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Io non so con quali armi
he di c a n o r c
sarà combattuta la III Guerra Mondiale, ma la IV sarà combattuta con pietre e bastoni Albert Einstein
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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Il presidente francese annuncia: «Gli Usa non sono più l’unico modello»
La grandeur di Sarkozy: «Le monde c’est moi» di Enrico Singer icolas Sarkozy, da quando è entrato all’Eliseo nel maggio del 2007, ci ha abituati alla sua personalissima interpetazione della grandeur. Che si tratti di rilanciare il ruolo della Francia, per la verità appannato dagli anni grigi dell’era Chirac, come unico motore pulsante dell’Europa. O che si tratti di sorprendere perfino i giornali di gossip con le sue private vicende di cuore. Ma ieri, al fianco di Angela Merkel, Tony Blair e Giulio Tremonti riuniti a parlare di “Nuovo mondo e nuovo capitalismo”, ha superato se stesso. In un colpo solo ha dato lezioni agli Usa - «non sono più l’unico modello» - e alla Russia - «sul gas deve rispettare i contratti» - e ha annunciato una nuova iniziativa per far tacere le armi a Gaza. Le monde c’est moi, si potrebbe dire parafrasando il re Sole.
N
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Benedetto XVI: tregua immediata per Gaza, i popoli scelgano leader capaci
Onu e Croce Rossa contro Israele Colpito un furgone umanitario: le Nazioni Unite bloccano gli aiuti di Vincenzo Faccioli Pintozzi lla fine, doveva accadere. Era impensaco a cui Gerusalemme e Hamas continuano a ribile sperare che, senza alcuna garanspondere con un secco “no”. Il portavoce della zia di sicurezza, sarebbero continuati Unrwa (l’Agenzia Onu per i profughi, che si occupa all’infinito gli aiuti umanitari nella Stridei soccorsi medici in zone di conflitto), ha conferscia di Gaza. Questi, sopravvissuti a tredici mato la decisione del Palazzo di Vetro: «L’esercito giorni di guerra combattuta prima con i raid israeliano era stato avvertito del passaggio del conaerei e poi con le incursioni di terra, hanno pavoglio, che è stato colpito mentre si avvicinava al gato il loro tributo di sangue, sembrano nel mivalico di Erez, fra Israele e la Striscia di Gaza. Così rino dei combattenti. Ma fa impressione il fatto non possiamo andare avanti». E allo stesso punto è che il primo ad alzare bandiera bianca sia l’Ogiunto evidentemente anche papa Benedetto XVI, Dopo tredici giorni, nu. Proprio quelle Nazioni Unite che – pur deche parlando al corpo diplomatico accreditato presla guerra non si boli e spesso ridondanti – non hanno mai smesso la Santa Sede ha chiesto «una tregua immediata ferma. Ieri l’Onu ha so di intervenire sui conflitti in corso, cercando per ragioni umanitarie» ma soprattutto ha auspicainterrotto l’invio di la mediazione e portando soccorsi. La loro ritito l’elezione di nuove leadership, capaci e dedite alaiuti a Gaza rata da Gaza, decisa dopo che un carro armato la pace, per Israele e Palestina. Riportando l’attenisraeliano ha sparato su un convoglio dell’agenzia per i profu- zione sulle responsabilità dei popoli, che non devono essere solghi uccidendone gli autisti, sembra un epitaffio sulla diploma- tanto meri testimoni di quanto decidono i loro governanti. s e gu e a p ag in a 1 4 • s er v iz i d a p a gi na 12 a 17 zia mondiale che si affanna a proporre tregue e cessate il fuo-
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se gu e a p ag in a 14
RIVOLUZIONI IN CORSO Clamorosa ricerca negli Usa: per la prima volta, la domanda di informazione on line supera quella cartacea. E tra i giovani internet raggiunge la tv. Ora per i mass media cambia davvero tutto
L’ultimatum di Bossi su Malpensa di Marco Palombi a pagina 4
L’ambigua sentenza sulla Gea
Caso Moggi: se c’era la cupola, dov’è l’edificio? di Roberto Mussapi simboli della Juve sono la sua storia, il suo esempio e il tifo diffuso in tutto il mondo. I suoi simboli sono Boniperti, Scirea, Tardelli, Platini, Del Piero, uomini amati ovunque. Luciano Moggi entra nella storia di quei simboli, non è un simbolo ma ha un ruolo in una storia universalmente celebrata. La Juve è più delle persone, è soprattutto i suoi campioni, o, fuori dal campo, uomini irripetibili come l’avvocato Gianni Agnelli. Ma colpire Luciano Moggi significa tentare di colpire l’insieme simbolico della Juventus, a cui il dirigente ha contribuito con la sua competenza, la sua capacità, il suo talento: Cannavaro non aveva mai vinto niente e in una stagione all’Inter era diventato un brocco.
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Il futuro è arrivato
alle pagine 2 e 3
se gu e a p ag in a 1 1 seg2009 ue a pa•gE inURO a 9 1,00 (10,00 VENERDÌ 9 GENNAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
6•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 9 gennaio 2009
Mass media. Il 40 per cento degli americani sceglie Internet come fonte primaria per le notizie nazionali e internazionali
Non è più la stampa, bellezza! Negli Usa l’informazione online supera per la prima volta la carta stampata nelle preferenze dei cittadini. E tra i giovani insidia la tv di Andrea Mancia ra i “padroni del vapore” che controllano il mercato dell’informazione se ne sono accorti in pochi. Uno su tutti, Rupert Murdoch, che già nell’aprile del 2005 - di fronte ad una platea di editori e direttori di giornale - era andato dritto al punto, implorando i “media tradizionali”ad abbracciare la rivoluzione digitale per non correre il rischio dell’estinzione. «Come molti di voi - aveva detto il presidente di News Corporation ai membri della American Society of Newspaper Editors - sono un immigrante digitale. Non sono stato svezzato sul web, né coccolato da un computer. Al contrario, sono cresciuto in un mondo altamente centralizzato, in cui le notizie e le informazioni erano saldamente in mano a poche persone che si arrogavano il diritto di dirci cosa potevamo e dovevamo sapere. Ma la prossima generazione che avrà accesso alle informazioni, tramite i giornali o qualsiasi altra fonte, ha aspettative diverse dalle nostre. E questo include il “quando”e il “come” ricevere le notizie, ma anche da “chi” e “dove” riceverle».
T
il 35% che preferisce ancora affidarsi ai quotidiani tradizionali (in questo caso i numeri sono stabili rispetto allo scorso anno). Meglio di Internet e carta stampata va ancora la televisione, con il 70% delle preferenze, incalo dal 74% (la somma è superiore al 100% perché agli intervistati era permesso di scegliere più di una risposta). Il tubo catodico, però, farebbe meglio
Rupert Murdoch l’aveva già previsto nel 2005, quando invitò gli editori ad abbracciare le nuove tecnologie per evitare l’estinzione
Murdoch citava i risultati di una ricerca pubblicata pochi mesi prima dalla Carnegie Corporation di New York, con l’eloquente titolo “Abandoning the News” (abbandonando le notizie), in cui veniva dimostrato che negli anni successivi il mondo dei mass media avrebbe visto minacciata la propria stessa esistenza da parte dei giovani tra i 18 e i 34 anni. Il rapporto Carnegie parlava di una tendenza in grado di sconvolgere «i presupposti stessi del consumo di notizie e il processo di formazione delle decisioni in una società democratica». Le parole di Murdoch, naturalmente, sono restate a lungo inascoltate. Ma oggi, a poco più di tre anni di distanza, sempre dagli Stati Uniti è arrivata la “certificazione”definitiva di questa tendenza. Secondo uno studio del Pew Research Center, infatti, nel 2008 l’informazione online ha finalmente superato la carta stampata nelle preferenze dei cittadini americani. Il 40% della popolazione statunitense dichiara di ricevere la maggior parte delle notizie nazionali e internazionali - per mezzo di Internet (nel 2007 questo numero si fermava al 24%), contro
“grande bolla”, quando gli analisti, gli investitori e i millantatori di professione pronosticavano l’alba imminente del glorioso sol dell’avvenire internettiano, il sistema dei mass media nel suo complesso non era mai stato seriamente minacciato dalla rivoluzione digitale. Ma quella era l’epoca dei “portali”, dei “canali interattivi” e delle grandi speculazioni in borsa. Da allora, con l’esplosione del fenomeno-blog e dei cosiddetti social network, tutto è cambiato. Hugh Hewitt, polemista e conraduttore diofonico della destra statunitense, in un best-seller del 2004 (ovviamente intitolato “Blog”) ha paragonato l’avvento di questi “diari personali” alla sfida lanciata da Martin Lutero contro l’autorità papale. Una sfi-
a non adagiarsi sugli allori, visto che nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 29 anni Internet (59% in crescita rispetto al 34% del 2007) ha ormai appaiato la televisione (59% rispetto al 68% del 2007), distanziando enormemente la carta stampata (28%) e la radio (18%). Questo risultato, oggettivamente clamoroso, è anche in parte figlio del massiccio utilizzo della Rete durante la campagna per le ultime elezioni presidenziali. Ma non c’è dubbio che, soprattutto tra le ultime generazioni, l’informazione via web è considerata più flessibile, utile, divertente ed aggiornato della televisione, anche se leggermente meno affidabile. Mentre i giornali perdono il confronto con Il presidente Internet e tv anche nel di News Corporation, campo dell’autorevolezRupert Murdoch, za, da sempre un punto già più di tre anni fa di forza della carta stamaveva invitato gli editori pata. Perfino all’inizio americani a non «avere del millennio, nei mesi paura» delle nuove immediatamente precetecnologie denti allo scoppio della
portante, lo hanno svolto anche quei media tradizionali che hanno avuto il coraggio di affrontare il “nemico”a viso aperto, adattandosi alle nuove tecnologie e a un nuovo tipo di domanda che iniziava a farsi strada nel loro pubblico di riferimento. Come sarebbe sbagliato dividere nettamente, in modo manicheo, i new media e gli old media.
La verità è che l’utilizzo massiccio delle nuove tecnologie - e la possibilità teorica, per ciascun essere umano, di diventare “editore di se stesso” - sta portando all’emersione di quella che qualche analista chiama “mediasfera”, in cui i contenuti prodotti per la carta stampata si fondono, lentamente ma inesorabilmente, con quelli prodotti per i blog, per la televisione o per la radio, dando vita ad un sistema globale dell’informazione in cui, almeno potenzialmente, sopravvive chi è in grado di competere su più livelli. Tv e quotidiani stanno attraversando un difficile momento economico, amplificato in parte dalla crisi finanziaria in corso, ma non è affatto arrivato il momento di cantare il de profundis per l’informazione tradizionale. Internet è un “mezzo”, non un “fornitore di contenuti” e il sorpasso registrato dallo studio del Pew Research Center, allo stato attuale, non rappresenta un rifiuto del sistema dei mass media per come lo conosciamo, quanto piuttosto un netto slittamento delle preferenze individuali verso un nuovo metodo di fruizione delle notizie. Le persone in cerca di informazione, in numero sempre maggiore, vogliono news on-demand ed esperienze interattive capaci di liberarle dalle costrizioni alle quali, finora, erano sottoposte dalle decisioni “arbitrarie” di editori, produttori e giornalisti. Internet è il mezzo migliore per accedere ad una gamma sempre più vasta di risorse, comprese quelle che un tempo erano esclusiva prerogativa dei media tradizionali. Con la diffusione capillare della “banda larga” in tutto il pianeta, poi, anche le televisioni potrebbero essere presto costrette ad affrontare i problemi conosciuti oggi dalla carta stampata. E, proprio come sta accadendo in questi mesi con i quotidiani statunitensi, a sopravvivere saranno soltanto le organizzazioni capaci di adattarsi, senza troppi traumi, ai ritmi imposti dalla rivoluzione digitale. Il futuro è adesso. Meglio rendersene conto in tempo.
Nella fascia d’età tra i 18 e i 29 anni, il web ha ormai raggiunto la televisione. Molto più indietro i quotidiani, le radio e i magazine da resa possibile dalla diffusione della Bibbia con la stampa a caratteri mobili inventata da Gutenberg. Proprio come i blog sono nati grazie ad uno “strappo tecnologico” che ha reso possibile, anche per gli individui con scarse conoscenze informatiche, la pubblicazione dei propri pensieri su Internet.
Sarebbe però superficiale spiegare soltanto con i blog o con l’ultima moda del momento (oggi potrebbe essere “Facebook” o qualcuno dei suoi derivati) - il successo crescente dell’informazione online. Un ruolo, molto im-
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9 gennaio 2009 • pagina 3
L’opinione del direttore del Tg1
«Macché, vinceranno i contenuti» colloquio con Gianni Riotta di Francesco Capozza
ROMA «L’approccio alla notizia, a ciò che accade nel mondo, è cambiato per tutti, giovani, anziani, professionisti e non.Tutti hanno avuto, nel corso degli ultimi anni, una fuga dalla televisione ma soprattutto dai giornali verso Internet». A dirlo è Gianni Riotta, direttore del Tg1, uno che d’informazione s’intende e che di Internet è anche un grande sostenitore. Direttore, lei è stato uno strenuo difensore della necessità di portare l’informazione sulla piattaforma Internet, adesso che è direttore del principale Tg italiano la pensa ancora così? È vero, io sono stato un vero “rompiscatole” sulla necessità di potenziare l’informazione dei quotidiani on-line. Posso dire di aver contribuito alla realizzazione dei siti internet della Stampa e del Corriere della Sera. Però non sono affatto pentito. Credo che ogni piattaforma sia a suo modo unica nel suo genere. Nel realizzare il suo tg tiene conto di questo“fuggi fuggi”verso la rete? Certamente, anche se, a dirla tutta, forse più che ai Tg l’informazione on-line toglie pubblico ai quotidiani. Credo che si possa anche creare una sinergia tra la carta stampata, internet e i telegiornali.
Come direttore? Facendo convergere le varie piattaforme d’informazione. Vuole qualche esempio concreto? Certamente. Mi faccia capire. Si crea una sinergia tra diverse piattaforme quando, per esempio, noi del Tg1 facciamo un’inchiesta col sito di un quotidiano per poi mandarla in onda. È accaduto varie volte, con repubblica.it o con il sito del Sole 24ore. Con
“
C’è spazio per tutti, telegiornali, carta stampata e Web, a prevalere sarà sempre chi saprà proporre le idee migliori
”
quest’ultimo, abbiamo realizzato un’inchiesta sul Tfr che poi è stata mandata in onda sia dal Tg che dal nostro settimanale d’informazione. Esempi concreti di quella sinergia di cui parlavo. C’è anche un lato negativo, però, nell’informazione on-line e nei siti internet in generale, non trova? Certamente. Infatti la “piazza” on-line ha due facce della stessa medaglia molto differenti.
Da un lato le notizie corrono più veloce di qualsiasi altro mezzo di comunicazione, dall’altro, però, lo“scambio”può essere negativo. Basta leggere le cronache per rendersi conto di quello che sto dicendo. Adesso poi, spopola un’altro modo di conoscersi on-line, mi riferisco a Facebook. Può essere anche un modo per scambiare informazioni? Lo è senz’altro, ma spesso anche di informazioni negative. Che intende direttore? So di gente che è stata licenziata dalla società per cui lavorava perchè ”sorpresa”su facebook a bere, oppure ad avere amicizie imbarazzanti. Se usato con attenzione, però, è un buon mezzo di comunicazione. Moltissimi politici hanno Facebook, addirittura fanno a gara a chi ha più “amici”. Potrà essere un metodo per la divulgazione elettorale? Direi di si, con le premesse che ho fatto prima però. Direttore, torniamo da ultimo su quanto detto all’inizio, se capisco bene secondo lei ci sarebbe spazio per tutti nel mondo dell’informazione? Più che di “spazio per tutti” punterei su quella “convergenza”cui facevo cenno prima. In assoluto, però, vince chi ha sempre nuovi contenuti da proporre.
L’analisi del sociologo della comunicazione
«Elites, avete finito di comandare» colloquio di Riccardo Paradisi con Alberto Abruzzese econdo uno studio del Pew Research Center per la prima volta Internet nel 2008 ha superato i giornali cartacei come fonte di informazione per le notizie nazionali e internazionali degli americani. Alberto Abruzzese, docente di comunicazione all’università Iulm di Milano, è un sociologo che ha sempre rivolto uno sguardo attento ai fenomeni della comunicazione. Che impressione le fa professore una notizia del genere? Non una particolare sorpresa. Del resto abbiamo assistito in questi anni alla descrizione minuto per minuto della battaglia tra cartaceo e digitale, tra informazione dei quotidiani e informazione prodotta dalla rete. E che questo passaggio dalla carta alla rete ci sarebbe stato ci era stato annunciato come un passo fatale. Lo stesso avvenuto dalla scrittura al cinema. Mc Luan aveva ragione quando preconizzava, già ai tempi della Tv, il passaggio da una comunicazione fondata sul vedere all’ ipertesto. Insomma tutto normale. Un fenomeno prevedibile, come dicevo. Semmai c’è da discutere sui tempi di
S
questo passaggio. Quanto ci vuole ancora perché si consumi il tempo della carta stampata? Io credo che la velocità aumenterà in progressione geometrica col procedere delle generazioni. Il che non significa che dobbiamo dire addio ai media tradizionali. Che piuttosto saranno costretti a riformulare la loro connotazione. In che senso? La funzione della stampa ha sempre ri-
“
Quello tra stampa e tv è sempre stato un rapporto tra classi dirigenti e consumo di massa. Internet ora rompe lo schema
”
guardato i ceti che possiamo definire le classi dirigenti. E il rapporto che si è tenuto tra stampa e tv è sempre stato un rapporto tra classi dirigenti e consumo di massa. Ora l’ingresso sulla scena di internet rompe in parte questo schema, introduce nella rete comunicativa soggetti qualificati che per molti motivi non avevano ancora avuto accesso alla stampa periodica. In un recente articolo sul Time sulla
fine del giornalismo George Brock alla domanda se «ci saranno sempre i reporter professionisti» risponde di si. Il raccontare è ancora una qualità che va imparata. Sono d’accordo con Brock. Anche se l’accesso alla professionalizzazione sarà sempre più libero e orizzontale. Ma anche in questo caso riuscire a fare previsioni di lungo periodo è difficile. In genere i professionisti assistendo a questa metamorfosi si sono attrezzati. Una vasta parte di loro hanno ridefinito la loro professionalità utilizzando con grande spregiudicatezza i nuovi media. Più libertà di informazione dicono i più conservatori rischia di produrre informazione meno attendibile È evidente che essendo la rete un fenomeno anarchico contiene anche dei rischi, tra cui l’inattendibilità delle notizie. È anche vero però che questo è un discorso che fa chi detiene il monopolio dell’informazione. E l’accusa che viene mossa alla stampa tradizionale è quella di avere sempre fatto credere che le sue notizie sono sempre oggettive quando, per molti motivi, non lo sono quasi mai.
politica
pagina 4 • 9 gennaio 2009
Disfide. Il pranzo di riconciliazione non tranquillizza il Senatùr: e da Berlino arriva la conferma dell’interesse di Lufthansa
L’ultimatum di Bossi «Per me Malpensa deve restare un hub, con Air France la partita non è chiusa» di Marco Palombi
ROMA. Umberto Bossi, alla fine, s’è nascosto dietro a un dito, pur di non ammettere che Silvio Berlusconi non gli aveva concesso praticamente nulla sulla questione Alitalia: niente è stato deciso sul partner internazionale, ha dichiarato con una nota, e Lufthansa è ancora in campo. Il Senatùr, in precedenza, aveva parlato per due ore col premier portandosi dietro - tanto per far capire a tutti quale peso avesse per lui salvezza dell’aeroporto di Malpensa - tutti i “Roberto”del partito: i ministri Calderoli e Maroni, il sottosegretario (alle infrastrutture) Castelli e il capogruppo Cota. A far da garante della coalizione, al solito, il leghista di Forza Italia Aldo Brancher.
