IS SN 1827-8817
Tutte le ambizioni sono
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81 104
giustificate, tranne quelle che si arrampicano sulle miserie e sulla credulità umana
9 771827 881004
Konrad Lorenz
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
L’Italia in piazza per Israele e la pace
L’appuntamento bipartisan è per domani sera a Montecitorio. Il titolo è chiarissimo: «Sosteniamo Israele, sosteniamo la pace», manifestazione degli «Amici di Israele».
di Francesco Capozza a pagina 17
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
DEFINITIVO SÌ DI CAI AD AIR FRANCE I francesi in Alitalia con il 25 per cento e tre membri nel Cda. La Moratti e la Lega (e quindi Malpensa) escono così clamorosamente sconfitti
Si fanno più critici i dati della crisi italiana
Crollano i Bot. E Bankitalia: debito record di Alessandro D’Amato
ROMA. Tre notizie hanno scosso ieri il mondo economico e politico. Tre notizie che, viste in chiaroscuro, presentano caratteristiche forse diverse rispetto alla prima lettura. La prima è che sono in calo i rendimenti dei nuovi Bot in asta ieri. Una calo sicuramente previsto, in virtù dell’allarme rispamio di queti mesi, ma non nei termini in cui si è materializzato. Insomma, la Banca d’Italia ha reso noto che per la prima tranche dei trimestrali il rendimento lordo annuo semplice si è attestato al 1,659% (0,805 punti) e quello composto al 1,669% (0,818 punti), mentre per la prima tranche dei Bot 15/01/2009-15/01/2010, il rendimento lordo annuo composto scende al 1,840% (-0,793 punti) e quello composto al 1,839% (-0,793 punti). Per l’asta dei trimestrali vi sono state richieste per oltre 9,8 mld di euro a fronte di un importo offerto di 5,5 miliardi di euro, interamente assegnato, con una percentuale di riparto pari al 70,868%. Per l’asta dei buoni annuali invece sono pervenute richieste per oltre 10,5 mld di euro a fronte di un importo offerto pari a 7,5 miliardi di euro, interamente assegnato, con una percentuale di riparto al 96,284%. I prezzi di aggiudicazione sono pari a 99,587 per il trimestrale ed a 98,169 per l’annuale. Fino a solo sei mesi fa, un rendimento intorno al 3% era prassi. Dicono gli esperti che il dato è facilmente spiegabile: il basso rendimento è dovuto alla forte richiesta (se ci sono tante offerte, l’emittente è spinto a garantire un ritorno più basso) mentre altre aree di rendimento (ad esempio l’immobiliare) stanno suonando fragorosi campanelli d’allarme: ecco perché c’è la folla all’emissione dei titoli di Stato. Ma gli analisti invitano comunque a tenere presente il risultato dell’ultima asta sui pregiati buoni del Tesoro tedeschi. Nel 2009, in tutta Europa e negli Usa, è attesa un’ondata di emissioni da 3mila miliardi di dollari, il triplo del 2008, in buona parte necessari a finanziare i piani di salvataggi delle banche e di sostegno alle economie.
Ratzinger: «La politica superi le divisioni»
Ci vuole il Papa per capire come governare? colloquio con Savino Pezzotta l Papa coglie la gravità della situazione italiana, se ne fa carico e invita le forze politiche ad affrontare i problemi della crisi nel modo più convergente possibile: ma ci sono, mi chiedo, le condizioni politiche perché questo accada?». Savino Pezzotta, esponente dell’Udc e leader storico della Cisl riflette con liberal sul discorso pronunciato da Benedetto XVI in occasione del ricevimento delle autorità politiche del Lazio. Un’occasione per il Pontefice per lanciare un appello alla responsabilità degli attori politici e istituzionali in un momento critico per il Paese. «Il Papa pone un problema serio su cui a parole nessuno, come sempre, si pronuncia in disaccordo. Ma la buona volontà degli uomini non è sostanziata di retorica ma di azione».
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se g ue a p ag i na 4
L’ultimo consiglio di Bush a Obama Conferenza stampa di addio per George W. Bush: «La prima grande emergenza, per Obama, sarà quella del terrorismo internazionale»
di Pierre Chiartano a pagina 15
In memoria di Padre Neuhaus
Mamma ho perso l’aereo! alle pagine 2 e 3
L’ex luterano che cambiò l’America di Michael Novak io fratello Richard è morto, per la seconda volta. Prima il mio fratello di sangue, Padre Richard Novak, in un gennaio di molti anni fa, in Bangladesh. Adesso, pochi giorni fa (l’8 gennaio) Padre Richard John Neuhaus, a New York. Circondato da molti dei suoi amici e dalla famiglia, Padre Neuhaus sì è spento serenamente nel sonno, dopo essere caduto in stato di incoscienza il giorno prima. Era stato ricoverato in ospedale il 26 dicembre, per la seconda (e ultima) volta in poche settimane. Non molto tempo dopo che gli era stato diagnosticato un brutto cancro, circa un mese fa, era stato colpito da una forte infezione che si è lentamente diffusa fino a raggiungere il cuore.
M
se gu e a p ag in a 7
MARTEDÌ 13 GENNAIO 2009 • EURO 1,00 (10,00
s e gu e a pa gi n a 1 3 CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
8•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 13 gennaio 2009
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Cieli tempestosi. Nel giorno del debutto operativo, il Cda della Magliana dà il via libera all’accordo con Parigi
Allons enfants de Alitalià Nasce la nuova compagnia e insieme arriva il sì ufficiale a Air France La Moratti sconfitta. Ma non si arrende: «Sta arrivando Lufthansa» di Francesco Pacifico
ROMA. Quando si dice fuoco amico. Ancora ieri, mezz’ora prima che Alitalia annunciasse le nozze con Air France, Letizia Moratti rilanciava l’ipotesi Lufthansa. «So che c’è un’offerta, mi auguro che Cai non sancisca una partnership con un partner internazionale senza esaminare prima un’altra proposta». Un affronto che a Palazzo Chigi non hanno compreso appieno, ricordando che il sindaco di Milano si era persino detto disponibile a rivedere l’operativa dello scalo di Linate. E facendo intendere che più delle sorti di Malpensa, l’ex presidente della Rai, si preoccupa dell’organizzazione dell’Expo 2015. Ma la Moratti è ormai il simbolo della battaglia della Padania contro il ridimensionamento di Malpensa. Più del suo amico Umberto Bossi, che sarà presto costretto a trattare con Roma ladrona e accettare un compromesso. Più di Roberto Formigoni, che pure si è inventato una contestata legge regionale per strappare ad Alitalia gli slot non utilizzati nel hub lombardo. Per non parlare di Silvio Berlusconi o di Giulio Tremonti, che faranno pure i difensori del Nord, ma poi aiutano «gli interessi di un gruppo di imprenditori». Cioè i soci di Cai, «privati che non si possono porre come salvatori del Paese». Per il sindaco di Milano questo non è un bel momento. A breve dovrà rimborsare un bond da 400 milioni di euro emesso a suo tempo dalla controllata Aem, rischiando altresì di perdere la maggioranza in A2A. Ancora prima dovrebbe arrivare il conto sui derivati, con un’esposizione per Palazzo Marino da 250 milioni di euro. Resiste contro le sirene che spingono per un imponente rimpasto in giunta. Eppoi c’è il problema Mal-
Per oggi le sigle autonome minacciano di bloccare Fiumicino
Anche i sindacati contro i francesi di Vincenzo Bacarani
ROMA. Oggi all’alba (verso le sei) decolla il primo volo della nuova Alitalia (da Malpensa a San Paolo del Brasile), ma sempre oggi – però più tardi: alle 10 circa – l’aeroporto di Fiumicino potrebbe ripiombare nel caos. Il Sindacato intercategoriale dei lavoratori (Sdl) ha infatti confermato una manifestazione - già indetta nei giorni scorsi - per questa mattina all’aeroporto intercontinentale. Non si escludono altri nuovi disagi, soprattutto riguardo ai servizi di terra e di manutenzione, per i passeggeri che transiteranno dallo scalo romano. L’accettazione dell’offerta di Air France da parte di Cai soddisfa infatti solo in parte le organizzazioni dei lavoratori che sono invece preoccupate per il futuro della rinata compagnia di bandiera. «I dati parlano chiaro – spiega a liberal Francesco Staccioli, coordinatore nazionale Sdl Trasporto, uno dei sindacati più attivi negli scioperi e nelle assemblee spontanee –. Air France con il 25 per cento di quota diventa il socio di maggioranza relativa della nuova società». E questo, secondo il sindacalista, espone la nuova Alitalia al rischio di essere fagocitata da Air France in quanto ciascuno degli altri soci italiani possiede meno del 25 per cento, cioè meno di Air France. «Il grosso rischio – prosegue Staccioli – è che visti i 10 mila esuberi e vista la riduzione del 40 per cento di voli, la nuova Alitalia vada incontro a un destino di compagnia low-cost del colosso francese». E questa prospettiva è proprio quella che tutte le organizzazioni sindacali (anche alcune sigle confederali) temono. Non solo. Gli incontri con i vertici Cai (l’amministratore delegato Rocco Sabelli accompagnato da alcuni consulenti esterni alla compagnia) per le assunzioni hanno prodotto un clima surriscaldato. «Non sono stati rispettati gli accordi con il governo – prosegue il rappresentante di Sdl -, sono stati commessi parecchi errori e poi non c’è stata la fase di transizione che era stata promessa. Ci era stato assicurato che avremmo avuto parcheggi per i dipendenti e invece non c’è nulla». Scontenti, ma senza fare proclami di guerra, i piloti. All’Anpac sperano che Air France possa in qualche modo rimettere le cose a posto e rimediare agli errori dei neofiti di Cai. «Nessuna agitazione da parte nostra – assicurano all’Anpac – i voli, per quanto riguarda noi, si svolgeranno regolarmente. Certo, sarebbe stato meglio che questa operazione fosse avvenuta dieci anni fa». La preoccupazione principale è che la nuova Alitalia diventi un satellite di Air France e la speranza è che abbia pari dignità e importanza come è avvenuto nel matrimonio tra francesi e gli olandesi della Klm.
pensa: se l’abbandono di Alitalia fa sì che volare da Milano sarà un’impresa, alleggerisce tra l’altro, e non poco, i conti della Sea, altra controllata del Comune che pure ha sempre risposto presente in termini di lauti dividendi.
Eppure tutto questo è poca cosa rispetto all’organizzazione dell’Expo 2015. Per la Moratti è un cruccio continuo: il tempo stringe e dopo 9 mesi dall’assegnazione decisa dal Bie, l’apposita società di gestione è ancora ferma per decidere gli emulamenti dei suoi amministratori. O meglio, di uno in particolare: quel Paolo Glisenti che il sindaco ha scelto come suo plenipotenziario e che non piace a Tremonti, a Formigoni e alla Lega, e per il quale sarebbe pronto un assegno da 450 milioni di euro più 200 milioni di bonus.
Dietro le sortite del sindaco ci sono il destino dell’Expo 2015 e uno scontro con Tremonti, che deve stanziare 2,5 miliardi In realtà più che soldi per Glisenti si litiga su quelli che il Tesoro – almeno 2,5 miliardi – dovrebbe stanziare per le opere infrastrutturali. Tremonti – come dimostrano in continuio rinvii del Cipe – non vuole sganciare un quattrino prima di capire chi gestirà tutto questo ben di dio. E non vuole lasciare tutto all’arbitrio della Moratti ai suoi. Il commercialista pavese e la broker di origini genovesi non si sono mai amati. Grida ancora
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13 gennaio 2009 • pagina 3
La Cai confronta la nuova operatività con i dati del 2008, un anno nero
Il trucco di Colaninno sui veri numeri della Cai di Alessandro D’Amato
ROMA. Il debutto della nuova Alitalia è stato pubblicizzato dagli uomini Cai con una campagna d’informazione davvero capillare: «Maggiore copertura del territorio italiano, portafoglio più ricco di destinazioni internazionali, ampio ventaglio di soluzioni tariffarie: sono gli elementi della carta d’identità presentati dalla nuova compagnia che decolla il 13 gennaio puntando a una fetta di oltre il 55% di mercato domestico nel 2009», recitava qualche giorno fa il testo di un’agenzia di stampa. Accompagnata da una tabella che presentava la nuova realtà frutto della fusione tra la vecchia Alitalia e Air One con numeri che mettevano in mostra un ridimensionamento tutto sommato sopportabile del servizio.
vendetta quel consiglio dei ministri del 2004, in cui il responsabile del l’Economia l’apostrofò con un: «Letizia, ma il governo non è mica tuo marito…». E infatti la Moratti, appena può, chiama Berlusconi e si fa dare garanzie che al momento buono evaporano. E sull’Expo – affare che potrebbe aumentare il Pil del Nord del 4 per cento – tutte le parti in causa sono divise. La Moratti ha ottenuto di fare il commissario delle opere, ma le deleghe vere restano in mano alla provincia di Milano e la Regione Lombardia. Al riguardo i rispettivi presidenti Filippo Penati e Roberto Formigoni non hanno sufficiente peso politico per decidere alcunchè. Tremonti vuole più poteri nella società di gestione per uomini di sua fiducia mentre le Lega Nord, che pure ha piazzato Dario Fruscio a capo del collegio sindacale della SoGe, rischia di restare ai margini dell’operazione. Più dubbi li nutrono gli imprenditori lombardi. Senza un accordo sulle deleghe nella società di gestione e sul ruolo di Glisenti, difficilmente il Cipe sbloccherà i soldi necessari. E senza risorse sarà impossibile
far partire le gare d’appalto e dare il via al business.
In attesa che Berlusconi trovi una quadra – finora il premier se ne è stato un po’in disparte – è emblematico lo scontro che si è registrato tra la Moratti e un pezzo da novanta del capitalismo italiano come Salvatore Ligresti. Il quale pretendeva che si realizzassero più opere per l’Expo in sue aree come il Parco sud o nella zona che ospitava la vecchia Fiera. Qualcosa l’ha ottenuta (come la velocizzazione su alcuni cantieri in zona Garibaldi), ma ha deciso di seppellire l’ascia di guerra sapendo che farà comunque la parte del leone quando si tratterà di iniziare a costruire. Come per Bossi o per Formigoni Malpensa anche per Letizia diventa merce di scambio per ottenere qualcos’altro. I suoi fedelissimi ripetono che non ha velleità di scalare il Pirellone, come temono i formigoniani. Fatto sta che se lanciasse l’Expo, sbloccasse strade autostrade e metropolitane per oltre 4 miliardi di euro, e trovasse un’intesa con la sinistra, anche la lady di ferro del centrodestra entrerebbe nella partita per la successione al Cavaliere.
La tabella, messa in circolo dall’Ansa e pubblicata da molti giornali italiani, ne dava conferma: 669 voli al giorno per la nuova Alitalia contro i 733 della vecchia; 4678 voli settimana contro 5128; 70 nunove destinazioni contro le vecchie 76; 148 aeromobili (più nuovi ed efficienti) contro i 239 della vecchia gestione. Sempre tenendo conto che, stando alla tabella ufficiale, i dati“vecchi” contenevano sia l’Alitalia di ieri sia la Airone. Insomma, un boccone non troppo amaro da inghiottire per avere in cambio finalmente una gestione ”privata”e quindi più efficiente: la privatizzazione del trasporto aereo in Italia, nonostante tutti i costi impliciti ed espliciti per il cliente e il contribuente italiano, può nascere sotto auspici non proprio neri. Il guaio è che la tabella dell’offerta di Cai abbia un ”peccato originale”difficile da superare a cuor leggero. Ovvero, il confronto tra le due offerte veniva fatto partendo dall’ultimo anno, il 2008, quello dei ridimensionamenti conseguenti al piano Prato e alla gestione del commissario Augusto Fantozzi. «Il confronto corretto va fatto con la somma dei voli di AZ (la vecchia Alitalia) ed AP (la vecchia Air One) nel 2007, prima dei differenti ridimensionamenti subiti - dice il professor Ugo Arrigo, ordinario di Economia dei trasporti all’Università Milano Bicocca - solo così si possono comprendere le vere dimensioni dei tagli del servizio». E il confronto è impietoso: rispetto ai numeri del 2007, gli aerei passeggeri in esercizio passano da 235 a 148: un crollo del 37%; i voli totali annui da 390mila a 244mila, in calo anche qui del 37%; una quota percentuale uguale di riduzione la subiscono i voli medi giornalieri, che passano dai 1068 di due anni fa ai 669
di oggi. Ma le riduzioni più paurose sono quelle del computo dei posti annui offerti e dei passeggeri trasportati. La prima va dai 51,7 milioni del 2007 ai 34,1 del 2009, con una riduzione del 34%. La seconda, per validare un confronto, ha bisogno di un’avvertenza che ci fornisce lo stesso Arrigo: «I passeggeri del 2009 sono stimati nel seguente modo: valore minimo nell’ipotesi di load factor invariato rispetto al 2007, valore massimo nell’ipotesi che salga al 78% (ipotesi però poco verosimile)». Ma anche così i numeri sono rossi: 32,7 milioni erano i passeggeri trasportati da Alitalia e Air One, mentre il valore massimo della Nuova Alitalia dovrebbe essere di 24 milioni, il “minimo” è di 22. Con un crollo che va dal 27 al 32%.
Ma il dato più allarmante è quello dei costi. Anche perché è ancora un’incognita. In un’intervista pubblicata su L’Espresso qualche tempo fa l’economista Andrea Giuricin aveva fatto sapere che, per i suoi calcoli, «il viaggiatore che utilizzerà la nuova compagnia di bandiera per spostarsi all’interno dei confini nazionali subirà costi superiori del 32% rispetto alla vecchia Alitalia e del 36% rispetto a quanto pagato, ad esempio, da Iberia nei cieli spagnoli». Intanto, l’Adusbef tuona: «Sulla rotta Roma-Milano i biglietti aerei sono di gran lunga più cari rispetto agli altri Paesi europei in termini di distanza e di tratta comparabile: si paga il 180% in più rispetto alla Germania su una tratta simile come la BerlinoMonaco». E i prezzi sono allo stesso modo decisamente più cari anche in confronto a rotte comparabili come Parigi-Lione, Londra-Manchester e Madrid-Barcellona. In attesa di un’analisi sistematica sulle altre destinazioni, secondo la Gazzetta del Mezzogiorno è possibile apprezzare l’effetto della nuova gestione nelle destinazioni pugliesi: i costi risentono della situazione di monopolio: per un Bari-Fiumicino, andata e ritorno in giornata, si spendono 237 euro, più o meno la stessa cifra necessaria per un Brindisi-Linate (236). A settembre, il costo del biglietto per la stessa prenotazione (con due settimane di anticipo) era inferiore ai 200 euro. Un incremento del 20%. E Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust, aveva detto il 29 dicembre: «Se le tariffe saranno aumentate in maniera irragionevole e senza adeguate giustificazioni, apriremo le procedure previste dalla legge».
La tabella pubblicitaria sull’operatività del 2009 avrebbe dovuto essere confrontata con le stesse voci del 2007, l’ultimo a pieno regime
I veri numeri della nuova Alitalia (confronto con Alitalia+AirOne 2007) Nuova Alitalia (AZ) e AirOne (AP) nel 2007 AP AZ+AP Alitalia 2009 AZ Aerei passeggeri in esercizio Voli totali annui Voli medi giornalieri
n.
181
migliaia
299
n.
819
54
Variaz. % 2009/07
235
148
-37
91
390
244
-37
249
1068
668
-37
n.
