco di Napoli, il centrosinistra (compresi gli alleati dell’ex Unione che, Italia dei valori a parte, sono ancora in giunta) non arriverebbe al secondo turno. È tutto da verificare, in realtà: il Pdl non è in grado di esprimere leadership locali, di fronte alla penuria di nomi nei mesi scorsi si era arrivato a fare quello del giovane ministro Mara Carfagna per la presidenza della Regione. Altri jolly da spendere il centrodestra non sembra averne. Non è detto che basti il successo riportato alle Politiche dell’aprile scorso e confermato dall’energico intervento del governo sull’emergenza rifiuti. Il sistema di rapporti clientelari costruito da metà anni Novanta dal potere bassoliniano sembra destinato a pesare ancora per molto, almeno fino a quando almeno una delle due giunte cardine, quella regionale e l’amministrazione del capoluogo, sarà in piedi.

Ecco dove si fonda il paradosso dell’insostituibilità, per il centrosinistra napoletano: radicamento sul territorio secondo le vecchie logiche della politica locale e quasi assoluta inerzia dell’opposizione, spesso impegnata a litigare al proprio interno. C’è un traguardo volante in vista che Bassolino e Iervolino non intendono fallire: le Europee di giugno. Veltroni potrebbe uscirne parecchio indebolito, e a quel punto nessuno, al vertice nazionale del Pd, potrà permettersi di usare la mano pesante con Napoli. È il ragionamento che ha reso forte Rosetta in questi

ricercatore di Diritto del lavoro, l’ex direttore del dipartimento Igiene urbana del Comune di Roma Paolo Giacomelli e un editore assai noto in città, Diego Guida, che rimpiazza la casella liberata dal dipietrista Luigi Imperlino assumendo le deleghe al Decoro e all’Arredo urbano. In conferenza stampa Rosetta spiega che gli avvicendamenti «servono alla città» e digrigna i denti quando le ricordano le divergenze con Nicolais: «Se volete vi faccio ascoltare la registrazione dell’incontro che ho avuto con lui e Iannuzzi: la linea del Pd non è stata affatto sconfessata, né c’è stato un documento votato da un organo di partito, ma una rispettabilissima dichiarazione del segretario provinciale». Che non poteva avere altra logica conseguenza se non le dimissioni del dichiarante. Nicolais non manca di mettere in evidenza la debolezza di Veltroni, quando dice di «non essere riuscito a concretizzare il mandato del partito napoletano e a trasferire ai vertici nazionali la necessità di una svolta coraggiosa».

La Campania resta per Walter una repubblica ingovernabile: «Rispettiamo le scelte locali», dicono dal Nazareno. È una dichiarazione di resa. E il potere di Bassolino e Iervolino è rafforzato dall’inerzia del Pdl giorni di altissima tensione. Nicolais e il segretario regionale dei democratici, Tino Iannuzzi, avrebbero voluto approfittare dell’uragano “Global service” per sradicare quello che in Campania è un vero e proprio partito parallelo, guidato appunto dal presidente della Regione. Al sindaco di Napoli hanno chiesto di mandare via dalla giunta non solo gli assessori arrestati ma anche i tre più esplicitamente riconducibili a Bassolino: oltre a Mola, il veterano Nicola Oddati e la titolare dei grandi eventi Valeria Valente. È saltato solo il primo, nonostante al pressing della dirigenza locale “ufficiale” si sia aggiunto quello di Walter.

Decisive sono state le continue consultazioni intercorse tra la Iervolino e il governatore fino a domenica sera, quando il primo cittadino ha comunicato i nomi delle new entry. Tre professori universitari di area, un

La sconfitta, per il segretario del Pd, è doppia. Era stato lui, Walter, a sponsorizzare l’elezione di Nicolais alla guida del partito a Napoli nel giugno scorso, contro lo zoccolo duro bassoliniano fiaccato più che altro dalla tempesta mediatica dei rifiuti; ma forse l’umiliazione più pesante, per Veltroni, è nella ritirata a cui ha costretto alcuni suoi uomini indicati inizialmente alla Iervolino per rinfrescare la giunta. Uno di questi, il parlamentare Francesco Boccia, ha certificato pubblicamente «l’esistenza a Napoli di due Pd». Come lui hanno dovuto declinare l’invito la sociologa Paola De Vivo e il sindacalista della Cgil Giuseppe Errico. Sarebbe stato davvero troppo se il leader democratico avesse

Il segretario provinciale del Pd napoletano Luigi Nicolais (nella foto grande) ha lasciato ieri l’incarico dopo aver inutilmente tentato di imporre al sindaco (nel riquadro) un rimpasto più radicale della sua giunta. Avrebbe dovuto essere lui il contraltare di Bassolino in vista delle Regionali del 2010 aggiunto alla sberla incassata dalla Iervolino l’umiliazione di appoggiarne il rimpasto attraverso figure a lui riconducibili. Così ieri da largo del Nazareno si sono limitati a diffondere una nota per ricordare che il repulisti era stato concordato «prima di Natale, nel corso di un incontro a Roma» e per ammettere, a ulteriore dimostrazione dell’impotenza, che il Pd «è un partito federale in cui si affida piena autonomia ai dirigenti regionali e non si interferisce con le scelte compiute da sindaci o amministratori».

Seguono rferimenti alla necessità che il partito si impegni con tutte le proprie forze per allontanare le ombre calate negli ultimi tempi. Parole vane. L’unica cosa chiara è che Napoli, per Veltroni, resta non una città federata ma una repubblica impossibile da governare. Lo è anche grazie alla tranquillità assicurata a Bassolino, Iervolino e compagni da un Pdl immobile. Ieri l’esercizio più praticato dai rappresentanti locali del centrodestra è consistito in prevedibili giochi di parole con le parole «tarantella» e «sfrantummati», le stesse usate dal sindaco davanti ai magistrati e negli spazientiti messaggi rivolti a Veltroni. Non sono più incisive le battute di Capezzone o Gasparri. A furia di invocare la dipartita di sindaco e governatore e a non ottenerla, il centrodestra a Napoli sembra più spuntato di Walter.

in breve Decreto università, il governo chiede la fiducia Nuove norme per il reclutamento dei docenti, più assunzioni di ricercatori, finanziamenti per borse di studio e per residenze universitarie. Sono alcuni dei provvedimenti previsti dal Decreto legge di riforma dell’Università targato Gemini, da ieri in discussione alla Camera dei Deputati ma sul quale il governo ha subito posto la fiducia, impedendo ogni forma di discussione. Il Dl 180 contiene importanti modifiche per il sistema universitario italiano. Tra queste, il tentativo di favorire una maggiore trasparenza nei concorsi. Per il reclutamento dei professori universitari, il testo prevede che le commissioni che giudicheranno gli aspiranti professori universitari di prima e seconda fascia saranno composte, a differenza di quanto accadeva fino ad ora, da 4 professori sorteggiati da un elenco di commissari eletti a loro volta da una lista di ordinari del settore scientifico disciplinare oggetto del bando e da 1 solo professore ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il bando.

D’Alema attacca Di Pietro: populista Per la prima volta, il leader del Pd Massimo D’Alema attacca frontalmente Antonio Di Pietro dicendo che l’Italia dei valori rappresenta, in Italia, il populismo minoritario, contrapposto a quello di maggioranza espresso da Silvio Berlusconi. Massimo D’Alema ha espresso la sua opinione ieri sera, mentre era ospite di Matrix. «Se una forza gode della fiducia di milioni di italiani - ha sottolineato D’Alema - è giusto che faccia politica ma se un leader fa politica deve essere anche giudicato politicamente e politicamente io dico che Di Pietro ha scelto la strada del populismo minoritario. Il Paese - ha concluso D’Alema - è stretto tra un populismo di maggioranza e uno di minoranza e le posizioni riformiste faticano ad affermarsi». Si tratterà di capire, ora, che cosa ne dirà il segretario Pd, Veltroni, e se cambierà l’atteggiamento del partito.


politica

pagina 8 • 6 gennaio 2009

Vuoti d’aria. Da Bossi alla Moratti, tutti per Lufthansa. E domani la Lega vedrà Berlusconi

Il Nord (unito) va allo scontro per Malpensa di Franco Insardà segue dalla prima In via Bellerio si sono incontrati il leader Umberto Bossi, i suoi ministri Maroni e Zaia, Castelli, Cota e Giorgetti. A dar maggior peso all’iniziativa è arrivato anche il sindaco di Milano, Letizia Moratti, a titolo assolutamente straordinario, e il presidente della Sea, Giuseppe Bonomi. Alla fine della riunione la segreteria politica del Carroccio ha diramato un comunicato molto duro confermando «la risoluta volontà di difesa e di sostegno dell’aeroporto di Malpensa quale hub internazionale e della relativa occupazione». La Lega Nord ritiene che «il partner ideale per

Il personaggio. Forte, testarda, versatile. Forse anche brava. Ma il futuro della Rossa ora dipende dal contrasto sull’aeroporto

Cai debba essere Lufthansa, unica compagnia in grado di garantire occupazione, servizi di livello internazionale e i 2 hub di Milano Malpensa e Roma Fiumicino».

Secondo il Carroccio «in caso di decisioni industriali diverse, dice ancora la Lega, il governo non potrà che liberalizzare i diritti di traffico aereo con effetto immediato, garantendo così l’effettiva concorrenza su tutte le tratte ivi compresa quella Milano-Roma. In ogni caso il governo dovrà inoltre garantire ai lavoratori coinvolti il medesimo trattamento e gli stessi ammortizzatori sociali già previsti per i dipendenti

Alitalia». La Lega fa anche sapere che Umberto Bossi incontrerà domani il presidente del Consiglio. La partita sul futuro di Malpensa è ormai alle ultime battute. Lo sanno bene tutti e le bordate non si risparmiano. I rappresentanti sia politici sia istituzionali del Nord tifano Lufthansa, mentre quelli romani preferirebbero che la scelta cadesse su Air France. Malpensa, insomma, potrebbe essere il collante per uno schieramento “nordista” che parte dalla Lega e, passando per Formigoni e la Moratti, arriva fino a Penati e Di Pietro. E il “Malpensa day”, organizzato per giovedì prossimo dal presidente della provin-

Una turista in ostaggio Dai salmoni al ministero negato (per ora) Fenomenologia di Michela Vittoria Brambilla di Roselina Salemi ul quotidiano La Provincia di Lecco, che dalle parti di Calolziocorte, è come la Bibbia, la foto di Michela Vittoria Brambilla sta sotto quella di un Silvio Berlusconi che si asciuga la fronte, visibilmente provato. I rimpasti, si sa, stancano. E la guerra di Malpensa, mossa da Bossi contro il governo, rischia di lasciare a terra proprio lei: l’ostaggio nelle mani dei leghisti

S

Eletta deputato il 12 maggio 2008 nella circoscrizione Emila Romagna XI, le hanno dato la delega al Turismo, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio (qualcuno l’ha visto come un contentino, altri come un parcheggio) e lei, in tempi grami come questi ha trovato i soldi per la campagna tivù “E se fosse tuo figlio?”(bianco e nero, bambini esotici con gli occhi sgranati) contro i tour pedofili,

Ha lavorato come giornalista nella ex Fininvest, firmato come autore “I misteri della notte”, fondato con papà Vittorio due aziende alimentari. Fino a ricoprire, nel 2008, l’incarico di sottosegretario per salvare l’aeroporto del varesotto. Ma la rossa armata, tipa tosta, a 42 anni non ancora compiuti, rientrata da una breve vacanza in Costa Azzurra, potrebbe finalmente prendere possesso del Ministero che in fondo le spettava, che le era stato promesso durante la rumorosa campagna elettorale, anche se la Salute le sarebbe piaciuto di più e su quello aveva già delle idee da sviluppare.

ha presentato il testo di un nuovo codice di comportamento per fermare i “viaggi della vergogna”; ha inaugurato il Comitato Mondiale per l’Etica del Turismo, visto con favore anche dall’Onu. E, mentre c’era, si è occupata del nuovo regolamento per l’ammissione degli animali domestici sui treni (anni di militanza animalista non si dimenticano). Via libera a tutti i cani, salvo le diciassette razze

pericolose elencate nell’ordinanza del ministero della Salute. Certo, si può fare la battuta facile che è una turista per caso, (e forse lo è) ma siccome è iperattiva, incapace di girarsi i pollici aspettando un’occasione migliore, ha preso la cosa sul serio, come se il ministero ci fosse già. Ha fatto bene. Le competenze ormai contano poco, è tutto liquido, come sostiene l’ultracitato Zygmunt Bauman. Basta essere una donna per beccarsi le Pari Opportunità (normalmente, anche chi voleva altro finisce per accettarle, vedi Anna Finocchiaro e Stefania Prestigiacomo) e avere una cattedra universitaria e/o una buona reputazione da fiscalista per ottenere una poltrona più comoda.

È brava, Michela Brambilla. È versatile. Ha molte vite alle spalle e tutte le hanno insegnato qualcosa. Ha lavorato come giornalista nella ex Fininvest, ha firmato come autore I misteri della notte, speciali sulla vita notturna nelle capitali del mondo (Honk Kong, San Francisco, Budapest, Città del Messico) e


politica cia di Milano, Filippo Penati, potrebbe essere un test da non sottovalutare per questa possibile formazione. E o stesso Penati ieri ha detto: «Faccio un appello alla Lega che aveva fatto di Malpensa un grande cavallo di battaglia durante la campagna elettorale. Se la Lega è coerente con l’obiettivo della liberalizzazione dei diritti di volo si può fare battaglia comune e credo che troverà d’accordo anche il Pd lombardo».

