ISSN 1827-8817 90110
Un ordine di cose stabilito
di e h c a n cro
colla violenza è sempre tirannico, quand’anche fosse migliore del vecchio
9 771827 881004
Giuseppe Mazzini
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Metafore d’Italia: i novant’anni di Andreotti e il libro-confessione di Sofri su Pinelli
Air France: via libera all’ingresso in Alitalia
Giulio e Adriano, due repubbliche parallele
Il consiglio d’amministrazione della Compagnia francese ha detto sì all’acquisto del 25% dell’Alitalia.
di Renzo Foa
La recessione si combatte con la produttività
Il governo fa un grave errore a puntare solo sui consumi di Enrico Cisnetto è una classica tecnica oratoria, di stampo populista, che consiste nello spararla grossa, prevedendo il peggio, per poi dire «non è andata così male». Così, prima di Natale si pronosticava un crollo dei consumi del 2030% (Codacons) mentre adesso si scopre (Confcommercio) che le vendite sono scese “solo” dell’1-2%. C’è da brindare, dunque, come fa il ministro Tremonti, che parla di “tenuta” dell’economia? Direi proprio di no. Primo, perché il dato è comunque il peggiore degli ultimi quarant’anni. Secondo, perché le famiglie hanno tenuto conto anche di altri fattori: rate dei mutui più basse (con l’Euribor ai minimi), bollette e benzina in calo (con lo scivolone del petrolio). Terzo, soprattutto, la sostanziale tenuta della ricchezza delle famiglie: anche nell’ultimo rapporto della Banca d’Italia, si evidenzia come la crisi che ha incominciato a farsi sentire sui bilanci delle famiglie ha intaccato la parte finanziaria ma non quella reale. Nel confronto europeo, inoltre, le nostre famiglie restano le più solide, con una ricchezza complessiva che è cresciuta nel 2007 del 3,9%, soprattutto grazie all’incremento di valore degli immobili. Complessivamente, la «Famiglia Italia spa» dispone di attività reali (immobili, terreni, eccetera) e attività finanziarie (azioni, titoli pubblici, depositi) per 8.512 miliardi di euro, ha meno debiti di quella tedesca, francese, inglese e americana; le attività reali risultano pari a 5 volte il reddito disponibile, superiore a quello di Stati Uniti e Germania; le attività finanziarie sono pari a 3,6 volte il reddito, un rapporto superiore a quello di Germania e Francia. Ogni nucleo, per Bankitalia, possiede una ricchezza netta di 360mila euro. Insomma, l’Italia è un Paese di “poveri ricchi”, che possono continuare a spendere (più o meno) allegramente perché consumano ciò che altri (o loro stessi in passato) hanno accumulato.
e due testate del bigiornalismo italiano ci hanno annunciato ieri la prossima uscita di un libro di Adriano Sofri (dal titolo La notte che Pinelli) nelle cui pagine, stando al Corriere della Sera, l’ex leader di Lotta continua torna ad affrontare l’argomento delle «mie colpe su Calabresi», in particolare definendosi «corresponsabile dell’omicidio per aver detto e scritto cose contro di lui», mentre stando alla Repubblica parte da una riflessione su «io, Pinelli e Calabresi» per ricostruire «la tragice fine dell’anarchico milanese» e «raccontare di uno Stato che nascose la verità e depistò». Premetto che, prima di parlarne, è sempre meglio leggere nella loro integrità testi che affrontano temi così delicati, se non altro per evitare di prendere abbagli e di contribuire ad altri pasticci intellettuali.
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di Francesco Pacifico a pagina 8
DIPLOMAZIE IMPOTENTI L’Onu chiede il “cessate il fuoco”: ma non è chiaro a nessuno come ci si possa arrivare. Alcuni dei più famosi analisti mondiali provano ad immaginarlo…
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SABATO 10 GENNAIO 2009 • EURO 1,00 (10,00
Ormai è ufficiale, alla Rai ha vinto Villari Maggioranza e opposizione si sono rassegnate a non rimuovere il presidente della Vigilanza
di Marco Palombi a pagina 6
Può finire questa guerra?
Chiesto il ministero della salute in cambio del sì ad Air France
E Bossi disse «No Martini? Non parti» di Francesco Capozza l vertice Bossi-Berlusconi di giovedì sera, non era in gioco solo la questione Malpensa, anzi. Il clima era davvero molto teso. Il Senatùr è entrato a palazzo Grazioli nero in volto, succhiando l’inseparabile toscano marca Garibaldi. Il Cavaliere, da par suo, era altrettanto scuro e si è fatto uscire dai denti anche una sua versione ben precisa dei fatti: «Umberto ha fatto tutto questo battage su Malpensa per un calcolo elettorale, ma così ha ottenuto come unico effetto quello di incrinare l’immagine del governo proprio sulla battaglia che ci ha permesso di vincere le elezioni. Ora che siamo a un passo dalla sua conclusione positiva, c’è bisogno di montare tutta questa polemica inutile e dannosa?».
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alle pagine 2, 3, 4 e 5
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s e gu e a pa gi n a 1 0 CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Crisi in Medio Oriente. Mentre la guerra va avanti, analisti ed esperti immaginano un piano di pace
Come si esce da Gaza? Sono quattro i nodi da sciogliere per un possibile accordo: i Territori, la sicurezza, Gerusalemme e i profughi palestinesi di Luisa Arezzo ella logica mediorientale, anche la guerra è una soluzione diplomatica. Se questo era vero quando Anwar Sadat lanciò a sorpresa l’attacco contro Israele nell’ottobre 1973, consentendogli di accrescere la sua credibilità nel mondo arabo e poi arrivare a un accordo di pace sei anni dopo, è ancor più vero oggi, con l’attacco israeliano a Gaza. Una guerra che Olmert non ha mai nascosto avere più obiettivi: il primo, quasi scontato, di porre fine agli attacchi missilistici contro Israele; il secondo, più rischioso e frutto di un disegno strategico, di indebolire sensibilmente Hamas, ridare forza a Mahmoud Abbas e al governo di Fatah per riprendere il controllo di Gaza e rintavolare dei veri negoziati di pace. Dopo tanti anni e tanti fallimenti, parlare di un accordo possibile sembra una chimera, ma sono molti gli analisti internazionali che, al netto delle dichiarazioni ufficiali, sembrano aprire a una soluzione: soprattutto alla luce dell’arrivo di Barack Obama (e Hillary Clinton: non dimentichiamo che il piano di pace di suo marito, nel 2000, è stato l’ultimo vero tentativo di mediazione) alla Casa Bianca e del ruolo franco-egiziano di questi ultimi giorni. Da John R. Bolton a Fareed Zakaria, da Edward Luttwak a Daniel Klaidman, da Tony Blair a Richard N. Haas, tutti sembrano essere d’accordo sui quattro punti che saranno alla base dell’eventuale negoziato.
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I Territori Dalla guerra dei Sei giorni in poi (era il 1967), il blitz con cui Israele sottrasse il Sinai e Gaza all’Egitto, le alture del Golan alla Siria e i territori occupati alla Giordania – “terra in cambio di pace” è diventato il leit motiv di ogni possibile accordo. Ed è ancora l’unica opzione. Israele si è già ritirata da Gaza e molti si aspettano che lo faccia anche anche dai territori occupati consentendo così ai palestinesi di stabilizzarsi in questi due lembi di terra. Di contro, i palestinesi e gli altri popoli arabi dovrebbero formalmente rinunciare alle loro pretese su Israele e soprattutto, riconoscerlo. Ma non basta. Bisognerebbe
L’esperto militare statunitense e la «strategia di attacco» israeliana
Luttwak: «La vittoria è a un passo» di Pierre Chiartano Edward Luttwak non è convinto, come invece lo sono molti analisti europei, che una vittoria per Israele a Gaza sia impossibile. Non appartiene alla schiera di coloro che non leggono la natura difensiva dell’attaco e vedono, come unico risultato degli scontri, il rafforzamento di Hamas e del radicalismo islamico in tutto il Medio Oriente. In un articolo scritto sul Wall Street Journal di ieri spiega il suo punto di vista. Non c’è più il clima che aleggiava sulla guerra del 2006 in Libano che spiega «fu condotta da un esiguo numero di reparti dell’esercito - appena 600 uomini - coinvolti in scontri ravvicinati su di un terreno decisamente sfavorevole».
Ogni villaggio diventava una casamatta idonea per colpire i convogli di Tsahal, l’esercito di Gerusalemme. E nonostante l’operazione mediatica degli uomini di Nasrallah, che avevano trasformato quella campagna militare in una sconfitta per la stella di David, i numeri raccontavano un’altra storia: 400 militanti di Hezbollah uccisi in scontri corpo a corpo, contro 30 soldati israeliani. Nonostante tutto, aggiungiamo, errori ce ne furono, ma la lezione è sta-
rivedere i confini. Di contro potrebbe essere concesso ai palestinesi un corridoio per connettere Gaza e i Territori e consentire trasporti e commerci fra i due.
Sicurezza
ta imparata da Israele e a Gaza la storia è diversa. Innanzitutto - spiega Luttwak - si combatte in una delle aree più densamente popolate del mondo. Non esistono obiettivi militari ad «alto contrasto», come bunker, postazioni o veicoli militari. Spesso si tratta di piccoli gruppi armati su auto civili confuse nel traffico caotico di un centro urbano.
Le loro basi sono all’interno di edifici civili, costruti uno a ridosso dell’altro, vicino a scuole e altre strutture civili. Senza dimenticare il ruolo dell’Iran che preme continuamente affinchè continuino i lanci di missili verso Israele. Il suggerimento di Luttwak è quello di continuare negli scontri ravvicinati per colpire gli obiettivi non eliminabili con i raid aerei. Riducendo il più possibile la capacità militare di Hamas. E soprattutto non facendosi ingannare dalle manifestazioni di furore pubblico che, quando cominciano i combattimenti veri, tende a scemare. Di molto. Un atteggiamento simile a quello di molti leader fondamentalisti che tendono a sfruttare le frustrazioni dei palestinesi per istigarli allo scontro, salvo poi tagliare la corda, una volta dato fuoco alle polveri. Per paura della reazione di Gerusalemme, naturalmente. Se Tsahal continua così, in breve, ci potranno essere le condizioni «che giustifichino un cessate-il-fuoco che possa funzionare». Hamas canterà vittoria comunque, come fece Hezbollah in Libano nel 2006. Ma per Gerusalemme sarà una vittoria.
Su un punto sembrano tutti d’accordo: il nuovo stato palestinese dovrebbe essere sostanzialmente demilitarizzato. Fatah potrebbe mantenere una forza leggera di polizia utile a garantire l’ordine pubblico ma non possedere nessun armamento utile a colpire Israele. Potrebbe avere una sovranità sul proprio spazio aereo, ma limitatamente all’aviazione civile. Detto questo, al momento Israele è scettica sulla possibilità che Fatah sia abbastanza forte da garantire il controllo della sicurezza interna. Una soluzione transitoria su cui tutti potrebbero convergere potrebbe essere quella di una base Nato in seno alla West Bank destinata nel tempo a trasferire il controllo ai palestinesi. Obama potrebbe essere d’accordo con questa opzione, ne ha già fatto cenno durante la sua campagna elettorale. E comunque l’ipotesi era un leit motiv anche di Condoleezza Rice. Israele, dal suo canto, manterrebbe attive tutte le sue stazioni di controllo, anche in seno ai territori occupati.
Gerusalemme La sacra “citta della pace” è al cuore di 100 anni di conflitto. Il
Ieri manifestazioni in tutti i Paesi arabi. Dura presa di posizione di Hamas contro il leader moderato
«Via Abu Mazen, il suo mandato è finito» a risoluzione del Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, adottata dopo lunghi negoziati e con l’astensione degli Stati Uniti, sull’immediato cessate il fuoco, ha ricevuto il ”no” sia di Hamas che di Israele. Per il premier Ehud Olmert l’esercito israeliano continuerà quindi «ad agire per difendere» i propri civili, con l’obiettivo «di portare a termine questa operazione», anche perché il documento dell’Onu «non funziona» ed è «irrealizzabile». Da parte sua, Hamas ha fatto sapere, tramite una fonte del gruppo dirigente che si trova a Beirut, Raafat Morra, di non
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poter accettare la risoluzione perché, a giudizio del movimento di resistenza islamico, non è nell’interesse del popolo palestinese, visto che «non parla della fine dell’assedio e dell’apertura dei valichi». Non solo: con una nota successiva i militanti hanno fatto sapere che «Mahmoud Abbas non ha più alcuna autorità come presidente dell’Anp». A ribadirlo un portavoce di Hamas, nel giorno della scadenza del suo mandato presidenziale. «Dopo il 9 gennaio, Abbas, in base alla legge, non ha più alcuna autorità come presidente - ha detto da Damasco alla radio Al Aqsa Musa Abu Marzooq - Il
suo mandato scade oggi». Il movimento di resistenza islamico ha tuttavia precisato che, «a causa della guerra», non chiederà le dimissioni di Abbas. Nei giorni scorsi, il presidente dell’Anp ha piu’ volte ripetuto che la legge gli consente di rimanere ancora in carica per un anno.Se, quindi, in Terra Santa la tensione resta alta, a esasperare ulteriormente gli animi è stata la violazione da parte di Tel Aviv della tregua di tre ore, decisa alcuni giorni fa per permettere alle Nazioni Unite di soccorrere la popolazione civile. Blindati israeliani hanno aperto il fuoco in diverse località della
Striscia, in particolare a Jabaliya e a Beit lahiya, due città che si trovano nel Nord, e nel quartiere di Zeitun, a Gaza. Intanto, l’Onu si è scagliato nuovamente contro l’esecutivo guidato da Olmert, sostenendo che «il 4 gennaio scorso i soldati israeliani, dopo aver raggruppato circa 110 palestinesi in una sola casa a Zeitun, hanno poi bombardato a più riprese l’abitazione, uccidendo circa 30 persone». La denuncia giunge dall’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario che, in un comunicato diffuso oggi, ha stimato che dall’inizio delle operazioni militari, almeno 257
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L’analista americano è contrario al piano franco-egiziano
La Striscia all’Anp, ecco l’unica soluzione di Charles Krauthammer leader israeliani hanno volutamente tenuto nascosti i veri obiettivi della guerra Gaza. Ci sono solo due possibili finali alla vicenda. Il piano A sarebbe porre termine alle ostilità, come successe in Libano (nel 2006), con l’internazionalizzazione dell’area attraverso degli osservatori. Oppure, con un piano B, la distruzione definitiva del governo di Hamas a Gaza. Sotto una tremenda pressione internazionale il governo di Ehud Olmert ha cominciato a guardare con favore al piano franco-egizano per un cessate-il-fuoco, che corrisponde alla conclusione con il piano A. Sarebbe un errore terribile. Come la falsa pace in Libano: una forza internazionale che respinge ogni uso della forza, un embargo sulle forniture di armi che – incredibilmente – ne provochi un’alluvione, e una cessazione delle ostilità che durerà fino a quando i terroristi non saranno di nuovo pronti a ricominciare. Il mandato delle Nazioni Unite per il disarmo di Hezbollah in Libano è una ben nota farsa. Non solo le forze straniere non hanno fermato il massiccio riarmo di Hezbollah, ma la loro presenza rende impossibile, per Israele, una qualsiasi azione militare preventiva. La ”comunità internazionale” sta ora spingendo per un replay di quella sciarada a Gaza. Qualcuno può immaginare gli osservatori internazionali rischiare la vita per impedire il contrabbando di armi? Per arrestare i terroristi? Per impegnarsi in conflitti a fuoco con le squadre di lancio dei missili che attaccano i civili israeliani?
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piano Clinton - dopo estenuanti mediazioni fra le parti - aveva immaginato una lista di 60 municipi che palestinesi e israeliani avrebbero dovuto “condividere”: occupandosi dalla posta alla spazzatura. In questa maniera, spostando l’attenzione dal sacro al profano, si era tentato di isolare il delicato problema della sovranità. Obama non ha mai nascosto la sua simpatia per questa opzione. Gerusalemme, insomma, non dovrebbe essere divisa, ma condivisa. Martin Indyk, già mediatore in Medioriente per l’Amministrazione Clinton, parla di“regime speciale”. I luoghi religiosi rimarrebbero sotto il controllo delle rispettive chiese: musulmana, ebraica e cristiana. In alternativa, alcuni immaginano (lo aveva scritto più volte Samuel Huntington, recentemente scomparso) di porre tutti i luo-
bambini palestinesi sono rimasti uccisi nella Striscia di Gaza. Una denuncia condivisa anche dall’Unicef che ha espresso profonda preoccupazione per le violenze in corso che hanno costretto l’Unrwa a sospendere il suo intervento umanitario. Dopo gli ultimi avvenimenti, tra cui il mea culpa da parte degli ufficiali dell’esercito israeliano sull’attacco alla scuola dell’Unrwa di Gaza, nel quale sono morte almeno 40 persone, il mondo arabo sta ora esplodendo. Se giovedì sera il leader libico Muammar Gheddafi aveva esortato a combattere al fianco dei palestinesi, ieri si sono svolte due imponenti manifestazioni, una in Egitto e l’altra ad Amman, in Giordania, proprio davanti alla sede dell’ambasciata di Israele.
ghi sacri sotto una supervisione internazionale.
Rifugiati Questo potrebbe essere il problema più annoso da risolvere. Ci sono oltre 4 milioni di rifugiati che vivono nei campi profughi fra Gaza, la West Bank, la Giordania, la Siria e il Libano. Sono tanti. Per oltre mezzo secolo hanno atteso di poter far ritorno alle proprie case. Un punto che i palestinesi hanno sempre chiesto di onorare in ogni negoziato. Per Israele, tuttavia, ciò significherebbe ammettere una responsabilità nella crisi dei rifugiati e nella questione palestinese. E qui i conti non tornano. Ma alla Knesset hanno mostrato una possibile apertura: i rifugiati potrebbero trovare asilo nel nuovo stato palestinese, mentre un piccolo, simbolico numero di profughi potrebbe fare ritorno in Israele. Per far questo, però, i rifugiati in Libano, Siria e Giordania dovrebbero poter rimanere - con pieni diritti e dunque cittadinanza - nei rispettivi Stati“di adozione”. Insomma, i Paesi arabi non dovrebbero pretendere il loro ritorno in Palestina. Non volendosi tuttavia sobbarcare le spese, questi ultimi chiedono che i rifugiati possano essere messi nella condizione di ottenere un risarcimento.Vi è un altro punto, infine, da risolvere. Lo sottolinea bene Ruseel Mead nell’ultimo numero di Foreign Affairs. Mead precisa che non è affatto possibile né ascrivere né tantomeno lasciare ad Israele l’onere della crisi attuale con i plaestinesi. Piuttosto, la comunità internazionale, Onu in testa, dovrebbe prendersi in carico «60 anni di crisi. Una maniera per conferire dignità al popolo palestinese e riconoscere l’isolamento in cui troppe volte Israele è stata lasciato».
Hamas. Non è possibile e non è necessario. Si governa facendo accettare alla maggioranza la propria autorità, non con la sopraffazione fisica. È ciò che ha fatto Hamas, ora sotto attacco. La sua leadership non è solo gravemente squalificata, ma umiliata. I grandi guerrieri che invitano gli altri al martirio si nascondono nei sotterranei, in totale isolamento. Incapaci di proteggere la propria gente, pregano per un aiuto esterno, ricevendo in cambio nulla, se non parole dai loro fratelli arabi e iraniani. E chi, in realtà, garantisce i corridoi per fornire assistenza alla popolazione civile palestinese? Israele.
Nei primi quattro minuti di questa guerra, l’aviazione militare israeliana ha distrutto 50 obiettivi, tirando praticamente giù ogni struttura e simbolo del governo di Hamas. In questi momenti, i regimi sono estremamente vulnerabili, quando perdono ciò che i cinesi chiamare “il mandato divino”, il senso di legittimità che sottende tutte le forme di governo politico. La caduta di Hamas a Gaza è a portata di mano, ma solo se Israele non cede alle pressioni di chi la vuole bloccare ora. Rovesciare Hamas non richiederebbe una rioccupazione israeliana permanente. Una forza internazionale di transizione farebbe tornare subito il governo legittimo dell’Autorità palestinese, le cui forze sarebbero molto meno delicate degli europei nel riportare l’ordine a Gaza. La disintegrazione del governo di Hamas a Gaza sarebbe un colpo devastante per il «fronte del no» che ha sempre influenzato la politica palestinese. Sarebbe un colpo devastante per l’Iran, come padrino dei movimenti islamisti radicali in tutta la regione, in particolare dopo l’emarginazione dei sadristi in Iraq. Incoraggerebbe gli Stati arabi moderati a proseguire, da alleati degli Usa, il confronto con l’Iran e i suoi amici. Dimostrerebbe l’insostituibile valore strategico, per gli Stati Uniti, di Israele nel contenimento e nel contrasto della ambizioni ragionali dell’Iran. La teocrazia criminale, a “un passo dalla follia”, di Gaza sta barcollando sul baratro. Può essere spinta giù, ma solo se Israele è disposta – e consente - a completare la vera missione di questa guerra. Per il dipartimento di Stato, invece, sarebbe un ultimo atto significativo, per evitare, con l’imposizione di un cessate il fuoco prematuro, un’azione non solo autolesionista ma anche vergognosa.