4,5
4,6
4,5
4,5
-1
Posti annui offerti
milioni
39,3
12,4
51,7
34,1
-34
Passeggeri trasportati
milioni
25,6
7,1
32,7
Voli giornalieri medi per velivolo
min 22,2
-32
max 23,9
-27
società
pagina 4 • 13 gennaio 2009
Appelli. Parla agli amministratori di Roma e del Lazio, ma in realtà il Pontefice si rivolge a tutti e chiede una «concorde volontà di reagire» alle difficoltà
Ci deve pensare il Papa? Benedetto XVI esorta la politica italiana a lavorare contro la crisi con uno «spirito di unità» di Errico Novi
ROMA. Ascoltano ed escono rincuorati. Piero Marrazzo, Gianni Alemanno e – seppur con entusiasmo meno esibito – Nicola Zingaretti lasciano l’udienza da papa Benedetto XVI con buoni auspici e la consapevolezza di non essere i soli destinatari delle parole del Pontefice. Dopo i saluti di rito il Santo Padre entra subito nel merito della crisi economica che in realtà «è connessa a quella strutturale, culturale e di valori». Davanti a una «così ardua sfida», avverte nel suo discorso, «concorde deve essere la volontà di reagire, superando le divisioni e concertando strategie. Nei momenti difficili della sua storia il popolo sa ritrovare unità di intenti e coraggio».
gio Napolitano ha pronunciato diverse volte dall’inizio della legislatura. Suonano dunque familiari alla politica, e nello stesso tempo sono fortemente distoniche. Perché suggeriscono con semplicità l’approccio più saggio, naturale, spesso però ignorato dal governo, nonostante le simili esortazioni arrivate dal Colle e il lavoro di faticosa mediazione a cui si so-
Non è una raccomandazione
no dedicati soprattutto alcuni esponenti dell’opposizione, il presidente della Camera Gianfranco Fini e altre figure di alto profilo, da Nicola Mancino a Luciano Violante.
che riguarda solo la Capitale e il suo territorio. È una affermazione di principio, evidentemente, fatta senza alcuno spirito di ingerenza ma con il senso dell’impegno che il tempo richiede. Sono parole simili a quelle che il presidente della Repubblica Gior-
Dal Santo Padre l’invito a superare le polemiche quotidiane, a ritrovare una visione alta della vita pubblica e i valori fondamentali
È un discorso politico nel senso più
alto del termine, quello proposto dal Pontefice. E proprio per questo si colloca su un piano assai più elevato rispetto alla retorica quotidiana dei partiti. Fa i conti con la gravità dei problemi e suggerisce interventi che prescindano dalle polemiche spicciole: i riferimenti alla capacità di rialzarsi nei momenti più impegnativi costituiscono un implicito invito a una politica di “unità nazionale”. È d’altra parte un linguaggio che si è andato gradualmente perdendo negli ultimi mesi. Le sollecitazioni di molte figure istituzionali riguardano il più delle volte ambiti specifici, dalla giustizia all’immigrazione. È stato invece smarrito poco alla volta lo spirito costituente a cui molti si erano appellati dopo le elezioni dello scorso anno. Papa Benedetto chiede di non fermarsi alla breve prospettiva: «La difficile situazione che va interessando l’economia mondiale porta con sé inevitabili ricadute», servono perciò strategie che «se da una parte affrontano le emergenze dell’oggi, dall’altra mirano a disegnare un organico progetto per gli anni
Papa Ratzinger torna ad occuparsi con passione dei problemi della “cara nazione italiana” proponendo una linea di buon senso che purtroppo latita nelle nostre forze politiche. In basso: Savino Pezzotta
futuri, ispirato a quei principi e valori che fanno parte del patrimonio ideale dell’Italia». Ci sono anche richiami espliciti alle amministrazioni di Roma e del Lazio, ma è chiaro che il Pontefice intende riferirsi a uno spirito di unità che valga a tutti i livelli.
C’è poco di casuale, nel discorso pronunciato ieri matti-
na da Benedetto XVI. Si tratta dell’idea di dedizione alla vita pubblica che la Santa Sede intende affermare di fronte alla crisi. Sarà ripresa e diffusa con l’enciclica sui temi sociali annunciata dal Vaticano per i prossimi mesi. Terminato l’incontro con il governatore del Lazio, il presidente della provincia di Roma e il sindaco della Capitale, da Olretevere è
Appelli. Sbagliato dire: abbiamo i numeri per fare da soli
«Il governo lo ascolti: dia l’esempio» colloquio con Savino Pezzotta di Riccardo Paradisi segue dalla prima «Tradotto: se si continua con la decretazione, il voto di fiducia e la limitazione del Parlamento non ci sono le basi per costruire né il dialogo né la collaborazione».
Insomma, per Pezzotta, a riflettere per primo sulle parole del Papa dovrebbe essere proprio il governo: «È la maggioranza che dovrebbe fare il primo passo. Anche perché fino ad oggi l’esecutivo ha agito in modo autoreferenziale, è andato avanti senza guardare in faccia nessuno». Il governo dice che dall’altra parte ci sono i sordi, che nell’opposizione non
c’è disponibilità al dialogo. «Non ci sono solo i sordi – replica però Pezzotta – l’Udc ha dato l’esempio di un’opposizione responsabile, capace di entrare nel merito dei problemi, cooperativa quando è stato possibile e necessario. Ma quando il presidente del Consiglio dice che sulla giustizia o si converge sulle sue posizioni o la maggioranza ha i numeri per fare da sola diventa un problema dialogare e collaborare. E così se tutti gli emendamenti vengono non accettati o respinti come nel caso del decreto Gelmini diventa difficile discutere. È il governo che deve dimostrare a questo punto di voler trovare soluzioni condivise
alle urgenze del Paese». Il Papa pone anche un problema di unità nazionale: «Non è un caso c’è un’aria di disgregazione in giro che fa paura. In questo Paese – continua Pezzotta – non abbiamo tutti la stessa idea di unità nazionale, dalle mie parti, nel nord del Paese, l’unità nazionale è vissuta con fastidio. Il tricolore, la Costituzione rischiano di diventare valori usurati. E può apparire paradossale, ma l’unica realtà che mantiene una forte identità nazionale è la Chiesa cattolica. L’ethos popolare di questo Paese ha radici cristiane. Il cattolicesimo popolare inteso in senso lato ha sempre avuto una dimen-
società
13 gennaio 2009 • pagina 5
I passi più significativi del discorso di Ratzinger
Superare le divisioni, concertare le strategie di Benedetto XVI Pubblichiamo un estratto del discorso tenuto ieri da Benedetto XVI agli amministratori del Lazio. indubbio che la comunità mondiale stia attraversando un tempo di grave crisi economica, ma che è connessa a quella strutturale, culturale e di valori. La difficile situazione, che va interessando l’economia mondiale, porta con sé dappertutto inevitabili ricadute, ed investe quindi anche Roma, la sua Provincia e le città e i paesi del Lazio. Dinanzi a così ardua sfida, concorde deve essere la volontà di reagire, superando le divisioni e concertando strategie che, se da una parte affrontano le emergenze di oggi, dall’altra mirano a disegnare un organico progetto strategico per gli anni futuri, ispirato a quei principi e valori, che fanno parte del patrimonio ideale dell’Italia e, più specificamente, di Roma e del Lazio. Nei momenti difficili della sua storia, il popolo sa ritrovare unità di intenti e coraggio, attorno alla saggia guida di amministratori illuminati, la cui fondamentale preoccupazione sia il bene di tutti.
È
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alle crescenti necessità della gente. Penso qui alle famiglie, soprattutto a quelle con figli piccoli che hanno diritto a un avvenire sereno, e agli anziani, molti dei quali vivono in solitudine e condizioni disagiate; penso all’emergenza abitativa, alla carenza di lavoro e alla disoccupazione giovanile, alla non facile convivenza tra gruppi etnici diversi, alla grande questione dell’immigrazione e dei nomadi.
Se l’attuare adeguate politiche economiche e sociali è compito dello Stato, la Chiesa, alla luce della sua dottrina sociale, è chiamata a dare il suo apporto stimolando la riflessione e formando le coscienze dei fedeli e di tutti i cittadini di buona volontà. Forse mai come oggi la società civile comprende che soltanto con stili di vita ispirati alla sobrietà, alla solidarietà ed alla responsabilità, è possibile costruire una società più giusta e un futuro migliore per tutti. È parte del loro dovere istituzionale che i pubblici poteri garantiscano a tutti gli abitanti i propri diritti, tenendo in considerazione che siano chiaramente definiti e realmente attuati i doveri di ciascuno. Ecco perché priorità inderogabile è la formazione al rispetto delle norme, all’assunzione delle proprie responsabilità, a una impostazione di vita che riduca l’individualismo e la difesa degli interessi di parte per tendere insieme al bene di tutti, avendo particolarmente a cuore le attese dei soggetti più deboli della popolazione, non considerati un peso, bensì una risorsa da valorizzare. (...)
Nei momenti difficili della sua storia, il popolo sa ritrovare unità di intenti e coraggio, attorno alla guida di amministratori illuminati, la cui preoccupazione sia il bene di tutti
arrivata la conferma del segretario di Stato Tarcisio Bertone: «La crisi economica è gravissima e il Papa interverrà ancora su questo tema con l’enciclica che è in fase finale e sarà pubblicata nella prima parte di quest’anno». Grande attenzione ci sarà per le categorie più disagiate, ricordate anche ieri – dalle famiglie con figli piccoli agli an-
sione di fraternità e di unità». Il Papa parla anche di aiuti alle famiglie e di immigrati. Riferimenti impliciti secondo Pezzotta nella cultura della solidarietà. «Nei provvedimenti del governo manca invece il quoziente famigliare, il bonus va a vantaggio dei single più che delle famiglie. La ricaduta della crisi sulle famiglie ha bisogno invece di una risposta unitaria, di un coinvolgimento delle forze sociali, dall’artigianato alla cooperazione, per costruire un progetto Paese condiviso. E le paventate tasse di soggiorno per gli immigrati sono un fatto gravissimo, che mettono in discussione quei valori di solidarietà sociale che stanno alla base della nostra convivenza civile».
Il Papa – ricorda Pezzotta – dice una cosa impegnativa: «Concorde deve essere la volontà di reagire, superando le divisioni e concertando strate-
ziani che vivono in solitudine, ma anche agli immigrati e ai nomadi – insieme con l’importanza, per chi ha responsabilità pubbliche, non solo dell’unità ma anche della «sobrietà». Di fronte a una politica che tende a eludere il confronto con le grandi questioni e i valori di fondo, il Papa costringe tutti al ritrovare il contatto con la realtà.
gie che, se da una parte affrontano le emergenze di oggi, dall’altra mirano a disegnare un organico progetto strategico per gli anni futuri, ispirato a quei principi e valori, che fanno parte del patrimonio ideale dell’Italia». Un simile impegno unitario delle forze politiche del Paese è già avvenuto negli anni della ricostruzione. «C’è stata fino agli anni Sessanta un’opposizione ideologica dura ai governi di centro. Che però manteneva un’interesse generale del Paese e che ha consentito all’Italia di uscire dalla tragedia del dopoguerra, di rimettersi in piedi. Anche oggi – ragiona Pezzotta – siamo di fronte alla necessità di una ricostruzione; un’emergenza che deve fare i conti con l’esterno, come riposizionare l’Italia nel contesto globale. In questo senso parlo della necessità di un tavolo di coesione nazionale. Il luogo dove farlo è il Parlamento».
Cari amici, nei vostri interventi appare chiaro che le Amministrazioni da voi guidate apprezzano la presenza e l’attività della comunità cattolica; qui mi preme ribadire che essa non chiede né vanta privilegi, ma desidera che la propria missione spirituale e sociale continui a trovare apprezzamento e cooperazione. Vi ringrazio per la vostra disponibilità; ricordo infatti che Roma e il Lazio hanno un ruolo peculiare per la cristianità. I cattolici qui si sentono stimolati ad una viva testimonianza evangelica e ad una solerte azione di promozione umana, in maniera speciale oggi, davanti alle difficoltà a noi ben note. A questo riguardo, sebbene le Caritas diocesane, le comunità parrocchiali e le associazioni cattoliche non si risparmino nel prestare aiuto a quanti sono nel bisogno, diventa indispensabile una sinergia fra tutte le Istituzioni per offrire risposte concrete
”
Illustri Signori e gentili Signore! Il compito affidatovi dai cittadini non è facile: voi dovete misurarvi con numerose e complesse situazioni che necessitano, sempre più spesso, di interventi e decisioni non semplici e talora impopolari. Vi sia di stimolo e conforto la consapevolezza che, mentre rendete un servizio importante alla società di oggi, contribuite a costruire un mondo veramente umano per le nuove generazioni.
politica
pagina 6 • 13 gennaio 2009
Opportunismi. Il partito di Antonio Di Pietro si sposta, a sopresa, su posizioni laiciste
L’Italia senza Valori di Marco Palombi
ROMA. «Lei lo sa, noi siamo un partito episodico. Cattolico e laicista, liberista e protezionista e siamo pure un po’ scientisti e un po’ oscurantisti». Se la cava con una battuta il dirigente cattolico di Italia dei Valori interpellato sulla due giorni organizzata dal movimento di Antonio Di Pietro sul tema «Legge 40 e turismo riproduttivo»: parterre de roi, tavole rotonde di livello e ospiti bipartisan (il campione della libertà di ricerca Carlo Flamigni, ma anche la sottosegretario pro-life Eugenia Roccella). Regista dell’operazione, un neodeputato di Idv, Antonio Palagiano, cinquantaduenne tarantino eletto in Emilia Romagna, che di suo è ginecologo universitario nonché vicepresidente della Società italiana di Fertilità-Sterilità. Il risultato è un pout porri di proposte e posizioni eterogenee che, come in uno specchio, rimandano l’immagine di un partito che – tolte le tradizionali scorribande sui temi della
giustizia e dell’antiberlusconismo – si muove a tentoni nella società e nella complessità del moderno. O meglio, se si vuole evitare ogni giudizio, di un partito pragmatico e a-ideologico quasi fino al limite della tecnocrazia. «Il problema è che noi adesso abbiamo l’esigenza di occupare ogni spazio politico possibile - ci spiega ancora la nostra fonte - in particolar modo quelli lasciati liberi dalla sinistra radicale». E così, sotto con il convegno sulla legge 40: basta piantare la propria bandierina, anche se quello che si dice non è proprio potabilissimo per l’elettorato che si vorrebbe solleticare.
Il boss Setola sfugge all’arresto l boss della camorra casalese Giuseppe Setola è sfuggito la scorsa notte all’arresto dei carabinieri del gruppo territoriale di Aversa. Setola, presunto mandante della strage di Castelvolturno (sei extracomunitari uccisi) si nascondeva in un edificio a Trentola Ducenta (Caserta). All’arrivo dei militari Setola è fuggito attraverso una botola passando poi per le fogne e riuscendo così ad evitare l’arresto. I militari hanno invece preso la moglie e l’hanno condotta in caserma.
Chiamparino, Tosi e Scopelliti i sindaci più amati
Andiamo con ordine. Italia dei valori, all’epoca forza extraparlamentare e saldamente ancorata all’Unione prodiana, si schierò nel 2005 a favore dei referendum per la parziale revisione della legge 40. Questa due-giorni, nelle parole di Antonio Di Pietro, è nel segno della continuità con quella scelta: «Il livello di democrazia di un Paese – ha scandito l’ex magistrato – si misura dalla civiltà delle sue leggi e quella sulla fecondazione assistita, se da un punto di vista umano è crudele, dal punto di vista scientifico ci riporta indietro anni luce». Per questo Italia dei Valori «ritiene che sia giunto il momento di riaprire quel discorso bruscamente interrotto». Il coté gauchista della questione è coperto anche con la visibilità data, durante il convegno, a quelle associazioni di pazienti e consumatori che stanno tentando di cambiare la legge 40 a colpi di sentenze del Tar: dopo i casi di Lazio e Toscana, ad esempio, è stato annunciato il deposito nei tribunali di Bologna, Milano, Firenze e Torino di altri dieci ricorsi d’urgenza contro il divieto di diagnosi preimpianto. Un partito “episodico”, però, non può farsi mancare nemmeno la copertura dell’elettorato cattolico più fedele alla voce di Santa Romana Chiesa. Per questo Antonio Palagiano ha annunciato dal palco la presentazione di una proposta di legge che favorisca l’adozione
in breve
Nelle file dell’ex pm nasce una nuova costola cattolica. Primo appuntamento: un incontro di due giorni per discutere una proposta di legge per l’«adozione degli embrioni abbandonati» degli “embrioni abbandonati”, ovvero i cosiddetti “sovrannumerari”, quelli prodotti durante il processo di fecondazione e poi non utilizzati dai potenziali genitori: si tratta, a stare ai numeri dell’Istituto superiore di sanità, di circa 2.500 embrioni.
«Questa proposta – ha spiegato – prevede di rendere operativa la Biobanca per crioconservazione degli embrioni abbandonati prevista presso l’ospedale Maggiore di Milano» e per la quale sono stati già spesi oltre 500 mila euro. In sostanza, Idv propone «l’adozione precoce» degli embrioni, ossia la possibilità per le coppie eterosessuali, sposate o conviventi da almeno due anni, di chiedere al Tribunale dei minori di tenIl sottosegretario tare la fecondaEugenia Roccella zione con un emparteciperà brione (uno solo, al seminario evidentemente in dell’Italia dei Valori deroga alla legge sugli «embrioni che consente abbandonati». l’impianto di tre In alto, embrioni e vieta Antonio Di Pietro la fecondazione
eterologa, cioè da donatore esterno alla coppia). Una proposta, questa, che avrà mandato in sollucchero la sottosegretario Roccella, che l’aveva già avanzata di suo, ma ha alienato a Di Pietro le simpatie della sinistra laica e delle associazioni della galassia Radicale: «Parlare di adozione di embrioni abbandonati è un’offesa ai diritti e alla dignità di centinaia di bambini in stato di abbandono e in attesa di una famiglia che li adotti», ha sostenuto Filomena Gallo, vicesegretario dell’Associazione Luca Concioni. Di precisione chirurgica, anche se arriva da un personaggio assai controverso, il commento di Severino Antinori: «Sono esterrefatto, è solo propaganda del partito di Di Pietro che evidentemente si vuole ripulire anche nella battaglia sui diritti civili che, prima, non aveva mai fatto». Fraintendimenti che capitano in un partito episodico: «Fantastico – scherzava un funzionario a fine giornata – adesso ci manca solo qualche idea in politica estera per diventare un partito».
Gli italiani apprezzano in misura maggiore i Sindaci, a seguire i presidenti di Provincia e di Regione. E’ questo uno dei risultati del «Governance Poll 2008», sondaggio sul consenso di cui godono i sindaci dei comuni capoluogo e i Presidenti delle Province e delle Regioni, curato da Ipr Marketing, per Il Sole 24 Ore. Per i sindaci, in testa un tris, composto da Sergio Chiamparino (Torino, leader del 2006), Giuseppe Scopelliti (Reggio Calabria) e Flavio Tosi (Verona), quest’ultimo autore di un vero e proprio exploit, con un incremento del 14,3% rispetto al giorno delle elezioni. Tra i presidenti di regione, il neo eletto Lombardo (Sicilia) conquista la vetta con il 67%. Immediatamente alle sue spalle Formigoni (Lombardia) che, incrementando di più di 10 punti il valore del giorno delle elezioni e arriva al 66%. Dietro di lui Galan, Presidente del Veneto (58%) che rispetto alla vittoria del 2004 guadagna il 7,4%.
economia segue dalla prima Eppure, la settimana scorsa un’asta sui bund tedeschi a 10 anni ha registrato domande inferiori all’offerta, che ammontava a 6 miliardi di euro: colpa dello squilibrio tra domanda e offerta, è vero, ma anche dell’era del basso costo del denaro inaugurata con la crisi dalle banche centrali (che non è affatto finita, visto che nella prossima riunione della Bce ci si aspetta un taglio di altri 50 basis point).
Conti. I titoli pubblici mai così in basso. Cresce solo il deficit
La crisi del risparmio I Bot in picchiata di Alessandro D’Amato 32,7 miliardi (in linea rispetto ai 32,9 miliardi nel novembre 2007). Anche qui, se la notizia è positiva, vale la pena guardare cosa c’è dietro. Anche qui il dato va “pesato”: l’incremento è causa dell’annata discreta dell’economia italiana – rispetto ai suoi ritmi abituali – avuta fino allo scoppio della crisi. Il problema arriverà nel 2009, perché la crescita sarà più bassa di quella stimata dal Dpef.
Ma anche qui, la strategia non sembra essere ottimale, perlomeno nel medio periodo. La bontà della mossa di aggiramento dei vincoli europei (le Banche Centrali non possono finanziare il debito pubblico, almeno non direttamente) sta tutta nel fine della spesa pubblica: se si tratterà di rifinanziare banche, imprese decotte, o alimentare ad ogni costo i consumi nazionali, il risultato sarà solo il permanere degli squilibri fondamentali attuali aggiungendo spinte inflattive; se si facesse il contrario, lasciando operare la «schizia creatrice» di Schumpeter, probabilmente la situazione nel lungo periodo sarebbe migliore. Ma l’ansia dei politici – e le necessità dei ban-
La domanda supera l’offerta e i rendimenti dei titoli vanno giù. Intanto, aumentano le entrate fiscali, frutto delle attività prima della crisi. E così l’Ocse rivede al ribasso le stime di crescita chieri – di cercare il consenso nel breve termine e di salvare tutti, affinché non ci si renda conto di chi operava scelte prudenti e chi no, sembra andare in direzione opposta a quella che potrebbe essere la strada migliore.