Lo schieramento da sfida finale, comunque, non è bastato: il Cavaliere, fin da mercoledì, aveva dimostrato di voler giocare duro coi leghisti e ieri non ha cambiato atteggiamento. Con un’uscita senza precedenti ha fatto trapelare un suo giudizio sulla vicenda in cui accusava senza mezzi termini la Lega di fare le bizze su Malpensa per puntare a ben altre contropartite politiche e cioè, in soldoni, alla presidenza delle regioni Lombardia e Veneto nonché a strappare accordi più vantag-
giosi per le prossime provinciali. I risultati sono stati pressoché nulli. Berlusconi ha ribadito alla Lega quello che dice da giorni: non intende far chiudere Malpensa, vuole che rimanga un hub e si impegnerà a rivedere gli accordi bilaterali che consentono di attirare vettori e destinazioni internazionali sullo scalo lombardo. Detto questo, il presidente del Consiglio
È stata la giornata delle buone intenzioni: Berlusconi ha deciso di bloccare la nomina dei nuovi ministri ha ribadito da una parte che la scelta di Air France non è più in discussione e dall’altra che non può liberalizzare gli slot, come chiede anche l’opposizione, altrimenti la nuova compagnia di bandiera potrebbe non vedere mai la luce visto che ai soci italiani non sarebbe garantito il rientro a breve dei loro investimenti. Bossi ha preso atto e, dopo un vertice coi suoi, ha prodotto una nota in cinque punti che servisse a nascondere la sconfitta: non ci sarà ancora un’of-
La giunta lombarda pronta ad aprire nuove trattative
E Ca i c hiede al go ve rno di pagar e i v oli in più d a M ilan o di Francesco Pacifico
ferta della compagnia tedesca, ma c’è un suo interessamento (l’ad di Lufthansa ha scritto ieri pomeriggio al premier per confermarlo) e quindi «la scelta del partner Cai non è ancora definita». Non manca, nel comunicato, una minaccia: «È evidente che chi pensa di far operare una compagnia aerea senza considerare Milano come hub è destinato al fallimento». Berlusconi, da pafrte sua ha solo concesso una dilazione nella nomina dei due nuovi ministri (Brambilla e Fazio) sgraditi alla Lega. Lo schiaffo, però, resta e non è il primo. Sull’altare del federalismo fiscale e della sua nuova faccia dialogante, la Lega ha già dovuto ingoiare sconfitte su argomenti rilevantissimi: dalle concessioni autostradali ai 140 milioni di euro a Catania, dall’esclusione dalla società di gestione di Expo 2015 ai mancati fondi per la Pedemontana e altre infrastrutture del Nord. Daniele Marantelli, deputato varesino del Pd che conosce assai bene la Lega (ve lo presentiamo a pagina9), è nettissimo: «La Lega finora ha ingoiato e se non reagirà nemmeno stavolta vorrà dire che non ha praticamente più autonomia politica, sarà diventata una corrente del partito di Berlusconi». Probabilmente l’esponente democratico esagera, ma
il Carroccio non sottovaluta il rischio mortale di mostrarsi troppo debole: se Berlusconi non mi darà ascolto, diceva ai suoi Bossi mercoledì a cena, «ne pagherà le conseguenze». Quali possano essere non è dato saperlo – probabilmente qualche imboscata parlamentare arriverà e non mancheranno tensioni su sindaci e presidenti di provincia per le amministrative di primavera - ma non è ancora il momento dello scontro a tutti i costi: intanto al sottosegretario Castelli è stato
ROMA. I toni sono stati ancora più cortesi di quelli usati il giorno prima con il premier. Identica invece la sostanza: Roberto Colaninno e Rocco Sabelli hanno ripetuto ieri a Letizia Moratti e a Gianni Alemanno che non intendono accollarsi il futuro dell’aeroporto di Malpensa. Il presidente e l’Ad di Alitalia hanno incontrato ieri a Palazzo Grazioli i sindaci di Milano e Roma, in una sala della residenza del premier, non lontana da quella dove Berlusconi provava nelle stesse ore a tranquillizzare Umberto Bossi e lo stato maggiore della Lega sul futuro dello scalo di Varese. Così, nel giorno nel quale il fronte del Nord doveva sostituire come partner Lufthansa ad Air France, l’unica cosa concreta che il Senatùr e la Moratti portano a casa è un impegno della Cai ad aumentare nel prossimo biennio il traffico intercontinentale da Malpensa. Ma da martedì prossimo, quando partirà la nuova Alitalia, lo scalo lombardo collegherà soltanto New York Jfk, Tokio e San Paolo. In realtà il management di Cai starebbe già studiando se ci sono i margini per creare altre tratte internazionali dal nord Italia. Ma ogni decisione sarebbe collegata a una riduzione dell’operatività di
affidato il compito di occuparsi delle trattative sul piano industriale di Cai per limitare i danni all’economia lombarda e poi si vedrà.
Curiosamente anche il grande avversario politico della Lega, Roberto Formigoni, esce pesantemente sconfitto dalla vicenda: il presidente della Lombardia non è stato neppure invitato al tavolo tecnico di ieri, a cui pure erano presenti i sindaci di Roma e Milano Gianni Alemanno e Letizia Moratti.
Linate o alla capacità dello Stato di finanziare le rotte in perdita. Un po’ sul modello della territorialità della Sardegna un po’ sugli aiuti della regione Campania al volo Napoli-New York, il governo e la compagnia starebbero discutendo su bandi di finanziamento per remunerare la differenza. Un’ ipotesi che fa a dire all’assessore lombardo alle Infrastrutture, Raffaele Cattaneo: «Quando i vettori ci hanno prospettato ipotesi simili, le abbiamo sempre rigettate spiegando che Malpensa non ha problemi di domanda. Se Cai ha nostalgia dello statalismo della Prima Repubblica, noi no».
Se il governo non interverrà, dovrà essere la Sea, la società del comune di Milano, che gestisce lo scalo, a salvare Malpensa, riconvertendo il modello di business sempre più verso i low cost e i vettori asiatici come Emirates. Anche perché incontrando Bossi, Berlusconi avrebbe risposto che serve a poco restituire gli slot non utilizzati da Alitalia – che tra l’altro decadono in breve tempo – mentre liberalizzare i diritti di volo bilaterali tra Paese e Paese favorirebbe la concorrenza, ma non la nuova Alitalia costata non poco al contribuente italiano.
politica
9 gennaio 2009 • pagina 5
Rumors. Il governatore rinuncia a Roma e punta al quarto mandato
Dietrofront di Formigoni, vuole di nuovo il Pirellone di Valentina Sisti
MILANO. Con i riassetti primaverili del centrodestra, Roberto Formigoni torna a essere candidato a tutto. Ma forse, dopo esser stato più volte vicino allo “sbarco” a Roma, stavolta la vera prospettiva per lui – sul modello di Tito Livio, hic manebimus optime – è proprio quella di rimanere dov’è, con una nuova investitura. Che potrebbe allargarsi alla gestione del nuovo partito.
L’incontro di ieri «Al nord ci organizzeremo tra non è bastato noi, in maniera autonoma, in a riaggiustare un modo che finirà per essere inevitabilmente concorrenziale i rapporti tra Bossi e Berlusconi. con la stessa Cai», ha minacA destra, ciato il governatore dagli il governatore schermi di Sky. Lo schieramenlombardo to nordista, trasversale e folto, procede in ordine sparso, ma se Roberto Formigoni si coagulasse sarebbe difficile e Roberto Castelli, che la Lega per palazzo Chigi non tenerne vorrebbe conto. Silvio Berlusconi non ha dimenticato la lezione del 1994 come suo successore al Pirellone e sa bene che non bisogna mai fare troppo affidamento sull’arrendevolezza della Lega.
Politica e imprese locali sanno che a Malpensa – aeroporto nato già vecchio – nessuna compagnia al mondo potrà mai garantire lo stesso numero di voli e ricavi alla Sea e all’indotto come faceva Alitalia. Così si spera nella regione Lombardia, che sfruttando una legge ad hoc e i poteri del Titolo V della Costituzione può interferire nell’assegnazione dei slot. E soprattutto potrebbe creare problemi ad Alitalia sul monopolio della Linate-Fiumicino. «Non abbiamo alcuna voglia di rivalsa», spiega l’assessore Cattaneo, «perché sarebbe sciocco affrontare così il problema. Fatto sta che come ha spiegato Formigoni, la Cai non può pensare di avere privilegi sulla Milano-Roma come la vecchia Alitalia pubblica. Eppoi bisogna invogliare nuovi operatori a volare su Malpensa: la sortita di Bossi potrà produrre qualche effetto sugli slot nel lungo termine, ma nell’immediato nulla». Cattaneo spiega che la Regione è pronta ad aprire «un tavolo di trattative con Sabelli al più presto, già dalla settimana dopo la partenza della compagnia». L’obiettivo, va da sé, è spingere Cai ad aumentare il numero dei voli internazionali a Malpensa, «che in ogni caso si salverà».
Insomma Formigoni, stando ai ragionamenti che trapelano dal suo entourage, nonostante le ipotesi che si continuano a fare per lui (Parlamento europeo o ministro) punterebbe alla riconferma a governatore, dato che non c’è il vincolo dei tre mandati, e d’altronde perché mollare proprio ora che si profila all’orizzonte la gestione dell’Expo 2015, con i 20 miliardi di investimenti e i 29 milioni di visitatori che potrà portare? E stavolta i “desiderata” del governatore e quelli del Cavaliere potrebbero coincidere. Nessun braccio di ferro, insomma, anzi per il prossimo congresso di Forza Italia che si terrà il 15 e il 16 marzo, Formigoni con i suoi spera di avere il via libera a occuparsi anche del partito passando dall’incarico attuale di vicecoordinatore a un ruolo di guida nazionale del Pdl. Un impegno per il quale mise le basi l’estate scorsa al Teatro Novelli di Rimini, a margine del Meeting, con il lancio di “Rete Italia”, alla presenza di ben sei ministri: è un coordinamento di politici e amministratori nato «per dare un’anima al Pdl», presieduto dallo stesso Formigoni e guidato dal fedelissimo Mario Sala. Certo la messa a disposizione della poltrona di governatore potrebbe valere uno scambio alla pari con quella di un ministro. Si era parlato di Roberto Maroni o di Mariastella Gelmini, quest’ultima alla luce del fatto che Berlusconi vuole conservare per Forza Italia la guida della sua regione. Alcuni rumors darebbero infatti l’attuale ministro della Pubblica istruzione in gara per la guida della Regione, consentendo al contempo al Cavaliere di avere un governatore fidatissimo e a lei di liberarsi di un incarico in un dicastero continuamente sotto tiro. Ma, ragionano dalle parti di Formigoni, la prospettiva di andare a Roma ora non sarebbe allettante: non lo sarebbe subentrare alla Gelmini in un ministero col massimo di grane e il minimo di fondi, né sarebbe agevole succedere a Maroni rischiando lo scontro con la Lega, i cui rapporti con Forza Italia non sono certo facili. La scelta del governatore, quindi, è di tenersi lontano per ora dalle beghe romane, puntando a rinsaldare i rapporti un po’ ballerini con la Moratti. D’altra parte il fatto di
restare dov’è sarebbe un grattacapo in meno per Berlusconi, preoccupato dalle ambizioni della Lega e dalle pretese di An, che con Ignazio La Russa lamenta problemi di metodo: praticamente il Cavaliere, in Lombardia più che altrove, fa quel che vuole nel suo partito. Né a Formigoni può convenire la prospettiva europea, ragionano i suoi, rischiando di disperdere a Strasburgo o a Bruxelles quella marcata caratterizzazione politica che l’ha sempre contraddistinto. La Lega, dal canto suo, anche se continua a rivendicare la guida delle due regioni simbolo del Nord, sa che puntare su Lombardia e Veneto insieme è una “mission impossible” e Formigoni punta a tesaurizzare l’obiettivo di Berlusconi di non perdere il controllo diretto della cassaforte lombarda di Forza Italia, e ora del Pdl. D’altronde il Carroccio più che alla Lombardia deve pensare a tenere a bada la possibile fronda del Veneto (dove ora la Lega è primo partito), che già in passato ha fatto registrare derive di secessionismo, e rivendica una maggiore rappresentatività nella classe dirigente quasi elusivamente “lumbard”. In questo modo però Fi fa un terno secco sulla ruota di Milano con Regione, Provincia e Comune, dopo l’ufficializzazione da parte del Cavaliere di Guido Podestà a candidato anti-Penati, con An che ci sperava e non ha gradito per niente. La Lega si è tenuta fuori, invece. Preferendo pensare al Veneto, dove nonostante l’investitura ufficiale di Flavio Tosi, sindaco di Verona, resta in lizza il ministro Luca Zaia, anche se il Senatùr non ha fatto il suo nome, per il dopo-Galan, perché questo – ragiona un dirigente del Carroccio che preferisce non esser menzionato – avrebbe depotenziato le prospettive del buon lavoro che sta portando avanti il ministro trevigiano.
Secondo alcune fonti, la gestione dell’Expo 2015 e quella del nuovo partito lo spingerebbero a rimanere a Milano. Mentre Castelli, altro possibile candidato, spera nella poltrona di viceministro
Mentre Castelli, un altro nome che era circolato per la guida della Lombardia, in realtà dovrebbe restare anche lui dov’è, con la prospettiva di una promozione a viceministro con delega alle Infrastrutture del Nord e all’Expo 2015. L’ex Guardasigilli, infatti, si era dovuto accontentare del ruolo di sottosegretario perché Altero Matteoli aveva posto un veto alla nomina di viceministri in risposta al niet di Maroni, oppostosi a sua volta alla nomina dell’attuale sottosegretario Alfredo Mantovano a viceministro, al Viminale. In Lombardia la Lega si accontenta quindi della periferia, oltre a Milano altre sette le Province che saranno chiamate alle urne e soprattutto a Bergamo, Brescia e Sondrio punta a fare l’asso-piglia-tutto minacciando di correre da sola, se non avrà la guida della coalizione fin dal primo turno.
politica
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in breve Europa, aumentano i disoccupati
Un’immagine del tratto ucraino del gasdotto che dalla Russia porta il gas nel resto d’Europa e che in questi giorni è al centro della contesa economica e dipolomatica tra Mosca e Kiev
Retroscena. Il blocco dei rifornimenti via Kiev serve a Putin per spingere su due nuove pipeline
I gasdotti della discordia di Enrico Singer li europei non riescono a mandare i loro osservatori nella Striscia di Gaza, ma li avranno lungo le stazioni di pompaggio del gasdotto che attraversa l’Ucraina. Il braccio di ferro che oppone Mosca, Kiev e le capitali dei Paesi della Ue sulle forniture di gas russo non è finito, anzi, continua a lasciare a secco i clienti occidentali di Gazprom, ma almeno l’intreccio dei colloqui di ieri ha partorito una prima intesa di principio sul controllo internazionale del contenzioso. Non basterà a far tornare il gas nella pipeline, ma dovrebbe chiarire se è vero che gli ucraini “rubano”il gas di passaggio verso l’Europa - come sostiene il Cremlino - oppure se la chiusura dei rubinetti decisa da Putin è una rappresaglia più politica che economica. Oggi il negoziato andrà avanti a livello di tecnici nel“Gruppo di coordinamento del gas”e per lunedì sono già in preallarme i ministri dell’Energia che potrebbero riunirsi a Bruxelles per concordare le mosse future nel caso non si sblocchi lo stallo. Anche perché, se in Italia ci sono scorte sufficienti per tre settimane, in molti altri Paesi della Ue la situazione è più drammatica e, ieri, proprio il nostro Paese ha “girato” 200 mila metri cubi di gas alla Slovenia che ha già bruciato tutte le sue riserve.
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Ma questo scontro tra Russia, Ucraina e resto dell’Europa non si capisce se ci si ostina a considerarlo soltanto una guerra del gas fatta di bollette non pagate: la posta in gioco è molto più
grande. La vera guerra è per i gasdotti: ce ne sono quattro in costruzione o in progettazione per un giro di miliardi che supera il totale di quasi vent’anni delle forniture che passano - o per meglio dire, passavano - attraverso il gasdotto che passa per l’Ucraina. Dimostare che questo non garantisce più la sicurezza energetica dell’Europa interessa a molti protagonisti del confronto, a partire proprio da Putin. Non solo per mettere in cattiva luce l’Ucraina e per boicottare il progetto d’integrazione di questo ex “Paese fratello” di Mosca nella Ue e nella Nato, ma anche per accelerare la realizzazione di due nuovi gasdotti: il North
servire anche altri Paesi europei. Con una capacità di trasporto di 27,5 milioni di metri cubi l’anno, North Stream rappresenterebbe già un’alternativa al gasdotto che attraversa l’Ucraina. Non solo. C’è anche South Stream, l’altro progetto di Gazprom, in questo caso associata all’Eni, che prevede di unire la Russia alla Bulgaria, passando per il Mar Nero, e poi al resto d’Europa passando per i Balcani. «La crisi attuale dimostra quanto sia importante e necessaria la costruzione del gasdotto South Stream», ha detto ieri l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandr Konuzin, parafrasando alla lettera le parole pronunciate
North Stream deve collegare direttamente la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico, South Stream (con l’Eni associata a Gazprom) unirà il Mar Nero all’Occidente attraverso la Serbia Stream e il South Stream. Non è davvero un caso che proprio Vladimir Putin ha inontrato ieri a San Pietroburgo l’ex cancelliere tedesco, Gerhard Schroeder, che ora è a capo del progetto North Stream, e si è detto convinto che «la crisi del gas spingerà l’Europa a sostenere l’urgenza del nuovo gasdotto». North Stream dovrebbe collegare direttamente la Russia alla Germania attraverso i fondali del Mar Baltico dal porto russo di Vyborg a quello tedesco di Greifwald: 1200 chilometri che potrebbero essere completati per l’ottobre del 2011 e che si collegherebbero al gasdotto già esistente in Germania che può
da Vladimir Putin a proposito di North Stream.