Il regime di Hamas deve essere definitivamente sconfitto per poi riportare nella Striscia l’autorità palestinese non più condizionata da parte dell’Iran
Naturalmente no. Le armi continueranno ad essere contrabbandate. Le fortificazioni saranno costruite più profonde e sicure per il prossimo round. Le moschee, le scuole e gli ospedali saranno nuovamente utilizzati per immagazzinare armi e come rifugi per i terroristi. Pensate veramente che i peacekeeper francesi li attaccherebbero? Una simile operazione forse farebbe guadagnare a Israele un paio di anni. Dopo ci sarebbe il secondo round: con i razzi di Hamas che sarebbero in grado di uccidere i civili a Tel Aviv, rendendo inutilizzabile l’aeroporto Ben-Gurion e in grado di colpire e il reattore nucleare a Dimona. L’unico risultato accettabile di questa guerra, sia per Israele che per il mondo, è il finale B: la disintegrazione del governo di Hamas. Che è già in corso. Non si tratta di uccidere fino all’ultimo militante di
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L’analisi. L’Europa farebbe bene a comprendere gli obiettivi israeliani e a sostenerli con forza. Ne va del suo futuro
L’Opa di Teheran Il rischio è che il governo di Hamas diventi una base operativa per l’Iran nel Mediterraneo di Emanuele Ottolenghi a risoluzione Onu 1860 rimarrà lettera morta – Hamas ha già annunciato di rifiutare il cessate il fuoco, Israele non ha interesse ad accoglierlo se non esiste un meccanismo operativo efficace che prevenga il riarmo di Hamas per il futuro, la risoluzione non ha elementi pratici di questo tipo e la proposta francoegiziana di cessate il fuoco rischia ora di infrangersi proprio sul rifiuto egiziano di permettere la presenza di forze straniere lungo la sua frontiera con Gaza a svolgere l’ingrato compito di monitoraggio del confine e dei tunnel che lo attraversano con i loro carichi di armi e contrabbando. Le immagini di sofferenza della popolazione civile che ci giungono da Gaza certo spiegano il disappunto di chi sperava che l’Onu e la diplomazia internazionale potessero infine fermare la macchina da guerra israeliana – anche se nessuno si è mai fatto urgente carico di fermare la pioggia indiscriminata di missili contro i cittadini d’Israele prima del 27 dicembre, senza la quale Israele non avrebbe mai lanciato l’Operazione Piombo Fuso. Ma l’Europa, sempre pronta a reagire d’istinto di fronte al conflitto israelo-palestinese, farebbe bene a comprendere gli obbiettivi veri della campagna israeliana che vanno oltre lo scopo imme-
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diato di ristabilire la calma nel sud del Paese – perché quegli obbiettivi sono anche interessi strategici europei che l’Unione Europea dovrebbe sostenere.
Primo, c’é la natura criminale del governo di Hamas a Gaza, che ha fatto di tutto per tormentare la sua popolazione civile da quando ha preso il potere nel giugno del 2007. Inizial-
Sconfiggerlo significa rimuovere un ostacolo significativo al processo di pace in Medio Oriente e indebolire Ahmadinejad mente Hamas ha fatto piazza pulita degli oppositori massacrando e imprigionando centinaia di attivisti e leader locali di al-Fatah. Poi ha proceduto a limitare sempre più le già striminzite libertà individuali e politiche concesse dall’Autorità Palestinese – chiudendo giornali, perseguitando giornalisti e intimidendo le minoranze religiose cristiane. Quindi ha mantenuto una costante pressione militare su Israele con lanci regolari di missili – quasi 10mila dal 2000, e nel solo 2008 1,571 missili e 1,531 colpi di mortaio. Infine, quattro giorni
prima di rompere la tregua, Hamas ha introdotto a Gaza le punizioni coraniche per crimini vari, compresi l’oltraggio al costume islamico, che includono l’amputazione delle mani, la fustigazione pubblica e la crocefissione. Tutto questo ha preso la precedenza sulla ricostruzione, l’investimento in infrastruttura, lo sviluppo economico, l’istruzione, la sanità e via dicendo. Chiunque crede che i movimenti islamici, una volta al potere, per necessità se non per convinzione sceglieranno il pragmatismo temperando la loro militanza ideologica in nome della realtà, non ha che guardare a Gaza per trovare la prova di quanto sia infondata questa teoria.
Due immagini della guerra di Gaza. In basso, Riccardo Pacifici: ha organizzato a Roma una manifestazione di solidarietà con Israele
Secondo, la decisione di Hamas di riaprire il conflitto militare con Israele non solo costa vite umane e peggiora le già fragili condizioni economiche di Gaza, ma ha anche ucciso un già moribondo processo di pace. Hamas ha scatenato la Guerra dopo aver bloccato la pace. Solo rimuovendo Hamas dall’equazione si può dare una nuova chance al processo di pace. Terzo, il consolidamento di una repubblica islamica sulle sponde del Mediterraneo orientale costituisce una minaccia alla stabilità dell’Egitto e della Giordania. Sconfiggere
Questa sera una manifestazione con Pacifici, Fassino, Adornato e Ronchi
ROMA Le polemiche degli ultimi giorni seguite all’invito, condannato poi dalle massime autorità locali - il presidente della Regione Piero Marrazzo, il sindaco Gianni Alemanno e il presidente della Provincia Nicola Zingaretti - del sindacato autonomo, e invero semi sconosciuto, Flaica Club a boicottare gli acquisti nei negozi della comunità ebraica, nonostante qualche strascico mediatico, sono state sedate: il venerdì di riposo e preghiera ebraico nel ghetto romano è trascorso tranquillamente. Oggi però, per non dimenticare, è stata organizzata - dalla comunità ebraica di Roma e dal suo presidente Riccardo Pacifici - un’importante manifestazione presso l’Hotel Parco dei Principi di Roma (via Frescobaldi, 5) con inizio questa sera alle 20.30. Il tema che verrà discusso è di strettissima attua-
Da Roma solidarietà a Israele di Francesco Capozza lità: “Sosteniamo Israele, sosteniamo la Pace”.
Non sarà, come è evidente, una manifestazione a porte chiuse o circoscritta solamente a quanti professano la fede ebraica, ma un incontro aperto alla sensibilità di quanti pensano che «l’Italia e Roma vogliono combattere il terrorismo e dare libertà al popolo palestinese, che è soggiogato da una tirannia islamica che vuole la sharia. Israele ha il diritto di difendersi e una cosa è certa: non si può trattare con i terroristi, e Hamas lo è», per dirla con Ric-
cardo Pacifici. Sono previsti, dunque, diversi interventi, tra cui quello di Piero Fassino a testimonianza della solidarietà del Pd, di Ferdinando Adornato per l’Unione di Centro e del ministro Andrea Ronchi per il governo e il Pdl. Non mancheranno proiezioni di filmati e di testimonianze registrate e dal vivo di esponenti della comunità ebraica romana e nazionale. È previsto, inoltre, un saluto dell’ambasciatore d’Israele in Italia Gideon Meir e di altre istituzioni ebraiche.
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Perché Hezbollah non ha alcun interesse a partecipare al conflitto
Un razzo in più non vale il Libano di Antonio Picasso l dubbio che l’autore materiale sia Hezbollah è forte. Tuttavia, il lancio di Katyusha su Israele dal Libano del Sud l’altro giorno, può apparire come un’avvisaglia di guerra. Ma ci sono alcuni impedimenti sostanziali per cui al “Partito di Dio” non conviene attaccare Israele. Impedimenti tecnicomilitari e altri politici. I primi sono determinati dalla mancanza di territorio a disposizione delle milizie sciite per affrontare il loro “Piccolo Satana”. Prima della guerra del 2006, l’area tra il fiume Litani e il confine con Israele era sotto l’esclusivo controllo di Hezbollah, sia militare che politico. Oggi non è più così. Il sopraggiungere dei Caschi Blu di Unifil ha imposto l’arretramento dell’arsenale del “Partito di Dio”oltre il Litani, aumentando così le distanze tra le basi lancio dei razzi e gli obiettivi israeliani da colpire. Di conseguenza, la sola possibilità di effettuare operazioni così delicate, come avvenuto mercoledì, è quella di entrare nell’area controllata da Unifil e lanciare precipitosamente il razzo da postazioni improvvisate, ricorrendo eventualmente a un masso come rampa di lancio, quindi aumentando il livello di approssimazione nel colpire l’obiettivo.
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nità sciita e con una milizia iperattiva, si sta evolvendo in partito politico nazionale, alla ricerca del consenso da parte di un elettorato esterno al suo nucleo sociale originario. Questo perché se il “Partito di Dio” mira effettivamente a fare del Libano uno Stato islamico fondamentalista sul Mediterraneo, deve tener conto che il Paese è abitato da 18 confessioni religiose differenti, distribuite su una popolazione di appena 3 milioni di persone. Non solo. Governare un Paese significa confrontarsi con la comunità internazionale, firmare accordi commerciali ed eventualmente trattati di alleanza. Ed Hezbollah è ben conscio che gli serve adottare un’immagine di presentabilità e rispettabilità. Ma tutto questo è possibile solo se vengono prese le distanze dalle operazioni armate e si comincia a fare politica con i modi più“laici”possibili. Non è un caso che tra i membri del movimento eletti all’Assemblea Generale a Beirut figurino uomini in giacca e cravatta, che hanno smesso gli abiti tradizionali sciiti. Guardiamo il loro capogruppo, Mohamed Raad, i cui modi di fare sono palesemente lontani dai quelli dello sceicco Nasrallah. E, sebbene quest’ultimo resti indiscutibilmente il leader, la dirigenza politica del “Partito di Dio”sta cambiando lentamente volto. D’altro canto, sarebbe scorretWASHINGTON. Gli uomini to decontestualizzare la situadel presidente eletto Barack zione. In uno scenario in cui Obama sono pronti a metter l’arcipelago di milizie che sofine alla «dottrina Bush», stengono la resistenza contro che puntava a isolare HaIsraele è collegato dai valori mas, e ad avviare contatti della fratellanza e della solicon il movimento islamico darietà di lotta, è impensabile che governa Gaza. Lo scrive che le milizie presenti in Libail quotidiano britannico no o in Siria – compresa quelGuardian. Il giornale afferla di Hezbollah – si possano ma di aver parlato con tre sentire estranee alla guerra persone che sono a conoche sta combattendo Hamas. scenza della discussione in Il lancio di Katyusha ne è un questo senso nell’entourage chiaro esempio. Logico, però, del presidente. Nessuno parche questa volontà frenata a la di un avallo diretto del stento di intervenire militarnuovo presidente a negoziati mente a fianco dei loro fratelaperti, ma consiglieri del leali a Gaza può mettere a repender Usa gli chiedono di avtaglio tutte le conquiste politiviare contatti a basso livello che ottenute dagli sciiti. Pero segreti, e a Washington ci ché a Hezbollah, che vuole sarebbe ormai la convinziovincere le elezioni di giugno, ne che l’ostracismo contro tutto può tornare utile fuorché Hamas sia stato controprofare del Libano del Sud – dove ducente. Tra coloro che socon Unifil si è creato un delistengono questa prospettiva catissimo equilibrio – un nuoc’è Richard Haass, diplomavo fronte di guerra. A Nasraltico con entrambi presidenti lah serve il consenso degli Bush, che dovrebbe secondo elettori libanesi, non un loro i media diventare l’inviato in nuovo sacrificio. Medio oriente di Obama. Analista Ce.S.I.
Da movimento settario supportato quasi unicamente dalla comunità sciita e con milizie iperattive, si sta evolvendo in partito nazionale
Obama cambia strategia con Hamas?
Hamas serve un interesse strategico occidentale fondamentale – la preservazione di questi regimi moderati che sono nostri alleati e che sostengono il processo di pace e la coesistenza con Israele. Quarto, un rafforzamento militare di Hamas a Gaza non solo serve a rafforzare il fronte del rifiuto palestinese e il fondamentalismo islamico. Hamas è finanziato, equipaggiato e addestrato dall’Iran. L’Iran è il principale fornitore di armi di Hamas – i missili Grad caduti su Beer Sheva sono vecchie forniture cinesi all’Iran della guerra Iran-Iraq. E l’Iran addestra miliziani di Hamas sia a Gaza – dove c’é una presenza dei guardiani della rivoluzione, sia in Iran.
I missili di Hamas non sono puntati solo contro Israele insomma – essi servono ad avanzare le ambizioni egemoniche dell’Iran nella regione. Fomentando la violenza di Hamas e sostenendo le sue aggressive pratiche islamiste, l’Iran prende due piccioni con una fava: lancia una nuova diretta sfida militare a Israele, il suo nemico ideologico, mantenendo aperta la possibilità di impegnare Israele su due fronti contemporaneamente – Libano e Gaza. E mette in pericolo la stabilità interna e l’influenza regionale dell’Egitto, il suo principale concorrente regionale per l’egemonia sul mondo
arabo e il principale referente a Gaza prima dell’arrivo iraniano. L’attuale conflitto insomma è la fase più recente di uno scontro regionale tra Iran da una parte e Israele e i Paesi arabi filo-occidentali dall’altra. I tentativi iraniani di destabilizzare maggiormente ogni area di crisi per il proprio tornaconto – Gaza, il Libano, l’Iraq e l’Afghanistan sono tutti teatri che l’Iran cerca di complicare con le sue interferenze – devono essere fermati, perché gli scopi che tali interferenze servono sono diametralmente opposti agli obbiettivi e agli interessi occidentali. Se Hamas sopravvivesse con la sua forza intatta e non venisse invece duramente indebolita e umiliata, Gaza diventerebbe rapidamente una base operativa per l’Iran nel Mediterraneo orientale, trasformando l’Iran in un interlocutore indispensabile in ogni crisi. E le soluzioni che l’Iran propugnerebbe – dal processo di pace al futuro del Libano, dall’Iraq all’Afghanistan – non sono soluzioni che l’Europa ha interesse a promuovere. Una sconfitta di Hamas insomma serve molti scopi: non soltanto riportare la calma ai cittadini del Sud d’Israele, ma anche rimuovere un ostacolo significativo al processo di pace in Medio Oriente e, nel frattempo, a che l’Iran ne esca malconcio e indebolito.
Passiamo agli impedimenti politici. In questo caso la non convenienza ad aprire un nuovo scontro diretto con Israele mette in luce le differenze strutturali che distanziano Hezbollah da Hamas. A differenza del movimento islamista (sunnita), che in questo momento sta affrontando Israele, il “Partito di Dio”(sciita) sta attraversando una fase di delicata evoluzione politica. Per quanto da molti classificato ancora come un gruppo terroristico, Hezbollah sta mettendo in pratica, con fasi lente ma progressive, il suo ambizioso progetto politico, cioè arrivare al governo del Libano. Il 2008 lo ha dimostrato. Gli accordi di Doha, che hanno traghettato Beirut fuori dalla crisi istituzionale, salvandola soprattutto dal rischio di una nuova guerra civile, e ancora meglio la riforma elettorale, in vista del rinnovo del Parlamento a giugno di quest’anno, costituiscono i due step fondamentali della strategia di lungo periodo di Hassan Nasrallah e degli altri dirigenti sciiti. Hezbollah, da movimento settario supportato quasi unicamente dalla comu-
politica
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Blitz. Maggioranza e opposizioni si sono accordate definitivamente sulla conferma del presidente della Vigilanza Rai
Ora è ufficiale: ha vinto Villari di Marco Palombi
ROMA. «Quelle di Schifani sono lacrime di coccodrillo, è lanciare il sasso e nascondere la mano. Villari resta presidente della Vigilanza, è inamovibile ed è l’icona di una situazione di corruzione ed eversione parlamentare». Leoluca Orlando, portavoce dell’Idv, ieri ha voluto parlare coi giornalisti per chiarire, anche dalla sponda dipietrista, quello che oramai sanno anche i sassi: la revoca da membro della Vigilanza di Riccardo Villari, su cui il presidente del Senato ha impegnato la sua Giunta per il regolamento, non è una via percorribile. Se a questo si somma lo stop chiamato sulla questione dai rutelliani del Pd, nel Palazzo è pagata oramai pochissimo la possibilità che Sergio Zavoli – sulla graticola oramai da mesi – possa davvero succedere all’ex dc napoletano.
È curioso, peraltro, che Orlando usi, a proposito di questa vicenda, la stessa parola scelta dal radicale Marco Beltrandi: “inamovibile”. «Sarebbe grave
ringraziare proprio Marco Pannella. Il leader radicale - che per settimane aveva richiamato il Parlamento alla necessità di eleggere un presidente per la commissione di controllo sulla Rai - non ha mai smesso in queste settimane di lavorare per il suo nuovo “pupillo” con pubbliche dichiarazioni e lavoro sotto traccia. Non a caso, se il paragone non pare blasfemo, Linda Lanzillotta ha scelto proprio Radio Radicale per incrinare il “fronte della fermezza” nel Partito democratico. A lei si sono aggiunti altri rutelliani e ora i radicali possono esultare: «Finalmente in tanti parlamentari – ha dichiarato sempre Beltrandi - un po’da ogni parte, sono tornati a valorizzare il ruolo, l’importanza e le garanzie che devono circondare le alte cariche istituzionali, soprattutto se riguardano organi come la commissione di vigilanza sulla Rai».
Negli ultimi giorni questo sfilacciamento degli anti-Villari si è affacciato sulle pagine dei
Prima Orlando, poi Marco Beltrandi: il Parlamento ha messo la parola fine alla telenovela. Per tutti ormai l’ex “signor nessuno” è diventato “inamovibile”. Anche Schifani se n’è convinto e pericoloso che bastasse l’espulsione dal gruppo parlamentare per revocare una carica istituzionale», argomentava ieri il deputato pannelliano del Pd. E Villari, se come sembra riuscirà a restare in carica, dovrà
giornali, tanto che alcuni esponenti veltroniani, scambiando il sintomo per la malattia, sono arrivati a parlare di una sorta di complotto della stampa per blindare il senatore campano a palazzo San Macuto. Il problema è che Walter Veltroni e tutti i suoi sono ancora parecchio arrabbiati per
via del brutto scherzo che Villari gli giocò il giorno in cui fu eletto: gli assicurò che si sarebbe dimesso, il segretario andò a dirlo ai giornalisti e poi tutti sanno com’è andata. Una soluzione ragionevole è, insomma, fuori dagli avvenimenti possibili a breve. A testimoniare l’impazzimento generale si può citare la posizione di Enzo Carra: aveva sempre sostenuto che oramai il danno era fatto ed era inutile stare a perdere altro tempo, ieri – in odio agli ex amici rutelliani che si sono intestati la battaglia – proponeva addirittura di dimettersi in massa dalla commissione se Villari non verrà revocato d’imperio dal Senato.
Proprio su questo, poi, s’è aperto un fronte anche nel centrodestra. Renato Schifani - anche se gli è stato da più parti chiarito che la cosa non si può fare - ieri ha confermato che la Giunta si riunirà il 13 gennaio per continuare l’iter della revoca di Villari, anche perché «in questo momento la commissione di Vigilanza è in una fase di stasi e di paralisi, non è in grado di operare». Un atteggiamento anche comprensibile visto che il presidente del Senato su questa iniziativa ci ha messo la faccia, ma la cosa rischia di costargli cara. Intanto in ter-
mini di rapporti interni al centrodestra: ad esempio con quelli con il capogruppo del Pdl Maurizio Gasparri, da sempre schierato in difesa di Villari, non sarebbero troppo tranquilli. Ma il problema, in realtà, è ancora più complesso. A parte gli spettatori interessati del Pd e gli uffici della presidenza del Senato, non c’è costituzionalista interpellato che non dichiari che Villari non si può toccare (l’assenza di vincolo di mandato per il parlamentare, il ruolo di garanzia del presidente di commissione), ma la Giunta per il regolamento potrebbe anche fregarsene e procedere con un voto tutto politico: a quel punto probabilmente entrerebbe in campo la Consulta che, per quanto non insensibile ai suggerimenti del potere, potrebbe anche dare torto al Senato. Una sconfessione senza precedenti nella storia repubblicana che riguarderebbe in primo luogo proprio il presidente. Per questo la nuova parola d’ordine nel centrodestra è «salvate il soldato Schifani». A dare voce pubblica a questa preoccupazione ci ha pensato Giorgio Lainati, uomo assai vicino a Paolo Bonaiuti e fedele portatore della volontà di palazzo Chigi in Vigilanza: ha ragione Schifani, la commissione è in stallo, ma la colpa è dell’opposizione che diserta i lavori e impedisce di eleggere il cda Rai, scaduto da sei mesi,
Riccardo Villari: la sua poltrona di presidente della Commissione di Vigilanza sulla Rai è ormai saldissima. In basso, il presidente del Senato Renato Schifani, il suo ultimo oppositore e di varare il regolamento per le elezioni in Sardegna. Insomma, adesso è ora di mettersi al lavoro: «È chiaro che si dovrà analizzare quanto deciso dalla Giunta per il regolamento del Senato, ma non si possono ignorare le prese di posizione di numerosi esponenti del Pd, a cominciare da quelle dell’ex ministro Lanzillotta, che ha avanzato non poche perplessità su un’eventuale defenestrazione tecnica del presidente della Vigilanza ad opera della giunta regolamentare del Senato».
In mezzo a tutto questo bailamme sta Riccardo Villari, saldo come un tronco nell’oceano. Ha innescato una crisi nel Pd, toglie il sonno ai dipietristi, crea malumori nel Pdl, ma sta, e oramai i più pensano che sia destinato a stare fino alla fine, fino all’ultimo panettone, fino all’ultima Pasqua della legislatura. Villari, probabilmente, ha vinto e forse aveva già vinto dall’inizio quando tutti lo cercavano e lui ha staccato il telefono e se n’è andato a correre. È un tronco nell’oceano, non ha rotta ma non può affondare: è inamovibile.
economia
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Proposte. La recessione mina i risparmi: occorre puntare sulla produzione
Consumare non basta Il miraggio di Tremonti di Enrico Cisnetto segue dalla prima Ma attenzione, perché non è un trend che potrà durare all’infinito: il numero degli italiani che non riesce a risparmiare era il 51% nel 2007, è cresciuto quest’anno al 69%. Tutto questo è dimostrato anche dalle serie statistiche dell’Istat, da cui si evince che la curva dei consumi italiani potrebbe essere definita come una “variabile indipendente” dalla ricchezza prodotta nel Paese: dal 1992, infatti, il reddito pro-capite è rimasto sostanzialmente invariato, mentre i consumi sono saliti dell’1,25% all’anno, con punte dell’1,7% durante gli anni Novanta.
