ISSN 1827-8817 90115
Quando si raggiunge una crisi? Quando sorgono delle domande a cui non si può dare risposta.
di e h c a n cro
9 771827 881004
Ryszard Kapuscinski
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
Passa la fiducia sul decreto anti-crisi: ma restano ancora aperti nodi strutturali
Ora basta con questi interventi di facciata di Carlo Lottieri un giudizio in chiaroscuro quello che si deve esprimere di fronte al decreto anti-crisi predisposto dal governo per reagire alle difficoltà economiche. Se si considera il clima prevalente in Europa all’indomani dell’esplosione della crisi finanziaria, forse non ci si può però lamentare. Non c’è dubbio, infatti, che in Italia nessuno sta per varare quel ritorno massiccio dello Stato che invece si profila altrove. L’idea di un nuovo New Deal non è nei disegni del governo e questo non perché Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi si siano convertiti alle ragioni dell’economia di mercato, ma semplicemente perché sono consapevoli (il primo dei due, in particolare) che non ci sono risorse. Tremonti è persuaso che uno dei suoi primi obiettivi deve essere quello di non peggiorare lo stato dei conti pubblici. se gu e a p ag in a 10
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
GAZA: SPIRAGLI DI PACE? Per tutto il giorno, dal Cairo a Parigi, si rincorrono voci su una possibile interruzione dei combattimenti. Intanto bin Laden si appella al Jihad, mentre a Roma più di cento parlamentari si schierano con Israele
È
Morando e la fine del “bassolinismo”
Guerra, tregua e bugie
alle pagine 2, 3, 4 e 5
di Franco Insardà a pagina 6
Maroni: «Sono sorpreso, ma insisto»
La Cei attacca: «No alla tassa sugli immigrati» di Vincenzo Faccioli Pintozzi na misura «inaccettabile», una tassa «che è meglio definire balzello nei confronti di una categoria già poco tutelata». Non usa mezzi termini monsignor Gianromano Gnesotto, responsabile per le politiche migratorie della Migrantes (organo della Cei che si occupa della pastorale degli immigrati), per stroncare la proposta del ministro Maroni di un’imposta fiscale per rinnovare il permesso di soggiorno. Parlando nella sede della Radio Vaticana in occasione della presentazione della Giornata mondiale delle migrazioni, il sacerdote ha anche criticato la proposta avanzata dalla Lega di prevedere l’obbligo di denunciare gli immigrati irregolari per i medici ai quali essi si rivolgono. Scatenando le reazioni della politica italiana. se gu e a p ag in a 7
U
Continua la confusione nella maggioranza: la Lega lancia la rivolta dei sindaci
Bossi ferma l’inciucellum Intanto Berlusconi cambia idea: «Fini è super partes» di Riccardo Paradisi
ROMA. Umberto Bossi torna a fare il gio Napolitano. Certo, tutto è ancora posguastatore. Non solo minaccia la rivolsibile, ma gli aruspici delle alchimie politita dei sindaci del nord, ordinando loro che scuotono la testa di fronte ai segni nedi sforare il patto di stabilità come farà fasti di queste ore. Già nella tarda mattia Roma Gianni Alemanno, ma mette un nata di ieri, un dirigente veltroniano del macigno sulla strada verso ogni possiPd ragionava così in Transatlantico: «Tra bile accordo tra Pd e Pdl sulla riforma di noi (Pd e Pdl) un compromesso sulle elettorale europea: soglia di sbarralegge elettorale per le europee si potrebbe mento al 4% alle prossime europee e anche trovare. Solo che si sono messi in sostanziale abolizione delle preferenze. moto dei meccanismi seriamente ostativi. «Non c’è spazio per cambiare la legge Le dichiarazioni polemiche di Di Pietro elettorale alle europee – dice il leader sullo sbarramento e a favore delle prefeUmberto Bossi ha bloccato l’accordo della Lega –. Si va verso le amministrarenze non aiutano a trovare la quadra e la tra Berlusconi e Veltroni tive e noi possiamo trovare l’accordo scissione di Rifondazione, che rende pratiper modificare la legge elettorale con il Pdl». Berlusconi è preoccupato camente impossibile a quel partito ragprima delle consultazioni europee del nuovo attivismo del Carroccio e cergiungere il quorum del 4%, fanno apparica sponde a destra, tanto da definire un «bravo presidente del- re il provvedimento fin troppo punitivo. Sono tutti segnali che la Camera, davvero super partes» Gianfranco Fini, appena ci rendono pessimisti». se g ue a p a gi na 8 uscito da un’incontro con il presidente della Repubblica Gior-
seg2009 ue a p•agEinURO a 9 1,00 (10,00 GIOVEDÌ 15 GENNAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
10 •
WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Medioriente. Ventesimo giorno di guerra: il segretario dell’Onu Ban Ki-moon in pressing per una soluzione diplomatica
Illusioni di tregua a Gaza «Hanno accettato il piano», «No, non è vero»: botta e risposta fra Egitto e Hamas. Mentre bin Laden invoca la «guerra santa» di Antonio Picasso opo quasi tre settimane di scontri e con oltre mille morti, la crisi di Gaza pare giunta a una svolta. L’arrivo di Ban Ki-moon al Cairo, infatti, rappresenta l’ulteriore tentativo dell’Onu di fermare i combattimenti. Da questo è seguita l’apertura di Hamas per il cessate il fuoco. Adesso non resta che attendere la risposta israeliana di oggi. Tuttavia, il messaggio di Osama bin Laden, i tre razzi lanciati dal Libano del Sud su Israele e gli attriti in seno al governo Olmert, per quanto siano eventi così slegati fra loro, altro non fanno che tingere di tinte ancora più fosche il quadro di questa guerra. La visita del Segretario generale dell’Onu in Egitto – che anticipa di solo due giorni quella del ministro della Difesa israeliano Barack – è volta a suggellare l’impegno di quest’ultimo affinché si arrivi a un cessate il fuoco. Ma è altrettanto evidente che Ban Ki-moon cerchi di stimolare il Consiglio di Sicurezza perché prenda una posizione netta e voti una risoluzione che vada oltre la formale dichiarazione di una tregua. Le sue richieste, in merito alla cessazione di uno scontro improduttivo in cui a farne le spese sono solo le popolazioni di entrambe le fazioni, rischiano di essere gettate al vento se non verranno seguite da un intervento concreto del Palazzo di Vetro. Tuttavia, gli impedimenti all’interno del Consiglio di Sicurezza sono più che noti. Gli Usa sono già ricorsi al loro potere di veto per bloccare risoluzioni sfavorevoli all’alleato israeliano. La cosa potrebbe ripetersi. Se così fosse, la comunità internazionale scadrebbe in un’impasse burocratica senza senso.
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M a la s it ua zi o ne a New York potrebbe farsi ancora più complessa. Stando al Guardian di ieri, l’Assemblea Generale potrebbe chiedere un parere formale al Tribunale internazionale “sull’illegittimità” dell’attacco israeliano. In questo caso, si tratterebbe di una denuncia di Israele per aver violato tutte le risoluzioni finora emesse dal Consiglio di Sicurezza a suo discapito. L’iniziativa, in
Jihadisticamente, “tregua” si dice ”hudna” e non significa pace, ma prendere tempo
Il fine dei fondamentalisti non è cambiato. È sempre cancellare Israele di Mario Arpino ino a ieri, dai sotterranei di Gaza e sotto una gragnuola di bombe, un patetico Anyeh annunciava che la vittoria di Hamas era ormai vicina. Da Damasco, forse più realisticamente, Mashal gli faceva eco invitando i Palestinesi della striscia a resistere fino al sacrificio estremo. Secondo il significato che noi occidentali diamo alle parole, sembrerebbero due segnali uguali, ma opposti. A meno che, in un linguaggio diverso, martirio non significhi vittoria. Potrebbe anche essere, ma nello Statuto di Hamas non è scritto che “vittoria” equivale a “distruzione di Israele”?
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Ora, senza che nulla sia cambiato nel braccio di ferro – anche Olmert continua a dire «ormai siamo vicino alla vittoria» – c’è questo trapelare di notizie di fonte egiziana secondo cui Hamas sarebbe disponibile ad una tregua. Al momento di andare in macchina non si sa molto di più, se non che potrebbe trattarsi di una tregua umanitaria di una settimana. Si sa invece che per tutta la giornata sulle città israeliane è continuato il lancio di razzi e di missili, con provenienza sia dalla striscia che dalla fascia libanese tra il confine e il Litani. Proprio l’area sotto il controllo dell’Onu, e proprio nel momento in
cui il Segretario Generale Ban-KiMoon ha intrapreso un volonteroso viaggio nella regione. Al momento, al di là dell’esigenza umanitaria, le condizioni per una tregua sembrerebbero ancora non sussistere.
Vi è anche da dire che l’attacco con artiglieria, carri e blindati non si è ancora sviluppato fino in fondo. La ragione potrebbe risiedere in una cautela possibilista di Livni e Nethanyau, cui fa riscontro una maggior rigidità da parte di Olmert e Barak. Tornando ancora un momento sul significato delle parole, bisognerà capire bene cosa si intende per tregua. In arabo si dice hudna, ma jihadisticamente parlando il significato è diverso dal nostro. Hudna non è cessazione dei combattimenti in attesa della pace. La durata di questa tregua coranica non ha tempo, può durare da pochi giorni a molti anni, finchè si sono ricostituite le forze per la jihad. Il fine ultimo resta sempre la vittoria finale, ovvero, nel caso di Hamas, la distruzione di Israele. Bisognerebbe conoscere meglio i termini, ma non credo che gli israeliani, dopo il logoramento dell’avversario, accettino senza averlo debellato almeno militarmente. Ma aspettiamo domani. Siamo in Medio-Oriente, e tutto può accadere.
Qui sopra, Hosni Mubarak e il segretario generale dell’Oni Ban Ki-moon. A sinistra, il presidente francese Nicolas Sarkozy
questo senso, non è nuova. Già in passato Paesi nemici di Israele avevano fatto sentire la propria voce al Palazzo di Vetro per bloccarne le iniziative militari. Anzi, la storia delle Nazioni Unite vede una costante antitesi fra il Consiglio di Sicurezza, da sempre cauto nell’esporsi contro Israele, e l’Assemblea Generale. Famosa fu la risoluzione n. 3379 votata da quest’ultima nel 1975 in cui si denunciava il sionismo come una espressione di razzismo. Il documento fu abrogato poi nel 1991, quando – dopo la Guerra del Golfo – tra Israele e i Paesi arabi si era aperto un nuovo spiraglio di confronto. Oggi però a queste iniziative, divenute una costante nel diritto internazionale, si aggiunge una possibile denuncia di violazione dei diritti umani. Ed è per questo che verrebbe chiamato in causa il Tribunale internazionale; novità assoluta di questo ennesimo conflitto. La motivazione poggerebbe sul sospetto che Tzahal abbia utilizzato bombe al fosforo durante i bombardamenti della Striscia. E se il condizionale è d’obbligo circa questi sospetti, la sicurezza poggia sul fatto che tutto questo non farà altro che incancrenire i rapporti fra Israele e le Nazioni Unite.
Altro problema è quello di bin Laden. Del messaggio del leader di al-Qaeda bisogna sottolineare tre cose. Prima di tutto è un nastro audio. Questo significa che lo sceicco saudita teme che, apparendo in video, possa essere localizzato. Il secondo aspetto riguarda i tempi. Bin Laden si è espresso su Gaza ben tre settimane dopo l’inizio degli scontri. Segno che i suoi corrieri hanno avuto notevoli difficoltà a recuperare il nastro e a diffonderlo. Il vertice di al-Qaeda è ben nascosto e non si può permettere alcuna visibilità nemmeno per chiamare al Jihad i suoi discepoli in appoggio dei palestinesi della Striscia. Infine va detto che si tratta di un intervento che non aggiunge nulla di importante, salvo il tentato endorsement dello sceicco saudita in favore dei palestinesi di Hamas. Una manovra, questa, che potrà avere solo scarsi risultati, visto che le due realtà sono molto diverse fra loro e ben poche sono le possibilità di un avvicinamento. A tutto questo si aggiungono le
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Nuovi lanci su Israele. Trovato del plastico nella base Unifil di Naqoura
Ancora missili dal sud del Libano di Pierre Chiartano lampi sul Libano meridionale continuano. Ieri mattina un’altra salva di razzi è partita in direzione di Israele e del materiale esplosivo era stato sequestrato a due civili libanesi, con accesso alla base di Naqoura, il 12 gennaio scorso. Un episodio, quest’ultimo, che darebbe sostanza all’allarme lanciato dal segretario generale dell’Onu, Ban Kimoon, a metà dicembre, quando aveva affermato di temere un attacco di al Qaida contro la missione nel sud del Paese. «In base alle informazioni preliminari in possesso di Unifil, almeno tre razzi sono stati sparati dal territorio Libanese questa mattina (ieri, ndr) e sono caduti nell’area a nord di Kyriat Shmona. Hanno colpito un’area aperta senza causare danni alle cose e alle persone. Non ci sono state rivendicazioni di responsabilità immediate», ha confermato a liberal, il colonnello Enrico Mattina, portavoce del comando militare di Unifil.
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sicura il portavoce militare «il comandante Graziano è in contatto sia con il comando delle forze libanesi sia con quello delle forze israeliane, sollecitando il massimo controllo. Sta lavorando, con entrambe le parti, per mantenere attiva la cessazione delle ostilità». Ricordiamo le polemiche sollevate, la scorsa primavera, dal quotidiano israeliano Hareetz che accusava la missione Unifil di essere un po’ troppo disattenta rispetto al riarmo dei miliziani sciiti. In pratica si affermava che il consiglio di Sicurezza Onu non fosse stato messo al corrente di presunti episodi di tensione fra le truppe Onu e i militanti di Hezbollah. Per i nostri militari si tratterebbe di camminare in mezzo ad una cristalleria. Comunque la situazione è fluida e non sono mancate le “sorprese” a metà giornata: «c’è stato uno sviluppo, una pattuglia congiunta Unifil, con militari libanesi, durante una operazione di ricerca, nell’area di el-Habbaryie, ha scoperto tre razzi pronti per il lancio che sono stati disattivati sul posto. Unifil e libanesi stanno continuando il pattugliamento intensivo in tutta l’area». Non ci sarebbero ulteriori dettagli, se non che la zona di lancio si troverebbe nell’estremo lembo orientale del territorio della missione Onu.
Per i militari, era esplosivo utilizzabile per qualsiasi finalità. Le indagini sono condotte dalle autorità libanesi
Due scadenze “aiutano” lo stop ai combattimenti: l’insediamento di Obama, che non comincerà il suo mandato con un conflitto, e il 10 febbraio giorno delle elezioni israeliane precarietà sempre più evidenti in Israele. È chiaro che la “Santa Alleanza” fra il governo Olmert e l’opposizione del Likud avrà durata breve. Netanyahu si è espresso favorevolmente all’intervento militare contro Hamas. Poteva fare altrimenti? D’altra parte, ci sono due scadenze oltre le quali questo conflitto non potrà andare avanti. Il 20 gennaio a Washington si insedia Obama. Dopodiché l’interregno alla Casa Bianca sarà concluso. Finora Israele ha sfruttato questo spazio per agire in autonomia rispetto al suo influente alleato. Da quel giorno tutta questa libertà di azione è possibile che venga meno.