Il piano di Gazprom è chiaro. Diversificare le rotte delle sue forniture all’Occidente per evitare il contenzioso con le ex Repubbliche sovietiche alle quali, tra l’altro, vende ancora il gas a prezzi politici più bassi di quelli di mercato. La strategia è quella di costruire linee dirette (o quasi) con la Ue e di utilizzare quelle vecchie e tortuose (oltre che spesso obsolete) per rifornire il suo “secondo mercato”. Per gli europei, naturalmente, la costruzione dei due gasdotti rappresenterebbe una garanzia per la sicurezza dei rifornimenti, ma al
tempo stesso aumenterebbe la sudditanza energetica da Mosca. Per questo altri consorzi internazionali puntano alla costruzione di gasdotti che portino in Europa il gas di Paesi produttori alternativi: in particolare quelli del Caucaso, come l’Azerbaijan o il Turkmenistan, che oggi sono costretti a vendere alla Russia che poi rivende all’Occidente. Il più importante progetto alternativo è Nabucco: una pipeline che dovrebbe collegare il Mar Caspio all’Austria passando per la Turchia e i Balcani. Anche a questo progetto è dirtettamente interessata l’Italia - attraverso la Edison - oltre a molti Paesi dell’Europa dell’Est ormai entrati nella Ue che non vogliono più dipendere dal gas russo. Per rimanere alle dichiarazioni di ieri, il ministro degli Esteri polacco Radislaw Sikorski ha sottolineato l’utilità di Nabucco «per diversificare non solo le rotte, ma anche le fonti di approvvigionamento». E c’è anche un altro progetto: l’Itg che dovrebbe collegare Azerbaijan, Turchia, Grecia e Italia e che è in una fase più avanzata. La presidenza ceca della Ue intende organizzare, probabilmente a marzo, un vertice con Turchia, Azerbaijan, Kazakistan e Turkmenistan su quello che è già stato ribattezzato il “corridoio meridionale” del gas. E il ministro Franco Frattini, in nome dei buoni rapporti con Mosca, ha suggerito di accogliere anche la Russia al tavolo delle trattative per evitare nuove fiammate della guerra. Ma la sua proposta non mette tutti d’accordo nella Ue.
A novembre è aumentata la disoccupazione nelle quindici nazioni aderenti all’euro (eccetto la Slovacchia, che è entrata il 1° gennaio). Secondo i dati Eurostat, il tasso dei disoccupati in euro-15 è salito al 7,8%, con +0,1% rispetto a ottobre e +0,6% rispetto al novembre 2007. Dati leggermente inferiori nei 27 Paesi dell’Unione europea: 7,2% in novembre contro il 7,1% del mese precedente e il 6,9% di un anno prima. Eurostat stima che nel novembre scorso nell’Ue 17.466.000 persone, di cui il 69,7% nella zona euro-15, con un aumento di 274 mila unità in Ue-27 e di 202 mila in euro-15 rispetto a ottobre 2007. Nel terzo trimestre 2008 il tasso di disoccupazione in Italia è stato del 6,7%, esattamente uguale a quello americano.
Il maltempo fa salire i prezzi alimentari L’ondata di maltempo che in questi giorni sta colpendo l’Italia sta avendo «pesanti conseguenze anche per l’agricoltura, con danni alle colture orticole», lo evidenzia la Cia-Confederazione italiana agricoltori che è preoccupata per i riflessi negativi delle intemperie sulle campagne, ma è anche «allarmata da possibili rincari ingiustificati e speculazioni che, soprattutto per la frutta (mele, pere, kiwi, arance, clementine), già da tempo raccolta, non hanno alcun fondamento».
Prestigiacomo: «Tornano gli eco-incentivi» La misura che prevede detrazioni fiscali del 55% sugli interventi di efficienza energetica, cancellata nel decreto legge anticrisi «è una misura giusta che va assolutamente ripristinata: il Parlamento ne sta discutendo e potrebbe essere ripristinata entro una settimana». Lo ha detto il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo nella trasmissione Faccia a faccia di RadioTre. «Stiamo discutendo su come reintrodurre la misura. Quando ci sono detrazioni bisogna prevedere una copertura in bilancio e questa copertura è stata inferiore alla forte richiesta».
politica ROMA. Nella complicatissima discussione sulla riforma della giustizia si passa continuamente da un eccesso all’altro. L’ultimo paradosso si traduce in una strana sensazione, avvertita dai magistrati: quella dell’accerchiamento. Tutti, tranne l’Italia dei valori si può dire, spingono per una riorganizzazione che tocchi anche aspetti costituzionali, a cominciare dalla composizione del Csm. Lo fa seppur con timidezze e contraddizioni il Pd, lo ha fatto persino il vicepresidente dello stesso Consiglio superiore Nicola Mancino. A sostenere che dall’altra parte si vorrebbe far ricorso ad armi improprie è innanzitutto l’Anm: secondo il segretario Giuseppe Cascini ci sono «tentativi di mediare» rispetto a un disegno inaccettabile: quello di «asservire i giudici». Eppure, dottor Cascini, così rischiate di esporvi all’accusa secondo cui vi si chiede in fondo solo di rinunciare a qualcosa, non a tutto, e voi siete indisponibili. Guardi, è proprio il metodo ad essere inappropriato. Il metodo? Certo: noi non siamo parte di una trattativa, o di uno scambio.
Giustizia. Cascini, segretario dell’Anm, rompe il clima di pace sulla riforma
«Non siamo ostaggio di Mancino e Violante» colloquio con Giuseppe Cascini di Errico Novi
«Non si vede per quale motivo una minore presenza di togati nel Csm dovrebbe migliorare la qualità delle nomine negli uffici giudiziari. Certe proposte assecondano solo un disegno politico» Non abbiamo nulla da cedere o nulla a cui rinunciare. Converrà però che degli interventi sulla macchina della giustizia sono necessari. Le riforme vanno fatte. Ma vanno fatte nella misura in cui sono necessarie e vengono incontro a interessi generali. Quello che vediamo è che non c’è corrispondenza tra le proposte e gli interessi generali. Lei ha dunque il sospetto che ci sia ormai una sorta di retorica della riforma, che non tiene più conto delle questioni reali. Diciamo che esiste un forte interesse del dibattito politico su questioni di ingegneria, che però in qualche modo sono del tutto sganciate dai problemi reali. Si riferisce alla proposta di mutare la composizione del Csm per evitare il correntismo? Il correntismo è una questione, certo, che però ha fatto sentire il suo peso più nel passato che negli ultimi tempi. Abbiamo cercato di affrontarla con la scelta di dirigenti giovani, capaci di trovare la strada per superare le contrapposizioni. Da tempo siamo i primi a interrogarci su questi temi. Ma?… Ma non capisco in che modo una maggiore presenza di esponenti scelti dalla politica nel Csm possa mi-
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gliorare la qualità delle nomine. Lo dica: lei ha l’impressione che all’esterno ritengano necessaria una presenza “pacificatrice”per indurre i magistrati alle decisioni migliori. Il discorso è che alcuni hanno in mente un modello di eterodirezione della magistratura. E questo è contrario ai principi della Carta costituzionale.Altri pensano di mediare. Ma una simile soluzione di compromesso non si capisce a quale interesse generale corrisponda. Nessun cedimento sulla composizione del Csm, dunque. Non credo che dalle modifiche proposte arriverebbero risultati strabilianti. Se si guarda il modo
di procedere del Consiglio si vede che negli ultimi tempi non c’è stata una contrapposizione tra laici e togati. Dall’altra parte pensano che le correnti vadano sradicate del tutto perché si ritiene siano responsabili di iniziative giudiziarie dettate dal sentimento politico del singolo magistrato e non dall’oggettività dei fatti. È possibile che qualcuno pensi cose del genere, ma qui arriviamo al nodo, che è l’indipendenza della magistratura. Le correnti non intervengono sulle scelte del
singolo inquirente. Chi ritiene che servano modifiche per indebolire le correnti non vuole evidentemente l’indipendenza della magistratura. Nessuno spazio di mediazione? La mediazione non appartiene al nostro approccio con questo tipo di problemi perché noi non siamo portatori di un interesse particolare su temi del genere. Lo siamo su questioni sindacali e su quelle infatti spesso facciamo mediazioni. Diverso è per le questioni generali: mi riferisco al principio secondo cui i capi degli uffici giudiziari vanno scelti in base alle capacità e non all’appartenenza alle correnti o alla vicinanza a un partito. La mia domanda è: per quale motivo la riduzione dei magistrati all’interno del Csm dovrebbe garantire una maggiore qualità negli uffici giudiziari? Il Pd chiede di aprire un tavolo istituzionale che prepari la riforma: accetterete di farne parte? Se si tratta di un luogo per approfondire la conoscenza dei problemi, allora sì. Se invece è un tavolo dove si mercanteggiano le soluzioni, allora, come ho detto, la cosa non ci riguarda. Di soluzioni ne abbiamo indicate eccome, a proposito dei problemi avvertiti come emergenze generali, dalla chiusura degli uffici giudiziari inutili alla riforma delle procedure. Tutto a costo zero. Ma, incredibile a dirsi, su questo la politica non si muove mai.
Via libera alla riforma dell’Università con l’astensione dell’Udc
Sì definitivo al decreto-Gelmini ROMA. La Camera ha approvato ieri in via definitiva il decreto Gelmini sul riordino del sistema universitario. Il provvedimento ha ottenuto 281 sì e 196 voti contrari. Gli astenuti sono stati 28. Nel corso delle dichiarazioni di voto, si sono espressi a favore i gruppi di maggioranza (Pdl e Lega), contrari Pd e Idv. L’Unione di centro ha dichiarato la sua astensione. Con questa riforma «si valorizza il
merito, si premiano i giovani e si favorisce il ricambio generazionale», così ha commentato il ministro, al termine delle votazioni. Per la prima volta, ha aggiunto, «si afferma il valore del merito, assegnando le risorse in base ai risultati, premiando le università virtuose e “punenedo” gli atenei “spreconi”». «L’università italiana soffre di una crisi che non sarà certo il provvedimento approvato oggi, con le sue misure insufficienti e in alcuni casi anche peggiorative, a riportare ad una situazione di normalità gli atenei», ha dichiarato invece Mariapia Garavaglia, ministro ombra dell’Università e parlamentare del Pd.
in breve Boniver: le suore rapite in Kenia stanno bene Le due suore italiane sequestrate in Kenya a novembre da rapitori somali «sono vive e stanno bene». Margherita Boniver, inviata personale a Nairobi del ministro degli Esteri Frattini, per dare «uno scossone all’albero» dell’intricata vicenda del rapimento delle due religiose italiane, lo ha affermato con convinzione al termine di una lunga giornata di incontri e colloqui con le massime autorità politiche keniane e del governo provvisorio somalo. Dopo la buona notizia, tornano però di rigore la cautela e il riserbo finora espressi dalla Farnesina. Sui tempi e i modi della liberazione di Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, «francamente non me la sento di esprimere alcun tipo di giudizio», ha spiegato la Boniver. Nessun commento nemmeno alla recente affermazione del cardinale Bertone che pochi giorni fa aveva parlato di «contatti telefonici».
Dino Greco nuovo direttore di «Liberazione» La segreteria nazionale del Prc ha deciso di chiedere a Dino Greco (sindacalista, già segretario della camera del lavoro di Brescia, esponente della sinistra sindacale) la sua disponibilità ad assumere l’incarico di direttore di Liberazione. Lo si legge in una nota dell’ufficio stampa del partito. Dino Greco ha annunciato una risposta entro 48 ore.
Il 27 marzo il congresso del Pdl La data più probabile per lo svolgimento del Congresso fondativo del Popolo della Libertà è il prossimo 27 marzo. Lo ha annunciato il reggente di Alleanza nazionale, Ignazio La Russa, al termine della riunione dell’esecutivo del partito. «La data dovrebbe proprio essere quella - ha sottolineato La Russa - anche perché è evocativa della prima grande vittoria elettorale del centrodestra nel 1994». La settimana prima del Congresso del Pdl, ha detto ancora La Russa, si terrà il congresso di Alleanza nazionale per decidere la confluenza nel nuovo partito.
politica
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Dissensi. Il malessere è molto diffuso nel gruppo parlamentare Il 13 gennaio si deciderà sulla revoca di Villari dalla Vigilanza
Pd, la rivolta centrista Violento scontro tra Fassino e Mantini, nasce un’area con Lanzillotta e Vernetti di Franco Insardà
ROMA. Che il Pd stia attraversando un periodo difficile è sotto gli occhi di tutti. Certo la reazione dell’ex segretario dei Ds, Piero Fassino, contro Pierluigi Mantini dà il segno che i nervi sono a fior di pelle. Ieri infatti in Transatlantico, davanti a deputati e giornalisti Fassino ha inveito contro il suo collega di partito che stava rilasciando un’intervista a Radio radicale, in modo davvero violento: «Hai detto un sacco di cazzate, non basta dichiarare per andare sui giornali. Io mi sono rotto i coglioni». Il motivo del contendere era l’intervista che Mantini ha rilasciato ieri a Libero nella quale ha sostenuto che solo la Margherita versa tutti i soldi sul conto del Pd. Sull’episodio
Da questo a considerarlo aggregatore di un grppo nutrito, però, ce ne passa. Con tutto l’affetto per la persona». Molto più critici gli ex popolari vicini a Marini e Fioroni per i quali: «L’iniziativa di Mantini è isolata». Ma la sofferenza di una parte degli ex Margerita vicini alle posizioni di Francesco Rutelli viene da lontano, ma più passano i giorni e più si sentono schiacciati e messi nell’angolo. I nomi che circolano sono quelli del ministro ombra della Funzione pubblica, Linda Lanzillotta, e dei deputati Gianni Vernetti e Donato Mosella. Alla direzione del Pd del 19 dicembre qualcuno sperava che succedesse qualcosa, ma la cosa si esaurì in qualche intervento
L’ex Dl: «Mi dispiace per l’atteggiamento maleducato e arrogante dell’ex segretario dei Ds. Così non si risolvono i problemi. Il nostro gruppo si trova in sintonia con altre componenti su diversi temi» Mantini esprime tutta la sua amarezza: «Mi dispiace - dice a liberal - per l’atteggiamento maleducato e arrogante di Fassino. Sono deluso, ma così non si risolvono i problemi».
L’aria tra i centristi è pesante. Dopo tutti i problemi che il Pd sta avendo questa rischia di essere la classica goccia che potrebbe far traboccare il vaso. «Mantini dice la verità - confida un deputato centrista - interpreta un malessere ed esprime un punto di vista molto diffuso nel gruppo parlamentare.
critico verso la linea della segreteria. Anche in quell’occasione Pierluigi Mantini cercò di aggregare sulle posizioni del centriste, qualcosa si mosse, ma non più di tanto.
Da qualche giornol’azione di Mantini ha ripreso vigore. Qualcuno parla di mail spedite ad alcuni parlamentari centristi. Intanto per il 13 gennaio è prevista al Senato la riunione della giunta per il regolamento che dovrà decidere se revocare Villari da membro e quindi da presidente della Vigilanza Rai per il venir meno della proporzionalità parlamentare in commissione. Il 6 gennaio il deputato del Pd sul Corriere delle Sera è sceso in campo per difendere l’amico Riccardo Villari: «Veltroni si accordi con lui, bisogna smetterla di fare ostruzionismo». E anche in quell’occasione il Pd si è diviso: da una parte i sostenitori della linea dura, dall’altra quelli, come il radicale Marco Beltrandi, che hanno apprezzato la mediazione di Mantini. Proprio sulla Vigilanza Rai sia la Lanzillotta che Vernetti hanno dato man forte alla posizione di Mantini. «Non posso dar torto a Villari - ha dichiarato la Lanzillotta - quando dice che se i presidenti delle Camere venissero cacciati dai propri partiti non perderebbero per questo le proprie cariche istituzionali». E Vernetti si è spinto anche oltre: «Il tema è politico e va risolto politicamente, con il confronto, il dialogo e anche con lo scontro se necessario. Il problema più che la presidenza della Vigilanza è la rai, come ha detto molto bene Follini». Sul caso Villari i rutelliani sono favorevoli a che il presidente della Vigilanza resti in sella e così anche i Radicali. L’Italia dei Valori, invece, non voterà per nessuno, Pdl e Lega sarebbero per mantenere Villari, visto che il senatore napoletano è il solo ad avere la maggioranza in commissione. Un situazione davvero ingarbugliata per Veltroni. L’altro parlamentare che si ritrova sulle posizioni di Mantini è Donato Mosella, ex capo della segreteria politica di Francesco Rutelli, presidente del Comitato tecnico del Giubileo del 2000, eletto già due volte in Campania che, proprio partendo dalla situazione del Partito a Napoli ha
lanciato l’allarme: «Nuovi dirigenti o il Pd rischia di esplodere». E sul rischio di divisione tra Ds e Margherita Mosella dice: «Se le fibrillazioni continuano ogni settimana non potremo continuare a lungo a vivere insieme. Potrebbe nascere qualcosa di nuovo». Qualcuno li ritiene isolati, altri dei cani sciolti che approfitterebbero di questo momento di difficoltà del Pd per mettersi in mostra. Qualche osservatore interno li considera teste di ponte di un qualcosa che potrebbe concretamente realizzarsi a breve e vede dietro di loro profilarsi le figure di Francesco Rutelli e di Enrico Letta. Allora la cosa diventerebbe davvero seria.
Gianluigi Mantini, al di là delle polemiche di giornata, guarda avanti: «I Democratici di Centro si trovano in sintonia con altre componenti politiche su diversi temi. Dal rifiuto di una semplice collocazione all’interno del Pse, alla rottura con il dipietrismo, inteso come cultura populista di destra populista di destra, dal rifiuto di un federalismo leghista e di divisione rispetto a un’idea di politica laica e rispettosa di tutte le posizioni. E ancora un’attenzione nuova e diversa alle professioni, un settore importante che va tutelato sia dalle politiche ipersindacalizzate che iperliberiste». Insomma l’idea che sta prendendo piede tra i centristi è quella di un percorso che tenga presente sia le elezioni europee che le amministrative per riuscire a non perdere voti in aree diffuse non solo negli
ex Margherita che fanno fatica a riconoscersi nell’attuale politica del Pd.
I mal di pancia dei rutelliani nascono anche dalle future candidature che gli ex Ds si attribuiscono quando spettano a loro, mentre vorrebbero fare le primarie nel caso in cui tocchino agli ex Dl. «C’è un problema di rappresentanza nel Paese spiega Mantini - che deve tro-
politica
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Parla Daniele Marantelli, di Varese, amico di Maroni: è il leader dei democratici settentrionali
La stella (nordista) del Pd: «Questo partito deve cambiare» di Marco Palombi
ROMA. «Non mi associo al balletto di chi la spara più grossa per finire sui giornali». È grazie a questa politica che Daniele Marantelli, nonostante sia un importante dirigente nazionale del Pd, nonché un personaggio di un certo rilievo in Lombardia, è riuscito a rimanere sconosciuto ai più negli ultimi anni. Per chi non lo conosce, è strano vedere in questi giorni vedere che molti parlamentari, anche di centrodestra, si rivolgono a lui per avere lumi e discutere iniziative a favore di Malpensa.
A sinistra Pierluigi Mantini, Linda Lanzillotta e Gianni Vernetti. Sopra Piero Fassino e nella pagina precedente Francesco Rutelli vare delle risposte. Occorre una politica di opposizione meno ancorata alla logica dei no, anche le astensioni critiche hanno una loro valenza: segnalano la condivisione del tema e la ricerca di soluzioni». In questo quadro politico è facile pensare all’allargamento dell’area di centro e a quella Costituente alla quale sta lavorando l’Udc. «Non è il caso di correre - dice Mantini - guardiamo con rispetto e interesse all’attività di opposizione critica e intelligente dell’Udc. Non escludiamo per il futuro forme di collaborazione sempre più strette, occorre valutare bene i tempi di questi processi politici e rispettarli. Non sono utili accelerazioni. Sono abituato a pensare alla politica per il bene del Paese, non per quello dei partiti. Il Trentino è sicuramente un’esperienza virtuosa, sarebbe, però sbagliato una ripetizione di quello schema senza badare ai contenuti».
Insomma i gregari della squadra centrista nel Pd sono in movimento, stanno agitano il gruppo, i leader si tengono ancora coperti, pronti a sferrare l’attacco decisivo alla prima occasione buona e quando saranno maturati i tempi per le alleanze. L’orgoglio democristiano è duro a morire.
