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ISSN 1827-8817 90114

Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente cose che non vogliono sentire.

di e h c a n cro

George Orwell

9 771827 881004

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Le ragioni della manifestazione di oggi davanti a Montecitorio

Perché stasera saremo in piazza per Israele di Renzo Foa i saremo anche noi, ci sarà anche liberal, alla manifestazione «con Israele, per la libertà, contro il terrorismo» che si svolgerà oggi alle 18,30 davanti a Montecitorio perché – come ci ha detto ieri Fiamma Nirenstein – «siamo di fronte all’assedio di una civiltà da parte di Hamas, dobbiamo difendere il diritto di ogni democrazia: non farsi annientare». Vorrei umilmente tentare di spiegarlo allo scrittore Tahar Ben Jelloun, che ieri ha lamentato sulla Repubblica il fatto che «questa volta nessuno dice “Siamo tutti abitanti della striscia”», mentre all’indomani dell’11 settembre si scrisse che «siamo tutti americani». Una lamentazione sbagliata perché «Siamo tutti abitanti della striscia» non lo si può dire per alcune semplici ragioni. Lasciamo stare una ragione che mi repelle alquanto.

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Gli arabi preparano il dopo-Hamas

LITE BERLUSCONI-FINI Il presidente della Camera critica apertamente il premier per l’ennesimo voto di fiducia. Ma non basta: la Moratti continua a contestare la scelta di Malpensa e la Lega ignora il Cavaliere: ripropone la tassa agli immigrati

L’autoscontro alle pagine 2, 3, 4 e 5

di Antonio Picasso a pagina 14

Tra liti inventate e critica latitante

La decadenza del giornalismo culturale di Massimo Onofri ual è lo stato di salute del giornalismo culturale italiano? Ho detto giornalismo, non giornalisti: prediligendo l’astratto al concreto, come non si dovrebbe mai fare, col rischio di sollevare, moralisticamente, questioni del tutto generiche. Eppure il caso Italia si può ridurre anche a questo: che esistano ottimi giornalisti e, nonostante ciò, si faccia del pessimo giornalismo culturale. Siccome sono abituato a fare i nomi, ve ne cito qualcuno a caso, di ottimo dico: Mario Baudino della Stampa, Cristina Taglietti del Corriere della Sera, Simonetta Fiori di Repubblica, Roberto Carnero dell’Unità, Mariarosa Mancuso del Foglio, Caterina Soffici del Giornale, Francesca Borrelli del Manifesto, Luca Mastrantonio del Riformista.

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s eg u e a pa gi n a 2 1

Berlusconi e Veltroni ritentano l’accordo sulla legge elettorale europea

E adesso arriva “l’inciucellum” Sbarramento con preferenze finte. L’Udc: «Non ci stiamo» di Marco Palombi

ROMA. «La battaglia per mantenere il

come chiare erano state quelle pronunciate dal segretario del Pd e dagli uomimeccanismo della preferenza in occani a lui più vicini nelle due riunioni del sione delle prossime elezioni europee è di grande importanza per la nostra gruppo parlamentare alla Camera in cui democrazia». Di più: all’errore di aver ci si occupò della questione: niente da privato i cittadini del diritto «di scefare, la riforma proposta dal centrodegliere i propri rappresentanti alla Castra e assai caldeggiata da Silvio Berlumera e al Senato, non se ne può agsconi (soglia di sbarramento al 5% e ligiungere un altro analogo, aggravato ste bloccate) non va bene, è anzi una ulperaltro dalla volontà della maggioteriore ferita inferta al sistema democraranza di introdurre una soglia di sbartico italiano. Si potrebbe aggiungere la ramento tale da impedire a forze radipresenza e la posizione all’iniziativa di Walter Veltroni è stato contestato cate nella società di avere una rappreliberal di Francesco Rutelli («sono qui da molti esponenti del Pd sentanza in sede europea». Queste soperché questa è una battaglia giusta») e per la sua posizione no le parole che Walter Veltroni affidò, di Franco Marini, che si spinse addirittusulla riforma elettorale europea lo scorso 17 ottobre, a una lettera indira a impegnare se stesso a garanzia delrizzata al convegno organizzato dalla Fondazione liberal la serietà di quell’impegno in un confronto col leader delproprio sulla legge elettorale europea: «Una preferenza per l’Udc Pier Ferdinando Casini. se g ue a p a gi na 7 la democrazia» era il titolo. Parole chiare, quelle di Veltroni,

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19.30


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Delusioni. Dietro Malpensa ci sono la gestione dell’Expo e di Mediobanca. E Maroni rilancia la tassa sui permessi di soggiorno

Il Cavaliere alla romana

Un fronte comune fra Lega, Letizia Moratti, Formigoni e Galan Per la prima volta, i leader del Nord si sentono traditi da Berlusconi di Riccardo Paradisi e prime vittime del fronte del nord, su cui si consuma la battaglia interna al centrodestra per riportare l’asse del berlusconismo sopra la linea gotica, potrebbero essere gli immigrati. Nonostante lo stop del governo infatti il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha confermato nel pacchetto sicurezza la tassa di 50 euro sui permessi di soggiorno per gli immigrati. Una prima concessione alle “ragioni” del nord? Fonti interne al centrodestra confermano questa lettura: l’interesse di Berlusconi infatti è in questa fase quello di allentare la tensione del centrodestra settentrionale che giorno dopo giorno, e per motivi diversi, sembra sempre più riottoso e impaziente nei confronti del Cavaliere. Accusato di avere ormai trasferito il suo baricentro politico a Roma e di essere divenuto ostaggio del centralismo di Alleanza nazionale. Una situazione avvertita sempre più concretamente al nord da quando il ministro dell’economia Giulio Tremonti ha smesso di essere il trait d’union politico-geografico tra Ro-

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Tremonti ha smesso di fare il trait d’union tra Roma e il nord da quando ha cominciato a giocare la sua partita in proprio ma e le aree settentrionali del Paese e ha cominciato a giocare la sua partita in proprio e in chiave nazionale. Tanto da preoccuparsi di una banca del meridione e di rassicurare su fondi e finanziamenti le diverse aree d’interesse del centrodestra al sud. D’altra parte quello della tassa sul permesso di soggiorno è un dazio nemmeno troppo doloroso che Berlusconi pagherebbe all’ira del nord, anche se ieri il premier durante uno shopping pomeridiano smentiva il suo placet al provvedimento.

Tanto più che nel centrodestra era stato solo il presidente della Camera Gianfranco Fini a impostare su questo nodo una battaglia di civiltà, in questo non seguito da buona parte dei colonnelli del partito e soprattutto dall’intendenza nordista di Alleanza nazionale. Molto preoccupata dalla spietata concorrenza leghista sui temi più caldi al nord e dai sondaggi che già annunciano un’impennata poderosa del Carroccio rispetto al Pdl. Un dato che sarebbe reso ancora più clamoroso e doloroso dal fatto che per Strasburgo si voterà con le preferenze. Ma il tacito sì alla Lega sarebbe un pannicello caldo rispetto al grave malessere del nord e degli attori politici

La rabbia della città, tra la crisi economica e poche prospettive per il futuro

Poveri noi milanesi, vittime storiche delle nostre rivoluzioni di Giuseppe Baiocchi fuor di dubbio che c’è al Nord qualcuno (e più di uno) che adesso pensa male, o meglio “mal pensa”. Già, perché la soluzione faticosamente trovata per Alitalia, che finisce comunque per sgarrettare Malpensa, ha insieme i connotati della pugnalata alle spalle e della ricorrente, cinica sordità alle attese e alle legittime speranze del Nord. E tuttavia, forse per la prima volta, il brianzolo imprenditore di successo che fa anche il Presidente del Consiglio dell’italiana repubblica, appare lontano, perduto forse per sempre tra le grazie delle ministre e la logica assorbente e tutta romana dell’amministrazione di governo.

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Che il Berlusconi non fosse del tutto insensibile alle seduzioni, agli orpelli, e ai vincoli, insieme soffici e ferrei, del potere dello Stato centrale, è dubbio antico e sempre attuale: e tuttavia, anche al di là degli aeroporti, si sta manifestando una lontananza, che alla fine può spegnere i fuochi di una adesione passionale e consolidata da decenni di trionfi elettorali. La rabbia tecnocratica del sindaco di Milano, lasciata sola dal premier e costretta a trovare sponde non solo nella Lega ma anche nel competitore Formigoni per difendere la prospettiva dell’Expo, ne è un segnale evidente e davvero inedito. Ma sono tutti gli esponenti sul territorio dell’“asse del Nord”a trovarsi a sorpresa con i fianchi scoperti. Il malumore della Lega è evidente: e la sconfitta su Malpensa peserà non poco sul suo ruolo futuro: così pure si trova in difficoltà il presidente della Regione, che come gli altri“governatori“ delle regioni padane, non riesce ad attribuire all’ampio consenso, più volte rinnovato, un peso decisionale determinante e visibile. Persino la sinistra, dopo un ventennio di batoste, confusamente avverte che o fa il “Pd del Nord”attorno agli amministratori e alla difesa dei legittimi interessi oppure si condanna a una estinzione inevitabile. Il panorama politico è in movimento, molto più di quanto si potesse pensare

a neppure un anno dal votoper il Parlamento: e non a caso è il Nord che torna in ebollizione, come in tutte le svolte della storia d’Italia. È al Nord infatti che ha origine il Risorgimento, è al Nord che si manifesta l’involuzione del fascismo, è al Nord che si muove la Resistenza e la democrazia dell’Italia liberata. È intorno al Nord che nascono anche in questi anni le spinte al rinnovamento e alla trasformazione. Ma ogni volta, se la Storia ha un significato, poi è stato lo stesso Nord a ritrovarsi“contro”:“contro”i risultati finali dei processi che aveva per primo innescato e condotto. Ed è forse anche oggi nella medesima condizione. Fino al punto da rinnegare, delusi e disillusi, anche questa rappresentanza politica e istituzionale? È il vero dilemma aperto, con in più un elemento di drammaticità inaspettata. La crisi finanziaria e il gelo economico richiedono alla svelta riformismo in quantità industriale e in tempi ravvicinati: e, forse, il bisogno di uno Stato “amico”, (efficiente, tempestivo, e con la certezza e la rapidità del diritto e della buona amministrazione) è diventato per la prima volta una necessità imprescindibile per affrontare i processi spietati del dopo-globalizzazione.

Su giustizia, investimenti, sicurezza e infrastrutture, il tempo non può più essere una variabile indipendente: è questo il messaggio che il Nord sta lanciando, nell’amarezza di chi non trova più una sensibilità urgente che riteneva naturale e scontata. Questa sembra la sfida di un malessere montante, che la stessa Lega, prigioniera dei suoi limiti culturali, fa fatica ad interpretare e trasferire in atti di governo conseguenti e comprensibili. Tante elezioni sono alle porte: le sorprese non sono escluse, se qualcuno non lascia di fatto orfano il Nord. Poi chissà: magari sulle piste di Malpensa alla lunga pascoleranno greggi di capre, con il segreto compiacimento dei cardinali amici degli imam… E intanto, chissà come mai, il nordico ministro Tremonti, solitamente ciarliero, da tutto questo si sfila…

del centrodestra che giocano lì la loro partita. Certo non cambia la vita del sindaco di Milano Letizia Moratti che in questi giorni continua ad accusare il governo di sottovalutare la grandissima opportunità che costituisce per il Paese l’Expo di Milano del 2015. E in effetti i 2,5 miliardi di euro che deve stanziare il governo sui 4 complessivi per l’intervento su strade, padiglioni e metropolitane previste per l’expo milanese non sono ancora stati sbloccati dal Cipe. Un rinvio eterno legato, a detta di molti, alla definizione delle deleghe dell’amministratore delegato della Soge, la società che dovrà gestire l’evento.

Il sindaco di Milano vorrebbe che al vertice della Soge sedesse Paolo Glisenti a cui il ministero del Tesoro non ha però nessuna intenzione di pagare il milione e 200mila euro che il candidato ha chiesto come stipendio. Tanto che l’assemblea dei soci di Expo 2015 spa, che doveva decidere i compensi per i membri del cda, è stata rinviata a domani su espressa richiesta del rappresentante del ministero del tesoro con la motivazione ufficiale di “approfondire la normativa di riferimento”. Una nuova dilazione che ha ulteriormente innervosito il sindaco Moratti, «furibonda e poco intenzionata a cedere sul compenso al suo pupillo – come si legge in Affariitaliani.it – dando però così il destro alla frangia romana di Forza Italia (vogliosa di silurarla) di tirare la vicenda Expo per le lunghe. Il Tesoro infatti potrebbe chiedere un parere sul compenso degli amministratori delle società pubbliche a un giurista o a un esperto». Berlusconi si è limitato a dare rassicurazioni solo verbali alla Moratti a cui le rassicurazioni però non bastano più. Tanto da fare tutto un conto e alzare le barricate anche su Malpensa, “un’area strategica lasciata a se stessa”, come accusa il sindaco di Milano. Una presa di posizione che consolida un’alleanza già peraltro salda tra la Moratti e Giuseppe Bonomi, presidente di area leghista della Sea, la società in mano al comune che gestisce gli scali di Malpensa e Linate . Ma non è solo la Moratti ad essere nervosa in Lombardia. Anche il governatore Roberto Formigoni – che non dimentica lo sbarramento berlusconiano per impedirgli la discesa a Roma – non ha gradito i movimenti di Denis Verdini per indebolirlo nel partito e nel territorio. La nomina di Giancarlo Abelli, assessore al Pirellone eletto in Parlamento, a numero due di Forza Italia ha indispettito molto Formigoni. Che continua a soffrire nella graticola dell’eterna candidatura ad altri incarichi mai definiti mentre sta consumando la sua terza le-


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Linate verso l’abbandono, come Genova e Verona

Colaninno contro i piccoli aeroporti Sopra, Letizia Moratti. Accanto, il governatore veneto, Giancarlo Galan, e sotto quello lombardo, Roberto Formigoni. In basso, Umberto Bossi. A destra, Roberto Colaninno

di Francesco Pacifico

ROMA. Da azionista forte nella nuova Alitalia, Jean-Cyrill Spinetta ha già dato il primo compito ai soci italiani. «Tutti sanno», ha spiegato ieri mattina il presidente di Air France, «che l’emergenza è dovuta all’esistenza di due aeroporti in Lombardia. Noi abbiamo detto a Cai che spetta a loro la decisione su come riorganizzare questo». E, va da sé, a risolvere il problema.

Roberto Colaninno e Rocco Sabelli non soltanto hanno già chiesto al governo di ridurre l’operatività del Forlanini, ma pretendono anche una sforbiciata ai troppi piccoli scali sul territorio italiano. E a far partire questo processo di riorganizzazione potrebbe essere uno studio sullo “Sviluppo futuro della rete aeroportuale nazionale”, che ieri l’Enac ha affidato a un raggruppamento composto dalla One Works, da Nomisma e da Kpmg. A differenza dei predecessori, il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli non ha mai promesso sfaceli sulla riorganizzazione del sistema aereo. Ma la chiave non può che essere un atto legislativo, visto che è dal decreto Bersani del 2000 che non si interviene sui flussi di voli: cioè il piano nazionale aeroportuale. Al ministero si studiano soprattutto paletti molto rigidi sullo stanziamento dei fondi – che sono nazionali, europei o dell’Enac – destinati agli scali o alle compagnie. Gli stessi che hanno permesso una proliferazione di aeroporti. Perché, ha spiegato in tempi non sospetti Vito Riggio, «in Italia ne abbiamo 14 in cui passa il 90 per cento del traffico, e si trovano quasi tutti al Nord Italia, e 25 dove passa il restante 10 per cento».Va da sé che negli altri 45 scali non passa mai un’anima. L’arma potrebbe essere collegare gli stanziamenti al Pil dell’area di appartenenza, al numero di insediamenti industriali e ai collegamenti naturali. Con l’obiettivo non nascosto di ridurre i fondi per gli scali con meno di due milioni transiti.

Per l’Alitalia dei capitani coraggiosi l’aggressività di piccoli aeroporti – impareggiabili nell’attirare vettori lowcost – è un problema identico alla crescita esponenziale di Linate. Il quale, nonostante il tetto ai voli, è arrivato nel 2008 a far transitare quasi 10 milioni di passeggeri. E se una metà è un habitué della navetta verso Fiumicino, una buona fetta si dirige a Monaco o a Londra e da qui prosegue per destinazioni intercontinentali. Chiaramente su aeromobili Lufthansa o British. I soci di Cai guadagneranno prevalentemente dal traffico su PArigi ceduto in code sharing ad Air France. Va da sé che questo stato di cose è inaccettabile. E due sono le strade che hanno davanti: un’aggressiva politica commerciale oppure un intervento legislativo che finisca per ridurre l’offerta. Soluzioni a dir poco complesse. Soprattutto l’intervento legislativo finisce per scontrarsi con le ambizioni e i progetti degli enti locali e il business delle compagnie. Se i primi possono far pesare i consensi elettorali, le altre possono fare ricorso alla Corte europea, che, come dimostra il caso dello scalo di Charleroi, non sempre considera gli incentivi dati dalle società di gestioni o dagli enti aiuti contrari alla concorrenza.

L’obiettivo di Cai è spingere Matteoli a ridurre l’operatività degli scali minori che arricchiscono sia i concorrenti stranieri sia i vettori low cost

gislatura alla guida della Regione Lombardia. Una posizione da cui Formigoni, in virtù del titolo V, avrebbe il potere di controllare la gestione per le opere pubbliche dell’expo 2015. Un potere che Formigoni non potrà però esercitare per il filtro della società di gestione sul cui fronte di conquista stanno disputando la loro partita Tremonti e la Moratti. Ma se il centrodestra del nord-ovest è arrabbiato quello del nord-est non è certo sereno.

E basta prestare orecchio alle dichiarazioni del presidente del Veneto Giancarlo Galan per capire che si tratta di dichiarazioni di guerra. «Mi sono trovato in un certo imbarazzo – dice Galan – di fronte a decine e decine di amministratori, sia comunali che provinciali, dopo aver appreso la notizia che nel corso del dibattito parlamentare sui provvedimenti anticrisi è passata la proposta di sospendere il rispetto del patto di stabilità da parte del Comune di Roma». Galan parla di privilegi per la capitale, concessi per consentire al Comune di Roma di realizzare «non so quale parte

della metropolitana. Potrei elencare non meno di un centinaio di comuni del Veneto che con una sospensione di due anni del patto di stabilità sarebbero in grado di realizzare – davvero, in tempi certi e assoluta trasparenza – opere indispensabili per adeguare e migliorare infrastrutture che aiuterebbero ad assicurare lo sviluppo economico di una Regione che è locomotiva dello sviluppo dell’intero Paese. Malgrado questo non ci non danno nemmeno i fondi per un’opera fondamentale come la Tav fra Verona e Trieste». I bene informati sostengono che nelle parole di Galan ci siano anche messaggi espliciti ai ministri veneti Renato Brunetta e Maurizio Sacconi, che non sono suoi amici, e che nel nordest sono ormai visti come personaggi inseriti a pieno titolo nel cotè politico romano. Se a questo si aggiunge che ormai nelle regioni settentrionali si mormora sempre più forte che arrivavano più soldi quando al ministero delle infrastrutture c’era Antonio Di Pietro si capisce quanto sia acuto il mal di nord che attraversa anche il centrodestra.

Nota al riguardo Pier Luigi Di Palma, ex presidente dell’Enac e alla guida del centro studi Demetra: «Le richieste di Sabelli o Spinetta su Linate contrastano con quanto avvenuto negli ultimi anni. Quando si provò a tenere soltanto la navetta verso Roma, fu l’Unione europea a bloccare la cosa». Forte di questo precedente, il governatore lombardo ha già convocato al Pirellone i vertici di Cai. E se non ci saranno garanzie su nuovi voli da e per Malpensa, ha già promesso di voler «liberalizzare anche le rotte nazionali». Minacciando il ricco monopolio sulla Linate-Fiumicino.


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Risse. Il governo chiede alla Camera di approvare il decreto anticrisi senza discutere. E alla fine il presidente sbotta: «Adesso basta!»