Perché è vero che l’altro giorno Hillary Clinton ha ribadito l’intenzione – una volta assunto l’incarico di Segretario di Stato – di far riconoscere Israele ad Hamas. Condicio sine qua non perché con il movimento si cominci a trattare. Tuttavia, la linea dura nei confronti di Hamas, che la Washington futura sta ribadendo, non implica l’impulsivo ricorso alla violenza. È facile
pensare, infatti, che Obama con tutto vorrà cominciare il suo mandato fuorché con una guerra che non trova sbocchi. L’Amministrazione Bush, in questi anni, ha concesso tanto a Israele. Obama è possibile che faccia altrettanto. Ma né Olmert né il suo successore possono permettersi di tirare troppo la corda. Infine c’è il 10 febbraio, giorno delle elezioni in Israele. Questa sì è una vera a propria data di scadenza che Tzahal deve tenere come memento. Perché da quel giorno il nuovo esecutivo dovrà rispondere della conduzione politica delle operazioni di fronte a un’altrettanto nuova Knesset. E se qualcosa sul campo andrà storto, non ci sarà più un Olmert disposto ad assumersi, da capro espiatorio, tutte le responsabilità, in quanto premier uscente. Anzi, il futuro Primo ministro israeliano dovrà spiegare al Paese e alla comunità internazionale il nuovo piano di pace che il suo governo intende seguire dopo questo ennesimo conflitto. *Analista Ce.S.I.
I razzi partiti dovrebbero essere stati 5 – secondo altre fonti – di cui un paio caduti poco dopo il lancio. «Le forze armate israeliane hanno risposto al fuoco con due salve di artiglieria. Anche in questo caso non abbiamo rapporti di danni o feriti. Le nostre unità – ha continuato il colonnello - in cooperazione con le forze armate libanesi si sono recate sul terreno vicino al confine nord dell’area di operazione di Unifil, nel settore est, dove è stato localizzato il punto di lancio dei razzi». Le autorità israeliane, ieri, hanno avvisato telefonicamente tutti i residenti vicini al confine libanese del pericolo costituito dalla ripresa del lancio di missili. Il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha espresso forti preoccupazioni per la situazione, dicendosi invece soddisfatto per la stretta collaborazione ricevuta dal governo Siniora. Sono episodi di un lento, ma costante incremento della tensione a sud del fiume Litani, che ha avuto una sua agenda dall’inizio della missione, culminato nell’attentato che provocò la morte di tre militari spagnoli e tre colombiani a causa di un auto-bomba, nel giugno 2007. La missione italiana «Leonte» e il generale Claudio Graziano, ora comandante del settore ovest di Unifil, continuano a svolgere una missione tutt’altro che facile. Sono in mezzo a due protagonisti di una sfida che potrebbe degenerare in ogni momento, anche se, come as-
Dalla parte opposta rispetto all’area del lancio dell’8 gennaio. In una zona non lontana dal confine siriano. Sarebbe il terzo ritrovamento dopo il primo, effettuato il 26 dicembre a Tayr Harfa, pochi chilometri a est della base di Naqoura, di ben otto missili - con i timer inseriti, ma senza spolette - in un lanciatore tipo katiuscia. Riguardo all’episodio, più preoccupante per gli italiani, dell’esplosivo sequestrato a due operai nel campo Unifil, il colonnello Mattina conferma che «era gente che aveva l’acceso alla base». Durante un controllo di routine sarebbe stato trovato dell’esplosivo dentro un camion che si occupa della raccolta dei rifiuti nel quartier generale della missione Onu. Sono stati fermati un operatore e l’autista del mezzo e «consegnati alle autorità libanesi». A cosa sarebbe potuto servire il plastico? «Non facciamo nessuna speculazione. Ci atteniamo ai fatti. Era esplosivo – spiega il portavoce militare - che poteva essere usato per qualsiasi finalità. Le indagini sono in corso e condotte dalle autorità libanesi».
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Gaza. Il Medioriente e la lotta all’antisemitismo in una maratona oratoria con cento parlamentari
«Israele siamo noi» L’unica vera condizione per la pace è il disarmo di Hamas. Ed è ora che Gerusalemme entri nella Nato colloquio con Ferdinando Adornato di Gabriella Mecucci
ROMA. L’Italia solidale con Israele alla ricerca della pace. È il titolo della manifestazione che si è svolta ieri a Montecitorio. Ne parliamo con Ferdinando Adornato, uno degli oratori della «maratona» organizzata dall’associazione «Amici di Israele». Qual è la sua posizione sulla “guerra” di Gaza? C’è un atteggiamento culturale delle opinioni pubbliche e delle classi dirigenti europee che è sbagliato: non è sufficientemente chiaro infatti che Israele fa parte della nostra civiltà. Israele siamo noi. La civiltà occidentale infatti nasce dall’incontro della cultura cristiana con quella liberale e con quella giudaica. Si può essere più o meno d’accordo con questa o quella presa di posizione di Gerusalemme, allo stesso modo in cui si fa con le scelte degli Usa o dell’Europa. Ma Israele è Occidente così come lo sono gli Usa e l’Europa. Qual è la prima conseguenza di questo assunto culturale? Se Israele è Occidente, non possiamo non pensare che se perde Israele perde anche l’Occidente. Si tratta di un’acquisizione storica e culturale che ha un enorme valore politico. È come
ROMA. Renato Brunetta,
quando John Kennedy disse: io sono un berlinese. Quella frase costituì un passo fondamentale in direzione della pace, della caduta del muro di Berlino, dell’unificazione delle due Germanie. Se io dico: sono israeliano, determino un avanzamento in direzione della pace, non faccio più sentire Israele isolato e lo aiuto a non compiere quegli errori che una sensazione di isolamento possono fargli commettere. dalle Passiamo battaglie grandi culturali, alla politica di tutti i giorni, che cosa dovrebbe fare la comunità internazionale rispetto al rapporto con Israele? Intanto, una proposta: far entrare Israele nella Nato. Non capisco perché l’Alleanza debba giustamente avere un rapporto di partnership con la Russia illiberale di Putin e non debba ivece averlo con l’unica democrazia presente in Medioriente. E, più concretamente, sulla guerra di oggi? Guardi, il cessate il fuoco andava chiesto quando i missili Kassam hanno cominciato a cadere sulle città israeliane. È una forma di strabismo quello della comunità internazionale che lo invoca solo quando Israele risponde. La tregua era sta violata da prima e a farlo era stato
Hamas. Non si possono chiudere gli occhi quando muore la popolazione civile israeliana per aprirli quando a subire l’identico destino è quella palestinese. Questa è una seconda forma di strabismo della comunità internazionale. Ma c’è anche una responsabilità di Israele... Quale? Israele dovrebbe alzar la voce prima ancora di usare le armi. Altrimenti quando si parla di vittime civile si finisce con scaricarne la colpa sulle sue spalle. Quando hanno iniziato ad arrivare i razzi, Israele avrebbe dovuto chiedere subito un pronunciamento di condanna dell’Onu per la violazione della tregua. La guerra di Gaza quali ricadute politiche ha? Innanzitutto in questi giorni è caduta una grande utopia che
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La civiltà occidentale nasce dall’incontro della cultura cristiana con quella liberale e con quella giudaica. Si può essere più o meno d’accordo con questa o quella presa di posizione di Gerusalemme, ma loro sono Occidente come noi è nata a sinistra ma che poi è penetrata in larghissima parte della comunità internazionale: e cioè «terra in cambio di pace». Questa linea è tragicamente fallita. Pochi sono inclini ricordare che Israele ha dato terra. Sharon ha sgombrato Gaza - tutti abbiamo negli occhi le immagini dei coloni strappati a forza dalle loro case - e l’ha consegnata ai palestinesi. La terra, dunque, è sta-
ta data, ma la pace non è venuta. Gaza è stata usata come enclave dell’estremismo palestinese foraggiato dall’Iran. Hanno effettuato un gigantesco traffico clandestino di armi attraverso l’Egitto, utilizzando il mare e i tunnel sotterranei per prepararsi alla distruzione di Israele. Dunque la strategia «terra in cambio di pace» non può essere più portata avanti, almeno sino a quando Hamas
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continua a vincere le elezioni. E allora che fare? Se si vuol cessare di usare la parola tregua o la parola pace in chiave retorica e gli si vuol dare un senso politico, questa guerra può finire in un modo solo: con il totale disarmo di Hamas. Con un disarmo controllato e verificato e con la chiusura delle vie del contrabbando delle armi: quelle del mare e i tunnel. Ma prima di finire questa intervista
Centro, destra e sinistra insieme per sostenere le ragioni dello Stato ebraico
Fabrizio Cicchitto, Anna Paola Concia, Ferdinando Adornato, Marco Pannella, Maurizio Gasparri, Furio Colombo, Roberto Giachetti, Giuliano Cazzola. E ancora: Giorgio Israel, Umberto Ranieri, Antonio Polito, Renzo Foa, Magdi Allam, Ernesto Galli Della Loggia, Renzo Gattegna, Riccardo Pacifici. Sono solo alcuni dei personaggi della politica, della cultura e del giornalismo che ieri pomeriggio erano in Piazza Montecitorio per manifestare in favore di Israele e che hanno sottoscritto l’appello lanciato dall’associazione parlamentare di amicizia Italia- Israele. «Dopo 8 anni di attacchi missilistici e il rifiuto da parte di Hamas di rinnovare la tregua - si legge nell’appello dell’Associazione - Israele ha deciso di fare ciò che qualsiasi
altro Stato avrebbe fatto da tempo: difendere i propri cittadini, cercare di fermare il continuo attacco proveniente da Gaza, cambiare la situazione sul terreno così da garantire il proprio diritto alla sicurezza. Il conflitto è sempre doloroso: auspichiamo la fine delle sofferenze dei civili innocenti da ambo le parti e sosteniamo l’Italia nel suo sforzo umanitario.
A Roma una piazza bipartisan di Francesco Capozza
Ma non possiamo fare a meno di notare come questo scontro sia reso particolarmente duro a causa dell’uso di civili come scudi umani da parte di Hamas. Resta in noi la speranza che da questo conflitto possa uscire un Medio Oriente meno tormentato dall’odio integralista e meglio predisposto alla pace». «Hamas è un gruppo terroristico particolarmente distruttivo, come riconosciuto
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Filo-israeliani contro filo-arabi. E in mezzo i “treguisti” Una manifestazione dell’associazion e italiana “Amici d’Israele”, che ha organizzato il raduno bipartisan che si è svolto ieri davanti alla Camera dei Deputati, a Roma. A destra, l’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema. Nella pagina a fianco, Ferdinando Adornato e, in basso, Fiamma Nirenstein
mi faccia dire di un altro atteggiamento culturale diffuso che considero inaccettabile. Lo dica pure... Molte volte mi capita di sentir dire: perché gli ebrei che tanto hanno sofferto, ora infliggono così terribili dolori ai palestinesi? Poi quando sono i palestinesi a colpire, a commettere insopportabili violenze, questo comportamento si spiega così: avranno anche sbagliato, ma poveretti hanno tanto sofferto. Queste frasi dimostrano che c’è una relatività della sofferenza; e questo è infame. Ci sono due pesi e due misure. Un tale atteggiamento permette che l’antise-
Tutti contro D’Alema I democratici si spaccano su Hamas di Antonio Funiciello opo aver deciso di non anticipare il congresso e di rimandare anche la conferenza programmatica, il Partito Democratico ha per il momento allontanato la possibilità di capire che anima ha e che progetto di vita s’è dato. Ancor più se poi l’organizzazione della conferenza programmatica sarà affidata a D’Alema, che ha un’idea del Pd e dell’Italia sensibilmente diversa da quella diVeltroni; anche quel momento diventerà un’occasione di propaganda più che un luogo di discussione su linee politiche e programmatiche alternative, che pure ci sono. E allora la strada sicura per interpretare lo spirito e la visione del nuovo partito è indicata dall’agenda dell’attualità politica, che in questi giorni è centrata sulla guerra tra Israele e Hamas. Il conflitto israelo-palestinese è da decenni uno spettro privilegiato per distinguere meglio gli orientamenti ideali e i contenuti politici dei partiti delle democrazie avanzate d’Occidente. Ieri davanti a Montecitorio l’Associazione Parlamentare di Amicizia Italia-Israele ha manifestato al grido di “Con Israele, per la libertà, contro il terrorismo”, ed erano presenti molti esponenti politici del Pd. Rappresentano una sorta di avanguardia filoisraeliana nelle fila dei democratici. Gianni Vernetti e Furio Colombo, Emanuele Fiano e Alesando Maran sostengono che l’iniziativa bellica di Israele sia più che legittima e piuttosto che augurarsi una tregua, auspicano che Israele concluda le proprie operazioni militari secondo i piani dei suoi generali. L’associazione presieduta da Fiamma Nierenstein è notoriamente composta in maggior numero da esponenti di centrodestra, eppure i componenti di centrosinistra sono particolarmente attivi e appassionati. Tra i democratici sono in netta maggioranza i cosiddetti “treguisti”, orientamento trasversale tra le correnti interne del partito. La componente popolare sembra non entusiasmarsi, ma Fioroni e Franceschini interpretano la guerra in corso con un’estrema prudenza, condita da un lato da una sensibilità indotta nei confronti di Israele, dall’altro con un’attenzione più sincera nei riguardi di quei palestinesi che non si riconoscono in Hamas. Posizione più articolata è quella del ministro ombra degli esteri Piero Fassino, dichiaratamente ostile nei confronti del partito terrorista, interprete di un’evoluzione del vecchio posizionamento filo-arabo del Partito Comunista Italiano. Evoluzione recente, e ormai parecchio consapevole, lontana dai primi passi un po’imbarazzati mossi in questa direzione dall’allora segretario dei Ds, che apriva ogni suo intervento sul conflitto israelo-palestinese con la farse «L’altra sera ero a cena a casa di amici ebrei...». Il fronte moderato dei“treguisti”è guidato proprio da Fassino, in sintonia per altro con Veltroni, che della sua amicizia con la comunità ebraica romana si è sempre fatto vanto. Massimo D’Alema è a capo della componente altrettanto trasversale, per quanto con un forte radicamento tra gli ex Ds, dei filo-arabi. D’Alema non riconosce qualitativamente lo statuto bellico all’azione di Israele a Gaza, ma centra la sua critica sul tema quantitativo della sproporzione. È una posizione erroneamente definita antisemita, ma che è senz’altro alimentata da un vecchio antisionismo continentale europeo, molto diffuso tra gli anni Sessanta e Ottanta nel Pci e nel Psi. Insomma, il conflitto isarelo-palestinese è l’ennesimo tema su cui nel Pd ci si divide in maniera anche molto netta, e più sulla scorta di convincimenti elaborati nei partito di provenienza, che sull’elaborazione compiuta nel nuovo partito. Una conferma dell’anima combattuta e ancora incerta dei democratici italiani.