A riprova che i timori di Mario Valducci, uno dei consiglieri più ascoltati da Silvio Berlusconi, riportati da Augusto Minzolini sulla Stampa di ieri non sono così peregrini quando paventava «una prospettiva che tutti considerano irrazionale: nel 2010 un Pd a pezzi per sopravvivere potrebbe accettare anche un ruolo subalterno alla Lega, in questo modo uno schieramento del genere potrebbe accaparrarsi tutto il

Nord e le regioni rosse». Ma sullo scalo lombardo lo stesso Valducci che è anche presidente della commissione Trasporti della Camera butta acqua sul fuoco: «Fiumicino e Malpensa sono entrambi due fiori all’occhiello e tali resteranno. Se gli imprenditori abbandonassero Malpensa sarebbe irragionevole e assurdo». La Lega e gli altri temono che da una eventuale intesa con Air

prossimi sei anni circa 56mila posti di lavoro. Inoltre con Malpensa “non hub” l’economia lombarda nel 2009 perderebbe in indotto turistico circa 770 milioni di euro e circa 350 milioni di euro in indotto». Anche sul fronte romano c’è chi fa sentire la sua voce. Su tutti Gianni Alemanno e Piero Marrazzo. «Se dovessimo verificare che il piano industriale va a peggiorare la situazione di

Il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha chiesto che il governo riferisca in Parlamento: «L’avevamo previsto: Alitalia sarà controllata da Air France e gli italiani pagheranno un prezzo altissimo» France Malpensa ne uscirebbe fortemente ridimensionato a favore di Fiumicino. L’ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza ha diffuso ieri dati molto preoccupanti: «Senza Malpensa sono a rischio in Lombardia per i

Fiumicino – ha dichiarato il sindaco di Roma – saremmo pronti anche noi a mobilitarci». Mentre per il presidente della regione Lazio «si è alla vigilia di una battaglia decisiva. È il mercato che deve decidere. Noi abbiamo un vero hub. Libera-

Sopra, il leader del Carroccio Umberto Bossi e, a sinistra, l’aeroporto di Malpensa. A fianco, Michela Vittoria Brambilla, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Turismo questa esperienza, per il turismo le torna di sicuro utile. È entrata nell’azienda del papà Vittorio, le “Trafilerie Brambilla spa” di Calolziocorte, quattro generazioni dedicate all’acciaio, come amministratore delegato. Ha fondato, sempre con papà, due aziende (Gruppo Sal spa e Cotra Coast International) che producono e commercializzano prodotti alimentari: gamberetti, pescespada affumicato, storione, uova di lompo. All’inizio diceva, ridendo: «Che cosa faccio? La pescivendola!». Con una laurea in Lettere e Filosofia all’Università Cattolica di Milano.

È dura, più di quanto ti aspetti. Bisogna essere dure per entrare nel suk della grande distribuzione, nel commercio del pesce, dove sono tutti uomini, e farsi spazio può essere complicato. Sul salmone sa più cose

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lizzino pure il settore, Fiumicino è pronto a confrontarsi. Non è colpa nostra se il Nord non ha mai risolto i problemi del suo sistema aeroportuale». Una situazione davvero difficile al punto che il segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa ha chiesto: «Il governo riferisca in Parlamento e spieghi al Paese quanto sta avvenendo. Si sta verificando quello che avevamo previsto: alla fine Alitalia – ha sottolineato il segretario dei centristi – sarà controllata da Air France. Per questa operazione, sbagliata sin dall’inizio, gli italiani pagheranno un prezzo altissimo. Con quei soldi si sarebbe potuto fare di più per le famiglie».

sempre di buone maniere. È brava Michela Brambilla e soprattutto, non è finta. Lo sanno bene quelli che l’hanno seguita dall’inizio della “discesa in campo”, cominciata con la fascinazione fulminea, autentica per Silvio Berlusconi, e seguita dalla candidatura in Veneto nel 2006, una campagna elettorale capitata in un momento drammatico della vita privata, il figlio Vittorio, piccolissimo, in ospedale, la scala delle sue priorità che si riscriveva continuamente. Le è andata male per un pugno di voti e le è dispiaciuto appena un po’. Chi invece l’ha vista spuntare all’improvviso in autoreggenti e chioma incendiaria (ma non c’è calcolo in lei, portava la minigonna e l’inconfondibile colore dei capelli anche all’ottavo mese di gravidanza) e se l’è ritrovata pasionaria alla guida dei Circoli della Libertà, fondati nel novembre 2006, costantemente in prima pagina nel 2007, al punto da essere sovraesposta, da diventare fonte di neologismi giornalisticamente popolari (brambillismo, brambillizzazione, brambillizzare),

La fortuna del premier è stata quella di trovarla così, bella e fatta, presidente degli imprenditori under 40 della Confcommercio dal 2003: disponibile, carina, animalista e molto amata dai media lei di chiunque altro, sa per esempio che quello troppo rosa è ingozzato di betacarotene e quello che potremmo definire bio è pallidissimo, quasi bianco. Un ministero per il Salmone sarebbe superfluo, ovvio. Pure, bisogna dirlo, l’acquisto e la vendita di specialità ittiche hanno qualcosa in comune con la politica: si litiga parecchio e si contratta anche di più. Ci sono un sacco di uomini e non

da suscitare le invidie dei colleghi e le attenzioni dei paparazzi come una qualsiasi showgirl, ha pensato a mefistofeliche astuzie. A una sapiente operazione di marketing.

Invece, la fortuna di Silvio Berlusconi è stata quella di trovarla così bella e fatta, presidente degli imprenditori under 40 della Confcommercio dal 2003, molto amata dai giornali

e dai talk show televisivi, disponibile, carina e animalista (tranne che per quanto riguarda i salmoni), capace di trasformare un’ala della villa di famiglia a Calolziocorte, in un rifugio per quadrupedi senza casa, abbandonati da padroni senza cuore: capre, asinelli, cavalli raccolti in giro per le campagne, una cinquantina tra i gatti e i cani (il capobranco è una vecchia pointer a macchie nere che tiene a bada tutti) con diritto di accesso al soggiorno. Le sta accanto l’invisibile compagno, Eros, bello, ricciuto e degno del suo nome, mai visto uno più discreto. Eros, che ama lei e di conseguenza anche il variegato zoo che la circonda, l’atmosfera da vecchia fattoria, l’iperattività che la obbliga a sfrecciare sulla superstrada Lecco- Milano, facendo prevalere le ragioni della politica su quelle del codice stradale.

Ma, come nel film con Will Smith, tutto questo è leggenda. Di vero c’è che MVB, come l’hanno sinteticamente ribattezzata, è più forte dei pettegolezzi, delle parodie di Striscia e delle inquadrature malandrine di Porta a Porta, perché è l’espressione di un sincretismo politico che si nutre di immagine, con un curriculum dove ci può stare tutto, modella per collant, giornalista, autrice, imprenditrice, portabandiera del progetto “Tv della Libertà” (chiusa dopo due anni). Se ha bruciato le tappe (al governo dopo tre anni) deve avere come minimo un buon istinto. Probabilmente ha imparato molto anche osservando gli animali, la logica del branco, l’assalto al più debole, le bizze del leader, le spinte primordiali, le necessità della convivenza. Per fare il ministro, di questi tempi, basta e avanza.


panorama

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Candidature. Alla Provincia, Berlusconi lancia Podestà, mentre An punta tutto su De Corato

Una poltrona per due, a Milano di Irene Trentin

MILANO. Sarà pure il Popolo Lidelle bertà, ma è difficile prendersi la libertà di dire di no a Silvio Berlusconi. E così Guido Podestà resta il candidato ufficiale del Pdl per la provincia di Milano, anche se in pochi si scaldano, nemmeno dentro Forza Italia, di cui Podestà è coordinatore regionale, oltre che eurodeputato. An ora fa un passo indietro su Palazzo Isimbardi, anche se il metodo usato dal Cavaliere proprio non è andato giù, quando il nome del vicesindaco di Milano Riccardo De Corato, dato in pole position, è stato scalzato in diretta telefonica a sorpresa da Berlusconi in persona, con una telefonata ai circa 4mila militanti azzurri riuniti lo scorso 19 dicembre nella nuova fiera di RhoPero: «Abbiamo già in casa un ottimo, bravissimo ed eccellente candidato: si chiama Guido Podestà». Per quest’ultimo, organizzatore di quella

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

serata di auguri natalizi, lo scorso 19 dicembre, era la migliore delle ricompense. Ignazio La Russa non l’aveva presa bene: vistosi scavalcato, definiva Podestà «un buon candidato ma non è ancora il candidato del Pdl», così come De Corato. E ora, a testimoniare delle difficoltà nel Pdl

stato chiaro – avverte Galli –: se la riforma federalista procederà senza intoppi, rispetteremo l’alleanza col centrodestra, se viceversa incontreremo ostacoli, la Lega andrà per la sua strada, con propri candidati, a partire dalle amministrative». Una partita che non si preannuncia sem-

Ai malumori nel Pdl si aggiungono quelli leghisti: «Tutto dipende dal federalismo. Se andrà in porto, appoggeremo qualunque nome, altrimenti...» lombardo, si parla di una rinuncia di An alla Provincia in cambio della segreteria del Pdl regionale.

«I fatti dimostrano che si dovrà ancora aspettare un bel po’ prima di poter arrivare alla fusione tra Forza Italia e An», dice il presidente leghista della Provincia di Varese Dario Galli. In attesa di chiarimenti, Il Carroccio si tira fuori dalle beghe ma si dice pronto ad appoggiare i candidati del Pdl ufficializzati da Berlusconi. Ma «Bossi è

plice anche perché in ballo ci sono otto Province, tra cui quelle di Bergamo e Brescia, rivendicate della Lega, e 1100 Comuni. An, nelle difficoltà, prende tempo: il coordinamento regionale si riunirà l’8 e il 9 gennaio per sciogliere il nodo candidati, a cominciare da Palazzo Isimbardi. «Al momento ci sono solo ipotesi – frena il coordinatore regionale di An Massimo Corsaro –. Anche se De Corato, non ha niente da invidiare a nessuno. Una volta scelto il candidato per la Provincia di Mila-

no, gli altri nomi verranno a cascata».

Resta determinante anche l’apporto dell’Udc che dovrà decidere se accogliere o meno l’appello di Roberto Formigoni, che qualche giorno fa si era rivolto agli ex alleati dell’Udc invitandoli a tornare col centrodestra. «L’appello del governatore appare un po’ tardivo – interviene il segretario lombardo dell’Udc Luigi Baruffi –. Il Pdl ha perso una grande occasione con le Politiche 2006 per costituire un grande centro moderato, moderno e aggressivo. Anche se, meglio tardi che mai». Di sicuro, non ci saranno alleanze col centrosinistra: «Abbiamo chiesto ai segretari provinciali di tenere pronti i candidati al primo turno. Di certo, la candidatura di Podestà ci spiana la strada, perché ci risulta più naturale allearci con Forza Italia che con An. Ma aspettiamo una proposta chiara a livello nazionale, non ci accontentiamo di Milano, dov’è chiaro che hanno bisogno di noi».

Quando Orson Welles divorava sandwich di gamberetti nel famoso locale di Venezia

Lo spirito della leggenda dell’Harry’s Bar ignori lettori, che tipo Arrigo Cipriani. Mica lo conosco, mai conosciuto. Ma, ora che pare che chiuda i battenti il Rainbow Grill - il ristorante della Rainbow Room lassù in alto al grattacielo newyorchese di Rockefeller Plaza - mi è venuto in mente che forse l’Arrigo, figlio di Giuseppe, l’ho conosciuto da qualche parte. Proprio così. Rapida ricerca nella memoria ed è saltato fuori un gustosissimo libretto di dodici anni fa: La leggenda dell’Harry’s Bar scritto proprio da Arrigo Cipriani. In copertina c’è anche una foto che ritrae Giuseppe Cipriani e Ernest Hemingway con dei sombreri in testa seduti a un tavolo ricoperto da un fila sterminata di bicchieri vuoti: «Quei bicchieri se li erano bevuti lui e mio padre, che dovette poi rimanere a letto tre giorni per smaltire la sbornia».

S

La leggenda del locale di Venezia è proprio qui: nell’umana simpatia del padre e del figlio da cui nasceranno servizio, accoglienza, gusto. In una sola parola? Spirito (che è una parola, come potete ben capire, che ha tanti significati: lo spirito è divino, è umano, è alcolico, è umoristico, senza spirito non si va da nessuna parte). E’ il motivo che mi fa dire che lo spirito dell’Harry’s Bar non morirà mai. Il ristorante della Rainbow Room potrà anche chiudere (l’affit-

to del locale è diventato insostenibile: da quattro milioni di dollari all’anno a più del doppio) ma il suo spirito veneziano e italiano resterà aperto. Diciamo le cose come stanno: punto di incontro di scrittori, artisti, attori, ristorante famoso per la bontà dei piatti e la impagabile atmosfera, l’Harry’s Bar di Venezia, imitato e ineguagliato, è da più di settant’anni uno dei luoghi più rinomati del mondo e un’istituzione della città dell’acqua. Tutto ebbe inizio nel lontano 1931, quando Giuseppe Cipriani e Harry Pickering, rispettivamente un intraprendete barman e un ricco ragazzo americano, affittarono un magazzino per aprire un nuovo locale. Durante la Seconda guerra mondiale il Bar Arrigo - così venne italianizzato il nome dalle leggi fasciste - fu requisito dai tedeschi e Cipriani cosa fece? Serviva i fedeli clienti a casa sua. Hemingway era un cliente abituale e passava diverse

ore seduto a un tavolino tutto per lui, in un angolo riservato. A Venezia scrisse Di là dal fiume e tra gli alberi, pochi anni prima di vincere il Premio Nobel. Da queste parti capitava spesso Orson Welles: grande come un armadio, divorava sandwich di gamberetti innaffiati da due bottiglie di Dom Perignon ghiacciato. Generoso ma disordinato: spesso dimenticava di pagare il conto. Due invenzioni di Cipriani: il cocktail che mescola champagne e polpa di pesche bianche; il Carpaccio che è il Carpaccio. E poi c’è la terza: Arrigo. Lui, Arrigo, la cosa la spiega così.«Per chiarire le idee sul mio conto, posso anche dire che io sono continuamente citato da questi vecchi clienti per come mio padre avrebbe fatto le cose se fosse stato al mio posto. Da ciò che ho capito di lui e da ciò che è rimasto delle sue creazioni, coltivo l’idea, che d’altra parte non è solo mia, che sia stato un autentico ge-

nio del suo mestiere. Io invece non ho inventato assolutamente niente anche se ammetto di aver tentato di farlo sforzando intensamente la mente in numerose occupazioni. Anzi, credo di essere stato anch’io inventato da lui. La prova è che alla mia nascita, che avvenne nel 1932 in un periodo assolutamente non sospetto - l’Harry’s Bar infatti esisteva solo da un anno - egli convinse mia madre a chiamarmi Arrigo che vuol dire Harry in inglese, o americano, come si preferisca». Che naturalmente è una verità e una bugia. Perché l’Arrigo di cosette ne ha inventate non poche.