Nel frattempo, in fatto di pil l’Italia perdeva posizioni sia rispetto a Eurolandia sia agli Usa, con cui il gap di crescita
Lega: 50 euro per ogni permesso di soggiorno No di Fini Una tassa di 50 euro per il rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno agli stranieri. Lo prevede un emendamento della Lega al dl anticrisi che ha avuto il parere favorevole del governo e dei relatori. Il gettito, è scritto nell’emendamento, verrà destinato ai Comuni di residenza dei cittadini stranieri e utilizzato per l’attuazione di politiche di sostegno alle famiglie (italiane) e per il controllo del territorio. Porta sempre la firma della Lega un altro emendamento che introduce una fidejussione di 10.000 euro a carico dei lavoratori extracomunitari che aprono una partita iva. Anche in questo caso c’è il parere favorevole di governo e relatori. Fini ha invitato il Pdl a non trasformare il decreto anticrisi in un «contenitore di misure discriminatorie».
A maggio un G8 sull’immigrazione
«Continuiamo ad acquistare», dice il governo con soddisfazione, mostrando i dati ufficiali. Ma nessuno dice che il problema è che compriamo beni che da anni non vengono più costruiti in Italia si faceva sempre più alto, e tutte le classifiche – a partire da quella della produttività – ci vedevano regolarmente in ultima posizione. Soprattutto nel quinquennio 2001-2006, per esempio, la penisola è stata ultima per la crescita della produttività del lavoro, addirittura negativa (-0,5%) per tutto il periodo in esame (Ocse). Ancora peggio per quanto riguarda la produttività “multifattoriale”, che comprende l’innovazione tecnologica e organizzativa, dove l’Italia ha
in breve
accusato una flessione media dello 0,5%. Così, sempre secondo l’Ocse, l’Italia resta ancora la sesta economia mondiale, ma è scivolata al 20esimo posto se si considera il pil pro-capite, con il secondo peggiore debito pubblico del mondo ed è ultima per crescita del pil negli ultimi anni tra i paesi più industrializzati. I lavoratori, inoltre, devono fare i conti con un compenso medio che è il più basso tra i big industrializzati, dopo avere segnato una delle crescite più deboli
nell’area Ocse tra il 1995 e il 2006 (+2% medio annuo, al terzultimo posto).
Eppure, continuiamo ad acquistare: magari beni che però non produciamo più come i telefonini, esempio tanto caro al nostro premier, che da anni non vengono più costruiti sul suolo italico. Magra consolazione. E sarebbe grottesco e criminale pensare di poter basare il contrasto alla recessione (che invece significherà una spiacevole ma necessaria moria di aziende e un vero cambiamento di paradigma da parte del tessuto imprenditoriale italiano) sulla ripresa o quantomeno sulla tenuta dei consumi. Perché è una sequenza logica sbagliata: pri-
Per L’Istat, l’indebitamento dello Stato è cresciuto del 2,1%
Peggiorano ancora i conti pubblici ROMA. Peggiorano i conti pubblici: deficit in forte aumento mentre cala l’avanzo primario. L’Istat segnala che l’indebitamento, nei primi nove mesi del 2008, è risultato pari al 2,1% del Pil in crescita rispetto al’1,2% dello stesso periodo del 2007. Nel terzo trimestre, il «rosso» è stato pari allo 0,9% contro lo 0,6% dell’anno prima. Nel dettaglio le entrate totali sono salite del 3,1% (+3,3% le correnti e -19% quelle in conto capitale) con un’incidenza sul Pil che nei primi nove mesi è salita dal 44,4% al 44,8%. Le uscite sono invece aumentate del 3,9% con un peso sul Pil che passa dal 44,9% al 45,7%. L’avanzo primario tra gennaio e set-
tembre è al 3%, contro il 3,8% dei primi nove mesi del 2007. Nel terzo trimestre il dato è risultato pari al 4,3% contro il 4,4% di un anno prima, in discesa da 16,791 a 16,426 miliardi in cifre assolute. Il saldo corrente è sceso allo 0,8% dall’1,9% del 2007 nei primi nove mesi e al 2,2% dal 2,7% nel terzo trimestre. Per quanto riguarda le entrate correnti, la scomposizione vede crescere del 7,6% le imposte dirette e del 7,3% i contributi sociali; scendono del 4,6% le altre entrate correnti. Le uscite correnti aumentano del 4,7% per effetto di una crescita dei redditi da lavoro dipendente (+3,2%) e dei consumi intermedi (+5,3%).
ma vengono la produzione e il reddito, e poi i consumi, non viceversa. Del resto, la prova del nove dimostra che chi ha provato ad applicare la ricetta inversa è rimasto scottato: gli ultimi tre interventi di riduzione fiscale disposti dal governo Berlusconi (2001-2006) e dal governo Prodi (1996-1998), a parte che sono stati accompagnati da paralleli aumenti della pressione fiscale, hanno avuto ben miseri effetti. Con la prima detassazione decisa dal governo Berlusconi II (2003) lo Stato spese 5,5 miliardi di euro per introdurre novità come la famosa “no tax area”. Il risultato in termini di consumi fu una spesa media mensile per famiglia salita dell’1%. Nel 2005 scattò la seconda e ultima tranche della riforma fiscale del governo Berlusconi, per un totale di 6,5 miliardi concentrati questa volta sui redditi medio alti. La spesa mensile per famiglia salì solo dello 0,7%. Infine nel 2007 con la prima Finanziaria del Governo Prodi e la rimodulazione di scaglioni e detrazioni, un’operazione da 1,4 miliardi portò un aumento dei consumi solo dello 0,8%.
Insomma, l’ennesima dimostrazione che i consumi sono variabile indipendente dalla crescita. Eppure c’è ancora chi insiste (a raccontare balle alla gente). (www.enricocisnetto.it)
Alla fine di maggio si terrà a Lampedusa un vertice G8 dei ministri dell’Interno e della Giustizia sul tema dell’immigrazione. Lo ha annunciato il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che è andato ieri mattina sull’isola per un sopralluogo. Uno dei temi centrali, ha spiegato il ministro, sarà quello del coordinamento sul tema immigrazione.
Alfano interviene sul caso “Why not” Il ministro della giustizia Angelino Alfano ha chiesto che sei magistrati di Salerno e Catanzaro - protagonisti di un aspro scontro sull’inchiesta «Why Not», il mese scorso - vengano trasferiti di sede e di funzione e che il capo della procura di SaLuigi lerno, Apicella, venga sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Lo hanno riferito ieri fonti del Ministero della Giustizia precisando che la richiesta di Alfano, in via d’urgenza, verrà inviata alla sezione disciplinare del Csm, convocata per oggi, che dovrà decidere sulla precedente richiesta del pg della Cassazione di trasferire ad altra sede e ad altre funzioni il solo Apicella.
economia
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Cantieri. Mentre la politica si divide in modo campanilistico, nessuno pensa ai ritardi dei due maggiori scali italiani
Collasso di hub Malpensa funziona a mezzo servizio e Fiumicino non ha ancora la terza pista di Francesco Pacifico
ROMA. A Malpensa non si può atterrare o decollare dopo le 23 perché il rombo dei motori nuoce alle specie protette del Parco del Ticino. Fiumicino è costretto a chiudere ogni qualvolta il maestrale soffia più forte del solito. Se questi sono i due aeroporti che si contendono il ruolo di hub del Paese… Se c’è un minimo comune denominatore tra lo scalo varesino e quello romano, questo è la loro infelice collocazione. A Heathrow, allo Charles de Gaulle o al Jfk – dove pure i problemi non mancano – certe cose sarebbero impensabili. Da noi sono esemplari per spiegare perché il Paese, mentre spende 3 miliardi di euro per rilanciare Alitalia, si ritrova con uno scalo a mezzo servizio (Malpensa) e uno vicino alla saturazione (Fiumicino). Nonostante la proliferazione di piccoli aeroporti, i due grandi duellanti hanno registrato performance record in questi anni. Nel 2007, anno precedente al maxi taglio ai voli di Alitalia, Fiumicino ha registrato oltre 32 milioni di passeggeri contro i 25 di Malpensa. Anche
Ok all’acquisto del 25% della nuova compagnia
Parigi annuncia: sì ad Alitalia ROMA. Il consiglio di amministrazione di Air France ha dato il proprio via libera alla proposta di accordo con Alitalia, mentre Lufthansa non getta la spugna e fa sapere che potrebbe ancora presentare un’offerta per un’alleanza con la compagnia italiana. Secondo alcune fonti - Air France non ha diffuso comunicati ufficiali - il cda della compagnia francoolandese ha conferito mandato ai vertici per presentare l’offerta ad Alitalia, che la dovrebbe recepire nel cda di lunedì; l’accordo diventerebbe ufficiale tra lunedì e martedì. Air France acquisterebbe il 25% di Alitalia per una cifra intorno ai 310 milioni di euro. Quanto a Lufthansa, il gruppo tedesco è venuto parzialmente allo scoperto ieri, con una dichiarazione della propria portavoce, secondo cui «non siamo fuori dalla competizione. I contatti continuano e sono in corso anche in queste ore. Abbiamo presentato una proposta di collaborazione nel quadro di StarAlliance, non un’of-
ferta, ma la possibilità di presentare un’offerta c’è ancora». Sul fronte politico, dopo le polemiche la Lega interviene concretamente a favore di Malpensa, proponendo un emendamento inserito nel Dl anti-crisi, ora all’esame delle commissioni Bilancio e Finanze della Camera. L’emendamento salva-Malpensa, come è stato subito battezzato, prevede che i ministeri delle Infrastrutture e degli Esteri entro 30 giorni dall’entrata in vigore del Dl promuovano accordi bilaterali nel trasporto aereo per ampliare il numero dei vettori ammessi a operare su tutte le rotte - nazionali e internazionali - o per aumentare le frequenze. Sul tema, ieri, è intervenuto il ministro dei Trasporti, Altero Matteoli, secondo cui il governo non intende ridimensionare lo scalo milanese. «Mentre la scelta del partner - ha detto - è di competenza di Alitalia, si potrebbe intervenire sui diritti di volo: si può riaprire una rinegoziazione dei diritti di volo».
Nella struttura lombarda cresce lo spazio destinato ai lowcost, mentre Lufthansa nicchia sui voli intercontinentali. A Roma i soci di Adr hanno trovato un accordo sui lavori necessari solo nel 2007 se lo scalo lombardo ha monopolizzato il traffico business con 14 milioni di viaggiatori e un giro d’affari di 4 miliardi di euro. Numeri che fino allo sforbiciamento seguito al piano Prato hanno fatto registrare grandi plusvalenze alle società di gestione, l’Adr e la Sea, e ai loro azionisti (i Romiti, i Benetton o Ligresti da un lato, il comune e la provincia di Milano dall’altro). I 150 voli in meno e il dimezzamento dei passeggeri, per esempio, hanno spinto i lombardi a mettere nel preconsuntivo per il 2008 una perdita da 70 milioni. Eppure a grandi ricavi non sono seguiti gli investimenti ne-
cessari. A Malpensa soltanto nel 2008, a dieci anni dall’apertura, è stata inaugurata la bretella che collega lo scalo all’autostrada a Milano Torino. Ma per essere un vero hub mancano una terza pista o un collegamento interno più veloce tra i due terminal. Infrastrutture che certamente non saranno fatte dopo l’addio di Alitalia.
«Malpensa», nota Dario Balotta, ex segretario della Cisl trasporti della Lombardia e oggi nella segretaria nazionale del Pd, «è costata nel 1998 3mila miliardi di vecchie lire. Nei dieci anni successivi l’Alitalia ha necessitato di capitalizzazioni per 5 miliardi. E il tutto
Le associazioni sindacali pronte a continuare la protesta contro i criteri adottati da Cai
Intanto decolla il caos delle assunzioni di Vincenzo Bacarani
ROMA. Sono stati assunti - a tempo indeterminato - 526 lavoratori che prima erano sotto contratto a tempo determinato e poi sono state assunte - a tempo determinato - oltre 100 persone che avevano invece un contratto a tempo indeterminato. È caos alla Cai, la Compagnia aerea italiana che ha rilevato la fallita Alitalia e che si accinge a prendere il volo (in tutti i sensi) martedì.
Ma dal punto di vista sindacale, questo sembra essere un decollo spericolato. I criteri di assunzione degli ex-dipendenti Alitalia variano a seconda del giorno: alcune lavoratrici sono state trasferite da Roma a Napoli, da Napoli a Roma o a Milano. Sono stati assunti a tempo indeterminato anche lavoratori che avevano già i requisiti per la pensione e altri, più giovani, sono invece stati bocciati. «Caos è dire poco - afferma il segretario dell’Ugl, Roberto Panella – la Cai nelle trattative per le riassunzioni si affida ad avvocati e consulenti esterni che non conoscono la realtà Alitalia, non comprendono la complessità del mondo del trasporto aereo.
In Cai non c’è nessun esperto di relazioni sindacali. C’è l’amministratore delegato Rocco Sabelli e basta, non è stato assunto alcun dirigente. Vengono fuori pasticci indescrivibili e per questo oggi (ieri per chi legge, ndr) siamo stati costretti a informare i nostri iscritti tra gli addetti alle attività di manutenzione con assemblee veloci». E questo ha provocato ulteriori e gravi disagi, come quelli di giovedì, ai passeggeri in transito a Fiumicino. «Adesso però – prosegue Panella – siamo fiduciosi. Il governo, che ha fatto da garante dell’accordo, si sta muovendo e la situazione dovrebbe risolversi». Non la pensano così i sindacati autonomi. In testa Sdl, il sindacato dei lavoratori intercategoriale, tra i più attivi nella fase calda delle trattative di settembre e ottobre e ancora protagonista ieri con due azioni clamorose. I suoi iscritti hanno infatti occupato gli uffici dove si svolgono le selezioni del personale della nuova Alitalia e il suo segretario nazionale, Paolo Maras, si è incatenato in segno di protesta davanti al centro equipaggi dello scalo della ca-
economia
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Un confronto tra l’offerta (rifiutata) di dieci mesi fa e quella di oggi
Air France, tutti i conti di un grande affare ROMA. Dieci mesi fa Jean-Cyrill Spinetta mise sul piatto 138,5 milioni di euro in carta, in azioni di Air France, per il 100 per cento di un carrozzone con poco più di 1,3 miliardi di passività. Dieci mesi dopo si accinge a offrire circa 300 milioni cash per il 25 per cento di una compagnia senza un euro di debito e che assomma i due principali vettori italiani. Trecento milioni, in conclusione, per conquistare il monopolio sul trasporto aereo nostrano, che cresce in media del 7 per cento all’anno e vanta 125 milioni di passeggeri all’anno.
per avere non un hub, ma una Linate più grande». Situazione non diversa a Fiumicino che tra le scorse primavera ed estate, dopo l’aumento dei voli della Magliana, ha raggiunto la saturazione nelle fasce orarie mattutine e serali. Tanto che l’Enac minacciò informalmente ripercussioni sull’operatività, creando non poche tensioni tra i soci di Gemina, controllante di Adr. Proprio la lunga querelle societaria che ha portato soltanto nel 2007 all’uscita dei Romiti e di Macquarie ha contribuito a bloccare gli investimenti. Soltanto nell’ultimo biennio sono partiti i lavori per il Terminal 5 e per la terza pista, ed è stata introdotto il sistema di smistamento dei bagagli Bhs. E in futuro non mancheranno interventi sull’area accoglienza passeggeri o sulla viabilità aeroportuale. Azioni utili per ridurre i rischi di saturazione, in at-
Una delle tante proteste che si sono tenute in questi giorni a Fiumicino. In basso a sinistra, il leader dell’Anpac, Fabio Berti. Nelle foto a destra Roberto Colaninno e Jean Cyrill Spinetta tesa che si faccia qualcosa con i collegamenti per la capitale. Vittime di questi ritardi e senza certezza sulla scommessa CaiAlitalia, Sea e Adr devono rimodulare il loro modello di business. A Fiumicino si tratta con l’Enac e il ministero delle Infrastrutture per una migliore remunarazione del traffico aereo. Per Malpensa, dove il terminal 2 destinato ai lowcost è sempre pieno e quello 1, lasciato libero da Alitalia, è meta dei charter, si studiano intese con i vettori asiatici e altri lowcost. E si guarda a Lufthansa: anche se la compagnia guarda allo scalo in logica point to point. Non porterà i voli internazionali che chiede il territorio.
pitale. Azioni che, secondo Sdl, si sono rese indispensabili «per denunciare gli assurdi criteri adottati che hanno già prodotto danni incalcolabili. Vanno riconsiderati sia il numero degli organici, largamente insufficiente, sia i criteri che devono essere equi, ragionevoli e trasparenti».
E mentre la protesta di ieri pomeriggio indetta da Filt-Cgil, FitCisl, Uil Trasporti e Ugl Trasporti potrebbe presto rientrare di fronte alle rassicurazioni del governo, gli autonomi non demordono e lo stesso Sdl ha confermato lo sciopero di 4 ore per il 19 gennaio e una manifestazione alle 10 martedì 13 gennaio, giorno dell’avvio operativo della nuova compagnia. Ma anche sul fronte piloti la temperatura rimane caldissima. All’Anpac (il più grande sindacato autonomo dei piloti che si è recentemente unificato con l’altro sindacato autonomo Unione Piloti) fanno sapere che «questa situazione era quella che noi avevamo previsto». E il pessimismo permane. «Non siamo certo contenti di aver avuto ragione – spiega un esponente dell’Anpac – ma quando noi denunciavamo questa situazione caotica molti giornali e molte tivù ci hanno attaccato, definendoci privilegiati. In realtà nelle assunzioni la nuova azienda non rispetta i criteri di anzianità e soprattutto non rispetta nella maniera più assoluta gli accordi che sono stati sottoscritti con il governo». Il clima sindacale è sempre più teso e altre agitazioni a sorpresa sono attese nelle prossime ore.
Dal marzo del 2008 a oggi sono cambiate le condizioni dell’ingresso di Air France in Alitalia. Nell’operazione è rientrata AirOne, mentre i capitani coraggiosi della cordata di Cai hanno comprato dal commissario Augusto Fantozzi soltanto i pezzi migliori della vecchia compagnia. Eppure si può trovare un elemento dal quale partire per un parallelo: con la loro prima offerta i transalpini si prendevano in carico la stragrande maggioranza dei debiti di Alitalia, oggi queste voci sono state scaricate sulla
perché Maurizio Prato, l’allora Ad di Alitalia – ed ex numero uno dell’ente liquidatore dell’Iri – rifiutò sdegnosamente questo schema. Si sa soltanto che i francesi provarono a scaricare prima 5mila lavoratori e poi 3.200 sulla controllata del Tesoro. Anche sugli esuberi ci sono differenze: a marzo 2008, e dopo tanti tira e molla, i francesi ne annunciarono circa 2.200 tra piloti, assistenti di volo e personale di terra, oltre ai già citati lavoratori da “girare”a Fintecna. La Cai ufficialmente non riassobira più di 3mila unità assunte a tempo da Alitalia e AirOne, ai quali vanno aggiunti circa 4mila precari in servizio presso i due vettori.
Più in generale, negli 1,7 miliardi impegnati nella prima fase dai francesi erano compresi i 138,5 milioni per l’acquisto delle azioni Alitalia, un miliardo per la ricapitalizzazione (da recuperare però vendendo asset della compagnia italiana) e 608 milioni per le obbligazioni convertibili, compresi quei Mengozzi bond, che a oggi sono l’unico debito di Alitalia che sicuramente sarà rimborsato. Dal canto suo, Cai
Nella proposta del marzo scorso, la compagnia francese prevedeva di pagare subito 1,7 miliardi di euro e di investirne 2,8 in dieci anni, accollandosi i debiti. Ora controllerà Alitalia con 300 milioni cash fiscalità generale. Tra le passività dell’azienda, i costi per gli ammortizzatori sociali e i prepensionamenti per oltre 7mila lavoratori, l’ex azionista Tesoro ha deciso di accollarsi una cifra che sfiora i 3,2 miliardi di euro. E che potrebbe superare i 4 miliardi tra risarcimenti giudiziari e minore gettito fiscale garantito dal nuovo vettore. Se, in caso di take over francese, i creditori della Magliana potevano chiedere conto a Parigi, adesso gli stessi devono presentare le loro istanze al commissario Fantozzi. Il quale ha fatto sapere di poter restituire poco più della metà del debito totale. Senza contare che le modifiche volute da Tremonti alla legge Marzano sui commissariamenti non permettono neanche di sequestrare i beni esistenti. A marzo del 2008 Air France annunciò di voler investire in Alitalia circa 1,7 miliardi di euro. L’operazione era molto complessa: con uno scambio azionario i transalpini garantivano 0,099 euro per ogni azione di Az Fly e si riprendevano le attività di terra di Az servizi (per il 49 per cento in mano a Fintecna). Ma erano molte le postille. Oltre all’avallo dei sindacati e il ritiro da parte di Sea della causa di risarcimento per l’abbandono di Malpensa, i francesi chiedevano che alcuni asset della compagnia - come manutenzione o handling - restessero in carico a Fintecna. In realtà una vera e propria trattativa su questo punto non fu mai aperta,
ha sborsato cash circa 237 milioni per le spoglie di Alitalia e circa 300 milioni per AirOne, senza però impegnare un quattrino per gli slot in mano alla Magliana (e valutati intorno ai 700 milioni) e lasciando a Fantozzi anche i vecchi aeromobili MD80. Spinetta annunciò poi che attraverso risorse generate dal vettore italiano gli investimenti diretti nell’arco di dieci anni sarebbero saliti a 2,8 miliardi di euro. Con abili giochi di sinergie con Parigi, la Magliana avrebbe goduto di risorse complessive pari a 8 miliardi. Rocco Sabelli invece è pronto a spendere entro il 2010 almeno 2 miliardi, cifra che per lo più andrà al rinnovo della flotta.