La seconda notizia è il nuovo record per il debito pubblico italiano: a ottobre - secondo quanto risulta dal supplemento al Bollettino Statistico di Bankitalia - si è attestato a 1.670,6 miliardi. A settembre si era registrata invece una contrazione (1.648,6 miliardi) dopo il record raggiunto in agosto (a 1.666,6 miliardi). E non è difficile collegare il dato al ragionamento sui Bot. Ora, se le aste tedesche, che offrono rendimenti peggiori rispetto a quelle italiane, vanno deserte, il tutto va a vantaggio degli altri emittenti. Ma nel medio periodo non c’è molto da rallegrarsene: considerato che l’andamento del credit default swap dei prodotti di risparmio italiani continua ad essere negativo, un aumento del premio per il rischio si riflette prima o poi in un più oneroso emolumento da pagare a chi compra, e in maggiori esborsi
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per l’emittente. Senza contare che la Ue non sarebbe per nulla contenta se insistessimo a finanziare la spesa pubblica in questo modo, anche se francesi e tedeschi avrebbero poco di cui lamentarsi visto che stanno facendo lo stesso. Così il fly to quality favorisce i titoli governativi per ragioni prettamente utilitaristiche. Ecco perché le stesse motivazioni nel medio periodo potrebbero favorire la “desertificazione” delle nostre, di aste, e l’affollamento di quelle tedesche. Crescono però, ed è la terza no-
Giulio Tremonti. In alto, il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. In basso, Jean-Claude Trichet tizia, le entrate tributarie: nei primi 11 mesi del 2008 si sono attestate a 344 miliardi, cioè il 2,8% in più rispetto ai 334,1 del gennaio-novembre 2007. Nel solo mese di novembre le entrate tributarie sono state pari a
L’Ocse ha rivisto le stime di crescita per l’Italia per il 2008 dallo 0,5% fissato a giugno allo 0,1%. Il Pil registra un segno meno, e il -0,1% su base annua è il peggiore dal terzo trimestre del 2003. Il governo taglia il Pil per il 2008, dallo 0,5% allo 0,1% e per il 2009, da 0,9% a 0,5%. Altre previsioni, ancora più nere, parlano di -1% secco l’anno prossimo e 0% nel 2010, con il prodotto interno lordo destinato solo nel 2011 a tornare ai livelli del 2007. Un risultato del genere verrebbe a costare quasi 10 miliardi di euro di minori entrate. Senza contare i problemi che già sono venuti fuori dagli accertamenti fiscali, che fanno presagire una riduzione ulteriore. Da qui si comprende perfettamente perché la situazione sia molto più grave di quello che dicono i numeri di ieri. E che navigare a vista, come sembra di aver scelto di fare il governo, non sembra la strategia migliore: l’iceberg potrebbe essere davvero dietro l’angolo.
«I mercati non hanno capito i governi», dice il presidente della Bce
Trichet, previsioni nere per il 2009 BASILEA. La crisi che sta pesando sull’economia ha portato ad un «rallentamento sincronizzato a livello globale che probabilmente proseguirà nell’anno in corso, mentre solo il 2010 sarà l’anno della ripresa». È l’opinione che il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, in veste di presidente del Global Economy Meeting, ha pronunciato ieri nel corso della riunione dei banchieri centrali del G-10
tenutasi a Basilea. I governi e le banche centrali dei diversi Paesi colpiti dalla crisi hanno compiuto scelte «rapide e di grandi dimensioni» nel fronteggiare il diffondersi delle turbolenze, ma i mercati non stanno ancora trasferendo sui propri listini l’impatto di queste misure. «La ricapitalizzazione delle istituzioni finanziarie e le garanzie concesse loro dalle Autorità pubbliche sono state molto importanti - ha spiegato Trichet, - ma, sebbene tali azioni siano stati utili per evitare il peggio, ma siamo ancora lontani dalla soluzione. Questa è una delle ragioni per cui tutti riteniamo che il 2010 sarà l’anno della ripresa».
in breve Accordo sul gas, oggi riprendono le forniture «Tutte le parti sono d’accordo e da domani mattina (oggi, per chi legge, ndr) dovrebbero riprendere le forniture di gas» ha detto ierioggi il presidente della commissione europea, Jose Manuel Barroso, durante una conferenza stampa. «Dopo molte difficoltà il commissario Andris Piebalgas mi ha detto che l’accordo è finalmente raggiunto. Non possiamo accettare altri ritardi che lasciano i cittadini europei senza gas», ha aggiunto Barroso.
Il decreto anticrisi perde 1,3 milioni di euro Il decreto legge anticrisi diventa più leggero: al termine dell’esame del provvedimento nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera la copertura finanziaria scende per il 2009 da 6.342 a 4.996 milioni di euro, «perdendo» dunque 1.345 milioni di euro. L’intervento - secondo quanto emerge dal bollettino parlamentare che contiene il nuovo testo da ieri in aula - ora vale complessivamente quindi 5 miliardi. Il calo prosegue negli anni successivi: i saldi passano nel 2010 da 2.347 a 2.112 e, nel 2011, da 2.670 a 2.434,5 milioni di euro.
Standard & Poor’s sotto inchiesta Standard & Poor’s finisce nel mirino dell’Antitrust Ue: il commissario alla Concorrenza Neelie Kroes ha aperto un procedimento formale contro l’agenzia di rating per «la possibile violazione delle norme Ue sull’abuso di posizione dominante sul mercato» per la questione dell’International Securities Identification Numbers, standard che fornisce un’identificazione unica a livello mondiale per le operazioni in ambito di bond e partecipazioni finanziarie. «La Commissione crede che S&P possa abusare della sua posizione di monopolio costringendo le istituzioni finanziarie, -si legge in una nota- banche e fondi di investimento a pagare delle tariffe per la licenza per l’uso dei codici ISIN americani nel loro database».
politica
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Affinità. Sabbatucci e Pombeni sulle prospettive e le possibili alleanze al Centro dopo le dichiarazioni di Casini: «Bisogna smantellare Pdl e Pd
Guerre di posizione «Dopo le Europee potremmo trovarci di fronte a un nuovo sistema politico» di Franco Insardà
ROMA. La situazione è fluida, in continuo movimento. È una partita complicata che i personaggi in campo cercano di giocare con molta cautela per non sbagliare le mosse. Si registrano fughe in avanti, frenate, deviazioni e poi di nuovo accelerate. In gioco ci sono le alleanze, la composizione delle coalizioni il ruolo dei partiti e l’individuazione dei futuri leader. Si agitano fantasmi, si fanno allusioni, si ammicca e si tengono sotto osservazione le mosse degli altri per replicare tempestivamente. La fibrillazione è continua soprattutto in quell’area di centro che da giorni sta agitando il Partito democratico. Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, in un’intervista a Repubblica ha detto chiaramente: «Con Rutelli e Letta ci sono affinità, ma nessuno ha fretta». Ma qualche malumore si è registrato anche sul fronte opposto. Il politologo Giovanni Sabbatucci distingue però le posizioni: «Per il Pdl si tratta di una lotta per il posizionamento nella leadership futura, lo schieramento, invece, è solido. Sarebbe impensabile una coalizione formata da Casini, Fini e Veltroni con Berlusconi all’opposizione. Per il Pd la situazione è diversa. Gli ex comunisti, gli ex dc e i laici potrebbero non sopravvivere nello stesso partito, ma non è detto che da un’eventuale scissione si riformerebbero le stesse formazioni precedenti. Da una probabile sconfitta alle Europee ci potremmo trovare di fronte non più al centrosinistra, ma a un centro-sinistra nel quale il trattino ha un significato molto importante».
Certo l’appello del Papa di ieri per i politici a superare le divisioni e a concertare le strategie ha ravvivato il dibattito. Secondo Sabbatucci: «L’invito del Papa è molto simile ad altri appelli che sono arrivati dalle alte cariche dello Stato. In realtà non è così scontato questo appello, anzi è il segno di una vicinanza del Papa alla politica italiana. Emerge quasi una sorta di partecipazione. L’altro elemento da sottolineare è che gli appelli del Papa e delle altre cariche dello Stato riguardano, ovviamente tematiche generali, quando si parla di argomenti specifici le forze politiche si dividono, ma questo è fisiologico». Ultimamente va sottolineato che su un argomento delicato come la giustizia si registrano spiragli di intesa. «È vero - dice ancora Sabbatucci - la politica è meno lacerata, ci sono delle convergenze». Quando si parla di convergenze il
pensiero corre ovviamente ai centristi del Pd che negli ultimi giorni hanno manifestato più o meno apertamente il loro malessere. Paolo Pombeni, professore ordinario di Storia dei sistemi politici Europei presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, ritiene che: «La politica è mobile per definizione, non c’è nulla di scontato. Lo sviluppo di questi movimenti dipende da due fattori: dalla capacità delle forze centriste di consolidare la loro posizione, dall’altro resta da capire come si evolverà questa situazione. Il centro potrebbe avere maggiori spazi, ma c’è il rischio che si possa incattivire in caso di psicosi del crollo con spinte di tipo anarcoide».
Insomma il quadro del bipartitismo potrebbe complicarsi nei prossimi mesi. «Lo schema italiano - dice il professor Sabbatucci - già oggi non è così definito e si discosta dal bipartitismo. C’è già l’Udc e dalle prossime Europee ci potrebbe riaf-
Si sta guardando al modello Trentino e si studia come trasferirlo a livello nazionale. Pombeni: «Il problema è che mancano leader come Lorenzo Dellai» fermare la presenza della sinistra cosiddetta radicale». A giugno potremmo, cioè, ritrovare in una formazione centrista Francesco Rutelli, Enrico Letta, Linda Lanzillotta, Paola Binetti e altri centristi del Pd che si trovano a disagio nei confini di un riformismo che guarda soltanto al Pse. Paolo Pombeni prefigura la possibile nascita di un sistema che si rifarrebbe alla Repubblica federale tedesca prima della riunificazione: «In Germania c’era allora uno schieramento di centrodestra, la Cdu, uno di centrosinistra, la Spd, e i liberali che svolgevano una funzione di ago della bilancia. Ecco in Italia il Centro potrebbe avere proprio questa funzione.Tutto ciò richiede una evoluzione complessa che tenga presente del futuro della sinistra e della destra». Anche il professor Giovanni Sabbatucci vede un futuro del Centro come alleato decisivo per la vittoria della sinistra o della destra:
«Sia il Pdl che il Pd non diminuiranno il loro peso, il Centro rimarrà piccolo, ma sarà determinante». Il pensiero corre veloce al Trentino e alla vittoria di Lorenzo Dellai. Un’esperienza che solletica e che sta imponendo il presidente della provincia di Trento all’attenzione nazionale. «Conosco bene Dellai e il Trentino - sostiene il professor Pombeni -.Tutte le esperienze di questo tipo sono da incoraggiare. Il problema vero è che al momento non esiste il Dellai di turno a livello nazionale, un personaggio, cioè che abbia lo stesso carisma personale e un patrimonio di credibilità di notevole spessore che deriva dalla gestione anche dei privilegi di una provincia a statuto speciale». Gianni Vernetti, uno dei centristi del Pd in movimento, ha colto l’occasione al volo per sottolineare la posizione di Dellai: «Non c’è dubbio che oggi lo spazio politico del Pd si è fatto angusto e lo stesso partito purtroppo è in difficoltà a causa di una progressiva perdita dell’elettorato di centro, sia di ispirazione cattolicodemocratico sia liberale. Credo che serva a poco liquidare, come qualcuno ha fatto sbrigativamente, le considerazioni fatte da Dellai, poiché senza un adeguato sistema di alleanze e senza una capacità di attrarre nuovamente quella parte di elettorato di centro che ha abbandonato la sinistra, il Pd è condannato a una lunga stagione all’opposizione».
Lorenzo Dellai, ma anche Sergio Chiamparino, Massimo Cacciari,Vasco Errani e gli altri amministratori del centrosinistra settentrionale guidano una sorta di rivolta contro Roma. «Si tratta di segnali positivi, - dice ancora Paolo Pombeni - di personaggi che hanno un certo carisma e che indicano una strada per uscire da questi schemi nazionali frustranti romanocentrici. Si tratta di una sfida grossa per richiamare forme centrifughe, tanto più forte quanto i partiti romani rimangono così come sono». Un Pd del Nord e i centristi in fuga sono due belle gatte da pelare per il segretario Walter Veltroni, ma possono essere assimilati come fenomeni? Giovanni Sabbatucci lo esclude: «Non credo che da solo questa situazione che si sta verificando al Nord possa portare a una qualche scissione nel Partito democratico. I sindaci pensano piuttosto a un partito diverso e federale, ma questa situazione non si sovrappone ai movimenti centristi». Anche il professor Pombeni la vede allo stesso modo: «Il malumore
In alto, il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini. Da sinistra dall’alto, i leader dell’ala centrista del Partito democratico, Francesco Rutelli e Enrico Letta, l’esponente di spicco dei Teodem, Paola Binetti e l’ex titolare della Farnesina Massimo D’Alema. A destra, l’ex premier Romano Prodi, il segretario del Pd, Walter Veltroni, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e l’ex ministro Linda Lanzillotta
politica è simile, ma le situazioni sono diverse. I sindaci del Nord lamentano la poca attenzione del Pd alle sfide del territorio». L’altro personaggio che sta catalizzando l’attenzione degli osservatori politici è il governatore della Sardegna, Renato Soru. La discesa in campo di Silvio Berlusconi a sostegno del candidato alle prossime regionali del Pdl, Ugo Cappellacci, sta stimolando l’attenzione anche sul ”signor Tiscali” e lo ha portato a essere considerato il possibile succesore di Veltroni alla guida del Pd. Qualcuno ritiene che Soru possa ripetere l’esperienza di Romano Prodi. «Il tentativo c’è - dice Giovanni Sabbatucci - ma Soru non è Prodi. Non ha il retroterra cattolico che il professore bolognese aveva e anche per certa sinistra rappresenterebbe un problema. Tra l’altro l’operazione di Prodi si fondava su una sinistra forte che oggi non esiste più». Per Paolo Pombeni, invece, anche la figura di Prodi presenta delle criticità: «Il problema è che questi personaggi non hanno la capacità di creare il corpo dei seguaci, sono piuttosto dei collettori personali di grandi insoddisfazioni della società. Lo schema Prodi non ha prodotto grossi effetti positivi per il centrosinistra. Parliamo di una persona di grandi capacità e intelligenza, ma che non è stato in grado di creare una squadra, anzi si è sempre rifiutato di farlo e quando è stato eletto non aveva neanche un partito. I leader sono tali anche quando perdono».
Elezioni europee e leadership del centrosinistra: due argomenti legati a filo doppio.Tutti aspettano l’appuntamento con le urne come una sorta di redde rationem. Il punto di snodo di alleanze e coalizioni. «La formula Prodi va vista come schema di alleanza - sostiene Sabbatucci che va dall’Udc a una parte di Rifondazione comunista. Massimo D’Alema potrebbe essere l’unico in grado di attuare questa sintesi politica, ma dopo un’eventuale sconfitta del Pd alle europee». Paolo Pombeni è, invece, scettico anche sul dopo elezioni europee: «Tutti si illudono che votando con il sistema proporzionale ci sia la possibilità di misurare le vere forze in campo dei partiti. Ma, come spesso avviene, a seconda dell’esito sarà una gara a legittimare o a delegittimare i risultati delle urne. Anche perché va tenuto conto che la grandezza dei collegi elettorali produrrà degli effetti distorsivi di non poco conto e per una competizione che non appassiona più di tanto in quanto l’Europa è sentita molto distante. Tra l’altro non va dimenticato che le elezioni in molti casi avverranno in contemporanea con le amministrative. Tutti elementi che influiranno sui risultati dei partiti e giustificheranno qualsiasi lettura». Appuntamento rimandato almeno per il momento a dopo le elezioni europee.
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Stranezze. Lodo Fini, La Russa e Consolo “poco ottimisti”
An scettica sulla svolta del capo ROMA. La sindrome non scompare. Difficile dire se la lettera del presidente della Camera pubblicata sabato scorso sul Corriere della Sera (già ricatalogata come “Lodo Fini”) possa davvero convincere il Pd a superare le titubanze. Certo è che non basta a sgombrare il campo della maggioranza dagli eterni tatticismi. A parte l’ammirevole ottimismo del ministro all’Attuazione del programma Gianfranco Rotondi, ieri il Pdl ha ritirato fuori il codice dell’abituale schermaglia, con Fabrizio Cicchitto che da una parte intravede la svolta e dall’altra ripropone il solito ostacolo: «Va tutto bene a condizione che il Partito democratico rompa con Di Pietro». Sono i refrain che hanno finora imposto l’immobilismo sulla questione riforme. Quello del capogruppo pdl a Montecitorio equivale al pregiudizio dei democratici secondo cui la maggioranza persegue un riordino che indebolisca la magistratura. Se da una parte è chiara la preoccupazione dei veltroniani di non perdere consensi a vantaggio dell’Idv, meno scontate sono le remore che inibiscono il premier e la sua maggioranza, fino a riportare tutto nella categoria della sfida cieca, come è successo proprio con l’intervento telefonico di Berlusconi a Roccaraso. Certo è che da largo del Nazareno hanno gioco facile nel ributtare la palla verso la metà campo avversaria. «La riforma? Per ora è un oggetto misterioso», dice per esempio la presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro, «ancora stiamo discutendo di niente. Quando avremo un testo ne parleremo. Il presidente Fini ha detto cose condivisibili e altre sulle quali mi piacerebbe discutere e confrontarmi. Berlusconi, invece, lancia solo dei diktat». L’accusa riecheggia anche nelle dichiarazioni del capogruppo pd nella commissione Giustizia di Montecitorio, Donatella Ferranti: «È stupefacente che autorevoli esponenti della maggioranza chiamino in causa l’opposizione sullo stallo della riforma della giustizia quando, ad oggi, il governo e la maggioranza non hanno ancora rese note le proprie proposte, le riforme vanno discusse in Parlamento», dice la parlamentare, «solo quando ci sarà un testo sarà possibile verificare le linee di convergenza e avviare un serio dibattito. Fino a una risposta indirizzata a Ignazio La Russa: «Da un ministro della Repubblica mi sarei aspettata dichiarazioni sui principi cardine della riforma, non minacce sulla consistenza numerica della coalizione di governo».
Proprio dal fronte aennino provengono segnali dissonanti rispetto alle sollecitazioni di Gianfranco Fini e in generale alle prospettive di un’intesa. «Non sono così ottimista perché l’opposizione, più che approvare Fini, ha cercato di accreditare la tesi secondo cui tra Berlusconi e il presidente della Camera ci sarebbero distanze incolmabili. Quando si accorgerà che non è così, e che Fini ha solo favorito l’incontro, sono sicuro che ritornerà a creare obiezioni di comodo», dice il ministro della Difesa in una conversazione con il quotidiano online Affaritaliani.it, «se invece anche la sinistra volesse fare effettivamente un lavoro condiviso e trovare una soluzione, allora ci si potrà arrivare. Ma quello che ha detto Berlusconi è corretto: sulla base di partenza si può discutere, però alla fine si deve arrivare a una riforma. L’unica cosa che non è possibile è che la sinistra impedisca la riforma». Quindi il passaggio che ha scatenato la reazione della democratica Donatella Ferranti: «Noi abbiamo i numeri per fare la riforma comunque, sulla base dei punti già votati in commissione e che Fini ha cristallizzato e reso chiari a tutti».
C’è in realtà una questione su cui Berlusconi e Fini sono esplicitamente discordi, riconosce La Russa: «L’unico punto in discussione è quello su come limitare la pubblicazione delle intercettazioni e salvaguardare la privacy dei cittadini senza impedire le indagini. Mai è stato in discussione tutto il resto». Poco incline a prospettare scenari di accordo è anche un altro esponente di An, Giuseppe Consolo, vicepresidente della giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio: «Dopo la chiara presa di posizione di Fini credo sia finito il tempo delle parole e che sia necessario passare a fatti concreti: se l’opposizione è realmente disponibile a contribuire con i suoi voti, di mera valenza politica, per approvare quanto a chiare note indicato da Fini, la maggioranza non può che dichiararsi soddisfatta. Ma se dovessero iniziare una serie di distinguo in sede tecnica», avverte l’esponente del Pdl, «del tipo separiamo anche rigidamente le funzioni ma non le carriere, sempre ferma restando l’autonomia e l’indipendenza dell’accusa, allora converrebbe andare avanti per la propria strada come hanno chiesto in campagna elettorale gli elettori». Strano gioco dei ruoli, in cui nell’ormai ex partito di Fini ci si affretta a fissare paletti con severità persino superiore rispetto ai forzisti. Di sicuro la partita non accenna a salire di tono. (e.n.)
I democratici hanno gioco facile nell’accusare il Pdl per lo stallo della riforma: «Dal premier solo diktat», dice la Finocchiaro
panorama
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Scissioni. La direzione del Prc licenzia Sansonetti. Per protesta, Vendola e Bertinotti lasciano il partito
È finita la guerra di Liberazione di Francesco Capozza
ROMA. Tira aria di scissione a viale del Policlinico. Ieri per Piero Sansonetti è stata la giornata più lunga da quando è approdato alla direzione di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione Comunista. Due i momenti che hanno caratterizzato la giornata: il sit in di protesta della redazione del quotidiano comunista e di tutti gli esponenti di aria bertinottiana e vendoliana di fronte alla sede del giornale e la direzione del partito, convocata dal segretario Paolo Ferrero con unico un punto all’ordine del giorno: la rimozione di Sansonetti dalla direzione di Liberazione.
