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La violenza non è forza
di e h c a n cro
ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla
9 771827 881004
Benedetto Croce
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dopo le prese di posizione di Alemanno e Campi
Amici di An, vi accorgete solo ora che il Pdl è una monarchia? di Gennaro Malgieri ncorché tardive, sono più che comprensibili le perplessità manifestate da autorevoli esponenti di Alleanza nazionale sul percorso che dovrebbe portare alla nascita del Pdl. Condividiamo le preoccupazioni di Gianni Alemanno, i rischi che paventa il politologo Alessandro Campi, il disagio di parlamentari e dirigenti che da tempo, inascoltati, si affannano nel chiedere una pubblica discussione sul nuovo soggetto politico. Nello stesso tempo ci chiediamo come mai, pur di fronte a riflessioni analoghe proposte su questo giornale e su altri, quasi nessuno sia mai intervenuto per cercare di correggere la rotta. Il silenzio è stato assordante quando è venuto fuori che l’accordo tra An e Forza Italia era stato già fatto davanti ad un notaio nel febbraio dello scorso anno.
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Chi ha paura di Guazzaloca?
GAZA: LA QUESTIONE MORALE I palestinesi accusano Israele di massacrare i civili. Gerusalemme ribatte che, in realtà, Hamas se ne fa scudo per strumentalizzarne la morte. Chi ha ragione?
La guerra degli innocenti alle pagine 2, 3, 4 e 5
di Gabriella Mecucci a pagina 12
Università, finanziamenti e concorsi
Qualche idea per migliorare il decreto Gelmini di Luisa Ribolzi na rassegna dei titoli che la stampa ha dedicato al “decreto Gelmini” va, a seconda dell’orientamento politico della testata o dell’estensore, da «finalmente un decreto anti-baroni» a «finalmente trasparenza nei concorsi» a «finalmente spazio al merito» e via «finalmentando»: il che mi pare indicare un diffuso senso di urgenza, come di qualcosa di lungamente atteso e - forse - finalmente attuato. Sul fatto che la macchina dell’università italiana sia da tempo inceppata, e produca qualità malgrado, e non grazie, alla normativa, esiste un diffuso accordo, mentre sui motivi della situazione la disparità di opinioni è maggiore, forse anche a causa dell’inadeguatezza del sistema di valutazione dell’istruzione di terzo livello.
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La situazione in Italia ancora sotto controllo, più grave nell’Est del continente
Gas, è scontro tra Europa e Russia Il presidente Barroso: «Non diventeremo ostaggi di Putin» di Francesco Pacifico
ROMA. Ieri notte il gas russo ha smes-
rischio. Nessun rischio, invece, almeno so di arrivare in Italia. Lo ha conferper il momento per l’Italia che ha un almato l’Eni. E d’altra parte lo stesso è to livello di stoccaggio di gas naurale e successo un po’ in tutti i paesi europei che quindi - come ricordano i responsache importano gas dalla Russia via bili dell’Eni - fino ai primi di febbraio Ucraina. Come sempre da due giorni, non ha problemi. Proseguono, comunMosca e Kiev si sono rimpallati la reque, le trattative fra Russia e Ucraina: il sponsabilità, ma di fatto mezza Euronodo è sempre quello dei costi di transipa (quella dell’Est, in special modo) è to del gas. Kiev chiede che siano rivisti, agli sgoccioli, proprio durante un inmentre Putin non vuole saperne. Vada Putin continua il suo braccio di ferro verno rigidissimo. «Non saremo come vada, è comunque probabile che i con Kiev sul costo del transito ostaggio di Putin» ha tuonato il presicosti della mediazione ricadano sui condel suo gas sul territorio ucraino. dente della Commissione europea sumatori. Ed ecco perché tutti i Paesi euE ieri ha interrotto le forniture Joaquin Barroso. «Invieremo i nostri ropei stanno febbrilmente procedendo a ispettori al confine per verificare che moltiplicare i fornitori mondiali di gas: il flusso riprenda», ha aggiunto il premier ceco Mirek Toalla lunga, è l’unica soluzione al ricatto russo. polanek, presidente di turno della Ue, particolarmente se gue a p ag ina 8 • s er vi zi a p agi na 8 e 9 sensibile al tema anche perché il suo Paese è uno dei più a
seg2009 ue a pa•gEinURO a 9 1,00 (10,00 GIOVEDÌ 8 GENNAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
5•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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prima pagina Non usiamo la pietà a senso unico di Mario Arpino accapriccianti le immagini che in questi giorni riempiono, assieme alla cronaca, sia la stampa che le televisioni. Anche in guerra ci sono delle regole che chi è in grado di esercitare un minimo di razionalità e di controllo dovrebbe cercare di osservare. Se non altro perché scritte in convenzioni universalmente note, anche se non universalmente applicate. Esistono dei luoghi, come quelli sacri, le scuole e gli ospedali, oppure delle organizzazioni, come la croce rossa , la mezzaluna, l’Onu e l’Osce, oppure ancora, delle persone, come i bambini, i soccorritori, i plenipotenziari, che andrebbero salvaguardate e protette. Ma la guerra è una brutta bestia. Bestia feroce, a volte cieca, che dovrebbe essere eliminata, abolita, o fatta come tra gli Orazi e i Curiazi, o come la corsa dei Fileni sulla costa nordafricana. I polemologi sono gli studiosi che da un paio di secoli studiano il perché del fenomeno guerra, come mai è fenomeno ricorrente, perché non si è mai riusciti, nei millenni, ad evitarlo. La conclusione, per ora ancora parziale, è scoraggiante. La guerra è connaturata all’uomo, in continua lotta tra malvagità e amore. Sì, ma i bambini? Sì, ma i luoghi protetti dalle convenzioni internazionali? Che c’entrano con la guerra? È vero, non c’entrano, per cui è giusto scandalizzarsi. Per tutte le vittime, però, non solo per alcune. Probabilmente, anzi ne sono sicuro, i piloti dei caccia israeliani, o i cannonieri dei carri, fanno tutto ciò che è possibile per rispettare le convenzioni, per risparmiare vittime civili, e con certezza posso assicurare che queste sono, oltretutto, le disposizioni che hanno avuto dai loro Stati Maggiori. Ma a volte non è possibile, soprattutto quando ciò che dovrebbe essere inviolabile viene invece reso vulnerabile dagli armati nemici. Allora diventa un caso di coscienza, ma da ambo le parti. Un pilota, o un carrista, non si diverte certo a sparare su una moschea, o su una scuola. Quanti di coloro che portano sulle pagine dei giornali e sui teleschermi queste orribili immagini, accompagnate da commenti che chi lo ha fatto trova ingiusti, ha mai provato a pilotare un cacciabombardiere in guerra, a sedersi di notte dentro un carro-armato, o a pianificare missioni, leggi pure “ordini di distruggere”,
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La guerra degli innocenti Chi ha ragione tra Israele e Hamas sulla questione morale delle vittime civili?
Un civile israeliano colpito a morte a Sderot da un razzo di Hamas. Sopra, miliziani di Gaza reggono in mano i feretri di bambini uccisi dai bombardamenti dell’esercito di Gerusalemme. Nella pagina a fianco da sinistra a destra: padre e figlia palestinesi, feriti a Gaza; l’inquietante maschera di sangue di una donna israeliana e, infine, il solito straziante pianto di una bambina, stavolta ebrea
dentro una sala operativa di guerra? Nessuno, credo.
E allora è facile mettere sotto accusa chi sta cercando di fare il suo meglio, con professionalità, per evitare certe tragedie. Non sarebbe più corretto, e anche eticamente più accettabile, mettere invece sotto accusa chi deliberatamente, per fanatismo religioso, disperazione o cultura, lancia in due anni ottomila razzi e missili indiscriminatamente su città e villaggi? Si dirà che non si analizza a sufficienza anche “perché” lo fa, e anche questo è vero. Ma vale per entrambi i contendenti. Nè regge il teorema che si tratta di razzi e missili “piccoli”, che non fanno male, tant’è vero che «i morti e i feriti in quelle città sono pochissimi». Eppure il nemico, che pianta le rampe di lancio nei cortili e negli orti di civili abitazioni, non manda sms di preavviso. Il fatto è che da una parte abbiamo governanti che proteggono i propri cittadini, evacuandoli nei periodi di pericolo o invitandoli a proteggersi negli scantinati, dall’altra abbiamo un’altra specie di governanti che spingono i propri cittadini inermi a offrire indifesi vita e sangue, per lodarne poi pubblicamente il martirio. Uno di questi capi carismatici, rimasto ucciso qualche giorno fa da una bomba di precisione che lo ha sorpreso con tutta la famiglia, fino a pochi giorni prima soleva vantarsi, tra l’ammirazione dei suoi fanatici, di aver inviato lui stesso, nella seconda intifada, il figlio giovinetto a farsi esplodere quale bomba umana. E allora, dove è la pietà? Dove sono gli empi? Sono sentimenti e qualifiche a senso unico? Ormai il loop Shahid – jihad – sharia (martire, guerra santa, legge coranica) in certi ambienti è andato in corto circuito, ma come qualcosa di esemplare, di estremamente positivo. Chi non ricorda le immagini di quella madre che, benedicendola, preparava la figlia al martirio? Non sono bambini anche questi? Ma, evidentemente, ci sono bambini e bambini. Quelli uccisi per errore dalle bombe israeliane e quelli mandati a farsi ammazzare dai propri genitori. Gerusalemme, 29 marzo 2002: ricordiamo anche noi, come si fa nelle moschee di Gaza, l’episodio di Rachel Levy, ragazza ebrea di 17 anni, uccisa dall’esplosione di Ayyat al Akhras, sua coetanea palestinese. Ma noi, a differenza di altri, proviamo la stessa pietà per tutte e due.
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Per Hamas la politica è propaganda di Younis Tawfik uella di Gaza è, ovviamente, una guerra combattuta anche con la propaganda e l’informazione. Bisogna però essere giusti, nel valutare l’andamento di questo conflitto. Due giorni fa è stata bombardata una scuola Onu, al cui interno c’erano soltanto civili. Le Nazioni Unite, che hanno confermato questo fatto, dicono che Israele sapeva a cosa servisse quell’edificio. Per comprendere la questione dei civili, bisogna partire dal fatto che la Striscia di Gaza è una delle zone più densamente popolate del mondo: ci vivono tre persone per metro quadrato. Non è assolutamente possibile, né per Hamas né per Israele, distinguere fra popolazione civile e milizia. E siccome Hamas gode di un consenso abbastanza largo, nella Striscia, non penso che la popolazione civile voglia abbandonarla al suo destino. Il problema è che qui muoiono bambini e donne: tutti abbiamo visto le immagini orribili della guerra. Perché non vengono salvati? Ovviamente, perché la città non è attrezzata. Non esistono rifugi, specialmente nei campi profughi, e sappiamo che comunque le case sono a ridosso l’una dell’altra. È una concentrazione pazzesca, che ospita un milione e mezzo di persone. Non è possibile proteggerle da un attacco: bisognerebbe svuotare l’intera Striscia dai suoi abitanti. Gli stessi israeliani si sono uccisi fra di loro – con
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Triste storia, quando il corpo è solo uno scudo colloquio con Piero Ostellino
ROMA. «La contabilità dei morti è il rifugio degli ipocriti» risponde deciso Piero Ostellino, editorialista del Corriere della Sera. Eppure c’è chi tenta di utilizzare un metro diverso di valutazione per le vittime di questo conflitto israelo-palestinese. È evidente, invece, che non esistono differenze di fronte alla morte. A tutti fanno orrore le immagini che giungono da Gaza, ma occorre valutare le condizioni che hanno determinato tutto ciò. In che senso? La bomba di Hiroshima, per esempio, ha provocato migliaia di vittime e ha fatto inorridire il mondo intero, ma non bisogna dimenticare che ha posto fine alla seconda guerra mondiale, evitando così la morte di chissà quante persone. Purtroppo la guerra ha le sue regole dure che la morale non può accettare. Bernard-Henri Lévy, nell’editoriale apparso ieri sul Corriere della Sera, ritiene i dirigenti estremisti i peggiori nemici dei palestinesi. È d’accordo? Il popolo palestinese non è soltanto vittima dei suoi dirigenti, ma anche del mondo arabo. Insieme hanno sempre impedito la nascita dello Stato di Palestina, dalla risoluzione Onu del 1947, che prevedeva la divisione del territorio palestinese fra due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, fino a oggi, passando per la Guerra dei Sei giorni. Perché? Per il timore che il riconoscimento dello Stato palestinese potesse alimentare spinte rivendicazioniste di altre minoranze. Mentre i dirigenti palestinesi, in tutti questi anni, hanno derubato il loro popolo appropriandosi degli aiuti che la comunità internazionale ha regolarmente inviato. Insomma non è Israele il vero nemico dei palestinesi. Israele è vittima di un’aggressione. In questi anni generazioni di palestinesi sono stati fatti marcire nei campi profughi per alimentare l’odio. Sono il carburante delle milizie terroristiche e sono diventati l’alibi dei dirigenti estremisti per non accettare alcuna condizione di pace. Anzi i civili vengono utilizzati come scudi umani e chi muore diventa un emblema da esibire. Anche in Italia abbiamo avuto episodi che devono far riflettere. Si riferisce ai musulmani riuniti fuori al Duomo di Milano e alla Basilica di San Petronio a Bologna? Esattamente. Si è trattato di una manifestazione di volontà antagonista davanti a due simboli della nostra tradizione giudaico-cristiana. Un’azione politica molto dura. Si riuscirà a trovare una soluzione a questo conflitto? Tutti lo auspichiamo. Le condizioni sono difficili, alcuni Stati arabi, come l’Egitto e la Giordania, stanno prendendo le distanze dall’estremismo e sono convinti che sia necessario trovare una via d’uscita. di Franco Insardà
il cosiddetto fuoco amico – per questa situazione logistica. A prescindere da tutto questo, è una guerra che non doveva nascere già dalle sue origini. E per rispondere a chi dice che la guerra è stata provocata da Hamas, bisogna andare indietro nel tempo: Hamas oggi vuole affermarsi come l’unica forza di resistenza sul territorio palestinese. E manda i suoi messaggi all’opinione pubblica di tutto il mondo. Il senso è: chi vuole trattare, deve farlo con noi. Per affermare questo, deve fare le sue azioni anche in campo militare. Come organizzazione, è fatta per resistere, non per governare: la sua gestione amministrativa è stata un disastro, esattamente come quella di Hezbollah in Libano. La provocazione di Hamas nei confronti di Israele serve per affermarsi sul territorio: pochi razzi Qassam, quasi dei “giocattoli”fatti in casa, non potevano provocare una guerra come questa. Ora Hamas usa i Grad: questo vuol dire che aveva un arsenale migliore di quello che ha dimostrato fino ad ora. C’è un legame internazionale fra loro, Hezbollah, l’Iran e altri Paesi che serve per sostenerli. Provocare un conflitto ha costretto Israele a reagire: ma questo ne uscirà perdente a livello militare e di immagine. Per concludere, spero che questo conflitto non porti a un disastro ma a una soluzione diversa. Israele deve arrivare al punto di pensare seriamente di concedere un minimo di diritti all’Autorità palestinese, per rafforzarlo a livello interno ed esterno. Altrimenti, rimarremo per anni in questa situazione di stallo.
L’attacco di terra è fatto per ridurre le vittime civili colloquio con Riccardo Pacifici
ROMA. Il presidente della Comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, è in questi giorni al centro dell’attenzione mediatica. Alla replica di Massimo D’Alema, affidata a una lettera pubblicata in prima pagina da Repubblica, per una sua dichiarazione nella quale criticava la posizione troppo “filopalestinese” dell’ex premier risponde: «Tutti conosciamo lo stile pungente del presidente D’Alema. Sbaglia chi lo vuole definire antisemita, credo in una dialettica nella quale ognuno ha il diritto di non avere delle simpatie che io respingo al mittente». Presidente Pacifici, tralasciando le polemiche italiane, a Gaza muoiono vittime civili. Purtroppo ci troviamo di fronte a una ideologia fanatica che esalta l’elemento della morte. Quando c’è l’annuncio di morti civili si festeggia, perché quelle vittime vengono utilizzate strumentalmente per alimentare l’odio e mostrare al mondo intero la malvagità degli israeliani. Però le vittime ci sono e sono innocenti. Israele non può soltanto subire. La decisione di effettuare soltanto operazioni di terra ha una sua logica molto responsabile: evitare, appunto, morti innocenti. Nessuno gioisce, c’è angoscia e sofferenza quando ci sono delle vittime. Gli errori, però, ci possono essere. Parliamo di una guerra. Da questo a colpire una scuola... Tenga presente che non si è mai visto un esercito in guerra telefonare, come è successo con Nizar Rayyan, considerato il numero cinque di Hamas, avvertito che stava per essere bombardato. Non bisogna dimenticare che i miliziani di Hamas utilizzano scuole, ospedali e altre strutture pubbliche per rifugiarsi e far partire i razzi che non hanno bisogno di particolari strutture logistiche. Quale sarebbe la logica delle operazioni di terra? L’esercito israeliano ha un potenziale militare enorme, soprattutto per quanto riguarda gli armamenti aerei. Se attaccasse Gaza dal cielo le vittime civili sarebbero molte di più. Qual è il ruolo della comunità internazionale? In questa occasione c’è stata molta comprensione sulla guerra difensiva di Israele contro chi ha nel proprio statuto l’obiettivo di cancellare lo Stato d’Israele e addirittura di sterminare gli ebrei.Il mondo deve saper piangere per le vittime civili, ma anche nelle manifestazioni pubbliche raramente si parla di pace. Molte vittime palestinesi, poche israeliane. Perché? La protezione civile israeliana è ben organizzata. Ma 900mila cittadini sono sotto scacco da quando si sono intensificati i lanci dei missili da parte di Hamas. Non possono condurre una vita normale. Mi hanno raccontato di un nipotino che rassicurava il nonno di riuscire a raggiungere il rifugio nei 15 secondi previsti. È giusto vivere così? Lo stesso Barack Obama quando, a fine luglio, visitò Sderot dichiarò che vivendo lì avrebbe fatto di tutto per difendere la vita di un suo figlio. (f.i.)
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Analisi. Il conflitto odierno non riflette quello del 2006, soprattutto perché Israele non è la stessa nazione. E i suoi militari hanno imparato la pazienza
Finirà come a Beirut? Hamas ed Hezbollah sono movimenti diversi E Teheran non ha la minima intenzione di salvarli di Thomas Donnelly e Danielle Pletka l giudizio corrente sull’incursione di terra da parte dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza è che «i leader israeliani rischiano di ripetere l’esperienza disastrosa della guerra in Libano nel 2006, quando hanno subito numerose perdite nel combattimento terrestre contro Hezbollah». A quanto pare, giornalisti ed eruditi sono molto più disposti a combattere l’ultima guerra di quanto non lo siano i generali di Gerusalemme: Gaza non è il Libano, Hamas non è Hezbollah e – cosa ancora più rilevante – l’Israele di oggi non è lo stesso di quello del 2006. Per cominciare, le differenze geografiche e geopolitiche fra il Libano meridionale e la Striscia non potrebbero essere più grandi. E mentre Hassan Nasrallah e la leadership di Hezbollah subivano attacchi aerei spostandosi nella periferia di Beirut, i comandanti di Hamas non hanno più molti posti dove nascondersi. I successi iniziali dell’aviazione aerea israeliana non dimostrano soltanto l’ottimo lavoro dell’intelligence di Israele (anche se, con molta probabilità, gli uomini dei servizi hanno compiuto un lavoro migliore rispetto all’avversario nell’individuare gli obiettivi sensibili di Gaza), ma riflettono anche delle semplici considerazioni che riguardano la vicinanza dei due territori. Il terreno, poi, rappresenta una seconda, enorme differenza nei combattimenti di terra. Le colline del Libano meridionale non sono soltanto delle aree che la natura aiuta a difendere – ogni villaggio rappresenta un’eccellente posizione di combattimento fortificata – ma sono servite anche a colpire le colonne armate israeliane. Un’alta percentuale delle vittime di Tsahal in quel conflitto è morta dopo un agguato.