La terza carica di Fini Ennesima, clamorosa protesta per i voti di fiducia «Non scaricate sul Parlamento i vostri problemi» di Errico Novi

ROMA. La scatto migliore è quello che ritrae il vicecapogruppo dell’Idv Antonio Borghesi mentre ringrazia Gianfranco Fini. «Stavo per invitarla a difendere le prerogative del Parlamento, vedo che lo ha fatto lei e la ringrazio». Più confusa di così la scena non potrebbe presentarsi. Anche se una cosa è sempre più chiara: il presidente della Camera non appartiene più a questa maggioranza, non ne condivide lo spirito, la filosofia che ne ispira il rapporto con il Parlamento. Capita così che il ministro Elio Vito annunci subito dopo pranzo la decisione di porre la fiducia sul decreto anti-crisi, e che il numero uno dell’assemblea di Montecitorio ne contesti contesti con toni duri le motivazioni addotte. «Ci sono misure urgenti che hanno bisogno di entrare presto in vigore, d’altronde le commissioni hanno votato tutti gli emendamenti presentati da maggioranza e opposizione», spiega il responsabile dei Rapporti con il Parlamento, «ed è proprio sul testo licenziato dalle commissioni che il governo pone la fiducia, riconoscendo la centralità del Parlamento». A un Fini generalmente iper controllato salta letteralmente la mosca al naso. «Le motivazioni del governo attengono al dibattito politico, nessuno può prendersi la responsabilità di dire quanto pronunciato dal rappresentante del governo». Cioè da Vito. «La centralità del Parlamento non si può liquidare con un omaggio al lavoro delle commissioni salvo poi porre la questione di fiducia e impedire ai deputati di votare gli emendamenti». Apriti cielo. Rispondono subito, in Aula, Fabrizio Cicchitto e Roberto Cota, capogruppo leghista che contesta Fini per essere «entrato nel merito» di alcune proposte (come quella della tassa da 50 euro sul permesso di soggiorno) e nello stesso tempo dice che «la Lega continuerà a battersi per le proprie idee, che sono condivise dalla gente, caro presidente». E già il vocativo messo alla fine del discorso la dice lunga

sulla organicità dell’ormai ex leader di An alla coalizione di governo.

Come da copione arriva nel giro di pochi minuti la risposta del premier. I cronisti lo fermano davanti a un negozio del

Ecco i punti del provvedimento Il decreto anticrisi, entrato in vigore il 29 novembre 2008, è costituito da 36 articoli. Il provvedimento, decreto legge n. 185, contiene un pacchetto di misure per famiglie e imprese. I sette strumenti contenuti nel dl sono: detassazione, trasferimenti netti, risparmi, finanziamenti, garanzie, investimenti e accelerazione di alcuni tipi di investimenti. Arriva il bonus per pensionati e bimbi fino a 3 anni, con una dote più elevata e un tetto reddituale superiore se c’è un disabile. C’è un Fondo per il credito dei nuovi nati: la dotazione del Fondo è di 25 milioni di euro per ogni anno nel triennio 2009 - 2011. Lo scopo del fondo è quello di rilasciare garanzie dirette, anche fideiussorie, alle banche e agli intermediari finanziari. Arrivano novità per i mutui vecchi e nuovi. Per le imprese è giunto sul filo di lana, provocando un notevole lavoro di riconteggio ai professionisti, il via libera a un taglio di 3 punti all’acconto Ires e Irap. L’Iva, poi, si pagherà al momento dell’incasso e non più all’emissione della fattura, ma con precisi paletti. Viene prorogata per il 2009 la detassazione dei premi, ma non quella degli straordinari. Ci sono una serie di novità che riguardano l’accertamento e la riscossione, e la stangata sulle tv satellitari.

centro per chiedergli della fiducia, lui risponde: «Abbiamo fatto una valutazione, era indispensabile». Quindi lo invitano a commentare le bacchettate inflitte da Fini a Elio Vito: Silvio Berlusconi porta la mano davanti alla bocca come a dire: non fatemi parlare. Chissà cosa ne verrebbe fuori, se invece il capo del governo traducesse il pensiero in parole. Sta di fatto che il conflitto a distanza continua, seppure nella singolare forma del non detto. È una fonte vicina al presidente della Camera a riferire la controreplica: «L’apposizione della questione di fiducia sul decreto legge anticrisi era indispensabile, come rilevato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ma per problemi connessi al dibattito interno della maggioranza e non per le motivazioni addotte dal ministro Elio Vito».

È il punto di tensione più alto nel non facile rapporto tra la maggioranza e una figura che fino a pochi mesi ne era considerato un leader. Dietro le obiezioni di principio mosse da Fini non c’è solo il disappunto per la fragilità del discorso di Vito, ma il dissenso rispetto a una più generale impostazione dei rapporti politici all’interno della

Qui accanto, il presidente della Camera Gianfranco Fini che ieri si è scagliato contro il premier Berlusconi (nella foto sotto). Nella pagina a fianco, il sindaco di Venezia Massimo Cacciari

coalizione e in particolare nel Pdl. È la decisione dall’alto come costante fisiologica a suscitare il disappunto del presidente della Camera, lo stesso metodo che, proiettato sul partito unico, Fini definisce “cesarismo”. È la semplificazione estrema a non piacergli. Ma allora viene da chiedersi cosa potrà mai dire il leader di una destra in apparente dissoluzione al congresso fondativo del Pdl. Come farà a celebrarne la nascita se non ne condivide i presupposti. Proverà probabilmente a interpretare il ruolo di oppositore interno, di coscienza critica. Sarà però criticabile anche in questa versione, dal momento che proprio il congresso di scioglimento di An, previsto appena una settimana prima, darà un esplicito imprimatur a tutta la costruzione.

evidentemente. Il processo invece è andato avanti, anche con il consenso di Alleanza nazionale. Non si può dire sia casuale la presa di posizione con cui Maurizio Gasparri ha minimizzato ieri lo scontro tra Fini e il governo e ha dato tutta la colpa alla mancata modifica dei regolamenti parlamentari, che allo stato non consentono alla maggioranza di realizzare il programma. D’altra parte il distacco di un settore ampio di An dalle posizioni del capo non può compensare del tutto i reali squilibri che ci sono nella maggioranza, contro i quali Fini punta l’indice con un certo sadismo. La Lega ha preteso che la tassa sul permesso di soggiorno fosse inserita nel ddl sicurezza e elevata a 200 euro. La cambiale potrà essere riscossa a inizio febbraio. Fino a ieri sera invece non c’era certezza della posizione del Mpa di raffaele Lombardo, che ha dichiarato non ritirabili i propri 48 emendamenti e che si è quindi riservata di non votare la fiducia. Senza contare che altri

La reprimenda scatta quando Vito presenta la scelta come un omaggio al lavoro dell’Aula. Berlusconi si tappa la bocca davanti ai cronisti

Bisognava pensarci prima,


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Per Massimo Cacciari, Berlusconi non si farà intimidire

«Ma il Cavaliere non gioca da solo» colloquio con Massimo Cacciari di Irene Trentin

MILANO. Vede anche il Nordest penalizza- Le pare possibile che chi ha subito ripercusto dalla strada che è stata scelta dalla nuova compagnia di bandiera, anche se Massimo Cacciari ritiene «scontato» da tempo l’esito delle trattative tra Alitalia e Air France. A pagarne le conseguenze saranno, quindi, anche gli scali degli altri aeroporti del Nord, tra cui il “Marco Polo” di Venezia, la città che amministra da quasi quattro anni, che subirà, ne è convinto, una drastica riduzione dei collegamenti. Ma allora, è il suo ragionamento, tanto valeva perseguire la strada scelta dal governo Prodi, che portava nella stessa direzione, ma con oneri molto minori per i cittadini. Così la “locomotiva” economica del Paese si ritrova ulteriormente penalizzata. E, da uomo simbolo del Pd del Nordest, in prima linea per la difesa della questione settentrionale, denuncia anche le promesse della Lega, che si sono rivelate «solo chiacchiere». Dica la verità sindaco, si aspettava un risultato diverso? Macché, era già stato tutto previsto. Che dire, un’operazione brillante, ma non in senso ironico. Berlusconi è stato spregiudicato: aveva tutto l’interesse di aprire una crisi nel governo Prodi e far fallire la trattativa in corso con Air France per poi tornare sui propri passi, al punto di partenza, a danno dei cittadini, visto che ora il debito, rispetto alla soluzione del governo Prodi, è tutto a loro carico. Non c’erano margini per altre trattative? Era evidente fin da subito che l’offerta di Air France era l’unica vantaggiosa e possibile. Bisognava chiuderla lì. E invece non è stato così… Ha prevalso la solita politica dell’ostruzionismo che non tiene conto del bene per il Paese. Sarà danneggiato anche l’aeroporto Marco Polo di Venezia… Altro che, è già stato danneggiato. I cittadini erano anche disposti a un piccolo sacrificio, ma che fosse distribuito su tutto il territorio.

sioni maggiori sono i dipendenti Alitalia del Nord, dove c’è il motore dell’economia, rispetto a quelli di Bari o Palermo? Le critiche di Gianfranco Fini sulla fiducia al pacchetto anticrisi, gli strali di Umberto Bossi su Malpensa, e ora ci si mette pure Letizia Moratti… Silvio Berlusconi non rischia l’isolamento? Non credo proprio, Berlusconi continua tranquillamente a dormire sonni tranquilli tra dieci guanciali, non è certo tipo da lasciarsi intimorire. Ma la questione settentrionale è una patata bollente… La vera questione è che con la sinistra o con la destra non è cambiato niente, le amministrazioni locali sono penalizzate, un sindaco non ha le risorse e le condizioni per poter amministrare. E questo, sia chiaro, diventa il momento della verità anche per la Lega: tante promesse, federalismo fiscale, sicurezza, ma alla fine sono ancora chiacchiere. Tante promesse e nessuno che vada a verificare i trasferimenti… Il governo Prodi non è caduto anche su questo, per non essere riuscito a intercettare il malcontento diffuso del Nord? Il governo Prodi è caduto per problemi interni, è stata un’implosione. Teme che l’Expo 2015 possa rimanere un grosso affare solo lombardo? Ho scritto io stesso al sindaco Moratti per evitare questa follia: il Nordest conosce un grande flusso turistico, per questo occorrono risorse adeguate da gestire insieme. La Moratti ha dimostrato di aver capito e ha accolto il mio invito, anche se siamo ancora in fase interlocutoria. Il problema delle infrastrutture rimane un grosso nodo per il Nordest… Se non arriveranno entro breve risorse per far fronte a questo problema, il Nordest finirà con lo scoppiare. E sarà un disastro per tutti.

La vera questione è che con la sinistra o la destra non è cambiato niente, le amministrazioni locali sono penalizzate, un sindaco non ha risorse e condizioni per governare

passaggi del decreto anticrisi suscitano perplessità trasversali a tutta la maggioranza: dal bonus familiare che rischia di essere fruibile più per le coppie di fatto che per quelle sposate alla stessa tassa sugli immigrati, gradita a buona parte degli esponenti settentrionali di An. La Lega avrebbe voluto a sua volta rendere ancora più stringenti le norme che limitano l’acquisizione di aziende italiane da parte di gruppi stranieri.

Le crepe dunque ci sono, vengono assai ben celate dal ricorso alla fiducia, che però è ormai un riflesso condizionato del governo e della maggioranza: alla prima difficoltà vi si fa ricorso, con molta superficialità e sufficienza nei confronti del Parlamento. Dall’opposizione arrivano anche per questo consensi alle parole di Fini. Pier Ferdinando Casini nota

che il presidente della Camera «ha detto cose ineccepibili: le divisioni della maggioranza hanno portato a porre la fiducia e, almeno per una volta, non si dirà che sparita l’Udc sono spariti i problemi. È sparita l’Udc, ma i problemi si sono amplificati e questa maggioranza è divisa su tutto». Antonio Di Pietro tiene sempre alto il tono della polemica e dà a Fini del Ponzio Pilato, Pd, Udc e Idv chiedono e ottengono quanto meno di far esporre gli emendamenti ai relatori, secondo la prassi instaurata da Nilde Jotti. Il responsabile Economia dell’Udc Galletti racconta dei mugugni leghisti che appunto non riguardano solo la tassa sugli immigrati. Resta il fatto che il metodo nella maggioranza è sempre lo stesso, con poche varianti. E che forse Fini non fa più in tempo a imporre una rotta diversa.


economia

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Recessione. I dati sull’andamento del debito pubblico indicano un nuovo record: meno 1.670 milioni di euro

La crisi? Forse non è così grave di Gianfranco Polillo rimi segnali di crisi che colpiscono il nervo scoperto dell’economia italiana. I dati sull’andamento del debito pubblico, resi noti da Bankitalia, indicano un nuovo record negativo: 1.670 milioni di euro e qualche spicciolo. E c’è anche chi si è divertito a calcolarne la quota pro–capite: 80mila euro sulle spalle di ciascuno di noi, che prima o poi dovremo pagare, attraverso le imposte o una riduzione dei servizi forniti dalla Pubblica amministrazione. Soluzione, quest’ultima, decisamente preferibile se si considerano i bassi livelli di efficienze che, in genere, li caratterizza. Ma non è detto che a un taglio della spesa pubblica debba necessariamente corrispondere una riduzione delle prestazioni meno appetibili. Nella storia è stato più vero il contrario. Almeno fin quando rimarranno in vita procedure di bilancio degne del secolo scorso. Ma mentre sfogliamo la margherita, la situazione peggiora. Si tratta di un semplice temporale

P

titoli. Il peggioramento era previsto da tempo. Padoa Schioppa, prima di lasciare via XX Settembre, aveva indicato una voragine di oltre 46 miliardi di euro: in forte aumento rispetto all’anno precedente, che si era chiuso con un esborso di poco superiore agli 11 miliardi. A dicembre dovremo, invece, portare l’asticella oltre i 52 miliardi di euro. Colpa di Giulio Tremonti? Sarebbe ingeneroso. Rispetto alla previsione originaria, effettuata quando l’economia internazionale non mostrava segni di inquietiudine, il peggioramento è modesto: non più di 6 miliardi. A Tremonti va quindi riconosciuto il merito di aver mantenuta dritta la barra. Di non aver ceduto alle lusinghe del “partito della spesa”e di aver salvato, nonostante le difficoltà, gli equilibri della finanza pubblica italiana.

Eppure, nonostante ciò, le cose, su quel fronte, non vanno bene, come indicano i dati che abbiamo citato. Il fatto è che a deprimere le aspettativa sulle sor-

ti dell’economia italiana, contribuiscono soprattutto i comportamenti degli altri Paesi. Nell’asta di ieri, i Bot a breve scadenza sono andati a ruba. Banche, investitori istituzionali, semplici privati hanno comprato a man bassa. Di conseguenza i rendimenti sono diminuiti, toccando il punto più basso dal luglio 2003. Si è investito per ricavare un modesto 1,6 per cento annuo, che non copre nemmeno il tasso di inflazione. Il Tesoro ha quindi risparmiato qualche euro, alleggerendosi dalla pressione della spesa per gli interessi. Si tratta di un fatto isolato o di qualcosa di più consistente? Purtroppo è la prima risposta quella che conta. L’Italia è andata bene, perché gli altri sono andati male. Male è andata la Spagna, la Grecia e l’Irlanda, colpite al cuore da un abbassamento del rating da parte di S&P. Era quindi inevitabile che l’eccesso di liquidità, alimentato dalle politica espansiva della Bce, rifluisse a nostro favore. Ma que-

sti rendimenti eccezionalmente bassi sono anche il sintomo di un’astenia.

Le banche e gli investitori istituzionali comprano titoli del debito pubblico perché non trovano altri impieghi. Perché le aziende non investono e quindi non domandano credito. Intendendo per credito quello richiesto da debitori solvibili. Se si guarda a un orizzonte temporale più vasto, inoltre, lo scenario cambia rapidamente. I rendimenti richiesti per titoli a lunga scadenza sono decisamente superiori a quelli tedeschi. Anche in questo caso il ventaglio è ampio. La maglia nera spetta alla Grecia e quindi all’Irlanda. Per l’Italia invece il differenziale oscilla tra 1,6 e l’1,4 per cento in più a seconda delle scadenze: 30 o 10 anni. Che significano queste cifre? Che gli investitori, valutato il rischio, vogliono essere tutelati. Non scommettono sul nostro Paese come scommettono sulla Germania. Esigono pertanto

qualcosa in più per finanziare a lungo termine un economia che certo non brilla. Ma è proprio così? I dati dell’economia reale sono ancora confortanti. Le esportazioni, nonostante tutto, tirano ancora, come mostrano i dati fino allo scorso ottobre. Allora la bilancia commerciale era leggermente peggiorata, con uno scarto di appena 2 miliardi nei confronti del corrispondente periodo dell’anno precedente. Un’inezia se si considera l’andamento del prezzo del petrolio. Nel 2008 le importazioni di greggio sono costate circa il 60 per cento in più, rispetto all’anno precedente. Ebbene, nonostante questo salasso le aziende sono riuscite a collocare i loro prodotti sui mercati internazionali. Lo hanno potuto fare grazie al completamento dei processi di riconversione produttiva portati a termine negli anni precedenti, che hanno dato maggiore competitività alla nostra economia. La fase più difficile si manifesterà, invece, nei prossimi mesi, quando la caduta

La fase più difficile si manifesterà nei prossimi mesi, quando la caduta del ritmo di sviluppo del commercio mondiale avrà conseguenze negative sul fatturato

invernale, in un inverno che così brutto non si ricordava da tempo? Oppure di un anticipo della tempesta che colpirà in primavera? Quello, secondo i più, sarà il momento culminante della crisi. Non resta, quindi, che aspettare, incrociando le dita. Ancora oggi domina l’incertezza. È il doppio volto di una crisi che da un lato – l’economia finanziaria – segna un brusco peggioramento. Dall’altro – l’economia reale – una capacità di tenuta sorprendente. Come spiegare questo paradosso? La crescita del debito pubblico, in valore assoluto, era scontata. Nel mese di ottobre il fabbisogno dello Stato era aumentato, rispetto allo scorso anno, di circa 15 miliardi di euro, costringendo il Tesoro a generose emissioni di

In tutta Europa peggiorano le previsioni sulla situazione economica

Crolla la fiducia dei consumatori ROMA. Crolla la fiducia in Europa a dicembre. L’indice dei consumatori, calcolato dall’Isae, è sceso il mese scorso da -25 a -30, il minimo mai registrato dal 1985, anno di inizio della serie storica di riferimento: peggiorano le previsioni sulla situazione economica generale e aumentano fortemente le preoccupazioni circa l’occupazione. L’indice continua a calare in Germania, Francia e Spagna.Al di fuori dell’area euro, la fiducia si deteriora anche nel Regno Unito. La fiducia delle imprese manifatturiere nell’area euro si attesta a -33 da-25 dello scorso mese, segnando anche in questo caso un record negativo dal 1985. Il peggioramento è diffuso ovunque, pur essendo particolarmente sensibile in Germania, Spagna e

Francia. Al di fuori dell’area euro, la fiducia migliora, seppur lievemente, nel Regno Unito. Indicazioni in parte divergenti sull’andamento della fiducia dei consumatori emergono invece negli Stati Uniti. L’indice elaborato dal Conference Board subisce un nuovo sensibile calo e si riporta al minimo storico registrato ad ottobre (a 38 da 44,7). Peggiorano sia il sottoindice sulla situazione corrente (a 29,4 da 42,3) sia quello sulle aspettative ( a 43,8 da 46,2). L’indicatore elaborato dall’Universita’ del Michigan per le imprese risale invece a 60,1 (da 55,3). Migliora il sottoindice che raccoglie i giudizi sulla situazione presente (a 69,5 da 57,5), mentre è quasi stabile quello sulla situazione futura (a 54 da 53,9).

del ritmo di sviluppo del commercio mondiale – ed in particolare della Germania – non potrà non avere conseguenze negative su fatturato ed ordini. Allora la crisi morderà, trasformandosi in una brutta recessione. Niente di drammatico – almeno così speriamo – visto che, sia nel 1983 che nel 1992, si è verificata più o meno la stessa cosa e da quella fossa siamo comunque riemersi. Ma ci vorrà sangue freddo e grande determinazione per non aggravare la situazione con decisioni avventate. Mai come ora la politica economica – che non è altro che la variante più importante della politica tout court – risulterà determinante. Speriamo che questa consapevolezza possa illuminare l’azione di tutti.


politica

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Blitz. Il Cavaliere e Veltroni trattano una nuova legge elettorale europea segue dalla prima E allora, si domandano oggi molti deputati del Pd, chi ha dato mandato al vice segretario Enrico Franceschini di trattare col Pdl una riforma della legge elettorale che prevede una soglia di sbarramento alta e la sostanziale abolizione delle preferenze?