E la dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, è data da questo pensiero: «C’è lo spirito e ci sono le cose. Immaginiamo un mondo di soli oggetti. Un mondo di strumenti immobili. Un ristorante fatto solo di tavoli e sedie. Un grande teatro vuoto. Una Piazza deserta d’Estate. Non ci resta che chiedere l’aiuto dell’Uomo. Il Servizio dell’Uomo per dare vita alle cose. Pretenderemo che l’Uomo ci faccia vedere la sua stupenda capacità. E osserveremo con grande attenzione. Perché le piccole sfumature della Qualità del suo Servizio, misureranno senza errori i gradi della sua intelligenza, ci racconteranno senza inganni il valore della sua spiritualità. Perché, servire è soprattutto amare».


panorama

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Polemiche. Il quotidiano di Antonio Polito travisa un nostro titolo e ci inserisce - ingiustamente - fra chi critica il presidente

Noi, la destra, Napolitano e «il Riformista» di Renzo Foa segue dalla prima

in quella dell’Udc, mai abbandonando questa sua collocazione che, se si vuole definire con un’etichetta, può esser fatto usando il termine liberalcattolico o liberal-popolare.

A quelle forze politiche, per la precisione, che fanno finta di accogliere gli inviti al dialogo e alla soluzione concordata dei problemi del paese ma che poi, al contrario, proseguono dritti per la propria strada solitaria. Quindi c’era un trasparente apprezzamento nei confronti dell’intervento del capo dello Stato. Ma evidentemente chi si è occupato del problema ha letto un libro in meno del necessario. Succede. Non c’è nulla di male nel prendere un abbaglio.

E neanche nel prenderne due. Collocare infatti liberal tra i «giornali di destra» non è certamente esatto. Intendiamoci. Noi siamo tra quelli che non vedono nella parola destra alcunché di offensivo. Anzi ci siamo battuti perché cessasse in Italia l’assurdo ostracismo nei confronti di questa parola. Semplicemente, non siamo di destra, tutto qui. Liberal è un giornale e un movimento che da sempre, ha collocato se stesso nell’area mode-

Le «prediche» diventano «inutili» quando il falso bipolarismo italiano non vuole ascoltarle. Lo diceva già Luigi Einaudi: nessuno se lo ricorda? rata e, per essere più precisi, i suoi punti di riferimento culturali ed ideali sono i grandi filoni del cattolicesimo liberale e dell’internazionalismo delle li-

bertà. Nella storia del bipolarismo italiano liberal ha sempre fatto le sue scelte, dapprima in modo solitario, poi gravitando nell’area di Forza Italia, infine

Ciò che infine risulta ancora più incomprensibile, se non si tratta di semplici abbagli, è quale interesse abbia il Riformista a collocarci tra i critici di Giorgio Napolitano. Comunque sia, non lo siamo stati l’altro giorno, quando anzi eravamo tornati ad apprezzare l’invito al dialogo fra le parti per aiutare l’Italia ad affrontare la crisi. E soprattutto non lo siamo per definizione perché, da quando Napolitano è salito al Quirinale, abbiamo avuto modo in diverse occasioni di apprezzare la sua ineccepibile e incisiva presidenza. Direi di più. Siamo noi che in convegni, in incontri, in tavole rotonde, in iniziative pubbliche e giornalistiche abbiamo cercato di contrastare il clima da “guerra civile” che il bipolarismo ha introdotto in Italia e che ora questo traballante tentativo di imporre un bipartiti-

Mercati. Il settore auto francese è in crisi, come quello italiano, ma Sarkozy interviene per salvarlo

E Parigi rottama la «vecchia» Fiat di Alessandro D’Amato

ROMA. Francia e Italia vanno a braccetto nel settore auto. L’associazione dei costruttori di auto transalpini ha diffuso i risultati sulle immatricolazioni di auto di dicembre, che hanno registrato una contrazione del 15,8% su base annuale. Il calo è risultato del 19,9% per Renault che cede il 5,11%, complice anche il taglio al target da parte di Citigroup. La flessione è stata invece del 6,6% per Peugeot che segna un lieve ribasso dello 0,24%. Chiusura d’anno ancora negativa anche per il mercato automobilistico nazionale, che a dicembre ha registrato 140.656 nuove immatricolazioni, per un calo del 13,29% rispetto allo stesso mese del 2007. Si archiviano così 365 giorni pesantemente negativo per il mercato dell’auto in Italia calato nel periodo del 13,36%, a 2.160.131 unità, secondo i dati diffusi dal ministero dei Trasporti. Un dato così basso non si registrava da dodici anni.

zioni, contro le 780.821 del 2007. A novembre le vendite di auto nuove del gruppo torinese erano scese del 28,6%, attestandosi a 43.277 unità. Per il prossimo anno, stima il centro Studi Promotor, in mancanza di interventi di sostegno della domanda, si prevedono 1.850.000 unità immatricolate, con un calo del 14,4% sul 2008. Csp sottolinea pure che gli interventi devono essere “più robusti” di quelli scaduti a fine 2008, mentre per il presidente dell’Unrae (l’asso-

Oltralpe è previsto un incentivo di mille euro: una mossa del governo francese per favorire l’accordo di Peugeot-Citröen con i torinesi?

A novembre le immatricolazioni in Italia erano crollate del 29,46%, a 138.352 unità. Fiat Group Automobiles ha immatricolato a dicembre in Italia 43.506 nuove autovetture, in calo del 15,16% rispetto alle 51.281 unità dello stesso mese di un anno fa. Nell’ intero 2008, i volumi del gruppo sono scesi dell’11,86%, a quota 688.232 immatricola-

ciazione che raduna le case estere operanti in Italia), Salvatore Pistola, «È incomprensibile e contraria ad ogni logica l’assenza, fino a questo momento, di misure rivolte a creare le premesse per una inversione di tendenza di questa grave crisi».

Purtroppo, però, per ora le analogie finiscono qui. Sarkozy ha varato nel suo piano per rilanciare l’economia un incentivo di mille euro (accolto con ovvio favore dai costruttori Renault e Peugeot) per la rottamazione di auto vecchie di almeno dieci anni, che sarà versato a chi acquista vetture po-

co inquinanti; mentre le filiali bancarie delle case automobilistiche francesi e le aziende dell’ indotto saranno aiutate con varie misure.

In Italia, il piano è ancora sul tavolo del ministero delle Attività produttive, ma non c’è accordo sull’esborso economico: Scajola ha intenzioni di spesa maggiori rispetto a quelle di Tremonti, mentre Marchionne chiede ancora di più. La ripresa della produzione per Fiat Auto è prevista per il 19 gennaio la ripresa produttiva nella maggior parte degli stabilimenti della Fiat Auto. A Melfi l’attività riprenderà il 12, ma ci sarà di nuovo cassa integrazione dal 26 gennaio all’8 febbraio. La cassa integrazione coinvolge complessivamente 48.000 lavoratori del gruppo. Secondo la Fiom nel settore auto sono complessivamente circa 200.000 i lavoratori interessati dalla cassa. Intanto, sulla stampa francese si ripropone l’alleanza tra Peugeot-Citröen e Fiat. Forse è meglio per Torino cogliere la palla al balzo, portando la sede fiscale direttamente a Parigi.

smo sta cercando di rilanciare. E così come, durante il settennato di Ciampi, ci eravamo sempre o quasi sempre riconosciuti nelle prese di posizione del capo dello Stato, lo stesso continua ora con la gran parte delle prese di posizione che dall’alto del Colle sta assumendo Napolitano. Semmai, lo ripetiamo, la nostra critica è rivolta a chi a parole si dice favorevole al dialogo e poi nella sostanza lo sabota in ogni modo. A sinistra come a destra. Ma davvero, persino nelle stanze del Riformista non c’è più nessuno che conosca lo spirito e la lettera delle “Prediche inutili” di Luigi Einaudi?

Siamo, del resto, pronti a fare una scommessa con Polito: né dal Pdl né dal Pd verranno passi concreti nella direzione di un mutamento del politico: mutamento necessario a realizzare quelle “riforme condivise” (ma non solo quella della giustizia…) chieste appunto da Napolitano, per il semplice motivo che sono ormai una necessità assoluta se si vuole evitare il declino del Paese.


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Oggi come nel Cinquecento, l’Islam non ha mancato di diffondere i dettami Ma soltanto un Occidente unito può respingere quest’atta

Lepanto 1571

Don Giovanni e il vessillo del Redentore Con la battaglia di Lepanto – 7 ottobre 1571 – l’Occidente cristiano riprende il controllo del Mediterraneo, da più di un secolo in mano ottomana. La vittoria della Lega Santa guidata da Don Giovanni d’Austria, oltre a sbaragliare la flotta turca, segna l’inizio di un percorso di decadenza, che avrà il suo culmine quasi un secolo dopo con la disfatta di Vienna. Papa Pio V promuove una coalizione cristiana (con spagnoli, genovesi, veneziani, papalini, cavalieri di Malta e Savoia) per proteggere la città di Famagosta, assediata dai Turchi. Alla testa di 169 imbarcazioni (tra le quali 6 invincibili galeazze veneziani) c’è don Giovanni d’Austria, figlio illegittimo di Carlo V e fratello del regnate Filippo II. A lui, nella basilica di Santa Chiara, viene consegnato il vessillo papale. La durissima repressione di Mustafà Lala Pascià a Famagosta (il console Marcantonio Bragadin fu scorticato vivo e poi innalzato su una galea come trofeo) spinge il fronte cristiano a velocizzare le operazioni. La domenica del 7 ottobre del 1571 don Giovanni d’Austria fece schierare le proprie navi in formazione serrata, deciso a dar battaglia. Al centro dello schieramento c’è proprio lui, con la sua Real galea. Toccò a un veneziano, l’ammiraglio Agostino Barbarigo, coordinava le operazioni sul corno sinistro. Su quello destro il genovese Gianandrea Doria, talmente feroce da essere inviso anche Pio V. A essere decisive in una battaglia cruentissima le 6 galeazze veneziane, gli archibugi in dotazione alle imbarcazioni veneziane ma soprattutto le mosse di don Giovanni e del Doria.

Proprio il principe spagnolo mette davanti a ogni corno 2 galeazze che i turchi scambiano per navi da carico. E che, arrivati in prossimità, dei vascelli nemici fanno sentire tutta la loro potenza di fuoco. Famosa l’immagine di don Giovanni che davanti alla “Sultuna” cala tutti gli stendardi per innalzare lo Stendardo di Lepanto con l’immagine del Redentore, prima di lanciarsi all’arrembaggio dell’ammiraglia. Ma la manovra decisiva la fa Giovanni Andrea Doria. Prima si sgancia dal corno sinistro facendo vela verso il mare aperta. Poi, quando i nemici pensano a una fuga, il nobile genovese piomba alle spalle dello schieramento ottomano e lo distrugge. Il comandante in capo ottomano Alì Pascià, già ferito, preferisce il suicidio per evitare la cattura. Dopo quattro ore di battaglia i turchi avevano visto affondare circa 100 galee e catturare altre 117, ma soprattutto avevano perso 30mila uomini.

Le guerre spirituali, d

di Michae l mondo occidentale non ha mai dato all’Islam tutta l’importanza che merita. Per i cristiani che considerano che il futuro del mondo favorisca un movimento in loro direzione, uno studio sul dinamismo latente dell’Islam è piuttosto sconvolgente. L’Islam cominciò a dichiarare guerra al mondo cristiano sin dagli albori della sua nascita. Per tutto il millennio successivo toccò all’Europa meridionale (e in particolare al Papa) opporre resistenza militare ai saraceni.

I

nord di Roma, e i sultani riconobbero presto che il mondo cristiano non avrebbe più combattuto unito. I successivi cento anni avrebbero rappresentato il periodo più fecondo dopo quello di Maometto per realizzare il destino dell’Islam in Europa. Non serve ora fare il resoconto della Battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571. La battaglia si concluse in quattro ore. Le vittime furono più di quarantamila, con diverse migliaia di feriti: si tratta del maggior numero di vittime nella storia delle battaglie. Dopo la loro disfatta, le flotte musulmane non rappresentarono più un grave pericolo per l’Europa del sud. La tecnologia – in special modo quella realizzata daVenezia e dalle potenze marittime del Portogallo e della Spagna – aveva determinato la differenza. Come scrive Victor Davis Hanson, «si deve la vittoria al capitalismo, poiché sono stati i mercati aperti che hanno stimolato la competizione per far crescere le artiglierie e le navi, e sono state le grandi città commerciali che hanno costruito queste nuove tecnologie». Dopo Lepanto l’artiglieria ha sostituito l’arco e le frecce. Si costruirono navi più robuste, più alte e che potevano trasportare meglio armamenti pesanti e si rese quindi necessario anche sco-

La sortita nel mare Ionio riscrisse gli equilibri e le regole della guerra nell’Europa del Sud: dopo di allora l’artiglieria sostituì l’arco e le frecce Dal 632 a.C. fino al 1292 i Paesi arabi condussero i musulmani in un violento assalto all’occidente. Dopo di che, i turchi stabilirono il loro dominio (il Califfato) su buona parte del mondo arabo. Per centinaia di anni si susseguirono enormi guerre in mare per il controllo del Mediterraneo, e si continuò a guerreggiare anche su terra. I turchi espansero il loro impero in tutte le direzioni. Con il 1540 la Riforma separò i Paesi cristiani a


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i del Profeta in maniera decisiva e con la forza, quando non con la violenza. acco secolare, che si è ripetuto l’11 settembre a New York

Nella foto grande, La battaglia di Lepanto raffigurata da un ignoto ed esposta al Greenwich Maritime Museum. In basso, un particolare del Ritorno dalla battaglia di Lepanto, affresco nella chiesa dei Cavalieri di Santo Stefano. Nella foto piccola a destra, un particolare di una stampa sullo scontro tra cristiani e turchi nelle acque del Mar Egeo. Nella foto piccola a sinistra, Battaglia tra cavalieri di Belt

da Lepanto al Duemila

el Novak prire nuovi metodi di locomozione. La battaglia di Vienna del settembre 1683 schierava molte delle stesse forze in campo a Lepanto: questa volta su terra, non per mare. Il 7 luglio, l’esercito del sultano Mehmet IV era in vista di Vienna. Per diverse settimane, l’esercito del sultano strinse sempre di più l’anello che aveva stabilito attorno a Vienna su tutti i fronti. Nel frattempo, i rinforzi accumulavano ritardo nella loro avanzata per levare l’assedio. Il 12 settembre, l’esercito cristiano penetrò i boschi di Vienna e raggiunse la terra aperta quando restava meno di un’ora di sole.