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Gaza è poi un campo di battaglia isolato. Mentre Hezbollah poteva contare su rifornimenti provenienti dal nord del Paese, dalla Siria e persino dal mare, la Striscia è circondata dalle mura israeliane e da un confine, chiuso, con l’Egitto. E la Marina di Israele domina la costa. Finché Il Cairo continua a limitare i movimenti da e per Gaza, la leadership di Hamas e le sue forze di combattimento sono intrappolate in un’area molto piccola. Le mosse di Israele sul campo sembrano aver capitalizzato questo fattore fondamentale. Nelle prime ore dall’inizio dell’incursione, l’esercito è riuscito a
circondare Gaza City e gli altri villaggi del sud. Ora, quindi, Hamas è stretta in un’area ancora più piccola. Hamas ed Hezbollah, inoltre, sono animali profondamente diversi. Mentre Hezbollah è un vero “attore non statale”, molto radicato sul territorio e con un’organizzazione simile a quella di una nazione, Hamas è inchiodata alle sue radici terroristiche e non è riuscita a capitalizzare il suo controllo sulla Striscia per ri-organizzarla o modernizzarla.
E inoltre, mentre entrambi sono vicini all’Iran, gli investimenti di Teheran su Hezbollah sono molto superiori rispetto a quelli dedicati ad Hamas per durata, profondità e forza. Bisogna anche notare che Hamas è un gruppo sannita e – anche se il settarismo è una guida sbagliata alle questioni del Medio Oriente, come la nostra esperienza in Iraq dimostra – questo fatto contribuisce a capire perché i collegamenti con Hezbollah siano più organici rispetto a quelli con Hamas. Inoltre, la debolezza dello Stato libanese ha permesso alle forze iraniane dei Quds di addestrare e ri-armare i propri vicini con regolarità ed efficienza. Hamas deve invece lavorare con l’occhio vigile di Israele sempre puntato addosso. L’assistenza militare e l’addestramento delle forze di Hamas da parte degli iraniani si sono verificate, ma soltanto in aree limitate, e hanno fallito l’obiettivo: costruire infrastrutture militari in grado di reggere un combattimento lungo anche degli anni. Cosa che invece Hezbollah ha dimostrato di poter fare. Il risultato di tutto questo ha visto la nascita di un oppositore serio a Israele. Nel 2006 – come hanno scritto Stephen Biddle e Jeffrey Friedman in un recente studio per l’Accademia militare statunitense – alcuni degli scontri a fuoco in territorio libanese sono durati anche sei ore consecutive, e hanno coinvolto sia la milizia dei villaggi che i “soldati”di Hezbollah. Noi dovremmo riuscire a vedere quanto ha già fatto Israele per fra crollare le sacche di Hamas che hanno creato a Gaza, e va notato inoltre che – sebbene al momento il movimento terrorista sia isolato – presto potrà beneficiare di nuovo di un rifornimento strategico per via aerea. Per essere sicuri di vincere, ci potranno essere anche scontri urbani,
ma l’importante è che Tsahal mantenga un approccio metodico, in modo da sviscerare lentamente l’anima militare di Hamas. Fino ad ora, poi, il tasso di vittime dello scontro non è paragonabile a quello libanese; secondo lo studio dell’Accademica militare, la guerra in Libano si è conclusa con 53 vittime israeliane colpite dai razzi di Hezbollah e altri 119 soldati morti. Ad oggi, Hamas ha dimostrato di non riuscire a colpire le manovre israeliane che avvengono sulle autostrade che tagliano Gaza – anche se ci saranno possibili, prevedibili attacchi – né sembra in grado di tenere posizioni di difesa. Almeno, posizioni che riescano a fermare o rallentare i progressi di Israele. Una cosa è ritirarsi nei vicoli di Gaza City o in quelli di altre città (come sembra stia facendo Hamas); altra cosa è la difesa che venne condotta all’epoca
Andando oltre le solite partite di propaganda politica, Iran e Libano non hanno fatto nulla per aiutare i palestinesi. Hanno capito che non è intelligente entrare in una guerra persa da Hezbollah, molto più attiva. Le difese di Hamas si sono dimostrate inefficaci. Biddle e Friedman hanno giustamente concluso che Hezbollah è divenuta una forza tradizionale e convenzionale, e che il suo sviluppo è il fattore che le ha permesso la sua migliore performance tattica, nel 2006. Hezbollah si comporta come “regolare” anche nel senso di far indossare uniformi ai suoi uomini.
Questo non è un semplice fattore legale o legato ai diktat della moda (le loro tenute nere sono state disegnate con lo scopo di intimidire gli avversari), ma rappresenta una misura di coesione interna e di collegamento fra lo Stato e il suo esercito: di nuovo, è meglio considerare Hezbollah come un “proto-Stato” piuttosto che come un “non-Stato”. D’altra parte, il recente accordo fra il governo di Beirut e l’organizzazione ratifica di fatto il suo status. Inoltre, dato che uno dei requisiti primari di uno Stato legittimato è la difesa del proprio territorio e dei suoi cittadini, potrebbe sembrare che Hamas stia perdendo la sua guerra di propaganda “domestica” in un modo che a Hezbollah non è accaduto. Allo stesso modo, nella mitica “Strada araba”, la performance di Hamas può essere messa a paragone soltanto con quella di Hezbollah: l’eco dei passati fallimenti del mondo arabo contro Israele potrebbe tornare a infastidire i palestinesi.Vale la pena sottolineare che la “vittoria”di Hezbollah non si è palesata soltanto con la sua sopravvivenza, come pensa la maggior parte delle persone,
ma soprattutto perché si è trattato di una rispettabile difesa militare in difesa del proprio territorio.
Per essere sinceri, bisognerebbe dire che soltanto Hezbollah – prima fra gli arabi – è riuscita a colpire con durezza il mito storico del deterrente di Israele. Inoltre, un’altra delle ragioni che possono spiegare la coesione di Hezbollah e il grande sostegno popolare che ha ricevuto nel Libano meridionale deriva dal fatto che ha esplicato bene molte delle sue funzioni para-statali, almeno secondo gli standard locali: la forza dello “stato civile” di Hezbollah ha contribuito alla sua preparazione mlitare. Infine, gli israeliani sembrano molto meglio preparati, oggi. Strategicamente, hanno anche lavorato chiaramente con gli egiziani (e probabilmente con altri Stati arabi) che sembrano felici di vedere la sconfitta di Hamas, anche se è difficile dire quanto durerà questo stato di cose. L’inattività di Hezbollah interessa in maniera particolare, nonostante gli strali di Nasrallah. Quel movimento, così come gli iraniani, sembrano aver capito che non è possibile vincere, questa volta. Fattore ancora più importante, le decisioni prese dimostrano l’indipendenza del gruppo libanese: è sempre meglio unirsi a una campagna vincente. Anche il regime iraniano, nonostante si sia impegnato nel suo tipico assalto verbale, ha fatto poco a livello materiale per Hamas. Teheran, molto probabilmente, sta considerando quanto sia utile unirsi a
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Obama: non sono indifferente al dolore di Gaza
Mezza tregua per la Striscia di Vincenzo Faccioli Pintozzi on indifferenza al dolore di Gaza, ma «rispetto della Costituzione americana e del ruolo di George W. Bush, che fino al prossimo 20 gennaio sarà alla guida della Casa Bianca e del governo americano». Con queste parole, il presidente eletto degli Stati Uniti Barack Obama ha risposto a chi lo accusava di tenersi lontano, di proposito, dalla questione della Striscia. Nel corso di una conferenza stampa a Washington, il futuro inquilino della Casa Bianca – che si insedierà il prossimo 21 gennaio davanti a una folla record – ha ribadito il principio secondo il quale «non possono coesistere due diplomazie nello stesso momento, anche in presenza di una crisi come quella di Gaza». Il silenzio di questi giorni, ha sottolineato «non significa indifferenza. Sono profondamente preoccupato per la situazione a Gaza». Obama ha aggiunto di «non poter fare altri commenti» finché non sarà insediato alla Casa Bianca perchè gli Stati Uniti «possono avere solo un presidente alla volta». «Non appena sarò presidente agirò immediatamente per affrontare la situazione in Medio Oriente non solo sul problema a breve termine ma anche su quelli a lungo termine», ha aggiunto Obama. Nel frattempo, la Striscia ha avuto la sua prima tregua dopo dieci giorni di attacchi da parte delle forze israeliane: tre ore di stop ai combattimenti, che dovrebbero aver permesso i primi soccorsi medici ai circa tremila feriti di Gaza. Pochi minuti dopo le 13 (ora locale), le armi hanno taciuto su entrambi i fronti ed un silenzio quasi irreale è caduto come una cappa di piombo su Gaza City, le altre città della Striscia e nei campi profughi. Cessato il crepitare dei fucili mitragliatori e gli assordanti scoppi dei razzi e degli obici, centinaia di persone sono uscite dalle loro abitazioni ma molte hanno preferito non allontanarsi troppo dalla seppur limitata sicurezza offerta dal tetto di casa. I più coraggiosi sono riusciti invece a raggiungere i due principali supermercati di Gaza City - Sakkà e al
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Qishawi - che da alcuni giorni erano irraggiungibili a causa dei combattimenti. Anche il personale medico e paramedico è riuscito a raggiungere e curare malati o feriti rimasti bloccati nelle loro abitazioni a causa degli scontri, come pure agli attivisti delle organizzazioni umanitarie. Ma tre ore sono state sufficienti anche per recuperare decine di cadaveri che erano rimasti nelle strade o in aree scoperte e non raggiungibili durante gli scontri a fuoco. Dure critiche alla tregua da parte della coordinatrice di Medici senza frontiere a Gaza, Jessica Pourraz, secondo cui la tregua è stata applicata «solo su Gaza City, mentre in particolare nel nord si è continuato a bombardare». Per altre fonti due sole sarebbero state le violazioni della tregua che si è conclusa alle 16, secondo fonti mediche palestinesi, un infermiere di nome Hassan Al Hattali è stato ferito ad una gamba da un proiettile sparato da un soldato israeliano 10 minuti dopo le 13 mentre, stando a quanto riferito dall’emittente araba Al Jazira, militari israeliani avrebbero aperto il fuoco contro un gruppo di civili quasi un’ora dopo l’inizio delle tregua. Infine, allo scoccare delle 16, sono ricominciate subito le ostilità e le esplosioni dei razzi Grad e i colpi dell’artiglieria israeliana sono di nuovo risuonati nella zona di Jabalya, a Nord di Gaza City.
Secondo varie fonti nel nord si è continuato a sparare. Il governo israeliano, intanto, dà il via libera all’apertura del terzo fronte
una battaglia già perduta, che potrebbe far sparire la possibilità di essere considerati in maniera diversa dalla nuova amministrazione Obama. E lasciamo perdere quegli eruditi che hanno iniziato a spiegarci perché abbiamo bisogno dell’Iran per risolvere la questione Gaza. A livello militare, Israele sembra essere organizzato in maniera molto migliore: conduce azioni combinate da terra e aria, e impegna il giusto numero di forze necessarie sin dall’inizio, senza attendere urgenti richiami. Sono diventati anche molto più pazienti, una virtù estremamente necessaria. E mentre lo “stato finale” è ancora incerto – e questo, per molti analisti occidentali, è il vero problema – non è ancora chiaro il fatto che l’esercito israeliano non può semplicemente ritirarsi dietro alle barriere del confine, ora che pensano di aver raggiunto il punto culminante della questione. Una Gaza senza stato di diritto è peggiore di una Gaza governata da Hamas? Sicuramente, Hamas ristabilirà un livello di controllo a Gaza. Una Hamas decimata porrà anche una domanda strategica a Teheran: potrebbe provare a riarmare il movimento ricostruito, ma lo farebbe senza dubbio con poca fiducia per il suo valore futu-
ro. Israele potrebbe cogliere questo enorme colpo di fortuna, dimostrando i limiti del valore rappresentato dalla sponsorizzazione iraniana.
Sembra ora che vi siano due possibilità: l’Iran potrebbe considerare Hamas una questione spendibile, anche mantenendo la speranza di un nuovo approccio con l’America. Questo potrebbe essere il gioco più intelligente. Ma le abitudini sono dure a morire, e non ci sono dubbi sul fatto che le Guardie della Rivoluzione e i suoi dirigenti sarebbero smaniose di ricostruire Hamas in uno stile più simile a quello di Hezbollah, per vincere il prossimo round. Inoltre sarebbe meglio pensare a come sarebbe andato questo, di round, se l’Iran avesse dimostrato una vera abilità nucleare. Gli arabi sarebbero ancora meno a sostegno di Israele. E anche l’Europa avrebbe sfruttato prima il suo peso contro gli israeliani. Forse, persino la stessa Gerusalemme ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare Hamas, e sicuramente lo avrebbe fatto quattro volte prima di entrare via terra. Ma nulla di tutto questo è chiaro: la guerra è, a volte, l’ultima scelta. Le armi nucleari iraniane potrebbero fermare attacchi diretti contro Teheran, ma proteggeranno i suoi vicini? Speriamo di no, perché è una domanda che probabilmente ci porremo ancora.
Ma la gente, nel frattempo, era già rientrata tutta nelle proprie case. Mentre le vittime salgono a 660 (un numero in continua evoluzione), il Gabinetto di sicurezza del governo israeliano ha dato il via libera a un allargamento dell’offensiva contro Hamas. Secondo una fonte militare, l’esecutivo «ha approvato la prosecuzione dell’operazione di terra, che comprende una terza fase di allargamento e la spinta più profonda dentro le aree popolate». Gerusalemme, ha concluso la fonte, «lascia comunque alla difesa il compito di stabilire se applicare o meno la decisione».
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La maggioranza divisa / Cosa ha veramente in testa Gianfranco Fini
La strategia è chiara: logorare il Cavaliere Ormai da mesi il leader di An ragiona sul post Berlusconi di Riccardo Paradisi esecutivo nazionale di An – in programma ieri mattina alla Camera – è stato sospeso per il maltempo. All’ordine del giorno l’approvazione delle candidature per le elezioni regionali in Sardegna e l’avvio dell’esame delle candidature per le provinciali del 2009. Un po’surreale.Visto che dentro An il problema numero uno, oggi, è la fusione con Forza Italia: temutissima per i modi e le condizioni in cui sta avvenendo. Tanto temuta da far dire ad alcuni esponenti del partito che il Pdl potrebbe addirittura rappresentare la tomba politica di An. Sì perché quella che era stata presentata come un’opportunità storica per la destra si sta rivelando, per il leader di An e per il suo partito, un cul de sac politico. Sono mesi che Fini “si limita”a fare il presidente della Camera mentre An subisce l’iniziativa di Forza Italia e di Berlusconi.
«Berlusconi è il capo di tutto il Pdl, non può essere il risolutore dei problemi interni degli azzurri. Se in Forza Italia continuano a rivolgersi sempre a lui per ogni questione, davvero si creano degli squilibri». Fini da parte sua cerca di tenere la rotta, concedendosi ogni tanto qualche affondo. La critica al cesarismo per esempio. Un riferimento esplicito all’atteggiamento autocratico del Cavaliere nella gestione del Pdl che per tutta risposta aveva attirato gli
Persino Ignazio La Russa, considerato un filo-berlusconiano storico dentro An, polemizza con il coordinatore azzurro Denis Verdini, ricordandogli, a proposito della promozione di Ferruccio Fazio a ministro della Salute e Micaela Vittoria Brambilla da sottosegretario a vice ministro al turismo che non sarebbe scandaloso che si parli di Adolfo Urso come ministro in un’eventuale rimpasto.
strali del solito Verdini il quale ricordava al presidente della Camera che solo grazie a Berlusconi la destra era uscita dal ghetto politico. Ma anche l’analisi finiana del presidenzialismo – pericoloso senza un contrappeso parlamentare – di due settimane è da leggersi come una nuova polemica nei confronti di Berlusconi. Colpi di fioretto, vibrati con molta accortezza e portati nella funzione
L’
Fini lascia che a polemizzare direttamente contro il verticismo del presidente del Consiglio sia il sindaco di Roma Gianni Alemanno
segue dalla prima E invece c’era da attendersi che qualcuno reagisse a una tale impropria procedura nella formazione di un partito i cui riferimenti “ideologici” dovevano essere giocati nella costruzione di una identità capace di assorbire le storie diverse in un progetto autenticamente innovativo. Ci sembra, invece, che l’opzione oligarchica abbia fin qui prevalso e, come ha detto Campi in un’intervista al Tempo, forse «tutti pensano che il Pdl sarà un Forza Italia allargato con un solo padre-padrone, Berlusconi, che decide tutto, un partito finto. Se questa è l’impressione nasce male».
Probabilmente non sarà così e ce lo auguriamo vivamente. Tuttavia è difficile credere che in un paio di mesi o poco più si riesca a definire un soggetto la cui nascita, come abbiamo scritto ripetutamente, doveva
terza del ruolo istituzionale, come l’appello al dialogo per le riforme tra maggioranza e opposizione lanciato ieri da Reggio Emilia. Del resto dentro An non manca chi si incarica di portare assalti più frontali al verticismo berlusconiano e a una concezione annessionistica di An nel Pdl.
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno è il capofila di questo dissenso esplicito. È stato il primo a denunciare il rischio del girgiore in cui An, una volta compiuta la fusione con Forza Italia, potrebbe finire, il primo a tenere alta la questione dell’identità politica e culturale del partito, il più attivo nel rivendicare alla destra la sua memoria e la sua storia. A luglio, in occasione del congresso di scioglimento di An, Alemanno era stato molto chiaro: «Dobbiamo affrontare questo processo di fusione senza facili entusiasmi, senza unanimismi superficiali e senza credere che non ci siano grandi insidie. Avendo la consapevolezza che il rischio più grande è che il Pdl si riduca a essere un contenitore di un generico moderatismo, inadeguato ai compiti che abbiamo di fronte». E a parte le dichiarazioni della scorsa estate, poi ritrattate, su un fascismo buono, che hanno indispettito non poco Fini, sembra che le intemerate alemanniane abbiano sempre avuto la tacita benedizione del presidente
della Camera. Che per ora non può nè vuole aprire un conflitto diretto con Berlusconi. Da un lato perchè a volere veramente un confronto diretto dentro An sono in pochi (i più si piegano alla logica della forza berlusconiana, peraltro accettata da Fini fino ad oggi), dall’altro perchè Fini sa bene che a finire logorato in un confronto interno con il Cavaliere, a inizio legislatura, sarebbe proprio lui. Meglio dunque investire sulla lunga durata, nel tentativo di far logorare il Cavaliere restando al riparo del ruolo istituzionale. Dove le accuse di cesarismo o le polemiche sul presidenzialismo possono anche assumere le apparenze di riflessioni sui principi primi della scienza politica. Poi si vedrà.
Le polemiche tardive sul partito in stile monarchico
Cari amici di An un po’ distratti di Gennaro Malgieri vedere coinvolte istanze territoriali, intellettuali, imprenditoriali, sociali, unitamente ad un profondo ripensamento sulle culture di appartenenza dei “soci” fondatori. Per di più nulla si sa, al momento, dei valori e delle strategie politiche che dovrebbero motivare il Pdl e si continua a parlare di quote e di statuti, senza peraltro precisare come e da chi saranno eletti i vertici centrali e periferici, quale sarà la struttura di base, in che modo si articolerà il dibattito interno. Se il Pd è nato, per comune ammissione ormai, da una “fusione a freddo”, la creatura berlusconiana verrà partorita al buio e nessuno saprà dire quale sarà la sua fisiono-
mia. Insomma, abbiamo sempre di più la sensazione che la ricomposizione del centrodestra, dopo la scomposizione avvenuta alla vigilia delle ultime elezioni politiche, sarà difficile e precaria a meno che non ci si renda conto che i metodi fin qui seguiti non sortiranno i positivi effetti sperati. Se poi cominciano, come da molti segni si intuisce, a proliferare dissensi e delusioni, il gioco finirà prima di cominciare. In altri termini, continuare a sostenere che dalla “fusione” tra An e Fi, più altre formazioni minori, possa nascere un partito vero (che ha regole precise, non leggero né pesante, ma un soggetto do-
Gianfranco Fini e Umberto Bossi. Accanto, dall’alto in basso, Gianni Alemanno, Roberto Maroni, Ignazio La Russa e Roberto Calderoli
tato di una cultura politica riconoscibile e dislocato sul territorio come la politica rappresentativa impone) e non la riedizione di un “cartello elettorale”significa, nella migliore delle ipotesi, illudersi di risolvere banalmente una pratica maledettamente complessa.