Il numero due del Partito democratico, infatti, già da settimane ha riannodato le fila di un discorso bruscamente interrotto in estate. Ci si riferisce a quei tempi che sul Foglio chiamavano del CaW, quando Berlusconi e Veltroni avevano stabilito una serie di accordi di collaborazione a partire proprio dalla legge elettorale europea e dal sempre rinnovando consiglio d’amministrazione della Rai. Tempi finiti molto presto, assassinati dallo strapotere postelettorale di Berlusconi, e chissà se mai esistiti del tutto. Fatto sta che una legge elettorale che consegni ancor più potere alle segreterie e, allo stesso tempo, dissolva gli incubi che agitano i due partiti-monstre (la persistenza in vita dell’Udc per il Popolo della libertà e il ritorno della sinistra radicale per il Pd) deve essere una tentazione troppo forte. E quindi Franceschini, in barba alle posizioni pubbliche del partito, ha ricevuto mandato da Veltroni a trattare con esponenti di rilievo della maggioranza e del governo. Il presidente del Consiglio d’altra parte, raccontano fonti di palazzo Chigi, era stato cristallino in un messaggio inviato al leader del Pd: a me la legge per le europee va bene anche così com’è, se adesso volete una nuova legge elettorale siete voi a dover fare il primo passo. A Canossa, alla fine, ci è andato Enrico Franceschini e l’accordo che ne è uscito è un capolavoro di bizantinismo: soglia abbassata al 4% e preferenze non abolite ma quasi (la scelta dell’elettore conta solo se si supera una certa percentuale dei voti complessivi di lista). «Se questo (Franceschini, ndr) va avanti ancora, alla prossima riunione del gruppo gli facciamo un mazzo così». Non elegantissima, ma col pregio della chiarezza l’intenzione che un parlamentare democratico proveniente dal Ppi affidava ieri alle orecchie di un collega durante una conversazione alla buvette. Arturo Parisi ricordava, invece, come il capogruppo Antonello Soro avesse recentemente smentito, in una conversazione privata, ogni trattativa col centrodestra su questo tema: «Vorrei che gli attuali dirigenti del partito – spiegava il leader ulivista - avvertiti della gravità di una siffatta iniziativa, trovassero il modo di smentirla nel modo più deciso”. Insomma, solo l’accenno ad una soluzione di questo genere ha già scatenato

Preferenze finte per “l’inciucellum” di Marco Palombi tizione dei resti – che penalizzi ulteriormente i partiti più piccoli. Francesco Storace, che non ama le espressioni sfumate, ieri parlava di «colpo alla democrazia», col quale «si vuole impedire l’espressione della rappresentanza nazionale in Europa, si vogliono soffocare le libertà di espressione e il pluralismo politico». Duro anche Claudio Fava, ex Ds oggi segretario di Sinistra democratica: «Un furto premeditato di democrazia per evitare che il voto a sinistra sveli definitivamente la debolezza del Pd e il fallimento del suo progetto politico».

L’accordo prevede anche lo sbarramento al 4%. L’Udc protesta per il meccanismo assurdo che stravolge le regole. Ma c’è aria di rivolta anche nel Pd: teme di rimanere il solo a volere la riforma una levata di scudi all’interno del Pd e tra i partiti contrari alla riforma. L’Udc ad esempio, che ieri ha tenuto una riunione sul tema, ha dato il suo via libera allo sbarramento al 4%, ma conti-

nua a ritenere la difesa delle preferenze una questione di principio e coltiva anche il timore che, tra le pieghe della nuova legge, venga infilato qualche codicillo – ad esempio sulla ripar-

Come al solito, in questi casi, siamo di fronte a un accordo di cui nessuno vuole assumersi la paternità. Se i dirigenti del Pd si nascondono temendo la rivolta interna e una figuraccia pubblica, pare che Silvio Berlusconi non sia proprio convinto dell’accordo trovato dagli sherpa: un po’perché non è la legge“monarchica” che immaginava lui, un po’ perché il premier è convinto che Veltroni non sia abbastanza forte da garantire un accordo. «Mah, so che c’erano stati dei discorsi, ma non credo che siano andati avanti», minizzavano ieri funzionari di solito ben informati di palazzo Chigi. «È ancora tutto per aria, non so più che dire», ammetteva invece un parlamentare che ha seguito da vicino la trattativa. A questo punto la domanda comincia a circolare: non è che Berlusconi sta per lasciare il cerino acceso in mano a Veltroni per l’ennesima volta?

Rabbini all’attacco: il Papa è contro il dialogo enedetto XVI non vuole il dialogo con l’ebraismo, cancella gli ultimi 50 anni di progressi fatti dalla Chiesa cattolica in materia e non ha interesse a cambiare la situazione. A lanciare queste accuse è Elia Enrico Ricetti, rabbino capo diVenezia, che «in nome del Rabbinato d’Italia» spiega le motivazioni che hanno spinto la comunità ebraica a non partecipare alla prossima Giornata dell’ebraismo, prevista come ogni anno per il 17 gennaio. Si tratta di un attacco pesantissimo, che viene per di più dalle pagine di una rivista amica: Popoli, rivista della Compagnia di Gesù. Sulla rivista, che apre l’intervento con l’invito ad ascoltare le ragioni di tutti, si legge: «Il dialogo ebraico-cristiano è inutile perché, secondo Benedetto XVI, in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana». In tal modo, aggiunge, «si va verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa». Insomma,

B

sostiene, «in quest’ottica l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità». Il Papa, appunto, che ha la grave colpa di aver sdoganato il ritorno della messa in latino secondo il messale di San Pio V. Un rito nel quale si invoca la conversione degli ebrei alla verità con una preghiera che, in passato, aveva peraltro una formulazione ingiuriosa e parlava dei “perfidi giudei”, poi modificata dall’attuale pontefice. «In quella formulazione - scrive il rabbino Ricetti - nelle preghiere del Venerdì Santo è contenuta una preghiera che auspica la conversione degli ebrei alla verità della Chiesa e alla fede nel ruolo salvifico di Gesù». Inoltre, aggiunge, «si sono registrate reazioni offese da parte di alte gerarchie vaticane: “Come si permettono gli ebrei di giudicare in che modo un cristiano deve pregare?”».

in breve Il Dalai Lama cittadino onorario di Roma Il 9 febbraio il Dalai Lama sarà a Roma, nella prima tappa del suo viaggio in Europa, per ricevere la cittadinanza onoraria. A settembre, infatti, il Consiglio comunale aveva approvato a stragrande maggioranza una mozione per il conferimento della cittadinanza onoraria a Tenzin Gyasto XIV Dalai Lama, visti «il suo impegno internazionale per trovare una soluzione pacifica per il Tibet e per aver diffuso il principio della riaffermazione dei diritti umani e della pacificazione fra i popoli».

Scambio Rai-Sky per le Olimpiadi La Rai e Sky hanno siglato un accordo per ridefinire le dirette tv dei grandi eventi sportivi. La Rai riconquista le dirette in chiaro delle Olimpiadi di Londra e di Vancouver, mentre Sky (in base all’accordo approvato dalla Fifa), potrà trasmettere tutte le gare dei campionati mondiali di calcio che si svolgeranno in Sudafrica 2010 e in Brasile 2014: la Rai invece avrà un tetto a manifestazione di 25 incontri su 64: in pratica come era già successo per i mondiali che si sono svolti in Austria e in Germania nel 2006; quelli vinti dall’Italia di Marcello Lippi contro la Francia.

Annullato il 41 bis al boss Ganci I giudici del tribunale di sorveglianza di Roma hanno annullato il 41 bis, il regime di carcere duro, al boss stragista Mimmo Ganci. Il mafioso palermitano è detenuto nel carcere romano di Rebibbia per scontare diverse condanne all’ergastolo, molte delle quali definitive, per la strage di Capaci del 1992 e oltre quaranta delitti compiuti in Sicilia. I difensori del sicario nei mesi scorsi avevano chiesto al tribunale di sorveglianza di annullargli il carcere duro, richiesta poi accolta dal tribunale. Domenico Ganci, detto Mimmo, è accusato di essere uno dei più pericolosi sicari di Cosa nostra; è figlio di Raffaele Ganci, stretto alleato di Totò Riina, ed è detenuto dal giugno 1993.


politica

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Revival. Dall’Africa alla nostalgia dei vecchi compagni. Che ricordano soprattutto le due vittorie su Berlusconi

Il richiamo di Prodi Pronta una candidatura alle Europee «Ma solo se me lo chiede Veltroni» di Francesco Capozza

ROMA. Prodi ritorna, “sta’ casa aspetta te”. Questo sarebbe il leit motiv che serpeggia insistentemente all’interno del Partito Democratico negli ultimi giorni. Una nostalgia del professore bolognese che a qualcuno pare un dejàvu noioso e superato, ma per qualcun altro -e non sono, come si potrebbe immaginare, solo i cosiddetti prodianisembra essere l’unica chiave di volta per poter immaginare un

hanno chi varcato la soglia dell’abitazione bolognese dei coniugi Prodi, chi telefonato e, con la scusa degli auguri natalizi, hanno fatto con l’ex presidente del Consiglio il punto della situazione politica attuale.

Nei numerosi colloqui, raccontano che Romano Prodi avrebbe ascoltato per lo più lo stesso identico messaggio: «senza di te non si vince, ripensaci, sei l’uni-

I democratici preparano una strategia di rientro: ma per una personalità di così alto profilo internazionale, serve un incarico di prestigio. E c’è chi pensa alla presidenza dell’europarlamento centrosinistra nuovamente vincente. Sarà una coincidenza, ma più il Pd cala nei sondaggi e attraversa crisi interne e più si intensificano i “pellegrinaggi” verso Bologna, dove l’ex premier è stabile da poco prima di Natale (e dove una fastidiosa influenza l’ha costretto a rimanere, cancellando ogni possibile gita fuori porta). In questo periodo tutti i “big” del partito del Nazareno, eccezion fatta, ovviamente, per il segretario Walter Veltroni,

co leader in grado di ricompattare il centrosinistra». Il professore non avrebbe fatto altro che prendere atto delle istanze dei suoi numerosi interlocutori, senza però sciogliere nessuna riserva. Tuttavia, chi gli è abbastanza vicino per testarne gli umori, riferisce che sarebbe uscito dall’influenza particolarmente sorridente, quasi soddisfatto che il progetto veltroniano sia fallito pienamente e che alla fine, a forza di cambiare ca-

vallo, l’ex centrosinistra si sia reso conto che l’unica persona in grado di battere il Cavaliere sia lui. Certamente, e chi conosce bene l’ex premier non si fa illusioni su questo, Prodi non pensa minimamente all’ipotesi di riprendersi la leadership del centrosinistra. Il governo Berlusconi, nonostante le contraddizioni e i mal di pancia interni, è saldamente in sella e Prodi è ben consapevole che fino al 2013 non se ne parla nemmeno di pensare ad elezioni. Allora il professore avrà 74 anni ed è ben consapevole dell’impossibilità anagrafica di poter concorrere nuovamente alla carica di premier. In più, l’ultima esperienza a Palazzo Chigi, e questo non è un segreto per nessuno, gli è rimasta talmente indigesta che né lui, né sua moglie Flavia (che sul professore ha sempre avuto un forte ascendente) pensano nemmeno lontanamente di provare a tornarci. Allora? Quale sarebbe il motivo del pressing su di lui? Perché tutta questa mobilitazione verso la patria dei tortellini? Innanzi tutto i prodiani sono rimasti entusiasti del sondaggio commissionato da un quotidiano spagnolo (ma svolto

su un campione di 1800 cittadini italiani) che vede ancora Prodi in vetta alla classifica dei politici di centrosinistra più affidabili ed amati.

Arturo Parisi, l’inseparabile Sandra Zampa e l’ex collaboratore a Bruxelles Sandro Gozi, che a Bologna vanno con cadenza settimanale, hanno voluto sottoporre questa rilevazione spagnola all’umore dell’ex premier il quale, racconta una nostra fonte, sarebbe rimasto colpito e soddisfatto dal risultato emerso. Questo, però, non basta a convincerlo a tornare in prima linea, ormai si sente fuori dalla politica nazionale. L’unico spiraglio, a sentire un fedelissimo,

sarebbe una candidatura alle prossime Europee. Ovviamente non come semplice candidato ma, e sembra altrettanto scontato, solo ed esclusivamente come capolista. C’è di più. Raccontano che Prodi abbia posto come condizione per accettare una richiesta del genere, che essa sia unanime e condivisa da tutto il Pd, veltroniani compresi. Non solo. Una candidatura alle Europee, benché come capolista, sarebbe troppo poco per chi, come lui, è stato due volte capo del governo e presidente della Commissione europea. Perciò, nell’intenzione dei suoi sostenitori, ci sarebbe quella di portarlo in Europa per poi fargli ottenere un incarico ben più prestigioso

Opinioni/1. Alla sinistra serve una nuova anima socialdemocratica. Magari con il Professore

«Il Pd è morto. Facciamone un altro» colloquio con Gianfranco Pasquino di Gabriella Mecucci

ROMA. L’unica strada per la salvezza del centrosinistra passa attraverso la costruzione di un nuovo partito socialdemocratico. E Romano Prodi può essere un punto d’incontro di una rete di culture e di alleanze che faccia da culla a questa nuova realtà. Ne è convinto il professor Gianfranco Pasquino, politologo e professore di Scienze politiche, che a liberal spiega il ritorno di Prodi sulla scena politica e il futuro del partito Democratico. Professor Pasquino, si parla di un gran rientro di Prodi, magari come capolista alle elezioni europee. Cosa ne pensa? Penso che il Pd va così male che esploderà o imploderà. Scelga lei il verbo che preferisce. E Prodi – questo non può non essergli riconosciuto – è riuscito a vincere per ben due volte. Romano però è un uomo di parola e siccome ha detto che non rientrerà in politica, non lo farà. Certo, una candidatura europea potrebbe stimolarlo visto che è stato “soltanto” presidente della Commissione. Al Parlamento europeo – dove sicuramente potrebbe avere degli incarichi di prestigio – ci starebbe proprio bene. Quindi, non mi sembra un’ipotesi infondata o da scartare. Pensa che sia possibile un nuovo Ulivo? Ma non è una ministra riscaldata? Prodi stesso? in un’intervista all’Unità dice che l’Ulivo non si

può rifare. E anche io la penso così: non si torna indietro. Ma il Pd è a pezzi, come si va avanti? Già professore, come? La strada giusta è quella di andare verso la costituzione di un partito socialdemocratico: il fallimento del Pd e il dramma della sinistra radicale, di cui anche in questi giorni abbiamo vissuto una nuova puntata, la rendono l’unica via praticabile. Credo che l’Ulivo sia stato buttato a mare troppo presto. Ma ormai non è più ripristinabile. Non si può però non cercare di coinvolgere in un alleanza la parte più seria della sinistra radicale, quella che non vuole solo apparire nelle trasmissioni televisive, o lanciare slogan altisonanti, ma che coltiva idee e valori. In un partito socialdemocratico questa sintesi è possibile. Del resto così funzionano le cose in Europa. E il Pd deve risolvere il problema di dove sedersi al Parlamento di Strasburgo. Prodi per un partito socialdemocratico? Non sembra l’uomo giusto.. Prodi è un punto d’incontro di una rete di culture e di alleanze. La sua presenza potrebbe essere utile, almeno in una fase iniziale, per costruire un partito socialdemocratico. Lei considera il Pd un’idea sbagliata in sé? Oppure pensa che


politica rità di tutta questa nostra tesi è che nessuno tra gli interlocutori che abbiamo solleticato sulla questione è pronto a giurare che sia solo un’indiscrezione giornalistica. Da ambienti dalemiani si fanno spallucce «non ho nessun elemento per commentare questa notizia» ci viene riferito. Da quelli teodem, invece, pur non escludendo l’ipotesi, si tende a precisare che «per una personalità di così alto profilo come l’ex premier, una candidatura alle Europee è impensabile. Un altro conto sarebbe se giungesse un incarico di prestigio». Da quelli, invece, più propriamente prodiani, ci si trincera dietro un «vedremo, è ancora presto, non sappiamo ancora con quale sistema elettorale si andrà a votare».

Sopra, Romano Prodi. A destra, la deputata del Pd Sandra Zampa. Nella pagina a fianco, Gianfranco Pasquino a livello parlamentare. Magari, se l’operazione Blair a capo dell’Europa andasse in porto, come presidente del rafforzato Europarlamento. Stavolta, però, il diretto interessato nicchia. Qualche maligno dice che lo faccia per alzare la posta, qualcun’altro, invece, che sia solo la volontà di vedere definitivamente imploso Walter Veltroni, artefice della caduta del governo del professore che questi, con i suoi più stretti collaboratori, non esiterebbe a definire il «migliore dei berlusconiani». La singola-

Nessuno smentisce dunque, ma tutti sono inequivocabilmente convinti di un fatto: «l’Ulivo non esiste più e non è pensabile tornare indietro. Errori se ne sono fatti tanti, ma adesso siamo in una stagione diversa» tuttavia «si potrebbe tornare quantomeno allo spirito del 1996 o del 2006, in una configurazione però ben diversa». In quest’ottica Prodi può essere sicuramente un collante significativo, ma perchè ciò avvenga dovrebbe cadere la diffidenza del professore nei confronti del segretario democratico Veltroni. Oppure, altra ipotesi, lo stesso Veltroni dovrebbe farsi da parte una volta preso definitivamente atto della sconfitta politica e personale della sua leadership. E questa sarebbe la soluzione che i prodiani spererebbero di più, e a cui, in un certo senso, lavorano da tempo. La storia insegna che quando un progetto è in crisi si manifestano le nostalgie per il passato. Non resta che attendere le mosse del professore, che intanto se la ride beffardamente.

l’errore vada cercato nel modo in cui è stato costruito? Quel progetto aveva delle chance di successo? Certo che sì. Ma quel partito è nato in modo frettoloso e in un vuoto culturale. La leadership che lo ha costruito ha dimostrato una notevole fragilità culturale e organizzativa. Se si voleva dar luogo ad un nuovo soggetto politico che derivasse dalla fusione di Ds e Margherita e che avesse una vera capacità di attrazione, occorreva sviluppare un dibattito politico e culturale a livello diffuso, un lavoro che sarebbe dovuto durare almeno un anno. Solo così si poteva dare al nuovo partito un’identità e una base organizzativa. Si è preferito scegliere la scorciatoia e il risultato di questa fretta è sotto gli occhi di tutti. Il prezzo pagato è altissimo: il fallimento del nuovo soggetto politico. Professore, non crede che questo fallimento venga da lontano? Il Pd – se lo si voleva fare – doveva nascere molto prima. Quando l’operazione è partita non era ormai troppo tardi? Se dobbiamo risalire indietro nel tempo, certamente possiamo attribuire delle responsabilità anche ad Achille Occhetto. Si poteva fare poi molto di più nella direzione del Pd nel periodo 1994-98. Il ritardo non c’è dubbio c’è stato. Ma questo non giustifica il modo sostanzialmente vuoto e frettoloso in cui in tempi recenti si è costruito il nuovo partito: due congressi di scioglimento e, poi, quasi per miracolo sarebbe dovuto venir fuori un soggetto politico con una solida cultura politica, con una forte leadership e con una capacità organizzativa. Le cose non si fanno così. Oggi l’unica via che resta è quella del partito socialdemocratico. Il Pd si sta sfarinando e la sinistra radicale s’è già sfarinata.

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Opinioni/2. La lezione prodiana deve essere assorbita

«Soru ha ragione, serve un nuovo Ulivo» colloquio con Sandra Zampa di Angela Rossi

ROMA. Soru ha ragione. Il suo invito a recuperare la strada tracciata da Prodi e dall’Ulivo va raccolto, perché l’Ulivo rappresenta le radici autentiche sulle quali è nato e cresciuto il Partito Democratico. Così parlava Sandra Zampa, deputata del Pd che continua a fare anche da portavoce a Romano Prodi, appena tre giorni fa. Allora, onorevole Zampa, si fa strada sempre più forte l’esigenza di ritornare alla vecchia configurazione del centrosinistra? Prima di cominciare a rispondere tengo a precisare che lo faccio solo come deputato del Pd e non come portavoce di Prodi. Passando alla sua domanda, si. Penso che Soru abbia riconosciuto le buone ragioni di un progetto, non di un sogno. Un progetto per l’Italia che ha dimostrato di poter vincere. La prima volta l’Ulivo vinse in maniera sorprendente. C’è un libro, che ho scritto con Prodi e che ripercorre gli avvenimenti e le scelte e dove si racconta la notte del’96 con Prodi e Veltroni insieme ad aspettare i risultati. Rimasero loro stessi sbalorditi perché Prodi era arrivato a Roma convinto di registrare una sconfitta e non una vittoria. E a Soru riconosco grande lealtà a Prodi. Ha sempre capito che se il governo ha preso alcune decisioni è stato perché non si poteva fare diversamente. Potrà essere effettivamente affermata la possibilità di superare la leadership di Veltroni in prospettiva di antiche alleanze? Non credo sia questo il nostro problema e non voglio partecipare a questa cosa della leadership. Mi interessa che si torni a quello spirito di vittoria, di apertura alla società, alla lealtà nel modo di fare politica. Credo che questo partito debba dire con chiarezza che ci sono cose che non vanno bene, come il caso Napoli. La Iervolino vuol rimanere? Rimanga, è stata eletta e quindi resti, ma a noi quella roba non piace e avrebbe fatto bene a capire che la gente chiede rinnovamento. Per esempio serve cominciare a lavorare sul territorio e ad ascoltare la gente. Se un partito perde credibilità ha perso tutto, ha perso la sua ragione di esistere. Sta ritornando, quindi, la stagione prodiana come modello di riferimento? Certo io non posso che riconoscermi in quel modo di fare politica, seccamente alternativo a quello della destra. Amo la parola confronto e questo si fa alla pari. Abbiamo un progetto diverso per l’Italia e bisogna saperlo esprimere. La vera vittoria di Berlusconi è aver fatto marcire culturalmente questo Paese. Le faccio un piccolo esempio, quello delle classi ponte. Pensare di segregare i figli degli immigrati in classi diverse significa preparare bombe nucleari per il futuro dei nostri figli. Bambini che pensano di essere diversi come ci guardano? Dalla Francia all’Inghilterra si vede ciò che bisogna evitare.