Gli addetti ai lavori, però, sanno che il nostro, 55 anni, varesino come Bossi e Maroni (di cui è amico personale), è l’unico ponte tra i democratici e la Lega, conserva nella sua rubrica i numeri di tutto lo stato maggiore del Carroccio e si dice gli basti alzare il telefono per parlare col Senatùr. Il motivo della sua forza di oggi, che risiede anche nel rapporto privilegiato con la Lega, sta nei due decenni di politica locale che Marantelli ha alle spalle: quando nel 1985 entrò in consiglio comunale per il Pci, accanto a lui sedeva il primo eletto nella storia del Carroccio, Giuseppe Leoni; nel 1993 fu il primo segretario del Pds a sostenere un sindaco leghista. Da allora il rapporto con Bossi è saldissimo: d’altronde Marantelli, a Varese, fa politica in mezzo alla gente proprio come i leghisti («basta coi dirigenti impomatati») e si può persino vantare di averli battuti alle ultime politiche.
attaccare il governatore del Lazio Marrazzo per difendere Malpensa? Non è il mio stile, io penso che un grande partito deve trasmettere fiducia e speranze, poi se qualcuno mi fa incazzare lo prendo da parte e glielo dico in privato».
popolo: Brecht, dopo i moti di Berlino, proponeva ironicamente ai dirigenti comunisti di “sciogliere il popolo”, noi non dobbiamo dimenticarci che il popolo invece ha già sciolto una parte della sinistra».
Pensa ci siano troppe differenze, troppe voci nel Pd? «No - risponde perché il pluralismo è una ricchezza ma solo a condizione che ci si impa-
Cruda, come analisi, ma corretta. E poi ci sono le inchieste sui sindaci. «La questione morale riguarda tutte le forze politiche, chi ne parla solo per il Pd di-
«Il processo di formazione del nuovo partito è troppo lento? Ho aspettato quindici anni, ma oggi credo che la colpa sia di un certo egoismo mostrato dalle classi dirigenti nazionali»
Ora è deputato e responsabile nazionale del tesseramento del Pd: ruolo perfetto per uno a cui piacciono il lavoro di macchina e i “partiti robusti”, “veri”, “popolari”. Per lui, le difficoltà dei democratici sono in gran parte legate ad un errore di impostazione fatto nei mesi scorsi, quando «l’idea di costruire un partito vero, vivo e radicato nel territorio, non era proprio chiara a tutti. Per qualcuno bastava avere una classe dirigente nazionale e qualche esponente istituzionale nelle regioni e nei comuni, ma così non si va da nessuna parte». Per caso, questo colloquio avviene proprio mentre a pochi passi da noi l’ex segretario Ds Piero Fassino, in pieno Transatlantico e a voce altissima, dà del “cretino”all’ex Dl Pierluigi Mantini per una faccenda di soldi dei loro ex partiti di appartenenza. Marantelli scuote la testa: «Che devo dire? Mi metto ad
dronisca di una lezione elementare da spogliatoio calcistico: le belle individualità sono importanti, ma nessun fuoriclasse può vincere senza la squadra». E allora? «Allora ci sono difficoltà evidenti, ma io pensavo che questo partito fosse necessario 15 anni fa, figuriamoci adesso. È evidente che se ci abbiamo messo tutto questo tempo un motivo c’è, in primo luogo un certo egoismo delle classi dirigenti nazionali». Tuttavia, la situazione, almeno vista dal di fuori, è da manicomio. Ma Marantelli non s scompone: «Ricordiamoci che questo partito ha solo un anno di vita, è un cantiere. Se non hai questa consapevolezza davanti ad ogni difficoltà hai la tentazione di rifugiarti nella tua casetta di provenienza. Noi dobbiamo esaltare la dimensione popolare del partito, fare i conti col
ce una sciocchezza. È un problema politico a cui serve una risposta politica: dobbiamo chiederci onestamente, a quindici anni dall’elezione diretta dei sindaci, se le assemblee elettive abbiano una qualche capacità di controllo e di legislazione. Lo dico con amarezza: mi sembra che oggi i politici facciano le interviste ai giornali, ma le grandi scelte economiche e finanziarie avvengano in altre sedi». Di lui, comunque, dicono sia l’ispiratore del Pd del Nord... «Parlavo di Ulivo del Nord nel 2002 - si schermisce -. Sono passati sei anni, ora è un po’ tardi. In realtà io voglio un Pd forte al Nord, che dia attuazione allo Statuto, che dice che il nostro è un partito federale: ad ogni regione va data autonomia finanziaria, programmatica, di alleanze e candidature. Le priorità d’azione devono venire dall’area in cui si è insediati: solo sulla base di competenza e consenso nel territorio si selezionano classi dirigenti all’altezza, non certo pensando alla loro fedeltà a questo o a quel leader».
panorama
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Il caso. L’ex portavoce Udc forse rimosso dalla Giunta per le Autorizzazioni a procedere
Fini contro Pionati (pensando a Villari) di Francesco Capozza
ROMA. Grande momento di popolarità per Francesco Pionati. Tanti riflettori puntati, e tanti commenti sui giornali, l’ex mezzobusto del Tg1 (che è anche vicedirettore in aspettativa per mandato parlamentare del telegiornale della rete pubblica ammiraglia) non li aveva avuti nemmeno quando fu nominato da Pier Ferdinando Casini portavoce unico dell’Udc, sbaragliando la concorrenza dei molti che aspiravano a quella ambita carica. Lo scorso 28 novembre aveva fatto non poco scalpore la sua decisione (già nell’aria da tempo, a dire il vero) di lasciare il partito della Vela per tornare tra le braccia del Cavaliere.
Quella presa di posizione, a dire il vero, non è stata unilaterale. Già da qualche settimana, infatti, si era consumata la rottura con Casini, che dopo aver atteso inutilmente un faccia a faccia con il proprio por-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
tavoce, lo ha rimosso d’ufficio dall’incarico. Pionati, si diceva, è confluito nel centrodestra con una sua nuova formazione,“Alleanza di centro”(nome che ha fatto scattare subito sul chi va là certi colonnelli di An: «Ma come, noi ci sciogliamo e qualcuno ci usurpa una parte del nostro storico nome?»), e da allora è partita una guerra tutta sotterranea contro il suo ex partito, l’Udc. Ma anche sul fronte opposto, in casa Pdl, ci sono problemi. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha sollevato lu-
Gruppo Misto «a prendere le misure conseguenti».
Le misure di cui parla Fini, altro non sono che la rimozione di Pionati dalla Giunta stessa. Si sta configurando, in poche parole, un nuovo “caso Villari” (anche lì, si ricorderà, si era parlato di una rimozione del presidente della Commissione di Vigilanza perché non faceva più parte del Pd ma del Gruppo Misto, rimozione, tra l’altro, mai avvenuta) e, per la prima volta nella storia il repubblicana, presidente di uno dei due rami del Parlamento prende un’iniziativa così forte, che rischia di diventare un precedente pericolosissimo per la prassi parlamentare. L’interessato, però, non si scompone e, ribadendo che non intende dimettersi di sua spontanea iniziativa, risponde con sottile ironia: «Vorrà dire che, se sarò rimosso dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, chiederò di passare in un’altra commissione. Magari in quella di Vigilanza sulla Rai!». Quello che accadrà lo scopriremo nei prossimi giorni, ma il problema procedurale, tutt’altro che banale, rischia davvero di far scoppiare di nuovo il caso Villari e di costituire un precedente che può dar fastidio a molti, sia della maggioranza che dell’opposizione.
Il presidente della Camera e leader di An solleva il problema: «In Giunta due del gruppo misto: è uno squilibrio significativo intollerabile» nedì scorso, durante la conferenza dei capigruppo, il problema della presenza dell’ex portavoce udiccino nella Giunta per le autorizzazioni a procedere (di cui è anche vicepresidente). Il fatto è questo: Pionati, da quando non è più nel partito di Casini, è confluito nel Gruppo Misto che però ha già un suo rappresentante nella Giunta. Quindi, pallottoliere alla mano, Fini ha constatato che l’Udc ora si trova senza rappresentanza mentre il Gruppo Misto di membri nella Giunta ne ha ben due. «Uno squilibrio significativo e intollerabile» è stata la definizione del presidente della Camera, il quale ha esortato il presidente del
Il sindaco di Pescara, detto «il Fratacchione», sceglie l’isolamento monacale
La politica peccatrice va in convento l Fratacchione. Così è soprannominato il sindaco di Pescara che al secolo fa Luciano D’Alfonso. La vicenda politica e giudiziaria del sindaco della città di Gabriele D’Annunzio più o meno si conosce. È indagato per una storia di appalti e soldi di qua e di là, è stato arrestato in casa sua, si è dimesso, quindi è stato rilasciato, ha ritirato le dimissioni, ma ha presentato un certificato medico semestrale che gli consente di essere sindaco senza fare il sindaco, mentre tutte le deleghe e funzioni sono esercitate dal suo vicesindaco che così può portare avanti il duro lavoro della giunta più efficiente e prolifica d’Italia: 421 opere inaugurate in 70 mesi di amministrazione. Un miracolo.
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Il sindaco non è un santo, ma si è ritirato in convento. I monasteri, dopotutto, servono più ai peccatori che ai virtuosi e il Fratacchione, visto che in municipio non sarebbe stato tranquillo, ha deciso di ritirarsi in un eremo camaldolese, in Toscana, per ritrovare la pace dello spirito. La congregazione camaldolese fa parte dell’ordine di San Benedetto ed è stata fondata da San Romualdo nel secolo XI. La Regola, dunque, è quella notissima dell’ora et labora: prega e lavora. Ogni tanto qualche politico italiano si ritira in convento. Lo fece Prodi, il “cattolico adulto”, ma an-
che D’Alema, il “cattolico marxista”, Bondi frequenta spesso e volentieri i monasteri dell’Umbria. Il sindaco di Pescara è molto religioso e nel recente passato ha portato tutta la sua giunta in convento per un ritiro spirituale. Bisogna essere onesti e dire che, visti i frutti, la giunta ha trovato un vero e proprio “stato di grazia”. Cosimo dei Medici diceva «non si governa con i paternostri», ma erano altri tempi e oggi, del resto, non c’è nessun Machiavelli in giro che predichi la differenza tra la virtù politica e la virtù morale. Certo, si genera spesso e volentieri un po’ di confusione, la mano destra non sa cosa fa la mano sinistra, mentre la destra sa cosa fa la sinistra e la sinistra cosa la destra e una mano lava l’altra, ma ci si può passare sopra perché chi è senza peccato scagli la prima pietra e poi si sa che è molto più facile guardare la pagliuzza nell’occhio dell’altro piuttosto che la trave nel
proprio occhio. Le coscienze non si giudicano. Questa è materia esclusiva del Padreterno. Detto in modo laico: non si giudicano le intenzioni. Ciò che gli uomini di quaggiù possono giudicare sono solo le azioni: ciò che è visibile e che produce degli effetti. Massimo Brutti, commissario del Pd in Abruzzo (Enrico Morando, invece, è stato nominato commissario del Pd a Napoli: se continua così il povero Walter Veltroni dovrà spedire commissari in tutte le venti regioni d’Italia) il commissario Brutti - si diceva - quando ha saputo del ritiro conventuale di D’Alfonso ha voluto far sapere che lui si sarebbe comportato in altro modo: “Io non avrei agito così, avrei confermato le dimissioni”. Quelle dimissioni dalle dimissioni sono un po’ una macchiolina per il sindaco che si è fatto frate: si è ritirato momentaneamente dal mondo ma ha conservato il suo posto nel mondo e al comune dando così
l’impressione di fare il sindaco dal convento. Ma bisogna pur mettersi nei panni di Fratacchione: è vero che è indagato, ma è anche vero che già tante volte si è visto quel film in cui la magistratura indaga, l’indagato si dimette e poi con la prova del processo si scopre che non ci sono prove. Quindi le dimissioni non sono proprio un atto dovuto. Fino a prova contraria. Ecco, questo è il punto vero: fino a prova contraria. Ci sono o non ci sono le prove?
Ma perché il convento? La fede non si discute. Non si discute neanche il bisogno spirituale di trovare un po’di pace, di essere lontano dalla confusione. Lui stesso, Luciano D’Alfonso, alla vigilia di Natale ebbe a dire che doveva capire cosa era effettivamente successo. Tuttavia, il sindaco poteva anche scegliere di restare semplicemente al suo posto e mostrare con la sua azione amministrativa di che pasta è fatta la politica seria ed efficiente. Insomma, esiste o non esiste una politica capace di brillare di luce propria? C’è o non c’è una dignità che sia della politica e del politico o bisogna far ricorso ad una virtù ulteriore? La buona amministrazione, il rispetto della legge non sono tutto, ma sono pur qualcosa e il politico è chiamato a difendere il suo buon lavoro terreno perché è pur sempre dalla Terra che si guarda il Cielo.
panorama
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Proposte. L’Italia dovrebbe seguire l’esempio della Germania riducendo stipendi e orari di lavoro
Una settimana cortissima contro la crisi di Giuliano Cazzola l confronto sulla «settimana corta», se mai si aprirà, metterà in evidenza le differenze presenti nei diversi protagonisti. Le posizioni del Governo non sono le stesse dei sindacati, sicuramente non quelle della Cgil. Basta leggere quanto ha affermato il ministro Sacconi nelle più recenti interviste, durante la pausa festiva. Sinceramente preoccupato della possibile evoluzione della crisi e delle sue ripercussioni sull’occupazione, Sacconi sta lodevolmente facendo ogni sforzo per reperire un ammontare di risorse adeguato a fronteggiare la situazione attesa nei prossimi mesi, ancorché le dimensioni della crisi siano ancora una realtà da scoprire: nessuno si aspettava, infatti, delle festività natalizie caratterizzate da standard di consumi tutto sommato positivi, dopo anni subissati dalla retorica della «quarta settimana».
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Per il ministro la proposta della signora Merkel applicata all’Italia dovrebbe avere una precisa finalità: quella di responsabilizzare le parti sociali
Il ministro Sacconi vuole portare a quattro i giorni lavorativi. Ma lo Stato non può intervenire per colmare la differenza di retribuzione a cercare soluzioni, flessibili e articolate, a livello aziendale, attraverso nuovi regimi d’orario, senza precipitarsi subito a chiedere l’intervento dello Stato attraverso l’erogazione delle classiche prestazioni sociali a sostegno del reddito. Non a caso Sacconi ha esortato più vol-
te le imprese a non abusare degli ammortizzatori sociali. Lo ha fatto «parlando a nuora perché suocera intenda» ovvero perché anche i sindacati comprendano che il conto dell’emergenza non potrà essere inviato al solito Pantalone. In sostanza, laddove si stipuleranno
intese per lavorare quattro giorni alla settimana anche la retribuzione verrà ridotta proporzionalmente; e non sarà automatica l’integrazione da parte dello Stato che seguirà invece criteri di priorità. I sindacati, al contrario, pensano che si possa lavorare quattro giorni, ma a sostanziale retribuzione piena, in quanto saranno gli ammortizzatori sociali a colmare la differenza. A tale prassi ha fatto riferimento Guglielmo Epifani quando ha condizionato la disponibilità della Cgil al fatto che non ci fossero «furbizie». Del resto, il Governo non è in grado di trovare – se non in modo sperimentale gli stanziamenti che sarebbero necessari per estendere gli ammortizzatori sociali alle categorie che oggi ne sono prive, compresi coloro che non hanno rapporti di lavoro stabili. Il ministro Sacconi intende convincere la Ue e le Regioni sulla possibilità di impegnare parte del Fondo sociale europeo per finanziare interventi a sostegno del reddito e dell’occupazione, purché tali prestazioni abbiano anche un alto contenu-
to formativo e di ri-professionalizzazione. Non è detto che tale operazione abbia successo. Anche se l’esito sarà favorevole in via di principio, non sarà agevole sicuramente darvi corretta e puntuale applicazione.
Nell’immediato si porrà un problema di ripartizione di tali nuove risorse, in quanto c’è il rischio di trasferire al Nord (perché lì saranno il maggior numero di ore di cassa integrazione) risorse che, altrimenti restando confinate negli ambiti istituzionali, andrebbero in buona misura al Sud (dove magari resterebbero inutilizzate). Ci saranno poi da superare talune resistenze localistiche della Lega Nord che non vedrebbe di buon occhio l’istituzione di un fondo per l’occupazione, con forti contenuti di flessibilità, ma gestito a livello centrale. Comunque, sarà bene seguire lo svolgersi degli eventi, a partire dai prossimi giorni, quando, nella Commissione Bilancio della Camera, comincerà ad entrare nel vivo la discussione e la conversione in legge del decreto anticrisi.
Gea. Ieri il Tribunale ha colpito solo uno dei simboli del calcio. Che evidentemente aveva una “loggia” sospesa sul nulla
Se c’era la cupola, dov’è l’edificio? di Roberto Mussapi segue dalla prima Portato da Moggi in non giovane età alla Juve, vinse tutto e divenne campione del mondo. Moggi, più che della Juve è simbolo del dirigente capace e pensante (anche se arrogante): l’uomo che scopre e acquista, per poi rivenderlo dopo averlo reso famoso e averne ricevuto il massimo - a cifre astronomiche, Zidane, l’uomo che acquista Ibraimovic, che sceglie perfettamente e salva il bilancio. In questo senso, ha dimostrato di essere anche il simbolo del calcio intelligente. Non il simbolo della Juve, che lo precede e segue nel tempo e nel mito, ma nel suo specifico è stato il simbolo di una Juve vincente, e che quella Juve fosse vincente sul campo lo hanno riconosciuto anche campioni come i milanisti Costacurta e Gattuso, e che solo Moggi e la Juventus abbiano pagato, lo disse anche Francesco Totti.
qualche misura, venga prima o poi punita è fatale, ma questi sono i canoni della tragedia greca, certamente non quelli del diritto. E nella tragedia greca le sentenze sono affidate al Fato e al Coro, non a Moratti o Guido Rossi. Lo stile di Moggi non incontra il mio plauso, ma sul piano giuridico le accuse mosse erano di fatto inconsistenti, proprio come scrisse Enzo Biagi in un articolo che si tende a dimenticare. Per quanto riguarda il fatto che Moggi e Giraudo abbiano esagerato e che quindi bisognasse voltare pagi-
so, lo scudetto non andava dato all’Inter, anzi: gli scudetti vanno restituiti. Non dico che la linea di Moggi e Giraudo potesse andare aventi all’infinito. Sostengo solo, e mi sembra naturale, che tutti i dirigenti abbiano conoscenze con gli arbitri. Insomma, c’è chi ha contatti e sa gestirli con intelligenza, e chi invece non riesce a proprio ad amministrarli. Ma da qui a provare che nel caso Moggi ci siano stati dei condizionamenti, in termini precisi, c’è francamente un abisso. E infatti, non è stato provato. In conclusione, la Juve ha subito un vero e proprio golpe. Detto questo, la società avrebbe dovuto comunque prendere dei seri provvedimenti e uscire da una situazione di grandissima efficienza di mercato (Moggi, teniamolo ben presente, non aveva alle spalle un Moratti col portafogli sempre aperto, né le televisioni di Silvio Berlusconi, Moggi doveva difendersi) e di risultati, ma troppo ostile sul piano dell’immagine. Comprensibilmente ostile.