Nessuno dovrebbe rischiare il suicidio politico per una prospettiva ignota. Men che meno Alleanza nazionale che ha dalla sua un’identità, una storia profondamente intrecciata con la vicenda nazionale del dopoguerra. Per quale motivo dovrebbe rincorrere farfalle sotto l’Arco di Tito, mentre potrebbe contribuire alla definizione di nuovi assetti politici, in un movimento moderno e popolare, senza accampare pretese egemoniche naturalmente, ma neppure facendosi trasportare da una corrente che, inevitabilmente, ne travolgerebbe perfino la memoria?
politica
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La maggioranza divisa / Cosa ha veramente in testa Umberto Bossi
La guerra di Malpensa può essere una svolta Persa la sfida per fermare Air France, il Senatùr tornerà a minacciare rotture sul federalismo di Errico Novi
ROMA. Se c’è una cosa che Bossi non sopporta è pagare per gli altri. Da sempre è così, da quando la recessione seguita alla caduta del Muro ha dato un senso politico all’avventura della sua Lega. Oggi il Senatur contempla il panorama desolato di Malpensa e si convince di dover mandare giù un rospo rifilato dalla Capitale sprecona. Alitalia, i suoi debiti e il conseguente caos sul destino dell’aeroporto sono, agli occhi del leader leghista, il risultato degli errori commessi da precedenti governi. Errori che hanno consentito la sopravvivenza a Fiumicino e allontanato la sciagura per migliaia di dipendenti, ma che non hanno regalato alcun vantaggio al Nord.
Lo slittamento dell’incontro con Silvio Berlusconi fissato per la mattinata rischia di suonare come una beffa Bossi. Nessun vertice di mezzogiorno a causa del maltempo, che ha bloccato i collegamenti in mezza Penisola. Il colloquio è stato aggiornato al tardo pomeriggio di ieri, quando il ministro per le Riforme e il premier si sarebbero dovuti ritrovare alla Camera per il voto di fiducia sul decreto Gelmini, dopo che il Cavaliere aveva tenuto a rapporto i vertici di Cai. Prima ancora che il Senatur raggiungesse Montecitorio era stato già raggiunto l’accordo sul via libera a Air France. «Berlusconi l’è un pu’ incasa’…», per dirla con il Senatur. La chiosa in dialetto dice molto. Spiega per esempio che il Carroccio si batterà, sì, fino all’ultimo per impedire che l’accordo tra Cai e i francesi avvenga senza un minimo di contropartita per Malpensa (almeno l’impegno a liberalizzare gli slot), ma anche che a via Bellerio hanno già maturato un padano disincanto, hanno già messo nel conto le perdite. Quelle sono scritte nel piano in vigore dal 13 gennaio, data di battesimo per la nuova Alitalia: dai 312 dell’era pre-Fantozzi, i voli da Malpensa si ridurranno a 201. Secondo il presidente della Camera di commercio di Monza e Brianza Carlo Valli, che non manca di riconoscere la dedizione alla causa da parte del Senatur, l’accordo con i francesi «costerebbe alla Lombardia una perdita di circa 2 miliardi, e 56mila posti di lavoro da qui al 2015». Cifre raggelanti, che agli occhi di Bossi costituiscono uno dei tanti danni prodotti dalla crisi economica, certo non il solo. Così la sfuriata a cui il Cavaliere si è abbandonato con Libero («non è solo la Lega ad avere a cuore le sor-
ti di Malpensa e del Nord») fa persino sorridere il capo del Carroccio. Continua, com’è continuata anche ieri, la retorica patriottica, dal quartier generale padano seguiteranno a diramare messaggi severi, come l’invito rivolto sempre ieri da Umberto a Silvio di «venire a fare il consiglio dei ministri non solo a Napoli come è successo più volte ma anche a Malpensa». Eppure nelle preoccupazioni di Bossi, prima dello scalo lombardo, viene una questione più generale: difendere l’immagine incorruttibile della Lega ora che si è al governo e si dovrà gestire l’ondata della recessione. In Lombardia, in Veneto, in Piemonte, nella promettente (in termini di consensi) Emilia si concentra una parte consistente delle casse integrazioni cresciute in modo impressionante nel mese di dicembre, del 110 per cento – ha detto ieri il ministro al Welfare Maurizio Sacconi – con un’impennata del 525 per cento per la cassa integrazione ordinaria. Come farà la Lega, partito di lotta,
All’ultimo minuto beffa del premier che decide senza consultare il Carroccio. «Dovrebbe riunire i ministri allo scalo lombardo come ha fatto per Napoli», intima Umberto movimento populista e identificato al Nord come un credibile paladino della classe operaia, a stare al governo e a non perdere, nello stesso tempo, la fiducia degli elettori? Come può la forza politica che più di tutte negli ultimi quindici anni si è fatta interprete della rottura raccontare con grigia pacatezza che i tempi sono duri e tutti devono pagare dazio?
Sono questi gli interrogativi che inquietano il leader del Carroccio. La sola possibile via d’uscita a disposizione è, per i leghisti e il loro capo, il ritorno all’impazienza rivoluzionaria sulla questione del federalismo. A via Bellerio il dubbio, il vero interrogativo non può che riguardare la riforma delle riforme: meglio perseguirla con instancabile diplomazia o protestare per i tempi troppo lunghi e i meccanismi farraginosi? È una sospensione amletica tra realismo e propaganda, l’eterno dilemma. Da una parte c’è il rischio di far sfilacciare la tela faticosamente intessuta da Roberto Calde-
roli e dallo stesso Senatur, impegnati a condurre il percorso delle riforme in modo da coinvolgere anche l’opposizione. Dall’altra lo spettro di un esito beffardo: il congelamento del federalismo fiscale in nome della crisi, con pesantissime conseguenze per il movimento, imputabile non solo di aver mancato l’obiettivo fondamentale ma anche di essere complice del cataclisma economico in quanto forza di governo.
Sarebbe forse conveniente alzare la voce, denunciare con tono duro il rischio di insabbiamento per la riforma e riagitare minacce di rottura nella maggioranza. È la carta di riserva, la soluzione estrema che Bossi non esclude di giocarsi nel caso in cui l’ondata della crisi dovesse travolgere tutto. Di qui a pochi mesi ci sono le Amministrative e il Carroccio si prepara a conquistare molte giunte provinciali e comunali. Ma consolidarsi come forza di governo – anche a livello locale e anche in regioni dove il centrosinistra fino a pochi mesi fa non sembrava insidiabile – può diventare scomodo se nel frattempo le condizioni generali dell’economia precipitano. Il Senatur non vuole correre il rischio di sprecare l’enorme consenso accumulato negli ultimi tempi. Proprio ieri Luigi Crespi ha diffuso attraverso il sito Affaritaliani.it gli ultimi dati che segnalano un Carroccio in irrefrenabile ascesa, al punto da insidiare al Pdl il primato dei consensi non solo in Veneto ma anche in Lombardia.A livello nazionale il balzo rispetto alle Politiche di aprile si misura ormai in più di tre punti: dall’8,3 all’11 e mezzo, dice Crespi. In Veneto Bossi è saldamente in testa con intenzioni di voto prossime al 29 per cento, in Lombardia ha superato quota 22, per non dire dei proseliti che i leghisti continuano a fare nella rossa Emilia (dal 7,8 di aprile all’8,9 misurato dal sondaggista) e in Piemonte (14,9 rispetto al 12,6 di nove mesi fa). Sono numeri che reggono se il Carroccio non tradisce la sua vocazione movimentista, come ha fatto intendere l’altro ieri Roberto Castelli: «Se non sarà garantita la liberalizzazione degli accordi bilaterali su Malpensa ci saranno conseguenze politiche gravi: lo dico sentendo l’umore dei militanti della Lega». E considerate le scarse possibilità di vincere la battaglia dei cieli, agli uomini di Bossi non resterà che infilare l’elmetto e prepararsi a una stagione di durissimo scontro nella maggioranza.
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Cantieri. Il Belpaese importa l’85 per cento delle fonti dall’estero e spende il 30 per cento in più dei partner europei
Operazione energia Italia Rigassificatori, carbone o nucleare: tutte le risorse contro la morsa russa di Francesco Pacifico
ROMA. L’obiettivo resta sempre quello di trasformare l’Italia nel hub del gas per tutta l’area del Mediterraneo. Progetto talmente ambizioso che liberarsi della “schiavitù” del metano russo o algerino diventa quasi una passeggiata. Tutto attraverso una decina di rigassificatori, che se verranno davvero realizzati, porterebbero a circa 160 miliardi di metri cubi la capacità di importazione. Il doppio del fabbisogno italiano.
Una quantità esagerata di combustibile, che spinse anni fa l’ex presidente dell’Eni, il pragmatico Vittorio Mincato, a fare una battuta rimasta agli annali: «Qui si rischia di far scoppiare una bolla del gas». La realtà, però descrive una situazione opposta. Infatti di concreto c’è poco, se non l’impianto off shore di rigassificazione di Rovigo, che sarà operativo dal marzo di quest’anno. «Una struttura che è stata progettata nel 1996 e che è stata costruita in mare anche per non disturbare gli uccelli migratori», ricorda l’economista Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia, che conclude amaro: «Di fronte a questo viene addirittura da chiedersi se c’è la crisi del gas…». L’impianto di Rovigo nato su iniziativa dell’Edison e oggi controllato da Qatar Terminal Limited e ExxonMobil (con il 45 per cento ciascuna), potrà contenere fino a un massimo di 8 miliardi di metri cubi di gas. E, se eliminiamo il piccolo rigassificatore di Panigaglia (con stoccaggio per ora pari a 3,5 miliardi di metri cubi), sarà per lungo tempo l’unico progetto arrivato a conclusione. Il cahier de doleances infatti è lungo. Non sono ancora terminati i lavori di ampliamento dei gasdotti verso l’Italia. Enti locali e ambientalisti continuano a mettere paletti al pieno sfruttamento dei giacimenti nostrani di gas e petrolio. Se poi si guarda la faccenda sotto l’occhio della diversificazione, è ancora una bestemmia riconvertire a carbone le centrali elettriche mentre il nucleare restaancora una chimera. In
La Ue manda gli ispettori al confine con la Russia
E Barroso minaccia: non saremo ostaggi di Putin segue dalla prima L’Italia, per esempio, ha aumentato le forniture di provenienza da altri paesi come Libia, Algeria, Norvegia, Gran Bretagna e Paesi Bassi. La Germania si affida alla Bielorussia, mentre c’è chi come l’Ungheria ha rispolverato l’austerity e limitato a quattro ore i consumi delle imprese più energivore. Il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, ha ribadito che «il nucleare è l’unica fonte che può garantire di evitare rischi di approvvigionamento, oltre a permettere un prezzo della bolletta energetica più basso per cittadini e imprese ed assicurare un maggiore rispetto per l’ambiente, non avendo emissioni nocive nell’aria». Se dal Cremlino non sembrano cambiare registro, il numero uno di Gazprom, Alexei Medveded, prova a tranquillizzare i suoi “clienti”. Il presidente del colosso russo ha spiegato che «si continua a pompare gas alla massima capacita tecnica». Aggiungendo che i problemi di questi giorni «saranno presto risolti».
Oggi saranno più chiare le vere intenzioni di Mosca e Kiev a trovare un’intesa. Questa mattina ci sarà infatti un faccia a faccia tra i massimi responsabili di Gazprom e Naftogaz (Alexei Miller e il Ihor Didenko) in una seduta straordinaria della commissione esteri dell’Europarlamento. Il presidente del Parlamento europeo, Hans-Gert Pöttering, proverà a mettere le ba-
si di una mediazione incontrando in precedenza, e separatemente, le delegazioni di Russia e Ucraina. «È un segnale positivo», ha spiegato Pöttering, «il fatto che entrambe le compagnie stiano cercando contatti con il Parlamento europeo e con il suo presidente: noi ascolteremo entrambe le posizioni, ma io chiarirò che i contratti devono essere rispettati. La Russia deve onorare i propri impegni, secondo i contratti che ha firmato, e noi ci attendiamo che l’Ucraina non ostacoli le forniture».
Non è difficile capire su quali basi vorrà trattare Mosca. Come ha spiegato il presidente russo Dmitri Medvedev al collega ucraino Viktor Yushchenko, si può tornare a discutere a patto che siano introdotti «meccanismi di controllo che coinvolgano Gazprom, Naftogaz, le autorità di Ucraina e Russia, gli osservatori Ue». In realtà la partita sembra più ampia e complessa se un portavoce del premier Putin ha spiegato che soltanto la costruzione di «rotte alternative» come i gasdotti North Stream o South Stream «possono scongiurare il ripetersi di uno stop alle forniture verso l’Europa». E se la prima pipeline non piace alle repubbliche balcaniche, l’altra lascia molte perplessità alla stessa Ue. Fanno quadrato anche i Paesi dell’Est, i primi ad essere colpiti dal taglio russo. Su iniziativa del premier polacco Donald Tusk, i capi di governo dell’area si incontreranno oggi a Bratislava. (f.p.)
L’impianto di Rovigo ha dovuto aspettare dieci anni prima di vedere la luce, quello di Brindisi è fermo su input dei giudici e degli enti locali. Eppure il Belpaese potrebbe essere l’hub europeo del metano questo panorama l’unica consolazione l’hanno data le immense piogge cadute a fine 2008 e che hanno portato la produzione da rinnovabili fino a 55milioni di kilowattora. Non poco per un’Italia che importa l’ 85 per cento del fabbisogno energetico, pagandolo il 30 per cento in più rispetto ai Paesi europei che non hanno dismesso il loro parco nucleare. Ma prima che si ritornasse a parlare di atomo, in Italia tutte le speranze sono state risposte nei rigassificatori. Da noi, e accanto all’Eni e l’Enel o alle più piccole Edison ed Erg, si sono presentati i più grandi colossi energetici del mondo: la già citata ExxonTotal, i tedeschi di Eon, i francesi di Gas de France, gli spagnoli di Gas Natural, gli inglesi di British gas. Eppure soltanto a Rovigo si intravede qualcosa dopo anni di battaglie legali e polemiche. Emblematico al riguardo il raddoppio dello stoccaggio all’impianto di Panigaglia, il primo a essere costruito in Italia negli anni Settanta. Il battesimo del nuovo sindaco di centrosinistra di Portevenere, Massimo Nardini, è stato quello di presentare parere negativo all’ampliamento da 3,5 a 8 miliardi di metri cubi di gas chiesto da Snam Rete Gas (Eni). Il tutto con l’appoggio del governatore ligure Claudio Burlando, che ha accusato il Cane a sei zampe di
«atteggiamento aggressivo». Sempre l’Eni si è vista dire no dalle autorità locali per la costruzione di un rigassificatore a Ravenna, che il suo amministratore delegato Paolo Scaroni si era detto pronto a costruire in 3 anni. Poca cosa, infondo, rispetto a quello che British gas ha dovuto saggiare a Brindisi. I lavori dell’impianto, partiti nel 2003, hanno segnato tantissimi stop, tanto che il costo dei lavori è passato da 330 milioni a 500 milioni di euro. Nel 2007 c’è stato il sequestro dei cantieri da parte della locale procura, a fine 2008 la regione Puglia ha dato parere sfavorevole al progetto. Da notare poi che quest’opera ha cementificato una grande alleanza tra Regione e Provincia di centrosinistra e amministrazione comunale di centrodestra.
Vincoli ambientali hanno bloccato anche la realizzazione del rigassificatore off shore di Livorno: lo scorso giugno il Tar della Toscana ha accolto il ricorso di Greenpeace e quello del Comitato di Pisa e Livorno insieme a Medicina Democratica e Forum Ambientalista, per evitare danni all’area marina dove si voleva costruire un impianto da 3,5 miliardi di metri cubi di gas. Ma l’autorizzazione controfirmato sia dal governo sia dalla Regione Toscana ha bypassato lo stop. Ritardi e po-
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Il nostro Paese non corre rischi perché ha molti fornitori diversi
Moltiplicare i rubinetti per non restare al freddo di Strategicus a dipendenza di energia primaria dai combustibili fossili dell’Italia è pari all’87%: petrolio (42,5%), gas naturale (36%) e carbone (8,5%). In particolare, il gas naturale viene importato per il 30% dall’Algeria, per il 27% dalla Russia, per l’11% dalla Libia, per il 10% dall’Olanda, per il 7% dalla Norvegia, con una produzione nazionale dell’11% circa. Il trend dal 2002 vede una riduzione dei consumi di carbone, una lieve crescita dei prodotti petroliferi (soprattutto nel settore dei trasporti in cui vi è un quasi monopolio del petrolio) e una buona crescita del settore del gas, primariamente per la generazione di energia elettrica. La decisione della Russia di chiudere il rubinetto del gas via Ucraina, con la conseguente riduzione dei volumi sul mercato europeo, non ha prodotto lo stesso“effetto panico” della crisi russo-ucraina del 2006. I motivi che fanno propendere per un sostanziale ottimismo energetico sono legati a due fattori strategici propri del nostro Paese: il forte potenziale di stoccaggio e la diversificazione degli approvvigionamenti.
L
lemiche si registrano anche sui rigassificatori che si vogliono costruire a Trieste ad Augusta, a Porto Empedocle, a Recanati o a Falconara. E la cosa sembra lontana da una rapida risoluzione. Intanto ci sono i ritardi amministrativi. Il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo si è ritrovata in eredità dal suo predecessore Alfonso Pecoraro Scanio 104 progetti ancora da far autorizzare dalla commissione Via. E di questi più di una trentina riguardano rigassificatori, centrali elettriche o campi eolici e solari, permessi per aumentare i livelli di stoccaggio. L’esponente di Forza Italia ha promesso di velocizzare le procedure, ma al momento è stato fatto molto poco, come le semplificazioni per le autorizzazioni in base ai vincoli previsti dal protocollo di Kyoto. Soprattutto non sono arrivati quei provvedimenti nei quali speravamo le aziende per far saltare i paletti locali sulle opere già costruire. E che impediscono per esempio all’Eni di trasportare al centro oli di Viggiano il greggio estratto a Cavello, in Basilicata. Si aspettano soluzioni concrete nel piano strategico nazionale che il governo doveva presentare il 31 dicembre scorso. Ma siccome in questo atto devono finire anche i criteri per costruire le nuove centrali nucleari, si è preferito prendere tempo e progare il tutto al 30 giugno 2009. Un ritardo che qualcuno imputa anche alla diversità di vedute tra il ministro competente, quello allo Sviluppo Claudio
Il rigassificatore in costruzione a Porto Tolle, vicino a Rovigo. Sotto un particolare del gasdotto di Gazprom al centro delle polemiche Scajola, e il suo collega dell’Economia Giulio Tremonti. Va da sé che il conflitto è sulle risorse da investire.
Ma i maggiori ostacoli sembrano legati alla congiuntura. Intanto c’è da fare i conti con la difficoltà a stipulare mutui. Più in generale la crisi del credito spinge a ribasso anche la produzione industriastriale. E di riflesso cala anche il fabbisogno delle imprese energivore. Proprio questo stato di cose spinge tutti gli attori in campo – la politica, le utilities, la banche e i general contractor – a prendersi una pausa di riflessione. Che potrebbe durare almeno per un biennio, se non di più. Le speranza di ritrovarsi almeno 17,7 miliardi di gas in più, come promesso nel 2006 dall’allora ministro Pier Luigi Bersani, finiscono nell’ampliamento del gasdotto tunisino Ttpc (fino a 6,5 miliardi di metri cubi di metano dall’Algeria) e o in quello austriaco, il Tag, che dovrebbe trasportare 3,2 miliardi in più dalla Russia. Soltanto così si possono superare i ritardi burocratici italiani. Gli stessi che non permettono neppure all’Enel di convertire al meno costoso carbone gli impianti di Rossano Calabro o di Piombino. Con tecnologie in grado di far calare gli inquinanti dell’80 per cento.
L’Italia ha adottato una politica del gas che vede nello stoccaggio strategico e nella procedura di emergenza-gas i punti vitali. Il primo è connesso alle importazioni presenti e future. L’operatore nazionale, prima ancora di costruire una nuova infrastruttura, deve dotarsi di un volume di stoccaggio strategico necessario a prevedere effetti critici, quali inverni particolarmente rigidi o chiusure di rubinetto da parte dei paesi produttori/esportatori. Grazie a tale politica, gli italiani non sono al freddo e la scelta radicale della Russia sta quasi passando in secondo piano. Inoltre, a livelli elevati di stoccaggio, quali quelli dell’Italia, il Paese può permettersi di ragionare su interventi di medio-lungo termine lungo la filiera del gas. Occorre rafforzare il flusso degli investimenti per potenziare le infrastrutture di approvvigionamento. La scelta dovrebbe essere rivolta a quelle infrastrutture che garantiscono volumi massicci di gas dai paesi produttori. Inoltre, essenziale è la costruzione di rigassificatori (Lng), per aumentare la capacità nazionale. Basti pensare che il rigassificatore di Rovigo, che sfrutterà per lo più gas proveniente dal Kuwait, garantirà a pieno regime circa il 10% dei consumi nazionali. Altro fattore indispensabile è la massimizzazione della diversifica-
zione dei fornitori. Più sono i paesi di approvvigionamento e meno l’Italia sarà schiava delle instabilità geopolitiche di singoli paesi esportatori o di incontrollabili dinamiche di mercato. Il nostro paese sta lavorando per questo obiettivo, con paesi quali Libia, Algeria, Norvegia, Gran Bretagna, Olanda, ecc.