Coraggio e si ricominci a stare in mezzo alla gente. Sa, nei giorni di Natale, con un freddo incredibile sono andata in un mercatino a distribuire l’Unità. Impari di più in una giornata così che con tanti slogan. Anche Obama ha cominciato la sua campagna elettorale di casa in casa e non certo nei salotti buoni. Prodi lo ha fatto, si è speso molto. Credo che occorra ricominciare a dire la verità stando in mezzo alla gente senza inseguire nessuno, né la Lega né i modi comunicativi di Berlusconi che alla fine ha sempre fregato tutti. Quindi si riafferma fortemente la visione politica di Prodi attraverso altre figure.Veltroni viene insomma sconfessato? No, non credo che siano queste le intenzioni di Soru, che tra l’altro è legato a Veltroni. Soru riconosce un modello che ha funzionato. Una cosa deve essere chiara: dal Pd non si torna indietro, l’unica alternativa al Pd è il Pd. Questo Paese ha bisogno di un grande cuore pulsante, forte.

È necessario un vero moto riformatore. La Iervolino a Napoli ha fatto male, perché così non si va da nessuna parte

Aleggia il fantasma di Prodi,che nel frattempo si dedica alle vicende internazionali, dall’Africa alla Cina. Ma non è curioso che sia lei, deputata del Pd, ad incarnarlo? No, credo che ci siano tanti altri parlamentari che concordano su questo. Il Pd è formato da grande spirito riformista socialista, dal cattolicesimo democratico e da una grande apertura alla società. E sono proprio gli appartenenti a quest’ultimo settore che abbiamo deluso, mentre invece siamo nati per accorciare le distanze tra la politica e la gente. Come ha detto Dossetti, l’unica possibilità e la condizione pregiudiziale di una ricostruzione stanno proprio in questo: che una buona volta le persone coscienti e oneste si persuadano che non è conforme al vantaggio proprio restare assenti dalla vita politica e lasciare il campo alle rovinose esperienze dei disonesti e degli avventurieri.


panorama

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Previdenza. Portare l’età pensionabile delle donne a 62 anni ci farebbe risparmiare un miliardo di euro

La coperta del welfare è sempre corta di Benedetto Della Vedova a sentenza con la quale la Corte di Giustizia europea ha imposto all’Italia di rimuovere la discriminazione tra uomini e donne circa l’età di pensionamento nella Pubblica Amministrazione, ha avuto il merito di riaprire la discussione sulle pensioni in generale. I ministri Ronchi e Brunetta hanno preannunciato che nell’ambito della cosiddetta Legge Comunitaria verrà inserito un meccanismo, graduale e flessibile, che porti alla completa parificazione delle regole di pensionamento nel pubblico impiego tra uomini e donne.

L

Per le lavoratrici, che notoriamente godono di un’aspettativa di vita maggiore dei colleghi maschi, ad esempio,

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

vanno individuati specifici strumenti di sostegno in caso di maternità, sul fronte occupazionale e su quello previdenziale. Il pensionamento anticipato si fonda invece su di uno scambio, doppiamente ingiusto, tra un privilegio previdenziale (età pensionabile più bassa) e una discri-

lizzare risparmi immediatamente convertibili nella spesa pro-family. Secondo Giuliano Cazzola, portando l’età pensionabile delle donne a 62 anni si risparmierebbe 1 miliardo all’anno. Sarebbe così possibile finanziare misure che sostengano il lavoro di cura sia attraverso l’eroga-

Se cerchiamo di coprire la testa dei pensionati, scopriamo i piedi dei disoccupati. Anche per colpa dei privilegi introdotti dal governo Prodi minazione sociale (sottofinanziamento della spesa per famiglia e maternità). In termini intergenerazionali, inoltre, comporta una forma di sussidio da parte delle generazioni più giovani e “svantaggiate” (che non usufruiscono di misure pro-family, andranno in pensione più tardi, con più contributi pagati e con trattamenti inferiori) nei confronti di quelle più anziane e “favorite”. Un innalzamento progressivo dell’età pensionabile delle donne consentirebbe di rea-

zione di servizi (prestazioni svolte a vantaggio delle famiglie) sia attraverso il riconoscimento economico del valore delle prestazioni che le famiglie svolgono a vantaggio dei propri membri (anziani, minori o disabili) sollevando dal relativo onere la generalità dei contribuenti.

Questo processo consentirebbe non solo di realizzare un’effettiva equità “inter-generazionale” tra le lavoratrici donne, ma una vera equità “inter-genere”, poiché queste

misure di sostegno non distinguerebbero tra “donne” e “uomini”, ma tra chi svolge o organizza attività di cura e chi, invece, no e dunque non acquisisce uguale titolo ad usufruire di benefici sociali. L’enfasi (giusta) posta sull’equiparazione dell’età pensionabile di vecchiaia tra uomini e donne non deve però farci dimenticare il “problema numero uno” del nostro sistema previdenziale.

L’età di pensionamento reale dei lavoratori (di qualunque sesso essi siano). Grazie alla “manomissione” del cosiddetto scalone operata dal governo Prodi, permane nel nostro ordinamento una situazione di assurdo privilegio: nel 2009 continueranno ad andare in pensione 58enni pronti per il lavoro nero, ma non vi saranno risorse sufficienti per supportare e riformare il sistema degli ammortizzatori sociali. La coperta del welfare è corta: se copre la testa dei pensionati di anzianità, scopre i piedi dei disoccupati.

Credente o meno, l’essere umano è figlio di Dio, o della Vita. Anche a Genova

L’autobus degli atei? Ha una ruota a terra o hanno chiamato “ateismo su gomma”. È’ la campagna pubblicitaria dell’associazione degli atei che, a Genova, ha deciso di “investire”nel trasporto pubblico corredando due autobus cittadini con questa scritta: «La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno». L’associazione degli atei Uaar - ha scelto il capoluogo ligure perché è la città di monsignor Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, e perché è la sede del prossimo Gay Pride. Gli autobus hanno già fatto scalo in altre città europee come Londra e Barcellona, ma hanno portato la “buona novella” della inesistenza di Dio anche al di là dell’Atlantico: a Washington. Una volta sulle autostrade ci si imbatteva in quelle scritte che dicevano “Dio c’è”e ogni volta che le leggevo mi chiedevo chi ne fosse l’autore e mi piaceva credere che la frase fosse stata scritta direttamente dalla “mano di Dio”. Oggi la “concorrenza” punta direttamente sul traffico cittadino per comunicare, forse con un po’ di ritardo, la “morte di Dio”.

L

Il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, ha tenuto a sottolineare l’estraneità della sua amministrazione: «Il comune non è coinvolto, comunque abbiamo chiesto una verifica». La sua giunta sta

severamente esaminando le celebri cinque prove dell’esistenza di Dio enunciate da San Tommaso. Qualcuno le ha chiesto: «E se dei cittadini si rifiutassero di salire sul bus ateo?». «L’importante - ha detto il sindaco - è che ce ne sia uno non ateo subito dopo». Quindi vi potete immaginare già le scene: una signora chiede ad un signore in attesa: «Scusi, mi sa dire quando passa di qua l’autobus di Dio?». «Non so, ma pare che sia in ritardo». Dio in ritardo? In effetti, gli uomini attendono da un bel po’. Al di là, però, delle battute - il Padreterno è un battutista nato - la campagna pubblicitaria dell’associazione degli atei è un po’ campata in aria. Che cosa significa, infatti, dire che “Dio non esiste”? Facciamo un brevissimo corso di filosofia per tutti e per nessuno. La inesistenza di Dio non significa tanto che non c’è l’Aldilà, quanto che muta l’Al-

diqua. Dio è l’ordine razionale della realtà, ma se Dio non esiste allora la realtà non è razionale. Senonché, questo è più il Dio dei filosofi che non il Dio dei cristiani che, invece, è prima di tutto amore e volontà. La più grande rivoluzione nella storia dell’umanità è il cristianesimo perché ha influito sull’anima dell’uomo attraverso la “volontà di Dio”. Per i greci il male umano è un erl’uomo rore: commette il male perché è ignorante, ma se conosce diventa buono. Per i cristiani l’uomo può fare il male anche se conosce il bene, perché il male e il bene non sono il frutto della sua intelligenza ma della sua libera volontà. Noi oggi abbiamo bisogno, sì o no, di una volontà libera che voglia il bene? Non siamo facilmente portati a credere che il male - che come diceva Vittorio Foa è dentro ognuno di noi - si possa superare con l’intelletto e la razionalità delle cose (la

scienza)? Ma se le cose non sono più razionali perché il Dio dei filosofi cioè la ragione universale - è morto, allora il programma di salvezza terrena della conoscenza è votato al fallimento. Il cristianesimo è la radice storica e antropologica della nostra libertà. Qui essere atei o credenti non fa alcuna differenza.

L’idea di Dio porta con sé inevitabilmente il bisogno di dominio. Il Signore signoreggia il divenire, come il logos governa il caos trasformandolo in cosmo. Ma se Dio non esiste allora noi siamo i padroni di noi stessi? I padroni della vita? Della morte? Della storia? Della natura? È fin troppo facile mostrare - rendersi conto - che non siamo i padroni di nulla, nemmeno dei capelli che abbiamo (o avevamo..) in testa. Anche in questo caso fa poca differenza che esista o non esista Dio, che si sia atei o credenti, perché ciò che conta è la comprensione che la nostra libertà dipende dal dominio relativo che possiamo esercitare sul divenire della vita, della natura, della storia. Noi siamo realmente “figli di Dio” nel senso che è Dio o la Vita - sia che si sia atei sia che si sia credenti - a istituire la nostra condizione e a farci umani. L’autobus sul quale tutti viaggiamo è quello dei “figli di Dio”.


panorama

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Giustizia. I magistrati insorgono contro la “cancelleria virtuale” proposta da Alfano e Brunetta. Sfidando il senso del ridicolo

Il segreto (istruttorio) di Pulcinella di Andrea Mancia ra tutte le “scuse” potevano escogitare per opporsi al progetto di “cancelleria unica”, i magistrati hanno decisamente scelto la più tortuosa. Il protocollo siglato a fine novembre tra i ministri Alfano e Brunetta - e rilanciato con alte grida di sdegno da Repubblica nei giorni scorsi - prevede la messa a punto di un «mega cervellone informatico» (parole del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari) in grado di contenere i dati di tutte le inchieste giudiziare italiane. Apriti cielo. L’Anm si è subito lamentata per non essere stata interpellata in merito. Il Csm è in fibrillazione, ma non può ancora intervenire ufficialmente, visto che si tratta soltanto di un protocollo e non di un decreto o un disegno di legge. Sulla questione di metodo, si può anche comprendere l’irritazione togata. Ma è quando intervengono nel merito della vicenda che i magistrati non sembrano avere paura di sfidare il senso del ridicolo.

a disposizione delle forze di polizia e degli attori del processo, e ciò che è segreto e deve rimanere nella disponibilità esclusiva del pubblico ministero, come impone la legge».

T

Il presidente dell’Anm, Luca Palamara, si dice «favorevole all’informatizzazione”, che ef-

Secondo il pm Spataro, sarebbero a rischio «la libertà e la privacy dei cittadini». Ma finora si lamentavano in pochi per le fughe di notizie... fettivamente è sempre stato un cavallo di battaglia della sua associazione, ma è preoccupato per «la segretezza degli atti di indagine, soprattutto nei momenti più cruciali dell’attività investigativa, a partire dalle sue prime battute». E il procuratore aggiunto di Milano, Ar-

mando Spataro, in una lunga intervista (concessa sempre a Repubblica), rincara la dose. «Ben venga lo sforzo di automatizzazione del sistema - dice - ma non possiamo ignorare l’esistenza di una soglia invalicabile tra ciò che non è coperto da segreto, e può essere messo

Parole sacrosante, se non fosse per un piccolo, insignificante, particolare. In Italia, il “segreto” che dovrebbe proteggere gli atti giudiziari è il più classico dei “segreti di Pulcinella”.Tribunali, procure, cancellerie: tutto, nel nostro Paese, sembra riuscire a sfuggire a quasiasi tentativo di secretazione, che si tratti di atti sensibili ai fini delle indagini o di intercettazioni telefoniche buone soltanto a riempire le pagine dei giornali di gossip. E non si ha traccia, nella storia recente della Repubblica, di un solo pubblico ministero che si sia mai scomodato nel portare a termine un’inchiesta sulle fughe di notizie che affliggono quotidianamente il sistema-giustizia. Non un magistrato, un poliziotto, un avvocato, un usciere, neppure un semplice capro espiatorio è mai stato condannato per aver contribuito a violare «la libertà

Classifiche. L’Heritage Foundation e il “Wall Street Journal“ analizzano le economie mondiali

In Italia c’è poca libertà. Di impresa di Alessandro D’Amato

ROMA. “Moderatamente” libera. Ovvero, non male rispetto alla classifica generale, ma in grave ritardo in confronto con il resto d’Europa. L’edizione 2009 dell’Indice della libertà economica, redatto dalla Heritage Foundation e dal Wall Street Journal in collaborazione con una rete di think tank tra cui, in Italia, l’Istituto Bruno Leoni, è impietoso con il nostro Paese, che arriva 76esimo nella classifica generale e 32esima (su 43) in Europa. E in assoluto perde dodici posizioni rispetto allo scorso anno: il suo punteggio è pari al 61,4%, pericolosamente vicino al limite del 60 per cento, al di sotto del quale inizia la categoria dei paesi “poco liberi”. La performance dell’Italia è tanto più grave se si considera che la libertà economica ha fatto progressi nel mondo e in Europa. A livello globale, ben 83 paesi hanno fatto passi avanti rispetto allo scorso anno. I paesi più liberi al mondo sono Hong Kong, Singapore e l’Australia. Tra i primi dieci paesi, ben quattro sono europei: Irlanda (quarto posto), Danimarca (ottavo), Svizzera (nono) e Regno Unito (decimo).

cratiche sono state snellite. I dazi doganali sono ridotti, anche se il peso della burocrazia tende a scoraggiare gli investimenti dall’estero. In qualità di Stato membro dell’Unione Europea, condivide la politica monetaria con gli altri Paesi dell’Unione, il che le consente di avere un’inflazione relativamente modesta, a dispetto delle distorsioni introdotte dallo Stato nel settore agricolo. Ma i punteggi relativi a diritti di proprietà e corruzione mostrano alcune debolezze del Pae-

è contraddistinta da gravi imposte sul reddito individuale e da un’imposta sul reddito d’impresa moderata. Nell’emendamento alla legge finanziaria di Tremonti del 2008, l’aliquota massima dell’imposta sul reddito societario è stata ridotta dal 33 al 27,5%. Tra le altre imposizioni fiscali, si l’Iva, annoverano un’imposta sugli interessi e una sulla pubblicità. «Il gettito fiscale complessivo ha raggiunto il livello del 42,6 per cento del Pil», dicono alla Heritage. E aggiungono: «La relativa rigidità delle normative sul lavoro ostacolano l’occupazione e la crescita della produttività. I costi non salariali di un lavoratore dipendente sono decisamente elevati. Le normative sull’orario di lavoro sono relativamente rigide». Cose risapute, ma sentirsele ripetere in termini così brutali e sintetici fa sempre un certo effetto. «Moderatamente» preoccupante.

Secondo la ricerca, il nostro Paese è agli ultimi posti in Europa tra quelli con minori vincoli. La colpa? Troppe tasse, burocrazia e welfare

Nel comunicato ufficiale si legge che l’Italia ha un punteggio elevato per quanto riguarda libertà d’impresa, libertà di scambio e libertà d’investimento. Le procedure buro-

se. La libertà fiscale e la libertà dallo Stato (ossia, la dimensione del settore pubblico) continuano ad essere bassi, a causa dell’imponente welfare state. La spesa pubblica ammonta grosso modo alla metà del Pil, mentre la riduzione del cronico deficit di bilancio e del debito pubblico è andata a rilento e il valore di quest’ultimo si aggira ancora intorno al 105% del prodotto interno, e l’attività economica informale (economia sommersa) è considerevole.

Ma i due dati più significativi sono quelli del fisco e dell’apertura dei mercati: “L’Italia

e la privacy dei cittadini». Eppure adesso, come d’incanto, quello che una volta veniva chiamato “segreto istruttorio” diventa, per la casta dei magistrati, un valore da difendere ad ogni costo. Dopo essere stato allegramente ignorato per decenni. «La fuga di notizie, come l’intrusione telematica, è sempre possibile - aggiunge Spataro ma nel sistema bilaterale di oggi i possibili responsabili della violazione del segreto sono di numero circoscritto. Nell’altro caso, no. Nessun sistema informatico è sicuro, mentre può esserlo l’organizzazione degli uomini che lo gestiscono». Dice bene, il procuratore milanese: il problema non sono tanto i sistemi tecnici di protezione dei dati, quanto il comportamento degli uomini che questi dati sarebbero chiamati a proteggere. Perché, allora, prendersela tanto con la “cancelleria virtuale” ideata da Alfano e Brunetta (efficiente o meno che sia), quando non si è fatto mai nulla contro chi - scientificamente e sistematicamente - viola i segreti delle “cancellerie reali”?


il paginone

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Da New York a Los Angeles, passando per Reno (Nevada): un tour dei musei americani dai quali il Be

Viaggio d’arte (con in di Angelo Crespi artiamo da metà. Cioè dalla metà di un viaggio lungo migliaia di chilometri attraversando gli Stati Uniti per visitare musei. Siamo a Reno, Nevada. Un luogo che nessun tour operator vi proporrà mai. A meno che non vogliate divorziare, perché nel Nevada vige singolare legge: basta soggiornarvi pochi mesi per poter sciogliere regolare matrimonio. Un altro motivo per venire a Reno è il gioco. Difatti dopo la più celebre Las Vegas, è la città coi casinò. Reno, però, sta a Las Vegas come Abano Terme a Riccione. Qui il tempo sembra essersi fermato agli anni Sessanta e gli alberghi-casinò che un tempo dovevano essere templi del lusso sono oggi austeri edifici in cemento con le camere fornite di jacuzzi a bordo letto che fanno molto ricchezza in disarmo. D’altronde la crisi economica ha colpito l’America fin nel profondo e a differenza che in Italia - dove abitualmente proliferiamo in tempo di crisi - qui la gente è seriamente preoccupata. I dati sul turismo del Nevada, dove tira un aria gelida e come da etimo spagnolo spesso nevica, sono angoscianti. I giocatori diminuiscono e allora si punta a riempire gli alberghi di congressisti. La settimana prossima, tanto per dire, si volgerà la più importante fiera dedicata ai cacciatori di safari e sono attesi migliaia di ospiti. Così è, se vi pare.

P

Bene. A Reno è stato appena ristrutturato il Museo di Arte del Nevada. Un bell’edificio post moderno, in vetro, pietra e acciaio. A dirigerlo, David B. Walker, un giovanotto di Los Angeles esperto di arte contemporanea che ci mostra con orgoglio una mostra dedicata alla bandiera Usa. Non che ce ne fosse bisogno perché negli States la stars and stripes sventola un po’ ovunque, segno di un patriottismo radicato che sublima in quel simbolo la propria nazione. Ma a parte l’annotazione coloristica, non è un caso che questo museo sia stato ristrutturato e che a dirigerlo ci sia un giovane. Città dopo città, scopri che l’America, nonostante il momento difficile, sta puntando sulla cultura e nello specifico sta puntando sui musei. Le città americane non hanno centro e spesso neppure periferia. S’allungano sul territorio con reticoli di strade ben disegnate. E così viene regolarmente frustrata l’ossessione degli italiani di chiedere al taxi-

Malgrado la crisi economica, gli Stati Uniti puntano sulla cultura. E mentre i negozi dei centri commerciali restano vuoti le gallerie d’arte diventano un centro alternativo d’aggregazione sta di farsi accompagnare “in the center” oppure a downtown sperando di fare lo struscio. Le città americane non hanno centro e neppure piazze intese come luoghi dove incontrarsi. Se vai ad Atlanta o a Dallas noti subito che nonostante le automobili in fila, c’è pochissima gente in giro a piedi. Gli americani passeggiano nei Mall, immense cattedrali del consumismo. Nei Mall fanno acquisti, ci mangiano, passano il sabato pomeriggio. Adesso che i portafogli sono vuoti e i negozi pure, i musei stanno diventando un centro aggregativo alternativo fondamentale.