L’assoluta velocità e forza degli ussari polacchi era troppo grande e stupefacente perché l’esercito ottomano potesse resistervi. I cristiani hanno inseguito i turchi in fuga fino all’Ungheria, riscattando dal controllo musulmano una città dietro l’altra. Così, ancora una volta, i musulmani avevano tentato di adempiere al comandamento del Profeta di diffondere l’Islam in tutti gli angoli del mondo, in modo decisivo e con la forza. I sultani avevano a lungo avuto il vantaggio di un enorme esercito permanente pronto in tutte le stagioni. Questa volta la battaglia al di fuori delle mura di Vienna rappresentò il culmine del potere musulmano. Dopo l’11 e 12 settembre 1683 quel potere cominciò a retrocedere fino ai giorni nostri. Non dovrebbe stupire che la data scelta per portare all’attenzione del mondo la rinascita dell’attuale ambizione musulmana sia proprio l’11 settembre – 318 anni dopo il 1683. L’annuncio avvenne con le enormi fiammate arancioni e con il fumo nero che si sviluppavano da due delle più alte torri della capitale

economica dell’Occidente. La memoria dei musulmani va molto nel profondo, e così fa l’imperativo musulmano di conquistare il mondo per Allah. L’Occidente si è sempre rifiutato di dare a questa lunga e radicata minaccia musulmana contro la vera anima dell’Occidente l’attenzione che richiede. Oggi, nella maggior parte delle capitali di quella che fu l’Europa cristiana, sono più i musulmani che partecipano ai servizi nelle moschee il venerdì che i cristiani che vanno in chiesa la domenica. In qualche modo, il pluralismo dell’Occidente è una benedizione, anche un vantaggio: tuttavia, la sua più profonda debolezza storica sta proprio nel suo spirito diviso. L’ultima questione tra l’Islam e l’Occidente non riguarda la forza militare. Riguarda la profondità dell’intelletto e dell’impegno. In questioni di spirito, sembriamo sempre ammutoliti, come se fossimo carenti di vigorosa fiducia. Noi non insistiamo nel presentare discussioni migliori sul riconoscimento dei diritti inalienabili della libertà umana che i nostri oppositori totalitari rinnegano. Una mera forza secolare non serve quando la battaglia fondamentale è spirituale. Così, sembra sempre lo stesso film.

L’assedio alle porte di Vienna segnò il massimo potere politico del mondo musulmano

Vienna 1683

L’arrocco di Giorgio III di Polonia La battaglia di Vienna ebbe luogo l’11 e il 12 settembre del 1683. E oltre a rompere l’assedio dell’esercito turco in corso da quasi due mesi, fermò l’espansione ottomana in Occidente. Il 14 luglio 1683, e alla testa di 140mila uomini, il Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa Pasha circondò d’assedio la capitale austriaca, costringendo l’imperatore Leopoldo I a rifugiarsi a Passau. Forte della neutralità francese, il Gran Visir decise di non sferrare l’attacco decisivo aspettando la resa della resistenza guidata dal conte von Starhemberg: un errore che risultò fatale. Kara Pasha scelse questa strategia per preservare le ricchezze che già pregustava come bottini di guerra. Ma non calcolò la resistenza della popolazione viennese né la solidità delle mura della città, soltanto scalfite dall’esplosivo ottomano. Più scaltro si dimostrò invece Leopoldo I: con l’appoggio di papa Innocenzo XI mise assieme un’amata variegata e invincibile, trovò un condottiere indomabile nel re di Polonia, Giovanni III. Che non a caso dopo quella battaglia fu soprannominato dai turchi “il Leone di Lehistan”.

In realtà Giovanni III non aveva alcun interesse diretto nel conflitto, se non la consapevolezza che espugnata Vienna i turchi si sarebbero allargati a macchia d’olio in tutta l’Europa. Così accettò di stare alla testa di 30mila soldati polacchi, 18.500 austriaci, 19mila bavaresi e 9 mila sassoni. Meno di 80mila uomini, però meglio preparati degli avversari. Nel tardo pomeriggio del 12 settembrte del 1683, dopo che i due eserciti avevano iniziato a fronteggiarsi, Giovanni III mosse quattro divisioni di cavalleria e iniziò a sbaragliare le retroguardie (mal schierate) dei turchi. Stringere poi in un una morsa infernale i giannizzeri di Kara Pasha fu un gioco. «Era come se si riversasse un torrente di nera pece che soffoca e brucia tutto ciò che gli si para innanzi», scrisse il cronista turco Mehmed der Silihdar. Quel giorno a Vienna si distinse anche un giovane condottiero, Eugenio di Savoia, all’epoca al servizio di Carlo V di Loren ma poi passato alla storia come uno dei più grandi capitani di ventura e strateghi militari. Il comportamento ardimentoso in alcune battaglie minori durante la ritirata turca (la battaglia di Parkany e conquista di Gran in Ungheria) fecero ottenere a questo nobile ventenne i gradi di colonnello dell’esercito austriaco e il comando di un reggimento di dragoni imperiali.


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Revival. La Russia vede il dittatore comunista come un grande leader che «ha sbagliato qualcosa». E lo celebra come padre nobile

La resurrezione di Stalin Putin non ha bisogno della repressione La violenza metterebbe a rischio lo Stato di Anne Applebaum hi è il più grande russo di tutti i tempi? Nell’inverosimile evenienza che rispondiate “Stalin”, sareste in buona compagnia. Uno dei più tremendi dittatori del XX secolo è arrivato terzo in un sondaggio condotto da un canale televisivo russo. Si dice che lo abbiano votato circa 50 milioni di persone. Io stessa ho dei dubbi sull’attendibilità di questo sondaggio, soprattutto dal momento che il canale televisivo in questione è di proprietà dello Stato, e quindi manipolato dal Cremlino. Inoltre, al primo posto si è piazzato Alexander Nevsky, un principe del Medio Evo che sconfisse gli invasori tedeschi e che è quindi stato adottato a sim-

C

storici professionisti. Gli attuali leader della Russia sono i loro discendenti, a volte letteralmente. Ma anche coloro che non sono figli di ufficiali del Kgb sono stati spesso cresciuti e allevati nella cultura del Kgb: un’organizzazione che credeva che la storia non fosse neutrale ma fosse piuttosto qualcosa da utilizzare, cinicamente, nella battaglia per il potere. Nella Russia putinista, alcuni eventi sono presenti nei libri, altri assenti dalla cultura ufficiale perché qualcuno ha consapevolmente deciso che doveva essere così.Ed è chiaro che una decisione del genere è stata presa anche riguardo a Stalin. In un libro di storia russa uscito recentemente con il benestare uffi-

Quanto più amore c’è per i simboli dell’era sovietica, tanto più sicura sarà la “cricca del Kgb” guidata dal Cremlino e dall’industria. Che benedice il ritorno alla nostalgia targata Urss bolo ideale per il regime putinista, il quale va fiero della sua sfida all’Occidente. Il secondo posto invece è andato a Piotr Stolypin, un riformatore economico di fine secolo che, tra le altre cose, ha dato il suo nome ai carri bestiame (Stolypinki) in cui venivano trasportati i prigionieri diretti in Siberia. Un altro eccellente simbolo di “riformatore con il pugno di ferro” cui sia il primo ministro Putin e il presidente Medvedev aspirano. Quanta più nostalgia c’è per i simboli dell’era sovietica, tanto più sicura sarà la cricca del Kgb. Se il sondaggio fosse stato completamente libero, mi sarei aspettata che Stalin avrebbe conquistato il primo posto. Perché? Dopo tutto il governo, i media, gli insegnanti in Russia hanno passato un bel pezzo dell’ultimo decennio a cercare di riabilitarlo, e non per caso.

Ogni Paese politicizza la storia in qualche modo, naturalmente. Ma in Russia, la tradizione della falsificazione e della manipolazione del passato è più profonda che in altri paesi. Nel suo splendore, il Kgb ha ritoccato fotografie per rimuovere compagni screditati, ha cambiato i libri di storia per inserire altri camerati in posti in cui non erano presenti, ha controllato e tormentato

ciale, nelle celebrazioni pubbliche e nei discorsi ufficiali, l’attitudine verso di lui è diventata qualcosa tipo: «Si è sbagliato… sono stati commessi errori… ma si sono realizzate grandi cose e tutto questo ne è valsa la pena».

Questo ritratto pubblico di Stalin è molto selettivo. I milioni di persone che morirono nei gulag, nelle deportazioni di massa o negli omicidi di massa sono ricordati solo come episodio marginale. Poca ammissione è stata fatta anche delle purghe di Stalin ai suoi colleghi più vicini e ai camerati rivoluzionari. Del terrore che alimentava la paura delle persone a parlare apertamente, che faceva consegnare ai figli i propri genitori alla polizia, che sconvolgeva famiglie e amicizie, non c’è traccia in nessuno dei rapporti contemporanei. Anche i programmi di Stalin per l’industrializzazione e la collettivizzazione agricola – che modernizzò il Paese a enorme discapito della popolazione, dell’ambiente e della salute economica della Russia – non sono approfonditi. Al contrario, la leadership di Stalin in tempo di guerra viene ampiamente celebrata, e in particolare il suo momento di trionfo imperiale

nel 1945. Quando ai vicini occidentali della Russia fu imposto il comunismo sovietico. In quello stesso anno, l’Europa orientale divenne una colonia russa e, per di più, Stalin intavolò negoziati alla pari di Roosevelt e Churchill.

Ogni anno, le celebrazioni russe in maggio dell’anniversario della vittoria del 1945 diventano sempre più elaborate. L’anno scorso, includevano diverse migliaia di soldati russi vestiti in uniforme sovietica, che sventolavano la bandiera sovietica e cantavano canzoni sovietiche. Notevoli pezzi di artiglieria hanno sfilato per la Piazza Rossa, proprio come ai vecchi tempi, applauditi dalla folla. Anche i libri sulla guerra ormai sono diventati un importante fenomeno editoriale in un Paese che, fino a pochi anni fa, pubblicava a mala pena qualche storia popolare. La maggior parte delle librerie adesso ha una sezione dedicata alla guerra, in cui spiccano spesso libri come quello che ho trovato in una libreria di Mosca pochi mesi fa. Si intitolava Abbiamo sconfitto Berlino e spaventato New York: è la biografia di un pilota che descrive la gioia dei bombardamenti e che gode del potere che la Russia aveva di spaventare gli altri Paesi. Ben più significativo è il ruolo che la celebrazione dello zenith imperiale dell’Unione Sovietica svolge in una più ampia narrativa sulla storia russa moderna, precisamente la storia degli anni Ottanta e Novanta. Come è noto, Putin disse una volta che il crollo dell’Unione Sovietica ha rappresentato “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, apparentemente più grande anche della guerra mondiale. Putin, insieme ai media russi e all’attuale presidente russo che gli fanno eco, oggi considera come distrazione, come un momento di debolezza la discussione più aperta sul passato stalinista che si è verificata nel corso della glasnost di Gorbaciov. Per di più, essi hanno apertamente attribuito le difficoltà economiche degli anni Novanta non ai decenni di negligenza comunista e diffuso ladrocinio, bensì all’intrusione deliberata

Il comunismo era stabile e forte; il post-comunismo è stato un disastro. Il putinismo, infine, rappresenta la rinascita della stabilità e sicurezza del periodo sovietico dell’occidente, alla democrazia e al capitalismo occidentali.

In effetti, questa discussione ora tocca il cuore della legittimità popolare dell’attuale leadership russa. In sintesi: il comunismo era stabile e sicuro; il post-comunismo è stato un disastro. Il putinismo, in cui Medvedev si trova perfettamente a suo agio, rappresenta un ritorno infine alla stabilità e sicurezza del periodo comunista. Sostenete Stalin, sostenete Putin, sostenete Medvedev, e i media saranno nuovamente prevedibili, gli stipendi saranno pagati con puntualità, i vicini della Russia saranno intimoriti e i leader della Russia, ancora una volta, negozieranno alla pari con i leader dell’Occidente. Inoltre, quanto

più la popolazione diventa orgogliosa del passato stalinista, tanto meno vorranno un sistema che sia più genuinamente democratico e capitalista – un sistema in cui i russi possano, per esempio, votare per far cacciare il loro presidente, o tenere una rivolta di strada come quella che ha buttato giù i governi post-sovietici in Georgia e Ucraina. Quanta più nostalgia c’è dei simboli dell’era sovietica, tanto più sicura sarà la cricca del Kgb. Niente di quanto è stato detto implica che l’attuale governo russo sia stalinista.

Come ha provato la recente elezione di Medvedev, Putin non ha bisogno di quel livello di repressione per rimanere al potere.Troppa violenza potrebbe ad-


mondo

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Energia. La sfida fra Mosca e Kiev sul transito di combustibile arriva nelle aule giudiziarie

La battaglia del gas si sposta in tribunale di Maurizio Stefanini l gas in tribunale! Puntuale come il cinepanettone di Christian De Sica, anche queste feste di Natale e Capodanno ci hanno portato l’ormai consueta rissa sul gas tra la Russia e le repubbliche ex-sovietiche sue dirimpettaie occidentali: alternativamente l’Ucraina, la Bielorussia, e poi di nuovo l’Ucraina. E di nuovo i rappresentanti dell’Unione Europea, in attesa di un imminente incontro diretto con funzionari di Gazprom, si sentono assicurare che non ci saranno problemi per i consumatori del Continente. Stavolta, però, c’è il particolare inedito dei ricorsi in giudizio. Da una parte il Tribunale di Kiev: che ha vietato formalmente alla società Naftogaz Ukraine di effettuare il transito di gas russo al prezzo di 1,6 dollari per 1.000 m3 per ogni 100 chilometri, accogliendo così il ricorso del ministero ucraino dei combustibili e dell’energia contro l’attuale accordo di transito sul gas russo. Dall’altro l’Istituto di arbitraggio della Camera di commercio di Stoccolma, presso il quale Gazprom ha denunciato Naftogaz, chiedendo nel contempo alla Commissione Ue di assicurare un controllo indipendente del transito del gas russo attraverso l’Ucraina, dal momento che Kiev ha vietato agli osservatori stranieri l’accesso alle stazioni di compressione e smistamento di gas.

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dirittura minacciare la sua legittimità che è, come dicevo, basata su un’implicita garanzia di stabilità e sicurezza. Anche questa riscrittura della storia non era inevitabile. Nonostante i cliché che spesso la gente rivolge ai russi, che tenderebbero invariabilmente all’autoritarismo e alla dittatura, la Russia non è mai stata condannata per aver celebrato questa versione della storia.