Il fattore prezzo non sembra rappresentare un problema, almeno nel medio periodo. Il gas, rispetto al petrolio, ha una forte rigidità della catena: dall’estrazione alla vendita. Ciò implica che il prezzo sarà meno soggetto a crisi economico-finanziarie e il mercato del gas è meno vincolato dalle variazioni del prezzo. Inoltre, il fatto che i contratti del gas siano rigidi e di lungo termine produce un effetto calmierante della variabile prezzo. La recente costituzione dell’Opec del gas non è un “consorzio di prezzo”, ma un “consorzio commerciale”. Ovverosia, è più un fatto di marketing – sapere dove investire, attraverso quali rotte e con chi – che favorirà una pacifica divisione di zone di influenza del gas con l’accordo dei Governi nazionali. La buona stabilità del prezzo del gas è dovuta anche all’elevata stabilità della domanda del gas, che permette alle piccola e media impresa, per effetto della liberalizzazione del mercato, di avere forniture adeguate di gas con contratti più
Il gas naturale viene importato per il 30% dall’Algeria, per il 27% dalla Russia, per l’11% dalla Libia, per il 10% dall’Olanda, per il 7% dalla Norvegia, con una produzione nazionale dell’11% flessibili e più economici. Inoltre, qualora, nel 2010-11, l’Unione Europea riuscisse a creare una rete di infrastrutture europee del gas, il divario tra paesi produttori e consumatori di ridurrebbe in termini di potenziale di negoziazione. Si potrebbero plasmare su tutta l’Europa - e sotto il cappello del multilateralismo, quindi a tutela degli interessi nazionali - sia i contratti di approvvigionamento, che quelli di collaborazione tra paesi produttori e consumatori.
In questo quadro, l’Italia deve trovarsi pronta a cambiare il proprio ruolo, passando da paese dipendente dalle forniture estere ad attore di transito. Lo potrà fare solo giocando con le regole e con i principali attori dell’Ue. In più, in un modo globalizzato e con un sistema del gas sempre più multidimensionale, è fondamentale disporre di player nazionali sempre più grandi, globali e diversificati.
panorama
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Polemiche. Le conseguenze delle manifestazioni di intolleranza degli islamici di Milano e di Bologna
Quelle “piccole guerre sante” sui sagrati di Luca Volontè ecine di migliaia di persone hanno manifestato ieri a Londra e in 17 altre città britanniche contro l’operazione militare israeliana a Gaza. Nella capitale si erano riunite almeno diecimila persone. I manifestanti hanno raggiunto la residenza del primo ministro Gordon Brown, contro la quale hanno lanciato un centinaio di scarpe, rievocando il gesto compiuto da un giornalista iracheno contro il presidente americano George Bush. La protesta, con slogan anti-israeliani e bandiere palestinesi, è stata organizzata da gruppi musulmani e attivisti per la pace.
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Identico show è andato in onda a Parigi e in altre città della Francia: questo spauracchio è la vera ragione della missione francese in Medio-
riente. Nella Repubblica transalpina si sono susseguiti anche attentati e minacce ai luoghi di culto ebraici: a Tolosa un’automobile è stata lanciata contro la locale sinagoga. In Italia, sarà stato un fortuito caso o la dura lotta degli utlimi anni contro gli «imam del gli terrore», unici gesti incivili sono stati gli incedi di bandiere di Israele e le preghiere sui sagrati del Duomo di Milano e Bologna. Stupisce la mancanza di interventi della Pubblica sicurezza nei confronti di cortei che urlavano «alla guerra santa»; sconcertano le poche voci e distinguo contro i promoter dell’estrema sinistra, dei circoli italiani comunisti e antisionisti con i qua-
li un certo Pd continua a governare Città, Provincie e Regioni. Certo che esiste un problema in Italia: è indispensabile rendere più efficace, severa e agile la possibilità di ottenere la cittadi-
credibile uso del sagrato di Milano e Bologna per la preghiera islamica. Un gesto di spregio e di sfida, speriamo non sia un impossesamento: anche su questo piano, per troppi anni si è scambiata la accoglienza agli ultimi con il cedimento a ragioni di altre fedi. Addirittura si son tentate operazioni sincretiste, inacettabili per chiunque. Ora, riconsacrati i sagrati, cosa tutt’altro che scontata, ci sarà da riflettere con urgenza. Usciamo dalla folle contrapposizione tra coloro che vorrebbero perseguire nelle fallimentari sperimentazioni del multi-
C’è da chiedersi perché nessuno sia intervenuto in difesa dello Stato e della Chiesa: qualcuno pensa che non fosse una provocazione?
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
nanza italiana. Finalmente, anche coloro che si erano innamorati del voto amministrativo agli immigrati, si stanno rendendo conto che prima di qualunque voto è necessario essere cittadini italiani,fedeli alla Costituzione e alla bandiera.
C’è un ultimo aspetto, inquietante e svillaneggiato: l’in-
culturalismo e coloro che desiderano solo l’immigrato da fabbrica, schiavo del padrone. C’è un altra strada: patti chiari e amicizia lunga, riformiamo la cittadinanza, valorizziamo l’alleanza con l’islam moderato italiano, colpiamo duramente non solo a parole - i terroristi che domenica scorsa hanno insultato la laicità dello Stato e la libertà della Chiesa Cattolica. Pensate se avessero pregato intorno alle Sinagoghe di Milano,Roma... Senza proposte serie, ci condanniamo alla «guerra santa» domestica, ai turni di guardia sui sagrati delle Chiese, oppure all’opposto saremo trascinati allo stato di «liberti» sotto il Califfato d’Italia e d’Europa. Prima di rassegnarsi a questo drammatico futuro, almeno proviamo ad evitarlo.
Vuoi vedere che dal nastro (smarrito) salta fuori che questi qui sono dei perfetti incapaci?
Il mistero del registratore di Rosetta l Registratore. Potrebbe essere il titolo del prossimo romanzo di Gaetano Cappelli. Per ora è l’ultima moda della politica italiana in salsa napoletana. Rosa Rosetta Russo Iervolino, incasinata come non mai nel ruolo di sindaca di Napoli, ha avuto un colpo di genio: il Registratore, appunto. Nel suo studio a Palazzo San Giacomo erano in tre: lei, Iannuzzi e Nicolais. Più l’Attrezzo che ha registrato tutto. Il giorno dopo, quando l’ex ministro della Funzione pubblica si era già dimesso «perché la nuova giunta è vecchia e non rinnova un fico secco», la Rosa Russo annunciava: «Fermi tutti: ho registrato tutto». Luigi Nicolais cadeva dalle nuvole: «Non ne so niente. Avevo visto un aggeggio lì, ma non sapevo che fosse un registratore». Invece lo era. E ha registrato tutta la riunione.
I
Ma c’è un problema: non si trova il nastro. Chi ha registrato - Rosa - non ha il nastro, mentre chi non sapeva di essere registrato - Luigi - dice: «Tirate fuori il nastro». Ha ragione: a questo punto non resta altro da fare che trovare il nastro e farlo ascoltare a tutta la nazione a reti unificate. Perdiana: ce la stanno menando con questa malamministrazione di Napoli e della Campania da ormai più di un anno e ora che si viene a sapere che la sindaca riceve degli ospiti
nel suo ufficio e registra le conversazioni, noi tutti vogliamo ascoltare e sapere che cavolo si sono detti. Alt. Aspettate un attimo, anzi un attimino: non è morbosa curiosità. E’ politica seria: abbiamo il diritto di sapere cosa diavolo si sono detti e di cosa hanno parlato perché così possiamo capire se ci sono o se ci fanno. Ci sarà pure un valido motivo se la povera città di Napoli è conciata una schifezza o no? Vuoi vedere che dal nastro salta fuori ciò che tutti noi ormai sospettiamo: che questi sono dei perfetti incapaci? Rosetta non volendo - e sottolineo non volendo ha avuto un’idea geniale. Un tantinello di cattivo gusto e illiberale ma geniale: la registrazione del colloquio privato tra quattro mura. Non è neanche una novità. Ne fu “vittima” un altro sindaco di Napoli: Achille Lauro. Andava a Roma e diceva una cosa, tornava a Napoli e, dopo aver preso i soldi dal governo, ne diceva un’altra. Per evi-
tare che continuasse la solfa, il governo ebbe un’idea: registriamo le conversazioni del Comandante e così gli misero un bel registratore sotto il culo, pardon, era nascosto in dei candelabri, e tutto fu registrato. Achille Lauro, che non sapeva nulla, si comportò come al solito: andò a Napoli e cominciò a lamentarsi. I democristiani lo chiamarono dal governo e gli dissero: «Abbiamo registrato tutto: la pianti o rendiamo pubbliche le registrazioni?». Ecco, l’idea è proprio questa: registriamo e mandiamo in onda. Lo si può chiamare “reality politico”. Dopotutto, non sono proprio i politici che dicono cose del genere: «Serve trasparenza», «Questa è la casa dei cittadini», «Queste mura devono essere di vetro»? Certo che sono delle sciocchezze, ma le dicono loro e allora prendiamoli in parola. Si stupiranno perché sono abituati a dire sciocchezze senza che nessuno li prenda in parole, ma per una
volta si può fare un’eccezione. Da questo momento si registri tutto: non solo le telefonate, ma anche le conversazioni faccia a faccia. Si crei un Mondo Parallelo: un duplicato sonoro e magari anche visivo della realtà. Mandiamo tutto in onda: si potrebbe creare un canale televisivo con questa finalità: tutte le riunioni di partito, anche le più segrete, le consultazioni per la formazione di governi, la formazione delle liste di partito per le elezioni, tutto può essere ripreso e registrato per fare in modo che tutta la Realtà diventi Reality. Ma come è possibile che nessuno ci aveva pensato prima? Perché a nessuno era venuto in mente? Ci voleva la genialità di quell’ex ministro degli Interni che fu Rosa Russo Iervolino per avere un’idea bella e utile?
A pensarci bene, c’è qualcosina che non va. Quando registrarono Achille Lauro non lo dissero a nessuno, ma lo fecero sapere con discrezione solo a Lauro. In questo modo i democristiani, che avevano il senso della realtà, conservarono la differenza tra realtà e reality o, visto che il reality ancora non c’era, tra realtà e finzione. Oggi, invece, dicendo che si registra tutto si ha questo effetto: la cancellazione della differenza tra realtà e finzione, tra verità e falsità. E senza realtà non si fa politica. Come a Napoli.
panorama
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Riforme. Finanziamenti, concorsi e «ritorno dei cervelli»: si discute di nuovo di università alla vigilia del voto di fiducia
Qualche idea per migliorare il decreto Gelmini di Luisa Ribolzi segue dalla prima
gruppo dei pari non esercita alcun ruolo seriamente regolativo. Le norme introdotte dal decreto Gelmini, se rese operanti, possono costituire un punto di partenza positivo: il problema, così come per il finanziamento, è l’esistenza di un inattaccabile sistema di valutazione, per il momento agli inizi. Per quanto riguarda i finanziamenti, mi sembra che il decreto abbia scardinato, almeno sulla carta, la logica distributoria di quelli “a pioggia”, collegandoli ai risultati: è però possibile che i valori di una facoltà o di un corso di laurea si discostino anche sensibilmente da quelli del-
Mi sembra lodevole il proposito di ridurre la moltiplicazione dei corsi di laurea e la proliferazione di piccole e microscopiche sedi universitarie: se esistesse un serio meccanismo di accreditamento dei corsi e delle facoltà, che comporti delle conseguenze misurabili (dal mancato finanziamento al minore valore sul mercato del lavoro dei titoli conseguiti), e che in prospettiva sostituisca il valore legale del titolo di studio, la selezione sui corsi e sulle sedi “di facciata” sarà inevitabile e salutare.
Quanto alla responsabilità dei “baroni” - per antonomasia incapaci, lazzaroni e forse truffaldini - nello scadimento di qualità dell’istruzione superiore, penso che sia ingiusto fare di ogni erba un fascio. Che ci siano docenti con queste caratteristiche, è innegabile, così come la maggior parte dei docenti sa che non esiste alcun sistema di concorso che non possa essere strumentalizzato, e da questo è stato a volte favorito e a volte penalizzato. Il vero pro-
Rinnovare gli atenei è indispensabile e le norme presentate dal governo vanno nella direzione giusta: ma c’è molto ancora da fare per il futuro blema è la mancanza di ogni controllo, se non vagamente formale, sulla qualità o almeno sulla quantità dell’impegno dei docenti, così che non esistono né forme di incentivazione né forme di sanzione legate ai differenti meriti, e in proposito il
l’Ateneo, con il rischio di penalizzare facoltà che hanno ben meritato in un contesto negativo (o viceversa); un eccesso di automatismi potrebbe avere un esito paradossale. D’accordo poi sulle borse di studio, l’esonero dalle tasse e via dicendo,
ma mi sembra ora di avviare un serio meccanismo di sostegno ai costi dell’università del tipo “prestiti d’onore”, che nel nostro paese stenta a decollare.
Sul rinnovo della docenza e sull’opportunità di fare largo ai giovani, mi sembra ci si stia muovendo in una direzione giusta, tenendo però conto che non ci si può limitare ad assumere giovani ricercatori ma si deve anche pensare ai loro percorsi di carriera, anche perché si stanno rapidamente sguarnendo le persone disponibili per i ruoli di governo abitualmente destinati ai professori associati (che verranno impegnati in un tourbillon di concorsi in giro per il paese…). L’età media della docenza, così come il precariato non regolamentato si ottengono evitando di mantenere in servizio sine die al termine del secondo mandato chi non ha vinto un concorso, magari consentendogli di passare all’istruzione superiore per una via privilegiata. Chi entra in ruolo, anche in Italia, lo fa ad un’età vicina alla media europea (36 anni circa). Il“rientro dei cervelli” sarebbe poi attuato in mo-
Soldi. Malgrado l’intervento del Governatore, i nostri tassi restano i più alti d’Europa
E Draghi (non) abbassò i mutui di Alessandro D’Amato
ROMA. In una circolare molto attesa, la Vigilanza della Banca d’Italia ha dettato le regole per le banche per le nuove offerte e le nuove comunicazioni in tema di mutui. Mario Draghi ha così “sgomberato il campo”, rispondendo alle sollecitazioni del governo e alle lamentele arrivate dalle associazioni di consumatori. Per i mutui Bce, il tasso complessivo applicato dovrà essere «in linea con quello praticato per le altre forme di indicizzazione offerte». In teoria, l’interpretazione dice che non ci potrà essere uno spread significativamente più elevato rispetto a quelli indicizzati all’Euribor e quindi una maggior penalizzazione per i sottoscrittori. Ma è significativo che Bankitalia abbia così fatto capire che lo spread non deve essere per forza uguale a quello dei mutui indicizzati all’Euribor, in quanto dovrà essere solo ”in linea” con il costo complessivo. La differenza sulla rata iniziale, in quindi, potrà essere solo di poche decine di euro a vantaggio di un tipo di indicizzazione rispetto all’altro.
quello di altre forme di indicizzazione, anche se in ogni caso il tasso di Francoforte è meno variabile dell’Euribor, che è deciso dalle banche, e quindi potrebbe risentire delle fluttuazioni dei mercati; specialmente in una situazione di crisi come quella che viviamo oggi. Anche se c’è da dire che l’azione delle banche centrali ha permesso la discesa
gnifica porsi fuori dalla realtà. Interessante invece il dato sugli “spread più elevati d’Europa” – dato citato da Adusbef e Federconsumatori – che si applicano in Italia, con mezzo punto in più a svantaggio del nostro Paese rispetto agli altri. Anche se forse questa è spiegabile facendo riferimento al minore tasso di concorrenza fra gli istituti storicamente presente, e alla difficoltà di entrare da parte di nuovi competitor, calata soltanto nell’ultimo periodo.
L’intervento delle banche centrali europee ha permesso un abbassamento dell’Euribor, ma gli istituti italiani non sempre si adeguano
Insomma, Draghi dice che lo spread sul tasso di riferimento Bce deve comunque portare a un tasso in linea a
dell’Euribor ai livelli di dodici o quindici mesi fa, prima dello scoppio della bolla dei subprime. In ogni caso, la polemica sui tassi “scesi, ma non abbastanza” di questi giorni, frutto del calcolo della differenza tra tasso Euribor e Bce dovrebbe essere definitivamente chiusa: le banche si fanno prestare soldi al primo dei due tassi, e quindi è difficile, quando si fanno i conti in tasca agli istituti di credito, infilare la differenza nel computo del guadagno della banca. Mentre pensare che l’interbancario sia tenuto artificialmente alto (e non sia invece schizzato al rialzo proprio a causa della crisi di fiducia del sistema creditizio) si-
O forse, semplicemente, bisognerebbe operare finalmente una scelta. E decidere finalmente o di “aiutare” il ribasso dei tassi attraverso lo Stato, in un’ottica di economia calmierata, oppure lasciar fare il mercato dei mutui. In questo ambito, se i tassi sono bassi significa che le banche hanno molta liquidità e ritengono quello dei mutui un mercato dove investire è utile. Se sono alti, significa che gli istituti di credito non hanno molta voglia di puntarci. Con buona pace del governo e delle associazioni dei consumatori.
do assai più efficace, forse anche senza bisogno di normarlo, se un periodo anche lungo di esperienza in un altro paese venisse considerato, come nel resto del mondo, una tappa importante e, direi, indispensabile della carriera, e non la stravagante iniziativa di qualcuno, che poi non riesce a reinserisi. Il decreto potrebbe anche fornire lo spunto per riflettere su altri due temi caldi: la regolamentazione degli ingressi (non dovrebbe essere possibile aprire facoltà o corsi di laurea in luoghi o settori in cui le possibilità di spendibilità sul mercato del lavoro sono ridottissime, anche se sono popolari) e il governo dell’università, che oggi è farraginoso, con una pletora di organi inutili o duplicati, e spesso gestiti in modo dilettantesco, senza una netta distinzione fra momenti assembleari, che vanno a detrimento della rapidità e dell’efficacia, e decisionismo latente. Professionalizzare il governo dell’università, sia pure con un’adeguata valorizzazione delle risorse interne, non vuole dire “privatizzazione”, ma adeguamento di un servizio pubblico.
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Sognava di fare il calciatore, ma è diventato commerciante. Ha guidato i negozianti del il monopolio rosso a Piazza Maggiore. Chi è il «non comunista» più famoso della città che
Chi ha paura del rito di Gabriella Mecucci n miracolo, questo è un vero miracolo»: il cardinal Giacomo Biffi, vescovo di Bologna lo grida con voce sostenuta tanto da svegliare la sua perpetua. Sono le 1,24 del 28 giugno 1999 e ormai è incontrovertibile: Giorgio Guazzaloca è diventato sindaco di Bologna battendo la candidata di sinistra Silvia Bartolini. Nella città delle Due Torri
«U
ha “regnato” per ben 54 anni il Pci e, poi, il partito della “Quercia”, suo legittimo discendente. Ma in quella calda notte d’estate è successo l’imprevedibile. La notizia rimbalza in giro per tutto il mondo: il “Guazza”ha fatto crollare il “muro di Bologna”.
Chi è l’uomo che ha compiuto il miracolo? E perché a distanza di dieci anni toccherà ancora a lui probabilmente sfidare il candidato di sinistra per tentare di riportare a Palazzo D’Accursio il centrodestra? Il Pdl, per la verità, recalcitra e snocciola possibili candidati alternativi, ma non sarà facile fare a meno del Guazza. E se vince anche nel 2009 diventa una leggenda. L’uomo dei miracoli è un laborioso figlio di Bologna che si è fatto avanti a suon di buona volontà, di senso del dovere e
di intelligenza. È un bolognese doc. Non si dà arie da intellettuale, del resto ha fatto per tutta la sua vita il commerciante. Stima i sindaci comunisti come Giuseppe Dozza. Crede semplicemente che le cose vadano fatte bene e con impegno e che è giusto lottare per ciò in cui si crede. Questi sono valori largamente condivisi sotto le Due Torri. Sono persino più importanti dell’ideologia che pure ha contato molto. Insomma, il “tramonto rosso” del giugno ’99 non avviene con una campagna all’insegna dell’anticomunismo, ma con un dibattito sui fatti, promosso di un uomo che non è mai stato di sinistra, ma che pure ha avuto un ruolo molto importante nella città più rossa d’Italia. Al Guazza piacciono le persone che parlano chiaro e che dicono pane al pane e vino al vino. Per questo stima moltissimo due personaggi pure tanto di diversi quali Indro Montanelli e il cardinal Biffi.