Sostenere che esista un “vertice” e che questo operi senza una base forte, è assai azzardato. E sul piano giuridico le accuse mosse erano inconsistenti
Durante l’inchiesta Gea si è parlato e da più parti gridato al “sistema-Moggi”. Io credo che esista, ma che in realtà sia la cupola di un“sistema”più generale. Sostenere che esista una cupola e che questa operi senza un edificio, è assai azzardato. Che Moggi e Giraudo siano stati arroganti, e questo lo dico da juventino, è fuori discussione; e che abbiano esagerato con l’arroganza mi pare evidente. Che l’arroganza, in
na, sono senz’altro d’accordo, ma solo rimanendo nei limiti di un’indagine obiettiva, non in una farsa che ha addirittura portato l’assegnazione di uno scudetto all’Inter, giunta in quell’anno terza e a 15 punti. E l’assegnazione, la decise Guido Rossi: noto interista che aveva anche ricoperto incarichi all’interno della società nerazzurra. Il“sistema”dunque esiste, eccome. Riferiscono ad esempio che Giacinto Facchetti, per altro grandissimo e amatissimo campione sul campo, aveva rapporti telefonici con gli arbitri, come possiamo immaginare li abbiano tutti i dirigenti delle squadre più o meno importanti. Che cosa c’è di strano? In qualunque ca-
La sentenza di ieri è a mio parere un’esagerazione che ha come scopo quello di colpire uno solo dei simboli del calcio di questi anni. Che, evidentemente, aveva una cupola sospesa sul nulla,“su fondamenti invisibili”.
il paginone
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Il direttore dell’Osservatore Romano sul rapporto cattolici-ebrei dopo le polemiche su Gaza ROMA. «Oggi il dialogo ebraico-cristiano non si è fermato. Non bisogna fare di singoli episodi o momenti anche di difficoltà un motivo di sospetto o addirittura d’interruzione di un processo di avvicinamento e di una mutua comprensione». Sono queste le parole conclusive del messaggio che l’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei (ne parliamo ampiamente qui a fianco) ha diffuso in vista della «Giornata dell’ebraismo».
Grande apertura dunque verso «i fratelli maggiori» e grande preoccupazione per la rinascita dell’antisemitismo: «In un mondo - osserva il documento - che accetta con facilità la logica della guerra, in un’Europa dove torna ad affacciarsi lo spettro dell’antisemitismo e la fobia dello straniero, che produce fenomeni di razzismo, i cristiani non possono tacere. La memoria della Shoah è un imperativo di coscienza... Profanazione dei cimiteri, attacchi alle sinagoghe e aggressioni sono preoccupanti, perché quando viene colpita una sinagoga è sempre un segnale di imbarbarimento, di cui tutti – non solo gli ebrei – finiscono per essere vittime». E ancora, ecco un passaggio particolarmente significativo: «L’antisemitismo facilmente si sposa con l’antisionismo o alimenta antichi pregiudizi». La lunga nota affronta problemi di natura storica e religiosa e non entra in quelli di più stretta attualità politica. Eppure sembra suonare come un’indiretta risposta alle durissime polemiche, dell’altro ieri, del cardinal Martino contro Gerusalemme e la sue più recenti scelte. L’altissimo prelato aveva definito Gaza «un campo di concentramento» e gli israeliani gli avevano risposto molto duramente: «Fare affermazioni che sembrano provenire direttamente dalla propaganda di Hamas non aiuta il processo di pace». Uno scontro al calor bianco che il documento vaticano di ieri cerca di spegnere usando i toni del dialogo interreligioso. Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, giudica il documento della Cei in occasione della giornata del dialogo fra cattolici e ebrei come «una summa di tutti gli argomenti che tradizionalmente fanno parte di questo rapporto. E testimonia della volontà da parte della chiesa di proseguirlo nel modo migliore». Sembra nuovo e particolarmente interessante però quel cenno all’«antisemitismo che facilmente si sposa all’antisionismo». Non so se sia del tutto nuovo. È comunque un’affermazione che farà piacere a molti ebrei e
«Il Vaticano è (e resta
colloquio con Giovanni Maria Vian di Gabrie questa è una dimostrazione della volontà cattolica di amicizia e di dialogo. Anche in presenza di alcune incomprensioni da parte ebraica. Allude alle recenti prese di posizione contro Pio XII? Certamente anche a questo. Anche perché alcuni giudizi su Papa Pacelli sono sul piano storico incomprensibili, destituiti di fondamento alla luce di nuovi studi e di ulteriori approfondimenti. Accanto a questa c’è stata la polemica seguita alla preghiera del venerdì santo. La decisione di sospendere da parte ebraica la partecipazione alla giornata del dialogo che va
avanti dal 1990. Ma il cardinal Martino non c’è andato leggero quando ha detto che Gaza è una sorta di campo di concentramento... Non credo che il cardinale volesse usare asprezze polemiche nei confronti di Israele come del resto lui stesso ha spiegato. Voleva solo sottolineare la gravità della situazione con particolare riferimento alle enormi difficoltà che stanno vivendo le popolazioni civili palestinesi della Striscia di Gaza. Israele però ha accusato il colpo e ha reagito con una dichiarazione durissima. Guardi, in questo momento di
tutto c’è bisogno tranne che di polemiche. È bene non aggiungere difficoltà a difficoltà e lavorare per il dialogo. Benedetto XVI nel suo discorso al corpo diplomatico ha fra l’altro sollecitato ebrei e palestinesi a scegliere governanti capaci e che operino per la pace. Il papa in pratica ha detto ai due popoli che anche dalle loro scelte dipenderà la possibilità di costruire un futuro migliore, di pace. Un richiamo alla responsabilità dei popoli di grande interesse. Lo slogan per la giornata della pace, che si svolge da oltre qua-
il paginone del Cardinal Martino
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Un importante testo della Cei in occasione della settimana di preghiera per l’unità
E arriva anche un documento per far pace con “i fratelli maggiori” CITTÀ DEL VATICANO. Dopo la polemica aperta su Gaza tra il Cardinal Martino e Israele, arriva un ocumento per far pace con i “fratelli maggiori”. «Oggi il dialogo ebraico cristiano non si è fermato. Non bisogna fare di singoli episodi o momenti anche di difficoltà un motivo di sospetto o addirittura di interruzione di un processo di avvicinamento e di mutua comprensione». Sono queste le parole conclusive del messaggio che l’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana ha diffuso ai delegati diocesani in vista della «Giornata dell’ebraismo» che dal 1990 la Chiesa italiana celebra ogni anno il 17 gennaio, alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Ed è abbastanza evidente che fra gli «episodi di difficoltà» possa esserci proprio l’incomprensione fra ebrei e cattolici sorte dopo le dichiarazione del Cardinal Martino, che aveva definito Gaza un «campo di concentramento». Come si ricorderà, le comunità ebraiche italiane avevano per quest’anno deciso di interrompere la par-
beatificazione di Pio XII. In ogni caso, la Cei ha deciso di celebrare ugualmente la giornata per il dialogo ebraico-cristiano proprio per dare un segno di buona volontà e di apertura nonostante le difficoltà alle comunità ebraiche italiane. «Occorre certamente fare ancora passi avanti sulla via della comprensione e del dialogo», si legge nel messaggio ma - si aggiunge - «c’è bisogno di af-
«Abbiamo bisogno di gesti di riconciliazione che mostrino che possiamo guardarci l’un l’altro con rispetto» Monsignor Mariano Crociata, il presidente della Conferenza episcopale italiana tecipazione alla giornata di dialogo con la Chiesa cattolica. Oltre alle incomprensioni di questi giorni, due sono le ragioni di fondo: il ritorno della messa in latino secondo l’antico rito di San Pio V rilanciata dalla Santa Sede nella quale vi è un esplicito invito alla conversione degli ebrei, e poi le roventi polemiche relative alla causa di
fermare, pur non disconoscendo le differenze, la necessità di non tornare indietro rispetto ai passi importanti compiuti in questi ultimi cinquanta anni». Il testo diffuso dalla Cei si intitola «Ebrei e cristiani. 19592009: mezzo secolo di dialogo». Nella sua ricostruzione storica, il documento parte dal Venerdì Santo del 1959, data in cui papa Giovanni XXIII «faceva omettere l’espressione “perfidi” dalla Preghiera pro Judaeis: fu un gesto - si legge nel
testo - che additò un’aurora di nuova speranza per i rapporti ebraico-cristiani». Il documento ripercorre le tappe e i documenti più importanti di questo dialogo. «Da parte cattolica - constata la Cei - esiste il compito immenso di permettere a questi documenti di passare nella riflessione teologica così come nella catechesi e nella mentalità quotidiana». Anche «da parte ebraica - si legge nel testo - sarebbe opportuno sviluppare una comprensione (teologica, si potrebbe dire) del cristianesimo e delle sue radici ebraiche perché si deve purtroppo riconoscere che anche nel mondo ebraico l’ignoranza del cristianesimo è tuttora diffusa».
«Oggi - si legge ancora nel messaggio - abbiamo ancora bisogno anche di gesti di riconciliazione che mostrino con chiarezza che cristiani ed ebrei sono diversi, ma si possono guardare l’un l’altro con rispetto, fiducia e stima, riconoscendo nell’altro la presenza di quel Dio unico, che si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai profeti e a Gesù Cristo, ebreo di Nazaret di Galilea, profondamente credente nel Dio dei padri».
a) grande amico di Israele»
ella Mecucci rant’ anni, è particolarmente efficace. Dice: «La pace è nelle vostre mani». Il richiamo di Benedetto XVI ha proprio questo significato. Quello di compiere delle scelte politiche che vadano nella direzione della pace. Il papa ha parlato anche della ripresa del dialogo fra Israele e Siria. Il suo è stato un discorso importante e molto concreto. Come lo titola e lo riassume l’Osservatore Romano di domani? Il titolo più forte è un virgolettato che dice: «Le armi non sono la soluzione, ogni violenza va sempre condannata». E poi: «Sicurezza e sviluppo sono oggi i nomi della pace». Ormai da
qualche tempo Benedetto XVI fa riferimento con continuità a due encicliche di Paolo VI: alla Populorum Progressio e alla Humanae Vitae. Quest’ultima è conosciuta come l’enciclica sulla pillola, ma in realtà è particolarmente importante tutta quella parte che lega la difesa della vita agli aspetti sociali. Paolo VI metteva in evidenza come il controllo delle nascite finisse col servire al benessere di pochi. Benedetto XVI sempre più di frequente lega la difesa della vita anche ad una meno iniqua distribuzione delle risorse. Una parte del suo discorso ha poi riguardato le persecuzioni nei confronti dei cristiani, come in
Iraq e in India. Ha indicato ai cattolici di mettersi al servizio della libertà e della pace. Il Vaticano nella vicenda Mediorientale spinge per il dialogo e per la mediazione. La diplomazia vaticana da oltre un secolo si muove Alle frontiere della pace: come recita l’efficace titolo di un bel saggio storico sull’argomento. Quindi, non c’è dubbio, che spinge verso la trattativa, verso il dialogo. C’è un’efficacissima frase di Pio XII che riassume in modo straordinario questo atteggiamento: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra».
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Guerra. Nel tredicesimo giorno di scontri, esplode un furgone delle Nazioni Unite. I razzi del Libano colpiscono Israele
L’Onu: via dalla Striscia Il Papa lancia un invito ai popoli: «Eleggete leader capaci e dediti alla pace» di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Un chiaro riferimento, quello pontificio, alle prossime elezioni politiche di Israele; la possibilità che il potere vada nelle mani dei falchi di Tsahal (il preparatissimo esercito di Gerusalemme), renderebbe impossibile la fine delle ostilità. Ma il Papa parla anche ai palestinesi, che hanno democraticamente eletto Hamas alla guida politica della Striscia, provocando così la legittimazione di un movimento fondamentalista che ha in statuto la distruzione della nazione limitrofa. E i risultati di questa incoscienza politica sono sotto gli occhi
avrebbero bisogno di cure urgenti. Cure che, almeno dall’Onu, non verranno più.
Ma la crisi sembra aggravarsi ogni giorno di più: il lancio di razzi dal sud del Libano verso Israele, avvenuto nella notte di ieri, ha provocato cinque feriti non gravi. Ma, soprattutto, ha fatto alzare il livello di tensione in maniera esponenziale fra i dirigenti israeliani, che temono la mano di Hezbollah. Questa, da parte sua, ha negato ogni coinvolgimento: il ministro libanese del Lavoro, Mohammed Fneish, esponente di spicco del partito islamico, ha specificato che Hezbollah «non era al cor-
L’Iran attacca i Paesi arabi per il loro silenzio sul confitto. E il ministro degli Esteri di Teheran vola in Siria per delle consultazioni (a porte chiuse) con il leader politico di Hamas in esilio, Khaled Meshal di tutti: dallo scorso 27 dicembre, primo giorno di raid aerei, sono rimasti uccisi 763 palestinesi: 3.120 feriti, 375 dei quali in condizioni gravi, che – dice il responsabile dei servizi sanitari di emergenza della Striscia –
rente del lancio di razzi Katyusha», in tutto tre, al quale Israele ha risposto con alcuni colpi di artiglieria. Tuttavia è necessario ricordare che quello di ieri notte è il primo episodio di conflitto al confine tra i due
Paesi da quando Israele ha lanciato l’offensiva Piombo Fuso. E la memoria corre alla guerra del 2006, l’unica nella storia durante la quale Gerusalemme non abbia ottenuto una piena vitoria sull’avversario. Proprio per scongiurare la possibilità di un nuovo allargamento del conflitto, l’Unione europea si è detta pronta a riprendere la sua missione al valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, se il conflitto nel territorio palestinese verrà risolto. Lo ha dichiarato da Ankara il capo della diplomazia europea, Javier Solana, che ha aggiunto: «Abbiamo detto sin dall’inizio del conflitto che siamo disposti a riprendere la missione se vengono fissate le modalità di un cessate il fuoco». Il diplomatico europeo ha precisato che una parte del contingente di questa missione, sospesa nel 2007, si trova ancora nella regione e ha sottolineato la necessità di modificare il suo mandato in base alle «nuove esigenze».
Secondo l’esercito israeliano, la zona del valico di Rafah conta circa 200 tunnel, che hanno permesso al territorio
sotto il controllo di Hamas di ricevere approvvigionamenti di vari prodotti malgrado il blocco dello Stato ebraico. Solana ha poi osservato che la decisione di Israele di inviare un emissario al Cairo per discutere di una tregua «ci ha permesso di vedere un po’ più chiaro in questo processo molto complesso». Nessun accenno, però, a una proposta di tregua presentata dall’Unione europea, a cui invece hanno fatto riferimento Nicolas
Il presidente francese annuncia: gli Usa non sono più l’unico modello e lancia un’altra iniziativa per Gaza
La svolta di Sarkozy, «le monde c’est moi» di Enrico Singer segue dalla prima In una fase della vita politica dell’Europa dominata dalle spinte centrifughe degli interessi nazionali che si riaffacciano e che rendono sempre più problematica la definizione di obiettivi e strategie comuni, a Sarkozy va riconosciuto comunque un grande merito. Quello di non arrendersi di fronte alle difficoltà e, in qualche caso, di fronte a vere e proprie sconfitte. Il semestre di presidenza francese della Ue era stato immaginato come una marcia trionfale che avrebbe dovuto tenere a battesimo il nuovo Trattato costituzionale: il “no” del refe-
rendum irlandese ha rovinato la festa. E l’invasione russa della Georgia ha messo a dura prova la capacità diplomatica della Ue e della Francia. Poi, proprio in chiusura del semestre, è arrivata la guerra nella Striscia di Gaza. Anche in questa drammatica crisi ancora aperta Nicolas Sarkozy ha cercato di conquistarsi una parte da protagonista. A costo di duplicare la missione della troika europea che lo precedeva di qualche ora nei colloqui con gli stessi interlocutori. E anche adesso che il tanto propagandato “piano franco-egiziano” concordato appena venerdì scorso con Hosni Mubarak sem-
bra già fallito, ecco che il presidente francese nell’incontro di ieri con Angela Merkel ha preannunciato un’altra «iniziativa comune» - questa volta franco-tedesca - per arrivare alla tregua. Su una base condivisibile: dare la garanzia a Israele che Hamas non riceverà più armi attraverso la frontiera con l’Egitto e consentire, così, il ritiro israeliano da Gaza. Tutto bene, allora? Sì, se non fosse per quella voglia di battezzare sempre le iniziative con quel franco-egiziano, o franco-tedesco. Certo, mettere d’accordo tutti gli europei su una linea è impresa ardua, ma sarebbe molto più utile: non fosse altro che
per chiarire prima di tutto tra noi qual è la strada giusta da seguire.
Ma Sarkozy ieri era in vena più di lezioni che di laboriosa azione diplomatica. Il messaggio che ha voluto lanciare al presidente eletto Barack Obama, è altrettanto esemplare. «Ho sempre sostenuto l’alleanza con gli Stati Uniti, ma bisogna essere chiari: non c’è più un solo Paese che può dire ciò che bisogna fare o ciò che bisogna pensare. Se gli Usa accompagneranno il cambiamento, sarà un fatto positivo, ma non accetteremo l’immobilismo o il ritorno al pensiero unico». Naturalmente, Sarko-
Sarkozy e Angela Merkel nel convegno che si è svolto ieri a Parigi.
Una forte critica ai Paesi arabi è giunta inoltre, dalla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, che ha attaccato i Paesi limitrofi per quello che ha definito il «silenzio sull’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza», chiamandoli a «mobilitarsi e a reagire al dispotismo dello Stato ebraico, che minaccia tutta la regione».
mondo
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Prende forma la minaccia iraniana del secondo fronte contro Israele
Lampi sul Libano, Unifil alza la guardia colloquio con Andrea Tenenti di Pierre Chiartano l fronte libanese sembra scaldarsi a causa del nuovo conflitto di Gaza, come aveva anticipato liberal il 6 gennaio, dopo il ritrovamento avvenuto il 26 dicembre di un lanciatore katiuscia, nella zona di Naqoura, con otto missili da 122 e 105 mm inseriti. Proprio a pochi chilometri dalla base di Unifil 2, comando del settore ovest sotto la responsabilità del generale dell’Esercito Claudio Graziano. L’apertura di un secondo fronte era stata annunciata dall’Iran, diversi giorni prima dell’inizio dell’operazione Cast Lead (piombo fuso). L’azione militare con cui Tsahal, l’esercito israeliano, voleva porre fine ai lanci di missili da Gaza e azzerare le capacità militari di Hamas. Tre razzi lanciati dalla stessa area, ieri mattina, hanno colpito alcune zone residenziali di Naharya e Shelomi non lontano dal confine meridionale col Libano, nella zona più vicina alla costa. Attraverso i media c’è stata una rivendicazioni di un gruppo palestinese, e nessun cenno da parte dei seguaci di Nasrallah. Difficilmente però in quella zona ci si può muovere, quantomeno senza l’avallo di Hezbollah. Abbiamo chiesto a uno dei portavoce della missione Onu Unifil2, Andrea Tenenti, di chiarire il quadro degli eventi e il livello di tensione, che potrebbe sfociare in un conflitto aperto. Da dove sono partiti i razzi? Ciò che possiamo confermare al momento è che tre razzi sono stati lanciati su Israele, partendo da un area che si chiama Trayr Harfa, circa 7 chilometri ad est di Naqoura (che si trova sulla costa, vicino al confine, ndr), dove c’è la base Unifil. Immediatamente dopo le forze armate israeliane hanno risposto al fuoco nella zona di lancio. Subito dopo, coordinandosi con le forze armate libanesi, Unifil ha intensificato i pattugliamenti e il livello d’allerta, che già era stato incrementato nei giorni scorsi. Cosa è stato trovatoa Tayr Harfa, il lanciatore è stato colpito dalla reazione israeliana? C’è un’investigazione in corso, quindi non siamo ancora in grado di dare una risposta precisa. Stiamo ancora verificando le circostanze dell’incidente. Non c’è stata ancora una rivendicazione ufficiale. Hezbollah non rivendica? Siamo i contatto con le parti coinvolte che non ci hanno comunicato ancora niente. Sulle dichiarazioni fatte invece ai media non possiamo dire nulla. Per noi non c’è nessuna rivendicazione. Può essere ipotizzabile che sia stata un’azione di gruppi palestinesi vicini ad Hezbollah?