A Reno, tanto per tornare indietro, una città che conta trecentomila abitanti, in uno Stato tra i più vasti come il Nevada che conta pochi milioni di abitanti spersi tra le montagne, una sorta di Abruzzo d’America ma immenso, il nuovo museo che peraltro non ha grandi opere da esporre fa 100 mila visitatori all’anno. Non male se si pensa che Brera a Milano, in Lombardia, con alcuni capolavori assoluti dell’arte di ogni tempo, il Cristo di Mantegna su

tutti, registra poco più di 200 mila visitatori.

Se poi compulsi i dati dei musei importanti, il Metropolitan di New York o il Getty di Los Angeles, ti accorgi che l’America è un grande paese, davvero interessato alla cultura e all’arte. Lontano dal pregiudizio che noi europei non riusciamo a toglierci quando né critichiamo l’imperialismo e l’egemonia hollywoodiana. Al Met, nei giorni precedenti alla fine dell’anno, c’era una ressa immensa di turisti, ma anche di famiglie e bambini americani, che vocianti visitavano le immense sale delle armi. Contrariamente a quanto spesso succede in Italia, nei musei americani i visitatori sono infatti bene accolti. D’altronde gli edifici, appena costruiti o ristrutturati, sono pensati per tale funzione, coi servizi, le restroom, i bar, eleganti ristoranti. E dentro, spesso splendide collezioni che ricchi magnati americani hanno raccolto e poi donato alla comunità, cercando di colmare il gap culturale che divideva il loro paese dall’Europa. Così con somma sorpresa puoi ammirare in giro per l’America profonda


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Belpaese avrebbe molto da imparare...

nvidia)

bambini percorsi appropriati e laboratori d’arte, coinvolge la cittadinanza attraverso le membership, tiene uniti gli investitori e i sostenitori con iniziative a tema.

Inoltre questa rivoluzione sta mettendo in competizione le singole istituzioni e le varie città. A Dallas a fianco del museo d’arte è aperto il Nasher

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sta stupiti. E ancor di più leggendo ieri su “Le Monde” i dati dei visitatori in Francia. Cifre da capogiro. Solo il Louvre raggiunge la stupefacente cifra di 8,5 milioni di visitatori annui, 200mila più dell’anno scorso. Il Centro Pompidou, 2 milioni e 750mila, il Musée D’Orsay 3,2. Segno che anche in un periodo di crisi l’investimento e la spesa in cultura restano alte in Fran-

seo e sanno che sei italiano tutti ti trattano con rispetto. È appunto il riflesso della nostra arte di un tempo. Ti guardano sospirando, mentre illustrano le opere in loro possesso pensando alle migliaia di capolavori da noi nei depositi. Li avessero loro, chiederebbero a Renzo Piano o a Richard Meier di progettare un centinaio di nuovi musei. I direttori e i curatori

Da sinistra, in senso anti-orario: “I musici” di Caravaggio (Metropolitan Museum of Art, New York); l’entrata del museo al Getty Center di Los Angeles; “Il ritorno del figliol prodigo” del Guercino (Timken Art Gallery, San Diego); una scultura di Alberto Giacometti (Nasher Sculpture Center, Dallas)

A parte la National Gallery di Washington, i finanziamenti sono tutti privati. Anche per questo motivo si riescono a evitare gli appesantimenti burocratici tipici del settore pubblico

Raffaello, Tiziano, Cima da Conegliano, Bellini, Carracci, Batoni, ma anche Modigliani, Manzoni, Fontana, Cattelan perfino uno stupendo Caravaggio nella remota Fort Worth.

Va però ricordato che i musei americani, se si eccettua la National Gallery di Washington che è finanziata direttamente dal governo, sono privati, di proprietà di fondazioni o trust che solo in via residuale ricevono aiuti di Stato. Ed è per questo che il loro aspetto e il loro funzionamento prescinde da quell’appesantimento burocratico tipico alle nostre latitudini. In più, da Boston a Los Angeles, passando per Dallas e Fort Warth, una nuova generazione di direttori storici dell’arte e manager insieme è subentrata alla vecchia nomenclatura. Al Met,Thomas Campbell ha 46 anni, a Los Angeles al County Museum, il

nuovo direttore Michael Goven ne ha solo 43 anni, mentre al Getty, Michael Brand ne ha 50, ma con un piglio giovanile, infine Katherine Getchell, la direttrice al Museum of Fine Art di Boston sembra una studentessa appena uscita dal master. Questi giovani direttori stanno concependo una vera rivoluzione che cambierà definitivamente l’aspetto dei musei americani, trasformandoli da centri di conservazione a veri motori di sviluppo e di produzione culturale. Lo High Museum di Atlanta, oppure il Kimbell Museum di Fort Warth, o ancora a Dallas, il Museum of Art, sono qualcosa di più di un semplice spazio espositivo. Sono distretti culturali, con cinema e teatri,e sale conferenze nei quali la fruizione dell’opera d’arte non ha nulla di noioso, ma viene vissuta come un happening divertente. Ogni museo mette a disposizione dei

Sculpture Center; a Fort Warth, pochi chilometri di deserto da Dallas, accanto al Kimbell Museum, sorgono il museo d’arte contemporanea e quello di arte americana; a San Diego al Balboa Park i musei sono 21, dall’arte all’etnografia tutti in un miglio; a Los Angeles il County Museum ha chiamato Renzo Piano per riammodernare il proprio edificio dopo che il Getty Museum ha aperto la nuova faraonica sede progettata da Richard Meier sulle alture di Beverly Hill. Una vitalità che dovrebbe essere presa ad esempio anche in Italia dove la nomina di Mario Resca, ex amministratore delegato di McDonald’s, come supermanager dei nostri musei è stata accolta con le solite inutili polemiche, poiché trattasi di non esperto, come se gli esperti fossero riusciti a far funzionare le cose negli ultimi cinquanta anni. Non capendo inoltre che nel nostro Paese dove esistono 4000 musei, più che gli esperti d’arte, che peraltro ci sono e sono stimati nel mondo, quella che serve è proprio una superorganizzazione.

Così, a leggere i dati dei visitatori dei musei in America si re-

cia come negli Stati Uniti. Ed è un peccato che nella classifica dei primi dieci musei al mondo per visitatori non ne compaia nemmeno uno italiano, un peccato specie pensando all’immenso patrimonio culturale che possediamo e che spesso non sappiamo valorizzare. In America le cose invece funzionano. Valorizzano anche quello che non possiedono. Alla National Gallery di Washington in questi giorni è in corso una stupenda mostra dedicata a Pompei che è allestita con molti pezzi provenienti dagli scantinati dei musei italiani. Pezzi “ritrovati”, ripuliti, sufficienti a richiamare un folto pubblico.

Al Met è invece incorso una mostra dedicata all’amore nel Rinascimento dove l’arte italiana è in prima fila. Al Kimbell di Fort Warth si fanno belli con un’esposizione di presepi napoletani. Al Getty di Los Angeles sono orgogliosi di una retrospettiva sulla pittura bolognese in epoca barocca con molti Guercino, Guido Reni, Carracci… nessun quadro di quest’ultimi proveniente però dall’Italia. Perché quando entri in un mu-

sono oltremodo gentili e quasi tutti parlano un ottimo italiano. Sognano di poter avere in prestito quattro o cinque Caravaggio, qualche Raffaello, magari un Antonello da Messina e farebbero follie per i Bronzi di Riace che da noi stanno invece al piano sotterraneo in un piccolo museo di Reggio Calabria. Intrattengono con le nostre Sovrintendenze rapporti cordiali, spesso di ottima collaborazione e di lunga durata, così raccontano. Spesso, colmo dei colmi, ci prestano delle opere senza ricevere in cambio nulla. Prima di uscire, poco prima della porta, quasi a mezza voce, tra un sorriso e l’altro, ti dicono però che il nostro sistema museale è impossibile, troppa burocrazia, non si capisce nulla: «è un peccato». È un peccato, già. A San Diego, proprio alla frontiera col Messico, dove si conclude il viaggio e la temperatura è sempre mite, lontani dalla neve di Reno, dall’afa di Dallas, dal freddo pungente di Boston, puoi visitare il Timken Museum, 250 metri quadri, 45 capolavori assoluti dell’arte antica raccolti dalle tre sorelle Putnam e poi donati all’omonima fondazione. La “Madonna con bambino” di Niccolò di Buonaccorso è una pala stupenda. Ti chiedi come faccia a essere lì, migliaia di chilometri distante da Siena a poche miglia da Tiguana, dove imperversa la guerra di droga e ti sconsigliano di fare un giro.


mondo

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Gaza. Gli scontri vanno avanti, apertura sul piano franco-egiziano, oggi arriva Ban Ki-Moon

Poker arabo contro Hamas Egitto, Arabia Saudita, Libia e Siria: la guerra dà il via a un nuovo equilibrio in Medioriente di Antonio Picasso a crisi di Gaza offre l’occasione ai Paesi arabi di fare un bilancio dei propri equilibri sul quadrante mediorientale. Con l’obiettivo di definire una proposta comune a tutti i suoi membri, la Lega Araba è alla ricerca di una quadratura del cerchio di difficile realizzazione. Le iniziative unilaterali, infatti, anziché portare a una bozza da tutti accettabile, proprio perché contrastanti fra loro, mettono in evidenza le situazioni di for-

L

mente il caso dei turisti europei rapiti a settembre – Mubarak vede nella mediazione tra Hamas e Israele un’opportunità per confermare lo status di potenza regionale del suo Paese. Non è un caso che i negoziati in corso siano gestiti da Omar Suleiman, il generale a capo dell’intelligence egiziana e ritenuto il potenziale erede di Mubarak. In questo modo il rais vuole assicurare la comunità internazionale che l’Egitto ha una continuità governativa sulla

Con l’obiettivo di definire una proposta comune a tutti i suoi membri, la Lega Araba è alla ricerca di una quadratura del cerchio difficile. E la proposta di un summit d’emergenza non decolla za e quelle di minor influenza di ogni singolo Stato membro. Come un indice borsistico, ci dicono chi sale e chi scende. In netto recupero sulle posizioni perse nel 2008 è certamente l’Egitto. Dopo una serie di scivoloni di immagine – ricordiamo come fu gestito maldestra-

quale poter scommettere. Partendo dal presupposto che quella di Gaza è una questione strettamente mediterranea, il rais si sta sforzando affinché prevalga la sua posizione all’interno della Lega Araba. Fin qui ha ottenuto il consenso della Giordania e il silenzio passivo della Siria. Damasco, infatti, avrebbe potuto mettersi di traverso al piano

di Mubarak, assumendo un atteggiamento di rigida difesa di Hamas. Invece ha preferito mantenere una linea di basso profilo, onde evitare di compromettere le aperture diplomatiche ottenute finora presso alcuni governi europei. Un discorso analogo può essere fatto per la Libia. Gheddafi, ottenuto lo sdoganamento diplomatico da parte degli Usa, non vuole esporsi con dannose manifestazioni di radicalismo.

Fa da contraltare la proposta di un summit straordinario della Lega Araba espressa dell’Emiro del Qatar. Quest’ultimo, forte di un’intensa e proficua attività diplomatica lo scorso anno – soprattutto per il Libano – cerca di proseguire con questa onda lunga. In esatta antitesi con le posizioni del Cairo, il Qatar sottolinea l’aspetto arabo-islamico della crisi di Gaza. Una prospettiva giustificata dal fatto che chi è coinvolto è Hamas, un movimento di ispirazione religiosa. Tuttavia, affinché la Lega possa riunirsi, alla convocazione devono rispondere positivamente almeno due terzi dei suoi membri, vale a

dire 14 su 22. Finora però le risposte valide sono arrivate solo da dieci governi. Interessante è notare che in una nota di quello egiziano ieri si leggeva che l’iniziativa qatariota rischiava di essere controproducente, in quanto concorrenziale con il suo lavoro svolto fin qui. Insomma, l’Egitto, che della Lega Araba si sente “padre e padrone”– il Segretario generale dell’organizzazione è l’ex Ministro degli Esteri del Cairo, Amr Mousa – contrasta qualsiasi altra iniziativa che possa oscurare le sue. In evidente caduta sono invece le azioni dell’Arabia Saudita.

Le ambizioni di Riyadh di prevalere sull’Egitto, come potenza regionale araba – ma forse anche musulmana – grazie al fatto di essere il leader mondia-

Per l’intellettuale, il governo israeliano - dal 1993 in poi - ha peccato di miopia strategica

La leadership smarrita di Olmert & Co. di Daniel Pipes

Q

ualsiasi commento alla guerra tra Hamas e Israele scivola in un giudizio“di parte”, producendo - di volta in volta - analsi morali pro o contro Israele. È questo un dibattito cruciale, ma non l’unico; bisogna fare anche una lucida valutazione strategica: chi sta vincendo e chi sta perdendo? Hillel Frisch sostiene che Hamas (che definisce «un piccolo movimento isolato che controlla una piccola striscia») ha fatto «un madornale errore di calcolo», inimicandosi il governo egiziano e muovendo guerra a Israele. A suo dire, Hamas si è lanciato in un “suicidio strategico”. Forse è così, ma vi sono scenari in cui è Hamas a guadagnarci. Khaled Abu Toameh rileva il forte e crescente sostegno a Hamas da parte del Medio Oriente. Caroline Glick ravvisa due modi in cui Hamas si guadagnerebbe la vittoria: un ritorno allo status quo ante, con Hamas ancora in posizione di comando a Gaza, oppure un accordo di cessate il fuoco che preveda

che delle potenze straniere diano vita a un regime internazionale di controllo per sorvegliare i confini di Gaza con Israele e l’Egitto. Come ciò suggerisce, una valutazione dei trascorsi bellici di Hamas dipende essenzialmente dalle decisioni prese a Gerusalemme. Essendo quest’ultime il vero problema, c’è da chiedersi come la leadership israeliana si sia comportata al riguardo. In modo disastroso. La profonda incompetenza strategica di Gerusalemme continua e accresce il numero delle politiche fallimentari dal 1993 in poi, che hanno eroso la reputazione di Israele, il suo vantaggio strategico e la sicurezza. Sono quattro i motivi che mi hanno indotto a trarre questa conclusione negativa.

Il problema di Gaza, innanzitutto, è stato causato dal governo in carica a Gerusalemme. Il suo leader, il primo ministro Ehud Olmert, nel 2005 motivò fino alla nausea l’allora prossimo ritiro unilaterale

israeliano da Gaza con le seguenti parole: «Siamo stanchi di combattere, siamo stanchi di essere coraggiosi, siamo stanchi di vincere e di sconfiggere i nostri nemici». Olmert ha avuto un ruolo fondamentale: a) nel dare inizio al ritiro da Gaza, che pose fine allo stretto controllo del territorio da parte delle Forze di difesa israeliane; b) nella rinunzia al controllo israeliano sul confine tra Gaza e l’Egitto. (Quest’ultima, una decisione poco nota, ha consentito a Hamas di costruire tunnel verso l’Egitto, di trafficare in materiali bellici e di lanciare missili contro Israele). In secondo luogo, Olmert e i suoi colleghi non sono riusciti a rispondere al fuoco missilistico e ai colpi di mortaio. Dal ritiro israeliano del 2005 fino ad oggi, Hamas ha lanciato oltre 6.500 missili in territorio israeliano. Incredibile a dirsi, gli israeliani hanno subito circa otto attacchi al giorno per tre anni. Per quale motivo? Un governo


mondo

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Le ragioni della manifestazione di oggi a Montecitorio

Noi, in piazza con Israele di Renzo Foa sario, religioso e politico, dei sauditi e degli arabi in generale. Inoltre, la monarchia saudita non ha dimenticato che il colpo di mano orchestrato da Hamas nel giugno 2007 avvenne esattamente una settimana dopo che la sua proposta di pace – risalente al 2002 e che avrebbe consacrato l’opzione dei due Stati, Israele e Palestina – fosse stata approvata da tutta la Lega Araba.

La “mensa“ d’emergenza di un gruppo di bambini nella striscia di Gaza. In alto, il presidente egiziano Mubarak e il re saudita Abdallah. In basso, il premier Olmert, che conferma il suo pugno duro contro Hamas e, a fianco, scene di guerra

le nel mercato degli idrocarburi, oggi appaiono ridimensionate. Lo dimostra come la monarchia saudita si sia trovata costretta a seguire le iniziative del Cairo e non abbia fatto sentire una sua voce in merito a Gaza.

Del resto, il distacco messo in evidenza nei confronti di Hamas nasce da attriti essenzialmente bilaterali, che esulano da qualsiasi intervento della Lega Araba. Prima di tutto bisogna considerare che il movimento islamista di Gaza dispone dell’appoggio politico e del sostegno finanziario dell’Iran. E quest’ultimo è il primo avver-

responsabile avrebbe reagito al primo razzo come a un casus belli reagendo di conseguenza.

In terzo luogo, una commissione parlamentare francese a metà dicembre ha pubblicato un importante report tecnico, che ha stabilito che: «non esiste alcun dubbio» circa gli scopi militari del programma nucleare iraniano e che quest’ultimo sarà pienamente funzionante nel giro di 2-3 anni. Il tramonto dell’amministrazione Bush, con l’attuale presidente che sta per insediarsi e le elezioni presidenziali ancora di attualità offrono un momento eccezionale per occuparsi della questione. Perché Olmert ha sprecato questa opportunità per affrontare il pericolo relativamente trascurabile rappresentato da Hamas piuttosto che affrontare la minaccia esistenziale del programma nucleare iraniano? Questa negligenza ha in fieri delle spaventose ripercussioni. E per finire, da quanto si può discernere in merito all’obiettivo del governo Olmert nella guerra contro Hamas, sembra che esso consista nell’indebolimento di Hamas e nel rafforzamento di Fatah così che Mahmoud Abbas/Abu Mazen possa riprendere il controllo di Gaza e riavviare i rapporti diplomatici con Israele. Ma un’a-

Il gesto di Hamas è ancora oggi visto come un rifiuto commesso da un piccolo movimento palestinese, di ispirazione religiosa e di confessione sunnita, nei confronti di quel regno che è il custode dell’Islam. Oggi, il fatto che l’Arabia Saudita abbia dovuto tenere il passo con l’Egitto costituisce l’ultima costrizione che Riyadh ha dovuto accettare per responsabilità di Hamas. Non è una coincidenza quindi il viaggio di Mubarak a Riyadh ieri, per incontrare re Abdullah. I leader dei due Paesi più influenti di tutto il Medio Oriente hanno stabilito un allineamento che – sebbene contingente alla situazione – da un lato contiene le derive unilaterali all’interno della Lega Araba, dall’altro mette in luce eventuali nuovi equilibri. *Analista Ce.S.I.

mara esperienza invalida questa tesi. Intanto, Fatah si è dimostrata essere un nemico fermamente determinato a eliminare lo Stato ebraico. E poi, gli stessi palestinesi hanno ripudiato Fatah nelle elezioni del 2006. Si esige troppo dalla credulità che vi sia ancora qualcuno che consideri Fatah “un partner di pace”. Piuttosto, Gerusalemme dovrebbe pensare in modo creativo ad altri scenari, magari alla mia “soluzione senza stato”, con l’intervento dei governi giordano ed egiziano. Il fatto che le elezioni israeliane che si terranno tra un mese vedano in lizza tre nomi della stessa specie di Olmert è più sconcertante perfino dell’inettitudine del premier. Due di loro (il ministro degli esteri Tzipi Livni e quello della Difesa Ehud Barak) sono i suoi principali luogotenenti, mentre Barak e Binyamin Netanyahu hanno miseramente fallito nelle loro precedenti cariche governative. Al di là di Olmert e dei suoi potenziali successori, la peggiore notizia in assoluto è che nessuno dei gradini più alti della vita politica israeliana esprime a chiare lettere quali sino gli imperativi per vincere. Per questo motivo, ritengo che Israele sia uno stato smarrito - pieno di talento, di energia, di determinazione - ma privo di orientamento.

segue dalla prima affermare che ci si sentiva non solo parte di un popolo o di una nazione, ma anche di una storia, di una politica, di una cultura. Oggi ripetendo quel concetto si opererebbe una terribile confusione, da cui emergerebbe non una solidarietà con le vittime civili – dato peraltro scontato – ma con Hamas e la sua visione assassina della politica e dell’azione internazionale, con Hamas e il suo rifiuto di coesistere accanto a Israele, un rifiuto così diffuso in tutto il mondo arabo. Passiamo alle altre ragioni. La prima è che non si tratta di limitarsi ad una contabilità delle vittime e che se anche ci si dovesse limitare a questo terribile esercizio la responsabilità sarebbe in ogni modo del terrorismo che ha rotto le tregue e che ha ricominciato a tirare i suoi razzi sulle città israeliane. La seconda, poi, è che i missili lanciati dalla striscia di Gaza non hanno avuto solo lo scopo – come ha voluto notare lo scrittoreopinionista che in questo caso può essere definito semplicemente “arabo” – di «creare insicurezza», missili a cui «gli israeliani hanno risposto scatenando una guerra senza pietà».

liane o americane. Appunto americane. E qui c’è l’altro ragione. Lo scandalo dell’11 settembre non sta solo nel numero delle vittime (che comunque è stato infinitamente superiore a quello finora consumato a Gaza); non sta neanche nel fatto che allora vennero scelti dei bersagli civili. Solo dei bersagli civili se si pensa alle Torri gemelle o ai velivoli di linea dirottati. Mentre adesso lo scopo principale è quello di neutralizzare le capacità distruttive di un’organizzazione come Hamas che il nostro mondo e la nostra comunità definiscono terroristica e pericolosa. Lo scandalo dell’11 settembre infine non consiste nemmeno solo nell’impiego dei kamikaze, cioè dell’affermazione della visione della morte sempre e comunque rispetto alla forza della vita, ma consiste in un gesto che aveva a bersaglio la maggiore democrazia esistente sul pianeta, la terra dove ha preso senso e corpo la parola libertà. E lo scandalo che abbiamo continuato a misurare sta nel fatto che si è contestato alla“terra della libertà” il semplice diritto di difendersi.