Più complesso il discorso dei voli e della gestione degli aeroporti italiani. Dopo le pressioni dei sindacati Air France aveva garantito fino a 137 velivoli, confermando i forti tagli a Malpensa (180 slot) previsti dal piano Prato. I capitani di coraggiosi dovrebbero portare la flotta a circa 140 aerei da utilizzare su 70 destinazioni (23 nazionali, 34 internazionali e 13 intercontinentali). Dieci mesi fa Air France stava per acquisire Alitalia, da lunedì prossimo forse sarà un suo azionista oltre che principale socio industriale. Due operazioni opposte che potrebbero concludersi allo stesso modo: con la compagnia della Magliana destinata a cambiare bandiera. (f.p.)
panorama
pagina 10 • 10 gennaio 2009
Baratti. Nell’incontro di giovedì sera, Berlusconi e il Senatùr non avrebbero parlato solo di Malpensa
E Bossi disse: no Martini, non parti di Francesco Capozza segue dalla prima Dall’altra parte, i commenti non erano certo di tono meno polemico: «Berlusconi sta gestendo male la partita su Malpensa. Non possiamo fallire, ma Silvio non capisce…». Insomma, poco prima che il capo padano varcasse il portone della residenza romana del premier, tirava aria di resa dei conti.
Tuttavia, chi conosce anche un minimo i due e i loro incontri, sa che una tregua, o qualcosa di analogo, era più che prevedibile. Copione, quindi, ampiamente confermato. Ieri i giornali hanno parlato della mano tesa da Berlusconi a Bossi su Malpensa, nessuno, però, ha parlato del contenuto ultimo dell’accordo tra i due leader. Chi conosce bene l’Umberto, prima di quell’incontro ci aveva riservatamente confidato che «a Bossi non basterà solo un accordo raffazzonato su Malpensa, vorrà qualcos’altro in cambio; oltre, naturalmente, alla certezza che il federalismo sarà in tempi brevi legge dello Stato». Questo era, infatti, anche il parere di chi mercoledì se-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
ra aveva partecipato alla cena leghista con il Senatùr, consumata in un noto ristorante di Piazza Augusto Imperatore a Roma. Davanti alla sua solita lattina di Coca cola, il leader padano sbuffando aveva detto ai suoi dieci commensali: «Arriveremo a un accordo, credo, ma sul piatto voglio molto di più di quello che Berlusconi vuole offrirmi». Quel «molto di più», in effetti, Bossi sembra averlo ottenuto. Quel «molto di più», corrisponde a uno scalpo. Quel «molto di più», riguarda un ritocco significativo alla squadra di
dato per quel ministero? L’attuale sottosegretaria Francesca Martini, padana doc, animalista e bossiana di ferro.
Il tira e molla tra Berlusconi, la Lega e la parte aennina del Pdl sulla creazione di due nuovi ministeri aveva reso il rimpasto di governo, di cui si parlava già da tempo, un percorso in salita. Tuttavia, sembrava certa almeno una cosa: quei due nuovi ministeri sarebbero andati ad esponenti forzisti: la rossa Brambilla al Turismo e il medico Ferruccio Fazio alla Sanità. Ora, con questo nuovo “desiderata” bossiano una di queste due certezze viene meno e, c’è da immaginare, deve essere stato un bel rospo da digerire per il premier, che a Fazio tiene molto anche personalmente. Agli aut aut leghisti il Cavaliere è abituato e, anche grazie alla mediazione di Giulio Tremonti, è sempre riuscito ad accontentare l’interlocutore. Stavolta, però, rischia di giocarsi la faccia, visto che di Fazio prossimo ministro della Sanità Berlusconi ne aveva parlato più di una volta pubblicamente.Tornerà a Roma mercoledì prossimo, Bossi, ma intanto, chi l’ha visto ieri partire alla volta dell’amata Padania, giura che sul suo viso era stampato un bel ghigno.
Il leader del Carroccio ha chiesto per la leghista Francesca Martini il nuovo dicastero della Sanità che il Cavaliere aveva promesso e Ferruccio Fazio governo. Bossi, infatti, avrebbe rilanciato con una fiches pesante l’offerta di Berlusconi: il gran capo leghista avrebbe preteso, e ottenuto, che nel rimpasto di governo di cui da giorni si parla ci sia non una, ma ben due promozioni per esponenti del Carroccio. Dopo l’assicurazione che Roberto Castelli passerà dal rango di sottosegretario a quello di vice ministro, Bossi ha alzato la posta: vuole anche una promozione ministeriale. E ha già individuato il ministero prescelto, la Sanità, che dovrebbe rinascere dallo scorporo del super ministero del Welfare. Il nome del candi-
Lanzillotta, Finocchiaro, Armato: le colonnelle del Pd contro la Iervolino
La caduta delle “dee” di donna Rosa n confronto, la caduta degli dèi di Bassolino è niente. A Napoli è andato in frantumi un altro mito della politica italiana. Un luogo comune che finalmente si rivela per quello che è: un luogo comune. La faccio breve: le donne non sono migliori degli uomini. Il destino tragicomico dell’amministrazione di Rosa Russo Iervolino lo dice come meglio non si potrebbe. Rosa è un fallimento. Lo scriveva ieri in un articolo un’altra donna democratica: Linda Lanzillotta. Qualche giorno fa la capogruppo dei senatori e delle senatrici del Pd, Anna Finocchiaro, ha chiesto le dimissioni di Rosa: «Io al suo posto mi sarei già dimessa». Invece, Rosa resiste, resiste, resiste. Così proprio la Linda ha detto: «A questo punto i consiglieri del Pd al Comune e alla Regione sfiducino la Iervolino e Bassolino». La senatrice Annamaria Carloni, moglie del governatore Bassolino, ha tuonato: «Ha detto così? E’ una vergogna». Finita? Neanche per sogno: Rosa e Teresa (Armato) che andavano d’amore e d’accordo politico hanno litigato di brutto. Il motivo pare che sia stato il famoso registratore.
I
Fatto sta che non si parlano, non si telefonano e non vanno più al cinema e a messa insieme come erano solite fare. Rosa ha perso un’amica e una sorella: «Mi sento tradita. Per me era come una
sorella. Mi sento turbata, delusa, amareggiata, addolorata». Una tragedia greca. La fine di un mito. La caduta delle dee napoletane. Le sfogliatelle. Fine della filosofia delle quote rosa. Ci hanno sempre spiegato che la politica fatta dalle donne è un’altra cosa. Che l’Italia, purtroppo, è ancora troppo indietro rispetto agli altri paesi europei. La democrazia italiana è ancora poco aperta alle donne e le donne devono essere più presenti nei luoghi di potere: nelle istituzioni, ma anche nelle aziende, nelle accademie. Nell’immaginario italiano del maschio italiano - la donna è ancora e soltanto la femmina e come dice la canzone di quel cantante milanese «voglio una donna con la gonna, prendila tu quel col cervello». Insomma, la donna sta a casa, va in chiesa, cresce i figli. Che non è un luogo comune, ma una rappresentazione antistorica della realtà e, infatti, nessuno si rappresenta la società italia-
na in questo modo. Solo le femministe credono che gli uomini credono a roba del genere. Gli uomini - questi fessacchiotti - vorrebbero solo che le donne, prese tra carriera e a volte la politica e tante altre cose, non perdessero la loro femminilità, proprio come le donne vorrebbero degli uomini con i pantaloni. Vabbè, si è capito cosa voglio dire: queste menate qui tra donne e uomini, maschi e femmine nelle quali ogni tanto qualche fine intellettuale, sia maschio che femmina, mette becco con l’aria di uno/a che dice «adesso vi spiego io tutto» e invece non dice proprio nulla perché nessuno ci capisce un accidente perché il sentimento e gli stati d’animo o diventano poesia o diventano volontà o sono delle cose inafferrabili come le nuvole in cielo. Tuttavia, «la politica alle donne» - soprattutto le donne democratiche, ma questa è una sottolineatura praticamente inutile alla Lapalisse - è
un fatto. Quando avremo la prima donna premier? E quando si potrà avere la prima Presidentessa al Quirinale? Quando si forma un governo non si fa forse a gara a chi forma il governo più rosa della storia d’Italia? Come se il colore rosa fosse migliore del colore azzurro e come se l’azzurro fosse migliore del rosa. Insomma, nella politica italiana si è discusso e si discute spesso e spessissimo di queste cose. Ora su queste cose assurde e campate in aria si è abbattuto il disastro napoletano con lo spettacolino che le donne del Pd stanno dando (bisogna pur dire che la stessa cosa non accade a destra: la Moratti non avrà previsto l’abbondante nevicata, ma è un’altra cosa, e la Poli Bortone a Lecce è un orologio svizzero, quanto alle Gelmini fa quel che può, la Carfagna si dà da fare e la Prestigiacomo non sappiamo bene cosa stia facendo ma qualcosa starà facendo).
Il governo delle donne non è migliore del governo degli uomini. Anzi, in alcuni casi, come questo napoletano, è anche peggiore. Per cosa sarà ricordata la Rosa Russo? Per aver detto «sfrantummati» oppure «sbatacchiati» oppure «piripacchi» oppure per il registratore. Ma qualcuno sa indicare una cosa buona, una sola, fatta dalla sindaca? Nonostante tutto: W le donne.
panorama
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Provocazioni. «Una moschea in ogni quartiere», aveva detto Monsignor Tettamanzi. È stato accontentato
Perché dobbiamo riconsacrare il Duomo di Giuseppe Baiocchi e c’è un uomo davvero sfortunato in questo Paese, sembra proprio essere l’Arcivescovo di Milano, Sua Eminenza il cardinal Dionigi Tettamanzi. Infatti, tutte le volte che è comparso prepotente all’“onor del mondo”, poi la realtà dei fatti si è incaricata di metterlo alle corde e spesso costretto a un imbarazzato silenzio. L’ultimo, più lacerante episodio, è di sabato scorso gennaio, con l’improvvisa occupazione del sagrato del Duomo da parte di masse islamiche in sfida aperta alla città e ai suoi simboli religiosi: gli imam hanno guidato la preghiera ad Allah, in orgogliosa affermazione dell’identità musulmana.
S
Eppure questo affabile prete, brianzolo di Renate, veniva da una solida e prudente “carriera”. Stimato teologo morale, e per un decennio attivo segretario della Cei, era arrivato alla sede episcopale di Genova all’alba del nuovo millennio sorretto da un generale consenso e da benevole aspettative. Che sublimò chiamando la galassia cattolica a protestare in colorato corteo
Unica in Italia, la cattedrale di Milano non appartiene alla Chiesa ma ai cittadini. Anche per questo merita un rispetto tutto particolare contro i potenti del G8 in nome del pacifismo della terra e dei poveri del mondo: bastarono a condannarlo a un rapido oblìo le devastazioni e i saccheggi dei “black block”. E il fidanzamento tra la porpora e i “no global” si spense miseramente nei fuochi della polemica politico-giudiziaria. Ma il destino “cinico e baro” doveva ancora accanirsi: trasfe-
rito alla sede di Milano e in predicato (secondo le malelingue) di poter puntare alla cattedra di Pietro come unico italiano in pista e di “mediazione”, il buon don Dionigi non ha perso occasione pe prendere le parti (dei diritti e talvolta dei privilegi) dei derelitti o presunti tali, a condizione tassativa che non fossero cristiani né cattolici. E il vero ca-
polavoro è arrivato nel “discorso alla città” nell’ultima festa di Sant’Ambrogio, quando in 27 prolisse pagine ha sciolto un inno al “dialogo”in tutte le sue accezioni, fino al punto da pretendere in ogni quartiere di Milano una moschea per i maomettani. Forse non ricodava l’analogo discorso di Sant’Ambrogio che nel lontano 1990 il suo profetico predecessore, Carlo Maria Martini, aveva dedicato, nello sconcerto generale, proprio all’Islam. E allora , proprio il “progressista” Martini, nel ragionare sui doveri dell’accoglienza, aveva ammonito le autorità civili a non concedere terreni e immobili in proprietà agli islamici: perché, per la loro fede, quella diventava in eterno terra islamica che escludeva ogni altra presenza. Il destino, come capita, era in agguato: e infatti sabato scorso un povero cristiano che voleva assistere alla “messa vigiliare”(che nel rito appena entrato in vigore del nuovo lezionario ambrosiano ha un significato religioso particolarmente forte e innovativo) si è trovato le porte chiuse del suo Duomo e il sagrato invaso da migliaia di uomini
Ricerca. Un confronto fra atenei italiani e europei in in occasione deI decreto Gelimini
L’Università? Ancora poco eccellente di Alessandro D’Amato
ROMA. «L’Università cambia.Valorizzato il merito, premiati i giovani, affermata la gestione virtuosa degli atenei e introdotta più trasparenza nei concorsi all’Università per diventare professori o ricercatori», è quanto ha detto il ministro Gelmini dopo l’approvazione del decreto sull’università, ieri l’altro. Ma intanto, nelle stesse ore, sul sito internet Noise from Amerika (coordinato da economisti e professori universitari come Alberto Bisin, Michele Boldrin, Sandro Brusco, Andrea Moro e Giorgio Topa), era comparsa un’analisi critica e una proposta a proprio modo interessante su come gestire l’offerta didattica a livello di atenei, firmata da Alessandro Figà Talamanca, ordinario di analisi matematica all’università La Sapienza.
modo di abbassare per tutti il livello degli studi a quello che si adatta agli studenti meno preparati (come certamente avviene in molti corsi di laurea), o di respingere la maggioranza degli studenti che chiedono una formazione superiore, incrementando irragionevolmente i ritardi e gli abbandoni». Ecco quindi comparire la necessità di una diversificazione, che l’autore ritiene possibile solo in due ambiti: tra le sedi
lia. Insomma, «il costo di spostare, attraverso incentivi finanziari, tutti i docenti attivi nella ricerca, in una minoranza delle sedi, dove sarebbero pure concentrati gli studenti destinati ad una formazione più scientifica, appare proibitivo».
Più fattibile, invece, la possibilità di prevedere l’eccellenza all’interno delle sedi stesse, selezionando studenti e professori: «Il primo passo per una diversificazione dell’insegnamento è la previsione di “placement test” che individuino le competenze iniziali degli studenti che vogliono iscriversi all’università». Il secondo risiede nell’«innalzare formalmente per tutti gli obblighi didattici, in modo che corrispondano, ad esempio, agli obblighi standard di un professore di una delle California State Universities e prevedere “premi”alla ricerca sotto forma di esenzione parziale dagli obblighi didattici (limitata ad un numero prefissato di anni) per i docenti maggiormente impegnati nella ricerca». Un’idea che porterebbe l’Università italiana a iniziare davvero un percorso di eccellenza.
Un gruppo di docenti di orientamenti diversi analizza corsi e livelli di studio: prevale ancora la propensione al “pezzo di carta”
Partendo dal presupposto che la domanda è molto diversificata, e va dalla richiesta di “eccellenza” di alcuni alla pura e semplice richiesta di avere un “pezzo di carta”, nell’analisi si dice che l’università italiana risponde a questa domanda di istruzione con un’offerta didattica diversificata solo per facoltà o corso di studio e non per livello di approfondimento: «Si rischia in questo
universitarie oppure, in alternativa, all’interno delle stesse operando sull’offerta didattica, anche mantenendo un sistema “non dualista”. Prendendo come case history le facoltà di ingegneria, Figà Talamanca riporta l’esempio della Gran Bretagna, dove la selezione è avvenuta attraverso i Research Assessment Exercises (Rae); ma ha comunque dovuto sottostare a logiche politiche (come la presenza di “quote regionali” per l’Inghilterra, la Scozia, il Galles e l’Irlanda) che probabilmente finirebbero per riproporsi anche in Ita-
che pregavano con fervore Allah il misericordioso. Se moschea deve esserci in ogni quartiere, cosa di più logico che le porte del Duomo?
E il cardinale? Sarà anche sfortunato il cardinal Tettamanzi: ma almeno una piccola cosa potrebbe farla, da semplice e saggio parroco in una grande città: e cioè, con uno stuolo di chierichetti e una batteria di aspersori, riconsacrare alla sua fede (ma ce l’ha?) il sagrato del Duomo che non può essere regalato a “terra d’Islam per sempre”. O almeno così si aspetta la stragrande maggioranza di chi detiene (per diritto e legge, catasto e consuetudine) la proprietà del Duomo. Infatti, unica cattedrale in Italia, il Duomo di Milano non appartiene ai preti, ma al popolo cristiano e ambrosiano che ne vuole restare, se così attaccato, il geloso custode, anche e nonostante i suoi pastori. Sarebbe un piccolo, indispensabile atto fuori moda: ma il coraggio, anche della semplicità , come diceva don Abbondio, «se uno non ce l’ha, non se lo può dare».
il paginone
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ultane, regine, capi di Stato, mercantesse, condottiere e soprattutto importanti mecenati. Al contrario di ciò che molti pensano, all’interno del mondo islamico, le donne hanno ricoperto incarichi di primissimo piano. Era un mondo cosmopolita quello che si estendeva dal Nord Africa al Medio Oriente, dall’Afghanistan all’India fino alla Cina. Erano donne estremamente colte e raffinate quelle che per molto tempo guidarono interi regni. «A corte», spiega una tra le più note studiose dell’arte e dell’architettura islamica, Dalu Jones, «le donne parlavano almeno quattro lingue, dovevano sapere di calligrafia, poesia e musica. Davano lavoro a migliaia di tappezzieri, ricamatori, gioiellieri. Sceglievano e disponevano cosa produrre». In una parola, determinavano cosa sarebbe andato di moda quell’anno. Il risultato era la produzione di veri e propri capolavori, di grandissimo gusto e di pregio. Tuttavia, il mecenatismo islamico si sviluppa in maniera differente da come si può intendere oggi il termine. Queste donne avevano il senso del sociale: costruivano università, madrasse (scuole coraniche), ospedali e strade. «Pensiamo
S
Colte, raffinate, costruivano università, scuole coraniche, ospedali e strade. E per molto tempo guidaro
Quando le donne do
di Cristiana Missor ro per agevolare i pellegrini durante il loro viaggio. Da quel momento, quella strada prese il nome di “Darb Zubayda”. Morta molto dopo il marito, nell’841 (?), Zubayda sostenne le cause di scrittori, poeti e medici, anche di religione cristiana, senza mai dimenticare i poveri, gli studenti e i religiosi. La vita di questi due sovrani ispirò alcuni dei racconti delle“Mille e una notte”. «La storia dell’islam è piena di esempi di questo genere», sostiene Dalu Jones. «Un filo che non si è mai interrotto davvero». Altra donna che ebbe un ruolo fondamentale nella storia islamica, fu la regina Shajar al-Durr che, nel 1249 si trovò a governare l’Egitto. Donna dalla vita molto tormentata, da schiava di origini turcomanne a moglie di Salih
Parlavano almeno quattro lingue, dovevano sapere di calligrafia, poesia e musica. Davano lavoro a migliaia di tappezzieri e gioiellieri. Sceglievano e disponevano cosa produrre all’Università Karaouine di Fez, in Marocco, fondata da una mercantessa», ricorda Jones, che in Italia ha curato importanti mostre dedicate all’arte islamica. Fu infatti Fatima al-Fihri, nell’859 d.C., a investire nella realizzazione di questo importante ateneo i soldi ereditati dal padre - un ricco mercante di nome Muhammad al-Fihri - affinché la sua comunità, quella dei Karaouine appunto, ne beneficiasse.
Nel Medio Evo, questa università ricoprì un ruolo di primo piano nelle relazioni culturali tra mondo islamico ed Europa. Tra i suoi studenti più illustri, ad esempio, il filosofo e teologo ebreo Mose Maimonide (1135-1204), o il grande geografo e cartografo Mohammed alIdrisi al-Siqilli (il siciliano, 10991164?), autore di un volume, il Libro di Ruggero, che Ruggero II di Sicilia gli commissionò e in cui Idrisi racchiuse tutte le informazioni raccolte durante i suoi viaggi nel Mediterraneo, nonché i resoconti dei viaggiatori siciliani. Secondo alcuni, durante il periodo in cui soggiornò a Fez, il geografo avrebbe lavorato se non addirittura studiato, presso l’università Karaouine.Ancora oggi questa università è uno dei principali centri spirituali e educativi del mondo musulmano rimasto da sempre attivo. Fu invece Zubayda, la moglie del califfo abbassida Harun al-Rachid (766-809 d. C.), a far costruire lungo il cammino che da Baghdad portava a La Mecca una serie di opere idrauliche e di punti di risto-
Ayyub (l’ultimo sultano appartenente alla dinastia ayyubide il cui capostipite fu Saladino), alla morte del marito prese la guida del Paese. Formalmente la sua ascesa al potere fu di soli 80 giorni, ma nella sostanza Shajar al-Durr governò fino al momento in cui venne assassinata (1259). Durante il suo breve regno riuscì a riunire le truppe egiziane e riprendere Damietta ai crociati guidati dal re di Francia Luigi IX. Per questo motivo, in suo nome, ven-
nero recitate preghiere nelle moschee d’Egitto e furono coniate monete con la sua effige. Due atti riservati unicamente a chi aveva il titolo di sultano. Onori e potere non potevano, soprattutto in quell’epoca, andare a una donna. E co-
sì il Califfo di Baghdad - da cui in quel momento dipendeva l’Egitto - intervenne, designandone direttamente uno: Aibak, un valoroso soldato mamelucco. Per amore o forse per mero calcolo politico Shajar al-Durr riuscì a sedurlo e a
divenire sua moglie. Grazie al grande talento di amministratrice e al suo carisma, la moglie del primo sultano mamelucco pervenne a governare sull’Egitto fino alla fine dei suoi giorni. Spostandosi in India, dove i musulmani estesero
Rabi’a al Adawiyya, la “madre del sufismo”
“Rompere le barriere”: la missione di Rania di Giordania
Quarta figlia di una famiglia molto povera, non esistono informazioni certe sulla sua data di nascita, forse il 717 d. C., né tanto meno sulla sua esistenza. Furono il suo estremo ascetismo, la scelta del nubilato, l’amore mistico e l’unione mistica che la resero la più famosa e venerata donna mistica islamica. In molti andavano a trovarla nel suo ritiro per apprendere, studiare, imparare. La profonda influenza che esercitò sulla corrente sufi le valsero la denominazione di “madre del sufismo” (da suf, lana, il vestito indossato dai primi asceti). Fu proprio grazie allo sviluppo del sufismo che venne data alle donne l’opportunità di elevarsi al rango di sante, poiché nella vita spirituale non esiste disuguaglianza tra i sessi. Autorità indiscussa fra i suoi contemporanei, Rabi’a al Adawiyya introdusse il concetto di amore passionale per Allah, il quale diventa più vicino al devoto. Il suo pensiero lasciò un profondo segno anche nei secoli successivi sia sul piano religioso che culturale grazie ai poemi ascetici che le vennero dedicati o che tramandavano il suo pensiero. Il mistico e poeta persiano Attar scrisse nel XIII secolo le “Storie e detti di Rabi‘a”, sottolineando la sua autorità tra i mistici e la sua santità.