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
In mattinata, prima del sit in pro-Sansonetti, si era tenuta una riunione degli esponenti dell’area vicina a Nichi Vendola e con un voto quasi unanime era stato deciso che tutti i membri della minoranza uscita dal congresso di Chianciano (che all’ex presidente della Camera Fausto
uno del partito ha seccamente risposto: «vedremo più in là». Mentre i suoi sostenitori agitavano cartelli come «Ferrero, la pasta e Fagioli (con riferimento al noto psichiatra, ndr) mangiala tu», Piero Sansonetti ha affermato che «si rompe una tradizione della sinistra italiana lunga quarant’anni;
Per Paolo Ferrero, l’ex direttore sarebbe la causa del “buco” nel quotidiano. Il nuovo responsabile, il sindacalista Dino Greco, accetta l’incarico Bertinotti e allo stesso Vendola fa riferimento) presenti in direzione, 28 membri su 60, avrebbe lasciato l’asseblea del vertice del partito convocata di lì a poco. Questa decisione era poi stata resa nota ai giornalisti dall’ex segretario Franco Giordano, giunto davanti alla sede del quotidiano del partito per partecipare alla protesta a favore del direttore sfiduciato. Ai giornalisti che hanno incalzato Giordano sull’ipotesi che quella decisione fosse l’anticamera della scissione, l’ex numero
tradizione rappresentata dall’Unità, dal Manifesto e da Liberazione che, pur essendo giornali di partito, hanno prodotto i migliori giornalisti italiani». Salutato da una folla inaspettata, Sansonetti ha aggiunto: «Non so che cosa accadrà domani, ma la nostra battaglia è stata un bell’esempio di resistenza. La sinistra ha subìto una delle più grandi sconfitte della storia e, al momento, quella riformista è allo sbando e quella radicale si chiude in una ricerca di identità che non si capisce a cosa
possa portare, se a trovare Breznev o Stalin».
Parole dure, che non hanno però cambiato il corso degli eventi e la linea della maggioranza in direzione: Sansonetti è stato sfiduciato e non è più il direttore di Liberazione e al suo posto andrà il sindacalista della Cgil Dino Greco (che nella tarda mattinata di ieri si era premurato di far sapere ai giornalisti di aver accettato la proposta fattagli dal segretario del partito di diventare direttore del quotidiano), affiancato, però, da un vice di peso, dato che Greco non è iscritto all’Albo dei giornalisti. Per Ferrero, pur consapevole che la decisione presa ieri dalla direzione “dimezzata” del partito è praticamente un anticipo di scissione, «la sostituzione di Sansonetti è un atto democratico. Con lui il quotidiano ha quasi dimezzato le vendite e portato ad un deficit di circa tre milioni e mezzo di euro». Tra frecciate da una parte e pugnalate dall’altra, tutto sembra quella interna al Prc, tranne democrazia.
Dove sono andate a finire le promesse del premier di ridurre le imposte?
Berlusconi e l’Italia del “mal di tassa” iamo esseri razionali e fiscali. Ragioniamo e paghiamo le tasse, anche se le due cose non sembra stiano bene insieme e non sempre vanno di pari passo. C’è chi ragiona e paga, c’è chi non ragiona e paga lo stesso, c’è chi ragiona e non paga, c’è chi non ragiona e non paga. Ma, soprattutto, se ragioniamo, perché paghiamo così tante tasse? Non solo è fortemente a rischio il nostro portafogli e il contocorrente, ma anche la nostra razionalità. E’ da rivedere la classica definizione di Aristotele dell’uomo come «animale razionale» e per motivi che Heidegger non ha preso in considerazione e che, forse, non sospettava neanche potessero esistere: motivi fiscali. Il nostro anno fiscale questa è la notizia - si è allungato di altri due giorni. Se prima l’anno fiscale che è quello in cui non lavoriamo per noi e la nostra famiglia bensì per lo Stato terminava il 20 giugno, adesso finisce il 23 giugno.
S
E pensare che qualcuno diceva: «Taglieremo le tasse». Chi? Non fatemi fare nomi e cognomi. Lo sapete meglio di me. E - tutto sommato - quel tale che è a Palazzo Chigi non è neanche l’unico che ha promesso l’impossibile, anzi, se mi si passa la parola, l’impromettibile. L’Italia è il Paese in cui la storica frase di Benjamin Franklin ha trovato la mi-
gliore realizzazione: «Al mondo niente è inevitabile, tranne la morte e le tasse». Quindi la si può anche riformulare così: «In Italia niente è inevitabile, tranne la morte e le tasse». Che, francamente, suona molto meglio.
L’italiano medio - che solitamente è un mistero sociologico, ma in questo caso si benissimo cosa sia e chi è - è tassato da mane a sera, in modo diretto e indiretto, dallo Stato e dal Comune, ma dalla anche Regione. Per ogni tassa che si toglie ce ne sono due che si mettono. E per ogni taglio che si fa ci sono due aumenti che scattano. Se va giù la luce - ma è un’ipotesi campata in aria - va su il gas, se scende il telefono sale il bollo auto. La stessa aria che respiriamo - di pessima qualità - è tassata alla fonte. L’Ici - che poi sarebbe la casetta nella quale abitiamo per aver fatto i sacrifici che sappiamo - è stata (parzialmente)
tolta ma il “fiscal drag” si è mangiato tutto. La spazzatura non diminuisce e circola per la strada, proprio come le persone e le automobili, ma la Tarsu è aumentata (in parte per compensare il taglio dell’Ici). La scuola è quella che è, la conoscete, e si dice sia pubblica, ma le tasse per sostenerla sono private. La stessa cosa dicasi per l’università. E il ticket? C’è su tutto: raggi, analisi, tac. Naturalmente, anche se regionalizzato, c’è il Ssn che sta per Servizio sanitario nazionale, ma se provate a cercare un ospedale pubblico, magari al Sud, rischiate di entrare in manicomio: sia perché non lo trovate e impazzite sia perché se lo trovate è un manicomio.
Non è il caso di fare i demagoghi. Qualche domandina, però, è lecito porla. In campagna elettorale - sia l’ultima sia la penultima, ma anche la terzultima non andò male e la quartultima
trattò ampiamente l’argomento e via così fino alla data di nascita della Seconda repubblica che potete collocare orientativamente intorno al 1994 - si era tutti d’accordo: giù le tasse. Qualche distinguo c’era sulla tassa da tagliare o da eliminare, ma la tesi era pressoché universale, cioè bipolare o bipartitica o bilaterale: le tasse vanno abbassate. Perché - domandina - oggi l’argomento è scomparso? Le tasse ci sono ancora. Anzi, si è visto che l’anno tassabile è aumentato di due giorni. Il taglio Ici ha esaurito l’argomento del calo della “pressione fiscale” (come dicono davanti alle telecamere quei politici che vogliono far carriera)? Perché invece di far sparire la tasse è sparito l’argomento del taglio delle tasse?
C’è la crisi. Eccola qui la risposta che da un po’ di tempo è usata come quel tappo di sughero che un tempo nelle famiglie era usato per tappare ogni bottiglia. Prima la risposta era: c’è la globalizzazione. Oggi c’è questa variante: c’è la crisi (che i più colti e informati dicono essere una conseguenza della globalizzazione, sia sul piano finanziario sia sul piano della cosiddetta economia reale). E davanti alla crisi cosa volete dire più? Mica volete pensare ad abbassare la tasse in tempi di crisi? I soldi vanno spesi, sia pure per pagare le tasse.
panorama
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Polemiche. Dall’obbligatorietà dell’azione penale alle intercettazioni: ecco dove sbaglia il presidente della Camera
Ma Fini vuole davvero cambiare la giustizia? di Giorgio Stracquadanio l Corriere della Sera l’ha titolata «Sei punti per cambiare», ma in realtà il titolo giusto della lettera del Presidente della Camera Gianfranco Fini al ministro guardasigilli Angelino Alfano sarebbe: «Non tocchiamo nulla», come dimostreremo punto per punto.
È la tesi di Magistratura Democratica, non dei Paesi liberi. Nei Paesi di common law e in Francia non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, ma c’è lo Stato di diritto. Dato che è impossibile perseguire tutti i reati con uguali intensità e risorse, il principio dell’obbligatorietà è l’alibi che consente al pubblico ministero la scelta dei crimini da perseguire. E delle persone da perseguire, anzi da perseguitare.
I
1. Secondo Fini è sbagliato prendere le mosse di una riforma dalle ultime controverse vicende giudiziarie. In realtà la giustizia penale è in crisi dal 1989. Quando fu adottato il codice di procedura accusatorio ma non vennero introdotti i presupposti costituzionali del sistema: abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e separazione degli ordini e delle carriere. Si è così prodotto un sistema inquisitorio più iniquo e privo di garanzie di quello previsto dal guardasigilli di Mussolini, Alfredo Rocco. 2. «I cittadini – scrive Fini – tendono a rinunciare alla tutela legale dei propri diritti perché frenati dalle lungag-
La riforma è necessaria non per risolvere le controversie degli ultimi mesi, ma perché il sistema è in crisi ormai dal lontano 1989 gini e dalle disfunzioni che scoraggiano il ricorso alle vie giudiziarie». Questo vale per la giustizia civile, che il governo Berlusconi ha riformato alla fine dello scorso anno. È invece la giustizia penale che produce devian-
ze. Ma cambiare sembra essere tabù.
3. Secondo Fini, «il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale garantisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge».
4. «La riforma – scrive Fini – dovrà interessare anche il Csm» per superare in modo definitivo le «nefaste logiche correntizie». Il punto, in realtà, è il ruolo politico che il Csm ha assunto, abbandonando quel compito di «alta amministrazione» previsto dalla Costituzione di cui parlava il presidente Francesco Cossiga durante il suo mandato. 5. Secondo il Presidente della Camera, «la separazione delle carriere dei magistrati è ipotizzata per garantire l’im-
Messaggi. Il presidente della Camera invia ai parlamentari di An un’intervista contro Berlusconi
...e vuole davvero sciogliersi nel Pdl? di Riccardo Paradisi on siamo allo stato di tensione di un anno fa tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi – quando l’attuale presidente della Camera, parlando all’assemblea nazionale del suo partito, dichiarava non esistere alcuna possibilità che An si potesse sciogliere in un soggetto unitario guidato da Berlusconi, «ormai alle comiche finali del predellino». Non siamo a questo, però...
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Però il barometro in casa Pdl non indica tempo sereno. La vigilia della fusione anche politica tra An e Forza Italia fa infatti registrare uno stato di significativa insofferenza nelle file di Alleanza nazionale e nello stesso presidente della Camera nei confronti della condotta autocratica del presidente del Consiglio. Che il clima sia questo i deputati e i senatori di An lo hanno capito trovandosi recapitata nelle loro caselle postali una fotocopia dell’intervista rilasciata la scorsa settimana al quotidiano romano Il Tempo dal politologo Alessandro Campi, presidente della finiana fondazione Fare Futuro. Ragionando della nascita del nuovo partito unitario del centrodestra
Campi sosteneva nell’intervista che il Pdl non può nascere come “una pertinenza personale di Berlusconi”, che è un leader “non il padrone del Pdl”. Il mittente della comunicazione – secondo fonti interne al gruppo parlamentare di An – sarebbe stato proprio Fini che ai suoi deputati avrebbe anche fatto arrivare la voce che i contenuti di quell’intervista rispecchiavano il suo pensiero in merito ai rapporti tra An, Forza Italia e Silvio Berlusconi. Sicchè a poche settimane dal congresso che scioglierà An e dalla con-
blema di far pesare la propria forza», perchè «il Pdl ha un senso nella misura in cui riuscirà a sopravvivere a Berlusconi. Per questo è importante strutturarlo sulla base di regole precise. Deve avere una forte componente di democrazia interna che Forza Italia non ha avuto». Non è forse per caso allora che persino Ignazio La Russa, il più berlusconiano dei berlusconiani di An, abbia risposto a brutto muso ai moniti del coordinatore azzurro Denis Verdini, sempre pronto a ricordare agli alleati di An che il leader è uno solo ed è lui che prende le decisioni.
Fini ha fatto sapere ai suoi che la critica al Cavaliere come autarca e padre padrone del Pdl rispecchia esattamente il suo pensiero vention che vedrà la nascita del Popolo della libertà il presidente del Consiglio ha trovato un modo non plateale per comunicare ai suoi che è arrivato il momento per far sentire il peso di An a Forza Italia e al suo leader indiscusso. «Nel momento in cui si accetta una scommessa importante insomma – come ragiona Campi nell’intervista caldamente consigliata ai parlamentari di An – bisogna porsi il pro-
E anche l’intervento sulla riforma della giustizia di Gianfranco Fini apparso sabato scorso sul Corriere della Sera potrebbe essere letto come un altro colpo che la destra ha ricominciato a battere. Per dimostrare al Cavaliere di essere viva.
prescindibile terzietà del giudice» ma non può ledere «autonomia e indipendenza del Pm» e determinare «la subordinazione del magistrato requirente ad altro potere che non sia quello giudiziario». Al contrario, nei paesi di lunga tradizione democratica, è indipendente il giudice, non il pubblico ministero, che rappresenta l’organo politico da assoggettare alla sovranità popolare, nella forma del Pm elettivo o in quella della sua subordinazione al ministro della giustizia. È una differenza teorica rilevante.
6. Infine, le intercettazioni. Oggi si intercetta qualcuno per trovare notizie di reato. Un inaccettabile metodo da Stato di polizia. È impensabile che non si comprenda la gravità di questo rovesciamento dello Stato di diritto e della violazione dell’articolo 15 della Costituzione, posto a garanzia della libertà e della riservatezza della corrispondenza, elemento essenziale della libertà personale.
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Prima luterano a fianco di Martin Luther King, poi abbraccia la Chiesa cattolica, fonda la rivista “First Thi
Il sorriso di Padre Ri
Scompare a 72 anni Richard John Neuhaus, il più importante esponente intellettu di Rocco Buttiglione ichard John Neuhaus è stato uno dei protagonisti della vita culturale e religiosa degli Stati Uniti tra la fine del secolo passato e l’inizio del nostro. Con lui, in un certo senso, si compie anche la piena maturità e la piena integrazione del pensiero cattolico degli Stati Uniti. Vi sono state, prima di Richard John Neuhaus, altre grandi figure di cattolici che hanno profondamente influenzato la cultura americana. Lo hanno fatto, a tuttavia, partire dalla comunità cattolica alla quale appartenevano. Erano grandi leader della loro comunità e in quanto tali avevano natural-
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ralmente essere nato nel territorio degli Stati Uniti e, infatti, Neuhaus era canadese, con quel filo di distacco che permette di vedere meglio, più oggettivamente ed in modo più compiuto. Luterano di origine, agli inizi della sua attività culturale e pastorale è colpito dalla vergogna della discriminazione razziale ed è al fianco di Martin Luther King nella Southern Christian Leadership Conference, il movimento che meglio e con più forza impersonò la battaglia per i diritti civili negli anni Sessanta.
Successivamente, Neuhaus non approvò la svolta del Partito Democratico alla fine degli anni Ottanta che consegnò in gran parte il partito al relativismo etico e ad un multiculturalismo privo di solidi principi e valori. Intanto, si realizzava una grande evoluzione all’interno del panorama religioso degli Stati Uniti. Sotto l’impulso di teologi come Robinson o Altitzer, le chiese tradizionali americane cedevano alla secolarizza-
va bisogno che le si aprissero le porte del mondo del sapere e del lavoro, e che potesse crescere una nuova generazione orgogliosa della sua capacità di affermarsi con le proprie forze. L’assistenzialismo non faceva bene né alla comunità nera né agli Stati Uniti in generale: o, almeno, questo era quello che pensava Neuhaus. È in tale quadro culturale e spirituale che si colloca quella che forse è la sua opera maggiore, “The Naked Public Square”. La sua convinzione era che con il venir meno del ruolo pubblico della religione finisse con il prevalere un puro individualismo e che la lotta politica, non più
orientata a un’idea del vero e del giusto, diventasse un puro conflitto per assicurarsi, anche in modo parassitario, il sostegno pubblico.
Lo spazio in cui viviamo, anche e soprattutto lo spazio pubblico, è sempre carico di significato e di valore. È la presenza del significato e del valore che ci rende quello spazio familiare, che lo rende nostro, che ne fa il tessuto di una appartenenza comune. Per essere carico di significato, lo spazio deve avere un centro; e questo centro ha sempre un carattere religioso. È a partire da questo centro che gli uomini si
Agli inizi della sua attività culturale è colpito dalla vergogna della discriminazione razziale e si batte con King per i diritti civili mente anche un influsso potente nella vita generale del Paese. E tuttavia essere cattolico era in qualche modo essere non pienamente e perfettamente americano. Non essere “mainstream”, nella corrente principale dello spirito americano. Richard John Neuhaus è stato invece un punto di riferimento per lo spirito americano, di cui ha tentato di leggerne i valori e pensarne il destino in una fase nuova della storia del Paese e del mondo. Un americano così americano non poteva natu-
zione. Passava l’idea che ci fosse un orizzonte proprio dell’uomo moderno all’interno del quale per le fedi tradizionali non ci fosse posto e che il cristianesimo dovesse essere ripensato all’interno di questo nuovo intrascendibile orizzonte a-religioso e puramente mondano. È nella resistenza culturale a questa evoluzione che Richard John Neuhaus, da luterano, incontra la Chiesa Cattolica, trovando in essa molto più dell’autentico spirito di Lutero di quanto ne fosse rimasto nelle chiese storiche protestanti americane. Molto importante in questo cammino fu l’influenza di alcuni amici, tra i quali voglio ricordare la grande figura del Cardinale O’ Connor. Contemporaneamente Neuhaus era colpito dalla prevalenza di una nuova cultura, che sentiva profondamente non americana, la quale metteva da parte i temi del merito e dello sforzo personale e puntava tutto, piuttosto, sull’assistenza da parte dello Stato. La comunità nera, in particolare, secondo Neuhaus ave-
Un “liberal” che ha costruito il movimento conservatore Nato a Pembroke, in Canada, Richard John Neuhaus era uno degli otto figli di un pastore luterano. Seguendo le orme paterne, viene ordinato pastore negli Anni Sessanta, servendo presso la chiesa evangelica di St. John, a Williamsburg . Considerato un liberal fino alla sentenza “Roe vs. Wade”, Neuhas si avvicina al nascente movimento conservatore. Nel 1984 fonda il Center for Religion and Society all’interno del Rockford Institute, che pubblica anche la rivista “Chronicles”, da cui si allontana nel 1989 per fondare “First Things”, un mensile pubblicato dall’Institute on Religion and Public Life. L’8 settembre del 1990, Neuhaus si converte al cattolicesimo. E l’anno seguente viene ordinato sacerdote dal cardinale John O’Connor. Durante il funerali di Giovanni Paolo II e l’elezione di Benedetto XVI è stato uno dei commentatori televisivi per il network cattolico Ewtn. Durante l’ultima amministrazione Bush, è stato uno dei più ascoltati (anche se non ufficiali) consiglieri del presidente su questioni etiche e religiose. Nel 2005, Neuhaus è stato selezionato tra i “25 più importanti evangelici degli Usa” dalla rivista Time. È morto l’8 gennaio del 2009 a New York, a 72 anni, a causa di un cancro.
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ings” e diventa uno dei consiglieri di Bush
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Nella pagina a fianco, Martin Luther King (a sinistra) e George W. Bush (a destra). Qui a sinistra, Padre Richard John Neuhaus, scomparso l’8 gennaio a New York
uale del cristianesimo statunitense legano tra di loro secondo una concezione del giusto e dell’ingiusto. Ed è a partire da questo centro che il nuovo venuto può essere integrato, accettando le regole ed i valori che da questo centro irradiano. Il secolarismo ci propone invece una società senza centro, in cui non esistono più rapporti profondi di appartenenza reciproca tra gli uomini, ma solo relazioni di potere o di sfruttamento reciproco. Ha scritto una volta T. S. Elliot: «Direte ci accalchiamo gli uni sugli altri per fare denaro gli uni alle spese degli altri oppure: questa è una comunità?». L’idea della persona libera, responsabile e contemporaneamente capace di costruire comunità con altri, dipende da una profonda dimensione religiosa e questa idea antropologica è anche il perno della identità americana. Questo fu, in fondo, il messaggio di “The Naked Public Square”. Esso ebbe un impatto drammatico sulla cultura e sulla società americana e fu un elemento dei processi culturali e politici che portarono una parte del vecchio Partito Democratico (i cosiddetti democrats for Reagan) a partecipare alla costruzione del progetto reaganiano. Il cattolicesimo americano su queste tesi
torno a tre o quattro punti di riferimento strettamente collegati tra loro. C’era la rivista “First Things” e, accanto ad essa, il “Center for Religion and Public Life” che esprimevano nel modo più diretto il messaggio di Neuhaus; c’era la rivista “Crysis” dove scrivevano tra gli altri Jude Dougherty e Michael Novak; c’era il “Center for Ethics and Public Policy” di George Weigel e c’era il “Lord Acton Institute” di Robert Sirico a Grand Rapids. Fu nel pieno di questa battaglia, alla fine degli anni Ottanta e al principio degli anni Novanta, che incontrai Neuhaus e forse ho dato un piccolo contributo a quel dialogo con Roma che sembrava tanto difficile e si rivelò invece fecondo.