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La posizione del “lìder Massimo” ricorda quella di Pci e Psi tra gli anni Sessanta e Ottanta
mitismo possa essere ancora un virus – anche se oggi meno pericoloso – che attecchisce. Ma il fatto è che se i virus non li stronchi da piccoli, poi crescono e
dalla stessa Unione Europea - prosegue l’appello - esso non rappresenta solo se stesso: i suoi stretti rapporti con l’Iran, la Siria e gli Hezbollah e la presenza a Gaza di al Qaeda, rendono questo confronto un episodio decisivo nella guerra delle democrazie contro il terrorismo. Tutti noi speriamo che presto si ritorni a una situazione di quiete, ma, proprio per questo, pensiamo che sia indispensabile evitare che Hamas torni a bombardare i cittadini israeliani e che cessi la sua politica di esportazione dell’odio e dell’intolleranza». Per la prima volta, dall’interno del Parlamento - e da una organizzazione costituita da componenti di tutti i gruppi parlamentari - ha preso le mosse una manifestazione di piazza, alla quale sono stati invitati comuni cittadini, autorità e rappresentanti delle comunità ebraiche italiane, tutti d’accordo su una linea: «Con Israele, per la libertà, contro il terrorismo». Fiamma Niren-
proliferano. Per battere l’infezione antisemita e antisraeliana occorre dunque riconoscere – lo ripeto – che Israele è Occidente. Gli israeliani siamo noi.
stein, animatrice della manifestazione, ha voluto ricordare che «lungo il confine di Israele passa una frontiera che è anche la nostra: quella che separa la democrazia dalla violenza, la libertà dall’intolleranza». In piazza ieri c’erano centinaia di persone e, mischiati tra la folla come semplici cittadini, è stato bello vedere senatori e deputati di ogni parte politica.
Un fatto importante per la democrazia, in un momento in cui le divisioni politiche e ideologiche su vari fronti caratterizzano il dibattito parlamentare, uomini di destra, di centro e di sinistra si sono raccolti insieme, senza distinzione di casacca, in sostegno di una civiltà e di una democrazia, quella d’Israele, vittima di persecuzioni da anni. Non un inno alla rappresaglia ma un sostegno sentito ad una popolazione e a uno Stato amico.
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Pompieri. Morando promette una nuova fase. «Anche perché le nostre divisioni hanno aiutato Berlusconi»
«Il bassolinismo è finito» colloquio con Enrico Morando di Franco Insardà
ROMA. Posso registrare? Inizia così la chiaccherata con Enrico Morando, spedito a Napoli da Walter Veltroni dopo le ultime burrascose settimane del Pd all’ombra del Vesuvio. Il senatore piemontese non si scompone e, con un lieve sorriso, commenta: «È meglio, così non ci sono fraintendimenti». Senatore Morando che cosa ha trovato a Napoli? Una realtà per il Partito democratico molto grave e molto profonda, ma allo stesso tempo una realtà che presenta enormi potenzialità. Bisogna, poi, tener presente che esiste a Napoli una sofferenza economica e sociale drammatica, peggiore di quella nazionale. La spazzatura è diventato uno dei simboli negativi di Napoli ed è stata associata alle istituzioni locali governate dal centrosinistra. Il governo Berlusconi è riuscito a liberare Napoli dall’immondizia, lei riuscirà a ”ripulire”il Pd? Il parallelo non mi piace perché identifica la situazione del Pd con un’emergenza molto grave in città e in tutta la Campania. Devo riconoscere che grazie alle nostre difficoltà e anche agli errori commessi dagli enti locali governati dal Pd abbiamo offerto a Berlusconi su di un piatto d’argento la possibilità di ottenere un successo facile adottando quelle misure che noi avevamo individuato, ma non realizzato. Per il Pd, invece, credo che esistano le condizioni per tornare, in tempi brevi, a una normalità democratica. Qual è la road map che ha in mente per riuscire a centrare l’obiettivo? I punti sono tre: completare la strutturazione del partito sul territorio, definire il futuro di Napoli nella conferenza programmatica e preparare le elezioni provinciali di giugno. I circoli del Pd in provincia di Napoli sono 120, ma soltanto 35 hanno eletto gli organismi dirigenti. Che cosa significa? Bisogna completare questo processo per dare al partito una struttura di base perfettamente funzionante. Questo obiettivo vorrei realizzarlo entro il 15-20 febbraio. Le istituzioni locali di centrosinistra sono sul banco degli accusati. Come pensa di intervenire? Una fase delle forze progressiste a Napoli si chiude, bisogna aprirne un’altra fondata su una visione del futuro con un progetto di forte ispirazione ideale, ma anche di grandissimo pragmati-
smo. I cittadini, cioè, devono poter verificare la rispondenza tra i tempi promessi e le cose realizzate. Questo progetto deve essere definito con la conferenza programmatica che vorrei tenere al massimo entro la prima settimana di marzo. Ricorda un po’ il ”passo dopo passo” del rinascimento bassoliniano... La spinta propulsiva di Bassolino si è esaurita progressivamente anche per una serie di difficoltà a fornire un supporto nazionale forte. In questo i governi di centrosinistra hanno le loro colpe. Il rilancio deve passare per il recupero della credibilità, organizzando il rapporto tra partito e istituzioni locali evitando la confusione dei ruoli. Ci deve, cioè, essere la capacità del partito di indirizzare un’azione che autonomamente si deve sviluppare nelle amministrazioni. Bassolino può essere considerato un capobastone? Non condivido l’uso di questo termine. È del tutto improprio. Con Bassolino abbiamo convenuto che il metodo di lavoro che ho illustrato serve per avere un approccio corretto alla crisi del Pd in Campania. Bassolino è stata una personalità decisiva per la vita del centrosinistra dei governi locali. Nel Pds ci siamo spesso trovati su posizioni diverse, ma nella formazione dell’Ulivo avevamo alcune identità di vedute. Bassolino uscirà dal Pd? Ho letto alcuni articoli. Mi sembrano privi di fondamento. Lei è commissario a Napoli, Brutti in Abruzzo, Passoni in Sardegna e Chiti a Firenze. Problemi locali o malessere del partito nazionale? Il commissariamento è sempre un atto traumatico e un segnale di estrema difficoltà per un partito che voglia essere democrati-
In alto, il commissario provinciale del Pd di Napoli, Enrico Morando. In basso, il governatore Bassolino co, autonomista e federalista. Chiti non è commissario, ma comunque quando le esigenze di commissariamento si moltiplicano in questo modo segnalano una difficoltà nazionale. Nel senso che la spinta enorme di partecipazione e di innovazione che ha caratterizzato il Pd dal Lingotto alle elezioni politiche ha subito un contraccolpo fortissimo con la sconfitta del 14 aprile del 2008. In molte realtà di fronte alle difficoltà ci si è rifugiati nelle vecchie identità. Ds e Margherita? Intendo le componenti interne, se si trattasse del superamento delle vecchie correnti dei due partiti per creare quelle del Pd sarebbe un segnale importante
di dialettica interna. Purtroppo non è così. Ecco perché dopo l’elezioni ho detto che occorreva il congresso. Ad aprile ci sarà la Conferenza programmatica con D’Alema coordinatore. Secondo me era meglio fare il congresso prima di Natale. Sarebbe stato salutare rendendo più trasparente la battaglia politica interna. Si è scelto di fare la Conferenza programmatica che deve coinvolgere tutte le forze che abbiamo in questo sforzo di elaborazione. Un po’di rammarico ce l’ho, perché facendo il commissario a Napoli non potrò dare un grande contributo al programma, cercherò di fare bene la Conferenza programmatica di Napoli. Non intendo alimentare o partecipare alla discussione sul ruolo che ogni singolo dirigente avrà. Spero che abbia il ruolo di
Il commissario del Pd punta a «recuperare la credibilità tra partito e istituzioni locali, evitando sovrapposizioni». E ammette: «Dopo le Politiche 2008 ci si è rifugiati nelle vecchie correnti» portare delle idee: vale per D’Alema, ma per tutti i dirigenti. Il Trentino è un modello da seguire? A Napoli non ho trovato ancora niente di fatto. Nelle prossime settimane verificherò le possibilità di accordi con il Centro. Per Napoli si è dato tempi molto stretti. Ce la farà? Sono un ottimista, certo se non fossi preoccupato sarei un irresponsabile. Se tra sei mesi sarò ancora a Napoli vuol dire che non ci sono riuscito. Lunedì arriva Veltroni, ci saranno Bassolino e la Iervolino? È una manifestazione pubblica, aperta a tutti. Li inviterò e spero che possano venire, compatibilmente con i loro impegni istituzionali.
in breve Il Brasile nega l’estradizione di Battisti Cesare Battisti non tornerà in Italia. Il Brasile ha concesso lo status di rifugiato politico all’ex terrorista in prigione dal 2007 nel Paese sud-americano. Battisti, che si era rifatto una vita da scrittore noir scappando in Francia negli anni ’80, è condannato in Italia all’ergastolo, per quattro omicidi commessi negli anni ’70, quando apparteneva al gruppo di estrema sinistra Proletari Armati per il Comunismo. Battisti dovrebbe tornare libero nei prossimi giorni. Solo lo scorso novembre, il Comitato nazionale per i profughi del Brasile aveva respinto la sua istanza di ottenere lo status di profugo politico.
Air France pronta a comprare Sas Air France-Klm, che lunedì ha annunciato l’accordo di partnership con Alitalia, starebbe guardando con interesse anche a Sas, la compagnia aerea scandinava i cui tre azionisti pubblici (la Danimarca, la Svezia e la Norvegia controllano il 50% del capitale) intendono cedere le loro partecipazioni. A rivelarlo è «La Tribune» che cita fonti vicino al gruppo franco-olandese. «Sas ha lanciato una procedura di consultazione informale e ci ha contattato - rileva al quotidiano economico francese una fonte vicina ad Air France-Klm -. Ora il gruppo sta guardando se sia interessante creare delle sinergie con Klm, che è ben posizionata nel Nord Europa».
Alfredo Cazzola si candida a Bologna Alfredo Cazzola si candida ufficialmente a sindaco di Bologna. L’ex patron del Bologna, della Virtus e del Motor Show, ha sciolto la riserva in una conferenza stampa annunciando di essere in campo nelle amministrative del 6 e 7 giugno e lanciando un appello «ai bolognesi e ai partiti che vorranno sostenermi e che pensano ci sia bisogno di un salto di qualità nell’amministrazione di Bologna». Cazzola annuncerà la sua squadra e i suoi programmi fra un mese, il 14 febbraio, giorno in cui compirà cinquantanove anni.
politica Polemiche. La Conferenza episcopale italiana attacca Maroni. Che, sorpreso, va avanti
I vescovi contro la Lega: «Niente tassa sugli emigrati» di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Il diritto alla salute, ha sottolineato il responsabile di Migrantes, «è fondamentale e va garantito a tutti senza preclusioni o invenzioni. Non si può far svolgere ai medici compiti, quale la delazione, che non vogliono nè possono svolgere come se fossero gendarmi». La proposta leghista, ha aggiunto, sarebbe anche in conflitto con l’articolo 32 della Costituzione, che regola la tutela della salute per la collettività. «Ci auguriamo che questo emendamento non passi - ha detto - perchè l’Italia ha bisogno, ha avuto bisogno e avrà bisogno anche in futuro degli immigrati». Una necessità che va tutelata anche in vista «dell’attuale congiuntura economica, dato che probabilmente ci sarà bisogno di maggiore flessibilità anche per quanto riguarda la domanda di immigrati. Non ci si può dimenticare che gli immigrati occupano settori di fatto lasciati scoperti dagli italiani. Non si trovano italiani volenterosi che si accollano 12 o 24 ore di assistenza nelle famiglie o che accettano di entrare nelle acciaierie o di fare lavori molto penalizzanti per la salute».
Sulla stessa linea anche monsignor Piergiorgio Saviola, direttore generale della Fondazione Migrantes, secondo cui «l’Italia rischia di rinnegare la propria tradizione cristiana di accoglienza: si registra fra le due ultime leggi sull’immigrazione, quella del 1998 e del 2002, un brusco passaggio, che fa scivolare verso posizioni ispirate al principio della in desiderabilità». Secondo il direttore di Migrantes, nei confronti degli immigrati in Italia, «accanto a tante manifestazioni non solo verbali
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in breve Cala la produzione industriale La produzione industriale ha registrato a novembre un calo del 12,3% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. L’indice destagionalizzato è in calo del 2,3% rispetto a ottobre 2008. Lo rende noto l’Istat in un comunicato. L’indice della produzione corretto per i giorni lavorativi ha registrato in novembre una diminuzione tendenziale del 9,7% (i giorni lavorativi sono stati 20 contro i 21 di novembre 2007), mentre nella media dei primi undici mesi del 2008 il medesimo indice ha segnato un calo del 3,5% rispetto al corrispondente periodo del 2007 (i giorni lavorativi sono stati 233 contro i 234 del 2007).Nel confronto tra il periodo gennaio-novembre 2008 e il corrispondente periodo del 2007, l’indice ha presentato una diminuzione del 3,6%. Particolarmente grave la situazione della produzione automobilistica che ha segnato un regresso del 46% su base annua.
Catturato il boss camorrista Setola
Migrantes ricorda: l’Italia ha bisogno di immigrati, dato che fanno il lavoro che noi non vogliamo. Bossi appoggia il ministro e invoca la “consuetudine europea” sulla vicenda di accoglienza e di fraternità, purtroppo non manca, anche fra chi si professa cristiano, chi li guarda come gente importuna e fastidiosa, che desta allarme e costituisce pericolo, disturbatrice del nostro quieto vivere; gente da cui stare lontano, anzi che deve tornare lontano, a casa propria». Monsignor Saviola ha poi aggiunto che «non si vuole chiudere gli occhi su quanto di scabroso comporta l’attuale convulso fenomeno migratorio né tanto meno su comportamenti incivili o criminosi di alcuni migranti, ma allo stesso tempo è aberrante mettere tutto questo e soltanto questo in primo piano, tanto da non lasciar vedere il resto della realtà migratoria, e da alimentare giudizi e pregiudizi, umori e malumori». «Queste prese di posizione - ha concluso il presule - sono in contrasto anche col più sano sentire civile, aperto ai valori della convivenza pacifica, della comprensione, della condivisione e della solidarietà verso chi è nel bisogno».
Questi attacchi hanno scatenato l’immediata risposta del mondo politico italiano, e in particolare della Lega. Il ministro dell’Interno (e promotore della nuova iniziativa fiscale) Roberto Maroni ha replicato alla Cei dicendosi «francamente meravigliato da queste polemiche perchè noi abbiamo fatto,
né più né meno, quello che fanno tutti i Paesi europei». Tuttavia, il titolare del dicastero ha voluto subito sottolineare che «queste reazioni non ci toccano minimamente». Maroni, parlando ai margini di un’audizione in commissione Trasporti alla Camera, ha poi fatto una ipotesi sulla tassa che sarà prevista sui permessi di soggiorno nel disegno di legge sulla sicurezza.