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Scene di guerra dalla Striscia: 763 palestinesi morti, 3.120 feriti. Sotto, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. A lato, soldati della missione Unifil di stanza in Libano L’appello di Khamenei ha coinciso con l’importantissima visita compiuta da Ali Larijani, il presidente del Parlamento iraniano, in Siria, alleato strategico della Repubblica islamica e sostenitore insieme a Teheran dei principali movimenti di opposizione ad Israele. Hamas e Jihad islamica tra i palestinesi e gli sciiti di Hezbollah in Liba-
zy si è anche augurato «di tutto cuore» che Barack Obama porterà alla Casa Bianca «la sua intelligenza, il suo dinamismo e le sue aperture». Ma, altrimenti, il futuro presidente americano è avvisato: Sarkozy è pronto a dargli i voti. Soprattutto in economia. «A Bretton Woods, nel 1945, c’era una sola moneta, il dollaro, che ha costruito la prosperità del mondo. Nel 2009 le monete sono varie e bisogna discutere come ognuno gestisce la propria e l’andamento dei tassi d’interesse». Le regole dell’economia mondiale, insomma, per Sarkozy vanno rifondate. «Avremo bisogno che la Cina porti la sua forza di traino, che il Brasile faccia la sua parte, che l’Africa sia associata allo sviluppo». Anche qui, poco da dire: le osservazioni del presidente francese sono condivisibili nella sostanza. Peccato che nella forma, ancora una volta, prevalga quella
no. Larijani, che ha aperto la sua missione con un colloquio con il presidente siriano Bashar al Assad, ha poi avuto un incontro, protrattosi fino a tarda notte nell’ambasciata iraniana, con il capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal. A ennesima dimostrazione che dietro proprio dietro Gaza c’è Teheran.
logica del le monde c’est moi. «Con Angela Merkel ci vedremo presto a Berlino per preparare il vertice del G20 che si terrà il 2 aprile a Londra», ha annunciato Sarkozy al fianco del cancelliere tedesco che ha incontrato a quattr’occhi all’Eliseo prima del colloquio “Nuovo mondo, nuovo capitalismo”. E con la Merkel al fianco, Nicolas Sarkozy ha lanciato anche il suo personale monito a Putin sulla guerra del gas. «La Russia ha degli obblighi contrattuali con i Paesi europei che deve rispettare». E, per chiudere la sua giornata da re Sole, anche la rivendicazione dei meriti conquistati nei confronti di Kiev: «L’Europa ha fatto molto per l’Ucraina che, proprio sotto la presidenza francese della Ue, ha ottenuto lo status di partner privilegiato. A questo punto non resta che russi e ucraini si mettano d’accordo». Purtroppo non è poco.
Vaglieremo tutte le ipotesi possibili, non tralasciando nulla. L’investigazione sarà a 360 gradi. Per ora è troppo presto parlare di responsabilità. È importante che siano stati intensificati i pattugliamenti, non solamente i nostri, ma anche quelli delle forze libanesi che hanno inviato nuove unità militari qui nel sud. Il comandante della missione Unifil, il generale Graziano, sta mantenendo continui contatti con le parti, sia quelle libanesi che israeliane. Un attività di prevenzione di una possibile escalation della tensione. È importante che entrambe le parti abbiano confermato a Graziano l’impegno per mantenere la cessazione delle ostilità e per l’implementazione della risoluzione 1701 dell’Onu. La zona dove sono stati lanciati i razzi è la stessa dove è stato trovato il lanciatore katiuscia, il 26 dicembre? Sì, non è lontana. È di competenza dell’esercito italiano? Ci sono due settori nella nostra zona d’operazione. Quello est e quello ovest. Il primo in mano agli spagnoli e l’altro comandato dagli italiani. Sotto i nostri ordini ci sono unità francesi, ghanesi e contingenti di molte altre nazionalità. Quindi era l’area sotto il comando italiano e gestita dal contingente del Ghana. La risposta immediata di Israele può significare che se l’aspettassero? È un sistema di risposta automatico, non mediato, un sistema di difesa abbastanza sofisticato. Abbiamo però continui contatti ufficiali col governo libanese, sono il partner principale dell’Unifil nel mantenimento del quadro di sicurezza dell’area. Si è notato un aumento della tensione con le comunità locali? No, la nostra presenza è massiccia, quasi 13mila uomini più le forze libanesi. Logicamente non possiamo parlare per ciò che riguarda i campi palestinesi situati nella nostra zona e di cui non abbiamo il controllo. Non possiamo presidiare l’interno dei campi. Negli ultimi due anni, eccetto qualche piccolo incidente, la situazione è rimasta stabile. Grazie anche all’esercito libanese che garantisce la sicurezza e la legalità nel sud del Paese. Noi lavoriamo in coordinamento con loro. Comunque – ancora prima dell’inizio dell’operazione Cast Lead - sembra che questo nuovo scenario di minaccia al Nord per Israele, fosse stato preannunciato da Manouchehr Mottaki, ministro degli esteri iraniano e già ambasciatore in Turchia, che aveva chiamato diversi colleghi europei, avvisandoli che Israele avrebbe dovuto affrontare presto un secondo fronte. Come sembra che stia avvenendo.
Tre razzi sono stati lanciati su Israele, partendo da un’area che si chiama Trayr Harfa, circa 7 chilometri ad est di Naqoura, dove c’è la base Unifil
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Scenari. Non è pensabile che l’operazione Piombo fuso distrugga del tutto l’estremismo palestinese. Ecco perché serve altro
Due proposte per Gaza La Striscia di nuovo nelle mani del Cairo o Hamas sotto gli occhi della Lega araba di Daniel Pipes a guerra di Israele contro Hamas solleva un vecchio dilemma: che fare dei palestinesi? Gli Stati occidentali, incluso Israele, devono porsi degli obiettivi per riuscire a capire quale linea politica adottare nei confronti della Cisgiordania e di Gaza. Innanzitutto, passiamo in rassegna ciò che sappiamo possa o non possa funzionare. Controllo israeliano: nessuna parte vuole il procrastinamento della situazione iniziata nel 1967, quando le Forze di difesa israeliane assunsero il controllo di una popolazione diversa a livello religioso, culturale, economico e politico. E ostile. Uno Stato palestinese: gli Accordi di Oslo del 1993 iniziarono questo processo, ma una tossica mistura di anarchia, estremismo ideologico, antisemitismo, jihadismo e dittature ha portato al totale fallimento palestinese. Uno Stato binazionale: vista la reciproca antipatia che intercorre tra le due popolazioni, la prospettiva di un congiunto stato israelo-palestinese (ciò che Muhammar Gheddafi chiama “Israstina”) è assurda, a quanto pare.
L
Riportare la situazione alla gestione mista di Egitto e Giordania non entusiasma gli animi. Ma è l’unica strada per evitare il conflitto israelo-palestinese e gli scontri che ne derivano Se si escludono queste tre prospettive resta un solo approccio pragmatico, quello che ha funzionato abbastanza bene nel periodo 1948-67: un condiviso governo giordano-egiziano. Amman governa la Cisgiordania e il Cairo governa Gaza.
S i c u r a m e n t e , q u e s t o approccio da ritorno al futuro suscita poco entusiasmo. Non solo il governo giordano-egiziano era mediocre, ma resuscitare questo piano ostacolerà gli impulsi palestinesi, che siano nazionalisti o islamisti. Inoltre, Il Cairo non ha
mai voluto Gaza e ha respinto con veemenza la sua restituzione. Di conseguenza, un analista accademico accantona questa idea come «un’evanescente illusione che riesce solamente ad offuscare scelte reali e difficili». Non è così: i fallimenti di Yasser Arafat e
Con il controllo internazionale della zona, Israele può mettere all’angolo gli estremisti
In questa guerra serve un esercito. Arabo di Osvaldo Baldacci serciti arabi a Gaza. Dopo 40 anni. Potrebbe essere una soluzione per la Striscia. Può sembrare strano, ma potrebbe anche essere quello che vuole Israele. Una soluzione difficile, rischiosa, ma che porterebbe alcuni vantaggi alla sicurezza di Israele. Gli unici vantaggi che forse spiegherebbero l’intensità di un’operazione militare come “Piombo fuso”. I motivi più evidenti alla base dell’azione armata sono noti. La pioggia di razzi palestinesi - e libanesi - che minaccia il
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sud di Israele è una costante sfida prima che un pericolo.
Difficilmente un Paese può accettare che impunemente si tenga sotto scacco una parte della sua popolazione. E allo stesso tempo non si può nascondere che le imminenti elezioni giochino un ruolo importante nella decisione di attaccare: se Kadima è un partito nato sulla volontà di portare avanti il processo di pace anche a costo di difficili concessioni, per essere credibile (e vincente) deve dimostrare di
non voler scendere comunque al di sotto di una certa soglia. E di essere capace di menare le mani, non meno del Likud. Ci sono poi circostanze internazionali: prima fra tutte la transizione tra Bush e Obama a Washington, con entrambi i presidenti americani meno interessati a dire la loro in questo periodo. Hamas poi ha creato l’opportunità, dichiarando finita la tregua che era stata concordata. Tutto questo potrebbe spiegare i motivi e gli obiettivi dell’attacco israeliano, ma restano
dubbi che non trovano risposte davvero esaurienti. Leader come Tzipi Livni hanno dichiarato di voler rovesciare Hamas. Davvero ritengono sia possibile farlo con una delle purtroppo cicliche azioni militari a Gaza?
Israele non può ottenere una vera e duratura vittoria militare contro Hamas: è semplicemente impossibile azzerare un movimento armato di guerriglia, diffuso sul territorio, nascosto nelle aree urbane più densamente popolate del
di Mahmoud Abbas, dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e del “processo di pace” hanno causato dei ripensamenti in Amman e Gerusalemme. In effetti, nel 2007, Ilene R. Prusher di Christian Science Monitor aveva già rilevato che l’idea di una confe-
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questa idea, chiedendo di tanto in tanto alle truppe giordane di entrare in Cisgiordania. Disperando dell’autogoverno, alcuni palestinesi accolgono favorevolmente l’opzione giordana. Un anonimo funzionario dell’Anp ha detto a Diker e Inbari che quella forma di federazione o di confederazione offre «l’unica soluzione ragionevole, stabile e a lungo termine al conflitto israelopalestinese». Hanna Seniora ha opinato che «le attuali prospettive svigorite per una soluzione a due Stati ci costringono a rivedere la possibilità di una confederazione con la Giordania». Hassan M. Fattah del New York Times riporta quanto asserito da un palestinese che vive in Giordania: «Tutto è andato distrutto per noi. Sarebbe meglio se fossero i giordani a
leader israeliani talvolta sono d’accordo. Pertanto, la base per una revisione della linea politica esiste. In secondo luogo, indubbiamente Gaza fa più parte dell’Egitto rispetto alla “Palestina”. Durante la maggior parte del periodo islamico, essa era controllata dal Cairo, ovvero faceva parte a livello amministrativo dell’Egitto. I residenti della Striscia di Gaza parlano un arabo colloquiale identico a quello parlato dagli egiziani del Sinai. A livello economico, Gaza ha il maggior numero di legami con l’Egitto.
L a s t e s s a H a m a s deriva Fratelli musulmani, dai un’organizzazione egiziana. È il momento di pensare agli abitanti della Striscia di Gaza come egiziani? In terzo luogo, Gerusalemme
Una simile leadership trasformerebbe la Striscia da spina nel fianco a protettorato di fiducia. E favorirebbe con forza la reintroduzione graduale delle istituzioni dell’Anp. Che vuole la pace occuparsi della Palestina, se Abdullah assumesse il controllo della Cisgiordania».
derazione cisgiordana-giordana «sembra aver ottenuto consensi da entrambe le rive del fiume Giordano».
Il governo giordano , che nel 1950 annesse entusiasticamente la Cisgiordania e abbandonò le sue rivendica-
mondo, con una forte presa ideologica. Lo si può spingere a rimettere la testa nelle tane per qualche tempo, ma non si può annientarlo. E il lancio di razzi può davvero essere l’obiettivo finale dell’attacco? L’attacco ha sicuramente intaccato le scorte di Hamas e danneggiato la sua logistica. Ma facciamo due conti: Israele non vuole rioccupare Gaza, e gli ultimi razzi palestinesi sono arrivati a 45 chilometri. Non servono postazioni fisse per lanciarli.
Quindi è presumibile che il lancio possa prima o poi ricominciare più o meno come prima. Inoltre i razzi sono sì un incubo per Israele, ma come prevedibile hanno causato meno vittime israeliane dell’offensiva in corso. Inoltre
zioni solamente sotto minaccia nel 1988, dà segni di ripensamento. Nel 2006 Dan Diker e Pinchas Inbari per conto del Middle East Quarterly documentarono come «la mancata rivendicazione del controllo [da parte dell’Anp] e il fatto che [essa] sia
l’offensiva può esacerbare gli animi e spingere i palestinesi a passare di nuovo dai razzi agli attentati suicidi, ben più pesanti per Israele. E allora quale sarebbe il guadagno? Israele può permettersi il rischio di vedere presi in ostaggio altri suoi soldati, se da più di due anni non è riuscito a riavere indietro il caporale Shalit (che forse anche stavolta potrebbe non essere liberato)? E persino dal punto di vista dell’opinione pubblica l’offensiva terrestre sta erodendo il consenso che aveva l’azione aerea. Una speranza israeliana è forse anche quella di spingere la popolazione palestinese a ribellarsi ad Hamas, ma i moderati in queste situazioni sono spinti all’angolo, e certo Abu Mazen e Fatah non possono tacere di fronte alle
diventata un’entità politicamente vitale hanno indotto Amman a riconsiderare se una strategia di non-intervento nei confronti la Cisgiordania sia nei suoi primari interessi». La burocrazia israeliana si è altresì mostrata disposta ad accettare
sofferenze dei palestinesi di Gaza, né accettare di riprendere il potere grazie alle armi israeliane. Restano quindi alcuni dubbi sull’efficacia di questa azione militare in grande stile. È possibile che Israele si accontenti davvero di mettere Hamas nell’angolo.
O che sia in cerca di una exit strategy che scaturisca da una collaborazione internazionale. Ma una via di uscita ci potrebbe essere. E chissà che Israele non abbia deciso di ottenere proprio questa. Forze internazionali nella Striscia di Gaza. Da sempre Israele è stato contrario a soldati stranieri, ma negli ultimi mesi ha cambiato atteggiamento. E oggi quei contingenti potrebbero essere una garanzia di sicurezza. Persino o
E non è questa una voce isolata: Diker e Inbari riportano che i negoziati paralleli tra l’Anp e i giordani del 2003-04 «sfociarono in linea di massima in un accordo che prevedeva l’invio di tremila membri della Forza Badr» in Cisgiordania. E pur se il presidente egiziano Hosni Mubarak ha annunciato un anno fa che «Gaza non fa parte dell’Egitto, né lo sarà mai», la sua non è l’ultima parola. Innanzitutto, malgrado le parole di Mubarak, gli egiziani in massa desiderano avere un forte legame con Gaza; Hamas concorda e i
forse specialmente se fossero soldati arabi. Fino a che punto è da vedere: la capacità di un contingente internazionale di fermare Hamas è tutta da verificare, e la permeabilità di eserciti arabi sarebbe altissima. E Israele non ama affidare la propria sicurezza ad altri. Ma dal punto di vista politico Israele potrebbe ottenere molto. Non volendo occupare Gaza, altri la occuperebbero per lui. Se Gaza viene lasciata a se stessa la situazione ritornerebbe ciclicamente la stessa. Con forze internazionali la gestione della Striscia sarebbe di fatto affidata a un commissariamento. Meglio una Gaza governata da Paesi arabi amici che da Hamas. Le forze presenti sarebbero politicamente coinvolte nella responsabilità della sicurezza di
potrebbe superare in strategia Mubarak. Se essa annuncerà una data in cui porrà fine agli approvvigionamenti idrici, all’erogazione di elettricità, alle forniture di cibo e medicinali, e ad altri scambi commerciali, il Cairo dovrebbe assumersi la responsabilità di Gaza. Tra gli altri vantaggi, ciò lo renderebbe responsabile della sicurezza degli abitanti di Gaza, mettendo definitivamente fine alle migliaia di razzi e di attacchi a colpi di mortaio. L’opzione giordano-egiziana non vivifica alcun impulso, ma ciò potrebbe essere il suo pregio. Essa offre un modo eccezionalmente sensato per risolvere il “problema palestinese”.
Israele, che avrebbe qualcuno cui chiedere conto. Nella attuale situazione internazionale, al di là delle dichiarazioni di facciata, Israele e molti Paesi arabi stanno dalla stessa parte, in contrapposizione all’Iran, all’estremismo islamico, alla stessa Hamas.
Hanno gli stessi interessi strategici. Per cui un controllo arabo e internazionale di Gaza trasformerebbe la Striscia da spina nel fianco e piattaforma integralista e filo-iraniana a protettorato sotto controllo amico, e favorirebbe la reintroduzione graduale delle istituzioni dell’Anp, con cui è possibile trattare la pace. Potrebbe essere questo l’obiettivo del governo israeliano? *senior analyst Ce.S.I.