La cosa che colpiva di Richard John era prima di tutto il sorriso e la profonda serenità interiore unita ad uno humour penetrante e carico di simpatia per l’umano. Amante di tutte le cose buone della vita, era sempre capace di ricondurle ad una verità profonda in rapporto con la verità e in rapporto con Dio. Aristotele parla di un’amicizia orientata al bene ultimo della persona e questa è l’amicizia che Richard John sapeva costruire e organizzare attorno a sé. Era un uomo che spontaneamente creava comunità. Negli anni molto di ciò che lui affermò originariamente in modo pionieristico, quasi da solo e contro tutto e contro tutti, è diventato patrimonio comune della cultura americana ed ha co-
Secondo Neuhaus, l’assistenzialismo non fa bene né alla comunità afroamericana né agli Stati Uniti in generale, perché mette da parte il merito e lo sforzo personale inizialmente si divise. Anche nel cattolicesimo americano erano forti le tendenze secolariste e il messaggio di Neuhaus incontrò consensi entusiasti ma anche ripulse rabbiose. Per molti sembrava essere troppo americano per essere veramente cattolico. Ed anche tra un gruppo di amici che conduceva questa battaglia culturale con Neuhaus, insieme con una forte volontà di essere cattolici si era anche diffusa la convinzione “Roma non ci capisce”. Quell’ambiente culturale si organizzava allora at-
minciato a diffondersi anche parecchio al di là dei confini degli Stati Uniti. E tuttavia fino alla fine non si è mai lasciato imbalsamare. Non si è mai considerato al di sopra delle parti, ma ha sempre voluto, nel pieno rispetto delle idee degli altri, affrontare con nettezza argomenti controversi esponendo posizioni chiare, taglienti e decise. Ai suoi amici mancheranno il suo sorriso, il suo humour, le sue battute fulminanti, la sua intelligenza straordinaria e soprattutto il suo cuore.
Prosa brillante, ingegno acutissimo: ritratto di un intellettuale unico
Mio “fratello”, sempre in anticipo sui tempi di Michael Novak segue dalla prima Era passato davvero moltissimo tempo da quando un sacerdote cattolico americano aveva avuto una così profonda influenza sul Vaticano, sulla vita politica americana, sulla cultura della cristianità negli Stati Uniti e all’estero, sul dialogo (profondo e appassionato) tra cristiani ed ebrei e, infine, sulla vita intellettuale della sua amata città di NewYork, dove iniziò a prestare servizio quasi cinquant’anni fa, come pastore luterano in una grande chiesa luterana di Brooklyn a maggioranza afroamericana. Neuhaus, scomparso pochi mesi prima del suo 72° compleanno, è stato il miglior leader di seminario che in molti hanno mai conosciuto. Sembrava sempre avanti a tutti nelle questioni di grande impatto morale, religioso e politico, spesso con molti anni di anticipo rispetto agli altri. Gli amici lo prendevano in giro ricordandogli che le tesi affisse da Martin Lutero sulla porta di una chiesa a Wittenburg erano “soltanto” 95, mentre Padre Richard aiutò ad abbozzare almeno altrettanti manifesti sulle più disparate questioni sociali: sui valori non-negoziabili della fede cristiana, su cosa era moralmente sbagliato nella guerra in Vietnam, sugli studi e sulle conversazioni ecumeniche, sulla cooperazione tra cattolici ed evangelici, sull’aborto . Neuhaus fu molte volte ospite alla tavola di Papa Giovanni Paolo II e per almeno due volte, prima di diventare Benedetto XVI, il Cardinale Ratzinger fu oratore, leader di seminario e ospite di Padre Richard al suo Institute for Public Life a Manhattan. Il centro della vita pubblica di Padre Neuhaus è stata la rivista“First Things”, che molti considerano come la migliore (e la più seria) pubblicazione religiosa in tutta la anglosfera e, forse, in tutto il mondo. La sua rubrica mensile - “The Public Square” – era sempre molto ampia e dimostrava, oltre ad una prosa brillante, anche una gamma di letture straordinariamente estesa, finendo con l’essere, immancabilmente, la sezione più interessante di tutta la rivista. I suoi lettori comprendevano che nessun altro era in grado di toccare, a un livello così profondo, una tale quantità di importanti argomenti culturali, per scriverne con tanta ironia e assoluta assenza di pretenziosità. Richard Neuhaus si è sempre mosso nella direzione in cui lo portava l’evidenza dei fatti. Approdò sulla sponda più radicale della critica al liberalismo troppo “compiaciuto” dei tardi Anni
Sessanta, per poi muoversi lentamente verso la critica di questo radicalismo quando esso perse i suoi ormeggi cristiani per andare alla deriva sospinto dai venti di una passione politica senza controllo. Neuhaus sopportò con grazia l’accusa di essere diventato un“neoconservatore”, quando il termine era adoperato come un insulto, e riuscì perfino a trasformare questa accusa in qualcosa di positivo, creando una nuova miscela di ortodossia cristiana e realismo politico. Negli ultimi anni, riuscì a ritrovare il suo amore per la nobiltà dell’“esperimento americano”. Fu grande amico di Martin Luther King, William F. Buckley Jr., Peter Berger e di molti altri tra i grandi spiriti pubblici del nostro tempo. E poche persone, al mondo, hanno dimostrato il suo stesso “talento”per l’amicizia. Ancora meno persone possedevano una risata più contagiosa e una battuta altrettanto pronta. Quasi nessuno, poi, possedeva una gamma così completa di letture e profonde osservazioni. I suoi giudizi sulle idee e sugli eventi erano insolitamente convincenti e spesso più“centrati”di quelli altrui.Accoglieva di buon grado le obiezioni, le critiche e l’aperto disaccordo, accettandoli con generosità, anche quando gli facevano male. Neuhaus era uno straordinario pastore di anime. Influenzò, perfino diresse, migliaia di viaggi personali attraverso tempi oscuri e difficili, e parlò con immediatezza a molti cuori agitati. Incoraggiò molti talenti in erba e fece esordire molti giovani scrittori e predicatori. Cresciuto come il figlio di un pastore luterano, il giovane Neuhaus fu adottato, dai giorni del suo seminario in poi, dalla comunità di quei luterani secondo i quali l’obiettivo di Lutero era di riportare alle origini la Chiesa cattolica, contribuendo alla tanto desiderata riunione delle due comunità separate. Con dolore, il giovane Pastore Neuhaus si rese conto che in quei giorni la Chiesa cattolica prendeva molto seriamente la necessità di un’auto-riforma, proprio mentre la maggioranza dei luterani stava scivolando verso una posizione lontana dall’unità con i cattolici. Si sentì allora obbligato a seguire la propria vocazione, riabbracciando la Chiesa cattolica, non come una“conversione”ma come una dichiarazione pubblica di quello in cui aveva sempre creduto. E lo fece non senza dover vincere una certa resistenza culturale, anche nella sua nuova comunità. Padre Neuhaus è stato il cristiano più coerente dai tempi Reinhold Niebuhr. Ed è stato il cattolico più coerente dai tempi del Reverendo John Courtney Murray e del Monsignore Fultin J. Sheen. È stato un degno successore di una lunga catena di grandi testimoni.
Era uno straordinario pastore di anime, sempre pronto ad aiutare talenti in erba, giovani scrittori e predicatori
la guerra di gaza
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Diplomazie. Mentre Israele avanza dentro Gaza City, l’inviato del Quartetto in Medioriente lavora al cessate il fuoco
Il ritorno di Tony Blair Ieri al Cairo da Mubarak, oggi da Bush a Washington. Domani alla Ue? di Luisa Arezzo entre l’esercito israeliano intensifica le operazioni militari contro Hamas, cingendo d’assedio Gaza City, c’è un nome che, dalla Striscia a Washington e alla Ue, sta tornando alla ribalta. È quello di Tony Blair, l’ex premier britannico oggi alla guida del Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) in Medioriente. Ieri al Cairo per un vertice con il presidente egiziano Hosni Mubarak e oggi alla Casa Bianca per ricevere da George W. Bush la“medaglia della libertà”. E con il presidente Usa sempre ieri ha “giocato” un colpo da stratega: prima dichiarando in conferenza stampa dal Cairo che un accordo fra Israele e palestinesi potrebbe essere raggiunto nell’arco di un paio di giorni, a condizione che cessi immediatamente il contrabbando di armi verso Gaza (e Hamas), e poi incassando l’immediata risposta di Bush che, durante il suo ultimo incontro presidenziale con la stampa, ha sostenuto in pieno la sua linea. Un bene placito che non è certo una novità (condicio sine qua non di ogni negoziato di Condoleezza Rice e punto fermo di Barack Obama), ma che rafforza la credibilità dell’ex premier inglese e toglie un proble-
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ma non da poco a Sarkozy, visto che il contrabbando passa soprattutto dall’Egitto ed era diplomaticamente difficile far uscire queste parole dall’Eliseo, che con Mubarak condivide la presidenza dell’Unione del Mediterraneo. E così, mentre in patria nel giorno della nostra befana i giornali lo sbertucciavano: «Tony? È in vacanza al momento» aveva dichiarato un salace
pitalismo”assieme a Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel. E che avvalora l’ipotesi lanciata ieri dal Financial Times di una possibile candidatura (al netto della ratifica del Trattato di Lisbona da parte di Irlanda e Repubblica Ceca, ovviamente) di Blair a presidente dell’Unione Europea (d’altronde, con un francese alla guida della Banca centrale europea - Jean Claude
L’ex premier inglese ha requisito dieci stanze del terzo piano dell’America Colony, il leggendario albergo di Gerusalemme Est dove dormirono Lawrence d’Arabia, Churchill e Greene Gordon Brown a un giornalista che gli chiedeva se avesse avuto modo di consultarsi con l’inviato del Quartetto sulla Crisi, e il Daily Mail rincarava la dose verificando che dall’inizio del suo incarico (18 mesi) non era mai stato a Gaza, Blair si è mosso con dovizia facendo fare qualche passo in avanti al piano franco-egiziano proposto da Sarkozy e Mubarak. Una mossa, la sua, probabilmente già in parte concordata l’8 gennaio a Parigi durante la conferenza internazionale sulla crisi finanziaria “Un nuovo mondo, un nuovo ca-
Trichet - e un altro alla presidenza dell’Fmi - Dominque Strauss Kahn - l’ipotesi di un britannico alla presidenza Ue sembra avere buone chance).
Quello che è certo, come hanno fatto notare molti analisti, è che Blair - almeno in termini di portafoglio - ha fatto letteralmente un affare lasciando Downing Street. Da quando non è più premier (giugno 2007), nella sua nuova attività di conferenziere si è messo in tasca la bellezza di 12 milioni di sterline: quasi sei volte lo stipendio da Primo ministro
Questa guerra è la pietra tombale di ogni accordo duraturo
Tregua o no, la pace non ci sarà di Mario Arpino a temutissima terza fase a Gaza, che sembrava già essere approvata dal “gabinetto di guerra” presieduto da Olmert giovedì scorso e più volte annunciata, anche con lanci di manifestini durante la breve tregua, in effetti non è ancora partita. C’è qualche ripensamento interno ma, se Hamas non viene entro breve tempo a più miti ragioni, la cambiale in bianco verrà presto messa nelle mani dei militari di Tshaal. Il generale Yoav Galant, responsabile di Piombo Fuso, pur sapendo che andrà incontro a qualche dispiacere, non aspetta altro.Teme che i miliziani, ormai fiaccati da di-
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ciotto giorni di “ammorbidimento” – mi si perdoni l’impietoso gergo militare – possano riorganizzarsi nelle brevi tregue, uscendo dai rifugi – già localizzati dallo Shin Bet – per prendere posizioni tatticamente forti con i micidiali lanciarazzi anticarro già utilizzati da Hezbollah in Libano e con i missili a corto raggio contro gli elicotteri armati che supporterebbero l’avanzata all’interno dei cerchi già stretti attorno agli obiettivi e ai depositi di Grad e Kassam. Costi quel che costi, vuol concludere l’operazione, eliminando il potenziale offensivo del partito armato. Intanto, si sta completando la mobili-
tazione delle riserve, per avere i numeri necessari a consentire un minimo di controllo del territorio finchè gli “specialisti”, sostenuti senza troppi riguardi da tutti i mezzi, non avranno completato il “setacciamento” dei santuari. Solo dopo si potrà parlare di tregua, e, ancora più tardi, di pace. Occorre, come ha detto il Santo Padre, un cambio generazionale, e forse anche questo non basta.È un conflitto impietoso. Non solo per le vittime innocenti, ma anche perché la crudezza della sua condotta ripropone quotidianamente i problemi che nessuno è riuscito a indirizzare verso una soluzione durevole. O,
inglese. Secondo il Times, Blair è il conferenziere più pagato al mondo e ha“fatto meglio”di Clinton, Al Gore e Gorbaciov messi insieme. E adesso punta le sue carte sul Medio Oriente: dopo aver abbracciato la fede cattolica (e dichiarato un paio di settimane fa di leggere quotidianamente il Corano), da leader del Quartetto ha requisito dieci stanze del terzo piano dell’America Colony, il leggendario albergo di Gerusalemme Est dove dormirono Lawrence d’Arabia, Winston Churchill e Graham Greene. Facendone il suo quartier generale e appen-
per lo meno, meno cruenta. Ogni volta che un risultato accettabile è sembrato a portata di mano – vedi Camp David, Oslo, Annapolis – forze perverse si sono erette ad ostacolo. Ora è davvero possibile – lo vedremo in questi giorni – che si vada verso una escalation militare che darà sicuramente a Israele un positivo risultato tattico immediato ma che, alla distanza, è difficile porti a qualcosa di stabile. Ma che altro fare? Le due parti, pur con motivazioni diverse, sembrano volere così. La necessità di vincere ormai ha spazzato via qualsiasi razionalità, perchè questa guerra, per gli strascichi che avrà, rischia davvero di essere la pietra tombale di ogni processo di pace. Almeno per un futuro “vicino”. Fa tanta tristezza pensare che la stessa Israele, che deve combattere perché sa che è sempre costretta a vincere anche militarmente, si renda conto che al-
dendo alle pareti gigantesche mappe della Cisgiordania. In cerca di una soluzione.
Tregua possibile o no, la guerra intanto ieri è continuata. Nel tentativo di dare la spallata finale ad Hamas, Israele ha bombardato tunnel e depositi di armi a Gaza. Avanzata anche l’operazione di terra: migliaia di riservisti sono entrati in città e si spingono verso le aree più densamente popolate, anche se l’esercito smentisce di essere entrato nella “terza fase” delle operazioni. E mentre il capo dello Shin
la guerra di gaza
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L’ultima conferenza stampa del presidente alla Casa Bianca
Bush a Obama: «Il nodo resta il terrorismo» di Pierre Chiartano stata l’ultima conferenza stampa da inquilino della Casa Bianca. Ieri George W. Bush ha incontrato i rappresentanti della stampa alle 14.15, tempo medio di Greenwich, circa le otto del mattino a Washington. Non era la prima volta che faceva un mea culpa sull’Iraq, ma lo ha ripetuto nuovamente: il più grande errore dei suoi otto anni alla Casa Bianca è stato lo striscione che dichiarava «Missione Compiuta» in Iraq, alla fine della prima fase della guerra nel 2003. Il chaier de doleance di Bush ha anche altri argomenti da elencare. La sua ”retorica” politica o la gestione dell’emergenza dell’uragano Katrina sulla costa del Golfo del Messico, che comunque difende nel suo insieme: «non potete dire che la risposta del governo federale sia stata lenta» quando, in effetti, c’erano più di 30mila persone da salvare sui tetti delle case. La lista continua con altre ammissioni di errori, per gli abusi sui prigionieri nel carcere di Abu Ghraib a Baghdad e sugli arsenali di armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Anche se ci sarebbe da chiedere come classificare le armi usate per gassare i curdi nel 1988, durante la lunga guerra tra Iran e Iraq. Il presidente non ha avuto remore, neanche nel sottolineare il suo rimpianto per non essere riuscito a varare una riforma complessiva del settore dell’immigrazione. Il progetto, che avrebbe incluso una sanatoria per i milioni di clandestini che vivono negli Stati Uniti, è stato silurato proprio dalla parte politica a lui più vicina, dalla destra repubblicana. Fra le note positive enunciate durrante la conferenza stampa, invece, la risposta complessiva che il governo avrebbe dato alla crisi finanziaria. Bush si è detto «soddisfatto» perché si è agito in modo deciso «in aiuto del mercato del credito», anche se ha espresso dubbi che la prima tranche dei fondi anticrisi da 700 miliardi di dollari (Tarp) sia stata utilizzata nel migliore dei modi. Si è detto comunque disposto a chiedere al Congresso di dare immediatamente il via libera all’erogazione di prestiti per ulteriori 350 miliardi di dollari, ovvero la seconda parte di stanziamenti prevista dal Tarp.
È
Uno scatto di un anno fa, immortala Tony Blair fra i ritratti dell’ex leader palestinese Arafat e l’attuale presidente dell’Anp Abu Mazen Bet si dice certo che i miliziani di Hamas si stiano nascondendo negli scantinati dell’ospedale costruito da Israele nella città, i palestinesi continuano a lanciare razzi su Israele. Una dura reazione è arrivata dal premier Ehud Olmert: «Se Hamas non interrompe il lancio dei razzi risponderemo con il pugno di ferro». In realtà, il governo israeliano sembra spaccato tra chi - come il ministro della Difesa, Barak e la ti-
la distanza, a cose fatte, la vittoria difficilmente porterà il frutto della stabilità e della pace. Ma ormai, stretta tra la sfida di Hamas e la presenza di Hezbollah, con lo spettro incombente dell’ascesa dell’Iran di Ahmadinejad e dall’inconcludenza di molti – forse troppi – sforzi diplomatici, è costretta ad andare fino in fondo. Forse l’annuncio della terza fase è solo una mossa estrema di intimidazione mediatica – lo vedremo in settimana, visto che Olmert si è lasciato scappare che l’obiettivo è ormai vicino ma la cocciutaggine di Hamas e la determinazione israeliana, che non si lascia certo intimidire dalle marce della pace, non fanno presagire nulla di buono. La realtà è che sinora la fase A, con i bombardamenti, e la fase B, con l’isolamento delle aree sensibili, non sono state sinora sufficien-
tolare degli Esteri, Livni - spinge perché l’operazione Piombo Fuso termini a breve; e chi come Olmert, vuole estendere ulteriormente l’offensiva. Non smentito, inoltre, l’uso delle bombe al fosforo, che sempre ieri aveva fatto gridare ai palestinesi: «Noi come Hiroshima e Nagasaki», ma con un distinguo da parte del portavoce di Olmert: «mai nelle zone densamente popolate, come vuole il diritto internazionale».
ti a far cessare, come sarebbe stato razionale, il lancio di missili e razzi. Per neutralizzarli, ora l’esercito israeliano è costretto ad entrare, cosa della quale con ogni probabilità avrebbe fatto volentieri a meno. Sono quasi pronti, ma non sono ancora entrati con carri e blindati, e questo significa che rimane un margine di speranza. Si continua a parlare di “interposizione” ma, sinceramente, mi pare che le condizioni per un’interposizione classica – tipo Libano – proprio non ci siano. Per separare chi e cosa, se le parti non sono d’accordo? Supposto pure che Israele ed Egitto accettino, chi separerà le fazioni dentro Gaza? Attendiamo l’esito della visita del Segretario Generale della Nato. Ma, in questa situazione, è possibile che non abbia altro risultato che aggiungere un po’ di entropia ai tanti, seppure doverosi, sforzi diplomatici.