Ipotizzando un contributo di 100 euro sui permessi e sui rinnovi e considerando un milione tra permessi e rinnovi «si ha una disponibilità di cento milioni di euro l’anno. Questa somma confluirà in un fondo presso il Ministero dell’Interno che servirà per i rimpatri dei clandestini. Quindi, ritengo che sia una misura equa e giusta e che sia doveroso applicarla al più presto». Maroni ha ricevuto anche l’appoggio del leader del Carroccio, Umberto Bossi che, parlando ad ampio raggio durante una passeggiata in Transatlantico, ha detto: «La tassa sul permesso di soggiorno degli immigrati c’è in tutta Europa. Prima volete fare gli europei e poi fare diversamente dagli altri Stati?». Ma l’affondo finale sulla vicenda viene dal capogruppo del partito Democratico al Senato, Anna Finocchiaro, che ha commentato: «Capiamo bene che il PdL debba pagare un prezzo ai malumori leghisti, ma mi chiedo se il premier, che ha ribadito la sua contrarietà a questa norma, non abbia nulla da aggiungere dopo la piccata risposta del ministro Maroni. E le altre forze della coalizione di governo? La maggioranza sta continuando a fare sulla pelle di tanti immigrati un balletto davvero imbarazzante».
È stato catturato dai carabinieri a Mignano Montelungo, nel casertano, il boss Giuseppe Setola, uno dei capi dei Casalesi che nei giorni scorsi era sfuggito all’arresta scappando per le fogne. Proprio ieri mattina, beni per 10 milioni erano stati sequestrati al clan Setola, attivo nel casertano. I militari della Guardia di Finanza di Marcianise, su disposizione della Direzione distrettuale Antimafia di Napoli, avevano sequestrato alla cosca capeggiata dal latitante arrestato. «Avete vinto voi», avrebbe detto il killer ai carabinieri che lo hanno arrestato.
politica
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Europee. «Non c’è più tempo per la riforma elettorale»: il Senatùr mette la parola fine alle polemiche
Bossi blocca l’inciucellum Prima monta la fronda nel Pd contro Veltroni. Poi la Lega ferma Berlusconi di Riccardo Paradisi segue dalla prima L’analisi del dirigente veltroniano rende molto bene il clima che si respirava in casa Pd già alla vigilia del preannunciato tentativo di accordo sulla legge elettorale europea. Un accordo troppo scopertamente politico per essere presentato come necessario alla governabilità, per esempio. Governabilità al parlamento europeo poi? Giorgio La Malfa, dal centrodestra, parla di un deficit di motivazioni reali per una riforma elettorale sempre più improbabile: «È evidente – dice l’esponente repubblicano – che siamo di fronte a un tentativo da parte del Pd di chiudere definitivamente i conti sia con l’estrema sinistra sia, per motivi più interni, con gli ulivisti. Se questo accordo si dovesse fare del resto – aggiunge La Malfa – sarebbe un affare solo per il Pd. Al Pdl non cambia certo la vita». L’Unione di centro da parte sua si dice ”favorevole” a uno sbarramento al 4 per cento, ma dice ”no”a ”ogni ipotesi che limiti la libertà di scelta dei cittadini nell’indicazione dei propri rappresentanti al Parlamento europeo. Un rischio che per ora sembra sventato visto che a non credere più alla stipula dell’accordo tra il vice segretario del Pd Dario Franceschini e gli ambasciatori di Berlusconi erano gli stessi veltroniani già dalle prime ore del pomeriggio di ieri. Il che non toglie che le trattative per l’intesa erano state tentate e inoltrate da giorni suscitando non solo i musi lunghi di Rosy Bindi – “perplessa” di fronte all’intesa – ma addirittura l’indignazione di Parisi che chiede ufficialmente ai vertici del Pd di smentire chiaramente le manovre inciuciste sulla legge per le elezioni europee.
A manifestare sollievo per la piega negativa che ha preso la vicenda è invece l’area dalemiana del Pd. Nicola La Torre con malcelata soddisfazione illustra lo stato dell’arte della situazione: «Noi del Pd – dice – avevamo presentato una proposta chiara per disciplinare le elezioni europee. Sbarramento al 3% e mantenimento
Tra sbarramento e finte preferenze
Il bipartitismo col trucco o abbiamo chiamato “inciucellum” perché, nonostante i richiami di Napolitano, le manifestazioni e le promesse pubbliche di Veltroni, il nuovo accordo fra il segretario del Pd e Silvio Berlusconi che ora Bossi sembra aver bloccato - continuava a proporre una legge elettorale a uso e consumo del finto bipartitismo. Cominciamo dallo sbarramento al 4%: può essere razionale e accettabile, anche se non esiste nessuna ragione per metterlo nel caso di elezioni che non devono portare alla nomina di un governo ma a quella dei rappresentanti italiani al Parlamento Europeo. Semplicemente, questo sbarramento al 4% si limita a fotografare la situazione parlamentare italiana: riproponendo i due blocchi del Pd (con Di Pietro) e del Pdl (con la Lega) più l’Udc. Quello che proprio non sta in piedi è l’imbroglio di far finta che si mantengono le preferenze quando non è così. L’accordo che prevede il premio a chi raggiunge
L
del sistema delle preferenze, che si era detto non si sarebbe dovuto toccare. Si partiva da questa base mi sembra per trattare e trovare un possibile accordo. Ricordo male?». Non ricorda male, anche se è inutile far presente a La Torre che le cose intanto sono cambiate nel Pd, che la direzione di questo cambiamento era una esplicita disponibilità a una legge con soglia di sbarramento al 4% e l’abolizione del sistema delle preferenze. Inutile perché La Torre fa orecchie da mercante: dice di non essere stato “ufficialmente aggiornato” di queste evoluzioni, di es-
l’8% delle preferenze di lista è un garbuglio formale che di fatto le svuota di senso. Abbiamo sempre detto che la battaglia per le preferenze per noi rappresenta una battaglia per la libertà politica, oltre che per la cultura della rappresentanza. E l’”inciucellum”, con il suo meccanismo del premio per chi raggiunge l’8% delle preferenze di lista non garantisce uguali opportunità a chi voglia candidarsi. È un espediente opaco per non ammettere direttamente che anche il Parlamento Europeo, come già quello italiano, dovrà essere un consesso di “nominati”, almeno per quanto riguarda i rappresentanti del nostro Paese. Un’ultima annotazione, poi: Pdl e Pd dicono di essere nati per “semplificare” la politica italiana. Se questa semplificazione va nella direzione del tecnicismo messo in campo dall’”inciucellum”, allora la mistificazione è si scopre da sé: i cavilli dell’accordo non li capiscono bene neanche tanti parlamentari, come li capiranno i cittadini?
sere “fermo alla rotta ufficiale del partito” e aggiunge che una legge elettorale si cambia solo con un largo consenso di tutto il Parlamento: «Una riforma di questa entità, anche per le conseguenze che può avere, non può essere varata con il semplice accordo di alcune forze politiche».
Messaggio chiaro, a cui La Torre aggiunge anche una considerazione che appare come una pietra tombale sull’intesa: «Del resto su questo accordo di cui si parla sembrano chiudere tutti. Chiude Bossi, chiude Di Pietro, chiude la sinistra, mi
Nicola La Torre: «Le riforme di questo tipo si fanno con ampie convergenze parlamentari. Qui mi sembra che tutti invece stiano chiudendo a ogni ipotesi di accordo. Il problema è risolto» sembra che il problema si sia risolto prima di nascere no?».Toni ellittici rispetto a quelli hard di Rifondazione comunista per esempio che parla addirittura di golpe: «Le notizie che arrivano in queste ore di un possibile stravolgimento della legge elettorale per le elezioni europee su iniziativa del Pd equivarrebbe a un vero e proprio colpo di Stato. L’unico obiettivo che cerca il Pd, nel perseguire una malefatta di tal genere sta nel tentativo di ammazzare tutti i partiti presenti alla sua sinistra e di far scattare di nuovo il meccanismo del voto utile, proprio come alle politiche».
Toni hard anche se la sostanza della critica comunista al Pd è la stessa che monta dall’area popolare e ulivista del partito di Veltroni: è un pericoloso abbaglio per il Pd, in calo clamoroso di consensi nei sondaggi, quello di pensare di risolvere i propri problemi colpendo a sinistra con l’aiuto della destra. Anche perché con una riforma della legge per le europee il Pd aprirebbe delle ferite anche nel risiko dei poteri locali: l’Udeur minaccia la rottura delle alleanze territoriali se il Pd proseguirà il confronto con il Pdl su questa strada, mentre per i socialisti
politica
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Tutti i vincoli dell’eventuale riforma elettorale secondo Enzo Carra
«Dobbiamo difendere i piccoli partiti» colloquio con Enzo Carra di Marco Palombi
«Il tentativo di riforma della legge elettorale è un furto democratico». La polemica dei dissidenti infuria soprattutto intorno all’esponente del Pd Antonello Soro: c’è chi definisce penosa la sua sortita sulle virtù del modello belga che salvaguarderebbe le preferenze: «A parte il fatto che il modello belga non funziona nemmeno in Belgio, che da anni è senza governo, abbia almeno il coraggio di dire chiaramente che stanno tentando di portare a termine un colpo di mano che prevede le liste bloccate».
C’è chi, come il Pdci, parla di una vera e propria porcata: «Evidentemente Calderoli ha fatto scuola. Quella proposta da Soro per le Europee e’ l’ennesima legge elettorale porcata. Non si utilizzano più i metodi democratici per vincere le elezioni (o per lo meno per limitare i danni) ma si cambiano le regole del gioco con l’unico obiettivo di sperare di ridurre il piu’ possibile un sicuro tracollo elettorale a favore di chi in questo paese fa vera opposizione sociale al governo Berlusconi». C’è chi come i verdi parla di colpo di grazia alla democrazia «da parte di pochi oligarchi della politica potrebbero disegnare non solo il Parlamento europeo ma anche ogni altra forma di istituzione rappresentativa». C’è anche chi si appella a Napolitano: come il leader della Destra Francesco Storace «Ci auguriamo che il
capo dello Stato faccia sentire la sua voce contro il tentativo di modificare le regole del gioco per le Europee». Eppure per Soru una riforma della legge elettorale europea è, malgrado tutto, ancora possibile con una convergenza in Parlamento «su un modello che da un lato eviti la frammentazione e dall’altro permetta la scelta dei cittadini attraverso le preferenze». Si tratta di verificare insomma se esistono margini per un accordo condiviso all’interno del Parlamento «per porre un limite al processo di frammentazione del sistema politico italiano così come si è verificato un anno fa».
Eppure a salutare come saggio e provvidenziale l’intervento di Bossi è l’esponente centrista del Pd Marco Follini: «L’idea di Bossi di non cambiare la legge elettorale per le europee mi sembra di puro buon senso. Mi auguro che il Pd non sia meno saggio del leader leghista. Sarebbe paradossale se non fosse cosí». Anche se a non mancare in queste ore sono proprio i paradossi generati da una guerra di tutti contro tutti che non risparmia nessuno degli schieramenti. La notizia però è che Bossi è tornato a ruggire forte e a farlo soprattutto per ”le ragioni” del nord. Un fronte aperto e trasversale a Pd e Pdl che da oggi avranno qualche preoccupazione più seria della riforma della legge elettorale europea.
ROMA. «Salvaguardare le preferenze è una cosa sacrosanta, ci eravamo pubblicamente impegnati a farlo, ma una riforma della legge elettorale europea servirebbe e la soglia di sbarramento al 4% mi pare accettabile. Insomma, io sono favorevole a un accordo ma non per finire nella gabbia del bipartitismo». La posizione sul tema di Enzo Carra, deputato del Pd di provenienza Dc, è tutta qui. Non vuole attaccare il segretario Veltroni né il vice Franceschini per la ricerca di un accordo con Silvio Berlusconi, piuttosto li invita a tener conto del rifiuto del bipartitismo certificato dalle elezioni e li richiama al perseguimento degli obiettivi che loro stessi si sono posti, soprattutto di quella “strategia dell’attenzione” nei confronti dell’Udc che esprimono anche pubblicamente. Senza contare che Bossi, con il suo “no” ha sparigliato tutto. Che ne pensa dell’accordo di cui si legge sulla stampa? Intanto una premessa. Dopo le elezioni di aprile qualcuno pensava che si fosse definito un sistema tendenzialmente bipartitico. Ora sono passati i mesi e si è dimostrato che non è
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così: la nuova posizione dell’Udc e le divisioni nella maggioranza su questioni fondamentali lo dimostrano. È vero che tutto questo per il momento viene riassunto dal carisma berlusconiano, ma secondo me rappresenta un primo passaggio, un preludio a qualcosa che avverrà. Il sistema è tutt’altro che solido. Lo dico con grande rispetto per i costituzionalisti vecchi e giovani, so quanto conta lo studio, ma so anche che la politica ha ragioni che la ragione non conosce. I costituzionalisti possono anche convincermi che l’Italia è uno schema, poi salgo sul tram e mi accorgo che non è così. Va bene, l’Italia non è bipartitica. Contesto il fatto che l’Italia si possa muovere su schemi così rigidi. Ora lo dice anche Franceschini: ha detto che esistono due grandi partiti e altre tre o quattro forze intermedie. Peraltro esistono adesso, non è detto che esisteranno per sempre.
Ho sentito Walter Veltroni dire in televisione che per noi del Pd, come interlocutori, l’Italia dei Valori e l’Udc sono pari. Questo mi sembra un passo in avanti molto importante
Enzo Carra, deputato del Partito Democratico. A sinistra, l’esponente del Pd Nicola La Torre, il leader della Lega Umberto Bossi e Antonello Soro
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Quindi? Mi spiego. Ci sono situazioni in movimento, segnalo solo il cambio di strategia del Pd: ho sentito Veltroni dire in tv che per noi come interlocutori Italia dei Valori e Udc sono pari. Questo è un passo in avanti visto che Di Pietro è stato apparentato con noi alle elezioni e questa novità per me, per la mia storia, vale doppio. Quello che dico è che quando uno delinea una strategia, poi deve salvaguardarla anche attraverso la scelta del sistema elettorale. In pratica? Io sono favorevole ad un sistema proporzionale che garantisca la vita delle forze più piccole, anche se con una soglia di sbarramento. Una riforma in senso bipartitico conviene più al Pdl, perché ha bisogno di fotografare l’esistente, mentre noi dobbiamo movimentarlo e solo attraverso questo movimento potremo vedere se abbiamo una prospettiva. E le preferenze? Vanno salvaguardate, ma sono pessimista. Noi veniamo da una stagione particolare. Abbiamo votato due volte con un sistema di cui ci vergogniamo, però poi prima chi si lamenta delle liste bloccate poi le si usa per bloccare chi dissente. E poi il recupero delle preferenze è un fatto recente, la cosiddetta Seconda Repubblica è nata col referendum per la preferenza unica. Almeno diciamo che prima s’è fatto un errore.
panorama
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Proposte. La nostra situazione non è disastrosa: dobbiamo cogliere l’attimo
Ora basta interventi di facciata di Carlo Lottieri segue dalla prima La nostra economia è fragilissima e un ulteriore aggravio del debito avrebbe conseguenze disastrose. In tal modo, le misure finiscono per avere una portata assai limitata (intorno ai 5 miliardi): nemmeno paragonabile a quello che è stato fatto in Spagna, Francia o Germania. A Berlino, l’insieme della manovra raggiunge quota 62 miliardi, molti dei quali per iniziative keynesiane (infrastrutture). La sostanziale inattività del governo italiano è apprezzabile. In effetti, ben più delle crisi stesse, a colpire a morte le economie sono le risposte interventiste che i governi tendono a dare quando l’economia entra in una fase di difficoltà. La stessa depressione del
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
’29 fu insomma un duro colpo per l’economia americana, ma quei problemi non si sarebbero cronicizzati se il presidente Roosevelt non avesse trasferito ingenti quantità di denaro dal settore privato produttivo verso quello pubblico. In Italia, per ora, non si avrà niente di ciò: e di questo bisogna essere grati a Tremonti.