Diffondere la pace attraverso l’arte, questo l’obiettivo della regina Rania di Giordania che dal 2004, e per cinque anni, ha sostenuto e incoraggiato ininterrottamente la mostra dal titolo “Rompendo le barriere - Stracciando i veli: Donne artiste dal Mondo Islamico”, patrocinata dall’Unesco e dall’Unione europea, che ha viaggiato per molte città dell’Asia, dell’Europa e degli Stati Uniti. L’esposizione - organizzata dalla Royal society of Fine arts di Amman, insieme al Fam (network di donne artiste che lavorano nel Mediterraneo) ha portato in giro per il mondo le opere di 51 artiste di 21 Paesi del mondo islamico, dall’Algeria allo Yemen, dal Pakistan all’Egitto, dall’Arabia Saudita all’Indonesia, dall’Oman al Libano. Nei loro lavori le pittrici, tutte di cultura islamica, ma non esclusivamente di religione musulmana, hanno affrontato tematiche sociali, politiche e religiose legate al ruolo della donna. Una tra tutte, l’eclettica Etel Adnan.
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ono interi regni. La studiosa Dalu Jones racconta la storia “in rosa” delle corti musulmane
ominavano l’Islam
ri dia da cui hanno tratto origine molti dei movimenti musulmani tradizionalisti. Secondo la studiosa Dalu Jones, «oggi nel mondo arabo il mecenatismo femminile è ancora presente, ma in forme e con modalità diverse». «La realtà prosegue la Jones è che il contesto è molto cambiato e le contingenze hanno costretto le donne ad assumere un ruolo minore»
il loro dominio per circa otto secoli, il mecenatismo femminile islamico fu molto attivo. «Soltanto la dinastia di Begum (che regnò sullo stato di Bhopal dal 1844 al 1926 ndr) vide quattro sultane succedersi alla guida del potere». «E fu
sempre una donna a fondare nell’800 il collegio di Aligarh», ricorda Jones. Trasformato successivamente in università, oggi l’ateneo di Aligargh è una delle istituzioni più importanti della cultura islamica contemporanea dell’In-
Etel Adnan, la più importante scrittrice della diaspora araba Nata a Beirut nel 1925 da padre siriano musulmano e madre greca cristiana (elementi che hanno profondamente influenzato la sua arte), Etel Adnan è poetessa, scrittrice e pittrice. Dopo un periodo passato negli Stati Uniti (19591972), rientra nella sua città natale dove lavora come editore letterario del quotidiano di Beirut, L’Orient-Le Jour. Nel 1976 lascia il Libano. Nei venti anni seguiti alla pubblicazione del suo primo volume di poesie, Moonshots (Beirut 1966), la Adnan ha pubblicato libri in inglese e francese di cui due in prosa: Sitt Marie Rose (Parigi 1978, tradotto in inglese, tedesco, olandese, arabo e in italiano nel 1979, Edizioni delle donne) e nel 1986 il saggio nella tradizione di Siddharta, Journey to Mount Tamalpais (Sausalito 1986). In Italia ha pubblicato per la Multimedia Edizioni Viaggio al Monte Tamalpais e la breve ma intensa biografia Crescere per essere scrittrice in Libano, per la Jouvence Ai confini della luna, e per la Semar Apocalisse Araba. Diverse le poesie di Etel Adnan che sono state messe in musica da artisti quali Gavin Bryars (Adnan Songbook) e da Zad Moultaka (Nepsis). Infine, due le opere teatrali: “Comme un arbre de Noël” (sulla guerra del Golfo) e “L’actrice”, che è stata rappresentata a Parigi nel marzo del 1999. È considerata una delle più importanti scrittrici della diaspora araba.
Infine, rimarca l’esperta, nonostante la religione islamica sia sempre stata appannaggio dei soli uomini, le donne musulmane sono state anche delle mistiche. Erano donne che praticavano una vita di ascesi e che riuscirono a raggiungere un alto livello di spiritualità riconosciuto dalle maggiori autorità musulmane. La più nota di tutte è forse l’irakena Rabi’a al Adawiyya, una delle più grandi sante dell’islam dell’VIII secolo. Questa ex-schiava salì alle più alte vette della santità e fu ammessa, dalla tradizione sufi, tra i maestri di sufismo. Il padrone cui era stata venduta, dopo essere stato testimone dei segni della sua santità, la lasciò libera. E da quel momento Rabi’a dedicò la sua esistenza al servizio di Dio. Insomma, dietro il velo si poteva, e si può, fare molto. «Queste donne volevano che anche le loro simili fossero colte», afferma Jones. «Per questo hanno attinto alle loro ricchezze personali e non a quelle dei loro consorti. Non fecero soltanto beneficenza, perché il loro obiettivo era mettere al servizio di tutti la loro conoscenza e la loro fortuna». Che differenza c’era tra le mecenati del mondo islamico e le loro “cugine europee”? «Oggi come in passato» - replica Jones - «le mecenati dell’islam sono state più attive di quelle europee. Caterina de’Medici fu protettrice degli artisti, ma non utilizzò i suoi soldi. Forse lo fece Caterina di Russia, ma con un senso di vanità». E al momento? «Oggi nel mondo arabo il mecenatismo femminile è ancora presente, ma in forme e con modalità diverse». Porta il nome di Suzanne Moubarak, che nella ricostruzione della biblioteca di Alessandria ha ricoperto un ruolo importante; o quello della moglie dell’Emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani, la sceicca Mozah bint Nasser al Missned, che assieme al marito ha dato vita alla Qatar Foundation, istituzione che, tra l’altro, dà spazio e possibilità agli artisti arabi di esprimersi liberamente. O ancora, quello della regina Rania di Giordania che negli ultimi cinque anni ha portato in giro per l’Europa una cinquantina di artiste musulmane. «Oltre a loro», conclude Dalu Jones, «non vedo grosso mecenatismo nell’islam odierno. La realtà è che il contesto è molto cambiato e le contingenze hanno costretto le donne ad assumere un ruolo minore».
L’attività della Qatar Foundation
Arte, scienza e ricerca per l’Emirato rganizzazione privata senza fini di lucro, la Qatar Foundation nasce nel 1995. Principio guida su cui poggia questa istituzione – presieduta dalla sceicca Mozah bint Nasser al Missned - è l’idea che la più grande risorsa di una nazione sia rappresentata dal potenziale del suo popolo. Il suo obiettivo quindi è la ricerca e lo sviluppo del benessere dei cittadini dell’Emirato. Altro fiore all’occhiello del Paese, la Città dell’Educazione costruita vicino Doha, grazie ai fondi stanziati della Qatar Foundation per volere del suo presidente. Dal 1999 la struttura ospita i campus di alcune tra le più prestigiose università statunitensi come la Scuola per le Relazioni internazionali della Georgetown University (nata nel 2005) o il College di Medicina di Weill dell’Università di Cornell (nato nel 2001). Per fare in modo che questi atenei non rimangano scollegati dalla realtà produttiva del Paese e a quella internazionale, la Qatar Foundation ha realizzato il Parco delle Scienze e delle Tecnologie del Qatar che accoglie le società e gli imprenditori operanti nel settore tecnologico, nonché una serie di istituti di ricerca e vari programmi di formazione.Tra questi, anche un centro per lo sviluppo sociale che oltre a promuove la stabilità della famiglia, contribuisce al mantenimento delle tradizioni artigianali dell’Emirato quali la tessitura della lana, il cucito, il restauro e la ceramica garantendo inoltre uno sbocco commerciale per i prodotti realizzati. Dalla scienza all’arte i sovrani del Qatar puntano a trasformare l’Emirato in uno dei più importanti poli culturali del Medio Oriente. La Fondazione ha infatti consentito ad artisti arabi di esibirsi e mira in futuro a ospitare compagnie musicali, teatrali e di ballo di fama internazionale e mettere in piedi un importante conservatorio, attirando così musicisti da tutto il mondo. Ultimo gioiello in ordine di tempo, il Museo di arte islamica di Doha, inaugurato il 1 dicembre 2008. Realizzato dal noto architetto I.M. Pei, già autore della piramide del Louvre, il nuovo edificio raccoglie in 41 mila metri quadrati - che poggiano su di un’isola artificiale importanti opere d’arte, di calligrafia, dipinti, sculture, fotografie, acquistate a cifre vertiginose dalla famiglia regnante. Nella visione della sceicca Mozah, tra la neonata struttura museale - che nelle prime tre settimane di apertura ha visto entrare 30 mila visitatori- e la Fondazione è necessaria una forte sinergia. Oltre alle collezioni permanenti, l’opera faraonica dell’ultra novantenne Pei accoglie mostre temporanee di artisti arabi.
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Scenari. La svolta organizzativa del fondamentalismo: India e Pakistan sono diventate aree centrali nella “war on terror”
La nuova al Qaeda Gli estremisti islamici fanno ormai affidamento su altissimi livelli tecnologici di Andrea Margelletti umbai come NewYork? Gli efferati ed efficaci attacchi dello scorso novembre non sono un episodio isolato, un elemento locale di annose problematiche, ma al contrario hanno portato in evidenza una issue di portata internazionale, dato che Mumbai è un po’il simbolo di quell’Asia divenuta ormai, negli equilibri del mondo, asse centrale ma ancora molto instabile e fonte di instabilità. E se la Cina ha un ruolo prevalente, se l’Afghanistan è al centro della scena, è in Pakistan e in India che bisogna guardare per capire la situazione e prevedere i possibili sviluppi. Telefoni satellitari, palmari, gps, armi modernissime, addestramento di massimo livello. Sfollagente e pistole della prima guerra mondiale. Se pensiamo ai terroristi come a degli invasati armati solo di fanatismo e pronti a morire attaccando i carri armati a mani nude, siamo molto lontani dalla verità. Come è stato dimostrato ancora una volta, i combattenti islamisti dispongono di un
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ultimi decenni si sono contati 4.500 attentati terroristici, alcuni dei quali sanguinosi quanto Mumbai. Molti di questi attacchi vengono dai gruppi kashmiri, e dalle realtà attecchite oltre il confine pakistano.
Ma c’è anche un esplicito interesse di al-Qaeda, e sarebbe un grave errore trascurare la progressiva radicalizzazione di una parte della enorme comunità musulmana (che rimane una delle maggiori al mondo, più numerosa ad esempio di qualunque Paese del Medio Oriente). Radicalizzazione che ha portato a violenti scontri e pogrom di matrice socioreligiosa, cui fanno da contraltare le stesse azioni compiute da un fondamentalismo indù sempre in crescita in quanto a intensità e violenza. Radicalismi che di recente stanno prendendo di mira con durezza anche le comunità cristiane. Con il ritorno persino di violenze di casta. Si aggiungano poi la endemica guerriglia comunista presente in diversi Stati, la
Siamo a un bivio: irrigidire i rapporti con i nemici storici o accrescere la collaborazione, perché la realtà che stiamo combattendo va oltre le dispute di confine degli Stati nazionali altissimo livello tecnologico e professionale, per i quali il fanatismo e la disponibilità a uccidere ed essere uccisi sono decisivi elementi in più che li rendono indomabili e molto più pericolosi.
Non bisogna quindi sottovalutare le capacità sempre crescenti dei terroristi. E forse finalmente se ne è accorta anche l’India, anche se alcune reazioni sono apparse contraddittorie. È ormai acclarato che ci fossero stati concreti e precisi segnali degli attacchi imminenti, e che ad essi non sia stata data una risposta efficace, salvo alzare le misure di sicurezza appena per qualche giorno, tornando poi ai bassi livelli standard. Colpa anche di una certa assuefazione ai meccanismi della violenza di diversa origine. In Occidente tendiamo a dimenticare la particolarità della complessa e spesso instabile situazione del gigante indiano. La più grande democrazia del mondo infatti è continuamente scossa da varie forme di violenza: negli
conflittualità etnica e tribale mai scomparsa da alcune zone, le rivendicazioni violente delle comunità regionali (si pensi ai sikh e ai tamil, responsabili degli omicidi della famiglia Gandhi), la penetrante presenza di una malavita organizzata di primissimo livello, capace di controllare una buona fetta della vita economica del Paese così come di colpirlo, come già successo, anche sotto la forma di attentati terroristici. In questo contesto così drammaticamente effervescente rimane sempre aperta la grave conflittualità col Pakistan, che nonostante i progressi nei colloqui di pace degli ultimi anni, continua ad essere percepito come il grande nemico. Ma questo non può e non deve coprire le problematiche interne all’India né può impedire la reale comprensione del fenomeno terroristico asiatico e internazionale. Questo sarebbe esattamente quello che vogliono i terroristi. Non ha torto l’India quando afferma che il Pakistan è l’epicentro del terrori-
smo. Ma questa affermazione va nettamente interpretata in senso geografico, non politico. Infatti ha altrettanta ragione il governo di Islamabad quando sostiene che gli attentati di Mumbai erano rivolti anche contro la leadership pakistana. Leadership che a sua volta non è esente da responsabilità, come quella di perpetuare un atteggiamento ambiguo ed equilibrista nei confronti dei fondamentalisti che dominano gran parte della scena geografica e politica del Paese, caratterizzato da una grande e preoccupante instabilità. Gli arresti effettuati in Pakistan e le misure prese dall’India in tema di sicurezza (Nuova Delhi ha varato un’agenzia di intelligence ad hoc ed emanato leggi in materia di sicurezza) possono forse dare il via a una nuova era del controterrorismo in Asia meridionale. Torniamo, infatti, a un punto centrale.
È vero che gli attentati di Mumbai hanno costituito un fatto epocale che ha molto cambiato le carte in tavola, e soprattutto la percezione del problema. E la percezione è tutto. Dopo Mumbai si è arrivati a un bivio: o irrigidire i rapporti coi nemici storici ripetendo un cliché di accuse serrando le fila interne sotto la minaccia di un nemico esterno, o prendersi il rischio di mantenere aperti i canali con l’esterno, accrescendo la collaborazione e rendendosi conto che il vero nemico è una realtà che va molto al di là delle dispute di confini degli Stati nazionali. Sarebbe un suicidio per l’India continuare a pensare che la soluzione al terrorismo è ammucchiare milioni di soldati lungo la frontiera pakistana. Così come il Pakistan è destinato al collasso se continuerà a permettere ai gruppi armati fondamentalisti di prosperare e riprodursi come metastasi sul suo territorio. Non stiamo parlando di realtà occasionali e periferiche: stiamo parlando del cuore del problema del terrorismo internazionale. Qualche elemento di storia e di cronaca per aiutare a comprendere la portata del problema. Il fondamentalismo islamico non nasce dal nulla. Una tappa fondamentale è l’ideologia deobandi, nata come contesto religioso-culturale di ribellione al colonialismo britannico. Ideologia nata appunto nell’India britannica, saldamente impianta-
L’11 settembre di Mumbai deve far capire che quanto fatto finora è solo un primo passo, che l’Afghanistan è un fronte centrale ma non l’epicentro esclusivo del problema ta nel neonato Pakistan e trasmessa nelle madrasse che hanno allevato i talebani. In gran parte grazie a questa ideologia militante è nata la sintonia tra i wahabiti di al-Qaeda e i talebani afghani. Sintonia nata in quella perfetta terra di coltura che è stata per il fondamentalismo la jihad anti-sovietica in Afghanistan (e anche anti-indiana in Kashmir, però): qualcosa che ancora una volta fa rivolgere gli occhi a Kabul, ma che in realtà ha le sue vere radici in Pakistan.
Un recente report di intelligence statunitense individua nei gruppi terroristici pakistani, e in particolare negli eredi di Lashkare-Toiba, una delle maggiori potenziali minacce agli Stati Uniti e ai suoi interessi nel mondo (che potrebbero diventare un bersaglio), e addirittura come la “futura alQaeda”. Certo, lì ci sono le possibilità di allestire campi di addestramento. Ci sono pericolosi intrecci e connivenze con settori deviati delle istituzioni di intelligence e militari, che hanno da sempre inteso coltivare i legami con la militanza kashmira per bilanciare asimmetricamente la superiorità convenzionale dell’India. C’è una
IN EDICOLA IL NUOVO NUMERO DI RISK È in edicola il nuovo numero del bimestrale di geostrategia “Risk”. Tra gli autori, insieme ad Andrea Margelletti che pubblichiamo oggi su liberal: articoli di Michael Rubin, Amhed Rashid, Marcello Foa, Michele Nones, Andrea Nativi, Lucia Marta, Michele Marchi, Riccardo Gefter ondrich, Emanuele Ottolenghi, Giovanni Gasparini, David J. Smith, Egizia Gattamorta, Virgilio Ilari, Mario Arpino, Andrea Tani, Beniamino Irdi, Pierre Chiartano.
vicinanza e una comunanza con fondamentalismi terroristici di ogni genere islamista, incluso il salafismo, che trovano sotto l’ombrello di al-Qaeda la possibilità di scambiarsi esperienze e sostegni logistici. Ma allo stesso tempo in Asia Meridionale c’è un contesto sociale, culturale ed economico particolarmente adatto alla possibilità di reclutamento. Delle esperienze storiche legate alla scuola deobandi e poi alla jihad antisovietica si è già detto. Bisogna forse ora ricordare che l’elemento islamico in Asia meridionale ha
mondo l’equilibrio del mondo. Non siamo dunque in periferia, ma in uno degli snodi centrali dello sviluppo del mondo. E come lo sanno gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Cina, ad esempio, lo sanno anche i terroristi islamici, sia quelli propriamente di al-Qaeda sia quelli che più genericamente si richiamano a quella galassia unendo le storiche rivendicazioni locali alla nuova visione internazionalista. E i terroristi sanno anche che in Asia meridionale le contromisure non sono ancora così efficaci come dovrebbero. Quindi anche per al-Qaeda e dintorni attaccare l’India non è un’azione marginale, periferica, frutto solo di occasionali opportunità e di interessi e disponibilità di gruppi locali.Al contrario è una scelta strategica ben precisa che, oltre ai citati e non trascurabili precedenti storicoculturali che in quei contesti contano moltissimo, mira a tenere sotto scacco un quadrante geopoliticamente importante per il prossimo futuro. Possibilmente alimentando le tensioni con il Pakistan in modo da perpetuare lo stato di tensione e instabilità e allo stesso tempo da distogliere forze e attenzioni dalla lotta al terrorismo all’interno dei due Paesi. E allo stesso tempo danneggiando l’eco-
quasi sempre rappresentato una minoranza, ma la più attiva economicamente, tanto da essere il detentore del potere.
Le grandi dinastie imperiali dell’India (e ricordiamo che il subcontinente indiano storicamente arrivava in Afghanistan) non sono mai state indù. Gli stessi britannici si appoggiarono molto all’elemento musulmano. L’arcolaio, simbolo scelto da Gandhi per la bandiera dell’India, è di importazione islamica. Con l’indipendenza nel 1947 venne la partizione con il Pakistan: all’interno di una enorme complessità etnica e geografica dell’intera area e anche del territorio nazionale pakistano (un mosaico di realtà regionali ed etniche) diventa dominante il fattore religioso. Non c’è una reale differenza etnica tra indiani e pakistani (piuttosto si può forse dire che è improprio parlare di indiani e pakistani) mentre da subito viene messa in atto una discriminante religiosa: il Pakistan (col Bangladesh) nasce come frazione dell’India per gli islamici, e infatti
prende un nome nuovo, non tradizionale, che non è geografico né etnico: “Terra dei puri” (intesi appunto come musulmani). Tutto ciò da una parte alimenta l’orgoglio islamico nell’area, in particolare in senso nazionalista pakistano, con un Paese che ricordiamo essere l’unico detentore di una bomba atomica musulmana e allo stesso tempo è stato e si considera “baluardo” contro l’ateismo sovietico, l’eresia sciita iraniana e il paganesimo imperialista (in Kashmir) indiano. D’altra parte però alimenta anche le frustrazioni islamiche: in India e Pakistan infatti si concentra una gran parte dei poveri del mondo, e in India in particolare la comunità islamica è passata da minoranza dominante in epoche passate a enorme realtà di secondo piano. Se si tiene conto delle potenzialità di ricchezza e di sviluppo dell’area, nonché della cruciale posizione strategica dei due Paesi che controllano tante rotte commerciali ed energetiche, comprese quelle per la Cina, si capisce più facilmente quanto sia centrale il ruolo di tali regioni nel-
nomia e l’immagine di Paesi come l’India, alimentando così lo scontento e quindi l’instabilità sociale, e in particolare puntando a radicalizzare le giovani generazioni musulmane indiane. L’obiettivo di fondo e di lungo termine delle organizzazioni qaediste e similari resta infatti quella di separare l’occidente dai loro Paesi-bersaglio, di indebolire i governi esistenti e le loro economie, di radicalizzare il dissenso delle comunità islamiche di cui mettersi alla guida. Per ottenere nel breve tempo un consenso che dia luogo anche ad arruolamento, e nel lungo tempo la possibilità di sollevare queste masse per prendere il potere e instaurare il califfato islamico. Un obiettivo non certo di breve termine, ma dobbiamo ricordare che la percezione del tempo in queste culture è assolutamente diversa da quella occidentale. Anzi, dopo l’esperienza afghana, al-Qaeda ha capito che non le è utile“statalizzarsi”fornendo così facili bersagli a chi ha ancora oggi una capacità tecnologica bellica ineguagliabile.