Per la verità, il nostro da ragazzo non ci pensava minimamente alla politica. Non gli piaceva nemmeno andare a scuola: l’unica passione ce l’aveva per il calcio e sognava di diventare come Bulgarelli. La mamma Adelaide se ne dispiaceva, ma in famiglia il problema di questo adolescente che non amava i libri e voleva indossare scarpette e casacca rossoblu (all’inizio per la verità era tifoso della Juve), lo
apparivano sul giornale comunista, ma anche i libri. E di lui diceva con convinzione: «Questo è un genio». Al bar discuteva coi comunisti, non ci andava d’accordo, ma li rispettava. E non ometteva ogni tanto di dar loro qualche ragione. Dunque, tutta una vita tesa a farsi più amici che nemici, anche tra coloro con i quali aveva ben poco in comune. Ed è così che nel 1985 diventò nella rossissima Emilia presidente della Confcommercio. Aveva lanciato uno slogan di successo: «Quello che va bene per Bologna va bene anche per noi». Voleva portare sotto le Due Torri gente di genio, personaggi conosciuti in tutto il mondo che si trasformassero poi in messaggeri della bolognesità. Dotato di grande tenacia, ma anche di una certa finezza nel costruire rapporti, nel tessere una vera e propria rete di amicizie intorno a sé, riuscì benissimo anche in questa impresa. Calarono a Piazza Maggiore per conferenze ed altro: da Alberto Moravia, a Pier Paolo Pasolini, da Federico Fellini ad Enzo Ferrari. Sempre a capo dei commercianti trasformò i “Giardini Margherita” in una sorta di “Caffè letterario”. Non c’era intellettuale o uomo di spettacolo, anche il più gauchiste, che non accettasse il suo invito.
Un sacco di conoscenze dunque, ma anche un sacco di consenso. Intanto, pur non facendo
Il suo maggiore sponsor, ieri come oggi, è Pier Ferdinando Casini. Quando finì la Dc, il futuro sindaco lo chiamò e gli disse: «Piuttosto che vederti con Martinazzoli, ti do una goccia d’arsenico» risolsero con sano pragmatismo emiliano: poco più che quattordicenne andò a bottega col padre. Allora i macellai si alzavano alle cinque e lavoravano durissimo. Addio al calcio, anche a causa della rottura della tibia. E, due anni prima di sposarsi, poco più che 23enne, smise di fare il commesso e aprì una macelleria in proprio. Gli affari gli andranno sempre bene anche perché, quando ci si mette, il Guazza è un vero panzer non privo però di inventiva e creatività. Un imprenditore nato, educato da una madre supercattolica, eppure amante di Fortebraccio. Del corsivista de l’Unità leggeva tutto: gli articoli col bollino rosso che
politica in senso stretto, diventava amico dei politici: la più intensa amicizia e collaborazione la stabilì con Casini che lui chiama Piero e non Pierferdi. Conobbe l’attuale leader dell’Udc quando questi aveva 25 anni e lui, il Guazza, una decina di più. Un rapporto autentico il loro: i due si scambiavano cene a pane e olio e consigli. Il Guazza, quando la Dc finì disse all’amico che doveva decidere che fare: «Piuttosto che vederti con Martinazzoli, preferisco darti una goccia di arsenico. Andare negli Stati Uniti? Non sei Andreatta, non sei un professore di economia. Rimane la terza ipotesi». E qual è la terza ipotesi?
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ella città e poi è stato il primo - e fin qui l’unico - a interrompere he fra qualche mese cercherà di riprendersi la poltrona di sindaco
orno di Guazza? Dare vita ad un nuovo partito con una impostazione politica profondamente diversa da quella di Martinazzoli. E così fu. Intanto, mentre l’immagine e il potere di Guazzaloca crescevano, il mito di Bologna come vetrina della buona amministrazione rossa prendeva un colpo dietro l’altro. Quando si va al rinnovo del presidente della Confcommercio, nel 1998, lo scontro sinistra-moderati è al calor bianco. Da una parte c’è Sangalli, presidente della Cna, organizzazione tradizionalmente legata al Pci; dall’altra rispunta Guazza. In questa corsa più che la vittoria dell’uno o dell’altro conta un’altra cosa: da che parte si schiererà Romano Prodi. All’inizio il professore cerca di non prendere partito, ma poi si capisce bene che ap-
vivibile per eccellenza, si è trasformata in un luogo pericoloso, solcato da fiumi di droga. Insomma, anche quelli che tengono ancora in casa il ritratto di Togliatti non ne possono più dell’invasione incontrollata di tossicodipendenti ed extracomunitari.
Felice coincidenza vuole che lanci la sua candidatura alla Bolognina, proprio nel luogo dove Occhetto ha annunciato lo scioglimento del Pci. Per fronteggiare il commercian-
«Guazza il grigio» è costretta a riconoscerne alcuni meriti. Ma un mese dopo la straordinaria vittoria il protagonista dell’impresa si trova fronteggiare il più terribile dei nemici: il cancro. Si butta nel lavoro, governa e alla fine riesce anche a guarire. Ma al termine del mandato, nel 2004, si trova a fronteggiare il Cinese. Il governo Berlusconi è ai minimi della sua popolarità, la sinistra si è riorganizzata e ha trovato come candidato per Bologna un leader allora molto popolare: Sergio Cofferati. Per
Nel 2004, quando la sinistra gli mise di fronte un Cofferati al massimo della popolarità, fu sconfitto non per i suoi demeriti, ma perché su di lui pesava la scia negativa del governo Berlusconi
Si è creato da solo ed è un bolognese doc
Affidabile. Parola di Pupi Avati e Gazzoni di Francesco Capozza arli di Giorgio Guazzaloca e non puoi che constatare un apprezzamento generale degli interlocutori, che siano dei simpatizzanti di centrodestra o meno. L’esperienza come sindaco di Bologna dal 1999 a 2004 ha reso l’uomo, ma soprattutto il cittadino bolognese, conosciuto e stimato non solo da chi l’ha votato (e ha fortemente creduto anche nella sua ricandidatura nel 2004), ma anche da coloro che non gli sono politicamente vicini. Con l’ipotesi di una sua ricandidatura (quella del 2004 si arenò al primo turno, quando fu battuto da Sergio Cofferati) alle elezioni comunali della prossima primavera, liberal ha voluto sentire l’opinione di due famosi bolognesi sull’uomo Guazzaloca, ma anche sul possibile futuro sindaco. «Conosco molto bene Giorgio Guazzaloca, abbiamo un ottimo rapporto personale che si basa, tra l’altro, sulla comune passione per la nostra città» ci dice Pupi Avati, regista, produttore e sceneggiatore che per la sua Bologna nutre un affetto speciale «credo che l’esperienza come sindaco e anche la successiva sconfitta lo abbiano reso oggi pronto per un nuovo mandato. Per me, attualmente, è il candidato più autorevole e anche il più idoneo». Anche per un altro bolognese doc come l’ex presidente del Bologna calcio Giuseppe Gazzoni Frascara «Guazzaloca è bolognese ed è amato dai bolognesi. Un valore aggiunto da tenere in considerazione», oltre a questo, precisa Gazzoni Frascara, «Guazzaloca ha fatto bene nei quattro anni del suo mandato» anche perché «un sindaco deve tener d’occhio l’urbanistica e la pulizia della città, e Guazzaloca l’ha fatto molto bene». Una ricandidatura? «Certamente sarebbe un’ottima scelta e, se è vero quello che ho sentito, che in lista porterebbe anche il professor Pasquino, sarebbe una candidatura anche più autorevole di quella del 1999 e di quella, perdente, del 2004».
P
Se dovesse nuovamente diventare sindaco avrebbe in più, rispetto al primo mandato, l’esperienza di una sconfitta pesante alle spalle
Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati. A destra: in alto, Giuseppe Gazzoni Frascara e, in basso, Pupi Avati. Nella pagina a fianco, Giorgio Guazzaloca poggerà il candidato di sinistra voluto anche da alcuni industriali. Vincerà Sangalli ma per la rivincita - e che rivincita! - basterà attendere meno di un anno. Guazza comincia sin da subito a puntare sull’eventualità di diventare sindaco. Il primo ad essere messo al corrente del piano è il vecchio amico Pierferdinando Casini. Con lui il macellaio, ormai lanciato nell’agone politico, sfonda una porta già apertissima. Prepara una bella lista civica, “La tua Bologna”, e comincia a sperare di fare il gran colpo. Quanto al programma, al primo posto c’è la sicurezza, molto trascurata dalla giunta uscente. Bologna, la città
te moderato, di buon senso e bolognese sino al midollo viene scelta dalla Quercia Silvia Bartolini, una gauchiste amica dei centri sociali. Figurarsi, il Guazza ci sguazza. E alla fine, quello che all’inizio sembrava solo un bel sogno diventa realtà: per la prima volta dal 1945, dopo cioè 54 anni, Bologna viene strappata alla sinistra. Governare non è mai semplice: dalla poesia si passa alla prosa, ma la giunta Guazzaloca procede con pragmatismo e competenza: «Per me - dice il neosindaco - non conta destra o sinistra, io parlo di quello che serve alla città». Alla fine, persino Repubblica, che chiama il sindaco
Guazza tutto diventa difficile. Dà battaglia, perde nettamente, ma esce a testa alta da Palazzo D’Accursio: tutto sommato ha ben amministrato. E durante il quinquennio ancora in corso più volte è stato rimpianto anche da chi non lo ha votato.Tanto è vero che oggi ha di nuovo buone chance di vincere. È tornato in campo, ma questa volta il centrodestra è diviso e vorrebbe presentare un suo candidato: il vecchio sindaco infatti è troppo amico di Casini. Ed è in questo contesto che il macellaio di grande ingegno cerca di compiere il secondo miracolo. La sua candidatura è una mina vagante per la sinistra, ma anche per la destra. E, c’è da giurarlo, combatterà da par suo e non si scorge all’orizzonte chi possa batterlo.
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Intelligence. Panetta dovrà fermare il declino del gigante dello spionaggio. Con un occhio al bilancio dell’Agenzia
Missione: salvare la Cia Un esperto di gestione del personale per rilanciare il fattore umano di Pierre Chiartano eon E. Panetta alla Cia, ovvero un esperto di bilanci e di risorse umane della Casa Bianca, in quella che era un tempo la poltrona del direttore di tutta l’intelligence statunitense. E che oggi è stata scalzata dalla figura del Dni, ovvero il Director of national intelligence. Figura occupata di recente dal nome dell’ammiraglio Dennis C. Blair. L’ultima nomina di peso del presidente eletto Barack Obama ha provocato molte perplessità a Washington. Panetta non ha esperienze nel settore dello spionaggio, controspionaggio e lotta al terrorismo, non è neanche passato
L
parti. Una perdita di funzioni e competenze che hanno giovato al Federal bureau of investigation che ha acquisito competenze anche al di fuori dei confini nazionali e soprattutto della Dia, l’intelligence militare. Quest’ultima privilegiata dall’allora segretario alla Difesa di George W. Bush, Donald Rumsfeld, e resa indipendente rispetto all’accentramento provocato dalla nascita della figura del Director of national intelligence.
L’unico – in teoria – con accesso diretto nella stanza Ovale. Poltrona oggi riservata da Obama, all’ammiraglio, da po-
anche la Guardia Costiera, per non parlare dei Marines. Gli alti comandi unificati poi hanno ognuno un’organizzazione d’intelligence molto ramificata e specializzata nei vari teatri operativi. Tutte producono una massa enorme d’informazioni di non facile gestione. Soprattutto quelle di provenienza tecnologica. Satelliti e apparati di vario genere che fanno attività che in gerco si chiamano comint (comunicazioni radio), sigint (analisi dei segnali eletromagnetici) e telint (telecomunicazioni), oltre a sistemi tipo Echelon 1, 2, 3 e via elencando, come ci ha con-
I buoni rapporti con Obama potrebbero riaprire una porticina nel cortile della White House, dando un accesso diretto al direttore della Central Intelligence Agency alla stanza dei bottoni da nessuna delle commissioni del Congresso che si occupano della materia. Perché mai metter una figura di peso politico - vanta appoggi bipartisan al Congresso - dove un tecnico è sempre il benvenuto? È un bravo manager con alcune competenze in politica estera, è stato capo dello staff della Casa Bianca durante la presidenza Clinton.
È quindi un uomo con esperienza nel campo delle risorse umane, al più alto livello. C’è da intuire, come ci ha confermato anche il generale Fabio Mini (nell’intervista qui sotto), che il suo compito sarà quello di riorganizzare le capacità di humint, tagliando anche il bilancio. In tempi di crisi le spese inutili vanno doverosamente eliminate. Sarà sicuramente un uomo di Obama, abbastanza indipendente e impermeabile alle advance che Langley potrebbe tentare, soprattutto quando intuisce che sta per arrivare un direttore che vorrebbe fare dei cambiamenti, non di facciata. Ma non è detto che anche all’interno dell’apparato non si senta come necessario un cambiamento di rotta, per fermare un lento quanto inesorabile declino della Company, come la chiamano da quelle
co in pensione, ed ex comandante in capo delle forze del Pacifico, Dennis C. Blair. In particolare le agenzie d’informazione del Pentagono possono contare su di una rete veramente potente. Ogni arma ha la sua agenzie di spionaggio,
Parla il generale Mini, già comandante di Kfor ed esperto di servizi di informazione
«Il lento tramonto di Langley» ecorato nel 2004 con la Legion of Merit, dal segretario alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld, il generale Fabio Mini è stato comandante di Kfor, la forza d’intervento della Nato in Kosovo. Grande esperto di questioni militari e del mondo dell’intelligence ci ha spiegato il suo punto di vista sulla trasformazione in corso negli Stati Uniti. Parliamo della Cia e della sua evoluzione o involuzione negli ultimi anni, dall’affaire Almes negli anni Novanta. È stato un lento declino, ma un declino del vecchio sistema Cia. Un sistema che come tanti vecchi operativi della Company avevano denunciato pubblicamente, si era impigrito. Prediligeva le operazioni più comode, dove c’erano più affari che spionaggio, più collegamenti politici che informazioni. Senza un vero rischio che compete a chi cerca informazioni. Tutto il contrario di quello che ci propinava Hollywood degli anni Ottanta e Novanta. Ciò che avveniva realmente, come disse testualmente un operativo del Medio Oriente, è che la Cia non manda i propri uomini “dove si rischia una diarrea”. Questa era la realtà. Dopo tanti anni di guerra fredda, la Cia non aveva gli strumenti per capire gli altri mondi, come quello islamico. Una grande struttura difficilmente riformabile... Non era riformabile, ma doveva essere ristrutturata completa-
D
mente. A partire dagli anni Ottanta sono proliferate le strutture della sicurezza. Funzioni e competenze sono state erose, sopratutto da parte del pentagono con la Defence intelligence agency (Dia). Prima non c’era interscambio oggi qualcosa c’è, ma è carente. Basti pensare alle diatribe fra agenzie, come quella sull’uranio nigeriano. Cosa è cambiato? Grande trasformazione tecnologica. Ultimamente ci sono stati dei grandissimi tecnici a capo delle agenzie. Leon Panetta che passa per non essere un tecnico d’intelligence, in realtà è un gestore di uomini. Un manager, un uomo delle risorse umane... Sì, sia di risorse umane che di risorse finanziarie per cui in questa fase di trasformazione è stato ritenuto il più idoneo per smussare molti angoli. Obama avrà ritenuto che la priorità sia quella di rimettere in piedi, non tanto le strutture tecniche, quanto quelle umane e finanziarie, magari tagliando un po’ il bilancio e ottimizzandolo. Ciò che era stato denunciato anche da molti ex direttori, era che, in realtà, la humint, l’elemento umano, era stato molto criminalizzato e colpevolizzato e poco rivalutato per i nuovi compiti. Le professionalità che si erano ben sviluppate alla Cia e alla Dia negli anni Novanta cadeva-
mondo
A sinistra, foto grande, l’ingresso della sede di Langley della Cia. Foto piccola, in basso, il nuovo direttore della Cia, Leon Panetta. Qui a sinistra, l’ammiraglio Dennis Blair, Director of national intelligence e superiore di Panetta. Sopra, la sede della Defence intelligence agency. Sotto, il generale Fabio Mini fidato il generale Fabio Mini. Le critiche sono partite anche da settori dello stesso partito del presidente. I democratici Dianne Feinstein e John D. Rockfeller uno presidente entrante e l’altro uscente della Commissione su servizi d’intelligence del Senato hanno espersso dubbi su questa nomina. E fra i suoi detrattori c’ è anche Amy Zegart, professore
no sotto la mannaia delle riforme. Qualche esempio? Tutte le competenze relative al Medio Oriente. Quando si riforma un servizio, uno dei primi desk che viene a cadere è proprio quello. Facendo più riferimento ai servizi locali invece di aver propri uomini. Si perde capacità di raccolta fidandosi degli altri. Ci spiega da dove parte la grande trasformazione? C’è stata un’evoluzione verso l’integrazione di più servizi d’intelligence e anche di rivisitazione dei compiti investigativi. Tradizionalmente i servizi si fermavano al ruolo di fornitori d’informazioni, poi nell’ambito interno c’era l’Fbi e altre agenzie con divisioni di compiti precisi su investigazioni ed indagini. Con il terrorismo internazionale questo assetto è stato modificato. Così le agenzie d’intelligence si sono dotate di apparati e strumenti per fare investigazioni. Questo non è sempre un bene, perché in realtà ci sarà sempre una propensione da parte dei vertici per utilizzare più l’una o l’altra funzione. Intende un’attività che produca prove per le aule giudiziarie? Esatto. Siccome, per tradizione, l’intelligence non è stata mai propensa a produrre prove invece che informazioni. Anche perchè così si rischia di svelare le proprie fonti. I tribunali non
alla California University, esperto della materia con n umerose pubblicazione all’attivo, che ha diefinito la sua nomina «ad alto rischio».
C’è chi vi ha letto, invece, un «segnale forte» verso una maggiore trasparenza, per un organismo non sempre in cima alle graduatorie della fiducia del cittadino americano. La
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posizione di Panetta nei confronti degli interrogatori illegali e dell’uso della “tortura” in alcuni casi di terrorismo, ne fanno un difensore dell’approccio law enforcement, la prima grande trasformazione subita dai servizi a cavallo tra anni Novanta e Duemila. Il suo approccio decisamente contrario a “certi metodi” , fa del più anziano – 70 anni – direttore della Cia una figura atipica. Un outsider rispetto alla community dei servizi, ma non l’unico. Ricordiamo un paio di nomi che potrebbero rientrare in questa categoria, come l’ammiraglio Stanfield Turner, uomo di specchiata onesta e capacità, nominato ai tempi di Jimmy Carter per cambiare lo stile Casey a Langley. E anche John M. Deutch, un fisico già sottosegretario alla Difesa, voluto da Bill Clinton.
Oggi professore al Mit porta altri due esempi di outsider che divennero dei direttori di successo: John McCone nell’amministrazione Kennedy e George Bush senior con Richard Nixon alla Casa Bianca.
si accontentano delle dichiarazioni delle agenzie vogliono avere testimoni al banco che parlino. Allora si doveva produrre un cambiamento radicale d’approccio. Una vera mutazione del diritto... Certo. Negli Usa c’è stata un decisa trasformazione del quadro giudiziario. Tutte le accuse mosse contro le ultime evoluzioni giuridiche vanno proprio non solo contro la privacy, che è un dogma liberal americano, ma vanno contro i capisaldi del diritto penale e amministrativo, che sono stati sempre molto attenti alle libertà individuali. È vero che lo stato d’eccezione che era stato proclamato dopo l’11 settembre, giustificando molte azioni, sta lentamente scemando negli Usa, risollevando una certa polemica, ma intanto l’intelligence si è trasformata. Un doppio cambiamento. Non ci può essere più nessuno di quel mondo che abbia una porta nel cortile della Casa Bianca, un accesso diretto e riservato dal presidente. Oggi ogni agenzia deve fare riferimento al Dni, che deve colloquiare, dare la sintesi delle sue valutazioni alla Casa Bianca. Con le ultime nomine da parte di Obama, ad esempio quella di Panetta, si nota il tentativo di scansare questo vincolo, piazzando un suo uomo alla Cia. Vale la regola generale, con le dovute eccezioni. (p.ch.)