In fondo, la retorica del ministro dell’Economia per ora si è
gioranza a contenere la propria iniziativa. È però egualmente vero che l’Italia avrebbe anche bisogno di cambiamenti radicali. In particolare, per far ripartire l’economia si dovrebbe abbassare con decisione il livello delle imposte e di conseguenza bisognerebbe far ricadere i costi della crisi tanto sui lavoratori del privato (che stanno massicciamente rischiando il posto) quanto su quelli del pubblico. Non è possibile che gli operai delle
La sostanziale inattività dell’esecutivo italiano è apprezzabile. Più delle crisi, fanno danni le risposte interventiste dei governi concretizzata solo in qualche limitato finanziamento a favore dei ceti più deboli (la social card, ad esempio) e una certa positiva ritrosia a finanziare i gruppi. Complessivamente, si può essere soddisfatti. Quando Bersani attacca il governo sostenendo che è lì per risolvere i problemi e non per negarne, è chiaro che il partito Democratico avrebbe voluto un intervento di ben altro peso. Bene però ha fatto la mag-
aziende artigiane possano restare a casa da un giorno all’altro senza neppure ricevere la cassa integrazione e invece gli impiegati del catasto non possano, di fatto, mai perdere il lavoro. Per giunta, la richiesta leghista di cambiare in senso federale la struttura della finanza pubblica dovrebbe essere sfruttata per ottenere comportamenti virtuosi da parte dei centri di spesa territoriali.
Ma per realizzare tutto questo bisogna che dopo la bozza Calderoli si abbiano decreti che delineano un federalismo competitivo, in cui ogni comune viva essenzialmente di risorse che ottiene dai propri cittadini e grazie a tributi che fissa e modifica a piacere. Solo così è possibile costringere il sistema pubblico a operare al meglio e ridurre le aliquote. Bisognerebbe inoltre evitare che presto ci si debba confrontare con “nuove Alitalia”, e quindi bisognerebbe sfruttare l’attuale situazione di emergenza per mettere in cantiere la privatizzazione di quel vasto arcipelago parastatale che ancora grava sui conti pubblici, da un lato, e penalizza gravemente l’efficienza complessiva del Paese, dall’altra. In altri termini, è certamente positivo che nei progetti governativi contro la crisi manchi una “grande visione” in stile Obama: ed è bene che nessuno pensi ad un rinnovato ruolo per il governo. Ma è un vero peccato che non si sappia cogliere l’occasione della crisi in atto per sviluppare un progetto davvero riformatore, che vada all’origine dei guai del Paese.
Gli italiani non credono all’imparzialità delle istituzioni. E Moggi paga per tutti
Ma Calciopoli è il ritratto del Paese l campionato di calcio è al giro di boa. Ma il 20 gennaio, a Napoli, partirà un campionato calcistico parallelo: il processo di Calciopoli. Lo si sapeva e, dunque, nessuna novità. Tuttavia, la novità si è premurato di fornirla l’imputato numero uno: Luciano Moggi. L’ex dirigente sportivo della Juventus ha presentato una lista di testimoni a dir poco lunghetta: 498 testimoni. Vale a dire un numero più alto delle telefonate che Lucianone riusciva a fare ogni giorno quando svolgeva il suo diligente lavoro per tutelare gli interessi della “vecchia signora”. Chi sono i testimoni? Ecco qualche nome: Massimo Moratti, Marco Tronchetti Provera, Adriano Galliani, Pierluigi Collina, Marcello Lippi, Carlo Ancelotti, Roberto Mancini, Zdenek Zeman. Ci sono tutti i presidenti delle squadre di calcio dei campionati 2004-2005 e 2005-2006.
I
Moggi ha citato come testimone anche Silvio Berlusconi, il quale ha dichiarato: «Non so nulla, comunque le nostre strade non si sono mai intersecate e perciò non vedo in cosa potrei essergli utile». Eppure, se Luciano Moggi ha presentato questa lista di testimoni avrà i suoi buoni motivi. O no? Qualunque sia il vostro giudizio su Moggi e la sua influenza su arbitri, guardalinee e “quarto uomo”, su presidenti, ammini-
stratori delegati e procuratori, su calciatori, allenatori, giornalisti e commentatori e persino su Eupalla, una cosa bisogna pur riconoscerla e riconoscergliela: sta svolgendo la classica funzione del capro espiatorio. Uno paga per tutti. Il calcio italiano era malato (e chissà se ora è miracolosamente guarito) ma è difficile credere che l’unico virus negativo responsabile del malanno fosse solo e soltanto Luciano Moggi. Tutti sono stati vittime di Lucianone? Tutti? Ma se Moggi imbrogliava - perché alla fine di questo si tratta, di un trucco, di un gioco truccato - come faceva a imbrogliare da solo? Il teorema non regge. Lo capirebbe anche un bambino, lo abbiamo capito anche noi e lo hanno capito un po’ tutti. Il “sistema Moggi” non poteva essere “sistematico”facendo leva solo sulla “genialità”di Moggi. I testimoni, dunque, chiamati da Moggi, possono dare un validissimo contributo a capire
meglio, indipendentemente dal fatto che le loro strade si siano incontrate o “intersecate” con quelle del dirigente sportivo della Juventus. Sulla sua avventura calcistica e sulla sua disavventura umana Moggi ha anche scritto un libro. Un volume che quando uscì, più di un anno fa, fu osteggiato, non venne distribuito, era perfino vietato parlarne. Insomma, Luciano Moggi non solo doveva pagare per tutti, ma non doveva neanche avere il diritto di parlare, di difendersi. Moggi era colpevole per definizione. Imbroglione e basta. L’unico a dargli ascolto fu Vittorio Feltri, che gli diede la possibilità di scrivere sul suo giornale. Ma qualcosina l’ho fatta anch’io, che pur non conoscevo Moggi: lo chiamai e lo invitai a parlare del suo libro. Prima di tutto lessi il libro che, in verità, andrebbe riletto ora alla vigilia del processo Calciopoli. In quel libro, infatti, non si parla semplicemente di
Moggi, ma di tutto il calcio italiano e di ciò che vi gira intorno. Quelle che vengono chiamate le pressioni, le influenze, i condizionamenti sulle terne arbitrali sono all’ordine del giorno, sono pane quotidiano. Non sono per nulla una anomalia, ma una regola: l’arbitro è parte integrante del gioco. Ciò che emerge dai racconti di Moggi - forse anche con ingenuità o forse con intelligenza - è che la vita quotidiana del calcio italiano non percepiva come cosa strana l’idea di condizionare gli arbitri. Le cose ora sono effettivamente cambiate? È una regola, questa, che travalica tranquillamente gli stadi e le tribune, gli spogliatoi e le società sportive per ritrovarsi nel “resto del mondo italiano”.
È un difetto di fabbrica nazionale: non si crede che ci possa essere un arbitro al di sopra delle parti o, ancora meglio, si crede che si possa trovare sempre qualcosa o qualcuno pronto a intervenire in nostro favore, a metterci la buona parola, a cambiare le carte in tavola, a mettere in fuorigioco l’avversario. Il più grande e genetico difetto della società italiana è quello di ritenere impossibile la creazione di istituzioni autorevoli. In fondo, cos’è il gioco se non la vita? Calciopoli è la sintesi dell’Italia: crediamo nell’idea di truccare la vita.
panorama
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Ambiente. Comincia alla Camera l’iter per approvare il “pacchetto” varato dalla Ue dopo l’intervento del nostro governo
In Europa ha perso l’ideologia ambientalista di Sergio Pizzolante
ROMA. La Camera ha iniziato in questi giorni la discussione nelle commissioni riguardante il programma legislativo della Commissione europea per il 2009. Tale provvedimento è molto importante per il nostro Paese e contiene tra l’altro anche il pacchetto “20-20-20” che consiste nell’impegno dell’Ue a ridurre le emissioni di gas serra del 20% entro il 2020, soddisfare il 20% del fabbisogno energetico utilizzando energie rinnovabili e migliorare del 20% l’efficienza energetica. Questo pacchetto è stato riformulato in sede europea soltanto dopo pressanti richieste in tal senso avanzate dal governo Berlusconi e dal ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo. L’accordo al quale aveva aderito il governo Prodi, infatti, penalizzava fortemente l’Italia. Il governo Berlusconi, sconfiggendo un approccio ideologico all’ecologismo, è stato capace di proporre all’Europa una soluzione che tenesse insieme le esigenze dell’ambiente e quelle degli interessi nazionali ed europei e della piccola e media
Le misure faranno risparmiare al nostro Paese decine di miliardi e migliaia di posti di lavoro Senza contare la salvezza di molte industrie industria italiana. La vittoria europea del governo italiano è stata riconosciuta anche dal presidente francese Sarkozy, all’epoca presidente di turno del Consiglio europeo, che ha dichiarato: «Omaggio all’Italia, solo grazie a Berlusconi è stato possibile trovare rapidamente un accordo». Un accor-
do definito «giusto ed equilibrato» anche da Zapatero.
Il nuovo pacchetto che abbiamo iniziato a discutere alla Camera farà risparmiare al nostro Paese decine di miliardi, salva settori vitali della nostra industria manifatturiera come acciaio, vetro, ceramica e carta,
scongiura il rischio di un’accelerazione delle delocalizzazioni all’estero delle nostre imprese e quindi la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, apre alla clausola di revisione che permetterà di valutare nel 2010 se anche gli altri partner internazionali assumeranno impegni comparabili con quelli presi dall’Ue. Non c’è solo questo nel programma della Commissione europea. In generale l’Ue si impegna a perseguire una strategia per lo sviluppo sostenibile. In questo senso tra le priorità dell’Ue c’è l’azione a sostegno dello sviluppo di tecnologie a bassa emissione di carbonio e a favore del trasferimento e della diffusione di tecnologie pulite. L’Europa si propone di raggiungere altresì un accordo relativo alla questione rilevante degli appalti pubblici: il punto è coordinare le procedure di aggiudicazione di taluni appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi nei settori della difesa e della sicurezza. Ciò significa esaminare anche il cosiddetto e-procurement, ossia degli appalti pubblici per via elettronica.
Trattative. Berlusconi chiamato a dirimere la lite per gli assessorati della giunta Regionale
La rivolta dei cespugli abruzzesi di Francesco Capozza
ROMA. Non bastavano le bordate di Gianfranco Fini sui troppi voti di fiducia posti dal governo, gli strascichi di polemica con la Lega su Malpensa, l’estenuante trattativa per riuscire a cambiare al fotofinish la legge elettorale per le Europee. Adesso ci si mettono anche i partitini che gravitano intorno al Pdl a creare grane al premier.
Il motivo della disputa, stavolta, non è un’importante legge da far digerire alla maggioranza (come, per esempio, i DiDoRe proposti dal ministro Gianfranco Rotondi e derubricati freddamente dall’agenda di governo), né il riassetto della squadra di governo come da più parti richiesto. Questa volta si parla di questioni molto più spiccie: gli assessorati abruzzesi le cui deleghe, dalle elezioni del 14 e 15 dicembre, non sono ancora state assegnate. È una cosa normale, si dirà, che anche i piccoli partiti che compongono la maggioranza e che hanno contribuito alla vittoria del candidato del centrodestra alla Regione richiedano un posticino da assessore. Il solito vizietto da prima Repubblica e da manuale Cencelli mai caduto in disuso e che, anzi, viene ri-
spolverato a ogni tornata elettorale. Il fatto bizzarro, però, è che di queste trattative estenuanti e, tutto sommato assai poco rilevanti, si debba occupare il presidente del Consiglio in persona. E invece, assurdo ma vero, è proprio così. Questa mattina, alle 10.30, Silvio Berlusconi riceverà a Palazzo Grazioli una nutrita delegazione dei componenti di quei piccoli cespugli che sostengono la sua maggioranza: da Mau-
Al cospetto di re Silvio IV, per esempio, ci sarà anche un illustre candidato che «ha preso ”la bellezza” di120 preferenze nel comune di Penne». Mica bruscolini, insomma. La riunione, dunque, si prospetta divertente, ancor prima che movimentata. Al solo pensiero ci verrebbe da dire al povero presidente del Consiglio: «Ma chi gliel’ha fatto fare?». Un conto è dover trattare con Bossi e i suoi del Carroccio continuamente sul piede di guerra, ma da loro dipende la stessa tenuta del governo. Ed è anche lecito che il Cavaliere debba continuamente ingoiare gli attacchi del presidente della Camera, ma che debba tenere egli stesso a bada i partitini dello zero virgola nulla ci pare davvero eccessivo. E dire che sparavano a zero su Prodi, che doveva continuamente rassicurare anche il singolo senatore della sua maggioranza! Ci sarebbe da piangere se non ci venisse da ridere.
Questa mattina il presidente del Consiglio incontrerà i leader dei piccoli del Pdl. Con loro anche tutti gli aspiranti alle deleghe ro Cutrufo (vice sindaco di Roma) e Gianfranco Rotondi (ministro per l’attuazione del Programma di governo) della Democrazia cristiana per le Autonomie, a Carlo Giovanardi (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) dei Popolari e Liberali, passando per Stefano Caldoro del Nuovo Psi ed Elio Belcastro dell’Mpa di Raffaele Lombardo. Non solo. Tutti questi esponenti ”di peso” della piccola macchia pidiellina, saranno accompagnati dai rispettivi candidati alla poltrona di assessore regionale abruzzese.