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Il presidente-eletto presenta le sue nomine all’intelligence
Obama: «Mai più tortura nella lotta al terrorismo» ella lotta al terrorismo gli Stati Uniti non ricorreranno mai più alla tortura. Lo ha dichiarato il presidentelect americano, Barack Obama, annunciando la nomina di Leon Panetta a capo della Cia, di Dennis Blair come direttore nazionale dell’intelligence e di John Brennan a coordinatore dell’antiterrorismo. «Durante tutta la campagna elettorale e nel periodo della transizione sono sempre stato chiaro - ha detto Obama - sotto la mia amministrazione gli Stati Uniti non ricorreranno alla tortura, ma rispetteremo la Convenzione di Ginevra e i nostri più alti ideali». Presentando le sue nomine, Obama ha sottolineato come in un mondo pieno di «sfide non convenzionali», una buona intelligence «non è un lusso, ma una necessita». Panetta, Blair e Brennan, ha detto Obama, «sono servitori dello Stato dall’indiscussa integrità, dalla vasta esperienza e sono bravi manager dotati di quel pragmatismo di cui abbiamo bisogno in tempi difficili». Le nomine di tutti i nuovi vertici, una volta ufficializzate, dovranno ottenere l’autorizzazione anche dalle commissioni competenti del Congresso. Mentre l’attuale direttore del Federal Bureau of Investigation (Fbi), Robert Mueller, dovrebbe invece essere confermato dalla nuova amministrazione. Come dovrebbe essere confermato alla Cia il vice direttore Stephen Kappes. Se, in linea generale, le decisioni del neopresidente sono state accolte con favore sia negli Usa che all’estero, la scelta di Panetta come vertice dell’Agenzia ha destato qualche stupore, vista la sua inesperienza assoluta nel campo dell’intelligence. E qualche preoccupazione desta anche una voce, rilanciata ieri dal quotidiano britannico “The Guardian”, secondo cui Obama sarebbe pronto ad intavolare negoziati con Hamas subito dopo l’insediamento del 20 gennaio. Cambiamento sì, ma “con juicio”.
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L’obiettivo di fondo qaedista resta quello di separare l’Occidente dai suoi Paesi-bersaglio, indebolendo i governi esistenti e le loro economie, radicalizzando il dissenso delle comunità islamiche Ma cosa ci può essere di meglio per al-Qaeda di annidarsi tra i 150 milioni di musulmani con passaporto indiano, che hanno la potenzialità di gestire sotto copertura economia,logistica, documentazione, e allo stesso tempo possono muoversi impunemente per il mondo? È questo uno dei tanti risvolti di una campagna che come al solito la galassia qaedista porta avanti con accuratezza, pianificazione e visione strategica. E anche in questo gli attentati di Mumbai segnano un salto di qualità rilevante. Non è sicuro che l’azione sia stata compiuta sotto la diretta egida di al-Qaeda. Ma certo del pensiero qaedista ha assimilato tutti gli elementi determinanti. Primi tra tutti quelli di spettacolarizzazione. Intendendo con ciò la cura con cui le azioni novembre sono state messe sotto i riflettori dei media. A partire dalla scelta dei bersagli internazionali. Gli stranieri, i turisti, i luoghi di
frequentazione internazionale, gli ebrei.Tutti elementi che col Kashmir c’entrano ben poco, ma che con la capacità di occupare il centro della scena mondiale c’entrano moltissimo. Il terrorismo dell’Asia meridionale continua ad essere capace di produrre nuove opzioni e di espandere il suo raggio di reclutamento e di azione nonostante tutte le misure messe finora in atto specie dalla comunità internazionale. L’11 settembre di Mumbai può forse ora far capire che quanto fatto finora è solo un primo passo, che l’Afghanistan è un fronte centrale ma non l’epicentro esclusivo del problema, e che bisogna coinvolgere direttamente ancora di più realtà come India e Pakistan, affrontando insieme al livello della sicurezza anche quelli politico, culturale, economico e sociale in cui il fondamentalismo terrorista trova la sua genesi e il suo alimento.
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Gas. È Sofia la città più colpita dalla crisi russo-ucraina. E nello zoo gli animali rischiano di morire dal freddo
La Bulgaria batte i denti di Francesco Martino
SOFIA. Tra i due litiganti, il terzo batte i denti. Mentre Bruxelles chiede che «le forniture di metano russo verso i Paesi Ue riprendano immediatamente» e Putin promette che con l’arrivo degli osservatori a Kiev il gas ricomincerà ad essere pompato nei tubi» (ma per il ripristino occorreranno almeno tre giorni), buona parte del resto d’Europa resta a corto di energia nel periodo più freddo dell’anno. Non solo: nella crisi delle forniture di gas russo sembra aprirsi un nuovo capitolo: ieri mattina la Georgia ha fermato il transito di gas russo verso l’Armenia. «L’era del gas a buon mercato sta per finire», aveva profeticamente dichiarato il premier russo durante il forum dei produttori di “oro blu”tenuto a Mosca a fine dicembre. E il messaggio, in Bulgaria, è arrivato forte e chiaro. Il Paese, coperto di neve e stretto da temperature che di notte hanno raggiunto i -15°, è quello più colpito dalla crisi in tutta l’Unione europea. Sofia non ha alcuna risorsa alternativa al gas russo che arriva attraverso l’Ucraina, e a causa di ritardi tecnologici può utilizzare le riserve stoccate nel proprio deposito sotterraneo di Chiren solo a ritmo ridotto. L’incubo, per amara ironia, prende forma la mattina del 6 gennaio, quando in Bulgaria si festeggia Yordanovden. La tradizione vuole che, in questa ricorrenza, i giovani si sfidino a nuoto nelle acque gelide di laghi e fiumi ghiacciati, per raccogliere una croce gettata dal pope del villaggio. Affrontare il freddo con una nuotata fuori stagione, recita la credenza popolare, garantisce salute e prosperità per l’anno a venire. Stavolta, però, il gelo ha deciso di prendersi una rivincita.
Foto grande, un’immagine dello zoo della capitale bulgara. Nel riquadro, il premier Sergey Stanishev, in stretto contatto con tutte le cancellerie europee e finito nella bufera in patria dopo lo stop energetico Il governo bulgaro sfoggia toni duri, ma ogni tentativo di sbloccare la situazione risulta vano. Chiunque sia il colpevole della crisi, il gas bulgaro (pagato in anticipo, tra l’altro) si perde nei meandri gelati della pianura sarmatica.A sentire l’emergenza per primi sono i grandi consumatori di gas, come i complessi chimici ed industriali. Pochi minuti dopo la chiusura dei rubinetti si sfiora la catastrofe ecologica nello stabilimento della “Neohim” di Dimitrovgrad. Il brusco e improvviso calo della pressione ha portato ad un passo dall’esplosione i serbatoi di ammoniaca e i depositi di fertilizzanti azotati. Le conseguenze per la Bulgaria sud-orientale sarebbero state pesantissime.
Meno 15 gradi e riscaldamenti al minimo. Il premier Sergey Stanishev propone di riattivare la centrale nucleare di Kozloduy per arginare la dipendenza da Mosca. La gente brucia l’olio Alle 3:50 della notte tra il 5 e il 6 gennaio, il flusso di gas diretto alla Bulgaria viene interrotto senza alcun avvertimento. Mentre Mosca e Kiev si accusano reciprocamente di aver chiuso i rubinetti, a Sofia la situazione precipita in fretta. Alle 10, quando il premier bulgaro Sergey Stanishev compare davanti alle telecamere, la situazione è già tale da essere definita “critica”. Dai palazzi che contano di Sofia parte un giro concitato di telefonate verso Mosca, Kiev e Bruxelles, mentre l’opposizione inizia a rumoreggiare, accusando l’attuale governo, a maggioranza socialista, di incompetenza e di aver consegnato il Paese ai “vecchi amici” del Cremlino, legando la Bulgaria mani e piedi al gigante energetico russo Gazprom.
Tutta l’industria bulgara, già provata dalla crisi economica, rischia lo stallo. «Le perdite sono enormi, visto che il blocco dei rifornimenti è arrivato a sorpresa», ha dichiarato Evgeni Ivanov, della Confindustria bulgara. Acciaierie, impianti chimici e vetrerie, rischiano di dover bloccare del tutto la produzione: un vero disastro. E se l’industria lotta per tenere accese fornaci e catene di montaggio, nel giro di poche ore quasi due milioni di bulgari hanno visto il riscaldamento domestico affievolirsi, in alcuni casi fino a sparire. Anche il sistema di toplofikatzi, grandi centrali per il riscaldamento del-
l’acqua, trasportata poi nelle case di chi vive nei centri urbani più grandi, è alimentato infatti quasi esclusivamente dal gas russo. A Dobrich, Pleven, Razgrad, il riscaldamento si è fermato. A Sofia e in molti altri centri la temperatura dei termosifoni è calata vistosamente, e viene mantenuta a livelli minimi. Per scaldare le case non resta che bruciare le riserve di mazut (olio pesante), che però deve essere preventivamente riscaldato. Nel frattempo decine di scuole e asili in tutto il Paese sono rimasti chiusi, mentre molti ospedali hanno iniziato a respingere i pazienti e a rinviare le operazioni già programmate, visto il freddo polare in sala operatoria. A Sofia l’illuminazione pubblica è stata diminuita del 30%, rimosse le luminarie delle feste appena passate, fermato il riscaldamento nei mezzi pubblici.
In poche ore, dunque, il governo bulgaro ha accumulato parecchi temi su cui riflettere. La dipendenza totale da Mosca ha messo in luce i rischi che comporta, soprattutto se pensiamo che Sofia, anche recentemente, ha ribadito di voler diventare il “centro energetico dei Balcani”. Il problema è che la ricerca di strade alternative è un processo lungo e costoso, e spesso dipende dalla volontà politica di paesi molto più potenti e dalla stabilità di attori diversi(come ad esempio per il tanto chiacchierato progetto Nabucco). I rapporti amichevoli con la Russia, i progetti comuni già sottoscritti (gasdotto South Stream, costruzione della centrale nucleare di Belene) e contratti a lunga scadenza con la Gazprom, alla prova dei fatti non hanno affatto messo la Bulgaria a riparo della tempesta. Anche l’ombrello dell’Ue, almeno in questa fase iniziale, sembra servire a poco. Domani deciderà sui sussidi compensatori. Intanto le previsioni meteo parlano di una nuova ondata di freddo. I cittadini bulgari, più che a risarcimenti futuri, covano speranze molto più immediate: tenere l’inverno fuori dalle proprie case. Analista Osservatorio Balcani e Caucaso, www.osservatoriobalcani.org
in breve Gb, da marzo e-mail registrate È polemica in Gran Bretagna per una nuova legge che obbligherà, dal prossimo marzo, tutti i gestori di servizi internet a registrare per un anno ogni email mandata e ricevuta nel Regno Unito. Una misura dicono i critici - costosa e inadatta a combattere la minaccia terrorista e che, al contrario, intaccherà le libertà civili. Portando il Regno Unito più vicino al temuto Stato “Grande Fratello”. Gordon Brown, dal canto suo, sostiene che tale misura è essenziale per combattere crimini e terrorismo e che la privacy degli utenti verrà comunque rispettata visto che il contenuto delle mail servirà agli investigatori per identificare i sospetti, esaminare le loro relazioni interpersonali, stabilire connessioni tra i cospiratori e contestualizzarli, sia nello spazio che nel tempo.
Obama 1/ Impeachment governatore Illinois Con 114 voti a favore, la Camera dei rappresentanti dell’Illinois ha autorizzato l’avvio della procedura di impeachment per il governatore Rod Blagojevich, accusato di aver cercato di vendere il seggio lasciato vacante da Obama. Ora il caso passerà all’esame del Senato.
Obama 2/ Prime frizioni con i dem «La luna di miele è finita». Con questo titolo, l’Huffington Post, sito molto vicino ai democratici, ironizza sul fatto che il presidente eletto, ancora prima di essersi insediato, deve fare i conti con critiche e dubbi sul suo piano di rilancio economico da parte dei suoi stessi alleati, che controllano saldamente entrambe le Camere. Critiche e dubbi sia sui contenuti che sulla richiesta, rivolta giovedì scorso, di approvare rapidamente, con poche discussioni, il suo piano di salvataggio. Alcuni senatori democratici, in un incontro con i consiglieri di Obama, David Axelrod e Lawrence Summers, sono entrati anche nel merito di un piano definito non abbastanza coraggioso, sottolineando la necessità di concentrarsi più sulla creazione di posti di lavoro e gli investimenti nell’energia che sui tagli fiscali.
mondo er una quindicina d’anni Björk e l’Islanda sono cresciute insieme: la cantante diventando una star mondiale; l’isola, il più piccolo Stato al mondo con un idioma autoctono nel rango di lingua ufficiale unica, inanellando un record economico dopo l’altro. Il primo Paese al mondo secondo l’Indice di Sviluppo Umano dell’Onu; il secondo per aspettativa di vita alla nascita; il primo d’Europa per crescita e occupazione; il quarto al mondo per produttività in termini di Pil pro capite; il quinto per produttività in termini di parità di potere d’acquisto e per libertà economica; il primo a sviluppare un piano di sviluppo dell’economia all’idrogeno per la definita uscita dall’era del petrolio… Poi, tra settembre e ottobre le tre principali banche sono collassate, la Borsa è venuta giù del 90%, gli altri strascichi della crisi sono arrivati a un costo che è già al 75% del Pil, l’inflazione è balzata al 17,1%, la disoccupazione dall’1,9 al 7%, e soprattutto quella credibilità di nuova piazza emergente su cui gli islandesi avevano puntato per permettere ai loro figli di affrancarsi dal plurisecolare lavoro sui pescherecci è saltata. Forse per sempre, vista la paura che il default islandese ha innescato nel Regno Unito, dove tutti i principali fondi pensioni avevano puntato sulle performances di Reykjavik.
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in breve
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Esiti imprevedibili dello shock, da una parte la richiesta affannosa di aiuti finanziari alla Russia: primo clamoroso esempio di un Paese Nato che cerca di mettersi sotto l’egida di Mo-
Pakistan, la Cia uccide 2 leader di al Qaeda
Islanda. Dopo il crack economico, la cantante lancia un fondo d’investimento
Björk, dalla top ten alla finanza “verde” di Maurizio Stefanini sca. Dall’altro, l’altra corrente dell’opinione pubblica che invece sta chiedendo in modo sempre più impetuoso di entrare nell’Unione Europea. E, in mezzo, la folla di giovani che ha iniziato a preparare le valigie, metaforicamente e anche materialmente. Almeno la metà degli islandesi di età compresa tra i 18 e i 24 anni, informa un sondaggio di ottobre, starebbero considerando di emigrare: in particolare in Danimarca, di cui l’Islanda è stata una dipendenza tra 1380 e 1944; o la Norvegia, da cui i loro avi migrarono nel IX e X secolo. In realtà, il Fondo Monetario Internazionale dice che l’Islanda si è già rimessa sul sentiero giusto, e che la situazione dovrebbe migliorare. Ma, più ancora delle cifre, il problema è quello di ridare un po’ di fiducia alla gente traumatizzata. E chi può farlo meglio di Björk: pressoché unico simbolo del boom islandese ad aver mantenuto il suo appeal? Detto fatto: lei consenziente, è stato
A fianco, la cantante islandese Björk
dato il nome di Björk al primo nuovo fondo di investimento costituito in Islanda dopo la crisi. Un fondo di capitale a rischio, ovviamente: senza un minimo di gusto per il rischio, sarebbe assolutamente possibile scommettere ancora sull’economia dell’isola, dopo quello che è successo. Ma d’altra parte il look della cantante è da sempre legato alle mitologie fantastiche delle terre del Nord: il folklore magico degli elfi e dei folletti dell’Artico. E, come insegna Walt Disney, quando non si sa più a chi san-
tro la quale si spera di raggiungere i 16 milioni di dollari di sottoscrizioni.
L’Islanda, spiega Kristin Petursdottir, Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Audur, ha ancora un bel po’ di asset: «credo che ci siano delle ottime opportunità d´investimento legate alla natura della nazione e all´energia verde. Dobbiamo assolutamente continuare con questi investimenti nonostante l´attuale crisi. Si tratta del nostro futuro e quindi dobbiamo fare le cose in maniera diversa rispetto
La star vuole raccogliere 16 milioni di dollari entro la fine di marzo per finanziare nuovi prodotti imprenditoriali ad alta innovazione, sostenibilità e responsabilità sociale e ecologica. Ed è subito boom to votarsi, «fa la magia tutto quel che vuoi tu/ bibidibodibibu». Ovviamente, non c’è solo rischio e magia.
Il Fondo Björk, spiegano gli organizzatori, si propone di raccogliere il denaro di investitori interessati a partecipare al finanziamento di nuovi prodotti imprenditoriali che si caratterizzino per innovazione, sostenibilità e responsabilità sociale e ecologica. E con la cantante l’altro sponsor è la società finanziaria Audur Capital, che è composta unicamente da donne, e che ha dato un apporto iniziale di 100 milioni di corone: al cambio, circa 600mila euro. Ma altri operatori finanziari esterni interessati all’investimento avranno tempo di farsi avanti entro fine marzo, dead line en-
al passato. Tutti desideriamo un ritorno ai fasti economici, ma dovrà essere fatto in maniera intelligente e sostenibile». E Björk è l’ideale «portavoce dell’innovazione, del pensiero creativo e della sempre maggiore diversità dell’economia islandese di oggi». Insomma, se la finanza virtuale è pericolosa, non necessariamente l’alternativa è tra emigrare e tornare a una pesca che d’altronde è foriera di continue liti per le zone di sfruttamento con Regno Unito e Unione Europea; se non di requisitorie di ecologisti e lobby anti-caccia ai cetacei. L’Islanda resta infatti un paradiso turistico per una clientela d’élite. Ed ha anche quella risorsa dei geyser che le dà un’elettricità a basso prezzo: già d’altronde abbondantemente sfruttata per la lavorazione dell’alluminio.
Una operazione della Cia nelle zone tribali del nordovest del Pakistan, condotta nel giorno di Capodanno, ha provocato la morte del capo di Al Qaida nel Paese, ritenuto da ufficiali dell’antiterrorismo tra i 10 terroristi di più alto livello mai uccisi o catturati dalla stessa Cia, e del suo braccio destro. La notizia, data ieri dal Washington Post nella sua edizione on line, citando fonti anonime dell’antiterrorismo americano, è stata confermata dai servizi di sicurezza pachistani. Ufficiali dell’agenzia hanno accertato questa settimana che Usama al-Kini, di nazionalità kenyota, ritenuto il capo delle operazioni di Al Qaeda in Pakistan e il mandante dell’attentato che il 20 settembre scorso costò la vita a 55 persone all’Hotel Marriott di Islamabad. Zardari aveva promesso una violenta risposta.
Somalia, rilasciata super petroliera È stata liberata ieri la superpetroliera saudita Sirius Star sequestrata dai pirati somali lo scorso 15 novembre. Sembra sia stato pagato un riscatto di tre milioni di dollari. Lo hanno reso noto gli stessi pirati, ma fonti di intelligence e marittime keniane confermano la notizia. Per ora, però, c’e’ riserbo da parte degli armatori. Sulla superpetroliera c’erano 25 membri d’equipaggio: 19 filippini, due polacchi, due britannici, un croato ed un saudita. Stanno tutti bene.
Grecia, ancora scontri ad Atene Ancora scontri ad Atene, dove giovani con il volto coperto hanno lanciato pietre contro la polizia, che ha risposto con i gas lacrimogeni. Gli incidenti sono scoppiati dopo che un gruppetto di manifestanti violenti si è staccato dal resto del corteo studentesco, a cui partecipavano migliaia di persone. Si è trattato della prima dimostrazione da quando il primo ministro Costas Karamanlis ha promesso a dicembre di contrastare «la catastrofica violenza» delle rivolte in tutta la nazione.
cultura
pagina 18 • 10 gennaio 2009
Il paroliere. A dieci anni dalla scomparsa, fermo immagine sul cantautore ligure che ha rivoluzionato la musica italiana
L’ultimo narratore epico Fabrizio De André, l’anticonformista che ritraeva l’ipocrisia dei benpensanti di Francesco Napoli osse stato ancora in vita, lui, Fabrizio De André, non ci avrebbe pensato su più di tanto: imbracciata la sua artiglieria, quella con sei corde che si chiama chitarra, avrebbe disteso note e parole per tessere su Babu, clochard d’origine nepalese di 43 anni deceduto nella notte del 30 dicembre scorso sotto il grande portico del Teatro Carlo Felice di Genova, una storia delle sue. Potere contro emarginazione; disperazione contro indifferenza dei benpensanti; ipocrisia borghese e perfidia del genere umano, vicenda che si chiude con la morte, quasi tutti gli ingredienti delle storie ormai celebri, e in celebrazione questi giorni, del cantautore ligure. Perché la forza vera della parola di De André è nel saper dar vita, su un giro armonico spesso molto orecchiabile, a storie e personaggi che si sono in più di una occasione fissate nella memoria e nell’immaginario collettivo non soltanto di quella generazione che ha potuto osservarne l’ascesa.
bigotta e le convenzioni borghesi imperanti, in brani diventati poi storici come La guerra di Piero, Bocca di Rosa, Via del Campo. Seguirono altri album, accolti con entusiasmo da un pugno di cultori ma passati sotto silenzio dalla critica.