Al contrario, un governo futuro potrebbe riscoprire l’eredità del liberalismo russo agli inizi del XX secolo o anche l’eredità dei dissidenti russi che negli anni Sessanta e Settanta inventarono essenzialmente quello che oggi chiamiamo movimento moderno per i diritti umani. Ogni Paese ha il diritto di celebrare alcuni elementi positivi del suo passato e la Russia non fa eccezione. Ma il fatto che Putin e i suoi colleghi abbiano scelto, fra tutte le cose, di celebrare l’imperialismo stalinista ci dice molto della loro visione sul futuro del loro Paese.

dell’Unione Europea di dare all’Ucraina lo status di economia di mercato - decideva prima di elevare la tariffa da 50 a 160 dollari ogni 1000 metri cubi; e poi, dopo il rifiuto di Kiev, addirittura a 230 dollari. Il compromesso del 4 gennaio del 2006 tra la compagnie ucraina Naftogaz e la russa Gazprom prevedeva che Kiev avrebbe acquistato gas russo per 5 anni al prezzo di 230 dollari ogni 1000 metri cubi: ma con la possibilità di acquistarne anche a 95 dollari ogni 1000 metri cubi da altri Paesi come Kazakistan e Turkmenistan, attraverso la compagnia svizzera a partecipazione russa e ucraina Rosukrenergo. Nel contempo, anche il prezzo che sono la Russia e il Turkmenistan a pagare all’Ucraina per il passaggio dei suoi gasdotti verso l’Europa passava da 1,09 a 1,60 dollari ogni 1000 metri cubi per 100 km. Ma per ottenere il pagamento di debiti pregressi per 1,3 e 1,5 miliar-

mento degli arretrati, mentre il punto di vista della premier ucraina Yulia Timoshenko è stato che non è l’Ucraina a dover saldare la Gazprom, ma la Rosukrenergo. Insomma, la somma calerebbe a un miliardo, in attesa di una ristrutturazione del debito per gennaio-febbraio. Risposta di Mosca: prezzo a 250 dollari, e saldare sunito 1,76 miliardi di debito e 450 milioni di mora. Non avendo ottenuto niente, i rubinetti sono stati chiusi dal primo gennaio. Per riaprirli, Gazprom chiede ora i 418 dollari del mercato europeo. In teoria, il flusso destinato all’Europa è garantito dai contratti.

Ma l’Ucraina ha annunciato che preleverà 21 milioni di m3, spiegando che solo così potrà garantire il totale del transito del gas attraverso il suo territorio anche in assenza di contratti di fornitura russoucraini. Accusando l’Ucraina di furto, Gazprom ha risposto aumentando le forniture di gas verso l´Ue attraverso altri canali. Ma in tutta l’Europa dell’Est il quantitativo di gas in arrivo 3 è già calato: il 10-15 per cento in Bulgaria; il 30 per cento e più in Romania e Grecia. Insomma, l’Ue è riunita con procedura di emergenza. Mentre Mosca punta sempre di più sugli accordi firmati lo scorso 24 dicembre con la Serbia per quel grande gasdotto South Stream, che attraverso il Mar Nero porterebbe 31 miliardi di m3 all’anno dal territorio russo di Krasnodar verso Bulgaria, Romania, Slovenia, Ungheria, Austria, Serbia, Montenegro, Macedonia ed Italia. Assieme all’altro gasdotto North Stream, steso attraverso il Baltico, risparmierebbe così a Mosca le continue seccature ucraine e bielorusse. Mentre Belgrado avrebbe un formidabile asset per contrattare un’ammissione sollecita all’Unione Europea.

È stato il Foro di Kiev a vietare per legge alla Naftogaz Ukraine di effettuare il passaggio di gas russo al prezzo di 1,6 dollari per 1.000 m per ogni 100 chilometri. Scatenando l’ira del Cremlino

«Non siamo Babbo Natale» aveva detto nel 2006 il portavoce della Gazprom Sergei Kupriyanov nell’annunciare per le 10 in punto del Capodanno del 2007 un aumento dei prezzi alla Bielorussia, dai 46,68 ai 110 dollari ogni 1000 metri cubici. «Non è possibile che i consumatori ucraini paghino il gas meno di quelli russi», aveva spiegato nel 2005 Putin, mentre la Gazprom - in seguito alla decisione

di la Russia aveva di nuovo minacciato l’Ucraina nell’ottobre del 2007 e lo scorso gennaio. L’accordo di febbraio ha mantenuto per il 2008 un prezzo di 179,5 dollari, ed ha stabilito di sostituire la con una joint venture tra Gazprom e Naftohaz, ma sia il pagamento del debito che la nuova società sono state poi bloccate, malgrado a marzo i russi abbiano pure tagliato la somministrazione per due giorni. L’ultima crisi è partita a novembre: paradossalmente, dopo che Gazprom e Naftohaz avevano siglato un nuovo accordo sull’esclusiva delle forniture russe all’Ucraina. Ma per farlo partire la Russia ha chiesto di nuovo il paga-


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mondo

Crack. Un rapporto annuncia per il prossimo anno la perdita di 1.600 posti di lavoro al giorno

Londra cede alla crisi di Silvia Marchetti

i preannuncia un 2009 nero per la Gran Bretagna. Tra disoccupazione alle stelle, potere d’acquisto al tappeto e sprechi nella spesa pubblica, al governo laburista di Gordon Brown sono serviti poco gli auguri di Capodanno. E se per l’esecutivo il futuro è tutto negativo, l’opposizione conservatrice ne approfitta per alzare il tiro mentre i pronostici economici dei prossimi mesi si rivelano più cupi che mai. Durante un brindisi di fine anno insieme al partito, il giovane leader Tory David Cameron ha sferrato un ulteriore durissimo attacco alla politica fiscale portata avanti dal governo e ha proposto nuovi piani contro l’aumento della spesa pubblica, metodi per tagliare gli sprechi del welfare state e abbassare la pressione fiscale che grava sulle fasce deboli e soprattutto sui pensionati inglesi. Lo ha fatto nello stesso giorno in cui un importante centro studi ha pubblicato un rapporto allarmante sugli effetti del credit crunch che ha investito il Paese avvertendo che nel 2009 ben 1600 cittadini al giorno perderanno il loro posto di lavoro. Gente che si ritroverà in mezzo a una strada mentre migliaia di altre persone, al contrario, continueranno a lucrare sui sussidi statali del generoso welfare state britannico. In sostanza, i conservatori si oppongono all’aumento della spesa pubblica decisa negli ultimi tempi dal Labour. L’obiettivo è mostrare agli elettori il fossato ideologico esistente tra sinistra e destra, tra il “garantismo sociale” esteso a tutti e il controllo dei sussidi e dei servizi sociali erogati alla popolazione. Presto si svolgeranno le elezioni e le politiche fiscali ed economiche terranno banco. David Cameron critica la strategia laburista basata sull’aumento delle tasse sul reddito (soprattutto per le fasce deboli) e della spesa corrente, che finisce per aumentare il debito pubblico della Gran Bretagna. Una spesa pubblica lievitata dopo l’iniezione di liquidità decisa dal governo per salvare il mercato bancario, che si è rivelata un peso sulle spalle dei cittadini che hanno finanziato il “bail-out” con le proprie tasche. David Cameron ci va giù pesante e accusa il premier di “crimini economici”, di aver condotto il Paese “sull’orlo della bancarotta” facendolo diventare il

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in breve Obama annuncia: Kaine Segretario dei democratici Sarà l’attuale governatore della Virginia,Tim Kaine, il prossimo segretario del Partito Democratico americano. Secondo fonti del partito il presieletto dente Barack Obama annuncerà la nomina in settimana mentre Kaine assumenrà formalmente l’incarico subito dopo l’insediamento della nuova amministrazione, il prossimo 20 gennaio. Kaine andrà così a sostituire l’attuale segretario del partito, Howard Dean, che aveva annunciato subito dopo le elezioni presidenziali che non si sarebbe ricandidato.

Il Pakistan punirà i responsabili della strage di Mumbai

Nell’incontro di Capodanno con il partito, Cameron lancia l’ultimo attacco del 2008: Brown vuole trasformare il Paese nel fanalino di coda europeo

grande malato d’Europa con elevati tassi di disoccupazione. Nell’occhio del ciclone c’è l’aumento dei contributi sociali per la sanità messi a punto dalla squadra di Brown.

Dal 2011 si parla di un incremento dello 0,5 per cento per impiegati e datori di lavoro, che si traduce in una lievitazione generale della pressione fiscale. Secondo Cameron, l’errore maggiore dei laburisti è quello di alzare le tasse senza tagliare gli sprechi pubblici. Un futuro governo Tory, ha promesso, farà sempre un lavoro di cross-check: se aumenta da una parte riduce dall’altra. In altre parole, i tagli fiscali da sempre sostenuti da Cameron come cavallo di battaglio della destra verrranno compensati da una riforma generalizzata della spesa pubblica. Già da oggi il giovane leader promette che una volta salito al potere informerà i cittadini sui piani fiscali prima di metterli in pratica. Il ministro ombra dell’economia George Osborne ha già messo a punto un piano (ancora segreto) per tutelare risparmiatori e pensionati, «le vere vittime dell’incompetenza di Brown». Intanto ad allarmare la politica ci pensa

l’ultimo rapporto annuale del Cipd, il centro nazionale per il personale e lo sviluppo. Il 2009 si preannuncia infatti il peggior degli ultimi 20 anni per quanto riguardo la disoccupazione, con una perdita calcolata di ben 600mila posti di lavoro. 300mila lavoratori verranno mandati a casa già nei primi mesi dell’anno, con tanti auguri da parte delle aziende interessate. E peggio ancora, si tratta di un trend in aumento, la situazione è destinata a peggiorare fino al 2010 con una previsione di tre milioni di posti di lavoro che andranno in fumo per via della recessione. Già quest’anno ne sono stati distrutti 150mila. E anche per chi avrà un lavoro, le cose si mettono male. Stando al barometro del Cipd, tutti gli intervistati si aspettano dei tagli sostanziali in busta paga.

Ma c’è anche chi ride mentre tanti altri piangono. Sono infatti sempre di più le famiglie che lucrano sui sussidi statali per l’acquisto di case e per usufruire dei servizi pubblici. Circa 140mila nuclei familiari ricevano oltre la soglia minima di benefici, per una spesa totale equivalente a 20mila sterline annue. Privilegi che pesano sul welfare state e creano discrepanze tra coloro che vengono “mantenuti” dal governo e chi invece non ce la fa ad arrivare a fine mese per la crisi economica. Troppi anche coloro che ricevono sussidi di invalidità, circa 2,7 milioni di persone che lavorano part-time o non lavorano proprio. Cifre troppo elevate per i conservatori, che vogliono lanciare un monitoraggio a 360 gradi per verificare chi sono i “veri” malati. Insomma, in Gran Bretagna urge una severa riforma del sistema assitenziale, il tanto decantato welfare state, perla dell’ideologia laburista, dovrà mutare pelle. Ma tant’è: ci penserà Gordon Brown o i conservatori, perchè così non si va avanti.

Eventuali responsabili pakistani degli attentati di Mumbai sarebbero puniti se fossero prodotte prove “credibili” a loro carico. Lo ha assicurato il primo ministro di Islamabad, Yousuf Raza Gilani. Gilani ha rilasciato questa affermazione durante la visita a Islamabad del sottosegretario di stato degli Stati Uniti per l’Asia meridionale, Richard Boucher, arrivato per provare ad alleviare le tensioni tra il Pakistan e l’India a seguito degli attentati di Mumbai dal 26 al 29 novembre (172 morti, tra i quali nove terroristi).

Suore rapite in Kenya: al governo italiano oltre 5mila firme Oltre 5mila firme, raccolte da varie associazioni, sono state consegnate ieri al governo italiano a sostegno della liberazione di suor Maria Teresa Olivero e suor Caterina Giraudo, rapite lo scorso 9 novembre a Elwak, in Kenya, e portate da un gruppo armato in territorio somalo. Lo ha detto don Fredo Olivero, direttore regionale in Piemonte e diocesano a Torino della pastorale per i migranti e fratello di suor Maria Teresa. «Le stiamo consegnando alla vigilia della partenza della delegazione del governo italiano guidata da Margherita Boniver ha aggiunto don Fredo che dovrebbe avere un incontro, forse a Nairobi, con i rappresentanti del governo di transizione somalo».


mondo

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Da sinistra, le cinque finaliste dell’edizione 2008 del concorso internazionale di Miss Universo: la seconda è Miss Venezuela, che ha poi vinto il titolo. In Venezuela, i concorsi di bellezza sono più seguiti delle partite di calcio o delle telenovelas e arrivano a ottenere il 90 per cento di share televisivo. La vittoria di una connazionale in qualche concorso provoca pubblici festeggiamenti. In basso Hugo Chávez, che ha regalato denaro alle venezuelane per gli interventi chirurgici

Business. Il giro d’affari legato alla bellezza rimane stabile al primo posto degli introiti nazionali

La crisi economica non colpisce Miss Venezuela di Maurizio Stefanini ono passato per una o due crisi e conosco il terreno. In Venezuela è possibile che una donna non abbia soldi per la sua casa ma comunque spenderà in chirurgia plastica e in abiti per mantenere il suo aspetto. Qui da noi questa è una priorità. Così, nelle interviste, spiega Peter Romer, uno dei più noti chirurghi plastici del Venezuela. Le riserve internazionali di valuta del Paese hanno perso 503 milioni di dollari in una settimana; i prezzi del greggio locale sono a 23 dollari al barile, i livelli minimi da cinque anni; il debito estero è arrivato al livello record di 50,3 miliardi; per il 2009 sono già stati annunciati tagli della spesa pubblica dell’ordine del 30 per cento; da tre mesi c’è difficoltà a pagare le pensioni e si teme addirittura che per il 2009 ci saranno rischi per gli stipendi dei dipendenti pubblci; Standard & Poors ha ridotto la qualificazione del debito venezuelano da stabile a negativa; l’inflazione su base annuale arriva al 30 per cento. Eppure, la chirurgia plastica è un settore che nell’economia venezuelana continua a andare a gonfie vele sempre: prima di Chávez e con Chávez, in tempi di aumento delle quotazioni del petrolio e in tempi di calo. Certo, negli anni in cui Chá-

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vez distribuiva soldi a tutto spiano molte venezuelane ne hanno appunto approfittato per rifarsi il look, con un raddoppio netto degli interventi negli ultimi cinque anni.