L’Europa e l’Italia si impegnano a lavorare anche sulle sostanze chimiche attraverso la revisione del regolamento sulle sostanze che riducono lo strato di ozono, della normativa vigente all’immissione nel mercato dei bioacidi e delle direttive sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, un settore che anche gli ultimi dati sugli acquisti dei consumatori italiani confermano essere di fondamentale importanza. È prevista anche la riforma della direttiva 1999/94/CE riguardante le informazioni sul risparmio di carburante e le emissioni di Co2 da fornire ai consumatori per quanto riguarda le nuove autovetture. L’Europa si impegna anche a emanare una nuova direttiva sulle emissioni degli impianti industriali. Questa è l’Europa che ci piace. È l’Europa che ascolta le ragioni della politica. Un’Europa con una politica per la crescita che non ci sta a farsi ingessare dalla burocrazia e da un’ideologia ambientalista che tende a costruire mondi immaginari contro le imprese, i lavoratori e l’economia reale.
il paginone
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Per Alain Duhamel, uno dei più famosi commentatori francesi, l’inquilino dell’Eliseo è - nei suoi pregi e ne
Anatomia di Sarkona di Nicola Accardo
l 16 maggio 2007, giorno del suo insediamento all’Eliseo, Nicolas Sarkozy chiese alla Guardia Repubblicana di suonare la “Marche Consulaire”, quella che celebrò Napoleone dopo la vittoria della battaglia di Marengo. Alain Duhamel, presente alla cerimonia, aveva così trovato il titolo per la sua tesi. «Se Charles de Gaulle poteva somigliare all’Imperatore, e Georges Pompidou e Jacques Chirac ai suoi generali Berthier e Neyil, Nicolas Sarkozy ricorda il Napoleone giovane Primo Console che febbricitante conquistava Parigi», scrive Duhamel più di due anni e mezzo dopo. Nicolas Sarkozy è per lui un bonapartista, nelle parole, nei gesti, nei pregi e nei difetti: energia, autoritarismo, volontà di cambiamento e riforme, gestione della comunicazione, insofferenza per i formalismi, ma anche nervosismo, impulsività, e persino il gusto del lusso e il rapporto non facile con le donne. Ma è nelle gesta politiche del Sarkozy Presidente dell’Unione Europea che Duhamel ha trovato la conferma che cercava: «Sono stati sei mesi di successi – spiega – tra la mediazione nella guerra in Georgia, la reazione collettiva dell’Unione alla crisi finanziaria, l’Unione per il Mediterraneo e soprattutto il recupero del Trattato di Lisbona. Le polemiche non sono mancate, ma bisogna dargli atto che il suo volontarismo ha funzionato». In Francia non riuscivano a collocarlo politicamente prima della sua elezione, ora ci riescono ancora meno: è chirachiano, gollista, liberale, radical-socialista? «I bonapartisti si distinguono dalle altre due grandi famiglie della destra francese (gli Orleanisti moderati e i Legittimisti reazionari) proprio perché sanno guardarsi attorno e trasformarsi per creare consensi», spiega l’autore. E infatti Nicolas Sarkozy è riuscito a soffocare l’estrema destra francese, ha chiamato ex socialisti nel suo governo, nominato ministri donne giovani e brillanti , meglio ancora se di origine maghrebina o provenienti da famiglie modeste. E non lesina misure popolari: dopo la tv senza pubblicità, martedì è arrivata la gratuità dei musei per gli under 25.
I
Plebiscito Napoleone scacciava il Terrore e il Direttorio, Sarkozy le paure della globalizzazione: «Per ret-
Energia, autoritarismo, volontà di riforme, gestione della comunicazione, insofferenza per i formalismi, ma anche nervosismo, impulsività, gusto del lusso e rapporti non facili con le donne tificare la sua ascesa al ruolo di Primo Console, Bonaparte aveva organizzato il primo suffragio maschile universale: fu un plebiscito, con tre milioni di voti
a favore e tremila contrari. L’elezione di Sarkozy è stata altrettanto convincente». Napoleone è rimasto in carica per cinque anni, prima di farsi
Da “Le Monde” a “Libération”, chi è Alain Duhamel Alain Duhamel, nato a Caen nel 1940, è uno dei più celebri opinionisti francesi. Ha collaborato a lungo con Le Monde e Libération prima di dedicarsi alla televisione e alla radio. La rete pubblica France 2 e la radio Rtl l’avevano sospeso nel 2007, per aver espresso pubblicamente l’intenzione di votare Bayrou all’elezione presidenziale. Moderatore di talk show politici dal 1970, nel 1995 aveva condotto il dibattito televisivo tra i due candidati all’Eliseo, Jacques Chirac e il socialista Lionel Jospin. Tra le sue opere più recenti “Les prétendants 2007” (ed. Plon, 2005) , in cui aveva trascurato la possibile candidatura di Ségolène Royal, e “Le de sarroi français” (lo sconforto francese), edito nel 2003, in cui descriveva una Francia in perdita di fiducia nelle regole collettive, nello stato sociale e nelle istituzioni repubblicane.
incoronare Imperatore, Nicolas Sarkozy nel 2012 dovrà accontentarsi di un secondo mandato. Lo chiamano comunque “onnipresidente”, e lui si compiace. «Meglio che essere definito re fannullone, e ne abbiamo visto parecchi...», ha detto gongolando alla cerimonia di auguri al suo governo lo scorso 7 gennaio. Dagli altri presidenti della Quinta Repubblica, e tra questi ci sono i “fannulloni”, Sarkozy ha in realtà tratto l’ispirazione per il sui attivismo internazionale. «Tutti i suoi predecessori hanno da subito preso in mano le redini della politica estera, con alterne fortune. Nicolas Sarkozy ha saputo approfittare della presidenza dell’Unione, ma soprattutto della crisi economica. La crisi costruisce e modella Sarkozy, che di certo non si tira indietro». La convinzione del presidente francese è sempre stata una sola: con la volontà politica, si può tutto. «Questo lo porta ad essere impaziente, nervoso, impulsivo». Nel suo libro, Alain Duhamel parla di “ciclotimia”: «È un alternarsi di esaltazione e inquietudini», precisa. Ma Sarkozy vive nell’euforia da quest’estate, quando ha visto rientrare a casa Ingrid Betancourt, o sedere al suo tavolo il 14 luglio Ehud Olmert, Abu Mazen, e il presidente siriano Bashar al-Assad. Allora, Sarkozy
ha delle inquietudini? «Spero di sì», risponde Duhamel. Che poi ricorda: «L’ho visto a pezzi diverse volte. Nel 1995, quando aveva sostenuto Balladur, poi battuto da Chirac alle presidenziali, era stato ripudiato dalla sua famiglia politica, lo avevano insultato. Recentemente, ha sofferto molto la rottura con la moglie Cécilia».
«È stato un fallito» Eppure si è sempre riscattato, il coraggio non gli è mai mancato. In un interminabile discorso davanti a un gruppo di imprenditori in lotta con la crisi economica non smetteva di ripeterlo: «Bisogna avere coraggio, nella vita». La risposta di uno di loro lo ha fatto sbiancare in volto: «Proverò ad averne tentando di interrompervi». Un coraggio che porta allo sprezzo dei potenti: nel 1792 Napoleone, allora ufficiale del Re, gridava «Coglione!» al suo sovrano Luigi XVI. Nicolas Sarkozy si è permesso, riguardo a Napoleone stesso, di dire che alla fin dei conti «è stato un fallito». «Non è detto che da Sarkozy sognasse da bambino le grandi battaglie di Napoleone, e non sono certo che sarà d’accordo con la mia tesi», ammette Duhamel. «Quando ha detto che Napoleone ha fallito, si riferiva al risultato finale». Le battaglie e il successo di
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nei suoi difetti - un perfetto “bonapartista”
apoleon Citazioni La crisi e lo Stato «Soldati, siete nudi, malnutriti, e il governo non può darvi nulla» (Bonaparte) «Che vi aspettate da me? Che svuoti le casse che sono già vuote?» (Sarkozy) I sogni «Un popolo si guida mostrandogli un futuro: un capo è un venditore di speranze» (Bonaparte) «Non abbiate paura di fare grandi sogni» (Sarkozy) I soldati «Soldati, sono contento di voi» (Bonaparte) «Soldati, avete compiuto il vostro dovere, è il vostro onore» (Sarkozy) Patria «La principale virtù è la devozione alla patria» (Bonaparte) «Odiare il proprio paese, è come odiare se stessi» (Sarkozy) Religione «Una società senza religione è come un vascello senza bussola» (Bonaparte) «Nessuna società può esistere senza morale. E non esiste una buona morale senza la religione. Solo la religione dà quindi allo Stato un appoggio stabile e duraturo» (Sarkozy) Onore «L’onore è per i sudditi un fisco morale» (Bonaparte) «L’uomo non cresce se la nazione è in declino» (Sarkozy) Coraggio «Il coraggio non si può fingere, è una virtù che sfugge all’ipocrisia» (Bonaparte) «Mi è capitato di dubitare. Non è coraggioso chi che non ha mai avuto paura». (Sarkozy)
In Francia non riuscivano a collocare politicamente Nicolas Sarkozy prima della sua elezione, ora ci riescono ancora meno: è chirachiano, gollista, liberale, radical-socialista? «I bonapartisti spiega Alain Duhamel - si distinguono dalle altre due grandi famiglie della destra francese (gli Orleanisti moderati e i Legittimisti reazionari) proprio perché sanno guardarsi attorno e trasformarsi per creare consensi».
Sarkozy si giocano sul terreno della crisi e soprattutto in Francia, dove il piano di rilancio ha stanziato 26 miliardi di euro, circa il 2 per cento del prodotto interno lordo: «Quello è il rischio più grosso che corre, non riuscire a risolvere i problemi economici dei francesi». La sua iperattività potrebbe giocargli brutti scherzi? Secondo Duhamel non è un problema di carattere: «Dipende tutto dal risultato finale, lo avremo tra un anno». Dopo aver tentato l’impossibile per far firmare la pace a Gaza, sul fronte internazionale qualcuno potrebbe rubargli presto la scena. Una settimana fa Sarkozy è stato chiaro: per riformare il sistema capitalistico «non accetteremo lo status quo, l’immobilismo o il ritorno al pensiero unico», ha detto davanti a Tony Blair e Angela Merkel, riferendosi agli Stati Uniti. Barack Obama incalza e, secondo Duhamel, «il suo arrivo cambierà molte cose. La novità che incarna e il suo carisma oscureranno almeno all’inizio il ruolo di Sarkozy». Sarkozy «non teme Obama», assicura Duhamel, «e il 3 aprile al G20 di Londra sulla crisi economica vuole guidare ancora una volta l’Europa. Se gli europei faranno fronte comune Sarkozy ne diventerà il leader indiscusso».
Il massmediologo Pierre Musso analizza le “due facce della rivoluzione conservatrice”
Nicolas il profondo, Silvio il superficiale di Gabriella Mecucci olti dei nostri intellettuali hanno un vistoso e talora insopportabile tic anti- italiano. Come se ciò che proviene dal nostro paese fosse necessariamente arretrato, provinciale, mal scopiazzato. E invece non è la prima volta che dai cugini transalpini, che pure non ci risparmiano critiche un po’ snob, arrivino anche dei riconoscimenti. L’ultimo libro - ad esempio - di un massmediologo famoso come Pierre Musso sostiene che il “fenomeno” Sarkozy si può almeno in parte spiegare attraverso il “mistero”Berlusconi. «Tra i due approcci - scrive Musso - esistono affinità tali da permetterci di individuare un fenomeno politico nuovo e del tutto peculiare, che indicherò con il nome di sarkobelusconismo». L’intellettuale transalpino è talmente convinto di aver trovato il bandolo della matassa che intitola il suo saggio, edito Ponte alle Grazie, propri così: “Sarkoberlusconismo. Le due facce della rivoluzione conservatrice”. E vediamole allora quali sarebbero queste due facce. Intanto ci sono dei tratti comuni: personalismo esasperato, controllo diretto (Berlusconi) o indiretto (Sarkozy) sui media, gossip, populismo e popolarismo, sovrapposizione pubblico-privato. Oltre a ciò i due si somigliano anche morfologicamente: piccoletti, vivacissimi, ostentati tombeur de femme. Per tutto ciò e forse anche peraltro i due di mostrano una forte e reciproca simpatia.
M
politica e inneggiavano solo a chi l’attaccava duramente. Sarkozy si è trovato nelle condizioni di dover svecchiare il centrodestra francese e di dover far credere agli elettori che lui, gollista doc, non c’entrava niente con l’altro gollista che aveva alloggiato all’Eliseo per ben 14 anni e cioè Jaques Chirac. Per ottenere questo ha rivisto la politica alla luce dell’efficienza, introducendovi in qualche modo uno spirito aziendale. A questo va aggiunto che entrambi i leader hanno avuto la fortuna di trovarsi a competere con una sinistra invecchiata, conformista e senza idee. Da questo punto di vista probabilmente la Francia è addirittura peggio dell’Italia. Il che è tutto dire. Sia Berlusca sia Sarkozy, infine, hanno cercato di tenere insieme il capitalismo edonista e il cattolicesimo.
Mentre il Cavaliere resta ancorato alla pura propaganda, il presidente francese è riuscito a dare al suo operato una dignitosa veste culturale
Secondo Musso, il leader italiano ha fatto entrare in politica il menagement e i media per crearsi l’immagine dell’antipoliticoica; con gli stessi metodi il leader francese intende riformare la politica, rinnovarla profondamente e ridargli autorità. I fini sono diversi, ma i mezzi sono uguali. Berlusconi ha portato la logica aziendale nell’antipolitica nel momento in cui gli italiani - colpiti dagli scandali di Tangentopoli - non ne potevano più della
Tutte le operazioni che Musso descrive sono riuscite a Berlusconi in chiave esclusivamente propagandistica mentre Sarkozy è riuscito a dare al suo operato una più dignitosa veste culturale. Nessuno dei due ha convinto però gli elettori a cancellare dall’agone politico un partito moderato con forti valori, vedi Bayrou in Francia e Casini in Italia. Probabilmente questa rivoluzione conservatrice non è del tutto riuscita e, soprattutto in Italia, potrebbe trovare il suo primo grande ostacolo proprio al Centro. Molte delle similitudine di Musso sono suggestive: alcune convincenti, altre meno. Il massmediologo, però, su un punto ha ragione: Berlusconi è una risposta ad una reale domanda politica proveniente dalla società. Prima di storcere il naso occorre analizzare e comprendere il mistero che c’è dietro. Quanto alle somiglianze con Sarkozy conviene non esagerare. Il leader francese ha basi culturali e politiche ben più solide, anche se la nuova “rivoluzione conservatrice”parte da Milano.
mondo
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Europa. Prime scintille pubbliche fra l’euro-scettico ceco e Barroso. Praga annaspa in cerca di una diplomazia forte
L’enigma Topolanek Avvio con gaffe del nuovo semestre: Lisbona? Un Trattato mediocre. Gaza? La Ue non c’entra di Michele Marchi questo il destino dell’Unione europea nel passaggio dalla presidenza di turno francese a quella della Repubblica Ceca? Se tutto dovesse limitarsi ai costanti strali polemici del Presidente ceco Klaus il discorso sarebbe ben presto chiuso. Interpellato pochi giorni prima dell’avvio del semestre circa i progetti di Praga, Klaus ha risposto in maniera disarmante: «Cosa succederà? Assolutamente nulla. Un piccolo Paese difficilmente può influenzare i meccanismi europei». In realtà, fortunatamente, il Capo dello Stato ha pochi poteri reali in base al dettato costituzionale ceco e le sue prerogative se possibile diminuiscono riguardo alla politica estera. Se da Klaus si passa al Primo mini-
È
che ipotesi rispetto ai sei mesi di presidenza che ci attendono è utile leggere con attenzione il discorso pronunciato ieri da Topolanek al Parlamento di Strasburgo. Nel lungo preambolo iniziale il Primo ministro ceco introduce un lungo parallelo tra “questione ceca” e “questione europea”, riferendosi in particolare agli anni della fondazione della Cecoslovacchia, al complicato percorso di costruzione di una comune identità ceca e alle affinità con quello altrettanto ostico nel quale si trova la costruzione europea. Poi la conclusione con la sua personale definizione di Unione europea: unità nella diversità. Se non si tiene conto di questa particolare declinazione dell’europeismo ceco, si finisce per liquida-
L’appartenenza all’Alleanza Atlantica rappresenta per la Repubblica Ceca un richiamo alla dimensione fondamentale della sua sicurezza e l’espressione della sua identità post-sovietica stro in carica, che dirigerà il Consiglio europeo nei prossimi sei mesi, il discorso si fa più sfumato, ma resta comunque complesso.