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Così come la stessa sorte segnò La buona novella (del 1970, una rilettura dei vangeli apocrifi), e Non al denaro non all’amore né al cielo, l’adattamento dell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters e firmato insieme con Fernanda Pivano, come dire i suoi lavori più letterari. Dalla Ballata del Michè, la prima vera canzone del 1960, De André si connota subito per la sapienza della narrazione tragica: un suicida per amore, Michè, impiccatosi in prigione perché sapeva di non riuscire a stare lontano dalla sua Marì per la quale aveva ucciso. La pietà sopravviene in conclusione quando una mano anonima, «una croce col nome la data/ su lui pianterà». Da allora il cantautore genovese ha regalato al suo pubblico una serie di personaggi da antologia, a cominciare dal soldato pacifista Piero, morto perché incapace di sparare per primo. Come in un autentico racconto, si hanno qui due voci: narratore e protagonista. Il primo, esterno, parla in terza persona, ma in alcuni tratti entra con le sue esortazioni («Fermati Piero», «Sparagli Piero»), immedesimandosi nella situazione e perciò provocando anche un maggior coinvolgimento nel lettore-ascoltatore. Come al maschile, c’è al femminile un
La sua forza era nel saper dar vita a storie e personaggi che si sono fissati nella memoria: da Piero a Marinella a Michè
La ragione di un così forte imprimersi dei suoi personaggi e delle sue storie è, probabilmente, nel semplice fatto che De André canta la vita così com’è, così come la grande narrativa, per essere tale, sa e deve fare. Se nel caso ha un senso parlare di formazione letteraria per un cantautore, ebbene questa sembra poggiare innanzitutto sulla canzone francese e quella trobadorica medievale che gli regala in particolare una peculiare capacità affabulatrice, ve-
ro pezzo forte dei suoi testi nei quali, nonostante De André venga ripetutamente appellato come poeta, la scrittura non si sostiene su una linea versale autonoma. Insomma: ottimo narratore più che poeta, se è consentito dirlo senza lancio di pietre all’Antoine in questo clima da giubileo, la poesia è un’altra dimensione, un altro campo. Sono i modelli americani, Steinbeck su tutti, e francesi, da Maupassant a Balzac ma soprattutto il maudit Villon, e siamo all’altezza dei primi anni Sessanta, a colpire l’allora giovane De André che s’accompagna con la chitarra acustica, che si batte contro l’ipocrisia
altro grande personaggio, con il suo ennesimo amore tragico, Marinella, così famosa e nota che basta solo nominarla per rievocare in tantissimi un’intera esistenza. La personale pinacoteca di ritratti di De André annovera poi il pescatore, limpida allegoria di una figura, il Cristo, che tanto lo ha attratto o don Raffae’, ergastolano di talento, unico nei suoi preparativi del caffè, un po’eduardiani, dietro le sbarre e portatore di una personalissima filosofia. E poi Bocca di Rosa, personaggio ormai perfino proverbiale, donna
che ha scelto l’ amore libero, perché nel mazzo dell’universo femminile c’è chi «lo fa per noia/ chi se lo sceglie per professione/ bocca di rosa né l’uno né l’altro/ lei lo faceva per passione».
Ma De André ha consegnato, e qui azzardo, alla storia letteraria, anche degli affreschi d’insieme degni dell’amato Balzac: come quella via Del Campo, ancora un angolo di prostituzione, dove tra «una graziosa/ gli occhi grandi color di foglia», «una bambina/ con le
cultura
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Il musicista. Le esibizioni dell’artista genovese ai tempi della Pfm
Il meglio di “Faber”? La Premiata forneria di Bruno Giurato l meglio di De André? La Pfm. Per ritrovare il filo nascosto della storia si potrebbe raccontarla con un paradosso. Il meglio del cantautore genovese è il disco dal vivo del 1979 in cui le sue canzoni venivano arrangiate e suonate insieme a una Premiata Forneria Marconi mirabolante (Fabrizio De André il concerto, 1979). E l’altro punto eccelso è quel Creuza De Ma del 1984, cantato in genovese duro e puro e realizzato insieme a Mauro Pagani, anche lui protagonista della Pfm. Il fatto è che nel decennale della scomparsa le camionate di storie sul De André poeta, sul De André brutto ma bello, sul De André figliodella-borghesia-ricca-ma-cantore-di-ladriprostitute-assassini-drogati, infine sul De André che ormai tutti chiamano Faber (il miglior fabbro del cantar materno, naturalmente) le sappiamo già. E allora qui si vorrebbe dire qualcosa del De André musicista.
I
labbra color rugiada» e «una puttana/ gli occhi grandi color di foglia», un illuso cerca l’amore di una vita fino ai portuali genovesi esaltati nel suo dialetto di Creuza de mä. «Ho sempre avuto due chiodi fissi: l’ansia di giustizia e la convinzione, presuntuosa, di poter cambiare il mondo. Oggi quest’ultima è caduta», affermava negli ultimi anni della sua vita. Ma si può credere, come per ogni narratore epico, che i personaggi creati - Marinella, Piero, Michè e gli altri - continuino nella nostra memoria la battaglia.
Quello che aveva il timor panico di esibirsi dal vivo ma che saliva sul palco col whisky e sgobbava con la chitarra. Quello che ha trovato un’oasi felice nei suoni di casa, ed è scappato in tempo da un cantautorato morto nella ripetizione infinita di “impegno” e toni dylaniati. Il De André che resta è quello che ha cercato un suono originale, affidandosi con umiltà a musicisti geniali, mica solo quello che leggiamo sulle antologie per le scuole medie, dopo Ungaretti. Ancora negli ultimi concerti, come quello a Roccella Jonica nel ’98 in cui dichiarò con grande scandalo che al Sud senza la mafia ci sarebbe stata più disoccupazione, gli arrangiamenti dei pezzi storici erano quelli della Pfm. E allora ridiciamolo, insomma. Il miglior De André era quello con la Pfm. Che poi a guardarlo nell’insieme il sentiero artistico di De André è diverso a quello del cantante medio italiano. Quasi tutti i musicisti e canterini cominciano grezzi e finiscono intellettuali, partono giovani promesse rocker e arrivano venerati maestri kulturkritiker. Invece De André ha iniziato con le traduzioni di Brassens e con l’antologia di Spoon River, è passato dai vangeli apocrifi e ha concluso con Napoli, Genova, la Sardegna. Con una certa letterarietà che ha attraversato in modo costante la sua produzione, ma con una sensibilità inattesa per il suono. De André, da musicista serio, aveva capito che quel che colpisce e resta della musica pop nell’era della riproducibilità tecnica è l’elemento arcaico del suono, addirittura prima delle parole o della melodia. In questo fu un anticrociano, e fu anche all’opposto alla tendenza dei cantautori italiani, tutti presi dall’ansia di sembrare colti e dal tentativo di copiare il “sound”degli stranieri. La sua carriera è stato un inseguire un tipo
di espressività fisica, tutta popolare-italiana che sapeva di non poter raggiungere in pieno. Una volta il ricercatore (e folletto dell’etnomusicologia) Valentino Santagati gli fece ascoltare le registrazioni di Domenica Cozzucoli, pecoraia di San Lorenzo (Rc). Commentò: «Se io cantassi come questa donna non avrei altro da cercare nella vita». I suoi incontri con la ricercatrice e performer popolare Caterina Bueno distruggevano la gravitas che si attribuisce alla sua figura. Erano fuochi di artificio di risate e cazzeggio su personaggi minori della storia anarchica, spesso finivano in in citazioni storico-parodistiche sul tipo di Carlo Martello che torna dalla battaglia di Poitiers. Insomma l’unità di voce, testi e personaggio che gli si attribuisce di solito era più immaginaria che reale. E anche che abbia continuato fino alla fine della carriera a modificare il suo stile (al contrario di tanti cantautori che su uno stile, copiato, ci campano di rendita tutta una vita), ad affinare i bisturi analitici che possedeva (o che lo possedevano) è un altro fatto che lo rende diverso dagli altri. E sul disco Creuza de Ma, c’è un altro aspetto bello per chi coltiva la sensibilità per la contaminazione oltre l’orrenda retorica del multiculturalismo. Secondo l’idea iniziale il disco doveva essere cantato in una specie di lingua franca. Doveva trattarsi del resoconto della vita di un marinaio che aveva vissuto in tutti i porti del Mediterraneo, tanto da non ricordare più la sua parlata d’origine. Bene, alla fine il disco, come sappiamo, è stato scritto e registrato in genovese antico.
Da artista serio aveva capito che quel che resta della musica pop nell’era della riproducibilità tecnica è l’elemento arcaico del suono
È il segno che il vero incontro di culture sta tutto nella tradizione? Certo. Tra l’altro De André rimase legatissimo a Creuza de Ma, tanto da attribuirsi in qualche intervista anche la paternità delle musiche, che invece sembra fossero di Pagani. E per tornare all’inizio, il miglior modo per ricordare la scomparsa di questo grande cantautore è riprendere i due cd di cui abbiamo parlato, togliere l’eventuale polvere sulle copertine, dare una schìcchera al bottone bass boost sullo stereo per dare aria alle chitarre di Mussida (Amico fragile), ai violini di Lucio Fabbri (Il pescatore), al basso di Djivas (Giugno ’73) intorno alla voce di De André dal vivo. E poi ricordarsi che la locuzione genovese Creuza De Ma non indica soltanto le mulattiere di collina che portano al mare. Ma anche, nel linguaggio dei marinai, le scie delle correnti sul pelo dell’acqua. Scie che qualche volta portano al letto di paradiso di Jamin-a.
cultura
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Parallelismi. I novant’anni di Andreotti e il libro-confessione di Sofri su Pinelli
Convergenze di Giulio e Adriano di Renzo Foa segue dalla prima E la fine di Pinelli, l’assassinio di Calabresi e la lunga vicenda processuale di Sofri (mai dimenticare che egli si è sempre proclamato innocente) restano senza dubbio uno tra i temi più delicati e controversi della storia della Repubblica. Qui però si può forse fare un’eccezione, si può parlarne un po’, se non altro per una strana concidenza: l’uscita de La notte che Pinelli è stata preceduta da un piccolo battage giornalistico sul novantesimo compleanno di Giulio Andreotti, che il senatore a vita ha annunciato di non voler celebrare dicendo con una delle sue consuete battute - di preferire aspettare i cento. Questo desiderio di rinvio è forse dovuto a un vezzo, forse ad altro, forse al desiderio di far parlare un po’ meno di se stesso dopo l’overdose in occasione dell’ucita di libri (come quello di Massimo Franco) e film. Sia quel che sia, ma certamente c’è un legame, anche se indiretto, tra i mancati festeggiamenti dell’anniversario del Divo e l’uscita in libreria dell’ultimo libro di Sofri: a ben pensarci ruotano entrambi sullo stesso tema, cioè sui nodi non ancora sciolti nel rapporto tra verità e depistaggi (ovvero tra verità e bugie) che rendono ancora molto problematica una ricostruzione convincente di parti importanti della storia della Repubblica. E che rende problematico il riconoscimento di verità condivise. Ma cosa c’è da dire, più di quanto non sia stato detto fino ad oggi? Mi pare che sia un tema che Sofri ha affrontato ampiamente in passato, riconoscento sue respon-
sabiltà “morali” e “politiche” e non certamente “penali” per le campagne che Lotta continua organizzò contro il commissario Calabresi. E mi pare anche che - se vogliamo sempre porre in primo piano la ricerca della verità - non sia un capitolo secondario quello dell’opacità
zioni di carattere presonale o di possibili itinerari paralleli, soprattutto quando si parla dell’incontro-scontro che i due hanno avuto con la Giustizia, con sentenze che non hanno certo incrinato le posizioni di partenza dell’opinione pubblica. Chi era convinto che l’ex
to intellettuale. C’è semmai da aggiungere altro: parlo del cortocircuito che si è verificato nella vita nazionale da quando due generazioni si sono incontrate e scontrate. La prima è quella che si può definire rappresentata appunto da Giulio Andreotti, ovvero i costruttori
Pur essendosi sempre (o quasi) trovati su fronti opposti, sono paradossalmente simboli di una storia simile: quella della difficoltà di trovare verità condivise capaci di spiegarci le distorsioni e le incongruità della Repubblica che ancora avvolge la fine di Pinelli e del trauma che rappresentò per tante persone all’indomani dell’altro grande trauma, cioè la strage di Piazza Fontana. Opacità che restano nonostante le sentenze della magistratura.
Però forse, a ben pensarci, qualcosa da aggiungere c’è, ma solo se si pensa alla coincidenza certamente paradossale prodotta dal binomio AndreottiSofri, propostoci in questi giorni. Non si tratta solo di valuta-
presidente del Consiglio fosse colluso con la mafia lo è certamente rimasto dopo le sentenze della magistratura, così come non credo che abbia cambiato opinione chi era a sua volta convinto che Sofri fosse innocente, non fosse cioè il mandante dell’omicidio Calabresi. Così come in questi anni, è diventato difficile contestare il fatto che l’uno e l’altro siano diventati - molto più di quanto non lo fossero in passato - dei protagonisti di primo piano della vita culturale e del dibatti-
In alto, il senatore a vita Giulio Andreotti (a sinistra) e l’ex leader di Lotta continua Adriano Sofri (a destra). A fianco, due immagini di Andreotti e Sofri negli anni Settanta
di una democrazia fragile, incompleta, traballante, ma pur sempre democrazia, anche se contrassegnata da una forte impronta conservatrice. La seconda generazione è quella a sua volta rappresentata da Adriano Sofri, portatrice di confuse istanze di rottura e di trasformazione e che non si può limitare al solo fenomeno di Lotta continua di cui si è già scritto molto. Questo cortocircuito - la cui data di origine sta nel Sessantotto italiano - si è progressivamente e reciproca-
mente consumato ed è approdato a quel fenomeno in virtù del quale, è impossibile riconoscersi in molte verità reciprocamente condivise. Non si tratta certo dell’annosa e stucchevole questione del “doppio Stato”, cioè di quelli che sono stati considerati i meccanismi distorti della nascita della Repubblica, nel suo complicato rapporto di continuità e discontinuità con l’Italia fascista. Tutto questo non c’entra nulla. Penso piuttosto e innanzitutto alla stagione degli orribili “anni di piombo”, alla stagione del terrorismo che è quello di cui si parla quando appunto Sofri parla di se stesso, della morte di Pinelli e dell’assassinio di Calabresi, una stagione su cui complessivamente resta davvero problematico accettare spiegazioni convincenti da parte di chi si inflò nel tunnel della violenza. E penso poi - per passare da uno dei protagonisti di questa vicenda all’altro - agli anni più vicini del giustizialismo, penso alla distruzione di una Repubblica traballante che è passata anche attraverso gli infiniti tormenti dei processi di Palermo. Anche in questo capitolo resta molto difficile trovare delle verità condivise e universalmente accettabili.
Giulio Andreotti e Adriano Sofri, pur essendosi sempre o quasi trovati su fronti opposti, lungo linee di confine i cui punti di contatto sono infinitamente minori di quelli di scontro, sono dunque paradossalmente simboli di una storia simile: la storia della difficoltà di trovare verità condivise capaci di spiegarci le distorsioni e le incongruità della nostra Repubblica.
cultura
10 gennaio 2009 • pagina 21
In libreria. Ecco perché “La jolanda furiosa” rimane in testa a tutte le classifiche ra gag televisive e best seller ormai da anni si delinea nel panorama dei comici italiani il fenomeno Littizzetto. Fenomeno, innnazitutto, per l’audience delle trasmissioni a cui partecipa, fenomeno perché stravende tutto quello che scrive. La jolanda furiosa, edito Mondadori, la sua ultima fatica letteraria è in testa a tutte le classifiche e ci aiuta a capire perché la piemontesina che non disdegna il siciliano ha superato tutti i suoi colleghi comici ed è diventata la più grande.
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La prima risposta è semplicissima: Luciana Littizzetto fa davvero ridere. Nessuno meglio di lei prende in giro il «costume nazionale» e i «luoghi comuni mediatici». La scienza scopre il famoso punto G, luogo del piacere femminile. E lei ve lo spiega così, «in termini marinari»: «Si trova a circa sette, otto centimetri sulla rotta della jolanda. A l’interieur. Questo rassicura anche chi ha un walter mignon, piccolo come un tappo del moscato». E che dire dell’Iban?: «E’ il numero più lungo del mondo. E un numero lungo come le balle dei cani da caccia. Sicuramente più di parecchi piselli che somigliano piuttosto al Cin». I codici bancari vengono paragonati alla gara nazionale su chi ce l’ha più lungo. E l’effetto sfiora la volgarità senza raggiungerla, ma è irresistibile. La Littizzetto, dunque, come tutti i grandi comici italiani presidia il terreno sessuo-erotico e lo mescola un po’ con tutto creando un mix irresistibile. Del resto l’ingrediente non è particolarmente originale, lo hanno usato un po’ tutti quelli che puntano a farti ridere: ma lei lo fa con una forza dirompente, come venissero giù le cascate del Niagara. Lo mette un po’dappertutto: parla molto di sesso, un po’ come fanno tutti gli taliani. A partire dal capo del
Luciana Littizzetto Elogio di una comica di Gabriella Mecucci governo, Silvio Berlusconi che ha dichiarato: «Io dormo tre ore per notte. Se dormo tre ore, posso fare l’amore le altre tre». Luciana Littizzetto annota la frase nel suo libro e la commenta: «Se dorme tre ore fa l’amore le altre tre. Se dorme sei ore, fa poi l’amore altre sei? Come Sting? E se dovessero mai fargli l’anestesia, che ne dorme diciotto, quella che gli capita sotto tiro la consuma come una gomma della Formula 1 dopo un Garan Premio». E del “competitor politico” di Berlusca? «Che fine ha fatto Prodi, con l’occhiale montatura Telefunken e il viso a forma di Te-
Autoironica, eclettica, mai volgare o monotematica. Nero su bianco oppure in tivù, nessuno meglio di lei, oggi, sa prendere in giro il costume nazionale e i luoghi comuni mediatici, divertendo il pubblico trapak?». E siamo arrivati così alla politica. Ma la favolosa Litti non ne fa un tema continuo e di propaganda a senso unico, vedi Sabina Guzzanti, lei ne parla anche molto, ma non si trasforma mai in altoparlante di un partito o di un movimento. Intanto perché se la prende un po’ con tutti e poi perché ha un certo stile: non gli viene certo
in mente di ironizzare pesantemente sul cancro di una persona, come fece la Guzzanti con Oriana Fallaci. O di aggredire con male parole il papa dal palco di Piazza Navona.
Non che la Litti non sia anche un po’ faziosa, ma sempre con garbo. Come dimenticare la sua stupenda gag televisiva
su Ruini: «Eminence...». Ma alla fine la finta pesantezza diventa leggerezza.Tanto leggera che – come ha raccontato il cardinale – persino la sua segretaria si diverte a sentire quella raffica di battute anticlericali. Soprattutto però la politica non è il tasto dominante e nemmeno prevalente di Luciana Littizzetto. C’è ad esempio la presa in giro straordinaria della pubblicità. Ecco qualche battuta: «Novità di un certo rilievo nel mondo della pubblicità. Intanto segnalerei il nuovo collant in e out. Che spinge
la pancia in dentro e butta il didietro in fuori. Ti viene il retro che sporge come quello delle oche». O la presa in giro delle superstar. Sharon Stone viene fatta letteralmente a pezzi: «Cosa ha fatto questa gnocca cinquantenne? Ha fatto fare le iniezioni di botulino ai piedi del figlio perché non puzzassero... Meno male che suo figlio non fa le puzzette, altrimenti cosa avrebbe fatto Sharon? Gli avrebbe fatto cementare il bosone?».
Insomma, la Littizzetto spazia su mille argomenti. Riesce a far ridere su tutto. Non è monotematica, come capita ormai con parecchi nostri comici: primi fra tutti quelli che sanno fare solo satira politica. E questa ricchezza di temi comprende anche l’autoironia: il sapersi prendere in giro. Le proprie manie, i propri difetti fisici, i rapporti col proprio compagno diventano racconti esilaranti. «Che destino beffardo e crudele. Anni che faccio questo mestiere e vigliacco se una volta mi sia capitato di incrociare George Clooney. Ma mai l’ho mancato persino da Fazio. E dire che lo sapevo due mesi prima che sarebbe venuto ospite. E per sessanta giorni ho fatto i piegamenti sui seni per fortificarli, ho portato il culo dall’estetista, ho persino chiesto a Gae Aulenti di ridisegnarmi le sopracciglia e ristruturarmi l’interno delle cosce..». Oppure un’amara conclusione: «Ho studiato, ho studiato e alla fine per lavorare mi tocca dire minchia». E sul suo uomo: «Manda un odore di piedi che nulla ha di umano. Quando si leva i calzini mi arriva una tromba d’aria malarica che mi ingiallisce le cornee». Ecco la ragione del successo della Littizzetto: un ingegno multiforme. Alla fine della recensione è d’uopo spiegare il perché del titolo La jolanda furiosa. Lo spiega l’autrice: «Come la chiamiamo? La chiamiamo come un partito? La cosa rossa? La Domitilla? La Calimera e L’incredibile Calispera? Ulka... Stargate... Ecco, chiamiamola jolanda».
Sopra e a fianco, la comica piemontese Luciana Littizzetto. In alto a sinistra, la copertina del suo nuovo libro (tutto da leggere) “La jolanda furiosa”
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dal ”Washington Post” del 09/01/2009
Militari in Iraq, a tutta birra di Ernesto Londono ra tutti gli ordini di servizio firmati dal comandante americano delle truppe in Iraq, nessuna è stata meglio accolta di quella che autorizza i militari Usa a bere una bionda con la schiuma in un paese islamico. Sarà solo per questa settimana, anzi l’occasione è ancora più ristretta nel tempo, ma di grande richiamo: la finale del Super Bowl. Per ogni americano che si rispetti la finale del campionato nazionale di football americano, è un momento da consacrare. È la sintesi di un’intera stagione, dove solo i fortunatissimi potranno dire: «Ho seguito i play off allo stadio» oppure «Ho visto vincere gli Steleers contro i Colts, dal vivo, l’altra sera». I più si accontentano di vedere l’huddle (la chiamata dello schema di gioco da parte del quarterback) e corse di runner e back comodamente seduti in poltrona. Con una birra in mano.