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L’intervista. La sorella di Vittorio, direttrice editoriale Bompiani per professione (e affermata regista per vocazione), si racconta a trecentosessanta gradi
Una Bjork all’italiana «Sono come il titolo di un mio libro: gelosa e tranquilla» Viaggio nel favoloso mondo di Elisabetta Sgarbi colloquio con Elisabetta Sgarbi di Fulvio Benelli arlare del sacro. Attraverso le immagini, attraverso le parole, attraverso l’arte. «Perché si può dire che ogni cosa che facciamo è sacra, ogni approccio è mistico». Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale di Bompiani per professione e regista per vocazione ha appena presentato al teatro Comunale di Ferrara il suo film Non chiederci la parola. Una proiezione che, nell’appartata scena culturale ferrarese, è risuonata come un evento da ricordare. Difficile vedere sotto lo stesso “tetto” personaggi come Franco Battiato, Umberto Eco, Toni Servillo e Vittorio Sgarbi. «Anche se vivo e lavoro a Milano, Ferrara è sempre nel mio cuore. E’ qui che sono nata e cresciuta ed è qui che ancora vivono i miei genitori e molte persone a me care». Il forte senso di appartenenza ai propri luoghi d’origine si evince anche dalla dedica del film alla zia Romana Cavallini, recentemente scomparsa. Insegnante di chimica e geografia presso il liceo scientifico Roti di Ferrara, la Cavallini è stata in vita anche un’apprezzata poetessa. La sua opera E venne una donna angelica è ora alle stampe, con una prefazione della stessa Elisabetta scritta insie-
P
me al fratello Vittorio. «L’unione con mio fratello è molto solida. C’è una profonda intesa tra di noi. Tanto per fare un esempio, è lui che mi ha suggerito il titolo da dare al film, Non chiederci la parola, prendendo in prestito un famoso verso di Eugenio Montale». La pellicola, seconda di una trilogia cominciata con i Compianti rinascimentali dell’Emilia Romagna, è dedicata a quella specie di «città sacra ideale» che sorge sulla sommità del monte di Varallo, tra la Lombardia e il Piemonte, che dal 2003 è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. «Statue di ossa e carne, i cui gesti tagliano l’aria, inesorabili, per arrivare davanti a noi a dirci la loro storia, la loro straziata passione». Il Sacro Monte sorse per iniziativa del Beato Bernardino Caimi, che, di ritorno dalla Terra Santa alla fine del 1400, volle ricreare, in piccolo, i luoghi della Palestina. Il complesso degli edifici, una cinquantina circa, è stato costruito nel corso di un paio di secoli. Le cappelle rappresentano, con 4.000 affreschi e con 400 gruppi di statue, scene della vita di
Gesù e di Maria. «Un luogo che tutti dovrebbero visitare, per non privarsi della gioia unica che dà la visone di questi sacri silenzi», ha ricordato Vittorio Sgarbi nella lectio d’introduzione. Incontro Elisabetta che la proiezione si è conclusa da poco. Fuori il teatro c’è il freddo e la nebbia dell’inverno ferrarese. Dentro, la pellicola ha acceso gli animi. Un’ora intensa di immagini, un lungo divampare di emozioni e sensazioni, come testimonia il lungo applauso
“
prio nel momento in cui quelle statue-persone ci svelavano di essere vive, colme di passione e emozioni. Cos’è per lei l’immagine? L’immagine non è soltanto il contenuto visivo in sé ma, insieme, ciò che è visto, sentito, pensato, udito. Un luogo di raccolta dei sensi, nel più ampio significato possibile. Cosa vede e mostra la telecamera che non può la parola? L’immagine messa in risalto attraverso specifiche scelte di re-
Scelgo uno scrittore da pubblicare basandomi sul mio fiuto. I grandi editori del passato si comportavano così. Senza dimenticare il ruolo centrale della passione tributato all’artista alla fine del film. «Ci siamo avvicinati là, dove gli occhi del visitatore non possono arrivare, oltre le grate, i vetri, i confini che proteggono e allontanano queste statue, questi dipinti, queste persone, mi verrebbe di dire, e ci siamo confusi con essi, abitando le loro case, cappelle, e incontrando uno per uno tutti i personaggi di questa folla pietrificata». Elisabetta, perché ha scelto di fare questo film? Il mio è stato un percorso quasi iniziatico in un teatro “dell’anima”. E’ una storia sacra tutta umana quella che il Sacro Monte, nei capolavori di Gaudenzio Ferrari, Tanzio da Varallo, di Gherardini, di Morazzone, di Ceranino ci consegna, e che lo sguardo-cinema, come in una salita, si affanna a voler cogliere. Questo è indubbiamente un film difficile. Parlo della fruizione. E’ stato altrettanto difficile da girare? Moltissimo. A partire dalle luci che non ci volevano far tenere accese. Abbiamo lavorato quasi al buio. Le condizioni erano proibitive, anche quelle climatiche. Come si vede nel film nevicava incessantemente. Eppure quella neve ci ha dato forza. Perché sembrava cadere pro-
”
gia, si impone immediatamente, quasi prima del pensiero, eppure lo sollecita. Non si può chiedere di più. L’espe-
rienza cinematografica, in tale senso, è un’esperienza totale. Certe cose, certi temi, direi anzi certe nuance del pensiero, ormai si pongono proprio come fenomeni visivi. Come spettatrice mi affascina il sentimento espresso con l’ossessività e meticolosità dei grandi maestri del cinema. Aleksandr Sokurov, per fare un nome. La fotografia del film, sobria e carica allo stesso tempo, tutta tagli di luci e
suggestioni crepitanti di colore, è firmata da Daniele Baldacci, direttore della fotografia anche degli ultimi film di Battiato. Che, non a caso, firma le musiche del film. Poi ci sono le collaborazioni con Battiato, Sgalambro, Cunningham, Kureischi, Houllebeq... salta agli occhi che le piace collaborare, unire, mescolare. Sì, è vero, mi piace mescolare le carte, fare appello alla diversità, alla differenza. E’ anche un modo per indicare che il sapere, quale che siano le sue forme, non è un’unità, ma un insieme eterogeneo, un qualcosa che cresce alimentandosi della propria complessità di base. Tutto scorre, certo, ma non in modo unilaterale o continuo. Perché il cinema non dovrebbe riflettere la molteplicità a tutti i livelli della vita e della storia? Io cerco semplicemente di segnalare tale molteplicità, e lo faccio naturalmente secondo una certa angolazione prospettica. Il cinema è sempre un fatto di prospettiva, come tutta l’arte. In Non chiederci la parola, a fare da contraltare alle immagini, ci sono “le preghiere”di Giovanni Testori, “circondate” dai testi di Umberto Eco, Petros
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Markaris, Sebastiano Vassalli, Vittorio Sgarbi. La voce narrante è quella di Toni Servillo: «Angeli e donnemadonne colmi di luce, labbra straripanti di tenerezza e d’amore come se la
Domanda inversa alla precedente. Cosa le dà invece la parola che non può il cinema? La parola è la prosa del mondo. Conferisce una struttura
organica alle idee, mentre il cinema procede spesso mediante folgorazioni intuitive. Le due cose, poi, si implicano a vicenda. Per questo ho definito “cinema di parole” una parte rile-
Lei, in quanto direttrice artistica di un’importante casa editrice, si confronta anche con le parole degli altri. Come sceglie un nuovo scrittore da pubblicare? Mi affido molto al fiuto personale. Il talento lo si può riconoscere a vista, credo. I grandi editori del passato si comportavano proprio così. Senza dimenticare il ruolo centrale svolto dalla passione. Se non si ama questo lavoro, è meglio farne un altro. Si può conciliare oggi qualità e vendibilità? Ho detto spesso che le due cose non sono divergenti in linea di principio. Un prodotto di qualità ha il suo pubblico naturale, ma anche il prodotto prevalentemente commerciale ha la sua “forma”, ubbidisce a un criterio ottimale. In altre parole, come diceva paradossalmente il grande editore francese Bernard Grasset, si può soddisfare in modo intelligente ogni bisogno, fosse pure il più “popolare”: bisogna farsi “avvocati della mediocrità accettabile”. E si torna sempre a ciò che dicevo prima sul fiuto e sullo stile. Qual è il valore, in campo artistico, che ritiene più importante? La misura. Che non è un comportamento o un gesto accettati da una maggioranza di persone, ma un comportamento e un gesto misurati sulla base dell’idea che si ha delle cose o dello scopo che si vuole raggiungere. Elisabetta, nel 1990 insieme a Pier Vittorio Tondelli fondò Panta, rivista di let-
poesia potesse salire fino al cielo. La grana di un colore montano tiepido e lucente. Affreschi che vivono di palpitante grandezza e festosa gioia dei particolari. Uomini dei monti, uomini provenienti dai più dispersi e lontani paesi in una semplice e potente immagine di sé».
Sopra, un’immagine del film “Non chiederci la parola” e a sinistra, la locandina di “Notte senza fine”, entrambi della regista e direttrice editoriale Bompiani, Elisabetta Sgarbi (a sinistra e, sopra, con il fratello Vittorio)
vante della mia attività registica. D’altronde, nell’immagine è già contenuta la parola, come presupposto tacito. Penso che visione e parola sono complementari, come lo sono le discipline cui si riferiscono. Non abusando né dell’una né dell’altra ne può derivare una reciproca amplificazione.
teratura non letteraria. E’una rivista che spazia nei generi, abbraccia letteratura e saggistica. Quest’anno poi, con PantaVisioni, ci siamo inoltrati nei sentieri del cinema, creando e dando risalto proprio a quel connubio fra parola e immagine di cui si parlava prima. Ho chiesto a scrittori e intellet-
tuali di raccontare il loro cinema, i loro film più amati. Lei ha ideato inoltre, e da nove anni ne è direttore artistico, il festival internazionale La Milanesiana -Letteratura Musica Cinema. Il motto della prima edizione è stato: nani sulle spalle dei giganti. L’abbiamo usato come un talismano, visto che ci occupavamo di un’arte oggi poco praticata: la poesia. Grandi ospiti internazionali intervenuti e la poesia, oggi trascurata anche dagli editori, più gigante dei giganti. Risultato: successo inaspettato. E del resto nelle sue opere c’è molta poesia. Letta, talvolta, ma soprattutto incastonata nelle immagini da guardare. Perché, secondo lei, questo genere trova così tante difficoltà? E’ una forma di esperienza così evanescente, per natura, che necessita di canali di comunicazione molto orientati. Io, per esempio, le dedicai un intero numero di Panta, dal titolo “Amori in versi”. Ma certo non è un genere per la massa. Lei appare molto moderna, anche nel look, sembra una specie di Bjork in salsa tricolore. Eppure ha l’eclettismo e le vocazioni degli uomini del Rinascimento. Come concilia queste due nature? Se uno stile di pensiero è come un abito, allora posso dire che, variando non molto sulla foggia dell’abito, ne cambio però spesso i colori. Fuor di metafora, amo scegliere strumenti diversi per diffondere una voce, la mia. Che cos’ha la sua voce di diverso dalle altri voci? In altri termini: cosa sente di avere da dire che può dire solo lei? Rispondo con i versi di una poesia di Montale, proprio quel Montale che dà il titolo al mio film: «Nei miei primi anni abitavo al terzo piano/ e dal fondo del viale di pitòsfori/ il cagnetto Galiffa mi vedeva/ e a grandi salti dalla scala a chiocciola mi raggiungeva (…)/ Nella memoria resta solo quel balzo e quel guaito/ né molto di più rimane dei grandi amori». Di quello che ho da dire è possibile rimanga solo qualcosa che assomiglia a quel “balzo”. Ma sarebbe già qualcosa. Che cos’è la saggezza? Capiamoci. C’è un tipo di saggezza che corrisponde a una sorta di pacificazione universale, e non mi trova concorde. Preferisco una saggezza che sia un continuo autospronarsi verso acquisizioni ulteriori. Mi piace un motto che un titolo di un mio libro in tiratura limitata Gelosa e tranquilla. Alla fine di questa chiacchierata, vorrei chiederle: cosa farà da grande? In verità spero di non diventare mai “grande”.
in edicola il nuovo numero di Risk il bimestrale di geostrategia 120 pagine per capire il pianeta • Come affrontare la guerra di Kabul • L’ombra lunga di Teheran? • Il doppio gioco del Pakistan • La finta pazienza di Vladimir Putin Mario Arpino, Pierre Chiartano, Marcello Foa, Giovanni Gasparini, Egizia Gattamorta, Riccardo Gefter Wondrich, Virgilio Ilari, Beniamino Irdi, David J. Smith, Andrea Margelletti, Michele Marchi, Lucia Marta, Andrea Nativi, Michele Nones, Emanuele Ottolenghi, Amhed Rashid, Michael Rubin, Andrea Tani
spettacoli
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Musica. Si riuniscono (ma solo in particolari occasioni) i Grateful Dead, storico gruppo del passato capitanato da Jerry Garcia
Una band a “mezzo servizio” di Alfredo Marziano
on ancora insediato alla Casa Bianca, Barack Obama ha già fatto qualcosa di buono per il rock resuscitando il Morto Riconoscente, i Grateful Dead. O meglio, quel che ne resta dopo la scomparsa, tredici anni fa, di Jerry Garcia, faro del gruppo e icona della controcultura californiana fiorita nei Sixties ai tempi di Woodstock e della guerra in Vietnam. In rispetto al Grande Assente, Bob Weir, Phil Lesh, Mickey Hart e Bill Kreutzmann, i vecchi compagni di viaggio, oggi si fanno chiamare semplicemente Dead e sono una band a mezzo servizio che proprio in occasione dei raduni musical-propagandistici tenuti a sostegno della candidatura presidenziale di Obama ha ritrovato la voglia di rimettersi on the road.
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Sedici date su e giù per gli Stati Uniti, dal 12 aprile al 10 maggio 2009, con una formazione rinforzata dalle tastiere di Jeff Chimenti e da Warren Hayes, asso della chitarra elettrica già in forze all’altrettanto leggendaria Allman Brothers Band. Ma chissà che in seguito non ci sia modo di vederli in azione anche in Europa, da loro pochissimo frequentata e in tempi ormai remoti (non sono mai venuti in Italia, per dire, nonostante gli sforzi di Claudio Trotta, promoter della Barley Arts e fan della prima ora). Da questa parte dell’Atlantico sono sempre stati un culto ristretto a pochi fedeli, nei nativi
sh al settimanale Billboard. Nessuno show dei Dead assomiglia al precedente e Weir non ha torto quando definisce il modus operan-
di della band molto più vicino al jazz che al rock, anche se poi la musica affonda le radici nella grande quercia della American Music, il blues e il country&western, il folk e il rhythm&blues, ma anche la psichedelia dei Sessanta e l’avant garde di Berio e Varése.
chitarra e il suo rassicurante carisma da Santa Claus del rock, barbone bianco e massa di capelli arruffati, sono elementi insostituibili. E la sua morte, nell’agosto del ’95, è stata uno shock per una generazione di baby boomers (quelli che stavano dall’altra parte della barricata) subito celebrata con veglie e raduni dai Deadheads, i pittoreschi seguaci della band che in con-
Un doppio cd uscito di recente, “Rocking The Cradle”, ci ricorda una delle loro imprese più folli: tre concerti in Egitto nel settembre del ’78 di fronte alla Sfinge e alla Grande Piramide States al contrario una macchina da guerra capace di macinare biglietti e incassi al botteghino come pochi. Musica californiana allo stato puro, la loro, ma non pensate alle sognanti armonie vocali e ai perfetti incastri strumentali di gente come gli Eagles: mentre quelli, superprofessionisti di Los Angeles, hanno fatto del concerto rock un congegno ad orologeria e uno spartito imparato a memoria loro, anarchica accozzaglia di San Francisco, concepiscono tuttora la musica dal vivo come un happening a ruota libera e votato all’improvvisazione. «E’ il punto interrogativo che mi spinge a farlo… Che cosa succederà? Ogni volta che saliamo sul palco insieme, le possibilità sono infinite», ha spiegato bene Le-
Al pari di Bruce Springsteen, i Grateful Dead hanno costruito la loro leggenda sui concerti. A differenza del Boss del New Jersey, però, su quel loro asset hanno saputo capitalizzare con astuzia e lungimiranza: primi in assoluto, in omaggio allo spirito libertario della Frisco anni Sessanta, a incoraggiare lo scambio tra il pubblico di nastri registrati agli show; primi a pubblicare una quantità impressionante di “bootleg ufficiali”pescati da un archivio più sterminato delle tasche di Eta Beta (i famosi Dick’s Picks, oggi trasformati in Road Trips). Inutile negarlo: con la scomparsa di Garcia, leader democratico e gentile di una band senza padroni, hanno perso parte della loro anima. I suoi fraseggi liquidi di
Sopra, il logo della storica band statunitense “Grateful Dead”, composta da Bob Weir, Phil Lesh, Mickey Hart Bill Kreutzmann e Jerry Garcia, leader del gruppo scomparso ormai tredici anni fa
certo costituiscono uno spettacolo nello spettacolo e che annoverano nelle loro fila vip della politica come Bill Clinton, Al Gore e Nancy Pelosi, attori come Ed Norton e sportivi come Bill Walton. Oggi non fanno più paura a nessuno, i Dead, ma con l’establishment in passato non hanno avuto rapporti idilliaci: troppo vicini a idee “sovversive”e radicali, troppo coinvolti con la “cultura della droga”fin dai tempi in cui, quando ancora erano pieni di brufoli e si chiamavano Warlocks, fornivano la colonna sonora agli acid tests organizzati da Ken Kesey, il celebre autore del romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo che professava l’espansione collettiva della coscienza per mezzo dell’LSD (legale, in California, fino all’ottobre del 1966). Diventarono il simbolo di Haight-Ashbury, il quartiere hippie di San Francisco di cui la loro casa-comune, un edificio vittoriano a tre piani al 710 di Ashbury Street, fu a lungo il santuario tuttora visitato da frotte di nostalgici turistici. Si fa presto, oggi, a bollarli come dei reduci coperti di cicatrici (Lesh si porta a spasso da qualche anno un fegato nuovo), businessmen che badano solo a vendere magliette, biglietti e merchandising. Così facendo si dimentica che sono stati uno dei primi gruppi rock a sognare in grande, e uno degli ultimi a dialogare a tu per tu con ogni membro del pubblico: nei minuscoli club degli esordi come negli stadi da baseball degli anni Ottanta e Novanta.
Un doppio cd più dvd uscito di recente, Rocking The Cradle, ci ricorda una delle loro imprese più folli e affascinanti di sempre, tre concerti in Egitto nel settembre del 1978 di fronte alla Sfinge e alla Grande Piramide. Un incubo tecnico-organizzativo, ma anche uno spettacolo di incredibile suggestione: Deadheads e beduini mischiati in platea, la musica dilatata ed esoterica dei Dead che tra le dune del Cairo e quei misteriosi centri di energia trova la sua ideale cassa di risonanza, all’inseguimento della nota perfetta che vibra in sintonia con l’universo. Bentornati, se la loro missione è di riportare un po’ di sana utopia nel rock del Ventunesimo secolo.
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dal ”Washington Post” dell’08/01/2009
Un conflitto evitabile? di Jimmy Carter nche l’ex presidente Jimmy Carter dice la sua sull’invasione di Gaza. Una testimonianza interessante, che svela alcuni aspetti poco noti sui rapporti tra Hamas, Israele e il mediatore egiziano. L’avvio, che da il titolo al pezzo del WP, è che «l’invasione poteva essere facilmente evitata». E poi l’ex inquilino della Casa Bianca ci spiega il perché.
A
«Dopo aver visitato Sderot lo scorso aprile e aver visto quanto fosse grave il danno psicologico causato dal continuo lancio di razzi da Gaza, assieme a mia moglie Rosalyn, dichiarammo come queste azioni fossero, senza scusanti, un deliberato atto di terrorismo». La città era traumatizzata dalle continue esplosioni, più di tremila abitanti avevano abbandonato il centro. Il sindaco Ely Moyal continuava a convocare riunioni di cittadini nel tentativo di tranquillizzarli. Nessuno capiva perchè Israele non ponesse fine a questo stillicidio di terrore, sia con un intervento militare che con un’azione diplomatica. «Sapendo che avremmo presto incontrato i leader di Hamas a Gaza e a Damasco, ci prendemmo l’impegno di valutare la prospettiva per un cessate-il-fuoco. Dal capo dell’intelligence egiziana, Omar Suleiman, che stava negoziando tra Hamas e Israele, imparammo subito che esisteva una fondamentale differenza tra le due parti. Hamas voleva un cessate-il-fuoco più ampio che comprendesse Gaza e il West Bank, Israele rifiutava di discutere qualsiasi argomento al di fuori di Gaza». Le notizie che possedeva l’ex coppia presidenziale tramite l’Onu era che nella Striscia la popolazione civile stava soffrendo per la mancanza di generi alimentari. Un palestinese su due mangiava un solo pasto al giorno. I capi di Hamas a Gaza erano refrattari a tutti gli argomenti, reclamando che i razzi fossero l’unico mezzo
per rispondere alla loro prigionia nella Striscia e per evidenziare le pessime condizioni umane in cui versavano. «Lo Stato maggiore di Hamas a damasco, invece, era d’accordo per un accordo limitato alla sola Gaza - scrive Carter in maniera che Israele non attaccasse e contemporaneamente permettesse il passaggio degli aiuti umanitari». Dopo molte discussione anche la ledership di Hamas a Gaza si disse d’accordo ad accettare ogni tipo di accordo, che seguisse quell’impostazione, siglato tra Israele e il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, che era anche il leader del Plo, se ciò fosse avvenuto sulla base di un referendum popolare o su decisione di un governo di unità nazionale.