Ma anche adesso che l’economia capitombola il livello di 30mila interventi all’anno si mantiene. Insomma, ogni 12 mesi su fa rifare quasi una venezuelana

Il Paese conta lo 0,36 per cento della popolazione mondiale, ma ha dato al pianeta il 20 per cento di tutte le “reginette” di bellezza della storia

ogni 40, comprese vecchie e bambine. Vincitore lo scorso luglio del titolo di Miss Universo 2008 con Dayana Mendoza, il Venezuela è il secondo Paese al mondo per numero di titoli vinti a quel concorso, con cinque contro i sette degli Stati Uniti. Ma nella rivale competizione di Miss Mondo è invece prima, pure con 5 titoli, alla pari con l’India. Insomma, con lo 0,36 per cento della popolazione mondiale il Venezuela ha dato al pianeta il 20 per cento di tutte le “reginette” di bellezza della storia. Una straordinaria concentrazione, che spiega il perché in questo Paese le gare di Miss suscitino passioni quasi più accese del baseball e del calcio: più popolare di qualsiasi evento sportivo o sceneggiato, nel Paese che ha pure inventato le telenovelas, l’elezione di Miss Venezuela o Miss Mondo conquista in tv uno share mostruoso del 90 per cento, e la vittoria è festeggiata come da noi quelle degli Azzurri ai mondiali di Germania. Irene Sáez, Miss Universo a 19 anni in quello stesso 1981 in cui un’altra venezuelana completava la storica accoppiata aggiudicandosi pure Miss Mondo, è stata addirittura a un passo dal diventare Presidente della Repubblica. Divenuta popolarissima sindaco del municipio di Chacao, zona elegante della Grande Caracas, fondò infatti un suo partito col quale si candidò nel 1998 alla massima carica dello Stato, ritrovandosi per gran parte della campagna elettorale in testa ai sondaggi: salvo poi l’improvviso exploit finale dell’ex-golpista Hugo Chávez, che si trovò eletto, lasciandole ap-

pena il 3 per cento dei voti. Proprio con l’appoggio di Chávez in compenso divenne poco dopo governatrice dello Stato di Nueva Esparta, quello dell’isola Margarita; salvo in capo a 11 mesi dimettersi, per dedicarsi alla sua storia d’amore con un ricco imprenditore. Curiosamente, la traiettoria di Chávez si è incrociata anche con quella di Pilín León, quella che nel 1981 aveva invece vinto Miss Mondo. Furono due episodi simbolici importanti del grande sciopero dell’opposizione: da un lato l’arrembaggio della Guardia Nazionale alla petroliera bloccata che aveva preso il nome della reginetta; dall’altro la comparsa della Pilín vera a una successiva manifestazione. Insomma, il culto per la bellezza in Venezuela va oltre alle buriane politiche. C’è addirittura un’apposita “Organizzazione Miss Venezuela” a modellare le candidate a base di plastiche, body-building, liposuzioni e corsi accelerati di buone maniere e dizione.

Osmel Sousa, l’oriundo cubano che amministra il business, dichiara un bilancio di 800 milioni di dollari all’anno, grazie a pubblicità e sponsorizzazioni. E nell’indotto c’è pure la seconda “industria” della chirurgia estetica al mondo, dopo gli Usa e davanti alla Spagna. Non è mancato qualche politico chavista, che ha cercato addirittura di far inserire gli interventi di chirurgia plastica tra quelli coperti dalla mutua, teorizzando un diritto costituzionale alla bellezza. Ma anche in tempi di vacche magre la coda delle prenotazioni per gli interventi arriva fino a marzo, e le banche continuano a prestare soldi per gli interventi senza problemi. Neanche problemi hanno le venezuelane a vantare i soldi che hanno investito per tale tipo di miglioramenti: con l’eccezione, per lo meno nelle interviste alla stampa internazionale, proprio delle Miss Mondo e Miss Universo. Le tariffe sono talmente basse che ormai sta nascendo un vero e proprio filone turistico: visita alle bellezze naturali e miglioramento dell’aspetto, tutto compreso. Per un impianto al seno, ad esempio, possono bastare tra i 600 e i 1800 euro, e per un lift facciale 2500 euro.


cultura

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Tra sacro e profano. La modernità ha lentamente smarrito il senso reale e profondo della Festa. Rincorrendo sempre più la Dea Bendata delle lotterie

Ritorno alla vera Epifania I regali dei Re Magi al Bambino Salvatore indicano la strada verso una nuova “etica del dono” di Alfonso Piscitelli l Divino si manifesta, nella sua forma più immediata, come dono. Le cosmologie religiose anche quando presentano figure di Divinità dispotiche e irraggiungibili accennano con tenerezza al momento in cui il Creatore conferisce il dono essenziale insieme a quelli accessori: la vita e le facoltà che si sviluppano nella vita individuale umana. Ma nella festa cristiana della Epifania, per come è percepita dal sentimento popolare, il donare diventa reciproco. Il Figlio di Dio nascendo dona agli uomini la salvezza dell’anima e una prospettiva di luce nella stessa dimensione terrena; a loro volta gli uomini, rappresentati dai Magi, offrono doni al Salvatore come naturale forma di gratitudine. Siamo proprio sicuri che fosse questo il significato originale del gesto dei Magi? Leggendo i Vangeli più che a un atto di donazione sembra di essere al cospetto di un gesto – quasi feudale – di riconoscimento. Riconoscimento di un carisma reale.

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I magi sono astrologi e interpretando le stelle somigliano a esperti di genealogie regali che riconoscono il luogo e la persona degni di incarnare il Sovrano Universale. I doni dei Magi: oro, incenso e mirra sono appunto i segni del riconoscimento della dignità regale da parte di chi sa, di chi distingue l’essenziale dall’apparente e dunque sa scorgere nelle carni di un fanciullo come tanti l’archetipo del Redentore, signore della storia. Tanto alte sono le sfumature teologiche del racconto evangelico dei Re Magi: al tema del riconoscimento della regalità si unisce quello forse ancora più pregnante della origine dei Magi. Come Melchisedek nella Genesi, i Magi rappresentano una strana irruzione del mondo pagano nell’universo culturale abbastanza autarchico della narrazione biblica. La loro presenza anticipa quella esigenza di superamento degli antichi confini etnici entro i quali appunto si muoveva la narrazione biblica, esigenza che in seguito sarà posta con forza dal con-

vertito Paolo. Probabilmente, però, di tutti questi significati poco rimane nella coscienza di chi per tradizione festeggia la Befana il 6 gennaio. Molti di coloro che riempiono la calza nella notte tra il 5 e il 6 neppure

Oggi, purtroppo, il 6 gennaio sembra essere diventato solo un mero spartiacque tra il momento di festa e quello delle ferie

sono sfiorati dalla consapevolezza del significato del termine greco “Epifania”(Manifestazione, apparizione del Divino nella trama del mondo) e neppure sanno che una festa analoga, legata alla manifestazione della Luce, veniva celebrata nell’Egitto dei faraoni. Rimane tuttavia come elemento fondamentale, capace di collegare la memoria dei Testi alla pratica nella vita familiare, il gesto del Dono.

Come se non fossero bastati i regali e gli eccessi alimentari di Natale e di Capodanno, l’Europa cristiana si concede un ulteriore momento di sogno, di attesa e di dono prima di immergersi nella dura realtà dell’anno. L’Epifania segna il termine

estremo di un lungo periodo di “eccezione” che fa da transito da un anno all’altro, creando una fase di caos allegro.

L’Epifania anche alla coscienza dell’uomo moderno, più disincantato, sembra essere lo spartiacque tra un periodo sacro, o semplicemente più intenso, e il periodo profano o più monotono dell’anno lavorativo. Insomma lo spartiacque tra festa e ferie. E l’ultimo dono atteso nel giorno del 6 gennaio rappresenta un viatico per affrontare gli impegni di studio e di lavoro, con la fiducia legata alla consapevolezza di poter contare su una protezione. Psicologicamente, chi riceve il dono sa di poter contare su un aiuto potente: donare è segno di forza e infonde sicurezza, ricevere il dono alimenta la coscienza che non si è soli nel cammino terrestre. I genitori riempiendo la calza dei loro bambini ripetono nel microcosmo familiare il gesto primordiale della Divinità che riempie il corpo umano di ogni dono, dopo avergli infuso il dono fondamentale della vita. Donare significa manifestare una potenza benevola, è un gesto che alimenta l’autostima e infonde sicurezza. In chi riceve il dono, il sentimento naturale che sorge è quello della gratitudine. Anche in questo caso, la psicologia quotidiana sembra vivere di riflesso rispetto agli atti solenni che abbiamo letto nelle grandi narrazioni mitiche. Alla creazione divina fa da corrispondenza la devozione, l’am-

Molti di coloro che riempiono la calza nella notte tra il 5 e il 6 gennaio neppure sono sfiorati dalla consapevolezza del significato del termine greco “Epifania” (Manifestazione, apparizione del Divino nella trama del mondo) e neppure sanno che una festa analoga, legata alla manifestazione della Luce, veniva celebrata anche nell’Egitto dei faraoni

mirata venerazione della creatura. Alla Grazia di Dio fa da eco il “grazie”degli uomini. Ed è per questo che l’ingratitudine rimane un mistero insondabile, un abisso di malvagità che è privo di quelle stesse spiegazioni razionali che a volte accompagnano il furto, o addirittura l’omici-

dio. In che modo colui che ha ricevuto un dono dovrebbe o potrebbe rivoltarsi contro il benefattore? Solo il Mysterium Iniquitatis, ovvero la supposizione poco buonista che esista una forza di gravità nell’universo che ama il male in sé, può giustificare questo rivolgimento così anomalo.

Nel più profondo dell’inferno, nella cloaca maxima della perversione, Dante poneva i traditori contro i benefattori. Gli ingrati per eccellenza, esemplificati nelle vite parallele di Bruto, traditore di Cesare, di Giuda, traditore di Cristo. Eppure, senza giungere agli abissi di iniquità della fantasia


cultura

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ca del lavoro, di uno sforzo continuato nel comprendere e nell’applicare le conoscenze. Nella loro interpretazione infantile il benessere è un dato di natura e semplicemente gli Occidentali hanno vinto la gara per accaparrarselo; di conseguenza ogni problema sociale sarebbe risolto distribuendo a tutti i doni del benessere che la natura spontaneamente produce. Ma non è così. Sociologicamente non è cosi; e non è così dal punto di vista della psicologia morale.

dantesca, va rilevato che anche nelle famiglie il sentimento della gratitudine, negli ultimi anni di benessere, ha perso quella forza quasi sacra che aveva in tempi precedenti.

«Lunghe epoche di benessere favoriscono il sorgere di strane illusioni», annotava Ernst Junger nel suo aureo Trattato del Ribelle: una delle illusioni più grandi è senza dubbio quella di dare per scontate cose che non sono affatto scontate, ma che vanno guadagnate. È l’errore che commette il bambino viziato, nel credere che tutto gli sia dovuto senza esigere da lui alcun

sforzo. Negli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale la nefasta psicologia permissiva del dottor Spock creò una marea di piccoli infelici arroganti; educati nel totale lassez faire essi pensavano di non avere obblighi, di non avere limiti e in definitiva persero il contatto con la realtà. Per dirla in termini freudiani, il loro

Es non coltivato da una sana educazione aveva divorato sull nascere i germi del Super-Io (la coscienza di avere dei doveri) e dello stesso Io (il principio di realtà). Alla fine il dottor Spock chiese scusa e garbatamente invitò gli aspiranti genitori di bambini “non repressi” a non prendere troppo sul serio quanto aveva scritto nei suoi precedenti libri di pedagogia. Eppure a partire dal ’68 e ancor più con la generazione dei noglobal noi abbiamo assistito all’inquietante riaffiorare in una dimensione collettiva di quegli stessi impulsi che avevano devastato l’educazione individuale.

I no-global come bambini viziati vogliono tutto, pensano che i frutti del benessere spuntino sugli alberi come doni di natura, ignorano che il livello di benessere raggiunto dall’Occidente sia frutto di una disciplina del lavoro, di un’eti-

La festa dell’Epifania era ed è un grande strumento di educazione, se celebrata nel suo “rigore” tradizionale, ovvero nella consapevolezza che il dono è preceduto dal merito ed è seguito dalla gratitudine. Il dono è qualcosa di inatteso, dunque di incalcolabile e tuttavia deve essere “attirato”, suscitato da un comportamento meritorio: questa era la logica sottesa nelle famiglie borghesi che festeggiavano in maniera modesta o sontuosa la festa del regalo. Una logica indubbiamente cattolica: il dono è una proiezione della Grazia divina, e la Grazia è insondabile esattamente come insondabile è il contenuto di un regalo ancora nel pacco. Tuttavia la volontà umana deve mostrarsi degna di ricevere il dono, attraverso le opere: attraverso una costellazione di piccole buone azioni tali da far dimenticare i ripetuti inciampi lungo il cammino dell’educazione. Nel momento in cui si riceve il dono tuttavia la coscienza del bambino veniva educata a non considerare il dono come una sorta di “atto dovuto”, come la conseguenza automatica di un “diritto”, ma sempre come qualcosa di eccedente, qualcosa che va al di là delle stesse aspettative. Da

questa consapevolezza nasceva la “gratitudine”. Gratitudine gioiosa che come un seme sarebbe maturata nel terreno dell’anima facendo germogliare la voglia della reciprocità: la voglia di contraccambiare, di diventare adulti per ricambiare di grazie chi ti ha gratificato, per passare alla condizione più elevata di elargitore di doni. Quando il dono diventa esorbitante rispetto al merito oppure quando prescinde completamente dal merito si entra in un campo completamente diverso

che è quello della Fortuna. Questo tema nel corso degli anni si è innestato nella festività dell’Epifania. Il giorno della befana è diventato anche il giorno della Lotteria: il giorno in cui la Dea Bendata elegge pochi privilegiati, in base a imperscrutabili motivi e ne trasforma la vita innalzandoli a una dimensione di ricchezza materiale prima irraggiungibile. Il Dono della Fortuna ovviamente non si può propiziare con buone azioni, quindi non siamo più nel campo della morale. Non sono pochi però coloro che ritengono che un meccanismo così sfuggente come quello della fortuna possa essere “captato”e usato a proprio vantaggio per risolvere i problemi finanziari di un momento storico di crisi. Ma la crisi forse non c’è solo perché vi sono problemi economici. C’è soprattutto perché nella teste di persone abituate a un lungo benessere è insorta la insolita aspettativa di risolvere i loro problemi non con il lavoro, l’autoformazione, la solidarietà cosciente col prossimo, bensì con una invocazione alla Fortuna.