Sempre secondo Deutch Panetta e Blair potrebbero costituire una coppia formidabile ai vertici dei servizi Usa. Panetta ha comunque servito come capo dello Staff nella Stanza Ovale, per due anni e mezzo, ed è conosciuto a Washington per essere un power broker, un bravo lobbista quando si tratta di muovere le pedine giuste. Figlio di Carmelo Panetta originario di Gerace in Calabria e di Maria Carmela Brugnano di Siderno, è oggi professore alla Santa Clara University in California. Ha fondato e diretto anche il Panetta Institute for Public Policy, una diretta emanazione delle sue attività non politiche, situato all’interno della California State University. Dal 1979 al 1985 è stato membro dell’House committee of the Budget e suo presidente dal 1989 al 1993, acquisendo una grande esperienza nel maneggiare i bilanci federali. Nel 2006 ha fatto parte del gruppo di studio sull’Iraq della commissione Baker. Le sue capacità di gestire gli uomini e svilupparne le migliori qualità serviranno per cercare di rigenerare la Cia. La qualità umana per gestire la massa d’informazioni che la tecnica mette a disposizione e che sembra andata perduta. La qualità d’analisi che permette di discriminare, dove può esser la più piccola nota a costruire l’importanza e il successo del lavoro delle “barbe finte”.
Comunque Panetta dovrà, in ossequio alle nuove procedure sull’accentramento, riferire soltanto all’ammiraglio Blair, ma c’è chi è convinto che i buoni rapporti con Obama potrebbero riaprire una porticina nel cortile della White House, dando un acceso diretto al direttore della Cia alla stanza dei bottoni. E Lee Hamilton già presidente del Comitato per l’Intelligence della Camera bassa statunitense è convinto che questa vicinanza saprà essere trasformata in una più vasta influenza su tutta la cominità dei servizi.
mondo
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Stati Uniti. A più di due mesi dalle elezioni mancano ancora tre seggi da assegnare al Senato
Washington, Italia di Andrea Mancia
ono passati più di due mesi dalla tornata elettorale che, negli Stati Uniti, ha regalato al partito democratico oltre alla Casa Bianca - una netta maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Eppure i cittadini americani ancora oggi non possono conoscere l’esatta composizione del Senato, perché mancano ancora tre seggi da assegnare. Una situazione quasi “italiana”, insomma, a cui gli Usa non sono certo abituati. Ma andiamo con ordine.
S
In Minnesota si è da pochi giorni concluso il “recount” che ha visto contrapposti il senatore uscente, il repubblicano Norm Coleman, e lo sfidante democratico, il “comico” televisivo Al Franken. Alla fine del primo conteggio, Coleman era davanti di circa 250 voti. Dopo il riconteggio, la situazione si è ribaltata e adesso Franken ha 225 voti di vantaggio sul rivale. Coleman, però, ha deciso di continuare a combattere anche nelle aule dei tribunali. E, secondo la legge del Minnesota, il vincitore delle elezioni non potrà essere ufficializzato fi-
Un altro seggio senatoriale ancora “in ballo” è quello dell’Illinois, occupato fino allo scorso 4 novembre dal president-elect Barack Obama. In questo caso la nomina spetta al governatore dello stato, Rod Blagojevich, che è però coinvolto in un’inchiesta federale con l’accusa di aver tentato di “vendere”proprio il seggio in questione al miglior offerente. Blagojevich ha nominato il procuratore generale Roland Burris (democratico e afroamericano), mettendo in crisi la leadership democratica del Senato - Harry Reid in testa - che ha deciso di contestare la legittimità di questa scelta. Il problema è che, ad inchiesta ancora in corso Blagojevich è un“presunto innocente” nel pieno esercizio delle sue funzioni. E non sembrano esserci dubbi sulla validità della nomina sotto un profilo costituzionale. Già nel 1967, quando la Camera si rifiutò di insediare il controverso rappresentante di Harlem, Adam Clayton Powell Jr., la Corte Suprema stabilì che il Congresso non aveva il potere necessario per rifiutare l’insediamento di un candidato regolarmente eletto. La matassa è resa
Miliardario tedesco si suicida dopo le perdite in Borsa Secondo la lista di Forbes era il quinto cittadino più ricco della Germania con 12,8 miliardi di euro: eppure Adolf Merckle si è suicidato buttandosi sotto un treno vicino a Ulm, non lontano dalla sua città Blaubeuren, nel sud della Germania, dopo le forti perdite avute in Borsa. «Adolf Merckle ha vissuto e lavorato per la sua famiglia e le sue aziende», ha fatto sapere ieri la sua famiglia in un breve comunicato, confermando il gesto estremo e spiegando che «la situazione di emergenza economica dei suoi gruppi causata dalla crisi finanziaria hanno messo fine alla sua vita».
Nigeria, liberati gli ostaggi della nave francese
Per il Minnesota, tra Coleman e Franken deciderà il tribunale. In Illinois e New York, gli scontri interni al partito democratico disturbano l’insediamento di Barack Obama no alla conclusione della battaglia legale. «Non tutti i voti validi sono stati contati e alcuni voti sono stati contati due volte», ha dichiarato Coleman alla stampa, annunciando la propria volontà di non “concedere” la vittoria a Franken. La prossima fase della sfida si svolgerà al tribunale della contea di Ramsey, dove Coleman dovrà presentare le prove delle sue accuse di fronte a una giuria composta da tre giudici. Il processo dovrebbe iniziare tra una ventina di giorni e la decisione finale arriverà non prima di due mesi.
in breve
ancora più ingarbugliata dal fatto che Burris sarebbe l’unico membro afroamericano del Senato. Come ha spiegato ieri sulle colonne del New York Times un “clintoniano doc”come Walter Dellinger (capo dell’ufficio di consulenza legale del Dipartimento di giustizia dal 1993 al 1996), «l’unico modo che ha il Senato per uscire da questo pantano costituzionale è consentire alla nomina di Burris, un rispettato pubblico ufficiale che non è mai stato accusato di alcun comportamento illegale». Sopra, il Senato americano a Washington Qui a fianco, Caroline Kennedy, figlia di Jfk
C’è poi il caso, quasi comico, del seggio senatoriale di New York, abbandonato da Hillary Rodham Clinton che si appresta ad occupare la prestigiosa poltrona di Segretario di stato. In questo caso il seggio è in mano al governatore dello stato di New York, il democratico David Patterson. Ma stavolta la vicenda si è trasformata in uno scontro quasi dinastico. Da una parte c’è Caroline Kennedy, unica figlia vivente di JFK, totalmente a digiuno di qualsiasi esperienza politica. Dall’altra parte spinge prepotentemente Andrew Cuomo, primogenito dell’ex governatore Mario Cuomo, ministro (Housing and Urban Development) durante il secondo mandato di Bill Clinton e attualmente procuratore generale dello stato. Caroline Kennedy, nei giorni scorsi, è stata letteralmente ridicolizzata dai media newyorkesi (di destra e di sinistra) per la sua inesperienza. E non gioca a suo favore, in questa enclave clintoniana, il suo appoggio a Barack Obama durante le primarie democratiche. Secondo i sondaggi, poi, i cittadini di New York preferiscono di gran lunga Cuomo Jr. (58% contro 27%). Adesso bisognerà vedere se Patterson darà ascolto alla voce della ragione o alle sirene kennedyane della mitologia democratica. Come se non bastassero tre seggi - e due scontri fratricidi - al Senato, poi, il president-elect si ritrova anche ad affrontare la rogna causata dalle “dimissioni anticipate”di Bill Richardson, che Obama aveva scelto come proprio ministro del Commercio e che si è dovuto ritirare dopo il coinvolgimento in una complicata inchiesta federale che rischia di andare avanti per molti mesi. Tra i nomi che circolano come possibili sostituti ci sono quelli di Scott Harris (esperto del settore che viene dal privato) e Leo Hindery (ex consigliere di John Edwards ed ex mamager di Oracle). La comunità ispanoamericana, però, preme per sostituire Richardson con un altro “latino”. Un problema in più, di cui Obama - in questo momento - proprio non sentiva la necessità.
Sono stati liberati i nove uomini dell’equipaggio della nave francese del gruppo Bourbon sequestrato cinque giorni fa al largo delle coste della Nigeria. Lo ha reso noto oggi la società stessa: «I nove membri dell’equipaggio (5 nigeriani, 2 ghanesi, un camerunese e un indonesiano) della sono in buona salute», ha fatto sapere la Bourbon. L’attacco non è stato rivendicato, anche se il Delta del Niger è spesso teatro di violenze ad opera di gruppi armati che negli ultimi anni hanno moltiplicato i sequestri di dipendenti del settore petrolifero, gli attacchi alle installazioni petrolifere e i sabotaggi.
Afghanistan, uccisi 32 terroristi in un raid Fabbricavano bombe e mine da piazzare lungo le strade i 32 terroristi che le forze della coalizione a guida Usa (“Enduring Freedom”) annunciano di aver ucciso nel corso di uno scontro avvenuto in un villaggio a est di Kabul, nella provincia di Laghman, a seguito di un raid. «Durante l’operazione - comunica Enduring Freedom - circa 75 ribelli armati sono usciti dai loro nascondigli e hanno cercato di convergere sulle forze della coalizione sparando dai tetti o dai vicoli con armi leggere».
mondo
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A lato, immigrati pakistani vendono compact disc di musica etnica per le vie di Londra, la capitale del Regno Unito. Nella foto in basso il Big Ben, uno dei simboli della città
Esodi. Motivo: nella City aumentano gli stranieri e spariscono le tradizioni
Londinesi in fuga da Tamigi e Big Ben di Silvia Marchetti ondinesi che vanno, stranieri che vengono. Che Londra fosse diventata una tra le metropoli più cosmopolite del mondo già si sapeva da tempo, ma ciò che colpisce è che ormai il numero dei “forestieri” ha superato di gran lunga quello degli abitanti “originari”. Insomma, trovare un puro sangue londinese (o anche soltanto inglese) per le vie della capitale è quasi impossibile: è più facile sentire parlare pakistano che il tradizionale cockney, dialetto della swinging London. Colpiscono i trend nei flussi migratori della capitale britannica, “indirettamente proporzionali” tra nativi e non-nativi. Stando a un rapporto della Banca di Scozia pubblicato in questi gior-
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dal 1997 al 2008 più di 542mila persone hanno scelto le belle colline di Edimburgo. Anche il nord dell’Irlanda ha registrato un aumento di 10mila nuovi residenti provenienti da altre zone della Gran Bretagna. Non c’è dubbio che si tratti di flussi migratori abbastanza particolari. Martin Ellis, capo-economista della Banca di Scozia e responsabile del rapporto condotto sulla base di dati ufficiali dell’ufficio nazionale di statistica del Regno Unito, sostiene che «è un fenomeno legato a motivi sia economici che sociali». Chi si trasferisce nella capitale - sia dall’estero che da altre regioni interne - lo fa per cercare migliori opportunità di lavoro e frequentare università prestigiose: la City
Un rapporto della Banca di Scozia denuncia: in 10 anni si sono spostati a Londra circa 1,8 milioni di immigrati, mentre 2 milioni di autoctoni si sono trasferiti all’estero o in altre città del Paese ni, negli ultimi 10 anni circa 1,8 milioni di stranieri si sono trasferiti a vivere a Londra, mentre al tempo stesso c’è stata un’emorragia all’incontrario che ha visto 2 milioni di londinesi abbandonare la capitale per trasferisi all’estero o semplicemente in altre città del Paese. Insomma, sono più quelli che fuggono di quelli che arrivano. Basti pensare che nel periodo preso in esame la popolazione della capitale britannica è cresciuta di appena 370mila abitanti. Ma il dinamismo della capitale si è ripercosso in tutta l’Inghilterra del sud, che si è rivelata la regione più popolare sia tra gli inglesi che tra gli stranieri, con un incremento totale di popolazione di circa un milione di abitanti. Al contrario, il nord del Paese ha vissuto una “fuga” generale di oltre 50mila residenti. L’altra regione ad aver visto un notevole incremento di cittadini è stata la Scozia:
(almeno fino al credit crunch che ha messo in ginocchio il Paese) dà lavoro a migliaia di persone. Londra ha accolto la maggior parte degli stranieri che si sono riversati nel Regno Unito nell’ultimo decennio.
La capitale inglese si è rivelata la più potente calamita per i migranti del mondo. Tra i cittadini delle ex-colonie appartenenti ancora al Commonwealth – soprattutto l’India e le nazioni arabe – e quelli di altri Paesi europei, si fa presto a capire il perchè di tanta attrazione. Londra è la capitale finanziaria del Vecchio Continente, il polo dell’internazionalità e del multicultarlismo, una città da sempre all’avanguardia rispetto alle altre capitali. Un po’ come la New York d’Europa, insomma uno dei centri del mondo. È un crocevia di razze, colori, profumi, fedi e lingue, si parla cinese
arabo turco e indiano. I tassinari sono tutti pakistani e i camerieri nei ristoranti hanno il turbante. I grattacieli e i magnifici appartamenti della City sono in mano alle ricche famigli dei nababbi arabi provenienti da Dubai e Abu Dhabi, i petrodollari hanno comprato ogni centimetro quadrato attorno a Trafalgar Square.
Le università pullulano di ragazzi che arrivano dai quattro angoli del pianeta per studiare l’inglese, per laurearsi alla London School of Economics o ad altre università meno prestigiose ma sempre importanti. Difficile ormai riuscire a trovare un ristorante dove si mangia ancora il classico porridge inglese. Tutta questa diversità etnica e culturale è il tratto saliente oggi di una metropoli che si possa definire davvero “moderna”, ma forse ci sono dei limiti. Il calore e la tradizione delle case inglesi di una volta si è forse un po’ dimenticata, persa negli anni. Prova ne è il fatto che se da una parte aumentano gli stranieri, dall’altra spariscono i locali. Ciò che colpisce più di tutto, infatti, è proprio la “fuga” degli inglesi doc dalla loro capitale. Insomma, metropoli sì, ma dove va a finire “l’inglesità” di Londra? Perché gli abitanti originari sono sempre meno e preferiscono andare a vivere in altre città del Paese piuttosto che starsene a casa loro? Londra è stata infatti la città del Regno Unito dove c’è stato il maggior numero di partenze da parte delle famiglie britanniche, quella che ha perso più cittadini locali. Insomma, che Londra sia la meno popolare proprio tra gli inglesi colpisce, eccome. Forse proprio perché la loro capitale è troppo cambiata, si è trasformata a tal punto che di veramente “british” c’è rimasto ben poco? Forse giusto la pioggia che scende puntuale quasi tutti i giorni e il Big Ben che si affaccia sul Tamigi.
in breve Cina, salgono a 7 le vittime del latte alla melamina Si aggrava in Cina il bilancio ufficiale delle vittime del latte alla melamina. È salito a sette il numero dei bambini deceduti, dopo la morte del piccolo di un anno a Qingzhou (Shandong), che aveva bevuto latte in polvere sin dalla nascita e per questo aveva subito danni ai reni. L’alimento contaminato dalla melamina ha fatto ammalare di calcoli renali o di problemi alle vie urinarie oltre 300 mila bambini. Secondo gli osservatori, però, il numero delle vittime potrebbe essere maggiore. Il Governo e le autorità cinesi, infatti, hanno cercato finora di minimizzare le morti correlate al latte avvelenato e i tribunali non accettano denunce dei genitori dei malati contro le ditte implicate nello scandalo.
Mumbai: unico sopravvissuto ha legami con Pakistan L’unico terrorista sopravvissuto catturato dopo gli attacchi di Mumbai dello scorso novembre, «ha legami con il Pakistan». Lo ha detto ieri il ministro dell’Informazione pachistano Sherry Rehman. «Ha legami con il Pakistan ma continuano le indagini» ha detto Rehman rispondendo implicitamente alle dichiarazioni di oggi della tv Dawn News secondo le quali l’uomo, Mohammed Ajmal Kasab, detenuto dalle autorità indiane, è pakistano. In un’ondata di attentati simultanei nella città portuale indiana sferrati da diversi gruppi terroristici il 26 novembre scorso, morirono circa 200 persone, tra cui alcuni turisti stranieri, e ne rimasero ferite decine.
Messico: narcos attaccano tv nazionale Un gruppo di narcos con il volto coperto da passamontagna la notte scorsa ha lanciato una granata e ha sparato ripetute raffiche di mitra contro le istallazioni dell’emittente televisiva messicana Televisa ubicate nel centro di Monterrey. A fornire l’informazione è stata direttamente la polizia statale di Nuevo León.
cultura
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Contaminazioni. La genesi dei “fenomeni da baraccone” si mescola a quella del teatro popolare in senso stretto: un libro di Raffaele De Ritis
La rivoluzione dei clown Dagli acrobati antichi alle tecnologie del Cirque du Soleil, la storia del circo è fatta da una lunga serie di “diversi” di Nicola Fano el 1980 sbarcò in Italia Jango Edwards. Era un attore pazzerello, di origine olandese, che sulla scena sudava come un disperato: si esibiva da solo (soltanto più tardi cominciò a farsi accompagnare da una band rock) ma sembravano mille, per come si agitava, per come mimava ruoli e personaggi, per come correva da una parte all’altra del palcoscenico. Era il 1980 e nell’entroterra marchigiano, a Polverigi, c’era un bel festival di teatro alternativo che anno dopo anno aveva fatto conoscere dalle nostre parti artisti e gruppi di strada o sperimentali: Jango Edwards era uno di questi, metà sperimentale, metà di strada, appunto. Nel senso che aveva recu-
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perato lo spirito del teatro popolare e lo inseriva in un contesto vagamente psichedelico. Parlava, parlava come un ossesso, ma a parlare erano soprattutto le sue boccacce e le sue giacchette sgargianti. Poi si fermava, fissava un melone sistemato su un’asta al centro del palcoscenico e intimava: «Look at the melon!»: e noi spettatori tutti lì a rimirare il melone. Alla fine, se ne andava urlando «Clown power», esortazione che noi altri giovani aspiranti intellettuali di sinistra interpretavamo come «Crown power»: ci sembrava che assegnare il potere alla folla (piuttosto che ai clown) fosse più vicino al nostro sentire che ci ingiungeva di consegnare rivoluzionariamente il potere al popolo. E sbagliavamo, naturalmente. Perché è molto più rivoluzionario un clown della folla.
realizzate quando i diavoli ancora non esistevano. Chi ricorda più, per esempio, le insolenze delle farse cavajole dove, ai tempi dei romani antichi, si svillaneggiavano i poteri a suon di acide volgarità e potenti satire? E i macchi (antenati di Pulcinella, secondo la nota teoria di Anton Giulio Bragalia)? E tutte quelle figurette che animavano i fescennini? Insomma, il circo viene da lontano e viene dalle stesse piazze e le stesse arene dove nacque il tea-
speare, le meravigliose “O” di legno che racchiudevano i teatri elisabettiani servivano anche per violenti combattimenti fra cani e orsi di cui andavano pazzi tanto il popolo quanto la regina Elisabetta in persona (a quanto se ne dice). Del resto, Shakespeare medesimo rappresentò un punto di congiunzione fra teatro e circo almeno in un meraviglioso personaggio (vero e proprio clown ante litteram): il villico di Pene d’amor perduto che, scambiando lettere d’amore e amanti, ci si presenta quasi come un Arlecchino servitore di due padroni.