Jimmy Carter che non era un negoziatore, ma solo un osservatore, riferì i risultati dei colloqui agli egiziani, in modo che loro potessero cercare un accordo. «Dopo circa un mese sia gli egiziani che Hamas ci informarono che tutte le azioni militari da entrambe le parti e il lancio dei missili sarebbero cessate dal 19 giugno per un periodo di sei mesi». In cambio si chiedeva che il flusso dei convogli umanitari riprendesse ai livelli precedenti a quelli del ritiro israeliano del 2005, cioè circa 700 tir al giorno. I Carter non riuscirono ad avere una conferma da Gerusalemme per il rifiuto israeliano di ammettere che ci fosse stato un accordo con Hamas. «Comunque i lanci cessarono e
fu incrementato il flusso di aiuti» anche se non ai livelli previsti e richiesti. Questa fragile tregua resisteva anche se il 4 novembre ci fu un attacco israeliano a dei tunnel, utilizzati dai palestinesi per fare contrabbando, anche di armi. «Durante un altro mio viaggio in Siria – spiega l’ex presidente – a metà dicembre, per cercare di salvare l’accordo, fu subito chiaro che l’argomento forte sarebbe stato l’apertura delle frontiere a Gaza.
Alcuni rappresentanti del Carter center, andarono a Gerusalemme per verificare la disponibilità del governo d’Israele ad accettare questa proposta in cambio della fine dei lanci (che intanto erano ripresi, ndr). In maniera informale il governo propose un incremento del flusso di aiuti del 15 per cento se Hamas avesse cessato gli attacchi entro 48 ore. Una proposta definita inaccettabile. Così ripresero le ostilità». Questa la cronaca di Carter, sicuramente non esaustiva e parziale degli avvenimenti che avrebbero portato alla rottura della tregua da parte di Hamas.
L’IMMAGINE
Arginiamo gli effetti negativi del correntismo aprendo la vita associativa a nuovi contributi Ho letto con interesse le autorevoli opinioni espresse dal vicepresidente Mancino su alcuni dei temi più dibattuti in materia di giustizia, apprezzandone lo spirito e la consueta pacatezza dei toni. Ho condiviso l’analisi di fondo circa la necessità di limitare l’influenza del correntismo sul funzionamento del Csm; ritengo, però, che tale obiettivo vada raggiunto non già attraverso una diversa rappresentanza quantitativa o una differente modalità di designazione dei suoi componenti togati, ma piuttosto attraverso una revisione delle regole dell’Anm e dei sistemi di elezione dei suoi organi rappresentativi, in modo da rendere davvero aperta a tutti la partecipazione alla sua attività, anche a prescindere dall’appartenenza alle correnti. In tal modo, infatti, si favorirebbe l’emersione di ulteriori professionalità, specie tra i colleghi più giovani, alle quali poter attingere anche in occasione del periodico rinnovo dell’organo di autogoverno.
Cosimo Maria Ferri
IL DIZIONARIO ITALIANO È SEMPRE UN OTTIMO REGALO Anche se le festività son finite, propongo come libro-regalo un dizionario d’italiano che abbia come requisito la presenza, accanto ad ogni vocabolo, della prima attestazione, requisito che non tutti i dizionari hanno. Sarà allora una scoperta affascinante leggere che ad esempio,“entusiasmo”compare per la prima volta nella nostra lingua (scritta) nel 1549, e sarà nel contempo un’invitante occasione per rivedersi la così tanto trascurata etimologia, che ogni dizionario riporta, ma che quasi mai guardiamo. Potremo così scoprire che “entusiasmo”vuol dire“c’è un dio dentro di noi”. Ma chi l’avrebbe mai detto! Un dizionario, appunto.
Giuseppe Mollica
TAGLIAMO GLI ASSEGNI VITALIZI Nel mio paese vive un ex parlamentare che riscuote 13.800,00 euro al mese. Ma cosa se ne fa, mi chiedo, a 80 anni di così tanti soldi? Non è questa un’oscenità.Teniamo presente che di persone come lui in Italia ce ne sono più di 4.000. Perché non si decide di tagliare l’assegno vitalizio di queste persone e si distribuisce il ben tolto a tutti quei pensionati che non arrivano a fine mese perché percepiscono una pensione da 500 euro?
Tommaso Villa
LA BUFALA DELLA SUPERIORITÀ MORALE DEL PD Voglio esprimere la mia piena gioia nel vedere il Pd crollare sotto la sua arroganza e la sua supponenza. Negli anni Novanta aveva-
Piedi altisonanti Zeppone di legno, lacci, laccetti e speroni di ferro. Non devono essere particolarmente comode, queste tradizionali scarpe boliviane! E in effetti chi le ha inventate non aveva bisogno di un paio di soffici pantofole bensì di due rumorosi “strumenti musicali” da piedi. Le strane calzature infatti servono per fare baccano e scandire il ritmo delle canzoni durante la festa di Pujllay no crocifisso, con il supporto della magistratura, la Dc e il Psi banchettando elettoralmente come avvoltoi. Nulla di nuovo sotto il sole: la loro presunzione di superiorità morale si è dimostrata una bufala.
Riccardo Bestetti
LE LEZIONI DI RELIGIONE, CATTOLICHE E EDUCATIVE In un recente convegno che ri-
portava i dati di una ricerca sociologica sui livelli di alfabetizzazione religiosa degli alunni, il sociologo Castegnaro riferiva che alcuni studenti liceali francesi, davanti a dipinti riguardanti scene bibliche, non avevano riconosciuto nessuno e dove l’ultima agape di Gesù era stata scambiata per un festino. Invece di criticare questo insegnamen-
to, scelto dal 92 per cento delle famiglie italiane, bisognerebbe incoraggiarlo e promuoverlo. E dovrebbero farlo anche i dirigenti scolastici e i docenti di altre discipline: questa materia, pur rispondendo a istanze “confessionali”, è inserita nella scuola nel rispetto delle finalità educative e didattiche.
Sergio Benetti
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Non smettere di amarmi del tutto, ti prego Caro Lilenok sono terribilmente triste per causa tua. Ogni giorno ci manca poco che pianga. È difficile scrivere di queste cose, e non serve a nulla. La tua ultima lettera mi opprime molto e mi è difficile comprenderla. Non sapevo cosa rispondere. Parli di vergogna. Ma è veramente questo tutto quelo che ti lega a lui e l’unica cosa che ti impedisca di stare con me? Non ci credo! E se così fosse, allora non ti si addice; in modo così poco categorico e sostanziale. Queste parole non sono il tentativo di chiarire delle relazioni inesistenti, sono la mia tristezza e i miei pensieri - non tenerne conto. Fa come credi, mai e in alcun modo potrà modificarsi l’amore che ho per te. I tuoi ultimi telegrammi sono così poco teneri - non c’è neanche un «ti amo», un «tua», un «Micia»! Non so niente di te, Elsa non mi fa leggere le tue lettere anche se giura che non contengono nulla su noi due. Le tue lettere «proibite»! Una cosa tristissima! Di te non so niente, niente! Scrivi, Lilek, di più, o per lo meno telegrafa più spesso! Sono terribilmente afflitto per Skotik. Era l’ultima cosa che avevamo fatto insieme. Ma basta con le tristezze - credo, voglio credere che avremo ancora molte da fare insieme. Ho deciso alcune cose in questo periodo. Si direbbe qualcosa di buono. Non smettere di amarmi del tutto, ti prego: ne ho molto bisogno! Vladimir Majakovskij a Lili Brik
ACCADDE OGGI
AFFRONTIAMO IL PROBLEMA DEL VOTO IN UN UNICO GIORNO Il Consiglio dei ministri ha deciso il cosiddetto “election day”per il 6 e 7 giugno 2009, con l’accorpamento delle elezioni europee e delle amministrative. Naturalmente l’Italia si distingue dagli altri Paesi europei con il voto in due giorni. In tempo di crisi economica, non sarebbe il caso di ripristinare il ritorno al voto in un solo giorno, abolendo questo “privilegio” quasi tutto italiano? Mi rendo conto che questo è un argomento tabù per le forze politiche di maggioranza e d’opposizione, che sognano folle oceaniche per il voto, ma non sarebbe davvero il caso di affrontare il problema?
Giovanni Attinà
LE FS ASSOLDANO I WRITERS Le Ferrovie dello Stato stanno promuovendo una incredibile politica di collaborazione con il “writing”, cioè col fenomeno che più ha devastato treni e stazioni negli ultimi anni. Dopo le stazioni del Friuli, date in pasto alle “Scimmie Bisiache” e altre associazioni (che sui loro siti web riportano carrellate di treni devastati abusivamente), adesso è la volta dell’ Emilia, e in particolare di Bologna, ad essere affidate alle “cure” dei writers. Ho letto su un quotidiano locale «Le stazioni dei treni diventano tavolozze: così le Ferrovie bloccano gli scarabocchi». Come se il problema fossero gli «scarabocchi». In realtà il problema è l’orrenda invadenza visiva dei writers, e proprio di quelli che si spacciano per artisti e quindi in diritto di imporre a tutti la visione delle loro ope-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
9 gennaio 1900 Fondazione della Società Sportiva Lazio
1912 I Marines degli Stati Uniti invadono l’Honduras 1945 Gli Stati Uniti invadono Luzón nelle Filippine 1947 Il Regno Unito riconosce l’indipendenza della Birmania 1950 Eccidio delle Fonderie Riunite a Modena: 6 manifestanti morti e oltre 200 feriti 1951 Inaugurazione a New York della sede ufficiale delle Nazioni Unite 1960 In Egitto inizia la costruzione della Diga di Assuan 1972 La Rms Queen Elizabeth viene distrutta dal fuoco nel porto di Hong Kong 1986 La sonda spaziale Voyager 2 scopre il satellite di Urano: Cressida 1991 I sovietici occupano Vilnius per fermare l’indipendenza lituana 1995 Valeri Poliakov completa 366 giorni nello spazio a bordo della stazione spaziale Mir: record di permanenza nello spazio 2005 Elezioni per il rimpiazzo di Yasser Arafat
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
re. Inoltre c’è una questione etica, sotto. Anche se quelli che dipingeranno le stazioni saranno i graffitari “angioletti”, e non gli abusivisti del passato, il messaggio che arriva all’opinione pubblica è: «I writers hanno fatto i delinquenti per decenni, e adesso vengono premiati». Cioè la prepotenza paga. Un messagggio molto educativo, non c’è che dire.Vorrei poi sapere chi stabilisce la differenza fra scarabocchi e graffiti artistici. Una commissione di esperti? Con magari Sgarbi? La verità è che dopo decenni di delinquenza e di insulti grafici operati sulla rete dei trasporti pubblici, nessun pendolare sentiva la “mancanza”proprio di altri graffiti. o di graffiti per combattere graffiti. Le ferrovie ci dicono che bisogna «dare un’anima» alle stazioni e i sottopassi. e che «le stazioni vengono trasformate in luoghi più vivibili e più godibili», grazie alle decorazioni dei writers. Le stazioni l’anima ce l’hanno già. Sono edifici architettonicamente validi e spesso veri e propri capolavori edilizi. Basterebbe solo tenerli puliti.
Angelo Mandelli
dai circoli liberal
IL SILENZIO DELLE ISTITUZIONI I rappresentanti istituzionali sono silenziosi, quasi assenti sui problemi della gente e del territorio amministrato; dovrebbero agire e perseguire il bene comune e invece spesso perseguono il bene e l’interesse personale e dei loro amici. La questione morale, tanto discussa e decantata, è lo specchio di una pubblica amministrazione allo sbando. Strano paese il nostro, un paese che spesso vive proprio a livello nazionale, di una politica quasi provinciale, nell’accezione comune che viene dato a questo termine, anche se poi la vera Italia è proprio fatta dalle province e da quel profumo di umanità e di peculiarità che in altri contesti è difficile trovare. Una Nazione che non investe sui giovani, che non scommette sul proprio futuro che limita le potenzialità dei sui migliori cittadini, è un grave handicap nelle politiche nazionali, regionali, e territoriali. Basta seguire le note politiche quotidiane: poche se non nessun idea nuova dai ben rasati rappresentanti istituzionali; ripetono sempre la stessa contumelia, senza senso né valore. Ogni anno si fanno i rendiconti, si tirano le somme, si dice quello che si è fatto e anche quello che non si è fatto, si continuano a vendere sogni vanamente, inutilmente, nel silenzio dei presunti alfieri della libertà. A volte mi chiedo se siamo realmente in una democrazia o in una società così globalizzata che rende finte le cose reali e reali quelle finte. Eppure qualcosa deve per forza cambiare. Eppure qualcosa si muove, nel silenzio della notte e alla luce della luna. Si costruiscono ponti di speranza con pilastri di illusioni, molte volte, ma non sempre, per fortuna c’è anche un’altra Italia. Si creano condizioni tali per cui tutto sembra normale, è sempre stato così. Questo è un limite voluto, cercato, difeso. Nel 2008 ho visto solo un uomo che ha tentato di rompere i luoghi comuni; egli ha affermato che emigrare dal sud al nord non è poi così normale, che far finta di niente dinanzi alla criminalità organizzata non è poi così normale come sembra, che le collusioni non sono cose normali, che molti le agevolano, anzi le difendono. Costui, uomo solo, ma idealmente vicino a tanti e da tanti apprezzato, si chiama Roberto Saviano. A lui e a tutti i Saviano in giro per lo stivale, vanno i miei auguri di un sereno 2009, nella speranza di un mondo e di un mezzogiorno sempre meno depresso. Un mezzogiorno annesso non potrà mai trovare la via dello sviluppo, della legalità e del rinnovamento; c’è bisogno di un salto culturale e generazionale reale. Luigi Ruberto C I R C O L O LI B E R A L MO N T I DA U N I
LA QUESTIONE ALFANO Di Pietro tuona contro la questione Alfano, ripetendo che è un decreto ad personam che impedisce per certe personalità la prosecuzione di un processo. Il governo ribatte che invece si tratta di una forma di interruzione momentanea per consentire il normale flusso delle attività, per poi far proseguire il processo stesso.
Bruno Russo
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Puttanate mondiali. Lo stravagante sos del magnate del porno Usa
Caro Obama c’è anche l’industria dell’auto-erotismo di Gloria Piccioni l pifferaio rischia di non suonare più. Questo l’allarme lanciato dal celebre direttore della rivista pornografica Hustler (letteralmente il suonatore di piffero) Larry Flynt, alla cui spregiudicatezza ai confini della legge Milos Forman ha dedicato un film nel 1996 (Larry Flynt. Oltre lo scandalo). Insieme a Joe Francis, amministratore delegato di Girls Gone Wild, la sigla produttrice della più nota collana di dvd hardcore, il magnate americano dell’industria votata all’“intrattenimento di adulti” si
I
Kennedy Onassis che prendeva il sole nuda. L’anno dopo venne incriminato con la sua fidanzata, l’ex spogliarellista Althea Leasure, allora direttore del magazine, per pubblicazione di materiale osceno e crimine organizzato. Rischiò di chiudere, fornendo così a Forman la chiave di lettura utilizzata anni dopo per raccontare la sua storia, emblematicamente eletta a battaglia in difesa della libertà di parola. Non pago, Flynt ha trovato il modo di far riparlare di Hustler nel 2007, quando ha offerto 1 milio-
INTERVIENI! è infatti rivolto al Congresso reclamando aiuti per 5 miliardi di dollari per “rilanciare l’appetito sessuale degli americani” così duramente colpito dalla crisi economica che si è abbattuta sul paese. Il giro d’affari della pornografia negli Usa raggiunge i 13 miliardi di dollari l’anno e, ammettono i due, non è che sia proprio sull’orlo del baratro, ma perché non mettere le mani avanti? Non è difficile prevedere che gli americans, costretti a fare i conti con un’esistenza senza macchine (immaginate cosa può significare a Los Angeles), diventino sessualmente depressi. E visto il piano di salvataggio previsto per il settore auto, forse che il porno non merita la stessa attenzione? Tanto più che cavarsela senza auto si può, ma senza sesso….
Non c’è che dire, Flynt non ha perso la capacità di far parlare di sé. Il colpo grosso con Hustler lo fece nel 1975, quando pubblicò le foto di Jacqueline
ne di dollari a chi fosse stato disposto a confessare, prove alla mano, di aver avuto rapporti sessuali con politici. Monica Lewinsky docet. Certo è che la sua rivista ha cambiato i costumi sessuali americani, prima attestati sui piccanti ammiccamenti di Playboy o Penthouse, rendendoli così decisamente più espliciti. Forse non è stato un bene o forse a un certo malinteso puritanesimo ci voleva una bella scossetta. In ogni caso, eccessi a parte, il sesso giova e la pornografia offre le sue risorse anche a nobili cause. Come dimostrato da un’egregia Marianne Faithfull nel compostissimo e intenso film Irina Palm, il talento di una donna inglese. Passato brevemente sui nostri schermi, gira in questo periodo sui canali di Sky e dunque per non guastare il piacere di chi ancora non l’ha visto non ne racconteremo la storia. Basti dire che grazie a un locale a luci rosse in cerca di manodopera viene salvata la vita a un bambino.
bista nata a Damasco e bibliotecaria all’università di Parigi, che nel libro La prova del miele (Feltrinelli), attraverso il racconto della sua educazione sessuale, ha fatto terra bruciata dei luoghi comuni sul rapporto tra sesso e Islam, mostrando come nella tradizione
Larry Flynt, editore della rivista “Hustler” e Joe Francis, produttore di dvd hard, chiedono sovvenzioni per 5 miliardi di dollari. «Meritiamo l’attenzione che si presta a qualunque altro settore». Senza auto forse, ma senza sesso...
Sapere aderire al sesso, meglio all’erotismo, senza tante implicazioni emotive o perbenistiche, ma con sommo rispetto per il piacere che se ne può ricavare è cosa antica. Lo insegnano il Kamasutra e gli antichi testi di letteratura erotica araba attentamente studiati da Saiwa al-Neimi, ara-
araba il piacere che viene da Eros non sia un peccato bensì una grazia di Dio, un piccolo antipasto di ciò che ci attende in Paradiso. E del resto certe estasi mistiche non rimandano ai deliqui dell’orgasmo? Che non suoni come profanazione, se anche nel Risus Pascalis (Queriniana) Maria Caterina Jacobelli, seguendo le orme del doctor angelicus San Tommaso e con abbondanza di fonti citate della spiritualità cristiana, ha tracciato il fondamento teologico del piacere sessuale strettamente collegandolo al godimento di Dio. Tornando a Flynt e Francis, è prevedibile che la loro richiesta rimanga inascoltata, ma chissà, forse coi democratici al governo - come ha maliziosamente scritto NewsBusters.org - avranno qualche chance in più.