È successo con la Fortuna quel che è accaduto col Carnevale. Prima il carnevale era un periodo circoscritto di legittimo caos: una baldoria tutto sommato regolata che finiva col rafforzare il rispetto dell’ordine morale una volta giunti al mercoledì delle ceneri. Nel corso del Novecento il carnevale si è dilatato progressivamente a tutto l’anno: sempre più persone vivono in una condizione mentale carnevalesca 365 giorni all’anno. Allo stesso modo, la lotteria della Befana, che aveva le sue sacerdotesse tutto sommato caste e dignitose sul primo canale della televisione di Stato, si è moltiplicata per 365. Per tutto l’anno si inseguono i doni della Fortuna attraverso il moltiplicarsi di lotterie, il salire vertiginoso dei montepremi del superenalotto, il diffondersi endemico dei punti di vendita dei gratta-e-vinci, il raddoppio (secondo statistiche fresche di giornate) del volume di introiti dei centri scommesse. Nella mente degli Italiani il dono e la fortuna si sono tragicamente confuse. In realtà il dono è un atto d’amore compiuto da un essere cosciente, che conosce i bisogni (e anche i meriti) di chi vuole beneficiare. La Fortuna è invece una grande, sublime e cieca forza della natura che per innalzare un Eletto, secondo criteri assolutamente insondabili, sommerge di debiti una marea di aspiranti.


in edicola il nuovo numero di Risk il bimestrale di geostrategia 120 pagine per capire il pianeta • Come affrontare la guerra di Kabul • L’ombra lunga di Teheran? • Il doppio gioco del Pakistan • La finta pazienza di Vladimir Putin Mario Arpino, Pierre Chiartano, Marcello Foa, Giovanni Gasparini, Egizia Gattamorta, Riccardo Gefter Wondrich, Virgilio Ilari, Beniamino Irdi, David J. Smith, Andrea Margelletti, Michele Marchi, Lucia Marta, Andrea Nativi, Michele Nones, Emanuele Ottolenghi, Amhed Rashid, Michael Rubin, Andrea Tani


sport

a speranza, e la volontà, è che nessuno l’accosti all’imponente e tragica figura di Marco Pantani capace di bruciare con fulmineo scatto se stesso e tutti gli orpelli dei fantasmi di un tempo per volare in fuga solitaria all’ultimo traguardo; e tantomeno deve essere mischiato ai tanti mali – doping in primis e penuria di vocazioni in secundis – che il ciclismo soffre da anni in ogni dove, dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. Se poi accade che, come hanno fatto alcuni pugili di prestigio ormai suonati attratti da qualche facile borsa e pochi spiccioli, si riprende dopo aver lasciato le luci della ribalta sportiva, leggi Lance “fortebraccio”Armstrong pluridecorato riservista americano delle due ruote, e la stampa per giorni ne straparla, ne riprende successi e oscure zavorre mai del tutto riportate a galla, lo sport tutto, e nel caso il ciclismo, non sembra godere di ottima salute.

L

Si era ritirato anche lui, Luca Gelfi, 42 anni, una vita da gregario, con qualche acuto e quattro vittorie da professionista nel palmares: eccellenti i 6”vincenti rifilati dopo 68 km di una cronometro corsa nelle valli cuneesi da Grinzane Cavour a Cuneo a un Gianni Bugno d’annata, 1990 Giro d’Italia. Di riprendere non gli passava neanche per l’anticamera del cervello. Aveva già corso per un decennio, ambientandosi con difficoltà tra i professionisti, mischiando sudore e fatica, sfiorando gambe e pedali con ciclisti d’alto calibro, come il campione del mondo e recordman dell’ora Francesco Moser che lo ricorda per quel «carattere un po’ particolare. Era un tipo diverso dagli altri. Ma erano tempi differenti, eravamo in tanti, tutti con storie diverse». Come le tante che hanno creato la leggenda di

6 gennaio 2009 • pagina 21

Gli antieroi della domenica. Fermo immagine sul ciclista Luca Gelfi

L’ultima pedalata del gregario silenzioso di Francesco Napoli questo sport, fatto di dualismi – gli italioti Coppi-Bartali, Gimondi-Motta, Moser-Saronni e via discorrendo – o di personalismi, sempre italici, alla Zilioli Italo, il discesista taciturno e afflitto prima dei grandi appuntamenti da strampalati incubi, capace di lanciarsi a capofitto giù giù nei ripidi pendii, inclinandosi sulla bicicletta come un sapiente metronomo e abbordando le curve ora da un lato e subito dopo da quello opposto in una consapevole sfida con la morte; o alla Bitossi Franco che sfidava la vita ogni volta che inforcava la bici per quel “cuore matto”che gli palpitava in petto, difetto che non gli impediva i

successi, ma che mai superò il tormento per quella maglia iridata sfumata all’ultimo istante, trafitto dal compagno Marino Basso che ai Mondiali di Gap nel 1972 gliela soffiò sotto il naso con crudeltà inaudita. Ma il ciclismo è anche questo: l’unico sport di squadra dove d’improvviso, quando il filo di lana si avvicina inesorabilmente, emergono gli egoismi più spietati.

Luca Gelfi la sua compagna di una vita sportiva l’aveva appesa al chiodo ma era rimasto nell’ambiente, come spesso capita proprio alle più talentuose comparse: aveva

In alto, il discesista 42enne Luca Gelfi, trovato morto suicida lo scorso 3 gennaio nel magazzino del suo negozio di biciclette. Il ciclista si sarebbe tolto la vita a causa della depressione che lo attanagliava da tempo. In alto a destra, Marco Pantani

Professionista dal 1988 al 1998, da tempo soffriva di depressione. Si è impiccato lo scorso 3 gennaio nel suo negozio di biciclette un negozio di biciclette e accessori per il ciclismo nel bergamasco e lì viveva ormai da qualche anno. Ma ogni attività vissuta con la stessa in-

tensità e la dedizione di un fante nostrano al fronte durante la Prima guerra mondiale può provocare crisi d’astinenza. Gelfi aveva trovato come superarle: oltre a vendere due ruote, a consigliare questo o quell’avventore sull’ultimo prodotto, regalare qualche sogno ai più giovani casomai andando a ripescare dalla cornucopia della storia ciclistica qualche straordinaria avventura, si era ritagliato un ruolo di talent scout per Fabrizio Bontempi, direttore sportivo della Lampre di Beppe Saronni: osservava i migliori garretti su due ruote circolanti nelle tortuose valli bergamasche. Lo immagino allora appostato, come un tifoso d’altri tempi, ai bordi dei tornanti che risalgono su su il Brembo, si abbeverano alle fonti di San Pellegrino, si rifocillano nell’accogliente Branzi dai rinomati formaggi e arrivano a Foppolo, in quella Val Brembana che negli sfottò del principe della risata Antonio De Curtis, al secolo Totò, veniva additato come luogo d’origine di uomini gnucchi e un po’ tonti, ma in realtà terra fertile per le due ruote e non solo. E così doveva fare Gelfi per le altre valli della provincia lombarda, distinguendo con fiuto tra brocchi e promesse.

Indicano la depressione come causa del suo gesto estremo, lontanissimo dunque da quello del Pirata nazionale e ben più prossimo a quello di Luis Ocaña al quale nulla valse esser riuscito negli anni Settanta a mettere alle corde il cannibale, al secolo Eddy Merckx, in un Tour da favola. Anche per il suo gesto, un colpo di pistola indirizzato alla propria testa, invocarono quel male oscuro cantato mirabilmente dal veneto Giuseppe Berto ormai 45 anni fa con un record in decine e decine di pagine consecutive senza un segno d’interpunzione a dar respiro al lettore quando perfino la scalata al Mont Ventoux o al Pordoi lascia più fiato in corpo. Depressione, allora? No comment, direbbero gli albionici, e no comment sia, in onore di Luca Gelfi, classe 1966.


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da ”le Monde” del 03/01/2008

Sarkò spegne gli spot in tv di Guy Dutheil ambieranno le abitudini serali televisive dei cugini francesi? L’annuncio fatto dal presidente Nicolas Sarkozy più di un anno fa, è stato messo in pratica. È una notizia di quelle da far stropicciare occhi e orecchie per le ripercussioni che potrebe avere anche in Italia.

C

Dal 5 gennaio France televisions – la rete pubblica - non trasmetterà più annunci pubblicitari dalle otto di sera alle sei del mattino. Un cambiamento radicale, come se ci raccontassero che sulla Senna non si beve più Bordeaux e non si mangia Camambert. Il ritmo della vita quotidiana dei francesi - almeno dopo il tramonto - non sarà più scandito da reclame e spot. Ma cosa faranno i canali privati, anche loro sapranno abbandonare, quantomeno limitare, una fonte così redditizia – l’unica – per il loro sostentamento? Per il momento il comportamento del settore privato dei media è improntato alla cautela, all’attendismo. Cercano di capire quanto la misura del governo cambierà abitudini e gradimento dei telespettatori. Per inaugurare la nuova serata senza spot, France 2 e 3 hanno messo avanti di un quarto d’ora le lancette del palinsesto. Il prime time comincerà non più tardi delle 20.35, appena dopo l’ultimo treno di consigli per gli acquisti. Tf1 non ha cambiato l’inizio della prima serata, lasciandolo alle 20.50, anche se arrivano dei segnali dalla raccolta pubblicitaria. In pratica Sarkò avrebbe pragmaticamente anticipato gli eventi. Una flessione nella vendita degli spazi pubblicitari più costosi che incominciavano a vedere dei minuti invenduti, proprio nella fascia pregiata delle trasmissioni. Ma potrebbe essere solo un effetto momentaneo della crisi

economica generale. Jean-Claude Dassier, direttore del settore informazione di Tf1, non si aspetta cambiamenti repentini nelle abitudini dei francesi, ma si prepara pragmaticamente agli eventi. Non commercializza più direttamente la pubblicità nella fascia di prime time. Forse si cerca chi sia più abile nella vendita di una merce troppo costosa per i tempi di crisi che si stanno vivendo. Dassier è convinto che le abitudini televisive dei francesi siano equiparabili ai «bioritmi», ma occorre muoversi per non far scappare audience verso la concorrenza. L’incrocio televisivo situato tra le 20.30 e le 21 è strategico. Solo in quella fascia si fattura il 15 per cento dell’intero incasso pubblicitario dei canali commerciali in chiaro. Fra questi M6 che non commenta la decisione del settore pubblico, ma “pragmaticamente”ha spostato di dieci minuti in avanti, alle 20.45, la localizzazione della vetrina pubblicitaria più importante. Anche per i canali a pagamento come Canal +, si aspetta per capire «come cambieranno le abitudini» dei consumatori del tubo catodico o dello schermo al plasma, come afferma Rodolphe Belmer, il direttore generale di quella rete.

Tutti sono però consapevoli che France Télévisons abbia sempre fatto scuola. Pierre Cottet, direttore sviluppo commerciale del gruppo editoriale Lagardère, che possiede anche dei canali televisivi, sostiene che le reti minori dovranno certamente adeguarsi alla griglia proposta dalle ammiraglie tv. La decisione ha alimentato numerose controversie.

Ci sono i sostenitori che finalmente vedranno una tv pubblica sostenuta solo dalle casse dello Stato, che potrà concentrarsi di più sulla qualità dei programmi. Lasciando ai privati la rincorsa spasmodica di un mercato sempre più distorsivo che crea dipendenza sui contenuti. Gli oppositori lamentano la riforma come un regalo fatto alle tv private che potranno spartirsi delle fette più grandi della torta pubblicitaria.

Per il 2009 il buco di bilancio sarà di 450 milioni di euro e lo Stato dovrà metter mano al portafogli. In futuro non si sa. Comunque il consiglio d’amministrazione sarà nominato direttamente dal Consiglio dei ministri. Il Consiglio superiore per gli audiovisivi – che oggi ha voce in capitolo – diventerà un organo meramente consultivo. Intanto i sindacati di settore stanno preparando le armi del confronto affinché si affianchi alla grande riforma del servizio pubblico televisivo un adeguato piano per l’impatto sociale.

L’IMMAGINE

Al «popolo eroico» di Cuba si può augurare solo la fine di Castro Che tristezza la rivoluzione cubana, Fidel Castro è un tiranno che vessa il suo popolo anche negli ultimi giorni della sua esistenza. Nel 50esimo anniverario della rivoluzione che ha tolto la libertà e la vita umana ai cubani, è toccato al fratello di Fidel parlare dallo stesso balconte di Santiago da cui Fidel proclamò la vittoria. Castro è intervenuto con un laconico discorsetto per augurare «al nostro popolo eroico» chissà che cosa. L’unica cosa che si può augurare al popolo eroico di Cuba è la fine di Castro e del suo liberticida regime. Purtroppo, anche in Italia, il regime castrista gode di buona stampa, di falsa propaganda e di apprezzamento politico e ideologico. E invece quel regime è uno dei tanti regimi totalitari del Novecento che in nome della libertà e dell’uomo nuovo hanno ucciso la libertà e gli uomini in carne ed ossa. Spiace dirlo, ma la sinistra italiana non ha mai condannato con parole ferme e nette quella falsa rivoluzione e quel regime illiberale.

Antonio Capasso

ANCHE IL BUDDISMO È CONTRARIO AL SUICIDIO Nell’intervista intitolata “I cavalli dell’Apocalisse” pubblicata su liberal di sabato 3 gennaio, non so se per un lapsus addebitabile a me o alla mia gentile intervistatrice, mi si fa dire che «nemmeno il buddismo... è contrario al suicidio». Naturalmente si deve intendere l’esatto contrario, come peraltro emerge dal contesto. Anche se il buddismo ritiene “irreale” l’individualità e auspica che ogni singolo io possa alla fine di un lungo processo di ascesi liberarsene, raggiungendo il “nirvana”, cioè dissolvendosi nel “tutto”, ciò non di meno ritiene che ogni tentativo di “affrettare”questo dissolvimento, attraverso la morte volontaria, sia da condannare, perché uccidendosi il soggetto riaf-

ferma paradossalmente e colpevolmente la propria soggettività. Cordialmente.

Francesco D’Agostino

FORZA, PERDONO E RECIPROCITÀ Tutti gli abitanti della terra, specialmente i più potenti dovrebbero accogliere le prime parole dette da Benedetto XVI nel 2009: «Anche la violenza, anche l’odio e la sfiducia sono forme di povertà, forse le più tremende, da combattere. Che esse non prendano il sopravvento sulla fondata speranza che, con il saggio e lungimirante contributo di tutti, non sarà impossibile ascoltarsi, venirsi incontro e dare risposte concrete all’aspirazione diffusa a vivere in pace, alla sicurezza, alla dignità». L’uso della forza, del perdono e dell’aiuto internazionale possono, d’altro canto, essere ar-

C’è dello zucchero nella Via Lattea Nella Via Lattea qualcuno deve aver sciolto un cucchiaio di zucchero. Un’equipe dell’università di Barcellona, infatti, ha esaminato, con l’aiuto di un radiotelescopio, una regione periferica della nostra galassia, scovando tracce di uno speciale zucchero: il glicolaldeide. Lo zucchero è presente nell’Rna (acido ribonucleico) molecola, insieme al Dna, fondamentale per la vita mi efficaci se proporzionate al contrasto mirato dell’abuso subito o prestate in un contesto di libera reciprocità nell’alveo di un sempre più equo diritto internazionale.