Se ce n’è ancora bisogno, una prova la fornisce un libro monumentale: Storia del circo, dagli acrobati egizi al Cirque du Soleil scritto da Raffaele De Ritis per Bulzoni (572 pagine, 47 euro). La storia del circo è la storia di una devianza. Lo sottolinea bene De Ritis, proprio facendo partire la sua trattazione dalle origini più lontane. Perché in realtà la genesi del
circo si mescola a quella del teatro popolare in senso stretto: giocolerie antiche, ma anche farse e altre diavolerie pensate e
In queste pagine, immagini di manifesti e locandine di arti circensi risalenti all’Ottocento e al Novecento
tro comico. Per esempio, nell’area del palazzo di Cnosso, a Creta, c’è un teatro edificato – pare – intorno al 2500 avanti Cristo nel quale sembra si svolgessero alternativamente spettacoli di mimo e combattimenti fra uomini e tori. Anche questo, un progenitore del circo e del teatro popolare. Se non fosse che la struttura architettonica è assolutamente particolare e non ha avuto sviluppi in epoca moderna: è un quadrato diviso in quattro quadrati, uno in alto (per la corte), uno in basso (il palcoscenico vero e proprio) e due a gradoni (per il pubblico). La fusione di spettacoli di uomini e animali è tipica del punto di incontro fra teatro popolare e circo. Ai tempi di Shake-
Ed eccoci alla Commedia dell’Arte che, qui in Italia, ha fatto da spartiacque non solo fra antichità e modernità teatrale, ma ha dato anche progenie alle
È un’arte che viene da lontano, dalle stesse piazze e le stesse arene dove nacque anche il teatro comico clownerie degli ultimi due secoli del millennio. Tradizionalmente, si fa risalire la nascita della Commedia dell’Arte al 1545, anno del primo atto notarile che certifica la fondazione di una compagnia professiona-
le: la novità sta proprio in questo, nella specificità professionale di quel teatro che dava risate ed emozioni e aveva in cambio dal pubblico denari o beni di qualche genere. Ma in margine alla Commedia dell’Arte propriamente detta si hanno notizie di altre rappresentazioni in tutto simili a quello che sarebbe stato poi il circo. Chiamiamolo teatro di strada. Tutto cominciò con i riti pagani di fecondità della terra, con i diavoli (stavolta sono proprio loro, con le fattezze dei futuri Arlecchino e Pulcinella) beffati e sconfitti dalla natura, così da garantirsi prosperità e buoni raccolti. Ma antenati dei clown (e dei comici) erano anche quei mimi che chiudevano con le loro rappresentazioni le processioni che a cavallo fra Cinquecento e Seicento si organizzavano in tutto il Nord d’Italia per contrastare la peste. Erano fiumane d’uomini che traslavano reliquie da qui a là (Carlo Borromeo, massima autorità in materia, rimase celebre anche per quella del Santo Chiodo) in coda ai quali buffoni vestiti da contadini uccidevano altri buffoni vestiti da diavoli. Ecco perché la storia del circo e della comicità è la storia di una devianza: perché i suoi protagonisti sono sempre stati dei diversi.
Diversi in senso lato e in senso stretto. Ai primi del Novecento, a Roma, in cima all’E-
cultura
squilino c’era una sorta di circo quotidiano all’aperto zeppo di «padiglioni delle meraviglie», come li chiamava Ettore Petrolini che proprio lì aveva debuttato come attore. E le meraviglie erano donne barbute, uomini pesce, cani parlanti e scimmie ballerine. Una cosa a metà strada fra la realtà e l’imbroglio, tra l’esposizione di un orrore e la costruzione di una sorpresa. Circo, appunto, con la gente che paga per vedere come sia brutto, a volte, il mondo, e come sia rassicurante non far parte della schiera dei deviati. Sono mica vestiti normali, i clown! Né eseguono esercizi di normale abilità i funamboli o i prestigiatori o i trapezisti. Anzi, tutti costoro, più sono diversi e più attraggono il pubblico. E così lì a Piazza Pepe, all’Esquilino, i romani facevano la fila per spaventarsi di fronte ai mostri, ma da quei baracconi uscivano rassicurati, perché le donne si toccavano la faccia e non avevano barba e gli uomini si toccavano la schiena e non avevano squame. Per essere artisti da circo, se non si era diversi bisognava diventarlo.
R a f f a e l e D e R i t is sfiora appena una
storia esemplare della devianza circense. Quella di Buffalo Bill. S’era alla fine dell’Ottocento e William Frederick Cody, finita la guerra civile americana, si ritrovò senza lavoro: né più eserciti da guidare, né nativi americani da stanare, né bufali da sterminare. Un uomo di genio, Phineas Taylor Barnum lo contattò per proporgli uno strano mestiere: esibirsi in pubblico sparando o, al limite, domando bufali. In realtà, fece la donna barbuta, ossia il «fenomeno da circo», l’avanzo di un mondo finito che mostrava se stesso come un monumento vivente. In quel circo –
Barnum nel tempo è diventato quasi sinonimo di kolossal circense – si esibivano anche veri nativi americani che mimavano battaglie nelle quali perdevano immancabilmente, poi una celebre pistolera che riusciva ad accendere un sigaro con un colpo di pistola a venti metri di distanza, domatori di bufali e cavalli. Il povero Buffalo Bill era la vedette di questa parata di diversi. All’inizio del Novecento, Cody si affrancò dal suo vecchio impresario e mise su uno spettacolo western per proprio conto (per altro perdendoci un sacco di soldi: la moda del vecchio west era già
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passata e la sua declinazione cinematografica ancora non era cominciata) e nel corso di una lunga tournée europea venne anche in Italia. In Maremma, Buffalo Bill sfidò – per soldi – un gruppo di butteri per domare alcuni tori burlini. Vinsero i butteri, naturalmente, perché il vecchio Cody non aveva più il carisma di una volta, presso i bovini, sicché l’ex eroe americano se ne tornò negli Stati Uniti più povero e umiliato. Ormai era in tutto e per tutto un fenomeno da circo. Come pure era un fenomeno da circo un certo Cervo bianco, presunto indiano d’America che girò l’Europa, con successo, all’inizio degli anni Venti. Nel 1924 venne anche in Italia: conobbe il fascismo e disse di essersene innamorato, dichiarò che al suo ritorno presso la propria tribù avrebbe esportato lì i dogmi mussoliniani. Naturalmente i gerarchetti italiani lo videro di buon occhio e lo invitarono a destra e a sinistra con il suo piccolo circo (le solite cose: evoluzioni di cavalli, battaglie mimate, spari di precisione); truppe di donne si innamorarono di lui e il giovanissimo Regime gli conferì assai onorificenze. Il guaio è che questo simpatico comico da circo in realtà era olandese e non nativo americano nonché ricercato dalle polizie di mezza Europa per una serie di truffe: scoperta la verità, il Regime fu costretto a riaccompagnarlo al confine, seppure senza togliergli le medaglie che gli aveva dato. Fu imprigionato in Francia e non si sa se lì, come promesso, abbia fatto proselitismo per il fascismo.
nendoli un covo di sovversivi), e comunque tenuti a debita distanza dalla vita civile. I teatri elisabettiani dovevano essere costruiti fuori da Londra, oltre prati paludosi e infetti. Ancora oggi i tendoni dei circhi sono mal accetti in città: meglio tenerli a distanza. Anche perché quelle dei comici, dei domatori, dei giocolieri e dei forzuti erano e sono famiglie, comunità nomadi che tramandano da padre in figlio la propria arte non si sa più se come una eredità o una maledizione. Oggi con un certo affetto filologico le chiamiamo famiglie d’arte (i Togni, gli Orfei, i Colombaioni, come i Maggio, i De Vico, i De Filippo…) ma lungo tutto il corso del Novecento gli appartenenti a queste «sette» hanno sognato di abbandonare le tradizioni familiari per intraprendere altre vite, altre professioni. E non è un caso che proprio negli anni Ottanta, quando vennero riscoperti, ristudiati e amati i fasti dello spettacolo popolare, vecchi clown e vecchi comici furono considerati alfieri di un unico grande mondo magico: il mondo delle illusioni incontaminate. Perché sembra facile far ridere così come sembra facile addomesticare una tigre, ma in verità è analogamente complicatissimo. Ma tanto i comici quanto i domatori o i trapezisti hanno successo solo se fanno sembrare «normali» le loro fatiche d’Ercole. Una devianza che per essere accettata deve fingere di essere normale senza comunque pregiudicare la propria diversità.
Ma questi sono eccessi: significativi quanto si vuole, ma eccessi. Utili a dimostrare come il circo sia un concentrato di devianze. Se non fosse complesso da argomentare qui in poche righe, si potrebbe dire che comici e clown, dall’antichità a oggi, siano stati i veri proletari del mondo, nel senso dei portatori di un’identità «altra», avversa a tutti i poteri e da tutti i poteri avversata. Di come la Chiesa abbia combattuto giocolieri e comici tra il Cinquecento e il Seicento si sa tutto. Come è noto che i girovaghi del teatro di strada siano stati sempre mal sopportati (Napoleone, di stanza in Italia nei primi mesi dell’Ottocento vietò espressamente quegli spettacoli, rite-
Sì, negli anni Ottanta il circo (come da noi l’avanspettacolo e il varietà) hanno conosciuto nuovo interesse popolare. Di quel pazzo di Jango Edwards s’è detto: ancora pochi anni fa ogni tanto si esibiva ancora in Italia, e malgrado gli acciacchi e l’età era ancora una forza della natura. Ma il vero destino del circo, oggi – e De Ritis ci si sofferma con un certo compiacimento – è quello di trasformarsi in illusione che mescola la perizia umana alla tecnologie, luci e fantasia. Cominciò Vittoria Chaplin (solo memore della poesia paterna) e poi è arrivata la grande stagione del Cirque du Soleil, una delle più fortunate multinazionali dello spettacolo. Per carità, nulla da dire di fronte alla bravura dei loro artisti e alla capacità progettuale dei loro light-designers ma, insomma, il circo è un’altra cosa. Qualcosa di più pazzo, di più sfuggente e incomprensibile come il melone di Jango Edwards. E soprattutto di più sovversivo. Come i clown.
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cultura
è poesia anche nel materiale più grezzo, duro e antiestetico che la modernità abbia mai concepito: il cemento armato. Il MART, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, inaugura la più grande antologica di Giuseppe Uncini, lo scultore che ha consacrato il cemento tra i materiali dell’arte. La mostra al Mart (fino all’8 marzo 2009), propone un lungo percorso che si svolge a partire dal “Primo Cementarmato” del 1958, fino alle opere monumentali più recenti come “L’alfabeto di Aratta” del 2007, realizzato poco prima della sua scomparsa sopraggiunta l’estate scorsa.
Una domanda che ci si potrebbe porre oggi è: Uncini è stato un anticipatore dell’Arte Povera? Confrontando i principi dell’Arte Povera, contenuti in testo/manifesto redatto dal suo teorizzatore, Germano Celant, nel 1967, con il lavoro marchigiano dell’artista un’affermazione scatta automatica: Uncini ha pensato visivamente al cemento in termini non politici, l’ha “visto”in tutta libertà come la forma di una nuova civiltà madre di prodotti cui era impossibile contrapporsi se non in termini estetici. La rivoluzione di Uncini consisteva nel trasformare un reperto del mondo industriale in un linguaggio per l’arte. «Quando cominciai a usare il ferro e il cemento, la scelta di queste materie non fu determinata da interessi espressionistici o materici, ma solo come mezzo per realizzare un’idea. E l’idea è sempre quella, un’idea fissa, costante, il costruire, lo strutturare».
C’
Nato a Fabriano nel 1929, Uncini arriva alla scultura dopo una breve stagione nell’Arte Informale, utilizzando nelle sue prime opere innesti di terre, sabbie, cemento e cenere. Nel 1953, in occasione di una visita al suo studio, lo scultore Edgardo Mannucci lo invita a trasferirsi a Roma mettendogli a disposizione l’ex studio di Burri in via Margutta. Fatalmente, quello studio era allora il punto più all’avanguardia della scena romana, in quanto forniva una risposta del tutto alternativa al noioso dibattito del dopoguerra tra i fautori del realismo e quelli dell’astrazione. Burri e Fontana avevano individuato nella materia e nello spazio due orizzonti nuovi sui quali proiettare le proprie riflessioni visive. Uncini inizialmente segue la lezione di Burri: fino al ’58 il suo lavoro si concentra sulla materia, proponendo delle “Terre” composte di sabbia, cemento, terre e cenere sopra supporti di masonite. Successivamente comprende che la questione della forma, non è una questione a sé, ma perfettamente interdipendente alla ricerca sulla materia. Lo conferma egli stesso: «Le superfici che ero in grado di ottenere non riuscivano ad avere né il peso né l’autonomia delle operazioni fatte su di esse, rappresentazioni che poco o niente si relazionavano con i materiali e le tecniche da me usate». Il Primocementarmato del ’5859 registra la svolta: la tavoletta di cemento grezzo rinforzato da rete e ferri, pur con quella me-
Mostre. Al Mart di Trento e Rovereto, una antologica di Giuseppe Uncini
Il cemento “disarmato” dall’arte contemporanea di Angelo Capasso
La qualità prima di quei materiali industriali era la loro assenza di valore significante dal punto di vista storico. A Roma Uncini esponeva con Mario Schifano, Francesco Lo Savio, Piero Manzoni alla galleria Appia Antica del poeta e critico d’arte Emilio Villa. E’ proprio Villa a dare una mappatura sulle nuove tendenze giovanili di allora: gli artisti realizzano «semplici opere: accentuano divisioni e scissioni, vidimazioni univoche, dentro la sostanza della materia povera, trovata, tentata e ritentata come disponibilità di pronuncia e di identità, di evento e di inconsumabile fin-
L’esposizione, fino all’8 marzo 2009, propone un lungo percorso che si svolge a partire dal “Primo Cementarmato” del 1958, fino alle opere monumentali più recenti come “L’alfabeto di Aratta” del 2007 moria di pittura alla base fondeva in sé due principi che fino ad allora rimanevano ben separati, ovvero l’opera e il suo supporto. I cementi armati di Uncini superano la dialettica di forma e materia e si propongono come una sintesi di entrambi. Da allora Uncini ha portato nel territorio magico dell’arte materiali quali il cemento e i tondini di ferro che a quel tempo venivano impiegati unicamente nell’edilizia.
Un pioniere per l’arte e un innovatore nella scultura, forma espressiva che alla fine degli anni cinquanta iniziava quella fase di decli-
no inarrestabile a causa del prevalere dei nuovi media espressivi, quali il film, la performance, l’installazione.
Qui sopra, lo scultore italiano Giuseppe Uncini. In alto e a sinistra, due delle sue opere in mostra al MART, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
zione, di progetti e di inizi fulminei, di tracce, di evidenze: categorie, riverberi della comprensione, dell’espansione». Alla Biennale di Venezia del ‘66, con Strutturespazio, avviene una prima sostanziale rivoluzione all’interno del linguaggio di Uncini: il cemento si dissolve per lasciare spazio a reticoli di ferro che trattengono quella consistenza solida come una sua eco o ricordo lontano. Quelle “strutture-spazio” sono le opere più astratte prodotte da Uncini. Da quel momento, l’attenzione di Uncini si rivolge verso l’ombra delle cose: preso un oggetto, porta, finestra o sedia, Uncini lo riproduce fedelmente con un profilo di ferro che si prolunga nello spazio per circoscriverne l’ombra, e del cemento, come in poesia, resta solo la memoria.
spettacoli
8 gennaio 2009 • pagina 21
Musica. iTunes, MySpace, Facebook e YouTube lanciano il “quarto d’ora di celebrità” a disposizione degli artisti emergenti
Saranno davvero famosi? di Alfredo Marziano
vanti, c’è posto. iTunes e MySpace, Facebook e YouTube, i punti cardinali di quello che gli esperti chiamano Internet 2.0, realizzano quarant’anni dopo la grande utopia di Andy Warhol: il quarto d’ora di celebrità a disposizione di tutti. Lo star system, monopolio tradizionale dei potentati economici e mediatici, apre improvvisamente le porte ai paria e a chi non ha santi in paradiso. L’ultimo caso nazionale risponde al nome di Luca Butera, ventisettenne e sconosciuto cantante catanese che sul suo sito Internet si propone spavaldamente come il futuro dell’r&b italiano, stile Tiziano Ferro ma più ruspante e meno problematico. Il suo singolo Wow! (Una star così vera) è da diverse settimane ai vertici delle classifiche dei pezzi più scaricati (legalmente, e a pagamento) da Internet, giusto alle spalle dell’altra giovane rampante Giusy Ferreri e davanti a mostri sacri come lo stesso Ferro, Zucchero e Beyoncé.
A
fia indipendente, senza troppi soldi da spendere nel confezionamento e nella promozione del prodotto: anche se il videoclip di Wow!, filmato all’interno del Teatro Bellini di Catania, porta la firma di un regista della scuderia Rai Fiction, Massimo Coglitore, e ha le stimmate del prodotto professionale. Di lui si sono accorti prima i francesi di Nrj, uno dei principali network transalpini; poi è arrivato il botto anche in Italia e lo stesso Michele Schembri, il talent scout che lo ha scoperto, non sa spiegarsene fino in fondo il motivo: «Il ragazzo ha talento, anche se deve ancora fare esperienza. Ma il vero segreto è la Rete, una porta spalancata su un modo che noi discografici non siamo più in grado di controllare». Basta davvero, come spiegazione? O c’è il trucco, sotto? In fondo basta un investimento di 20mila euro, il costo minimo di una campagna radiofonica degna di questo nome, per acquistare su Internet 20 mila copie del proprio brano digitale (un euro, un download) e scompaginare le charts, oggi che i singoli nei negozi non si vendono più. Il riscontro mediatico è assicurato, i giornali cominciano a parlare di te, il pubblico di massa si incurio-
Il fenomeno del momento, arrivato al successo tramite il web, è Luca Butera, in vetta alle charts con il singolo “Wow! Una star così vera”
Qualche mese prima, simile benevola sorte era toccata a tal Maurizio Cinesi, trentacinquenne padovano dalle treccine rasta ma dalle inclinazioni più tradizionalmente pop rock (in repertorio anche una cover della battistiana Anna): lui pure secondo nelle graduatorie di iTunes, in scia alla solita Ferreri fresca vincitrice morale del talent show televisivo X-Factor e forte dell’appoggio di una multinazionale del disco come la Sony BMG. I Butera e i Cinesi arrivano invece dal mondo dei self made men e della discogra-
sisce e dalla scintilla nasce un falò. Inutile scandalizzarsi, anche se fosse così.
Già negli anni ’60 i cantanti, le loro claque e le case discografiche facevano incetta di cartoline voto a Canzonissima o di dischi nei negozi che si sapevano essere inclusi nelle indagini a campione per la compilazione delle classifiche. E in fondo che male c’è, se il giochetto diventa democratico e a portata di tutti. Spesso non è neppure necessario che ci si mettano di impegno i discografici, bastano un artista o una fan base particolarmente intraprendente o bene organizzata per smuovere le acque. C’è an-
che il lato buono della medaglia: talvolta Internet, i social network e i siti a contenuto user generated come YouTube si accendono davvero di entusiasmo per combustione spontanea, spianano la strada a un dialogo diretto tra un artista e il suo pubblico evitando i tanti, troppi filtri mediatici, commerciali e distributivi a cui siamo stati abituati. Gli anni ’90 furono il trionfo del glamour, delle promozioni faraoniche e dei grandi budget pubblicitari, con le nuove tecnologie la fabbrica dei successi torna in qualche modo a essere più artigianale e più inventiva, meno ingessata e pià garibaldina. Vince chi ha idee (o è più furbo degli altri),
una webcam. E’ un meccanismo che funziona, in questi ultimi due anni MySpace e YouTube si sono rivelati formidabili talent scout lanciando in orbita il rock frenetico degli Arctic Monkeys, la electrodance anni Ottanta di Calvin Harris, il pop irriverente di Lily Allen e di Kate Nash. Per una Ferreri o una Leona Lewis incoronate stelle della televisione ci sono tanti piccoli Butera pronti a provarci senza neanche bisogno di un reality, men che meno di una radio o di un quotidiano a larga tiratura. La piccola e media industria è in crisi anche nella musica. Però le poche novità sulla scena arrivano ancora da lì, dal mondo
chi ha un pizzico di originalità in più o comunque la capacità di fare scattare nel pubblico un meccanismo di identificazione: che si tratti della favola bella della commessa di supermercato che diventa regina del pop o del mito della musica confezionata in camera da letto, con una chitarra acustica, un computer e magari
squattrinato e squinternato delle indie.
L’ultimo caso nazionale di celebrità conquistata tramite Internet, risponde al nome di Luca Butera (a destra), ventisettenne e sconosciuto cantante catanese che sul suo sito web si propone spavaldamente come il futuro dell’r&b italiano, stile Tiziano Ferro (sotto)
Prima di approdare alla EMI, i valdostani dARI erano stati acciuffati da una piccola etichetta di Torino (la Bliss Corporation degli Eiffel 65: quelli di Blue, ricordate?). E i Lost, altri idoli dei ragazzini cresciuti a blog e podcast, sono seguiti con paterna attenzione dalla Carosello, uno dei pochi marchi storici della discografia italiana sopravvissuti alla globalizzazione. Comete effimere, d’accordo, idoli fragili per teen ager più che autentici talenti: ma di questo possiamo incolpare solo la povertà del tempo presente, non la tecnologia. Tutti sgomitano per il loro quarto d’ora di celebrità mentre il difficile comincia dopo, lo sapeva anche Warhol.