Riguardo al nuovo inquilino di Pennsylvania Avenue, Bush junior ha promesso di non intromettersi nell’attività di governo del suo successore Barack Obama, a una settimana dal suo insediamento: «Quando me ne andrò via di qui - ha detto - uscirò di scena per davvero e non mi intrometterò più». Non mancando di fare ripetutamente gli auguri a Obama. «Ha la sua famiglia accanto - ha aggiunto - per questo motivo non si sentirà mai solo». Ha dipinto poi il quadro dei problemi più importanti che il nuovo presidente dovrà affrontare, fra questi, quelli provocati dal vecchio e ben rodato «asse del male». «La Corea del Nord - ha detto ai giornalisti - resta un problema» ed è necessario mantenere la pressione su quel regime asiatico, ancora lontano dalla sua fine politica, per ottenere il disarmo nucleare. Anche l’Iran «è ancora pericoloso», secondo l’analisi del quadro internazionale di Bush. Chiunque sia il nemico è qualcuno «che vuole fare del male
agli americani», ha spiegato, seguendo la vecchia logica del pensiero neocon, che non sarebbe più di moda, ma non per questo meno vicino alla realtà. Almeno nel descrivere un mondo dove l’invidia si trasforma spesso in odio. E non poteva certo mancare un accenno al conflitto di Gaza, anche se i più informati vedono già all’opera, nella Striscia, la longa manus di Obama, il consigliere per la sicurezza nazionale, James Jones. «Voglio un cessate il fuoco duraturo - ha detto Bush - e questo vuole dire una cosa semplice, Hamas deve smettere di lanciare razzi contro Israele (...) che ha il diritto di difendersi».
Può ancora fregiarsi di un merito, dopo la sorpresa-shock dell’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono: l’America non è più stata attaccata, dopo le stragi dell’11 settembre 2001. E la minaccia di un nuovo atten-
tato è in cima ai rischi per il nuovo presidente: «è il più pressante dei pericoli per Barack Obama». «Anche se la mia amministrazione è iniziata e si è conclusa con periodi di grave recessione, in mezzo ci sono stati anni di prosperità» è stata la difesa della politica economica complessiva, in anni veramente difficili, e ha aggiunto che «la mia politica di sgravi fiscali ha funzionato e le azioni che abbiamo intrapreso hanno contribuito a scongelare il mercato del credito». È stato un addio dai toni nostalgici, dunque, dove sono stati affrontati gli aspetti più imbarazzanti della propria amministrazione. Anni veramente difficili che hanno messo a dura prova il Paese come la Casa Bianca, gestiti tutto sommato meno peggio di quanto appaia ora. Ma sarà la storia decidere. Per ora e a buon diritto può veramente affermare da presidente: missione compiuta.
Il mio grande errore? Lo striscione che dichiarava: “missione compiuta” in Iraq. La mia vittoria? Che l’America non abbia avuto altri attentati dopo 9/11
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Protagonisti. Viaggio nelle sigle che animano la comunità italiana e che operano lontano dai riflettori
Arcipelago Israele Il lavoro delle associazioni ebraiche per aiutare le popolazioni civili di Francesco Capozza
ROMA Sosteniamo Israele, sosteniamo la pace. Cittadini, esponenti di tutti gli schieramenti politici, leader e rappresentanti di tutte le maggiori associazioni ebraiche italiane, hanno partecipato sabato alla serata organizzata a Roma per difendere le ragioni dell’unica democrazia del Medio Oriente. Noi di liberal c’eravamo e insieme a Ferdinando Adornato siamo rimasti molto colpiti dalla grande partecipazione fisica ed emotiva della comunità ebraica romana. Ancora di più ci hanno colpito gli interventi delle varie associazioni, dal Keren Hayesod al Martin Buber, dal Keren Leisrael (Kkl) Kayemeth
ribadire che «non c’è solo la nostra solidarietà con le ragioni della democrazia israeliana continuamente aggredita, ma soprattutto la nostra ferma opposizione a forze che predicano la violenza cieca, il suicidio, il martirio». Il presidente dell’Ucei sostiene che il conflitto in corso «è drammatico e comporta un alto prezzo di vite umane, ma forse potrebbe aprire nuovi
Che cosa possono fare le istituzioni della minoranza ebraica in Italia? Come possono proteggere la realtà di Israele e il suo esempio, il suo modello prezioso di civiltà in Medio Oriente? all’Unione Comunità Ebraiche italiane. Proprio da quest’ultima iniziamo il nostro “viaggio” tra queste associazioni che ogni giorno, spesso senza alcun riflettore mediatico puntato, e senza che nessuno racconti la loro storia, operano per il bene e la solidarietà dei cittadini ebrei (ma non solo). Con il vertice dell’Ucei non possiamo, però, non affrontare la crisi mediorientale e gli ebrei italiani. Che cosa possono fare le istituzioni della minoranza ebraica in Italia? Come possono proteggere la realtà di Israele e il suo esempio, il suo modello prezioso di democrazia e di civiltà in Medio Oriente? Qual è, in sostanza, in momenti tanto difficili la vocazione, la missione della più antica comunità della Diaspora?
Interrogativi che in queste giornate accompagnano inevitabilmente tutti noi e che si fanno sempre più pressanti. «Prima di tutto - afferma Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane le istituzioni degli ebrei in Italia possono e devono contribuire a fare chiarezza. Chiarezza ed equilibrio anche di fronte ai tentativi di strumentalizzazione e di distorsione che provengono da più parti». Gattegna ci tiene a
spazi di trattativa se i fautori della guerra usciranno sconfitti e delegittimati». Tra le associazioni che più si spendono quotidianamente per la popolazione ebraica, in Italia come in Israele, c’è la Keren Kayemeth Leisrael, il cui presidente, Raffaele Sassun, abbiamo voluto intervistare. «Il KKL, nasce nel 1901, ben 46 anni prima della nascita dello Stato di Israele» ci dice il presidente Sassun «la sua opera è iniziata con un obiettivo: cercare di rendere fertile il territorio desertico per poter creare zone coltivabili e utilizzabili. Oggi il 16% dei territori israeliani sono sotto il protezione della KKL, secondo quanto stabilito da un accordo con il governo del Paese che risale ai primi anni ‘50». «Il nostro scopo è proteggere l’ambiente, combattere il deserto, rendere vivibile il nostro territorio (organizziamo, per esempio, delle giornate di educazione sociale ed ambientale con gli studenti che ci aiutano a pulire il Paese dall’immondizia) ma, soprattutto, operiamo in stretto contatto con il governo, qualunque esso sia, di destra o di sinistra». Al presidente Sassun, chiediamo se il KKL abbia dei progetti che rischiano di essere interrotti o rovinati dalla guerra in atto: «Al momento abbiamo circa una de-
cina di progetti attivi, quasi tutti per creare nuovi insediamenti agricoli e nuove risorse idriche. È ovvio che questa guerra mette in difficoltà e rischia di compromettere anche il nostro progetto sociale ed ambientale». Sassun ci tiene a precisare: «noi siamo degli ambientalisti, è vero, ma tuteliamo l’ambiente perché esso sia in funzione dell’uomo». A Raffaele Sassun, però, non possiamo certamente non chiedere una battuta sulla guerra e su quanto sta accadendo a Gaza. La risposta è ferma: «Hamas delenda est», cioè «condanniamo Hamas perché responsabile della guerra e della rovina di Gaza». Joanna Arbib è la presidente della sezione romana del Keren Hayesod, che in italiano può essere tradotto con “fondo di
Qui sopra, alcune immagini della guerra di Gaza. In alto, una manifestazione di “Amici di Israele”; a sinistra, Joanna Harbib, presidente del Keren Hayesod, una delle associazioni ebraiche. Nella pagina a fianco, Fiamma Nirenstein crescita”, una Ong nata anch’essa ben prima dello stato israeliano. «Il Keren Hayesod è un’associazione partner del governo israeliano, che da sempre si occupa della raccolta di fondi - in tutto il mondo - per il reinserimento nella società dei cittadini emigrati fuori dallo Stato nel periodo bellico e post bellico. Il nostro obiettivo è quello di tutelare il popolo ebraico e di aiutare i bisognosi economicamente e non solo». Un filo diretto con il governo, ci spiega la presidente Arbib, che «ci ha incaricati di rimodernare e allestire oltre 300 rifugi antimissili per l’accoglien-
za di donne e bambini. Questa è la differenza tra noi e Hamas». «In Israele- precisa infatti la signora Arbib- noi teniamo alla vita e ai bambini, che sono una risorsa enorme, Hamas preferisce finanziarli e utilizzarli per la guerra e metterli, una volta morti, in bella mostra davanti alle telecamere per fare colpo sulla pubblica opinione».
ll gruppo Martin Buber-Ebrei per la pace, costituitosi a Roma nel 1988, si ispira al filosofo ebreo d’origine viennese, emigrato in Palestina nel 1938: un uomo sempre attento al dialogo,
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Domani manifestazione bipartisan davanti a Montecitorio
«Creiamo insieme l’antidoto al virus del nuovo antisemitismo» colloquio con Fiamma Nirenstein
ROMA «Da anni intorno alle questioni che riguardano Israele si muove una melma antisemita che cerca di addossare le colpe a Israele e cerca di far recitare la parte dell’aggressore a chi è, invece, aggredito». Lo ha detto Fiamma Nirestein, deputata del Pdl, partecipando sabato sera alla manifestazione ”Sosteniamo Israele, sosteniamo la pace”. L’esponente del Pdl ha annunciato che domani, mercoledì 14 gennaio, ci sarà una manifestazione «indetta dall’associazione parlamentare di amicizia Italia-Israele» che si terrà davanti a Montecitorio dalle ore 18.30 e che prenderà il nome di “Con Israele per la libertà, contro il terrorismo”. Onorevole Nirestein, come nasce la manifestazione di domani? Innanzi tutto vorrei precisare due elementi di novità che costituiscono l’elemento fondante di quella vera e propria maratona oratoria che si svolgerà domani pomeriggio davanti a Montecitorio. Per prima cosa la piazza. Non c’è stata, fin’ora, nessuna manifestazione di piazza in favore di Israele. Secondariamente, bisogna evidenziare che la manifestazione non parte dall’iniziativa di un singolo, ma di un’intera associazione parlamentare, quella degli ”amici di Israele”. Se non sbaglio, di questa associazione fanno parte esponenti di tutti i partiti. Esattamente. Hanno aderito a questa associazione parlamentare politici di tutti i partiti. Cito, tra gli altri, il ministro Andrea Ronchi, Piero Fassino e Ferdinando Adornato, che, come me, sabato sera erano in prima fila all’incontro organizzato a Roma da Riccardo Pacifici e dalle associazioni ebraiche della capitale. Qual’è il messaggio che volete far passare con questa ”maratona oratoria”? Il messaggio che vogliamo far passare è che questa è una questione che riguarda tutti noi. Siamo di fronte all’assedio di una civiltà da parte di Hamas, dobbiamo difendere il diritto di ogni democrazia: non farsi annientare. Cosa pensa di Hamas? Penso che un’organizzazione terroristica che ha sancito nero su bianco nella propria Carta fondamentale la necessità di distruggere un popolo e di instaurare una dittatura islamica in tutto il Medio Oriente sia da condannare senza se e senza ma. Vale ancora, secondo lei, il principio“terra in cambio di pace”? Con quello a cui assistiamo direi che questo principio è stato sprezzantemente lasciato cadere da Hamas. Israele aveva lasciato alla Palestina il territorio della Striscia di Gaza, ma ora che è al potere Hamas sembra non bastare più. Per quest’organizzazione l’unico obiettivo è eliminare un’intera civiltà. Perchè la Striscia di Gaza secondo lei non basta più ad Hamas? Non è questo il problema. La cosa che più lascia inquietudine è che Hamas negli ultimi anni ha utilizzato fondi solo per costruire su quei territori delle rampe missilistiche e dei tunnel per far arrivare le armi. Senza alcun interesse nemmeno per i cittadini palestinesi? Macchè, loro utilizzano i morti per piangere davanti alle televisioni di mezzo mondo! (f.c.)
Il nostro messaggio? Siamo di fronte all’assedio di una civiltà, dobbiamo difendere il diritto di ogni democrazia: non farsi annientare
Non ha senso la parola “equidistanza”. Se c’è un campo di concentramento a Gaza, è quello che Hamas ha determinato mettendo i civili vicino a chi lancia i razzi elementi distintivo delle relazioni umane. «Sul piano politico questo si tradusse nell’invocare con acuta preveggenza la necessità del dialogo e della conciliazione fra ebrei e arabi in Israele e Palestina» ci dice Victor Magiar, autore di E venne la notte e membro del Martin Buber. Il «riconoscimento reciproco del diritto del popolo israeliano e di quello palestinese alla propria esistenza nazionale e la ricerca di una soluzione negoziata del conflitto basata sul
principio “due popoli-due stati” sono quindi i principi alla base dell’attività del Gruppo». A loro, come a tutta la comunità ebraica, ribadiamo, questa volta dalle colonne del nostro quotidiano, le parole pronunciate sabato dal presidente Ferdinando Adornato: «la nostra non è una generica solidarietà, difendiamo noi stessi, la democrazia italiana, la dell’Occidente. democrazia Molti governanti non vogliono capire che Israele siamo noi. Se cade Israele cade anche l’Occi-
dente». Per questo, «non ha senso la parola “equidistanza”. Se c’è un campo di concentramento a Gaza, è quello che Hamas ha determinato mettendo i civili vicino a chi lancia i razzi». E la posizione di liberal, come pure quella dell’Unione di centro è quella con cui Adornato ha concluso il suo intervento: «non si può trattare la pace con chi non la vuole, bisogna arrivare al concreto disarmo di Hamas, nell’area». Nel nostro piccolo, speriamo di sensibilizzare l’opinione pubblica e il governo italiano affinché ci sia una presa di posizione ufficiale contro Hamas. Su questo gli amici delle comunità ebraiche e delle associazioni di cui oggi abbiamo parlato possono stare tranquilli: «Israele siamo tutti noi».
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cultura
Cinema. Nell’autunno del 1964, con l’uscita di Per un pugno di dollari, esplode il genere e la sua ascesa trionfale in testa ai campioni d’incasso della stagione
Il regista più veloce del West A ottant’anni dalla nascita di Sergio Leone, viaggio nell’Italia dello “spaghetti-western” di Orio Caldiron ell’epopea del western all’italiana il ruolo di Sergio Leone è quello del grande creatore a cui dopo gli importanti risultati di un gruppo di film folgoranti il genere andrà sempre più stretto. Straordinario autore a tutto tondo, singolare entomologo, ha saputo dar vita all’universo sensuale di segni e di varianti, dove la riconoscibile strategia di spazi dilatati e di sguardi penetranti, di particolari plastici e di imponenti primi piani, fa della sua rivisitazione della frontiera americana il singolare pellegrinaggio alle fonti del proprio, personalissimo e viscerale rapporto con il cinema. Mito familiare e sogno collettivo si incontrano in maniera irripetibile nei sentieri dell’immaginario.
N
Figlio d’arte, nasce a Roma il 3 gennaio 1929, dove muore il 30 aprile 1989. Bob Robertson, lo pseudonimo con cui firma Per un pugno di dollari, è un omaggio al padre Vincenzo Leone, in arte Roberto Roberti, apprezzato regista di una cinquantina di film muti, metteur en scène di fiducia di Francesca Bertini. La madre, Edvige Valcarenghi, è attrice con il nome di Bice Waleran, ma si ritira dopo la nascita del figlio. La famiglia vive nel quartiere di Trastevere, vicino alla scalinata di Viale Glorioso, lo scenario privilegiato dei giochi infantili prima della grande passione per il cinema americano che lo accompagna tutta la vita. Quando negli anni Quaranta il padre, dopo una lunga interruzione torna a dirigere qualche film, Sergio comincia a frequentare il mondo del cinema. Sul set di Ladri di biciclette, dove fa l’assistente di Vittorio De Sica, è uno dei pretini tedeschi nella scena della pioggia a Porta Portese. Nel dopoguerra partecipa a una trentina di film fino a fare negli anni della Hollywood sul Tevere il regista della seconda unità con Anthony Mann, Raoul Walsh, William Wyler, Fred Zinnemann, Robert Aldrich. Il colosso
di Rodi è nel 1960 il suo primo film d’autore. Solo nell’autunno del 1964 con l’uscita di Per un pugno di dollari esplode l’avventura del western italiano e la sua ascesa trionfale in testa ai campioni d’incasso della stagione. Il successo del film – che nel giro di poche settimane tocca i cinque miliardi – scatena una vera e propria corsa al western nazionale. La febbre contagia gran parte del cinema italiano, che si butta nel nuovo filone come in una guerra di conquista. Sparando a
salve, un esercito di pionieri, cercatori d’oro, cow-boy, avventurieri e bounty killer invade le pianure ciociare e le montagne abruzzesi e si spinge sino alle piste innevate di Cortina d’Ampezzo, già dominio incontrastato delle gare di slalom. Ma il più battuto campo d’azione del western europeo è la Spagna. Ad Almeria, nei villaggi sorti nelle sierras a nord di Madrid e nei pressi di Barcellona, si avvicendano con ritmo febbrile le troupe di centinaia di film. Non sono meno frequentate le zone vicine a Alicante, tra la Murcia e la Valencia, non lontano da Albacete, la “patria dei coltelli” e le piane della Mancia care a Don Chi-
Il successo del film, che in poche settimane tocca i cinque miliardi, scatena una vera e propria corsa al western nazionale. La febbre contagia gran parte del cinema italiano, che si butta nel nuovo filone come in una guerra di conquista
In alto, Sergio Leone insieme con Claudia Cardinale e Paolo Stoppa sul set di “C’era una volta il West”; la locandina del film “C’era una volta in America”; Sergio Leone con Robert De Niro; la locandina di “Per un pugno di dollari”. Sotto, Sergio Leone con Ennio Morricone. Nella foto grande, Clint Eastwood in “Per un pugno di dollari”. A destra, un’immagine del regista italiano e le locandine dei film “C’era una volta il West”, “il buono, il brutto, il cattivo” e “Giù la testa”
sciotte. Ma come nasce Per un pugno di dollari? Lo spunto di avvio si trova in La sfida dei samurai (Yojimho, 1961) di Akira Kurosawa. Il cow-boy con la pistola veloce al posto del samurai con la spada affilata, le famiglie Rojo e Morales invece dei clan Tazaemon e Tokuemon, il contrabbando di armi e di alcool al posto del commercio di seta e di sakè. Il pubblico impazzisce per questo western insolito e misterioso ancora prima di sospettare il trucco. Il mistero dei nomi finto-americani che appaiono nei titoli di testa e nei manifesti è presto svelato. Nel giro di poche settimane tutta l’Italia sa che il regista Bob Robertson è Sergio Leone e John Welles è Gian Maria Volonté. Ma allora non è vero che lo possono fare solo gli americani. La scoperta segna la nascita ufficiale del western all’italiana che viene ribattezzato con snobismo spaghetti-western.
Il solo che non deve cambiare nome è Clint Eastwood. Il successo europeo di Per un pugno di dollari rappresenta la svolta fondamentale nella carriera di Clint che a 26 anni scalpita nei panni di Rowdy Yates, il deuteragonista di Rowhide, la serie televisiva western a cui deve l’inizio della sua notorietà. Sbarcato a Roma con una valigia
piena di pistole, cinturoni, stivali, jeans spiegazzati, scatole di cigarillos, Clint Eastwood si scontra subito con Sergio Leone sui dialoghi del film, che gli sembrano ridondanti e riesce a farli ridurre all’osso. Sul set di Almeria – una piccola Babele con copioni in italiano, inglese, tedesco e spagnolo – il professionismo puntiglioso e l’eccitazione fanciullesca del regista conquistano l’attore che lo trova irresistibile quando, con occhialini e cappello da cow-boy, cerca di impersonarlo per spiegargli una scena. La troupe adotta lo spilungone con l’andatura da gatto che, rannicchiato dentro una Cinquecento, riesce a dormire tra un ciak e l’altro, svegliandosi solo per ammazzare due o tre banditi con l’energia e la velocità necessarie. Nel western italiano inaugurato da Per un pugno di dollari – agli altri due capitoli della “trilogia del dollaro”, Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), fanno seguito C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971) – il cinema è il grande gioco di simulazione, spazio illusionistico del trompe l’oeil. Il regista western gioca a guardie e ladri, a soldati e cowboy, abbandonandosi alla finzione del “come se”, tra piacere del simulacro e attrazione della vertigine. Se il segreto del we-
cultura
stern classico è l’iperbole, tanto più avvincente quanto più riesce a sembrare credibile, il contrassegno del nuovo western all’italiana è l’iperbole di secondo grado, tanto più efficace quanto più vistosamente incredibile, esagerata, stravolta.