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l’invasione del 2003. Le truppe sono sempre meno coinvolte in azioni di combattimento e sempre di più in compiti di addestramento, consulenza e supporto alle forze irachene.
Per una sera anche i Gi in Iraq potranno sentire il clima di casa. Magari la tensione del gioco sarà percepita un po’ meno, di adrenalina ne producono fin troppa quotidianamente. Il generale Ray Odierno ha autorizzato, per la prima volta, tutti i militari in servizio al suo comando ad assumere alcol in una zona di combattimento, senza il rischio di finire davanti ad una corte marziale. «Ti va sentire meglio restare in contatto con le buone tradizioni del tuo Paese», il commento di Justin Roark, 23 anni da Little Rock. Il segnale da parte dell’alto comando è una diretta conseguenza della diminuzione del clima di violenza e degli atti ostili che l’Iraq sta vivendo negli ultimi tempi. Il mese scorso “solo”sette militari dello Us Army sono caduti. È il livello più basso di perdite in vite umane registrato dal-
Il Super Bowl si giocherà a Tampa, in Florida, il primo febbraio, durante i 40 giorni di quaresima seguiti dai musulmani sciiti. Ragione per cui nell’ordine di Odierno viene sottolineata la necessità, da parte dei comandanti di reparto, di non fare nulla che possa trasgredire le leggi e le tradizioni locali. Tanta sensibilità per questo sport deriva forse dal fatto che lo stesso generale abbia giocato nella squadra di West Point, l’Accademia militare più famosa d’America. Il ruolo era quello di tight end, (una specie di attaccante, mezzala, che diventa ricevitore di palla in alcune occasioni, ndr). Il gigante Odierno è dunque un tifoso del football, come conferma anche il suo portavoce, il tenente colonnello James Hutton e nessun dubbio sulla fede sportiva: «È un uomo dei New York Giants». Nell’ordine non viene specificata il tipo di birra e nonostante l’Iraq sia un Paese a “secco” di alcol, si può facilmente trovare nei supermercati. Comunque tutto ciò che serve alle truppe viene importato. Anche se, a leggere bene l’ordinanza, ci si accorge che non c’è tanta trippa per gatti. La quantità permessa ad ogni militare è limitata due sole lattine. Quelle piccole. Il mese era cominciato bene, con la smobilitazione di molti avamposti e il ritiro del relativo personale nelle grandi basi, dove è più facile
godere di alcune piacevoli comodità. Tra queste i megaschermi televisivi che verranno presi sicuramente d’assalto nella notte del Superbowl, nonostante l’orario notturno a causa dei fusi orari. L’unica maniera per bere alcolici era riuscire a godere di una licenza di quattro giorni nel Quatar – roba per pochi – in cui era permesso sorseggiare tre drink a sera, ma sotto una stretta supervisione. Insomma vita veramente dura per i seguaci di Bacco. Per chi sgarrava c’era l’immediata perdita dei gradi e, nei casi più gravi, la corte marziale.
«Poter bere della birra anche solo per tre ore, è una grande cosa», il parere del tenente James McGuire, sangue irlandese che ricorda la gioventù pasata da poco, «ho sempre seguito la finale con mio padre – ha continuato il militare di stanza a Mosul - trangugiando una lattina dietro l’altra». Anche se non tutti sembrano essere consumati dalla passione sportiva: «Non me ne importa nulla del Superbowl, ho solo voglia di staccare, rilassarmi e bere un po’ di birra».
L’IMMAGINE
Luciano Moggi, capro espiatorio del “gioco truccato” del campionato Luciano Moggi, a mio modo di vedere, è stato indicato come il maggiore e addirittura unico responsabile del “gioco truccato”del campionato di calcio italiano degli scorsi anni. Quello che si direbbe un capro espiatorio a tutti gli effetti. Certo, la figura di Moggi è quella che è. Montanelli avrebbe detto che la sua faccia lo condanna e tuttavia ci riesce proprio difficile credere che Moggi, il figlio e la Gea siano gli unici responsabili di un sistema sportivo molto poco sportivo. In fondo, Luciano Moggi lavorava nel club italiano più importante, a stretto contatto di gomito con importanti personalità del mondo sportivo, economico e perfino istituzionale. Che sia dunque soltanto lui a pagare - più sul piano morale che su quello strettamente penale - rappresenta soltanto l’ennesimo esempio di giustizia all’italiana: uno paga per tutti. Come ha scritto qualcuno: se i Moggi erano la cupola, dov’è il resto del palazzo?
Massimo Cavonna
SOLLECITI PER RICHIESTE MAI PERVENUTE Non è piacevole vedersi recapitare solleciti di pagamento. Ed è oltremodo sgradito se il sollecito si riferisce ad una richiesta di pagamento mai recapitata. Ed è quello che è avvenuto a non pochi utenti. Nel sollecito diretto ad utenti residenti in altra regione si davano appena sette giorni di tempo per provvedere al pagamento. Tempo rivelatosi insufficiente perché nei sette giorni erano comprese ben tre festività e due giornate prefestive con orario di lavoro ridotto. Conseguentemente un po’ tutti sono diventati, loro malgrado, morosi. Sicuramente un po’ più di rispetto per tutti gli utenti non guasterebbe anche perché ci avviamo verso la fine dei monopoli.
Luigi Celebre - Milazzo
VIVA LA LIRA, ABBASSO L’EURO Con un euro così forte, se non esiste l’adeguamento degli stipendi e delle tassazioni, è chiaro che l’economia degli italiani va in crisi. Se si facesse una statistica sui desideri scopriremmo che gli italiani sognano la lira, moneta che permetteva di arrivare a fine mese. È un dato di fatto.
Bruno Russo
ALITALIA, DI PIÙ NON SI POTEVA Bossi dà l’ultimatum per la questione Malpensa, ma non si riesce a capire cosa la politica voleva realmente per Alitalia. Sono state vagliate tutte le opportunità, e solo il governo è riuscito, in poco tempo direi, a dare una soluzione attuabile e sicuramente non lesiva per il personale. Si è ottenuto in sintesi che la compa-
Piume fredde, cuore caldo Una scrollatina alle piume e via. Basta poco a questo cigno per asciugarsi dalla neve. Certo lui è abituato, per noi invece convivere con il freddo è un po’ più complicato. Ma, se può consolare, il gelo di questi giorni al Centro-Nord è poca cosa rispetto al freddo dell’inverno del 1709. Quando un’ondata di gelo dalla Russia fece tremare (-20; -35 gradi a Berlino) tutta l’Europa gnia continuasse a vivere, senza neanche cambiare loghi, divise e gagliardetti. In un Paese come il nostro di più, ne sono sicuro, non si poteva ottenere.
Rino Sorsu
D’ALEMA E HAMAS D’Alema afferma che per risolvere la questione della striscia di Gaza occorre trattare con Ha-
mas, perché egli è il vincitore delle elezioni e quindi l’espressione della volontà popolare. Non sono d’accordo.
Lettera firmata
ANTISEMITISMO LATENTE Ancora non si ferma il sangue in Palestina e purtroppo, quando c’è di mezzo Israele, sembra che il mondo sia rimasto al 1948.Appena
gli Israeliani si difendono, anche se provocati scientemente o attaccati mortalmente, subito risorge un antisemitismo latente. Chi è per la pace deve essere privo di pregiudizi da radici paoline, agostiniane ed antistatunitensi. Il deicidio - «il Suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» - è una bestialità stupida, anticristiana e antistorica.
Dino Mazzoleni
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Chissà se il fato ci sarà favorevole... Anche se sono ancora a letto i miei pensieri corrono a te, mia Immortale Amata, talora con gioia, poi con tristezza, in attesa di sapere se il fato ci sarà favorevole... Io posso vivere esclusivamente con te, o per niente... Sì, sono deciso a vagare lontano da te finché non potrò volare tra le tue braccia e dire che sono davvero a casa, mandare la mia anima avvolta in te nella terra degli spiriti. Sì, per quanto sia doloroso, tu sarai ancor più risoluta quando conoscerai la mia fedeltà a te; nessuna potrà più possedere il mio cuore... nessuna... mai... Oh Dio! Perché è necessario separarsi da chi si ama tanto? E anche la mia vita a Vienna è ora una vita distrutta; il tuo amore mi rende contemporaneamente il più felice e il più infelice degli uomini; alla mia età ho bisogno di una vita stabile e tranquilla; può essere così nella nostra condizione? Sta’ tranquilla, soltanto una tranquilla riflessione sulla nostra esistenza può farci raggiungere lo scopo di vivere insieme; sta’ tranquilla, amami, oggi, ieri; che penoso desiderio di te... te... te... mia vita... mio tutto... addio. Oh continua ad amarmi, non giudicare mai male il cuore fedelissimo del tuo amato L. Sempre tuo. Sempre mia. Sempre l’uno dell’altra. Ludwig van Beethoven alla Immortale Amata
ACCADDE OGGI
PER IL CENTRO È TEMPO DI SCELTE CORAGGIOSE Egregio Direttore, ho letto con interesse il suo scritto sull’oroscopo 2009 di Pier Ferdinando Casini e, rispondendo alla sua domanda «sarà possibile costruire una forza politica popolare di centro», le rispondo di sì, anzi lo ritengo necessario per il bene del paese e degli italiani, per frenare la caduta, mai così in basso, della politica italiana e per ridare al paese quello slancio, vigore e orgoglio di cui hanno bisogno gli italiani per risalire la china e guardare al futuro con più serenità e fiducia. Il tentativo degli avventurieri della Seconda Repubblica di cambiare il sistema affermando che i tempi sono maturi per installare la supremazia del bipolarismo è fallita. Infatti da troppo tempo si assiste ad un’accentuazione della rivalità tra i due schieramenti maggiori finalizzata alla delegittimazione dell’altro con il comune obiettivo di contrastare l’emergere di forze nuove e vitali. I nostri attuali politici sono molto impegnati in ogni occasione pubblica a screditarsi a vicenda ma dimostrano tutta la loro incapacità di affrontare le questioni vere sul versante economico, sociale e tutte quelle riforme politiche e istituzionali di cui il nostro paese ha un grande bisogno per affrontare le sfide del futuro. Le riforme non si fanno con l’arroganza del potere o della maggioranza ma con il più ampio confronto e consenso possibile perché devono innovare, incidere profondamente e durare nel tempo.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
10 gennaio 1929 Tintin, un personaggio dei fumetti creato da Hergé, fa il suo debutto. Sarà pubblicato in oltre 200 milioni di copie in 40 lingue 1944 Si chiude il processo di Verona con la condanna a morte di Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi; Tullio Cianetti invece viene condannato a 30 anni di carcere 1946 Prima assemblea generale delle Nazioni Unite a Londra 1966 India e Pakistan firmano accordi di pace 1984 - Gli Stati Uniti e la Città del Vaticano stabiliscono piene relazioni diplomatiche 1989 Le truppe di Cuba iniziano a ritirarsi dall’Angola 1994 Lorena Bobbitt viene processata per aver tagliato il pene del marito John 2004 Viene fondata a Berlino la Sinistra Europea 2006La Guardia di Finanza arresta Francesco Casillo, leader della fornitura di semola di grano duro, con l’accusa di aver venduto una partita contaminata con ocratossina A
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
Non si può non tener conto della minoranza che rappresenta oltre il 40% dei cittadini italiani, i quali hanno tutto il diritto di esprimere la propria opinione e di partecipare nel ruolo che gli compete alle scelte che riguardano il futuro del paese. È in questo quadro che si sente la mancanza di una forza politica popolare di centro, capace di rispondere sul piano culturale, etico, morale e sociale, ai bisogni dei cittadini. Penso che per tutte quelle forze che si richiamano al centro questo è il tempo delle scelte coraggiose, di rompere gli indugi e di scendere in campo accettando la sfida e rischiando il tutto per tutto per dare vita a questa nuova forza politica fondata sui valori del cattolicesimo democratico e sociale, sul liberalismo democratico e sul riformismo laico. Questo progetto, promesso in campagna elettorale dall’Unione di Centro, deve essere rivolto e aperto a tutte quelle forze che si ritrovano in questo spazio moderato e valoriale e deve partire con un progetto di Costituente per dare vita ad un nuovo soggetto politico, che già dalle prossime competizioni elettorali amministrative si presenta al paese in maniera del tutto autonoma. So che è un progetto ambizioso ma serio e per questo prevedo che sarà ostacolato un po’ da tutti, ma sono convinto che il popolo italiano lo saprà apprezzare e sostenere condividendone il messaggio politico e sociale forte e indirizzato al servizio del paese e del bene comune.
Mario Gualeni - Sovere
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
L’ORO DI NAPOLI Non credo che Napoli faccia parte della Repubblica Italiana e neppure del Regno delle due Sicilie. Non riesco a immaginare luogo d’Europa dove una comunità non si ribelli ad un presidente di Regione e ad un sindaco che governano male da anni, con gravi conseguenze e danni di immagine. Come se le dimissioni fossero una questione legata solo all’onestà. In un Paese civile ci si dimette se non si è bravi. Pagare con le dimissioni l’inefficienza delle proprie amministrazioni è prima di tutto un segno di nobiltà d’animo, di onestà intellettuale e ha carattere educativo per i governati. La prima cosa che si chiede ai politici è saper risolvere i problemi. Ma la seconda è di risolverli in modo decente, educativo, in modo da essere di esempio. Così che anche la cosiddetta società civile e cioè quella non-politica, può elevarsi moralmente. Cristo, Giordano Bruno, Jan Palach sarebbero tali se non fossero morti sapendo che la loro fine avrebbe educato milioni di persone a sacrificarsi per le loro idee giuste? Churcill, promettendo lacrime e sangue, risollevò prima di tutto il morale agli inglesi e fu poi un susseguirsi di spirito di corpo e di eroismo. Morire no, per l’amor di Dio! Ma dimettersi è un atto dignitoso dovuto ai napoletani di buoni costumi. La Jervolino, invece, si sarebbe dimessa solo se non fosse riuscita in tempi rapidi a fare una nuova giunta. Questo è un atteggiamento immorale perché privo di virtù. In un’azienda se le cose vanno male il direttore o se ne va o viene cacciato, anche se la colpa poi è di chi sta sotto. È solo il padrone-proprietario dell’azienda che cambia tutti gli altri e non se stesso. Per questo esiste l’istituto del fallimento. Se l’imprenditore non porta i libri in tribunale, ci pensa la legge. È questo il problema infatti. Non si è sindaco di Napoli perché si è capaci di governare e di controllare i propri uomini di giunta. Si è sindaco e padrone. Condivido l’idea che è la politica prima di tutto a creare il malaffare: si dispone di soldi di altri. Napoli avrebbe bisogno di molta meno politica. Se la politica fosse zero, il malaffare sarebbe solo delinquenza comune e almeno, nella terapia, ci sarebbe meno confusione. Napoli avrebbe bisogno per un po’ di una democrazia prefettizia, garantita cioè dallo Stato con gli strumenti commissariali. Perché il vero oro di Napoli non è il denaro pubblico male investito, ma lo spirito irrazionale dei napoletani di adattamento ad ogni situazione pur di sopravvivere. Ma ciò trasforma poi l’oro in piombo. Fabio Pavan C I R C O L O LI B E R A L P O R D E N O N E
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Inghilterra. Farhad Hakimzadeh ha mutilato oltre 150 volumi antichissimi
L’Arsenio Lupin (iraniano) che ruba libri a colpi di di Rossella Fabiani ra conosciuto da tutti gli habitué, professori, ricercatori e studiosi per i suoi modi forbiti, formali ed educati, in una parola anglosassoni: sorrideva e salutava cortesemente tutti quando entrava in biblioteca. Alla British Library o alla Bodleian di Oxford, veri e propri templi della cultura, il suo volto era familiare e veniva considerato uno studioso gentile. Ma il signor Farhad Hakimzadeh, era sì un gentiluomo, per giunta milionario, ma anche un ladro di libri antichi. O meglio, un ladro delle pagine più preziose dei libri antichi, che ha deturpato 150 volumi della British Library con un taglierino.
E
Sessant’anni, nato in Iran ma diventato cittadino inglese quando era fuggito di fronte alla rivoluzione khomeinista, Farhad Hakimzadeh aveva una grande passione per la storia. Autore anche di diverse pubblicazioni, tra cui il volume, scritto insieme a Willem Floor, The Ispano-Portuguese Empire and its contacts with Safavid Persia, The Kingdom of Hormuz and Yarubid Oman from 1489 to 1720. Per otto anni, dal 1997 al 2005, il facoltoso uomo d’affari britannico aveva frequentato le due biblioteche, consultando centinaia di libri rari, alcuni antichi anche di quattro secoli. A chi non è mai capitato di entrare in questi santuari delle Lettere, va detto che le biblioteche solitamente sono aperte a tutti, è sufficiente una lettera di presentazione. Per entrare invece nelle sale dove sono conservati i manoscritti non basta una lettera di accredito: bisogna anche motivare la richiesta di consultare questo o quel manoscritto. Ottenuto il permesso, si accede alla sala dove sono conservati testi antichi anche di dieci secoli, si entra lasciando all’ingresso borse, penne e fogli di carta. Il personale addetto alla sala fornisce un paio di guanti, una matita, dei fogli di carta e, se richiesta, anche una lente. Al tavolo il manoscritto viene consegnato appoggiato su un leggìo. Si possono soltanto girare le pagine. E’ vietato qualsiasi altro gesto, come leggere appoggiando la mano sulle pagine, scorrerle con la matita o lasciare qualche segno. Anche andare in bagno implica una procedura complicata. In luglio, poi, alla Library di Londra a tutto questo si aggiunge anche il caldo torrido visto che la sala non è dotata di aria condizionata, per evidenti ragioni di conservazione e manutenzione dei preziosi fogli. Proprio in questa sala ha lavorato il professor
Hakimzadeh. Il suo campo di ricerca era concentrato sui testi e sulle mappe dei grandi viaggi degli esploratori europei attraverso Mesopotamia, Persia, Cina e l’impero Mogul. Colto, ricco, ma soprattutto appassionato ai suoi studi tanto da trascurare il tempo per gli affari. Ma soprattutto così appassionato agli studi da rubare anche le pagine dei libri che consultava in sala lettura, dopo essersi infilato i guanti bianchi forse anche per non lasciare le impronte digitali. Con calma e pazienza orientale, uno alla volta, Hakimzadeh ha mutilato 150 testi, staccando mappe, illustrazioni e altre pagine, con un bisturi che era riuscito a portare con sé e la precisione di un chirurgo. Da notare che il già citato libro che Hakimza-
scoprendo che almeno 150 avevano subito un’amputazione.
Mancano delle pagine anche dalla Historia de la China y Cristiana empresa hecha en ella por la Compagnia de Jesus di Matteo Ricci, il gesuita marchigiano che viaggiò attraverso la Cina nel 1582 e vi si stabilì. La prima edizione della sua opera apparve in latino nel 1615, quella conservata alla British fu stampata in Spagna nel 1621. Una volta scoperto il misfatto, la direzione si è mossa con molta cautela: ha scritto una lettera
BISTURI al signor Hakimzadeh, con rispetto, perché il milionario era pur sempre il presidente della Iran Heritage Foundation, un’associazione culturale senza fine di lucro costituita nel 1995 per promuovere gli studi storici di lingua e cultura persiana. Il ladro ha risposto alla lettera, con la stessa cortesia un po’distratta, di non avere proprio la minima idea di quello di cui gli si stava chiedendo conto. La British Library si è rivolta allora a Scotland Yard.
Sessant’anni, milionario e gentiluomo. Per anni ha ingannato la sicurezza alla British Library e alla Bodleian di Oxford. Una volta scoperto lo scempio, l’uomo è stato denunciato e ora deve rispondere di un danno di circa 1 milione di sterline deh ha scritto, contiene un intero capitolo dedicato alle mappe e una bibliografia delle pubblicazioni stampate sull’argomento che va dal 1508 al 2007. Per anni nessuno si è accorto di nulla, nonostante la sorveglianza dei bibliotecari e le telecamere a circuito chiuso. Fino a quando un altro ricercatore alla British Library ha aperto il prezioso trattato di Sir Thomas Herbert, A Relation of Some Yeares Travaille, Begunne Anno 1626, e con orrore ha scoperto che mancavano delle pagine. Era il 2006. Sono cominciati i controlli su tutti coloro che di recente avevano richiesto quel volume. Non erano molti. Incrociando i dati con ricognizioni manuali, alla fine gli esperti sono andati a vedere tutti gli 842 libri consultati dallo studioso iraniano
Gli agenti della scientifica sono andati a casa Hakimzadeh, in una palazzina lussuosa di Knightsbridge. Hanno cercato e hanno trovato alcune della pagine antiche infilate in libri molto meno pregiati. Il danno ai 150 volumi della British e ad altri 47 libri della Bodleian è stato valutato in un milione di sterline, quasi 1 milione e 200mila euro. Ma il danno storico è senza prezzo. Amaro il commento del direttore della British, Kristian Jensen: «Sono reperti storici deturpati per sempre e l’autore di questo scempio, un uomo di grande ricchezza personale, sapeva bene quello che stava facendo e sapeva di distruggere un patrimonio comune». Portato in tribunale, Farhad Hakimzadeh, laureato a Harvard e al Mit, il Massachusetts Institute of Technology, deve rispondere di 14 capi d’accusa, dal furto al danneggiamento. Dal suo volto il sorriso è sparito. La British e la Bodleian hanno annunciato di aver avviato anche una causa civile per ottenere almeno il risarcimento dal ladro milionario.