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da ”le Monde” del 06/01/2009
Sarkò fa fuori un giudice icolas Sarkozy, vorrebbe abolire la figura di un giudice. Il capo dello Stato francese ha presentato il 7 gennaio un progetto di riforma della procedura penale. Annunciando la soppressione della figura del giudice istruttore, le cui inchieste saranno affidate alla Procura. Magistrati e politici sono insorti contro il provvedimento, denunciando la fine dell’indipendenza della giustizia. L’articolo è stato scritto su notizie riservate ottenute in anticipo, prima del suo intervento per l’apertura dell’anno giudiziario in Cassazione, da le Monde, non conoscendo ancora i particolari della proposta dell’Eliseo. Comunque la riforma dovrebbe prevedere l’eliminazione della figura del giudice istruttore. Un pubblico ministero dunque ne sarebbe il sostituto, sotto la supervisione di un giudice che sarebbe di conseguenza chiamato «magistrato per l’Istruzione».
N
«Questa è la morte di un sistema giudiziario indipendente, in quanto l’azione penale cadrebbe nelle mani del potere esecutivo», è stata la reazione allarmata di Emmanuelle Perreux, rappresentante del Sindacato della magistratura francese. Per Christophe Regnard, presidente dell’Unione dei magistrati, un’altra organizzazione delle toghe transalpine, sarebbe una specie di vendetta della classe politica contro quella magistratura che, durante gli anni Ottanta e Novanta, ha combattuto la corruzione pubblica. Di conseguenza, i due sindacati hanno chiesto il boicottaggio della cerimonia in programma il 7 gennaio alla presenza di Sarkozy. La riforma di questa particolare funzione di magistrato è una materia che ha tenuto banco nell’agone politico e nel mondo giudiziario francese negli ultimi vent’anni. Il proble-
ma era stato recentemente risollevato a causa di un interrogatorio giudicato un po’ troppo brutale all’ex direttore di Liberation, Vittorio de Filippis. In precedenza era successo qualcosa di simile per il caso Outreau. Una vicenda di qualche anno fa, che riguardava degli abusi sessuali su minori e che creò un certo scandalo per l’inefficienza della giustizia che aveva condotto ad un clamoroso errore giudiziario. Un errore che portò uno dei sei accusati al suicidio in carcere.
Fu istituita, nel dicembre del 2005, una Commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Outreau, cercando di trarre una lezioni da questa causa, che però avrebbe portato a conclusioni che sono l’esatto contrario di quelle proposte da Sarkozy. «La commissione aveva respinto nel 2006 l’abolizione del giudice istruttore, basata in parte su modelli stranieri», ricorda Catherine Giudicelli, presidente dell’Associazione francese dei magistrati. «Si ignora tutto il lavoro fatto in precedenza», si è lamentata. Il clamore è stato generale nel mondo politico, con reazioni più o meno forti sul fronte dell’opposizione. Il socialista radicale Jean-Marc Ayrault si è schierato contro la «tentazione totalitaria» di un modello di Stato pensato da Sarkozy, mentre Benoît Hamon, portavoce del partito, ha promesso che la politica resterà «molto vigile» sulla materia. «Questa riforma si presenta in un clima negativo: quello sulla discussione di tutte le leggi anti-corruzione adottate nel 1990», spiega Cécile Duflot, se-
gretario nazionale dei Verdi. Per il Partito comunista, il capo di Stato «vorrebbe una magistratura agli ordini del potere esecutivo», mentre il Vice Presidente del Fronte nazionale, Wallerand de SaintJust, ha affermato che «i giudici francesi non hanno bisogno, al momento, di questo tipo di riforma. Hanno invece bisogno di risorse, di indipendenza e di essere meno politicizzati». Il politico cattolico, François Bayrou, vede in questo progetto dell’Eliseo un altro esempio di «uscite» del capo di Stato, che incidono «virtualmente su tutti gli attori della società francese».
Le sole voci discordanti in questa varietà di reazioni, sono quelle della ex magistrato Georges Fenech, un membro della commissione Outreau, che ha accolto il progetto come una liquidazione del vecchio modello penale napoleonico «a beneficio di un giudice indipendente e imparziale», e di Patrick Devedjiands dell’Ump, che ha espresso sostegno per «un importante idea sulla riforma della giustizia che promuova la presunzione d’innocenza».
L’IMMAGINE
Ma che notizia straordinaria… a Milano nevica l’8 di gennaio Perché telegiornali e giornali parlano della neve a Milano? Nel mese di gennaio è strano che nevichi? A me sembra la cosa più naturale del mondo. Per i media italiani, invece, è considerato una sorta di evento straordinario. In generale, è “l’evento metereologico” che gode di una particolare considerazione. Una volta c’erano le previsioni del tempo con il celebre colonnello Bernacca che ci diceva con la sua bonaria simpatia se c’era il sole o se pioveva. Ora, invece, le previsioni del tempo sono diventate una sorta di affare di Stato: ci sono bollettini ad ogni ora del giorno. Non bisogna più sapere se domani ci sarà il sole, ma se tra un’ora pioverà o meno. In sostanza le previsioni del tempo sono diventate la nostra principale ossessione. Come si deve spiegare questo strano fenomeno? Forse perché crediamo davvero di poter prevedere che cosa farà il Cielo. Riteniamo di essere padroni delle nuvole e così, senza rendercene conto, cadiamo nel ridicolo e diamo la straordinaria notizia che l’8 di gennaio a Milano nevica.
Stefano Giametta
GAZA COME LIBANO Che cosa deve esigere la comunità internazionale per ottenere la pace in Terrasanta? Truppe internazionali sotto comando Nato e caschi blu dell’Onu in tutta la striscia di Gaza. Disarmo di Hamas e di Hezbollah. Abbattimento del muro e nuove elezioni parlamentari per l’Autorità nazionale palestinese alle quali non possano partecipare quei partiti che non riconoscano l’autorità del presidente Abu Mazen su tutti i territori palestinesi e la legittima sovranità di Israele sul resto della Palestina. A presiedere la commissione che giudicherà tale legittimità sarà il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon. Agli ultimi coloni israeliani in Cisgiordania sia posta l’alternativa fra il trasloco o il cambio di nazionalità: dal-
l’attuale israeliana alla futura palestinese, non appena sarà burocraticamente possibile.
Matteo Maria Martinoli
ASPETTATIVE DIPLOMATICHE Qualcuno afferma che il nostro ruolo nella diplomazia internazionale, con particolare riferimento a quanto sta succedendo nella striscia di Gaza, è secondario e distante da quello primario che è stato affidato a Sarkozy. In realtà la cosa non è vera, perché all’oculato presidente francese va il merito di aver studiato con il presidente egiziano una soluzione adeguata, ossia incarichi momentanei.
Lettera firmata
LA POLITICA DA SVECCHIARE A Napoli l’anno nuovo è iniziato,
L’ho scampata proprio bella! Non sarà la Befana ma è comunque una vecchina generosa Ding Shiyang, la donna cinese che ha accolto questo micio. La signora ospita nel suo appartamentino di Pechino altri 200 cani e gatti senza padrone. Il gatto ha rischiato di essere catturato dalle autorità pechinesi che ammassano migliaia di animali in gabbie minuscole, li portano in rifugi fatiscenti e li lasciano morire di stenti ma la vita politica è ancora quella vecchia, con i dissidi interni di sempre che hanno portato alle dimissioni dell’ex ministro della Ricerca Nicolais. E pensare che il primo cittadino aveva affermato di essere pronta per una nuova giunta abile al cambiamento, e in caso di fallimento, pronta alle dimissioni. E adesso?
Bruno Russo
PRECISAZIONE DI EMILIO GENTILE In riferimento all’intervista allo storico Emilio Gentile pubblicata su liberal del 17 dicembre, il professore precisa che la frase «L’enciclica contro il razzismo viene scritta, ma non pubblicata, circola in modo discreto, cauto» fa riferimento «all’enciclica Humani Generis Unitas contro i totalitarismi della Nazione, delle Razze e della Classe che
Pio XI fece preparare ma che non fu pubblicata dopo la sua morte, ed è rimasta per molti anni inedita, fin quando fu ritrovata e pubblicata nel 1995 (G. Passelecq, B. Suchecky, L’encyclique cachée de Pie XI. Une occasion manquée de l’Eglise face à l’antisémitisme, Paris, La Découverte 1995). Ve ne è un cenno nel mio libro Le religioni della politica, Edizioni Laterza».
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Bacio per te il mio impietoso guanciale Tesoro, è orribile scriverti perché, anche se amo scriverti, ti porta così vicino a me che potrei quasi toccarti e allo stesso tempo so che non posso toccarti, sei così lontana nella fredda e crudele Ringwood e io sono nell’insipida Barnet in un pub con niente che tenga compagnia al mio cuore tranne la tua assenza e la tua distanza. Penso tutto il tempo a te. Bacio per te il mio impietoso guanciale nelle notti maligne. Ti vedo con la nostra scimmietta mongola al seno; ti vedo in quella casa ingrata che ascolti con disgusto le notizie; ti vedo a letto, più bella di qualsiasi cosa sia mai esistita in ogni tempo. Ti amo. Amo Llewelyn e Aeronwy ma te soprattutto e per sempre finché il sole si fermerà e anche dopo. E non posso venir giù questo fine settimana. Domenica devo lavorare tutto il giorno. Sto lavorando, per la prima volta dacché ho venduto la mia anima immortale, molto molto duramente, facendo in una settimana il lavoro di tre mesi. Odio gli studi cinematografici. Odio chi ci lavora. Odio i film. Non c’è altro che insicurezza disinvoltamente ingenua in questa grossa scatola di trucchi dal coperchio di latta. Non mi importa un fico secco dei «Problemi dei trasporti in tempi di guerra». So solo che tu sei mia moglie, mia amante, mia gioia, la mia Caitlin. Dylan Thomas a Caitlin Thomas MacNamara
ACCADDE OGGI
UN DEBITO VERSO CHI SBAGLIÒ MA CON ONORE Fino alla sua morte, in questo periodo andavo con il mio amico Gianni in Tunisia per un suo viscerale obbligo morale: un alzabandiera a Takruna. Gianni insieme a Bruno ritornavano ogni Natale dove erano per sempre ad attenderli gran parte dei loro amici: gli irriducibili della Folgore e dei Giovani Fascisti, quelli che scelsero di resistere fino alla fine, e morire a Takruna, sperduto bel villaggio berbero a pochi chilometri da Tunisi. La guerra d’Africa finì fra quei fichi d’india e in pochi, feriti e stremati, si arresero. Credo che non se lo perdonarono mai. A Takruna ci sono più cimiteri: uno inglese, uno francese, uno tedesco; ma non uno per i caduti italiani: non meritarono onorata sepoltura perché criminali fascisti. Combatterono, però, con onore non macchiandosi mai di crimini e la compresenza cameratesca all’alzabandiera di francesi ed inglesi ne era la prova, si stimavano. Piantato a spese dei reduci, un dimenticato cippo ricorda quel sacrificio e i nostri turisti in visita al villaggio neanche immaginano quanto quella terra sia anche italiana. Quando posso, come per un risarcimento, seguito ad andarci e mi sento in pace.
Dino Mazzoleni
FONDAMENTALISMO ILLIBERALE Se le tendenze attuali persistono, entro 40-50 anni la maggioranza dei cittadini di molti stati europei sarà musulmana o originaria di paesi islamici. Già ora i musulmani presenti in Europa sono 20
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
8 gennaio 1900 Il presidente statunitense William McKinley pone l’Alaska sotto controllo militare 1926 Abdul-Aziz ibn Saud diventa re di Hejaz e la rinomina Arabia Saudita 1930 Roma: il principe Umberto di Savoia sposa Maria José del Belgio 1935 A.C. Hardy brevetta lo spettrofotometro 1944 Si apre a Verona il processo contro sei dei diciannove membri del Gran Consiglio del fascismo, che nella seduta del 25 luglio del 1943 avevano sfiduciato Benito Mussolini 1953 René Mayer diventa primo ministro di Francia 1958 Il 14enne Bobby Fischer vince i campionati statunitensi di scacchi 1959 Fidel Castro entra a L’Avana dopo l’abbandono del paese da parte del generale Batista 1959 Michel Debré diventa primo ministro di Francia 1980 Gli agenti di polizia Antonio Cestari, Rocco Santoro, Michelle Tatulli vengono uccisi in un agguato dalle Brigate Rosse (colonna “Walter Alasia”)
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
milioni. Potrebbe radicarsi il fondamentalismo, che è barbarie. Sono a rischio i nostri valori di libertà, democrazia, laicità, pluralismo, come pure dubbio metodico. Musulmani e dogmatici in genere ignorano il dubbio. Il fondamentalismo rivoluzionario funziona come ogni ideologia totalitaria. Nell’Islam v’è commistione fra lo spirituale e il temporale, a differenza della loro distinzione nella laicità occidentale. In Iran, alla modernità imposta dall’ultimo scià seguì la rivoluzione khomeinista. In Turchia, Ataturk impose la laicità, ma la moglie e le figlie dell’attuale leader Erdogan si mostrano in pubblico solo col velo. Dagli ultimi decenni del XX secolo, si apre un fossato fra l’Islam da una parte e scienza e modernità dall’altra. È trascurabile il contributo musulmano alla scienza pura e applicata, misurata in termini di scoperte, pubblicazioni e brevetti. Il mondo arabo-musulmano presenta: autoritarismi corrotti e screditati; bassissima produttività; il più alto tasso di disoccupazione nel mondo; una crescita demografica galoppante, che aggiunge 2 milioni di disoccupati all’anno.Vincendo le elezioni palestinesi nel 2006, Hamas è la sola esperienza di conquista islamica del potere tramite le urne. Il fondamentalismo musulmano mira a realizzare l’ordine islamico mondiale; la sorte delle minoranze non islamiche è misera; si moltiplicano i processi per omosessualità, apostasia e blasfemia; si impone l’obbligo della barba e del velo; si chiudono gli spacci d’alcolici; si negano diritti umani.
Lettera firmata
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
ANNO NUOVO, CRISI VECCHIA Abbiamo bisogno di una buona dose di auguri per affrontare il 2009. L’anno è iniziato con i lamenti di milioni di persone nel mondo che hanno perso il proprio posto di lavoro a causa di questa crisi globalizzata del capitalismo, mentre altre persone attendono, da un momento all’altro, la comunicazione di licenziamento.Tutti coloro che continueranno a lavorare, da un lato si sentiranno fortunati, e dall’altro lato avvertiranno la sensazione di essere più poveri e meno sicuri. La situazione internazionale coinvolge, naturalmente, anche l’Italia, e il prezzo che il nostro Paese paga è, forse, più alto rispetto a quello degli altri Paesi europei. Infatti, anche se in Italia, in un recente passato, si cresceva meno di quanto crescevano le altre nazioni, la depressione avrà comunque degli effetti molto forti. Le cause che spiegano tale fenomeno sono diverse e sono da ricercarsi nel tempo. Principalmente paghiamo il conto di politiche inefficaci nella economia, nelle Istituzioni e ciò non ha consentito un impianto produttivo nazionale capace di competere nel mondo globale. Anche i servizi pubblici essenziali come scuola e giustizia non sono stati all’altezza di un Paese degno di tale nome, e abbiamo riscontrato i risultati in tema di etica pubblica, senso civico e corruzione. Sembravano ormai lontani i giorni di “Mani pulite” e, invece, notiamo che, quando il settore pubblico incontra il privato si registrano, in molti casi, livelli di corruzione inaccettabili. Ma, allora, come si può riprendere il cammino che, solo pochi lustri fa, aveva trasformato l’Italia in una locomotiva in grado di trainare tutti gli Italiani verso il benessere e la pace sociale? Chi ha il compito di farsi carico della attuale situazione e deve dare indicazioni precise? La risposta è semplice: la politica! Tocca alla Politica trovare le giuste soluzioni e agire di conseguenza. Il problema è che la politica non ha la ricetta giusta, perché se l’avesse avuta l’avrebbe già utilizzata. Nonostante ciò si attendono dai governi di tutti gli Stati che attraversano questa crisi globalizzata interventi in favore dei diversi settori che richiedono aiuti. Sono di estrema attualità, per esempio, argomentazioni a favore o contro le politiche in soccorso del settore auto che è stato fortemente interessato dalla crisi sia negli Stati Uniti che in Europa. Cosa accadrà nei prossimi mesi è difficile intuirlo, però è di fondamentale importanza nutrire fiducia nei rispettivi governi e attendere le azioni che essi metteranno in campo. Francesco Facchini PRESIDENTE PROVINCIALE CIRCOLI LIBERAL BARI LEVANTE
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Ordinanze. Da Verona in giù, sesso a pagamento vietato anche negli appartamenti
Guai in vista per le “passeggiatrici” di Angela Rossi
VERONA. Via dalle strade ma anche dalle case. Lotta senza quartiere a chi esercita il mestiere più antico del mondo, vale a dire circa settantamila persone in Italia a fronte di nove milioni di clienti. Detto fatto. Visto che il disegno di legge messo a punto dal ministro Mara Carfagna sul contrasto alla prostituzione ha appena iniziato l’iter al Senato – le audizioni di varie categorie, dai comitati delle lucciole al sindacato inquilini, partiranno solo mercoledì prossimo – ci pensano i sindaci ad anticiparne i contenuti. In testa Flavio Tosi, primo cittadino di Verona che in questi giorni firmerà l’ordinanza per vietare la prostituzione al chiuso degli appartamenti. «La soluzione deve passare per una
passate dai 47 euro dell’agosto scorso ai 500 dell’ordinanza – il fenomeno è stato ridotto drasticamente.
E non solo a Verona ma anche a Milano e a Roma non si fidano moltissimo della velocità del Parlamento. Così dopo Alemanno, che con l’ordinanza 242 ha iniziato la bonifica della Capitale già da mesi, e Milano, dove la Moratti ha previsto multa e arresto da cinque a quindici giorni sia per la prostituta che per chi compra sesso, hanno seguito l’esempio anche comuni più piccoli come Pieve, Opera, Melegnano e San Donato milanese: tutti i sindaci hanno messo nero su bianco le
DOMESTICHE legge dello Stato», spiega Tosi a liberal, «ma quella presentata dal governo andrebbe integrata con l’introduzione del reato anche per chi esercita in luoghi chiusi, e l’iniziativa dell’ordinanza vuole essere uno stimolo a velocizzare il tutto».
Dopo aver elevato al massimo (cinquecento euro) le multe a lucciole e clienti beccati sulle
ordinanze anti-lucciole. Ma non tutti sono favorevoli. Lo scorso 13 dicembre a Roma si è svolta una manifestazione nazionale intitolata “Adeschiamo i diritti”. In piazza le lavoratrici del sesso contro il ddl che le riguarda, con i trans particolarmente agguerriti. La vicepresidente dell’Associazione transessuali di Napoli, Loredana Rossi, aveva dichiarato: «Crediamo che mandare le lucciole al chiuso vietando la prostituzione in strada non sia una risposta adeguata, anche perché in nome della sicurezza, o meglio del decoro, si finisce per tutelare ancora meno le prostitute, esse stesse spesso vittime di episodi di microcriminalità». Contrari al ddl Carfagna e alle ordinanze anti-lucciole dei sindaci anche diverse associazioni, come l’Arci, il coordinamento delle comunità di accoglienza, il comitato per i diritti civili delle prostitute del Gruppo Abele, convinte che esista un modo migliore di gestire il problema. Con le ordinanze si finirà solo per spingere il fenomeno nel sommerso, obiettano alla Carfagna le varie associazioni, condannando chi è sfruttato nell’invisibilità.
Il ddl anti-prostituzione messo a punto dal ministro Carfagna ha appena iniziato l’iter al Senato. Ma diversi sindaci ne anticipano già i contenuti: multe e carcere per chi esercita in luoghi chiusi strade, stavolta il sindaco leghista ha deciso di “ripulire” anche i condominii: multe a salire per chi viene colto in flagranza e crea disagio nel palazzo in cui esercita: cento euro la prima volta, duecento la seconda e così via. Ma come si farà a controllarli? Di ronde non è il caso di parlare… Un limite che lo stesso Tosi è costretto ad ammettere. E allora, a fronte dell’impossibilità di far pagare tutti, la soluzione potrebbe essere, per i “colpevoli”, quella di «una notte chiusi in cella di sicurezza a meditare». Proprio il Veneto è stato capofila nel settore, con la prima ordinanza a Padova nel 2007 seguita appunto da Verona, dove in pochi mesi – con le sanzioni per intralcio al traffico comminate agli automobilisti che si fermano per contrattare una prestazione, con le aree off-limits, con le limitazioni orarie alla circolazione degli autoveicoli e l’aumento delle multe ai clienti