Chi omette l’uccisione di israeliani, come Tahar Bel Jelloun, vuole distruggere anche la nostra cultura

Perché – e qui siamo alla terza ragione – non è vero che «vivere nel timore di un razzo non può giustificare una risposta così mortifera», affermazione spiegabile con il semplice fatto che Tahar Bel Jelloun non ha notato sulla Repubblica che quei razzi hanno ucciso. Eccome se hanno ucciso. E allora non mi stupisce il fatto che uno scrittore semplicemente “arabo” lo ignori o lo dimentichi di proposito per alimentare una polemica. Siamo abituati a queste deformazioni fondamentaliste. Stupisce semmai che uno dei più accreditati quotidiani italiani – peraltro bersaglio di polemiche e di intimidazioni inaccettabili – lanci questi argomenti, che arrivano in casa nostra direttamente dai canali alimentati dall’integralismo degli islamisti più estremisti o anche più semplicemente da chi non ha perso l’abitudine di bruciare le bandiere israe-

Esattamente come oggi con Israele, che è un angolo di libertà in Medio Oriente e che è una delle grandi e più antiche democrazie che si affacciano sul Mediterraneo (va ricordato ad esempio agli spagnoli e ai greci che le regole della democrazia israeliane precedono di molti anni quelle che si sono date gli abitanti di Madrid e di Atene). Ha dunque ragione Fiamma Nirenstein quando ci ricorda che «dobbiamo difendere il diritto di ogni democrazia: non farsi annientare». Dunque, essere lì oggi in piazza Montecitorio ha anche questo significato: dirci e dire agli altri che ogni volta che cade un missile su Israele noi ci sentiamo israeliani per la semplice ragione che chi vuole distruggere Israele e chi cancella il dato di fatto dell’uccisione di israeliani, come ha fatto Tahar Bel Jelloun, alla fine vuole distruggere anche noi, la nostra cultura e forse anche il nostro diritto all’esistenza, se la pensiamo in modo diverso.


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mondo

Lotta al terrorismo. Dopo 100 anni di vita l’Fbi ha cambiato pelle, scalzando anche la Cia

Nuovi giochi senza frontiere di Pierre Chiartano irginia chiama Mumbai. Ci sono rapporti – dimostrati da numerose sentenze – tra la Virginia jihad e l’organizzazione terroristica Lashkar-e-Tayyiba (Lt), accusata degli attentati in India dello scorso novembre. Alcuni elementi dell’organizzazione ultrafondamentalista, con base negli Usa, sarebbero stati addestrati nei campi pakistani del Lt oltre ad aver fornito materiale per azioni terroristiche. Lo ha testimonato Donald Van Duyn, pochi giorni fa, davanti al Committee of Homeland security del Senato Usa, cosa stanno facendo a Mumbai in India, come in Virginia, per combattere i terrorismo.Van Duyn è il capo dell’intelligence del Federal bureau of investigation (Fbi), una delle agenzie che da anni sta calpestando il prato, un tempo, dominio quasi esclusivo della Cia: le missioni all’estero. L’agenzia investigativa, braccio operativo

V

spionaggio all’estero era compito dell’Oss (Office of strategic service) fino al 1948 e poi della Cia quando il generale Donovan lanciò la proposta. Dopo l’attacco a Pearl Harbor, F. D. Roosevelt decise di cambiare qualcosa e furono mandati i primi agenti di collegamento all’estero. L’anno della svolta fu poi il 1993, quando si passò, in pochi anni, ad aprire 60 sedi presso le ambasciate di mezzo mondo, con più di 200 uomini messi alle calcagna di terroristi, criminali e corruttori. Possiamo affermare che ci fu una globalizzazione anche della “legge”, secondo il modello Fbi. Oggi c’è stata la moltiplicazione di funzioni e competenze. Il law enforcement, cioé le investigazioni a supporto dell’azione giudiziaria, è diventate importante quanto – e forse più – della raccolta delle informazioni, per sbattere in galera i cattivi. Lo spionaggio è mutato e l’Fbi ha acquisito capacità d’intelligence e

provocare tanti danni». Così l’Fbi è sbarcata in forze in India. Ciò che più colpisce di questa macchina “quasi perfetta” è il coordinamento d’azione su più livelli. Ci sono due iniziative da cui nascono le altre attività all’estero. La prima è l’International criminal investigative training assistance program (Icitap) che serve a sviluppare le capacità tecniche delle forze di polizia e penitenziarie.

La seconda è l’Office of overseas prosecutorial development assistance and training (Opdat), che fornisce supporto per istituzioni come Tribunali e Procure e nello sviluppo delle riforme legislative del settore, per quei Paesi partner che ne facciano richiesta. L’Italia è fra questi; da ricordare l’intenso rapporto tra Giovanni Falcone e Louis Freeh, nel 1985 procuratore federale a New York, poi diventato direttore del Bu-

in breve Il film di Obama, inaugurazione trasmessa al cinema La cerimonia dell’inaugurazione del presidente Barack Obama, il 20 gennaio prossimo, verrà trasmessa in diretta anche in 27 sale cinematografiche del Paese. Ad annunciarlo è stata la Msnbc precisando di aver raggiunto un accordo con Screenvision per trasmettere in diretta in 27 cinema la cerimonia. L’ingresso nelle sale sarà gratuito. L’accordo consentirà alla Msnbc di raggiungere un pubblico più ampio ed ai gestori delle sale cinematografiche di riempire i cinema in ore in cui comunque non sarebbero utilizzati vendendo anche agli spettatori bibite o snack.

Inguscezia, esplode palazzo, forse attentato

L’anno della svolta fu il 1993, quando si passò, in pochi anni, ad aprire 60 sedi presso le ambasciate di mezzo mondo, con più di 200 uomini messi alle calcagna di terroristi, criminali e corruttori

È di almeno 7 morti e 13 feriti, il bilancio di un’esplosione che nella mattina di ieri ha semi-raso al suolo la sede di un ufficio delle imposte a Nazran, capitale dell’Inguscezia, Repubblica autonoma della Russia confinante con la Cecenia. Le autorità non escludono che si tratti di un attentato della guerriglia cecena.

Zimbabwe, 40mila contagiati dal colera

del ministero della Giustizia americano, è stata legata per quasi mezzo secolo ad un figura.“Mitica”per alcuni,“ambigua”per altri: John Edgar Hoover. Fondata ne l 1908, l’Fbi aveva, nel 1924, solo 600 agenti che, nel 1972, erano passati a 6mila.

Oggi conta 31mila impiegati, dei quali 12.851 sono agenti speciali e 18.393 figure professionali di supporto, come analisti, esperti in lingue, scienziati e informatici. Il bilancio del 2008 è stato “semplicemente”di 6,8 miliardi di dollari (dati ufficiali Fbi). Comunque ai tempi di Hoover non potevano operare fuori dai confini nazionali. La divisione di compiti era tassativa: solo operazioni di controspionaggio in patria. Lo

d’intervento oltre a quelle investigative tradizionali. Bin Laden è in cima alla lista dei ricercati dall’Fbi e di molte agenzie, ma il più grosso cambiamento in seno al Bureau è stato la presenza di un attaché in ogni ambasciata di una certa importanza. L’Office of international operations (Oio) al quartier generale dell’Fbi a Washington, coordina l’attività dei numerosi uffici all’estero. In tutto il mondo è possibile trovare un legal attaché che ha competenze per tutte le minacce che riguardino cittadini o interessi americani all’estero. Nell’audizione davanti alla Commissione per l’Homeland security è stato descritto il coinvolgimento del Bureau nelle indagini sugli attacchi di Mumbai del novembre 2008. E sembra incredibile come «un numero limitato di terroristi ben addestrati, con armi relativamente poco sofisticate – ha spiegato van Duyn - possano

reau qualche anno dopo. Quindi il Bureau conta su tre livelli di rapporti con i Paesi stranieri: uno politico, uno tecnico e l’ultimo operativo. A Mumbai hanno addirittura organizzato diversi team che producono informative per gli apparati di sicurezza locali. Il tutto coordinato da una situation room a Los Angeles. Una delle lezioni imparate in India è che gruppi come Lt, dalle ambizioni solo regionali, come attacchi alle forze indiane nel Cashmere, possono mutare aspirazioni. Ricordiamo che Lt fu anche autore dell’attacco al Parlamento indiano di New Delhi, nel 2001. Oggi sul ponte di comando dell’Fbi rimane l’ex ufficiale dei Marines, Robert S. Mueller, in carica dal 2001, che Obama vorrebbe riconfermare. Nella sede dell’Accademia di Quantico, intanto, rimane a memoria della stima e della collaborazione fra i difensori della legge, la statua di Falcone, che non scatena polemiche, ma solo moltissima ammirazione.

Si aggrava senza sosta il bilancio dell’epidemia di colera che dallo scorso agosto ha colpito lo Zimbabwe: secondo dati aggiornati all’altroieri diffusi dall’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il numero dei morti accertati sfiora infatti le duemila persone, mentre quello dei contagiati dall’epidemia è di poco inferiore alle quarantamila; le cifre esatte sono 1.937 e 38.334 rispettivamente. A causa del totale collasso dei sistemi igienico-sanitari, e delle reti idriche, il morbo è ormai presente in tutte le dieci province del Paese africano, e nell’89 per cento dei suoi 62 distretti. Dopo aver incautamente annunciato la fine della crisi, il regime del presidente Robert Mugabe ha poi dovuto proclamare lo stato di emergenza nazionale e, per la prima volta, chiedere aiuto all’estero, Occidente compreso.


mondo

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Energia. La gestione ucraina della crisi del gas mette in pericolo il suo ingresso in Europa are che l’inverno in corso sarà l’ultimo in arancione per l’Ucraina. La guerra del gas tra Mosca e Kiev, questa volta, si sta trascinando troppo a lungo e sta investendo anche le capitali europee. L’Ue, che inizialmente si era volutamente tenuta fuori dalla querelle bilaterale, ora sta diventando il terzo giocatore attivo sul campo. Nel ruolo, forse, della parte più debole. Per la Russia continua a essere impossibile garantire il transito di gas verso l’Europa attraverso l’Ucraina. Sebbene Gazprom abbia fatto ripartire il flusso verso l’Europa attraverso Kiev, interrotto a causa del prelievo non autorizzato di metano da parte ucraina, il completo transito di gas verso l’Europa non si è ancora realizzato. Nonostante le consultazioni trilaterali Russia-Ucrina-Ue dei giorni scorsi e l’accordo firmato a Bruxelles per l’avvio di controlli congiunti.

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L’autogol di Kiev, sempre meno Ue di Ilaria Ierep menti stranieri in Russia, crollato con la recente crisi dei mercati finanziari mondiali. Una soluzione, quindi, sembra lontana, se a tutto questo si aggiunge che la Russia ha cancellato la sua offerta di vendere il gas a Kiev a 250 dollari ed è intenzionata a portare il prezzo in linea con quello europeo, ossia quasi il doppio. Per parte sua, l’Ucraina giustifica l’attuale situazione con il fatto che il gas russo destinato all’Europa non passa per il sistema ucraino dei gasdotti a

Nel gioco delle dichiarazioni e delle smentite, Mosca ora alza il livello delle accuse e parla di “un’orchestrazione” dall’esterno dell’Europa. In particolare, per il numero uno di Gazprom, Aleksei Miller, lo stop non è semplicemente attribuibile a

Il continuo “stop and go” sta facendo precipitare le chances per il Paese di essere considerato un partner affidabile di fronte agli Stati di cui vuole diventare alleato. Nato compresa Kiev e non si può risolvere solo in ambito europeo. L’Ucraina ieri ha deciso di non permette agli osservatori russi – parte della commissione per il monitoraggio internazionale – di accedere agli stoccaggi, così come al centro di controllo del sistema di gasdotti ucraini. Anche se in serata Ferran Tarradellas, portavoce del commissario Ue all’Energia Piebalgs, ha allentato i toni dicendo che gli osservatori europei sono riuscito a ottenere il pieno accesso alle sale di controllo dei centri di smistamento del gas di Gazprom e Naftogaz a Mosca e Kiev. Tuttavia, il pugno fermo di Mosca nell’esigere i pagamenti da Kiev e il raggiungimento di un compromesso definitivo va considerato anche da un’altra prospettiva.

Quella del costante indebolimento del rublo. Solo due giorni fa la moneta russa è caduta dell’1,5% rispetto al paniere di riferimento dollaro/euro. Dall’inizio dell’anno la svalutazione è pari al 3%. La politica di svalutazione del rublo punta ad agevolare il flusso di investi-

causa di condizioni per il transito inaccettabili imposte da Gazprom. Kiev chiede delle regolamentazioni nella cooperazione tecnica per il lavoro nelle stazioni di pompaggio al confine con la Russia, denunciando problemi nel ricevere il metano dopo la riapertura dei rubinetti russi. Ma questo non è tutto. La guerra del metano rischia di trasformare in campo di battaglia anche lo stesso governo di Kiev.

L’opposizione ucraina, composta dai filorussi del Partito delle Regioni e dai comunisti, ha chiesto di presentare nella prossima seduta del Parlamento un voto di sfiducia per il governo di Yulia Tymoshenko e l’apertura della procedura di impeachment contro il presidente Viktor Yushchenko per gli abusi nella conduzione del “dossier gas”. La crisi interna che si potrebbe scatenare nel breve periodo farebbe buon gioco a Mosca. Considerato che sui mercati dell’energia nulla è completamente slegato dalla politica, si potrebbe concretizzare il se-

in breve GB, la crisi investe Gordon Brown La crisi economica mostra i denti in Gran Bretagna: ieri, in un singolo giorno, sono stati annunciati 4mila licenziamenti da varie grandi aziende, e il commercio - nonostante i massicci saldi partiti molto prima di Natale - ha registrato il peggior dicembre da 14 anni a questa parte. A Londra cresce la paura per la recessione, e a farne politicamente le spese è il premier Gordon Brown: dopo una ripresa nei favori dei compatrioti proprio grazie alla gestione della crisi, i suoi sondaggi tornano a calare e i Conservatori tornano ad avere un distacco a due cifre. Il partito di David Cameron è ora al 43% dei consensi (+4% da inizio dicembre), mentre il Labour è al 33 (-2%). La notizia sulla nuova crisi di popolarità del primo ministro giunge mentre la scure dei licenziamenti si abbatte su settori come trasporti, alimentare, distribuzione, stampa e finanza. Proprio due giorni fa, Brown aveva presentato un pacchetto da 500 milioni di sterline a sostegno dell’occupazione.

Praga, Havel in ospedale

In alto, la sede della Commissione europea di Bruxelles, a fianco il presidente Barroso assieme a Vladimir Putin, che certo non si duole dell’insuccesso diplomatico ucraino greto fine di Mosca di far collassare il Governo ucraino filo-occidentale nato dalla Rivoluzione arancione del 2004. Così come tre anni fa, anche oggi il presidente Yushchenko resta la preda dell’orso russo. A fare da mediatore ci pensa l’Ue, cercando di minimizzare i gravi danni che alcuni Paesi, soprattutto dell’Est, stanno contando. Per Bruxelles la mancata ripresa delle forniture di gas russo all’Europa attraverso l’Ucraina è una situazione completamente inaccettabile. Tuttavia, al momento l’esecutivo Ue rifiuta di addossare la colpa a una delle due parti in causa. La politica adottata è quella di non anticipare le conclusioni sulle cause dell’ostacolo alle forniture. La sentenza sarà rinviata dopo le discussioni ad alto livello avviate da Barroso e dal presidente ceco Mirek Topolánek con le leadership di Mosca e Kiev.

Il continuo rimandare dei negoziati, però, non giova a nessuno. Kiev in testa. L’atteggiamento di contrasto che l’ex Repubblica sovietica ha assunto nei confronti di Mosca non potrà essere sostenibile nel medio periodo. Quella che agli occhi di molti osservatori internazionali sembra essere la volontà di mettere la Russia contro l’Europa si potrebbe rivelare un gioco pericoloso dai rischi non calcolati. Con quali vantaggi? Non va dimenticato che l’Ucraina aspira a diventare membro dell’Unione europea, nonché dell’Alleanza Atlantica, membership, quest’ultima, già pesantemente posta sotto scacco dalla Russia. La guerra del gas sta facendo precipitare le chances per Kiev di essere considerata un partner affidabile di fronte a quei Paesi cui essa stessa vuole diventare alleata. La partita rimane aperta, l’esito incerto. *Analista Ce.S.I.

L’ex presidente ceco Vaclav Havel è stato ricoverato all’ospedale Motol a Praga e sottoposto ieri «a un piccolo intervento». Adesso è ricoverato nel reparto otorinolaringoiatria e le sue condizioni sono stabili. Havel, 72 anni, era stato ricoverato l’ultima volta un anno fa per aritmia cardiaca e bronchite acuta. Negli anni ’90 fu ricoverato 17 volte.

Usa, il giorno di Hillary «Gli Stati Uniti da soli non possono risolvere i problemi più pressanti del mondo. Ma il mondo non può risolverli senza gli Usa. Dobbiamo lavorare per avere più alleati e meno avversari». Lo ha detto Hillary Clinton al Congresso nel corso dell’audizione per la ratifica dell’incarico a segretario di Stato. «Penso che la potenza americana ha lasciato a desiderare ma resta desiderata», ha affermato l’ex first lady, 61 anni, accompagnata solo dalla figlia Chelsea.


cultura

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Protagonisti. La storia e l’identità italiana: torna di grande attualità l’opera di uno dei massimi scrittori italiani, sempre attento alla ricostruzione delle radici

Il secolo della memoria Il Novecento di Mario Rigoni Stern in due libri, una sceneggiatura e una lunga intervista postuma di Alessandro Marongiu er dire della grandezza d’animo dell’uomo, prima ancora che dei meriti dello scrittore, si possono portare ad esempio due passi tra i più emblematici di Il sergente nella neve, il libro che segnò l’esordio di Mario Rigoni Stern: il primo racconta un episodio avvenuto quando ancora la ritirata dal fronte russo non è cominciata, poco dopo uno scontro a fuoco tra gli italiani e il nemico. Alcuni militari sovietici, rimasti illesi, si avventurano nella distesa di neve per recuperare i loro feriti. Per Rigoni e i suoi, quei soldati, in campo aperto e senza la possibilità di utilizzare le armi per rispondere, sono un bersaglio facile. Eppure il “sergentmagiú” intima l’alt: «Non sparate!», grida, «non sparate!».