Topolanek è un euro-pragmatico, convinto che l’aggancio di Praga all’Unione sia fondamentale per il suo lungo percorso di uscita dall’epoca postcomunista. Allo stesso tempo è un liberal-conservatore classico, liberista in politica economica, molto critico riguardo al percorso istituzionale dell’Ue, ai suoi cronici eccessi burocratici e al suo storico deficit di legittimità democratica. Il suo profilo è ben sintetizzato nella risposta offerta agli euro-deputati di Strasburgo in occasione della presentazione del programma della sua presidenza riguardo al Trattato di Lisbona. «Lisbona è un Trattato mediocre, piuttosto inferiore al Trattato di Nizza». Gelo nell’emiciclo e conclusione di Topolanek: «Però l’ho negoziato, l’ho firmato e lo voterò in Parlamento». Sospiro di sollievo e applauso generale. Al di là delle singole battute per potere avanzare alcune realisti-
re qualsiasi presa di posizione proveniente da Praga come uno sterile esercizio di euroscetticismo. Non bisognerebbe invece dimenticare il lungo e tormentato passato storico del Paese e nemmeno le modalità forse troppo superficiali attraverso le quali è stato gestito l’allargamento e di conseguenza la giustapposizione tra Paesi con identità storico-politiche profondamente differenti. Secondo dato di interesse che emerge dall’intervento di Topolanek: lo slogan del semestre di presidenza ceco sarà “Europa senza barriere”, prontamente accompagnato da un sottotitolo che pare coniato appositamente per l’attuale congiuntura di crisi economico-finanziaria “Europa delle regole”. È evidente come il vero slogan sia il primo, un richiamo al liberalismo politico ed economico tanto più accentuati quanto è stato opprimente il dominio totalitario sovietico. Il terzo passaggio da sottolineare riguarda le tre priorità della presidenza. Si tratta delle cosiddette tre “E”, cioè energia, economia ed Europa nel mondo. Apparentemente siamo nel-
l’ambito della più assoluta indeterminatezza e banalità. Se si incrociano però le tre priorità con alcuni riferimenti disseminati nell’intervento, qualche elemento di interesse emerge e soprattutto si delineano i possibili punti di crisi nell’operato della presidenza ceca dell’Ue.
Sul tema energetico inevitabilmente si tocca il nervo scoperto del complicato rapporto tra Repubblica Ceca e Russia. Cosa sarebbe accaduto se allo scoppio del conflitto russogeorgiano la guida dell’Unione fosse garantita da Topolanek? Il Primo ministro ceco nel suo intervento non elude la questione del rinnovo dell’accordo di partenariato con Mosca, ma insiste di più sulla necessità che l’Unione costruisca una vera “eastern partnership” con i Paesi dell’ex blocco sovietico rimasti fuori dalla costruzione europea. Piacerà tutto ciò a Mosca? Quando si parla di Mosca non si deve poi dimenticare il contenzioso sullo scudo antimissile. È vero che su questo argomento qualcosa di più si potrà sapere solo dopo il 20 gennaio prossimo, resta comunque sottointeso che il filo-atlantismo di Praga arriva molto prima del suo europeismo. Ancora una volta il testo del discorso parla chiaro. Il 2009 deve essere innanzitutto ricordato per i 60 anni dalla nascita della Nato.
L’appartenenza all’Alleanza Atlantica rappresenta per la Repubblica Ceca un richiamo alla dimensione fondamentale della sua sicurezza e una contemporanea espressione della sua identità post-sovietica. Infine la terza “E”, quella relativa all’economia. Anche su questo punto il liberalismo economico professato a Praga è poco in linea con il vento che spira nell’Europa in crisi. Pochi giorni fa, aprendo i lavori al seminario informale “Nouveau Monde, Nouveau capitalisme” Sarkozy, alla presenza di Merkel e Blair
ha ribadito che l’Unione europea deve farsi avanguardia per procedere alla rifondazione di un capitalismo regolato, nel quale lo Stato è pronto a svolgere un importante ruolo di indirizzo e propulsione. Non sarà semplice arrivare al vertice di Londra del primo aprile prossimo senza vedere scintille… Senza avviare un processo sommario alle intenzioni, è evidente rilevare alcune inequivocabili criticità che emergono all’avvio del semestre di presidenza della Repubblica ceca. Sarkozy ha avuto il doppio me-
Il leader della rivoluzione di velluto operato sabato scorso
Si aggrava Vaclav Havel Si aggravano le condizioni di salute di Vaclav Havel, l’ex presidente della Repubblica ceca e della Cecoslovacchia operato da un’equipe chirurgica dell’ospedale Motol di Praga sabato scorso. A diffondere la notizia è Boris Stastny, uno dei suoi medici curanti, che ha convocato ieri un consiglio di dieci esperti oltre ad avere informato il ministero della Sanità. Ad Havel, uno dei fondatori del manifesto Charta 77, era stato trovato un ascesso nello stesso punto in cui nel 1996 gli fu praticata una trachetomia. L’ex leader della dissidenza ha 72 anni e soffre di bronchite cronica e problemi di aritmia in seguito al tumore che ha portato alla parziale asportazione del polmone destro. Havel, per decenni un fumatore accanito, è stato presidente dal 1989 al 2003. Alla fine del suo mandato, ha ripreso l’attività di drammaturgo continuando a dedicarsi alla difesa dei diritti umani.
mondo
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La risposta dell’Unione alle emergenze che l’hanno travolta: energia e guerra
Bruxelles alla prova del “due”, il Gas (più Gazprom) e Gaza di Sergio Cantone
Sopra, il premier ceco Topolanek che ha aperto ieri il semestre di presidenza Ue. In basso, Vaclav Havel, ricoverato in ospedale a Praga. Le sue condizioni sono gravi rito di esercitare il suo accentuato volontarismo, e dunque spingere l’Ue ad avere finalmente una proiezione politica esterna, e di riuscire ad unire dietro alle sue iniziative tutti i Paesi membri. Lo ha fatto nella crisi georgiana, sul piano di salvataggio bancario e sul pacchetto clima. Con Praga, oltre ad un minore attivismo anche dovuto ad un apparato diplomatico non paragonabile a quello francese, il rischio sarà quello di vedere un’Europa divisa al suo interno proprio a causa di iniziative e prese di posizione della presidenza che non tengono conto delle necessità di mediazione connaturate al funzionamento dell’Ue a 27. Insomma il rischio è quello di un brusco risveglio e di una sorta di ritorno al passato, quello di un’Europa divisa, litigiosa e irrilevante? Un quadro troppo fosco? Al peggio non c’è mai limite. E il peggio potrebbe materializzarsi il 3 febbraio prossimo, quando il Parlamento ceco voterà per ratificare il Trattato di Lisbona. Portare a casa un “sì” e pensare a tempi migliori, per una volta, potrebbe anche bastare!
BRUXELLES. All’inizio di un anno cruciale per il suo futuro l’Europa scopre di avere una diplomazia bicefala. Il premier ceco Mirek Topolanek (da quindici giorni alla guida semestrale dell’Ue) affronta la sua prima crisi, quella del gas tra Ucraina, Russia e Ue. Mentre la presidenza francese uscente (per modo di dire) maneggia con ambizione il «cubo di Kubrick » israelo-palestinese. I due Paesi, speculari in tutto tranne nelle ambizioni, sembrano per il momento seguire vocazioni già annunciate con messaggi e atti politici. Per la Cechia si tratta di un’occasione senza pari per lanciare la «dimensione orientale», il grande progetto cullato dagli stati membri ex socialisti dell’Ue. Vuol essere la risposta naturale all’Unione per il Mediterraneo, con lo scopo di coinvolgere l’Unione europea e soprattutto le sue risorse finanziarie in una politica attiva sul fianco Est, coinvolgendo Ucraina, Bielorussia, Moldova e Caucaso meridionale. Infatti Polacchi, cechi, baltici assieme a finlandesi e svedesi, hanno guardato fin dall’inizio con scetticismo alle mosse di Sarkozy, temendo che l’Ue concentrasse troppe risorse a Sud, cambiando le proprie vocazioni geopolitiche e facendo passare in secondo piano gli spazi nord-orientali. «Questa crisi, e il fatto che si affronti finalmente con una solo voce, sono il segno che l’Unione europea può sviluppare una dimensione orientale. «L’insicurezza energetica non è un problema solo per i Paesi dell’Europa centrale» ha detto il popolare polacco Jacek SaryuszVolski, presidente della commissione Affari Esteri del Parlamento europeo. E la gaffe di un portavoce della presidenza ceca dell’Ue secondo il quale «l’azione di Israele era difensiva e non offensiva»
anche se smentita dal ministro degli Esteri di Praga, Karel Schwarzenberg, la dice lunga sullo stato d’animo ceco in Medioriente. Facendo riaffiorare ciò che si era dimenticato con fatica: per la “new Europe” il rapporto con gli Usa è prioritario e in Medioriente, quella degli Usa, è l’unica voce che conti. L’inciampo praghese e il fatto che la crisi di Gaza sia scoppiata in piena transizione tra la presidenza francese e quella ceca ha spalancato alla diplomazia transalpina le porte della «Terra Santa». Anche perchè la tourné mediorientale di Sarkozy (fatta quasi in parallelo con il viaggio di Schwarzenberg) ha messo in evidenza quello che molti si aspettavano: la Francia può mettere in ombra in qualsiasi momento l’azione e il ruolo della guida Ceca dell’Ue. Ma era
za comuni è bloccato dalle solite divisioni dei ventisette, mentre la commissione europea è limitata dalle sue competenze in materia. Sul gas quest’ultima ha certamente il suo ruolo grazie al portafoglio energetico detenuto dal lettone Andris Piebalgs, che ha permesso all’esecutivo comunitario di organizzare la missione degli esperti, per controllare il flusso del gas in Ucraina e Russia. Mentre Gaza e dintorni per l’Ue istituzionale restano zone quasi impossibili, salvo per l’organizzazione di aiuti umanitari. Per quanto riguarda la presidenza ceca, il ruolo giocato finora sul gas è razionale e coerente, ma non è solo farina del suo sacco. All’inizio della crisi Topolanek non sapeva che numero di telefono comporre per parlare con Mosca: Putin o Medvedev? Il primo ministro o il presidente? Mentre la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, hanno immediatamente attivato i rispettivi canali di comunicazione con Putin e Gazprom. Insomma, i cechi dimostrano un discreto opportunismo politico nell’approfittare degli ultimi metri di un’azione corale (solo a livello di stati membri) che per il momento non è ancora conclusa. C’è comunque in gioco una somma di rapporti bilaterali e addiritura personali con Mosca e Kiev e tutti gli attori europei cercano di politicizzare il meno possibile la faccenda. Ciò che deve invece essere politicizzata è la crisi di Gaza e se la Francia ha azzeccato la prima mossa, utilizzando di fatto le strutture dell’Unione per il Mediterraneo, da sola non ce la fa ad andare fino in fondo. E, a questo punto, si nota l’assenza di una vera politica estera comune. Altrochè dunque approfittare dell’eclissi temporanea degli Usa in Medioriente, qui si tratta di rimediare alla consueta assenza dell’Europa nella regione.
All’inizio della crisi il presidente non sapeva che numero di telefono comporre per parlare con Mosca: Putin o Medvedev? Cercherà di bilanciare l’effetto Sarkozy e sposterà il baricentro a nord-est un’occasione d’oro per l’Eliseo, perché detiene la co-presidenza dell’Unione per il Mediterraneo, assieme all’egiziano Hosni Mubarak. Non per nulla il tandem francoegiziano è l’unico finora ad avere avuto il coraggio e la capacità politica di formulare una proposta concreta e articolata, anche se disattesa dalle parti, per una tregua.
Per quanto riguarda l’Ue queste due crisi mettono in rilievo l’importanza delle grandi proiezioni esterne. L’esistenza di un’Unione per il Mediterraneo e che ci sia un progetto di «dimensione orientale» compensa le lacune delle strutture istituzionali per la politica estera comune. In questo senso la diplomazia bicefala è in fondo fare di necessità virtù. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurez-
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mondo
Consenso. In 10 anni il Venezuela ha distribuito un’enormità di dollari. Primo beneficiario: Cuba
I 75 miliardi di Chavez di Maurizio Stefanini
ltre 53 miliardi di dollari distribuiti in 10 anni: i conti della costosa diplomazia petrolifera del presidente venezuelano Hugo Chávez li ha fatti in una conferenza stampa Julio Borges, leader del partito di opposizione di centro-destra Primero Justicia. E ha trovato che il leader “bolivariano” ha distribuito a ben 33 Paesi una somma complessiva pressoché equivalente alle attuali riserve valutarie del Paese: variamente stimate tra i 40 e i 75 miliardi di dollari. Oppure, messo sotto un altro punto di vista, pari a oltre due anni delle entrate che il Paese riceverebbe dal petrolio ai prezzi attuali. E che sarebbe poi il 93% delle entrate del governo di Caracas in termini di export e il 50% delle entrate totali.
O
Primo beneficiario sarebbe Cuba, con 19.172.512.162 dollari: in cambio di una taskforce di medici, insegnanti e militari che puntellano il regime di Chávez in termini sia di ricerca del consenso sia di intelligence. Seconda è l’Argentina dei coniugi Kirchner, di cui dopo il default il Venezuela è rimasto il pressoché unico acquirente di bond, con 8.567.950.000 dollari. Terzo l’Ecuador di Rafael Correa, con 5.580.100.000 dollari. Quarto il Brasile di Lula, con 5.251.018.000. Quinto il Nicaragua di Daniel Ortega, con 4.885.970.000 dollari. Nella lista ci stanno anche Cina, India e perfino due Paesi ricchi come Regno Unito e Stati Uniti: l’uno per le relazioni tra Chávez e l’ex-sindaco di Londra Ken Livingstone; l’altro per i sussidi in combustibile che a scopi di immagine la società venezuelana Citgo distribuisce ai “poveri di New York”, che nelle maglie della crisi erano stati infatti tagliati, ma che sono stati poi subito ristabiliti. Nel frattempo, la quantità di valuta straniera che i cittadini venezuelani possono portarsi dietro quando vanno all’estero è stata dimezzata: da 5mila dollari ad appena 2500. Motivo addotto dallo stesso Chávez: i «salvaguardare dollari del popolo». Come spiega il ministro delle Finanze Alí Rodríguez, bisogna preservare le riserve valutarie di fronte al crollo dei prezzi del petrolio: che a livello mondiale oscilla ora attorno ai 40 dollari, ma quello venezuelano sta sui 37. Chávez ricorda di essere andato al potere «quando il prezzo era a sette dollari», ma il bilancio di previsione adottato dall’Assemblea Nazio-
in breve Sudafrica, Zuma ricorre a Corte Costituzionale Il leader del partito al potere in Sudafrica e favorito alla presidenza, Jacob Zuma, ricorrerà alla Corte Costituzionale per contestare la decisione della giustizia che ha rilanciato le accuse di corruzione nei suoi confronti. Lo ha riferito il suo legale, Michael Hulley. «Abbiamo preso la decisione di ricorrere alla Corte Costituzionale entro il periodo di tre settimane stabilito dalla legge», ha detto l’avvocato. Il leader dell’African National Congress è fortemente sospettato di aver ricevuto tangenti dalla filiale sudafricana del gruppo francese Thales, nell’ambito di un accordo per una fornitura di armi nel 1999.