Quali sono gli altri maestri del western italiano? Il più originale è Sergio Corbucci. Abile artigiano ma insieme puntiglioso professionista, ha al suo attivo due film memorabili come Django (1966) e Il grande silenzio (1969), che gli assicurano un posto in prima fila nel gioco del west. Sin dalla prima sequenza di Django, il cavaliere nero che incede nel fango e nella pioggia trascinando una cassa da morto scandisce una nuova topografia dell’epos che si sbarazza della storia e si esalta nella visualità allucinata del paesaggio. Scomparsa la mitologia della frontiera, siamo in una gelida no man’s land, un periglioso fuori storia, in cui i macabri fantasmi del gotico rinnovano gli artifici dell’affabulazione barocca, moltiplicando gli eventi eccezionali, inattesi, straordinari, e le sottolineature perverse. Il grande silenzio ricompone la liturgia visiva del nuovo western accentuando l’iconografia barbarica, estrema, di esplicita ascendenza giapponese, insieme primitiva e sofisticata. Quando, infagottati nei loro cappottoni tra corazza e haute couture, i cacciatori di taglie trascinano nella neve i corpi dei morti ammazzati, sembra di ritrovare il fascino del bianco e
cui la normalizzazione linguistica delle sale di doppiaggio è attraversata dagli acri sapori della causticità romana. Il gioco si fa più scoperto, il divertimento totalmente a briglia sciolta in Che cosa c’entriamo noi con la rivoluzione? (1972), che fa irrompere nello scenario già compromesso del western messicano due attori-maschere della commedia italiana, con tutto il repertorio di biechi istrionismi e di sordide vigliaccate. Sin dall’inizio quando Eduardo Fajardo spara sui peones in corsa come sui birilli mentre si alzano le note della Tosca, e poi quando Gassman intona ’O sole mio e dice «Sono italiano», o rievoca le mangiate a Lugo di Romagna nella trattoria dietro il teatro, o quando Villaggio si mette a parlare coi cavalli, o quando tutti e due dicono «Noi siamo alieni», sembra di essere in un film di Totò e Peppino, sgangherato e irresistibile.
nero con i crudi contrasti, le cupe atmosfere. Nel totale rimescolamento di carte non ci sono più certezze, i banditi sono innocenti e i bounty killer rappresentano la legge, prevale il cinismo più disincantato. Il mercenario (1969) e Vamos a matar, compañeros (1970) – i primi capitoli della trilogia messicana – premono sul pedale del grottesco e del gioco, ricorrendo ad ogni trucco possibile, ad ogni fantasiosa escogitazione. L’artificio è esaltato dal doppiaggese, il gergo del western indigeno, in
Duccio Tessari – già sceneggiatore di Per un pugno di dollari – è un regista estroso a cui l’autoironia ha sempre impedito di prendersi troppo sul serio. La scanzonata vena goliardica, che aveva contrassegnato il suo debutto nel peplum, si ripropone in Una pistola per Ringo (1965), interpretato da Giuliano Gemma, il suo attore-feticcio. Si stempera invece nei colori malinconici della nostalgia in Il ritorno di Ringo (1965), che il regista gira a breve distanza dal primo, mentre altri si impadroniscono del personaggio in una corsa frene-
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tica all’imitazione a tutti i costi. L’intensità narrativa del “ritorno a casa” del protagonista, il forte impatto drammaturgico di alcune sequenze, il gusto visivo sempre sorvegliato ne fanno il suo capolavoro. Sergio Sollima è un solido artigiano che ha il senso dello spettacolo e sa stabilire nel modo più diretto e suggestivo il rapporto con il pubblico. Il suo contributo al western si affida alla trilogia di La resa dei conti (1967), Faccia a faccia (1967), Corri, uomo, corri (1968), con Cuchillo, interpretato da Tomas Milian. Il giovane messicano è un peone bistrattato dalla violenza degli yankee e dall’ingiustizia della società. «La giustizia è qui, è qui», dice picchiandosi il petto. L’epopea stracciona del povero peone ha i toni favolosi e picareschi dell’epica in cui dominano i sentimenti fondamentali come il coraggio, la lealtà, la crudeltà, l’amicizia, l’amore. Ma le favole western di Sollima risentono anche del clima del Sessantotto, del gusto per il dibattito ideologico, della tentazione di sfondare le barriere del racconto tradizionale per scoprire il nervo incandescente della lotta di classe, della contrapposizione tra vincitori e vinti, sullo sfondo della storia che sembra disponibile al cambiamento mentre tutto torna ad essere come prima. Sulla breccia aperta coraggiosamente dagli iniziatori, si avventurano per i sentieri del western autori variamente insospettabili come Carlo Lizzani (Requiescant), Damiano Damiani (Quien sabe?), Florestano Vancini (I lunghi giorni della vendetta), nei quali il rapporto con il genere è spesso conflittuale e sempre più frequente l’allusione politica. Franco Giraldi che viene dalla factory di Sergio Leone trova nel western l’occasione per affermarsi: 7 pistole per i Mac Gregor (1965) e 7 donne per i Mac Gregor (1966) sono film di apprendistato tra la farsa e il fumetto in attesa di prove più personali. Leoniano della prima ora è anche Tonino Valerii – I giorni dell’ira (1967), Il prezzo del potere (1969), Il mio nome è Nessuno (1973) – per il quale il western è invece la grande passione, la possibilità offerta dal cinema di rivisitare con piglio personale lo scenario amato da spettatore, dove già si intravedono il tramonto del mito e le insidie della lotta politica. Non si possono dimenticare neppure Giulio Petroni (Tepepa), Enzo G. Castellari (Keoma), Lucio Fulci (Tempo di massacro), Giulio Questi (Se sei vivo spara), Giuseppe Colizzi (I quattro dell’Ave Maria), E. B. Clucher (Lo chiamavano Trinità), grazie ai quali il genere conosce intonazioni nuove che svariano dall’avven-
tura terzomondista alla efferatezza delirante, dalla rivisitazione visionaria alla comicità picaresca.
Un “mucchio selvaggio” che per più di un decennio dà vita a un fenomeno di dimensioni economiche imponenti. Oltre quattrocento film. Quaranta film all’anno. La punta massima è la settantina di pellicole girate nel 1968 e nel 1969. I western italiani per parecchi anni di seguito sono stati ostinatamente nei primissimi posti del box-office, incassando solo in Italia più di duecentocinquanta miliardi di lire. Grazie al successo di Trinità, il genere mantiene ancora per qualche stagione i suoi esasperati ritmi produttivi. Ma la concorrenza dei nuovi filoni si fa sentire, assieme alla stanchezza di una formula sfruttata intensivamente. Nella primavera del 1978 siamo ai funerali del western autarchico che esce di scena prima di aver compiuto i quindici anni. Il ragazzo d’oro del cinema italiano ha battuto tutti i record d’incasso, ma da qualche anno è in crisi. Se dopo i picchi di fine Sessanta, si mantiene per qualche stagione su una media di una trentina di titoli all’anno, la caduta verticale inizia nel 1974 e non si ferma più. Nel 1975 il genere sopravvive con sei film. Nel 1976 ce n’è uno solo. Ma il conto alla rovescia del western all’italiana è cominciato prima, quando il genere risente del decollo del filone erotico che si afferma nel 1972 con trentasei film e arriva presto a più di un centinaio di titoli. Sulla scia di L’uccello dalle piume di cristallo (1969) di Dario Argento, nasce il filone giallo-orrorifico che, con il suo repertorio di scorpioni, ragni, lucertole, iguane, farfalle, tarantole, raggiunge in tre anni quota cinquanta. La concorrenza maggiore al western la fa il poliziottesco, che prende il via con La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina. Il nuovo genere dei poliziotti d’assalto e delle città violente soppianta rapidamente lo spaghetti-western: c’è chi sostiene che la concorrenza avviene sullo stesso terreno e con ingredienti non troppo diversi. I titoli di testa di Il trucido e lo sbirro (1976) di Umberto Lenzi scorrono su una tipica sequenza western, con i grandi spazi, le rocce, i cavalli, i cactus. Quando i titoli finiscono, un carrello indietro scopre uno schermo cinematografico, su cui si proietta il film davanti al pubblico dei carcerati di Regina Coeli. In prima fila c’è Tomas Milian, che dopo essere stato Tepepa, Provvidenza, Cuchillo, ora è il trucido Monnezza, che alzandosi dice al vicino una delle sue imbarazzanti battute: «Reggeme er posto che vado a cagà».
pagina 20 • 13 gennaio 2009
cultura
In libreria. Una biografia di Natalia Sazonova ricostruisce la prigionia dell’artista nei campi di concentramento sovietici
Eddie Rosner, il jazzista dei gulag di Adriano Mazzoletti er anni si è molto scritto e raccontato su quanto il jazz e coloro che lo eseguivano fossero stati penalizzati nell’Italia fascista e nella Germania nazista. Nessuno invece ha mai riferito su ciò che negli stessi anni e in quelli successivi accadde in Unione Sovietica. Sappiamo come il jazz sia stato denigrato in Germania e in Italia, salvo poi venire utilizzato come veicolo di propaganda dalle radio naziste e da quella della Rsi fra il 1943 e il ’45, ma nessun musicista di jazz italiano o tedesco è stato mai rinchiuso in un campo di concentramento per la musica che suonava. Contrariamente a quanto successe invece in Unione Sovietica. E’ questa una storia ancor poco conosciuta, ignorata nel nostro Paese per molti anni. La pubblicazione recente della biografia di Eddie Rosner svela oggi i molti drammi affrontati dai musicisti di jazz attivi in Russia al termine della Seconda guerra mondiale.
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A sinistra, un’immagine del jazzista Eddie Rosner; sopra, una delle locandine d’epoca che pubblicizzavano una delle sue esibizioni; in basso, la locandina del film con Marlene Dietrich “L’angelo azzurro”, cui l’artista, insieme con la sua band, prese parte
Chi sia in realtà Eddie Rosner (19101976), che per molti anni fu un misconosciuto solista di tromba, soprannominato «l’Armstrong sovietico» viene svelato da Natalia Sazonova nel suo Il jazzista del Gulag. La straordinaria vita di Eddie Rosner fra Hitler e Stalin (L’ancora edizioni). Prima della pubblicazione di questa biografia, poche le notizie su Rosner, mentre solo alcune sue incisioni, realizzate nel 1938 a Parigi, apparivano nelle discografie. I pochi dischi incisi in Germania furono ben presto messi all’indice perché denunciati dal sistema hitleriano come «entartete musik», «musica degenerata». Ma chi era in realtà Rosner? L’autrice del libro Natalia Sazonova in questa “autobiografia”, raccontata come se a scriverla fosse lo stesso Rosner, si avvale di documenti, lettere e diari, scritti dallo stesso musicista e dei racconti di coloro che lo hanno conosciuto ed ammirato. Ebreo tedesco nato a Berlino, iniziò la sua brillante carriera di solista di tromba nel 1928 con i Weintraubs Syncopators, il più celebre complesso attivo in Germania. La storia di questo gruppo è tipica di un periodo fra i più terribili che la storia recente abbia conosciuto. Fondata a Berlino nel 1924 dal batterista polacco Stefan Weintraub, era considerata la più jazzistica fra le orchestre tedesche. Il successo fra il 1928 e il 1930 fu tale che prese parte al film L’Angelo Azzurro e la stessa Marlene Dietrich volle che fossero i Weintraubs ad accompagnarla nella sua più celebre incisione, Ich bin die fesche Lola. Nel 1929 avevano anche firmato un contratto con Max
Ebreo tedesco nato a Berlino, iniziò la sua brillante carriera di solista di tromba nel 1928 con i Weintraubs Syncopators, il più celebre complesso attivo in Germania Reinhardt, il celebre direttore del Deutsches Theater che, nel 1933, rifiutò il titolo di “ariano d’onore” e partì per gli Stati Uniti. Il successo continuò fino all’avvento
del nazismo. Dopo la tournée italiana del 1934, il complesso non fece più ritorno in Germania e i suoi componenti furono costretti a rinunciare a quel successo che li aveva accompagnati per oltre nove anni. I dieci musicisti, tutti ebrei tedeschi, inglesi e americani presero strade diverse, chi in Cina, chi in Giappone, negli Stati Uniti e in Australia. L’unico a rimanere in Europa fu Rosner che per salvarsi andò nel 1938 in Francia, ma quando la Francia venne occupata, fuggì in Unione Sovietica. Non finì, in quanto ebreo, nei campi di sterminio nazisti, ma al termine del conflitto venne internato, perché musicista di jazz, nei gulag sovietici, dove trascorse gran parte della sua vita. L’ostracismo al jazz era iniziato in Unione Sovietica già negli anni Trenta. Durante la guerra aveva però goduto di una libertà eccezionale, ma nel 1946 il «termine jazz venne proibito e furono banditi alcuni strumenti, come il sassofono e la cornetta» racconta Rosner. «Ricordo un aneddoto. In occasione della visita di prammatica di una nuova commissione per gli affari culturali, uno dei membri mi chiese “Cos’è questo strumento atipico?”. Gli risposi che era un corno inglese. “E perché suonate un corno inglese e non sovietico?”, mi chiese in tono severo quel burocrate della cultura».
Il 18 agosto 1946, durante l’ultima esibizione a Mosca, Rosner ebbe la certezza che il suo repertorio basato sui più celebri temi americani, Caravan, il suo grande successo, St.Louis Blues o Tiger Rag in cui si esibiva alternandosi con due trombe come anni dopo fece la tromba americana Clark Terry, non era più compatibile con quel regime. Chiese di potersi recare in Polonia paese natale di sua moglie. Il permesso gli venne negato. Il 28 novembre fu arrestato dai servizi segreti della città di Leopoli. Il processo fu una farsa e Rosner venne costretto a ritenersi colpevole, «in caso contrario sarà possibile che per lei ci sia la fucilazione. Per lei e per sua moglie», lo minacciò l’agente del Kgb. Colpevole perché anche in Unione Sovietica suonava «musica degenerata» in quanto «chi fa del jazz oggi, venderà la patria domani», recitava l’atto d’accusa letto dal Capo del Servizio informazioni generali e del controspionaggio, Abakumov che «il popolo aveva soprannominato ministro della morte di tutte le spie». Gli anni successivi Rosner li trascorse nei terribili gulag “a regime speciale” della Siberia poiché “internato politico”. Alla sua liberazione il Kgb cercò di ucciderlo inscenando un falso incidente stradale. Si salvò, ma per molti anni ancora non riuscì a suonare per le gravi ferite riportate al viso, alla bocca, ai denti. Eddie Rosner è stato un eccellente solista di tromba, ma soprattutto amava profondamente quella musica che fu una delle sue ragioni di vita.
sport
13 gennaio 2009 • pagina 21
Presentata due giorni fa dal team Ferrari (a sinistra) il nuovo modello “F60” (in basso). La presentazione è avvenuta al Mugello, prima novità, e fa già discutere: la neonata macchina sarà più sgraziata nelle ali (grande e alta quella anteriore, piccola e piuttosto bassa la posteriore) ma pulita nelle linee perché priva delle cosiddette appendici aerodinamiche
Gli antieroi della domenica. Presentata al Mugello la neonata F60 a ragione il nostro ministro Brunetta: il tornitore della Ferrari avrà da ora un ulteriore motivo d’orgoglio. La casa automobilistica di Maranello è stata la prima tra tutte le scuderie a presentare la monoposto di Formula 1 pronta a tornare in campo per l’edizione 2009 del mondiale. Questa è l’ennesima pole position, bisogna poi vedere se la vettura riuscirà a essere prima anche dopo l’ultima curva dell’ultimo Gran premio. L’Italia sportiva, e non solo, lo spera, forse con la sola eccezione del negoziante al quale si rivolge per i suoi televisori il Luca Cordero di Montezemolo, ragazzo un po’ svogliato secondo Innocenzo Cipolletta che gli dava ripetizioni. Poi le loro strade si son divise: su quattro ruote Montezemolo e sui binari Cipolletta. Lascio a chi legge il piacere di scegliere chi ne ha fatta di più, di strada.
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Tornando al Cordero, ricordo che al termine del campionato vinto da Lewis Hamilton, Montezemolo ha candidamente confessato di aver spaccato il suo apparecchio televisivo per la rabbia di un titolo sfumato all’ultima curva in un glock. Sono dunque iniziate le grandi manovre, è il caso di dire, che hanno portato sulla nuovissima monoposto Felipe Massa. Più in là, tra una settimana e in Portogallo, ci salirà su anche l’altro ferrarista Kimi Raikkonen. Un segno sul privilegiato di scuderia? Se son rose fioriranno. Occhio però a non fare come Cristiano Ronaldo che, alla sua prima uscita in Ferrari nuova fiammante, appena fuori dal garage di casa è andato a schiantarsi sotto gli occhi esterrefatti del compagno Van der Saar. Non l’aveva mai
Il nuovo orgoglio dei “tornitori d’Italia” di Francesco Napoli guidata, una Ferrari, ma distruggerla così è decisamente roba da ricchi. Ma le auto costano e non si possono far sprechi in questi tempi di austerity sommessa, non detta ma praticata un po’ da tutti.Tant’è che il debutto della nuova Ferrari è di fatto avvenuto su Internet. Collegandosi al sito www.ferrari. com tutti hanno potuto assistere all’avvenimento. Ottima idea, non solo mediatica, per stare al passo coi tempi e anche un bel risparmio in rinfreschi, chiacchiere e giornalisti al seguito. Ora: in attesa di sapere quanti son stati i contatti, non vorrei che gli Ecclestone e i Mosley della situazione pensino, ne sono capaci, a una bella Formula 1 tutta sulla playstation. Gli effetti: costi praticamente stroncati e ridotti allo zero, impatto ecologico minimo, gli scarti in plastica delle consolle, e diretta televisiva via
rete. Notevole! Sempre sulla linea delle novità 2009 in casa Ferrari, le prime prove si sono svolte al Mugello, non dietro casa-Ferrari a Fiorano come solito, e questo per motivi climatici, per evitare i rigori dell’inverno. Ah, questo freddo e questa neve, tutt’altro che una letizia.
È sceso dunque in pista solo Felipe dei due cavalieri del cavallino rosso e solo quando non ci sono stati rischi di deleteri fuoripista e possibili schianti. Non sia mai alla prima uscita dovesse succedere qualcosa, un piccolo botto e addio telemetrie e arzigogolii ingegneristici
Sgraziata nelle ali, grande e alta quella anteriore, piccola e bassa la posteriore, ma pulita nelle linee perché priva delle appendici aerodinamiche escogitati alla bisogna per un campionato ancora innovato nei suoi regolamenti. E poi: povero tornitore della Ferrari, ma da qualche giorno poveri diversi padri di famiglia più che onesti lavoratori pubblici ancora additati al pubblico (quello sì sempre efficiente) ludibrio, ci sarebbe stato da rimboccarsi le maniche. E Montezemolo cosa avrebbe fatto in caso di rottura dell’auto proprio alla prima? Spaccato un altro televisore? In
proporzione penso che si sarebbe limitato alla radiosveglia sopra il comodino. Piuttosto mi è parso un po’ troppo da mogliettina all’autosalone il commento nell’occasione di Massa appena vista la vettura: «Ho trovato la nuova F60 piccolina, molto compatta e carina». Sarà, dicono gli esperti, una monoposto completamente diversa da quelle che l’hanno preceduta: sgraziata nelle ali, grande e alta quella anteriore, piccola e bassa quella posteriore, ma pulita nelle linee, perché son state tolte tutte le cosiddette appendici aerodinamiche. Ritorno al passato se dopo undici anni si rivedono gli pneumatici lisci e un’occhiata al futuro, il sistema che recupera l’energia dispersa in frenata, e chissà quando la soluzione la vedremo applicata sulle nostre utilitarie.
Sarà. Ma alla fine tra ali e alettoni, kers o mica kers, pneumatici lisci o ruvidi, come i fogli da disegno delle scuole o aerodinamica medie, quant’altro, si tratterà pur sempre di mettere il musetto della propria autovettura davanti a quello degli altri. Tutti quanti quelli che si esibiscono nel Circo Mosley-Ecclestone lo sanno, spero, ma sono sempre alla ricerca di un qualcosa che dia al campionato brividi fino all’ultimo per tutte le concorrenti. Bah, a occhio saranno sempre le stesse a primeggiare e tanti saluti a ogni accorgimento atto a contrastare le superpotenze. Come nel calcio nostrano: sì, le provinciali, le provinciali strombazzate di qua e di là. Ma dopo qualche risultato a sorpresa qui e là durante l’anno, chi guida oggi la classifica del massimo campionato di calcio? Bauscia e Gobbi!