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Neppure in guerra, neanche a rischio della propria vita, sembra voler dire Rigoni col suo comando, ci si deve dimenticare della propria e dell’altrui umanità, specie quando si è mandati al fronte senza neanche sapere bene il perché, e si riconosce nella parte avversa lo stesso smarrimento, la stessa costrizione a fare qualcosa che in situazioni normali si rifiuterebbe senza meno. È solo grazie a una tempra come questa che, quando la sacca si è svuotata e le truppe italiane stanno ripiegando, si può verificare un secondo episodio significativo del libro come quello che segue: il sergente si muove oramai in solitudine, all’interno di un villaggio sperso nella steppa, apre la porta di una baita in cerca di riparo e cibo, e vi trova una famiglia di contadini che sta offrendo un pasto ad alcuni soldati russi. L’alpino ha in braccio il fucile, ma dentro la baita nessuno percepisce cattive intenzioni: e infatti nessuno si muove, se non per continuare a mangiare. Rigoni Stern posa l’arma e si siede con gli altri, consuma un piatto di latte e miglio nel silenzio generale, e poi ringrazia, si alza e lascia la baita. Un fatto quasi irreale, possibile però perché, prima che un nemico, gli occhi dell’uno hanno visto

in quegli degli altri, e viceversa, dei propri simili, degli esseri umani, dei fratelli di sventura. Tocca l’amaro compito di constatare come quelli fossero davvero “altri tempi”, non fosse che sono passati appena 65 anni, e non svariati secoli. Oggi, alla pietas di allora, si è sostituito il lessico volgare dei “danni collaterali”: e non si può certo essere accusati di

sentimentalismo, se si rimpiange quel passato.

Come tutti sanno, Mario Rigoni Stern se n’è andato nel giugno dello scorso anno. A sei mesi di distanza dalla sua morte, vale la pena tornare sulla sua figura e sulle sue opere, approfittando dello spunto offerto da due libri di recente pubblicazione che lo vedono protago-

nista: uno, in lavorazione mentre lo scrittore era ancora in vita, risulta quindi postumo solo per una dolorosa fatalità; l’altro, uscito lo scorso ottobre, nasce invece con l’esplicito intento di rendere omaggio postmortem a «un uomo per molti versi straordinario». Il primo volume, edito da Einaudi, è la sceneggiatura di inizio anni ‘60 tratta dalla sua opera più importante (Il sergente nella neve – La sceneggiatura, 245 pagine, 18,50 euro), che non trovò mai la via della realizzazione cinematografica. Non può certo stupire che ci sia stato chi provò a ricavare un film da quel testo: e per la sua importanza come testimonianza di un momento atroce della storia patria del ‘900, e perché si prestava perfettamente, per come era stato scritto, a essere trasposto su grande schermo. Sono infatti pochi i libri, com’è stato e continua tutt’ora a essere Il sergente nella neve, capaci di ingenerare nella mente di chi legge immagini così vivide da sembrare, più che il frutto dell’azione di uno scrittore, ricordi di esperienze proprie, che si è vissute in prima persona. Forse, il grande valore de Il sergente nella neve sta proprio qui, nell’esser riuscito a raccontare l’orrore facendo capire in maniera concreta di cosa si trattasse.

Negli anni Sessanta, il narratore lavorò con Ermanno Olmi a una trasposizione cinematografica del «Sergente nella neve», ma il film non fu realizzato

l’autore Mario Rigoni Stern è nato ad Asiago nel 1921 dove è morto il 16 giugno dello scorso anno. Scopertosi scrittore di testimonianza quasi per caso, grazie alla sua memoriabile cronaca della ritirata dalla Russia («Il sergente nella neve»), è poi diventato uno dei nostri massimi narratori, soprattutto con la trilogia composta da «Storia di Tonle» (1978), «L’anno della Vittoria» (1985) e «Le stagioni di Giacomo» (1995). Il rispetto per la natura e la ricerca delle radici sono sempre stati i suoi due imperativi, declinati in tanti volumi di riflessione (dal «Bosco degli urogalli» del 1962 a «Arboreto salvatico» del 1991) e in molte raccolte di racconti.

In Storia di Mario. Mario Rigoni Stern e il suo mondo (a cura di Giulio Milani, Transeuropa, 112 pagine, 10 euro), il secondo volume di cui si vuole qui dar conto, lo scrittore dà una suggestiva conferma a questa parole: «Qualche giorno fa sono stato all’università di Padova, uno degli studenti mi ha domandato perché fossi diventato scrittore. È una cosa molto semplice. Quando ho messo insieme vocali e consonanti, in prima elementare, a Natale, e quella parola diventava concreta e significava quello che per me era “n-e-v-e”, scrivevo “neve” e nevicava fuori. Ecco, questa parola corri-

spondeva alla neve fuori. Le parole diventavano le cose…». Dice in proposito Ermanno Olmi, che fu proprio grazie al libro di Rigoni Stern se ebbe la possibilità «di capire, senza più l’enfasi della retorica militaresca e l’inganno delle fanfare, che la guerra è dolore della carne e offesa della vita». Non lo si cita a caso, il regista de Il posto: avrebbe dovuto infatti dirigere lui la pellicola. Purtroppo, come già accennato, i buoni propositi rimasero tali – e i perché li spiega Gian Piero Brunetta, uno dei nostri maggiori storici del cinema, nel saggio finale che fa da ideale cornice al testo; almeno, la duratura amicizia che nacque a quel tempo tra Olmi e «l’amico Mario», fruttò successivamente una produzione per la Rai, I recuperanti (1969), figlia anch’es-


cultura

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Qui accanto, Mario Rigoni Stern nella sua casa di Asiago. Sopra e sotto, alcune drammatiche immagini della ritirata in Russia del 1943 e, nella pagina a fianco, un disegno propandistico dell’epoca

sa delle vicissitudini di guerra, dato che vi viene narrata la vita di un giovane reduce che, tornato al paese, è costretto a guadagnarsi da vivere disinnescando ordigni inesplosi, mettendo continuamente a repentaglio la propria vita.

Rispetto al libro, la differenza maggiore che si riscontra nella sceneggiatura sta nella saggia decisione di abbandonare il racconto in prima persona, che nel lungometraggio avrebbe comportato l’uso di una voce fuori campo, alla lunga stancante per lo spettatore; l’ovvia conseguenza è il respiro più corale che acquista tutta la vicenda. Ciò che più colpisce è, però, la scelta dei due autori Rigoni Stern e Olmi di optare per il registro tipico del Neorealismo, in anni in cui del mo-

vimento che fece grande il cinema italiano non si avevano più tracce: l’intenzione non era certo da revival, ma dietro c’era la volontà di far guadagnare alla pellicola «nella forma espressiva quel rigore che gli

portage di guerra; si è scartata l’idea del cinemascope e del colore, che potrebbero costituire per lo spettatore una costante presenza della finzione cinematografica; indispensabile l’uso della presa diretta sonora e di attori non professionisti». Ed è così che, se il film si fosse realizzato, la natura evocativa delle parole del “sergentmagiú”, di cui si diceva poco sopra, avrebbe raggiunto la sua più naturale evoluzione. Storia di Mario. Mario Rigoni Stern e il suo mondo, tra le altre cose, mostra un uomo che, nel ventunesimo secolo (l’intervista che ne costituisce l’ossatura è del 2002), è in perfetta sintonia e costante dialogo con quello di 60 anni prima: «Io non sarei più capace di scrivere Il sergente nella neve come l’ho scritto, non sarebbe più quello. Poteva nascere solo così: un anno dopo i fatti raccontati. Se lei confronta altra narrativa venuta dopo, ci si accorge. Il mio potrebbe essere un

Nel 2002, Giulio Milani registrò una lunga conversazione con l’autore di Asiago: un ritratto che oggi appare come una summa delle sue idee e della sua umanità ambienti, i personaggi, i fatti, esigono per la loro stessa natura». Ecco, infatti, come la coppia aveva pensato il film: «È importante la suggestione di immagini autentiche come se appartenessero a un grande re-

documentario girato in bianco e nero, gli altri sono montaggi a colori». Il cerchio si chiude.

Quello curato da Milani è un libro di interesse e importanza notevoli, anche grazie alla capacità dell’intervistatore di sollecitare l’interlocutore sui punti più significativi della sua esistenza. I ricordi di Rigoni Stern procedono su due binari paralleli, quello della vita civile e militare, e quello della formazione e della carriera letteraria, quest’ultima fondata su poeti e narratori russi in primis (Esenin su tutti), ma anche su romanzieri nord-americani, «poeti maledetti francesi, il Leopardi dello Zibaldone». Con tutti gli inevitabili incroci del caso: «Papini era un’esaltazione dell’imperialismo e della lotta del fascismo contro le “demoplutocrazie”e il “nemico giudaico”. E io ero un ignorante, avevo diciott’anni e mezzo, diciannove, e stavo andando in Russia… Avevo comperato il libretto perché volevo leggere anche Papini. E quando sono arrivato a leggere Questa guerra, il capitolo di Italia mia, ero un ragazzo ignorante cresciuto

col fascismo eccetera, ma ho buttato il libro nella steppa… È stato il mio primo atto di ribellione, direi… Ma così, per indignazione spontanea». Molto spazio, inevitabilmente, è dedicato alla campagna e alla ritirata di Russia. Sull’argomento, Milani pone la domanda per eccellenza a Rigoni Stern, e cioè come avesse fatto, una volta rientrato in Italia, a continuare a vivere dopo aver vissuto una simile, devastante esperienza. La risposta non ha bisogno di ulteriori commenti: «Quando sono tornato, ero fisicamente in pezzi. E naturalmente questa distruzione fisica avrà agito ulteriormente sul morale, è logico. Perciò ero molto magro, avevo febbre, e facevo fatica a riprendere la vita normale. E come succedeva a Primo Levi, quando raccontavo quello che avevo visto non volevano credermi. La gente voleva cambiare discorso. E poi, piano piano, è stato riscoprire la poesia e la natura, ecco, che mi ha aiutato. Ho riscoperto la poesia, ho riscoperto il bosco, l’aria, il sole, le stelle di notte, e sembrava che i compagni fossero ancora con me…».


cultura

pagina 20 • 14 gennaio 2009

MILANO. E arrivarono i giorni della profanazione. In Galleria, Niki de Saint Phalle prende a fucilate di vernice uno dei suoi blasfemi altari. Pochi metri più in là, sempre nel “salotto buono”, César si produce in una delle sue Espansioni : da un bidone, versa sul pavimento plastica fusa; la fa solidificare, la taglia a tocchetti e dopo averla firmata la distribuisce agli attoniti presenti. Fuori dalla Galleria, in piazza Duomo, Christo impacchetta il monumento di Vittorio Emanuele II. Un manipolo di operai in sciopero, si allontana dal corteo e si arrampica sulla statua con slogan e pugni chiusi dando vita a un happening sull’happening. Sui gradini della cattedrale, Jean Tinguely dà fuoco alla statua fallica intitolata alla Libertà; alla Rotonda della Besana, Arman distribuisce buste trasparenti che rigurgitano spazzatura; al parco Formentini, Mimmo Rotella si appresta a lacerare manifesti pubblicitari. Chi osa contestarlo, viene coinvolto nell’azione. Il 27, 28 e 29 novembre 1970, i nuovi realisti si riuniscono a Milano. Ci sono anche Jacques Villeglé, François Dufrêne, Daniel Spoerri, Gérard Deschamps, Raymond Hains. All’appello mancano Yves Klein (morto nel ’62) e Martial Raysse, che ha deciso d’imboccare la rutilante via della Pop Art. Tutti insieme, follemente, espongono alla Besana il loro fare arte e divorano al ristorante Biffi l’Ultima Cena organizzata da Spoerri, che mette in tavola cibi ispirati alle loro opere in una sorta d’ingorda “eat art”. Dichiarano, così, la propria “morte artistica”. Celebrano il “funerale”del Nouveau Réalisme. A quelle fatidiche tre giornate (e a ciò che è successo dopo) Milano rende omaggio con la mostra Il Nouveau Réalisme dal 1970 ad oggi, in cartellone al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea fino all’1 febbraio (catalogo Silvana Editoriale, 35 Euro). Ricordando, altresì, il critico d’arte Pierre Restany: ideologo del movimento che fece a pezzi la pittura gestuale/materica per imporre, fondendosi al realismo urbano e industriale, il consumismo “pop” dello scarto

Celebrazioni. Milano rende omaggio al movimento degli anni Sessanta

Torna il realismo del Terzo Millennio di Stefano Bianchi e del rifiuto. Succede nell’aprile del ‘60 (sempre nel capoluogo lombardo, alla Galleria Apollinaire di Guido Le Noci), prima di sancire nero su bianco a Parigi, in autunno, la nascita di

cettivi del reale». Scritto e firmato sopra un foglio blu a casa di Yves Klein, in rue Campagne-Première, da Restany e da Arman, Villeglé, Martial Raysse, Tinguely, Hains,Yves le mo-

E l’antologica, quei rivoluzionari giochi che erano ghigni beffardi, strappi e cozzar di lamiere, li mette in mostra alternando manife-

Da Christo a Tinguely, da César a Niki de Saint Phalle: una mostra al Pac ripropone opere e provocazioni che culminarono in una grande installazione collettiva che fece scalpore nel 1970 questa derivazione surreal-dadaista con la Déclaration Constitutive du Nouveau Réalisme che recita: «Giovedì 27 ottobre 1960. I Nouveau Réalistes hanno preso coscienza della loro singolarità collettiva. Nouveau Réalisme = nuovi approcci per-

nochrome, Spoerri-Feinstein e Dufrêne. Rotella e César interverranno alle successive manifestazioni del gruppo che fagociterà Niki de Saint Phalle e Gerard Deschamps nel ’61, Christo nel ’63. Fine dei giochi, appunto, nel ’70.

In alto, «La Libertà» di Mimmo Rotella. Sopra a sinistra, «Wrapped Monument to Vittorio Emanuele II» di Christo. Qui a sinistra, «La poubelle de Mimmo» di Arman. A destra, «Pacific Paradise» di Gerard Deschamps e «Saffa» di Raymond Hains. Tutte opere esposte al Pac di Milano.

sti lacerati e sovrapposti l’uno sull’altro (i decollages di Rotella che graffiano la pubblicità; quelli di Villeglé e Dufrêne, affichistes che scarnificano la carta rendendo-

la magma di codici astratti); progetti di colossali empaquetages (Christo); cigolanti ingranaggi (Tinguely); violini che si disintegrano, poubelle pressata nel plexiglass e claustrofobìe d’oggetti (Arman); frammenti di tessuto e variopinti foulards compressioni (Deschamps); d’acciaio e lamiere accartocciate (César); pacchetti di fiammiferi metaforicamente estratti dal taschino e ingigantiti (Hains); bersagli “kitsch” e idoli propiziatori (Niki de Saint Phalle); “quadri-trappola” che “catalogano” stracci da “marché aux puces” (Spoerri). A qualche lavoro “pre-de profundis”che testimonia l’epoca d’oro dei nouveau réalistes - come La poubelle de Mimmo di Arman (’64) che comprime rasoi da barba elettrici, il décollage di Rotella intitolato In ascolto (’62) e la piccola Compression di César (’66) con scarti d’automobile - si affiancano i successivi lavori che hanno visto ogni artista percorrere strade autonome, pur continuando a operare nel medesimo solco ispirativo. Da qui, la serie di accartocciamenti della Suite Milanaise (dal Verde Manaos al Giallo Naxos) eseguiti da César nel ’98; lo skateboard Pacific Paradise di Deschamps (2001); la parata di sci di Hains (La foire au Ski, ’88); i 22 metri e mezzo di Manson and the Little Rabbits (2001), avviluppo di manifesti lacerati da Villeglé che raffigurano Marilyn Manson, icona del rock orrorifico; i barbarici Idoli di Prillwitz assemblati nel 2008 da Spoerri (come si percepisce la mancanza di certi gloriosi tableau-pièges con residui di cibo, mozziconi di sigarette, bicchieri sbavati!).

Il rischio era di creare il cosiddetto “effetto televendita”: come succede con certi violoncelli di Arman “distrutti” negli anni Novanta, o certe sculture da routine “sezionate” pochi anni fa. Ma sono, per fortuna, peccati veniali. Che non compromettono la “morte apparente” del Nouveau Réalisme.


cultura

14 gennaio 2009 • pagina 21

Polemiche. A che punto è il giornalismo culturale? Attento solo a costruire liti inesistenti. Per ragioni di bottega

Piccoli critici (non) crescono di Massimo Onofri segue dalla prima Di qui il paradosso: le forze ci sono, ma i risultati del dibattito culturale sono spesso scadenti e quasi sempre fuori fuoco. Prendete la recente polemica su Carlo Sgorlon, il torrenziale scrittore pluripremiato. Esce un’onesta e limpida recensione di Dario Fertilio sul Corriere della Sera alla sua autobiografia, La penna d’ora, dove si dice che Sgorlon ravvisa nel successo di “sinistra”di alcuni scrittori una delle cause della sua ghettizzazione. Giorgio De Rienzo, nei giorni seguenti, osserva che magari l’idea di letteratura di Sgorlon non è all’altezza di quella di Calvino e Sciascia (i colpevoli), per complessione e qualità. Notazione legittima. Eppure, scoppia un putiferio sulle pagine del Giornale e del Secolo d’Italia.

Il succo delle sdegnate reazioni? Il caso Sgorlon sarebbe la prova di come la “sinistra” ha sempre ostacolato quegli scrittori tradizionalisti che hanno voltato le spalle al razionalismo e all’illuminismo, ritornando al sacro. Dino Messina, sempre sul Corriere, fa opportunamente notare che la polemica è pretestuosa e che l’obiettivo è generico. Apriti cielo: arriva così la lista dei proscritti, di quelli che non si sono mai occupati di cotanto scrittore, del gigante Sgorlon, compresi intellettuali consanguinei e conterranei, da Zanzotto a Tomizza, da Magris a Camon. Intanto, vale registrare il metodo di questo nuovo modo di fare polemica: attaccare qualcuno, non per quanto ha fatto, ma per quel che s’è astenuto dal fare. Il dato straordinario è, però, che nessuno si sia sognato di argomentare qualcosa di sensato. Con l’eccezione di Giulio Ferroni il quale ha detto l’unica cosa da dire: che come Sgorlon ce ne sono altri cinquanta, e altrettanto trascurabili quando si fa un manuale di storia letteraria. Anche a me la questione pare chiara: non è il ritorno al sacro che fa, di per se stesso, un grande scrittore; così come non lo rende tale la disposizione illuministica. Sgorlon è un grande scrittore? Lo si dimostri: con argomenti. Il caso più clamoroso, però, è quello di Libero, che ha improntato le sue pagine culturali a un moralismo molto aggressivo, violento. Capofila l’imbarazzante Massimiliano Parente, che si autodefini-

sce continuamente grande scrittore: sia sul giornale che nei suoi romanzi. Parente, dico: un cavalier servente di Antonio Moresco da lui celebrato su Libero a giorni alterni (in quelli pari incensa Arbasino). Fin qui poco da dire, se non fosse che con Parente si tocca un punto di non ritorno nella distruzione di ogni deontologia minima. Ripetuti sono i suoi attacchi ai critici: lui è uno di quelli che, quando sente la parola critica, mette mano alla pistola. Parente, mentre scrive d’altro, è capace di parlarti degli sms inviati a Berardinelli, dove si dice che il suo romanzo è un «capolavoro», per poi affermare, visto il disinteresse del Berardinelli a recensirlo, che i critici si parlano addosso e si premiano da soli (tra parentesi: mi pare difficile che dei critici giurati, in un premio per la

tro, non si tolgono dai coglioni?». Lo abbiamo capito: Parente detesta la critica. Bisogna dire, a onor del vero, che anche la critica forse detesta Parente: infatti lo ignora. Ma il meglio arriva in un altro articolo, dedicato a un libro su Stefano D’Arrigo, dove Parente agita, su Horcynus Orca, luoghi comuni di terza mano che si ripetono da vent’anni, quando però e proprio non te l’aspetti -, il chiodo fisso del risentimento torna, senza giustificazione, a battere: «I critici italiani, gli Onofri, i Berardinelli, i Manica, i La Porta avrebbero potuto sfornare 50 saggi su D’Arrigo, o almeno uno (…) e invece ogni anno 50 espettorano pamphlet su se stessi e la propria inutilità, poiché non leggono, non studiano, non credono in nulla».

E c c o : n o n s ia mo più alla contestazione di qualcuno per quel che non ha fatto, ma al rimprovero di non fare ciò che invece si fa da sempre (e che Parente s’è ben guardato dal fare: non un saggio suo, niente di niente, però fa la morale). Non parlo di me: bastava che avesse letto il mio Recensire (Donzelli), che ha pure recensito, per accorgersi delle pagine su D’Arrigo. Parlo di Raffaele Manica che, nel suo recente Qualcosa del passato (Gaffi) parla, apdi punto, D’Arrigo. Quel Manica che di D’Arrigo scrive dal 1982, come testimonia il suo lontano Discorsi interminabili (1987). A tal punto, insomma, può arrivare l’ignoranza e la tracotanza: se fosse malafede, ma non credo, sarebbe anche peggio. In altri tempi uno così sarebbe stato allontanato da un giornale: per indegnità. Ma Vittorio Feltri legge ciò che pubblica con tanto rilievo e assiduità?