Matteo Maria Martinoli

LA PROVA DEL NOVE Molto tempo fa uno storico di fama mondiale disse che molti governi si giocano la propria sussi-

stenza ai tavoli della diplomazia internazionale quando si tratta di affrontare delle crisi difficili. Preferirei a tal riguardo vedere meno sorrisi e convenevoli in tali incontri, quando contemporaneamente donne e bambini pagano con la vita la stoltezza dei propri reggenti. È indubbio che quello che accade a Gaza è stato voluto da Hamas, come è provato che molte entità

arabe e palestinesi farebbero volentieri a meno di lui, ma non ce la si fa più a vedere filmati da macello mentre nessuno si rende conto che le stesse organizzazioni internazionali non hanno condannato, al momento giusto e con vigore, certi personaggi estremisti che si organizzavano per la distruzione dello stato di Israele.

Bruno Russo


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Rammentatevi, Giuseppina, del pugnale di Otello! Non ti amo più, sì non ti amo più, anzi ti detesto. Sei una disgraziata, davvero goffa e stupida, una vera e propria cenerentola. Hai smesso di scrivermi, non ami tuo marito; sai il grande e immenso piacere che le tue lettere gli procurano ma non riesci a scrivere più di sei righe buttate, tra l’altro, giù a casaccio! Che cosa fate dunque tutto il giorno, signora? Quali importanti impegni vi privano del tempo per scrivere al vostro fedele amante? Quale pensiero può essere tanto invadente da mettere in disparte l’amore, quell’amore tenero e costante che avete promesso? Ve ne ricordate, vero? Chi può essere questo nuovo e meraviglioso amante che assorbe ogni vostro momento, decide le vostre giornate, vi impedisce di dedicarvi a vostro marito? Giuseppina, attenta, una bella notte sfonderò le porte e mi troverete là accanto al vostro letto. Rammentatevi del pugnale di Otello! In verità, mia cara, sono preoccupato per il fatto di non ricevere tue notizie, scrivimi subito quattro pagine con tutte quelle deliziose parole che mi riempiono il cuore di gioia e di piacere. Spero di stringerti fra le braccia quanto prima, e coprirti di milioni di baci, ardenti come il sole dell’equatore. Napoleone Bonaparte a Giuseppina Beauharnais

ACCADDE OGGI

I GROSSI PERICOLI DELL’IMMIGRAZIONE INCONTROLLATA L’immigrazione illegale costituisce un diffuso affare organizzato. L’immigrazione incontrollata ha popolato l’Europa anche di persone che non intendono integrarsi e tuttavia beneficiano dei servizi sociali, dell’assistenza medica e dei sussidi - di disoccupazione e analoghi – offerti dai paesi ospitanti, spesso carenti di “spazio vitale”. L’“autoghettizzazione”, la disoccupazione di massa e il disprezzo ideologico verso le nazioni accoglienti generano pure violenza estrema, come nelle rivolte delle banlieue parigine e negli attentati di Madrid e Londra. Molti degli immigrati in Europa rimangono attaccati alle tradizioni dei paesi originari delle famiglie, nonché indifferenti o perfino ostili ai valori dell’Europa stessa, i cui cittadini nativi non vogliono decadere al rango di “stranieri in casa propria”. La popolazione mondiale continuerà a crescere anche nel XXI secolo. La pressione immigratoria e demografica permarrà forte sull’Europa, che sarà islamica alla fine di questo secolo, secondo alcune previsioni. Oltre a persone operose e valorose, l’immigrazione massiccia e indisciplinata include bande criminali, specializzate in gestione della prostituzione, traffico di droga, furto d’auto, nei paesi ospitanti. Qualche moschea ha la reputazione d’essere “militante”, riserva per il reclutamento di terroristi. Numerosi immigrati di seconda e terza generazione si ribellano contro i paesi d’adozione, per povertà, sovraffollamento, abitazioni inadegua-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

6 gennaio 1907 Maria Montessori apre la sua prima scuola e centro di cura per la classe operaia a Roma 1912 Il Nuovo Messico diventa il 47° stato degli Usa 1926 Nasce la Lufthansa dalla fusione delle compagnie Deutsche Aero Lloyd (Dal) e Junkers Luftverkehr 1929 Adolf Hitler nomina Heinrich Himmler come capo delle SS 1940 Esecuzioni di massa di polacchi, commesse dai tedeschi nella città di Poznan 1942 La Pan American Airlines è la prima compagnia aerea ad avere un volo che compie il giro del mondo 1950 Il Regno Unito riconosce la Repubblica Popolare Cinese. La Repubblica di Cina in risposta taglia le relazioni diplomatiche con i britannici 1992 Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite vota all’unanimità la condanna del trattamento dei palestinesi da parte degli israeliani 1994 Nancy Kerrigan viene assalita e bastonata sulla gamba destra su ordine della pattinatrice rivale Tonya Harding

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

te, ghettizzazione, disoccupazione, carenza d’istruzione e di mobilità sociale.

Franco Niba

TRATTARE O NON TRATTARE, QUESTO IL DILEMMA Trattare o no con Hamas? Il nostro ministro monoespressivo: «Mai!». Anni fa si diceva la stessa cosa verso l’Olp e poi, vedi il pesante prezzo pagato con “l’affaire” Argo, Andreotti e Craxi usavano tutti i canali possibili. Con Arafat la corruzione era di casa, Hamas ha così “giustamente” guadagnato consenso e, anche se non ci piace, le elezioni le ha vinte. Amo Davide e quello che rappresenta va difeso ad ogni costo, ma credo che la sua sopravvivenza non sia più in discussione per l’incolmabile divario tecnologico, e quindi militare, con i paesi limitrofi. D’Alema, non legato alla Farnesina, dice che gli accordi si fanno col nemico e propone un piano realistico per il dopo Olmert. Penso che il “Migliore scalpitante” conosca bene i non detti di questa area e creda che la “comprensione” attualmente goduta da Israele presso i paesi arabi sia inaffidabile e a tempo limitato: le masse povere sono con Hamas, non con Ryad o il Cairo. I califfi sanno bene che la “umma” ha sempre un conto in sospeso verso chi impiccò Qutb, il teorico della Fratellanza musulmana; quella corda non è riuscita a sconfiggere il sogno di un Islam puro, misericordioso, antioccidentale, ma anche avverso ad ogni nazionalismo e mortalmente pericoloso per chi governi alla Sadat.

Dino Mazzoleni

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

dai circoli liberal

TUTTI IN TRENTINO! Il presidente di Confindustria Veneto, Riello ha lanciato la proposta di un prestito dai lavoratori pubblici. «Hanno il posto garantito, aiutino i dipendenti privati che rischiano di perderlo». Si tratta di rinunciare, temporaneamente poiché la somma sarebbe restituita in seguito. Lo Stato è troppo indebitato per gli interventi che sarebbero necessari e questo prestito temporaneo significherebbe, di fatto, anche un contenimento della spesa. Qualche ora di lavoro gratis, insomma. La proposta oltre che un valore economico, ha un forte valore etico di solidarietà. Tuttavia le reazioni sono state negative. A parte il sindacato, il cui senso d’irresponsabilità è noto, ha stupito il “niet”di Sacconi, che ha detto no anche alla proposta di Tomat, presidente della Fondazione Nordest: lavorare tutti nel privato e nel pubblico per una piccola quota da devolvere allo Stato per risanare il suo debito. L’atteggiamento di Sacconi è in linea con quello di Tremonti e Brunetta. Stare fermi finché la situazione non migliora per evitare tensioni sociali. Nella logica poi dei nuovi contratti pubblici che puntano alla produttività, si è scelto la strada della carota e non del bastone. Un costoso premio se si lavora, invece che un economico calcio nel sedere, come nel privato, a chi non fa il proprio dovere. E di parificare il rischio del posto di lavoro tra pubblico e privato neppure l’ombra: la Costituzione non afferma il principio dell’eguaglianza di opportunità e quindi specularmente di rischio? Ritengo che non abbia nessuna logica non licenziare i dipendenti pubblici in esubero. È discriminatorio un trattamento diverso dai dipendenti privati. Ma l’aspetto più importante è un altro. Le proposte di Riello e Tomat, oltre ad avere un senso economico, sono dirette proprio a creare spirito di solidarietà e ad evitare tensioni sociali nel Paese delle caste e dei privilegi. Non dare precisi segni e restare immobili come gli struzzi con la testa sotto la sabbia è segno d’inadeguatezza politica. Il problema va affrontato non solo sulla questione privato/pubblico, ma anche sotto il profilo territoriale: le caste sono anche geografiche. Il Trentino ha destinato fondi per la crisi pari al 5% del Pil. Una percentuale seconda solo agli Usa e pari a 800 milioni di euro. È come se il governo italiano avesse stanziato solo per il decreto anticrisi 77 miliardi e cioè quasi un sesto di quello americano. Inoltre il Trentino Alto Adige riceve dallo Stato trasferimenti per il 50% in più di quello che versa come tributi. Giorgio Piccin CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL

ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529

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PAGINAVENTIQUATTRO

on c’è nella storia un tempo come questo nel quale il frastuono sonoro assorda e riempie di sé ogni angolo e ogni momento. E semmai l’abitudine diffusissima all’i-Pod mostra che anche nella propria individuale solitudine ci si corazza con l’ascolto ripetuto e spesso ossessivo di “musica per sé”. Che viene sentita, con l’ausilio di quei potenti auricolari, in assoluto distacco (se non di difesa e di isolamento) in mezzo alla folla indistinta, quando si è in movimento e perfino nella tranquillità della casa. Ma se l’udito viene continuamente sollecitato, anche solo per escludersi volontariamente dall’esterno (e dalla relazione anche casuale e limitata con gli altri) sembra atrofizzarsi un’espressione insieme più spontanea e naturale della persona: quella del canto.

N

Eppure, se esiste una consuetudine italiana antica e interclassista, popolare e insieme colta, accettata come naturale e coltivata come plurale identità, è proprio quella del “canto”. La storia e la tradizione trasmettono senza incertezze un patrimonio sempre rinnovato di espressione musicale e curata delle modulazioni della voce umana. I canti popolari sono essenza della nostra identità: canti di lavoro e

Dall’i-Pod alla tivù. Tutto ciò che ci ha “reciso” le corde vocali

Alla ricerca del canto di Giuseppe Baiocchi di devozione, di lotta e di amore, di preghiera e di battaglia, di territorio e di sentimento. Dal “bel canto”della nostra tradizione strumentale ed operistica (che porta tutti i musicisti a intitolare rigorosamente in italiano i diversi movimenti delle loro composizioni) fino ai Festival delle canzonette (da Sanremo a Napoli) il flusso della libera voce spiegata ha accompagnato e spesso segnato le svolte decisive della nostra vicenda collettiva. E persino gli storici non possono fare a meno di citare, nei momenti to-

stessa Chiesa che ha seppellito nella rincorsa alla modernità un rigoroso patrimonio di arte polifonica e popolare, ritrovandosi disorientata con una liturgia povera e monca. Ora ci prova a invertire la tendenza verso la “afonìa” Benedetto XVI: nel discorso alla cultura di Parigi non a caso ha citato le dure reprimende di Bernardo di Chiaravalle contro i suoi monaci che “cantavano male”. E sul versante laico sembra davvero una prova di stupidità collettiva il lasciare esclusivo campo libero al Berlusconi “chansonnier”: sarà anche merito del menestrello Apicella, ma tra le ragioni del successo consolidato del premier e della sua popolarità fisica e sentimentale non è da escludere la propensione ad interpretare quell’inconscio “sentire comune” che anche del canto si nutre come espressione di completa umanità.

PERDUTO pici, le diverse colonne sonore che erano complementari ai caratteri politici e culturali di un’epoca.

Forse si è davvero interrotto quel filo della narrazione tra generazioni che costituisce l’identità profonda di un Paese. E si coglie, proprio nei giovani, un senso di smarrimento e di incertezza su se stessi che si manifesta anche attraverso la rinuncia a esprimersi liberamente con la musica della propria voce, solitaria o di gruppo e di compagnia. Non è un caso, infatti, che quando si ritrovano insieme, preferiscano affidarsi a un improvvisato deejay, che sceglie musica già nota e preconfezionata, anziché radunarsi intorno ad una chitarra che introduca e aiuti il canto di tutti, per ineducato e approssimativo che sia. È una società che, nel silenzio e nel disinteresse, sta amputando una parte significativa di sé. Le colpe sono annose e diffuse: dalla politica, che dimentica regolarmente la musica; alla scuola, che da tempo ha ripudiato l’educazione alla bellezza e alla genuina espressione della completezza della natura umana; alla cultura, che rifugge dal confronto con la libera manifestazione spontanea della dimensione popolare; all’universo mediatico e televisivo che snobba per principio ciò che non proviene da fuori; alla

“Cantare fa bene”: è parte di noi, di qualsiasi repertorio e di qualunque origine. E non appare stravagante il venire a sapere che, seppur ignoti e snobbati dal mondo dei colti, in Italia, come espressione di comunità e di umana e limpida relazione, esistano, si rafforzino, e si affinino circa centomila “Cori”. Di tutti gli ambiti, di tutte le aree culturali, di tutte le storie

Forse si è interrotto quel filo della narrazione tra generazioni che costituisce l’identità di un Paese. E si coglie, soprattutto nei giovani, un senso di smarrimento che si manifesta anche attraverso la rinuncia a esprimersi con la musica della propria voce vocali di cui straripa la Penisola: cori di idiomi locali, di tradizioni alpine e marinare, di lavoro contadino e operaio, di lotta , di guerra e di preghiera, di liturgia e di nazione. Sotterranei e nascosti sotto la cappa di un conformismo autoreferenziale e dispregiativo, manifestano comunque l’urgere autentico e “italiano”, la voglia di far emergere comunque la nobile arte della voce. E forse, soprattutto per i più giovani, è ora di rimuovere la sciocca vergogna, quando “scappa di cantare”…


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