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da ”Le Figaro” del 12/01/2009
Parigi naviga ma non affonda arigi sott’acqua. È un ipotesi verosimile quella che la capitale si prepara ad affrontare. Una immensa catastrofe, come l’inondazione devastatrice del 1910, che la regione parigina cercherà di scongiurare, con discrezione e senza tanti clamori. Quella che potrebbe essere definita la protezione civile (Orsec) che si occupa della sicurezza dell’Ile-de-France - che ospita ben 12 milioni di abitanti e produce un quarto della ricchezza nazionale - ha messo all’opera diecine d’esperti. Esattamente sono 50 i tecnici che stanno lavorando ai piani alti delle istituzioni, per cercare di evitare una catastrofe come un’alluvione. Non a caso il motto di Parigi è Fluctuat nec mergitur, naviga e non affonda. Ma sarà ancora così? Il segretariato generale per la difesa dell’area parigina si sta dando da fare. Ha coinvolto molti uomini dei vigili del fuoco e delle forze di polizia per aumentare il monitoraggio innanzitutto. Quale sarebbe, per intenderci, il ponte Milvio di Parigi, dove sarebbe più facile e pericoloso che la Senna straripi? Senza alcun dubbio è il ponte Austerlitz.
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A sud di quella costruzione c’è il palo graduato da tenere d’occhio. Dalla prefettura di Polizia non trapelano molte notizie ed esiste una sola certezza che la data dell’alluvione ancora non si conosce. Quindi si lavora sulla gestione dell’evento con il coordinamento di tutti i settori che verrebbero coinvolti dall’esondazione della Senna. Dai trasporti, alle telecomunicazione e all’energia, sono stati allertati circa 300 tecnici e decisori per approntare un piano d’emergenza che permetta alla città di «navigare» al di sopra dei problemi più gravi, come vorrebbe il suo motto. Il colonnello Charguellon ha affermato che «le alluvioni,
in media, si verificano tre volte in un secolo», non è dunque un evento eccezionale. I piani sono studiati per riuscire a mettere in salvo gran parte dei cittadini che dovessero trovarsi con l’acqua alla cintura. Sono stati previsti diversi scenari. Le avvisaglie sono raccontate dalla storia, nel 1910 e nel 1955. Un anticiclone posizionato sull’Atlantico convoglierebbe gran parte delle perturbazioni provenienti da nord sulla Francia, provocando piogge torrenziali.
Basterebbero 5-8 giorni di nubi cariche di pioggia che si scarichino sulla Marna e nell’altopiano di Langres, per scatenare l’onda di piena della Senna. Arrivato a 3,5 metri sul livello medio del fiume, al ponte Austerlitz, scatterebbe la prima fase dell’evacuazione, soprattutto dei senza tetto che bivaccano in quelle zone. Ragiunto il livello di 5,5 metri – sempre secondo i piani ufficiali di emergenza – il prefetto farebbe suonare le sirene e ci sarebbe l’evacuazione generale di tutti i quartieri interessati, il comando delle operazioni paserebbe alla prefettura, mentre l’unità di crisi verrebbe trasferita in un bunker. A sei metri ci sarebbe «l’allarme rosso» e a quel punto le autorità di gestione idrica chiuderebbero simultanenamente 477 reti d’immissione nella Senna. I danni stimati - in qualla situzione - ammonterebbero già a circa 5 miliardi di euro e quattro gli anni necessario per un completo ripristino. Saremmo dunque arrivati alla fine? Neanche per idea. C’è lo scenario del livello otto metri. Evento già avvenuto nel 1910 e che lascerebbe 360mila parigini senza riscaldamento. Scatterebbe il «piano Nettuno»: 10mila militari coinvolti, con mezzi come barche e ponti galleggianti ed elicotteri, per
presidiare l’area ed evitare fenomeni di saccheggio delle zone evacuate. Sarebbero 50mila i parigini, in quel momento, a dover trovare un posto dove passare la notte. Naturalmente anche l’organizzazione logistica non lascia niente all’imprevisto.
Verrebbero ospitati in un campo fuori Parigi ed, eventualmente, altri 70mila in scuole e altre strutture convertite per l’emergenza. I tecnici hanno studiato le più recenti alluvioni, come quella di Praga del 2006 e New Orleans, per avere una base statistica più ampia per calcoli e procedure. A rischio, tra gli altri edifici, sarebbero anche le ambasciate di Brasile e Usa, il museo D’Orsay e il Louvre. Verrebbero organizzati nove convogli ferroviari giornalieri per far affluire nella capitale tutti i generi necessari. Servirebbero diversi mesi per un ritorno alla normalità. Si legge nelle carte del piano che l’odore in molte aree della città «sarebbe pestilenziale».
L’IMMAGINE
Il giorno della liberalizzazione... fiscale slitta al 23 giugno: lavoriamo di più per le tasse Abbiamo anche saputo che nel 2009 il fisco italiano si “mangerà”due giorni in più: grazie all’aumento della pressione tributaria un contribuente tipo dovrà lavorare 48 ore in più per pagare tasse e contributi. Il giorno della liberazione fiscale slitterà al 23 giugno, mentre nel 2008 era stato il 20 giugno. Se non sbaglio questo governo, prima di diventare governo, cioè quando si era in campagna elettorale, aveva promesso il calo delle tasse. Purtroppo, invece, la realtà è diversa. Come si è visto, aumentano i giorni dedicati unicamente al Signor Fisco. Metà anno lavoriamo per lo Stato. Neanche il governo del signor Berlusconi e del ministro Tremonti è riuscito a riportare la tassazione ad una dimensione più giusta, più equilibrata, più europea. Siamo molto lontani da quel 33 per cento che dovrebbe essere, in ogni autentico Stato degno della sua Costituzione, il vero livello del prelievo fiscale.
Vincenzo Palletta
QUANTO È DIFFICILE ARRIVARE AI POVERI VERI Sulla ben gestita Radio 3 Rai in questi giorni si è discusso sulla validità e sulla opportunità della tessera sociale. Pro e contro ormai li conosciamo e non voglio criticare questa operazione. Vorrei solo fare una riflessione sulle difficoltà che si incontrano quando si cerca di aiutare e individuare i reali bisognosi, i poveri veri. È che l’Italia è un paese molto più ricco di quanto dichiarato, basti pensare a quel quasi 40 per cento di non contabilizzato che determina una ricchezza sconosciuta al fisco, ma ben visibile a chi si occupa sul serio della miseria. Credo che la Caritas, come per l’immigrazione, sia l’unica a conoscere i termini reali del problema e, disponendo di
informazioni capillari sul territorio, operi meglio dei servizi sociali. Ma non è un ente governativo. Nella bella favola “Il Principe felice” di Oscar Wilde, un Principe buono aiuta chi ha bisogno tramite un Rondone ed entrambi si sacrificheranno per lo scopo mentre Sindaco e Consiglieri sono solo dei “tromboni”. Credo che il Silvio nostro, pur non essendo come noi un santo, sia personalmente uomo caritatevole, ma dove lo trova il suo Rondone?
Dino Mazzoleni
L’IMPOSTAZIONE DELLE COSE Il presidente della Camera on. Gianfranco Fini ha elencato il menu delle riforme e l’impostazione piace. Potrebbe piacerebbe anche all’opposizione se ci
La gabbia della morte Cercate emozioni forti? L’ultima tendenza per cuori impavidi arriva da un parco divertimenti di Darwin, in Australia, e consiste in un bagnetto a tu per tu con un coccodrillo marino di quasi 6 metri di lunghezza. Bastano 60 euro e una buona dose di fegato per entrare nella “Gabbia della Morte”, una scatola di plexiglass spessa 14 centimetri che viene calata in un’area piena zeppa di coccodrilli
fosse coerenza tra parole e i fatti. La frammentazione del Pd non è lo spunto per una adeguata ricompattazione interna, bensì solo per giochi di potere, portati avanti sempre dagli stessi orchestrali. A torto - secondo me - qualcuno afferma che il sistema bipolare è già in crisi. Non è così: dobbiamo dare all’Italia il tempo necessario per digerire i
nuovi sistemi, le riforme, i buoni propositi. Le disgregazioni che ne possono seguire derivano solo da bramosia di potere: diamo fiducia allora alle parole dell’onorevole Fini, che già ha saputo primo tra tutti criticare la corbelleria di porre balzelli di ingresso agli extracomunitari o caparre assurde di 10.000 euro per aprire la partita Iva. Chi
combatte il nostro sistema burocratico non dovrebbe usare gli stessi assurdi mezzi per combattere i problemi, ma la saggezza di un presidente e adottare il controllo delle coste. Difficile altresì da farsi con un capo di Stato come Gheddafi che chiama a raccolta il mondo arabo per la distruzione di Israele.
Bruno Russo
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Perché non date peso alla mia pace? Amico mio, mi fate male, e il sentimento che mi pervade è una grande maledizione per voi e per me. Avevate ragione a dirmi che non avevate bisogno di essere amato come io so amare; non è questa la vostra misura: voi siete un oggetto d’amore così perfetto che dovete essere o diventare il primo interesse di tutte quelle donne che esibiscono tutto ciò che si portano dentro e che sono così amabili da amar se stesse più di ogni altra cosa. Sarete il diletto, soddisferete la vanità di quasi tutte le donne. Per quale fatalità mai mi avete trattenuta in vita, e mi fate morire d’inquietudine e di dolore? Amico mio, non mi lamento affatto, ma soffro perché non date alcun peso alla mia pace; questo pensiero ora raggela ora strazia il mio cuore. Come si fa ad avere un momento di tranquillità con un uomo che ha la testa che cambia direzione come la sua carrozza, che non dà importanza ai pericoli, che non prevede mai nulla, che è incapace di attenzioni, di puntualità, e al quale non capita mai di fare ciò che ha progettato? In breve, con un uomo che vive seguendo il caso, trascinato da tutto, un uomo che nulla può fermare né rendere stabile? È per la vostra collera che mi avete condannata ad amare ciò che doveva essere il tormento del mio animo! Julie de Lespinasse al conte di Guibert
NESSUNO SI LAMENTA PIÙ DI TANTO È vero che nel lungo termine siamo tutti morti, ma l’economia e la politica hanno bisogno del lungo termine per essere vive, altrimenti senza respiro, sono morte in partenza. Gli orizzonti attuali quanto durano? Una settimana, un mese. Tutto viene sempre rimesso in discussione. Si cambia ogni momento. Aboliremo subito le province… anzi, no. Finite le elezioni, non le aboliamo più perché altrimenti troppe persone restano senza poltrona. Non c’è dubbio che la politica sia fatta da sedentari, una poltrona a tutti. Il segreto del successo è quello di non possedere nulla, ma controllare tutto, anche le cose inutili. Che miseria mortale, priva di scopi, di orizzonti, di ideali, è la partitocrazia che ci riduce così con il meccanismo della lottizzazione. Da questo trae origine il fenomeno dell’esercito fatto di decine di migliaia di persone, di consiglieri di amministrazione, consulenti e tirapiedi annidati in quello sterminato numero di enti, spesso inutili, aziende pubbliche, municipalizzate e via discorrendo. I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni a partire dal governo, gli enti locali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la tv, alcuni grandi giornali. C’è politica ovunque ci siano interessi, mentre il cittadino aggredito dalla mafia è solo, deve chiudere il ristorante e andarsene. Abbia-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
13 gennaio 1963 Togo: primo colpo di Stato africano di uno Stato indipendente 1972 Il primo ministro del Ghana, Kofi Busia, viene estromesso in un colpo di Stato incruento 1976 Il procuratore della Repubblica di Milano fa sequestrare Salò o le 120 giornate di Sodoma 1989 Nel Piemonte viene scoperta una discarica abusiva con 1000 tonnellate di prodotti tossici 1992 Il Giappone chiede scusa per aver costretto le donne coreane ad avere rapporti sessuali con i soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale 1992 Enrico Mentana diventa direttore del Tg5 1994 Dimissioni del presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi 1998 Lo scrittore siciliano omosessuale Alfredo Ormando si dà fuoco a Roma in piazza San Pietro per protesta contro la Chiesa cattolica 2001 Un terremoto di magnitudo 7,6 della scala Richter colpisce El Salvador: oltre 5.000 morti
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
mo bisogno di persone brave, o solo di brave persone? Certo non abbiamo bisogno di gente assatanata di potere, ma di gente che capisca un principio: tranne che per i poveri e i mendicanti, nessun pasto dev’essere gratis, per nessuno, nemmeno per la Fiat. Non credo a ciò che ha paradossalmente affermato Bill Gates: «Se il settore dell’automobile si fosse sviluppato come l’industria informatica, oggi avremmo veicoli che costano 25 dollari e fanno 500 km con un litro». Nemmeno me lo auguro. Con auto a 25 dollari, ogni famiglia ne avrebbe qualche decina. Ma certo le grandi industrie mondiali hanno curato più gli accessori e gli optional che un vero progresso innovativo del settore, il carburante è sempre lo stesso. E poi vogliono soldi per studi e ricerche …. Come diceva un grande armatore, dobbiamo liberarci persino dalla speranza che il mare possa esistere per sempre. Dobbiamo imparare a navigare nel vento. E ora, in piena crisi, le industrie dell’auto premono per avere finanziamenti, fondi, aiuti, cassa integrazione, rottamazione e quant’altro, come se il cittadino le auto dovesse pagarle due volte, quando le acquista e quando le finanzia. È come per le autostrade. Le paghiamo quando le fanno e le paghiamo quando le usiamo, ma forse è anche poco, visto che nessuno si lamenta più di tanto.
Angelo Rossi
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
TORNIAMO ALLA VERA POLITICA La confusione che esiste oggi tra e nei partiti non promette nulla di buono. L’Italia assiste ad una patetica e triste parodia della politica. Gli episodi di degrado che riguardano diverse amministrazioni, guidate da sindaci Pd, suscitano diffuso malumore. È questione etica, ma anche di regole, che con la fine dei partiti (quelli veri) sono saltate tutte, senza individuarne di nuove. Oggi c’è il monarca con i suoi cortigiani, che svolgono il ruolo di replicanti. Niente più. Gli esponenti del Pd ai massimi livelli se le stanno suonando di santa ragione. Lo scontro tra Fassino e Mantini è emblematico. Stanno saltando i nervi. È in corso forse una vera e propria resa dei conti. Sembra più di assistere ad una guerra tra bande che a polemiche che attengono alla ordinaria dialettica politica, fatta anche di galateo. È la fine di un’epoca. La certificazione di un fallimento di coloro che volevano solo ereditare il potere, distruggendo con la menzogna gli avversari. Dopo 15 anni, dopo aver massacrato i grandi partiti che hanno fatto la storia democratica italiana, è arrivato il momento della verità. È giunto il tempo del cambiamento, per tornare alla politica vera. Ci troviamo in una falsa democrazia, fatta da oligarchie, che decidono a livello centrale e nelle realtà territoriali. Il tasso di demoralizzazione sta inquinando il sistema. Colpa anche di chi, ingannando la gente, affermava che il cambio delle regole elettorali aveva valore di palingenesi. La partecipazione dei cittadini alla vita politica invece è nulla, tanto che cresce il disinteresse per il voto ad ogni elezione. Il sistema elettorale attuale obbliga i cittadini a scegliere tra destra o sinistra, e chi non gradisce l’una o l’altra si astiene. Il sistema voluto da Berlusconi e Veltroni svilisce il ruolo e la funzione dei partiti, riducendoli a “gusci vuoti”. Non esiste più il luogo del pluralismo, della formazione della volontà politica e le conseguenti proposte, che dovrebbero arricchire il confronto istituzionale, producendo, dalla libera discussione, decisioni utili alla vita delle comunità governate. Se questo processo viene meno, restano le improvvisazioni e le estemporaneità. Il ruolo dei partiti, che vivono di una cultura fondante, dotati di una politica, di programmi condivisi dagli iscritti, e che hanno il loro radicamento sul territorio nazionale è la regola della democrazia. È pertanto auspicabile un sistema proporzionale con sbarramento e preferenze. Vi sarebbe una partecipazione attiva dei cittadini e, quindi, partiti veri. Raffaele Reina CIRCOLI LIBERAL PROVINCIA DI NAPOLI
APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
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PAGINAVENTIQUATTRO
Riforme. Una legge sulla stampa e gli incontri riservati dei politici
A Londra anche le lobby diventano di Silvia Marchetti Londra la privacy di ministri e uomini politici ha i giorni contati. Dopo che Downing Street ha tolto la riservatezza ai cittadini tra telecamere posizionate in ogni angolo del Paese e carte d’identità biometriche, adesso sono i cittadini a prendersi la loro rivincita. Un tribunale civile ha finalmente deciso (dopo anni di battaglie in aula) che tutte le riunioni private, gli incontri personali e i colloqui ristretti del primo ministro inglese e degli uomini della sua squadra di governo (iniziando proprio da Gordon Brown) andranno resi pubblici e pubblicati sui giornali. Insomma, è diritto
A
Fratello” per la prima volta sarà rivolto verso le stanze del potere.
La sentenza dà il via libera alla divulgazione degli incontri istutizionali dell’ex premier Tony Blair. Per anni le Ong e le associazioni civili che si battono per la libertà d’espressione hanno invano chiesto di rendere pubblico il contenuto dei meeting e delle colazioni di lavoro del primo ministro, ora arriva il verdetto che mette gli esecutivi britannici (passati, presenti e futuri) in mutande. La campagna contro la privacy governativa è stata supportata negli ultimi tre anni e mezzo da un deputato libera-
PUBBLICHE le, Norman Lamb, fiducioso che un giorno il suo attaccamento maniacale ai princìpi sanciti dalla legge inglese sulla libertà d’informazione gli avrebbero dato ragione. Il governo Brown ha così accettato, senza fare ricorso, la sentenza del tribunale di alcuni giorni fa che stabilisce la divulgazione da parte di Downing Street degli incontri “interni ed esterni”di Blair avvenuti un mese dopo aver vinto per la seconda volta consecutiva le elezioni generali. Tra questi incontri – pubblicati sul Guardian – spicca quello con l’arcivescovo cattolico Cormac Murphy-O’Connor, il tycoon dei media Rupert Murdoch (incentra-
Un tribunale civile ha deciso (dopo anni di battaglie) che tutte le riunioni private, gli incontri personali e i colloqui ristretti del primo ministro inglese e degli uomini della sua squadra di governo andranno resi pubblici e pubblicati sui giornali fondamentale dei cittadini sapere con chi s’incontrano i loro rappresentanti politici, di cosa discutono e cosa – eventualmente – decidono. In Inghilterra, terra dei diritti civili, si infrange così l’ultima frontiera: quella della politica dalle porte aperte, vicina agli occhi e alle orecchie dei sudditi di Sua Maestà. Tutti gli scandali e i tentativi di corruzione da parte di lobby economiche-finanziarie verranno dunque portati alla luce nella più completa operazione “trasparenza”. Altro che intercettazioni, Gordon Brown e i suoi ministri già tremano. L’occhio del “Grande
to sui diritti televisivi) e l’ex fidanzata di Sven Göran-Eriksson, Nancy dell’Olio (insieme al marito guida il fondo caritatevole Truce International che promuove la pace nel mondo tramite il gioco del calcio). La lente dei cittadini, insomma, per la prima volta entra nei corridoi segreti di Whitehall dove si riunisce il governo, luogo da sempre chiuso (come nel resto del mondo) all’indiscrezione del pubblico. Per Tony Blair che ora sta “in pensione” e si gode le sue conferenze mondiali poco male, i guai saranno per Brown e soprattutto per chi gli succederà alla guida di Downing Street dopo le prossime elezioni. Secondo Norman Lamb, il deputato liberale che ha portato avanti la crociata anti-privacy, si tratta di una sentenza storica senza precendenti che presto porterà ad aprire anche le porte del Parlamento. «Finalmente si leva il velo di segretezza alla faccia di tutti quei mandarini che in questi anni non hanno mai voluto rivelare niente di niente». La sua battaglia iniziò nel giugno 2005 quando chiese a Downing Street informazioni sulle persone che l’allora premier Tony Blair aveva incontrato nel corso dell’anno. Il governo ovviamente si rifiutò – sostenendo che rendere pubblici tutti gli incontri del premier avrebbe comportato un lavoro lunghissimo e costosissimo da parte degli addetti ai lavori – e scattò così l’iter in tribunale che durò ben tre anni. Lamb in questo periodo non si diede mai per vinto, e la sua perseveranza alla fine giocò a suo favore.
Interessante scoprire chi sono stati gli ospiti più assidui di Tony Blair. Dinamico come suo solito, l’ex premier britannico riuscì a incontrarsi con ben 119 persone solo nel giugno 2005. Le riunioni più frequenti, quelle con il suo staff di cabinettto Jonathan Powell e il guru della comunicazione David Hill. Alcuni degli incontri s’incentravano su argomenti all’ordine del giorno, come la rivolta che scoppiò interna al Labour sulla questione delle nuove carte d’identità anti-terrorismo, per alcuni membri di partito troppo costose. Numerosi anche i faccia a faccia che Blair ebbe con alcune potenti lobby industriali e sindacali: dai rappresentanti americani dell’Ibm, il colosso informatico (inclusi alcuni pezzi grossi della Casa Bianca), ai capi della Cbi (il consorzio inglese che sostiene la crescita delle aziende) e del Tuc, il congresso nazionale dei sindacati britannici.