I casi più recenti sono quelli sul presunto ostracismo di sinistra a Carlo Sgorlon (smentito dallo scrittore) e sui recensori che avrebbero dimenticato Stefano D’Arrigo

critica, non premino altri critici; sarebbe preoccupante il diverso). Per concludere, sui critici, con la consueta eleganza:

«Perché (…) se sono solo capaci di chiedersi cosa ci stanno a fare o chi è meglio dell’al-


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dal ”Guardian” del 13/01/2009

Harry colpisce ancora di Afua Hirsch e Richard Norton-Taylor aki» e «raghead» (letteralmente, testa di stracci) non sono due nuovi personaggi della saga di Harry Potter e neanche i cani della nuova coppia milanese dei Beckham. Sono solo i nomignoli, «dispregiativi», come afferma la stampa inglese, con cui il principe Harry ha chiamato due suoi commilitoni. L’episodio è avvenuto durante un campo d’addestramento dell’esercito di sua Meastà nello scorso week-end. Quando il giovane principe era in squadra con un pakistano e un mediorientale, ha deciso di registrare un ricordo della dura vita militare. Ahi lui.

«P

Di regale però non c’è niente, se non un’altra gaffe dei Windsor, come se non bastassero le precedenti. Il tutto è stato filmato con una camera amatoriale e sparato su YouTube. Apriti cielo! È intervenuta subito la Commissione per la parità e i diritti umani che collabora da tempo con il ministero della Difesa per eliminare discriminazioni su base sessuale o di genere, paventando violazioni e chiedendo che vengano estese le sue competenze anche alla lotta al razzismo. Insomma Il “real nipote”di Elisabetta II d’Inghilterra l’avrebbe fatta grossa. Il problema c’è, e da tempo, nelle caserme britanniche. Probabilmente è stato utilizzato il principe Harry come espediente per lanciare prepotentemente l’argomento sui media nazionali. L’effetto c’è stato, sicuramente. È una questione culturale - secondo molti esperti della materia - perché servirebbe sradicare la mentalità da caserma che ancora impera nelle forze armate britanniche. Gli alti comandi sono seriamente impegnati per eliminare ogni tipo di discriminazione ma – afferma

una fonte anonima dell’esercito – al di fuori di un circolo ristretto di alti ufficiali, il messaggio non arriva. Non è chiaro che certi comportamenti non verranno tollerati e saranno puniti. Altri episodi del genere ci sono stati e ora si discute su quale dovrebbe essere la risposta appropriata da parte del ministero della Difesa. Già un decennio fa, la Commissione per l’eguaglianza razziale aveva minacciato il dicastero di un’azione legale, se non fosse intervenuto con decisione. Lord Ously, già presidente della Commissione, quando nel 1998 il ministero evitò il procedimento giudiziario, ha una sua opinione: «C’è una maggiore sensibilità su questi temi a livello degli alti gradi delle forze armate e vi sono stati dei progressi, ma penso anche che vi siano state delle regressioni. A causa della mancata applicazione delle normative. Il governo ha avuto la mano leggera. Continuano ad esserci congedi di militari a causa di minacce personali». Si è scomodato anche il Primo ministro Gordon Brown, che ha giudicato «inaccettabili» i commenti del principe sui suoi compagni d’Accademia, aprendo però al beneficio del dubbio per il giovane rampollo reale. Insomma, sono ragazzi.

Il clima all’interno dell’Esercito vede gli alti comandi «inviperiti» col giovane Harry, che avrebbe procurato una pessima pubblicità, nella già difficile battaglia per rinnovare l’immagine del mondo in divisa. Ciò potrebbe costargli una reprimenda da parte dei suoi più diretti superiori e una nota di demerito sullo stato di servizio. Immaginiamo già il

principe perdere il sonno davanti a una simile prospettiva. E anche gli esperti in materia di discriminazione razziale dubitano che questo genere di sanzioni possano esimere un’istituzione pubblica da ulteriori obblighi.

«Gli enti pubblici sono tenuti, per legge, a tenere nella debita considerazione la necessità di eliminare la discriminazione razziale, come azione illegale, e promuovere l’uguaglianza e la correttezza nei rapporti», ha affermato Ulele Burnham, un avvocato specializzato sui diritti umani. Sono nate numerose polemiche sul fatto che il ministero della Difesa non abbia reso pubbliche le informazioni sul numero delle denuncie per razzismo presentate fino ad oggi. Anche il numero delle reclute provenienti da minoranze etniche rimane piuttosto basso. Era del 5,8 per cento nel 2007, passato poi al 6,2 per cento nel 2008. I vertici militari hanno poi assicurato che il rampollo reale subirà un “interrogatorio” sull’episodio. Altra notte insonne per il nipote della Regina.

L’IMMAGINE

Rosa Russo Iervolino caccia i giornalisti, ma ormai non ha più niente da dire Rosa Russo Iervolino e Antonio Bassolino sono gli ultimi d’Italia. Secondo l’indagine del Sole 24 Ore, naturalmente. Con questo consenso alle stelle la Rosa Russo si permette anche di cacciare i giornalisti da Palazzo San Giacomo e ordinare ai suoi nuovi assessori di non parlare con la stampa se non utilizzando il canale ufficiale dell’ufficio stampa comunale. Diciamo la verità: quando il potere diventa illeggittimo e impopolare, diventa anche arrogante. Il primo cittadino di Napoli - ma a questo punto bisognerebbe dire l’ultimo cirtadino di Napoli - è nelle condizioni in cui si trova proprio perché non ha mai avuto l’umiltà e il buon senso di confrontarsi con la città e i suoi concreti problmi. Rifiuti pure la stampa tanto non ha più nulla da dire. Bassolino, da parte sua, da vecchia volpe qual è, si guarda bene dal cadere negli errori marchiani e pacchiani della sindachessa. Anche lui non ha più niente da dire, ma almeno lo sa dire.

Valentina Lojacono

CASO VILLARI, UN PLAUSO AI RADICALI Il caso del presidente eletto democraticamente alla presidenza della Commissione di Vigilanza, Riccardo Villari, sta a dimostrar quale sia la reazione dei partiti (o meglio della partitocrazia) a qualsiasi idea che esca dal seminato della pseudodemocrazia nella quale la politica si è da tempo infognata. E il primo passo per costringere Villari ad andarsene, dopo averlo votato in Commissione, è stato compiuto proprio dai capigruppo di Camera e Senato del Pdl, con un apposito documento, al quale ha mostrato grande interesse il Pd. In sostanza, i partiti di maggioranza e opposizione si sono accordati per disertare tutte le sedute della Commissione di Vigilanza e di

impedirne il regolare funzionamento, per mancanza del numero legale dei componenti. Gli unici ad opporsi sono stati i Radicali di Marco Pannella, al quale va il mio personale apprezzamento e plauso.

Angelo Simonazzi

L’ATTACCAMENTO MORBOSO ALLA POLTRONA DEL PD Cos’altro deve succedere nel Pd affinché si prenda atto dell’inevitabilità della sostituzione di strani leader che, convinti di fare politica, stanno dando uno squallido spettacolo di funambolico attaccamento a poltrone sgangherate? A Napoli, Pescara e Roma stanno andando in scena delle vere e proprie sfide al buon senso e alla decenza, che indignano anche coloro che dovrebbero go-

Vitaccia da star Sarà per quel faccione buffo, o per il suo infallibile orecchio musicale, fatto sta che Sara è diventata la star del delfinario di Istanbul. Ma stare in posa per l’obiettivo non è l’unica delle sue prodezze. Questo tricheco (Odobenus rosmarus), infatti, suona anche il sax. O meglio fa finta. E qualche volta balla anche il tango avvinghiata al suo istruttore

dere dello sfascio della sinistra. Che fine hanno fatto i milioni di elettori che sancirono la plebiscitaria incoronazione dell’attuale leader? Se facessi parte di quella schiera scenderei in piazza per chiedere cosa ne è del manifesto politico veltroniano, poi resterei a vedere se anche il valore della sacra piazza è stato sacrificato

alla poltrona.

Salvatore Panarese

GIOCHI DI POTERE La destra sicuramente non ha più anime. Gli antagonismi appartengono all’opposizione che manca completamente di tutto; manca di leader, di programma, di compattezza e di una pacifica convivenza.

È triste che anche il cosiddetto centro cerca di accorpare le anime vacanti del centrosinistra come Letta e Rutelli, per la costruzione non solo di un terzo polo, ma di un programma che si opponga al bipolarismo come sistema elettorale e politico. Sarebbe ora di finirla con questi giochi di potere.

Lettera firmata


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Al di fuori di voi, non incontro che il vuoto! Non meno di voi, amico mio, io desidero la pace, la serenità. Il turbamento che mi ha tanto scossa è ancora così profondo! La vostra lettera mi ha veramente addolorata, ne ho il cuore pieno di lacrime. No, la «potenza temibile» non è in me. Sarebbe contro natura. È tutta in voi, e a seconda che si manifesti o meno, io ne vivo o ne muoio. Le prove reali verranno, dite. Nell’attesa di quell’evento, non ci debilitiamo da soli cercandone di chimeriche. Gettiamo piuttosto l’ancora in anticipo voi «sullo scoglio» ed io nel vostro cuore. Al di fuori di voi, ahimè, non incontro che il vuoto. La gente, i parenti, gli amici, i conoscenti, dove sono adesso? E che cosa rimane della mia anima?... Ve l’ho data tutta intera; essa, così, si trova completamente alla mercé della vostra. Mi chiedete di morire a me stessa per non rivivere che in voi... Ma non avete ancora capito che questo voto è già compiuto, e questa morte mi è dolce perché esalta la mia volontà di rispondere ogni giorno di più ai vostri inviti al sacrificio, all’abnegazione. Dipende ancora, la più forte volontà, dalla mia passione per il dovere. Niente mi aiuterà a compierlo più della vostra fiducia. Essa consacra ed obbliga. Athénais Mialaret a Jules Michelet

IL LUPO PERDE IL PELO MA NON IL VIZIO Mentre si fanno proclami sulla riduzione della spesa pubblica e ci si affanna a dichiarare che bisogna eliminare gli enti inutili per risparmiare, scopriamo che i nostri Signori governanti aumentano le spese. Al Senato, infatti, il 17 dicembre, è stato approvato e trasmesso alla Camera, il disegno di legge delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico. Sapete come si pensa di ottimizzare il lavoro pubblico? Istituendo un nuovo organismo che dovrebbe vigilare sui pubblici dipendenti e che costa già 4 milioni di euro per l’anno 2009 e 8 milioni per il 2010. Si finge di dimenticare che, per il controllo e la valutazione del lavoro dei dipendenti pubblici, vi sono già troppi organismi: revisori dei conti, nucleo di valutazione per i dirigenti, uffici per il controllo di gestione, Urp (uffici relazioni con il pubblico), servizi ispettivi del ministero dell’Economia e di altri ministeri, Corte dei Conti, eccetera; oltre a Tar, Consiglio di Stato e Magistratura ordinaria. Se si vuole che la Pubblica amministrazione funzioni, si facciano funzionare tali organismi e, se ritenuto necessario, si adeguino le loro funzioni. Ma c’è un’altra bella notizia:l’articolo che istituisce il nuovo ente inutile è stato approvato sia dalla maggioranza che dall’opposizione. Si continua a parlare bene, ma si razzola male. Il primo pensiero dei governanti, è approfittare della circostanza per creare poltrone e sistemare amici e parenti. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Questo è il vero problema dell’Ita-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

14 gennaio 1951 La National Football League disputa il suo primo Pro Bowl a Los Angeles 1954 La Hudson Motor Car Company si fonde con la Nash-Kelvinator formando la American Motors Corporation. 1954 Marilyn Monroe sposa Joe DiMaggio 1968 La notte tra il 14 ed il 15 gennaio, nella Sicilia occidentale si verifica il terremoto del Belice, che provoca vittime, ingenti danni, e la distruzione di alcuni paesi 1972 La regina Margherita II di Danimarca sale al trono 1978 Johnny Rotten lascia i Sex Pistols dopo l’ultimo concerto del loro tour americano 1985 Martina Navratilova vince il suo 100° torneo di tennis 1994 Il presidente statunitense Bill Clinton e quello russo Boris Yeltsin firmano gli Accordi del Cremlino che fermano il puntamento preprogrammato dei missili nucleari e provvedono per lo smantellamento dell’arsenale nucleare dell’Ucraina 1996 Jorge Sampaio viene eletto presidente del Portogallo

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

lia. È mai possibile che non si possa fare niente per eliminare tale andazzo?

Giuseppe Porfido

EFFICIENZA PRIVATA E PUBBLICA Lo Stato è la grande finzione, mediante la quale ognuno cerca di vivere a carico altrui.Va sfatato il mito del “settore pubblico buono”, che cura il bene comune e l’interesse generale. La pubblica amministrazione è esclusa dalla sanzione del fallimento; i dipendenti sono illicenziabili e non incentivati, per cui il loro impegno e laboriosità potrebbero essere talvolta attenuati. L’efficienza pubblica può essere relativamente bassa e l’assenteismo elevato. Parimenti, va corretta l’idea che l’operatore privato sia grettamente egoista e particolarista. Egli opera normalmente nel mercato di libera concorrenza, che lo mette alla frusta: per sopravvivere economicamente, deve essere pronto, solerte e disponibile, nonché appagare i gusti, desideri e bisogni del consumatore. La sua opera ha utilità generale; la sua produttività tende ad essere elevata; se sbaglia, spesso paga, al limite col fallimento. La gara competitiva di mercato coinvolge i dipendenti privati, anche loro spronati agli alti rendimenti. Gli sgobboni che lavorano una decina di ore giornaliere sono più frequenti nelle produzioni private di beni e servizi; rari nella pubblica amministrazione (privilegiata anche per la lunga durata di ferie e vacanze). Il cliente è servito dal fornitore privato; l’utente pubblico è sbrigato

Gianfranco Nìbale

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

dai circoli liberal

I FURBETTI DI STATO Enrico Cisnetto ha pubblicato un articolo su liberal dal titolo “Il Governo fa un grave errore a puntare solo sui consumi”. Non c’è nulla che non sia condivisibile. Con straordinaria semplicità egli evidenzia la sequenza logica sbagliata: «prima vengono la produzione e il reddito, e poi i consumi, non viceversa». L’idea di fondo della posizione di Cisnetto è che «i consumi sono una variabile indipendente dalla crescita». Pensarla diversamente significa «raccontare balle alla gente». Ritengo, tuttavia, che il vero motivo di questa politica errata sia ancora più grave: la furbizia di chi è al potere. Ovvero: «convinto che in realtà sono impotente di fronte agli avvenimenti, in attesa che essi volgano in senso favorevole, non voglio perdere il mio consenso politico attraverso dolorosi provvedimenti di vero risanamento». Per far questo le entrate non devono diminuire e quindi, per sostenere gli introiti dall’Iva, i consumi non debbono calare. E anche all’opposizione non spiace la cosa. E per questo egoismo e per la conservazione del potere, si rovinano le famiglie. C’è chi in questo periodo può fare scelte tali da compromettere anni e anni della propria esistenza. Cambiare ad esempio l’auto o acquistare beni voluttuari costosi, magari con il sistema del pagamento rateizzato, può influenzare, come lo è stato per i mutui casa, la qualità della vita in futuro. Un’auto magari costruita in Corea: chi godrà dello spostamento da risparmio famigliare a investimento famigliare? Un operaio della Fiat di Torino? Ho dubbi in tal senso. E neppure si può dare un consiglio su dove investire gli eventuali risparmi, visto che il sistema finanziario ha di fatto reso impossibile, a parte il semplice deposito, che il ciclo risparmio=investimento in termini di nuovo credito bancario resti in un ambito di cui potrà beneficiare in futuro. La riforma dei mercati finanziari deve ricondurre ad una logica di circolo virtuoso tra risparmi e investimenti. La gente deve riappropriarsi dell’idea che risparmiare significa proteggere il proprio futuro e aiutare la propria economia e non quella del Burundi. Si è creata l’insana idea che “del doman non c’è certezza” e che risparmiare non ha senso. Quando ero alle elementari, la Cassa di Risparmio locale organizzava la Giornata del risparmio. Ci regalavano il piccolo salvadanaio. Casse di Risparmio e Banche Popolari erano il motore della piccola e media impresa locale. Un mondo etico, democratico e umano che non esiste più. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

APPUNTAMENTI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL

ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529

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PAGINAVENTIQUATTRO Myanmar. La giunta militare accusa i ratti per la fame del Paese

La crisi alimentare? Per il governo è tutta colpa dei di Vincenzo Faccioli Pintozzi a crisi alimentare che da anni attanaglia il Myanmar? Tutta colpa dei topi. Ratti, per essere precisi, che avrebbero infestato e distrutto le fattorie della parte nord-occidentale del Paese, le più produttive. Non bisogna dunque puntare il dito contro la corruzione del governo, le stravaganze della giunta militare al potere da più di quarant’anni o la disastrosa situazione economica di una nazione che non produce più nulla. Il vero problema sono i topi, che rosicchiano le colture prima della loro maturazione e attaccano i contadini che cercano di scacciarli.

L

A denunciarlo è un’Organizzazione non governativa di stanza a Yangon, che conta fra le sue fila diversi quadri del regime e che non a caso si chiama Agenzia nazionale per lo sviluppo agricolo. Il suo direttore, Joseph Win Hlaing Oo, spiega: «Almeno 70mila persone soffrono la fame da almeno due anni per colpa di un’infestazione di ratti nelle fattorie del nord, a cui va aggiunta una tremenda siccità che ha impoverito le colture». La zona più colpita dai roditori è quella che attraversa lo Stato Chin, uno dei cinque Stati che compongono l’ex Birmania. Qui vive una delle etnie più profondamente avversa al regime militare, che da anni cerca di scardinarne la resistenza e che rappresenta una spina nel fianco per il governo. L’Agenzia, spiega il suo responsabile «ha iniziato la distribuzione gratuita di generi alimentari di prima necessità, ma questi non bastano per tutti. Inoltre, siamo costretti dalla

dura situazione economica nazionale a distribuire il cibo secondo un programma di “cibo in cambio di lavoro”, che ci permette di mantenere comunque i campi coltivati».

Il Programma alimentare delle Nazioni Unite conferma in parte le dichiarazioni del governo di Yangon. Secondo un rapporto stilato da alcuni esperti del Palazzo di Vetro, i ratti hanno colpito i campi indicati “al 75 per cento,

dell’Agenzia nazionale sono distribuiti in maniera «settaria e su base evidentemente politica. I contadini sono costretti a lottare per il cibo giorno dopo giorno, e si devono nascondere nelle foreste per sfuggire al programma di lavoro, che diventa stranamente simile a una costrizione». Molti contadini, conclude l’Onu, hanno lasciato le loro terre per spostarsi nella zone che confinano con India e Bangladesh.

TOPI Secondo un’Organizzazione “non governativa”, che fra i suoi membri conta diversi dirigenti del regime, la soluzione é dare cibo ai contadini in cambio di lavoro. Ma questi prefriscono scappare ma non li hanno distrutti”.Tuttavia, il 30 per cento dei contadini dell’area – tutti ovviamente di etnia chin – sono stati costretti ad abbandonare l’area. Secondo il rapporto, infatti, gli aiuti

Da qui, molti di loro tenteranno l’uscita dal Paese. Al momento, ratti o non ratti, la popolazione birmana soffre di una delle crisi alimentari più gravi della sua storia: dopo il devastante ciclone Nargis, che ha fatto a pezzi la parte meridionale del Paese provocando oltre 100mila vittime, le piccole economie locali fondate sull’agricoltura stentano a riprendersi. Ufficialmente, il problema è dato dall’impossibilità di ricostruire gli equilibri interni per mancanza di fondi. Nessuna notizia degli oltre 100 milioni di dollari consegnati dalle Nazioni Unite alla giunta subito dopo il disastro. D’altra parte, dimostrando una curiosa passione per gli animali di piccola taglia, la giunta aveva definito inutili gli aiuti – salvo poi intascarli – invitando le popolazioni colpite dal ciclone a mangiare «rane, che abbondano nella parte alluvionata e risultano essere un alimento completo e nutriente». L’invito è stato accolto con scetticismo, dato che - secondo un rapporto d’emergenza stilato un mese fa dalla Fao - un terzo della popolazione birmana soffre di malnutrizione. Il problema è stato sollevato, con i pochi mezzi che ha a disposizione, anche da Aung San Suu Kyi: il premio Nobel per la pace, agli arresti domiciliari dal 1993, rifiuta infatti il cibo fresco che le viene consegnato dai militari e si adatta a mangiare riso e verdure coltivate da lei. Secondo fonti del suo staff, è il suo modo di unirsi al dolore della popolazione e dimostrare vicinanza «a chi il cibo non riesce più a ottenerlo», nonostante lavori nei campi. Ora, però, il regime deve dare una risposta alle Nazioni Unite che chiedono risposte sulla questione. E che non si accontenteranno di dare la colpa ai ratti.


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