Somalia, islamici bombardano palazzo presidente
A L’Avana quasi 20 mld. di dollari in cambio di una task force di medici, insegnanti e militari in grado di puntellare il regime. Seguono Argentina ed Ecuador nale era basato su un’ipotesi di 64 dollari, e verranno inoltre meno i 150-200 milioni di dollari alla settimana che il governo acquisiva grazie a un’imposta speciale alle entrate petrolifere che sarebbe scattata oltre i 70 dollari.
Un altro problema è il crescente logorio dell’apparato petrolifero venezuelano, per le grandi somme che la Pdvsa ha dovuto dirottare dalla manutenzione alla creazione del consenso interno e esterno, oltre che per la sostituzione massiccia di tecnici ideologicamente non allineati con altro personale fidato, ma non preparato: ben 11.500 pozzi fuori uso su 32mila. Fatti quattro conti: sono 105mila i barili di petrolio che Chávez invia ogni giorno a Cuba, e altri 195mila che dà a Nicaragua, Guatemala, Repubblica Dominicana, Argentina, Uruguay e Bolivia. Tutti regalati o a prezzo politico. Alla Cina vanno
80mila barili al giorno, per coprire un credito da 4 miliardi di dollari. Al Giappone altri 40mila. in cambio di un prestito da 3 miliardi. Con Chevron,Total, Eni e Repsol vi sono accordi che impongono di lasciar loro 380mila barili al giorno. Insomma, quel che resta a Chávez di redditizio da rivendere agli Stati Uniti è di appena un milione di barili al giorno: a 40 dollari al barile farebbero 14,6 miliardi, che è appena poco più dei 10-12 miliardi di debito interno pubblico e privato.
Proprio per questo, però, Chávez ha accelerato la sua nuova proposta per una riforma costituzionale che gli permetta di ricandidarsi nel 2012. Dopo la bocciatura dell’anno scorso del progetto di iniziativa governativa, infatti, ha interpretato in modo creativo la Costituzione nel senso di poter presentare un nuovo progetto stavolta di iniziativa dell’Assemblea Nazionale, che ha già proceduto alle due votazioni necessarie. Adesso serve un nuovo referendum che dovrebbe svolgersi a marzo e a aprile, ma lui sta cercando di forzare i tempi per arrivare al voto addirittura a febbraio. Già a dicembre le pensioni sono state pagate in ritardo, ed è dunque vitale che la gente possa pronunciarsi prima che gli effetti della crisi esplodano in tutta la loro virulenza. «Per consolidare la Rivoluzione Socialista mi serve di poter rimanere al potere almeno fino al 2019», spiega.
All’indomani della partenza di una parte delle truppe etiopiche da alcune basi di Mogadiscio, prima fase del previsto ritiro dalla Somalia, nella capitale miliziani fedeli alle deposte Corti islamiche hanno attaccato “Villa Somalia”, il palazzo presidenziale, bombardandolo con i mortai; lo hanno riferito testimoni oculari, secondo cui le forze governative hanno risposto al fuoco con le artiglierie. Non si conosce il bilancio delle vittime, ma lo scontro in piena città ha confermato i timori di quanti paventano che, senza l’appoggio militare di Addis Abeba, il fragile governo transitorio sia di nuovo destinato a soccombere come avvenne tre anni fa, prima che l’Etiopia decidesse d’intervenire nel Paese confinante.
Germania, è boom di domande d’asilo Nel 2008 i richiedenti sono stati 22.085, il 15,2 per cento in più rispetto al 2007. Di loro soltanto 7.291 hanno ottenuto il diritto di rimanere in Germania (il 35%), 5.730 dei quali sono arrivati dall’Iraq, mentre gli altri gruppi sono giunti da Turchia, Vietnam, Kosovo, Iran e Russia. Raddoppiate le richieste di asilo dei profughi afghani, per un totale di 657 persone.Le cifre sono state rese note dal ministro dell’Interno, Wolfgang Schauble (Cdu).
mondo
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Trt 6 è il sesto canale radiotelevisivo turco, trasmetterà 24 ore su 24 e manderà in onda, senza sottotitoli, film, documentari, serial e programmi musicali. La rete, inaugurata dal premier Erdogan (in basso), ha chiesto al più famoso cantante curdo, Sivan Perwer (foto grande), in esilio n Germania, di presentare un programma di musica ogni settimana
Elezioni. Erdogan apre un canale in lingua kurmanji pensando alle urne ISTANBUL. Mentre la Turchia è attraversata da una settimana da un forte nervosismo a causa delle indagini sull’organizzazione segreta Ergenekon (decine di arresti e ritrovamenti di proiettili ed esplosivi), il governo scende in campagna elettorale in vista delle prossime elezioni amministrative di marzo. Data in cui si decideranno le sorti del Governo islamico moderato di Recep Tayyp Erdogan. E lo fa con una grande novità: una rete televisiva in lingua curda. Il sesto canale radio-televisivo turco, Trt 6 o, come verrebbe pronunciato in curdo, Trt “shesh”, che trasmetterà 24 ore su 24 e manderà in onda, senza sottotitoli, film, documentari, serial e programmi musicali. Si tratta di una novità di grande portata perché la lingua curda è di fatto un tabù nella Repubblica turca e, nonostante ci siano già alcuni canali in curdo che trasmettono via satellite, tra cui il più seguito Roj Tv, è la prima volta che lo stato destina fondi pubblici per realizzare un servizio rivolto esclusivamente ai suoi cittadini di origine curda che “valgono” almeno 12 milioni di persone, un sesto della popolazione complessiva.
Il canale, che il 25 dicembre scorso ha iniziato a mandare in onda delle trasmissioni di prova, adotterà per il momento il dialetto kurmanji. Successivamente si dovrebbe dare spazio anche ai dialetti sorani e zaza. «Un
12 milioni di curdi valgono una Tv di Fazila Mat legame molto più forte di quello del sangue o dell’etnia». Certo è che, fino ad ora, il curdo non è mai stato considerato come una neutrale “busta”, a cominciare dal divieto di dare dei nomi curdi ai propri figli. In particolare sono bandite le lettere X, Q e W nei nomi, per via di una legge che risale al periodo successivo al colpo di stato del 1980. Questa legge, che regolava l’uso delle lingue diverse dal turco, stabiliva che il curdo, in quanto lingua vietata, non potesse essere utilizzata in ambito privato e in quello dei media. Le modifiche alla Costituzione apportate nel 2001, all’interno delle riforme di adeguamento agli standard dell’Ue, hanno portato ad un rilassamento del divieto per quanto riguarda i media. Ma nonostante ulteriori modifiche del codice civile, il divieto di usare queste tre lettere è rimasto, causando nel 2002 l’incarcerazione al proprietario del ca-
specificando su di essi che la lingua ufficiale era il turco; ed è in corso una causa contro il sindaco di Diyarbakır, Osman Baydemir, per aver consentito l’uso del curdo in volantini, manifesti e inviti. Non solo: diversi cantanti, scrittori e giornalisti, ma anche cittadini comuni, sono finiti (e finiscono) sotto processo e sono poi condannati per aver utilizzato la lingua curda.
Il cantante più amato dai curdi, Sivan Perwer, in esilio tedesco per motivi politici, secondo quanto riportato dal quotidiano Hürriyet sarebbe stato chiamato dalla Trt 6 a presentare un programma di musica a cadenza settimanale. Perwer avrebbe accettato la proposta ma, dato il compenso troppo oneroso richiesto – sessantamila dollari a puntata – la Trt si sarebbe trovata a dover declinare l’offerta, accontentandosi di manda-
Una legge, in parte ammorbidita nel 2001 per adeguare il Paese agli standard Ue, mette al bando le lettere x, q, w, dai nomi e vieta l’uso del curdo in ambito ufficiale e sulla carta stampata canale per la famiglia rispettoso dei valori della nostra nazione, che si rivolga alle cittadine e ai cittadini di ogni età» - ha detto il premier Tayyip Erdogan nel suo discorso inaugurale incentrato sui «valori democratici in cui ciascuno ha il diritto e la possibilità di esprimersi» e sulla “valorizzazione delle differenze”.
Erdogan ha usato la metafora della “busta” e del“messaggio”in cui la lingua sarebbe «la busta che è di per sé importante» ma «ciò che conta di più è il messaggio che porta dentro», sottolineando che «la comune cittadinanza della Repubblica della Turchia è un
nale televisivo Art di Diyarbakır che trasmetteva in curdo e potrebbe ora portare la magistratura e il Consiglio superiore della radio e della televisione (Rtuk – Radyo Televizyon Üst Kurulu) a fare anche un ricorso contro la Trt 6. Resta in vigore anche la legge che vieta l’uso del curdo per fini politici: Numerosi deputati del Dtp (Demokratik Toplum Partisi - Partito della società democratica) sono sotto processo per aver usato il curdo nei loro discorsi e scritti elettorali; il sindaco della circoscrizione di Sur (Diyarbakır) Abdullah Demirbau, nel 2007 è stato destituito dal suo incarico per aver distribuito dei volantini scritti anche in curdo, pur
re in onda delle registrazioni. Intanto comunque Perwer continua a non poter far rientro in Turchia. Da parte curda le reazioni al nuovo canale non sono univoche: da un lato i deputati del Dtp hanno disertato la cerimonia di apertura del canale e le due cantanti Nilüfer Akbal e Rojin, che hanno partecipato alla serata inaugurale, sono state accusate di aver tradito la causa del loro popolo per i soldi. Successivamente però, nel corso delle discussioni parlamentari sull’argomento, il leader del Dtp, Ahmet Türk, ha espresso la sua soddisfazione dicendo che il canale è «l’esito della nostra battaglia».
in breve India, sale la tensione con il Pakistan Il capo dell’esercito indiano ha detto che il Pakistan ha dispiegato truppe lungo i suoi confini con l’India nel periodo di massima tensione tra i due paesi dopo gli attentati di Mumbai. Nel rivelarlo, il generale Kapoor ha spiegato che l’India ha intenzione di ricorrere al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per includere nell’elenco dei gruppi pachistani da bandire, anche altre formazioni terroristiche. E che l’esercito indiano è pronto a rispondere alle provocazioni cercate dal Pakistan nel creare l’isteria della guerra dopo gli attacchi del 26 novembre scorso».
Usa, Obama e l’inauguration day Il 20 gennaio l’America celebra il 56esimo Inauguration Day, ovvero la cerimonia di insediamento del presidente alla Casa Bianca. Si comincia con la preghiera del neo-eletto Obama in una chiesa della città per poi arrivare all’incontro fra Bush e il nuovo presidente a Capitol Hill, sede del Campidoglio, per la cerimonia del giuramento sulla bibbia di Lincoln. Barack Obama terrà poi il suo discorso inaugurale per poi accompagnare George W. Bush alla sua breve cerimonia d’addio.
Australia, in tilt il sito del “best job” Oltre un milione di candidati potenziali del ”più bel lavoro al mondo”- guardiano di un’isola tropicale presso la Grande barriera corallina in Australia - hanno visitato nelle prime 48 ore dopo l’annuncio il sito web di Tourism Queensland, al ritmo di 200 al minuto, mandandolo in tilt e costringendo l’ente stesso a potenziarlo. Hanno cliccato su www. islandreefjob. com persone da tutto il mondo, dalla Mongolia alla Romania, e persino dal Vaticano. L’ente turistico del Queensland offre un contratto di sei mesi e un compenso pari a 75 mila euro per vivere a Hamilton Island e promuoverla come giornalista turistico, curando un blog. Ore di lavoro previste: 12 al mese, una villa di tre stanze vista mare in dotazione e trasporti aerei gratis.
cultura
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Anniversari. Dalla metò dell’Ottocento ai giorni nostri storia di un’arte che non invecchia mai. E fa sognare
La fotografia? È verità L’impatto dell’immagine fissata sul foglio ha cambiato radicalmente il mondo di Diego Mormorio on riferimento alla fotografia e a un immaginario criminale vissuto nell’America dell’Ottocento, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, nella Storia universale dell’infamia, scrive: «I dagherrotipi di Morell che le riviste americane pubblicano di solito, non sono autentici. Questa carenza di vere effigi di un uomo tanto memorabile e famoso non può essere casuale. È verosimile supporre che Morell si sia rifiutato alla lastra fotografica; soprattutto per non lasciare inutili tracce, e poi per dar forza al mistero che lo circondava». L’idea di un uomo di cui tutti parlano ma del quale non si conosce il volto è suggestiva, soprattutto quando si tratta di un bandito. Ciò poteva, come dice Borges, dare un certo piacere al protagonista, che, per il resto, a lasciare dietro di sé delle tracce fotografiche aveva tutto da perdere. Esse potevano infatti essere utili solo agli uomini della legge che cercavano di consegnare il bandito alla forca. In
C
questa vicenda, dunque, tutto risulterebbe assolutamente normale se non fosse per il fatto che, alla fine del racconto intitolato Lo spaventoso redentore Lazarus Morell, Borges fa morire il criminale di congestione polmonare il 2 gennaio 1835, all’ospedale di Natchez. Questa data, infatti, crea un giallo. Com’è possibile che potessero esistere dagherrotipi con l’effige del bandito se la tecnica della dagherrotipia fu resa pubblica il 19 agosto 1939, e giunse in America soltanto qualche settimana dopo? Mancano nel
conto quattro anni e mezzo. La spiegazione più “ragionevole” è che Borges non avesse in mente, mentre scriveva il racconto, la data di nascita “esatta” della dagherrotipia; oppure, altrettanto “ragionevolmente”, si può credere che volesse scrivere 1845 e che invece per distrazione abbia finito col retrodatare la morte di Morell di dieci anni. In realtà, questi “ra-
gionevoli”ragionamenti, in arte e letteratura non valgono nulla. Nell’opera di un grande autore nulla è casuale: non c’è errore. Nomi, date e fatti corrispondono a una realtà miracolosa che neppure l’autore può riuscire a spiegare, e che gli antichi collegavano alle Muse. Un esempio chiarissimo di ciò lo troviamo in una lettera di Franz Kafka alla fidanzata Felice Bauer, e riguarda il La racconto
Ricordi, emozioni e vendette macabre: il dagherrotipo e i suoi figli nobili lasciano un’impronta perenne nella storia dell’uomo
condanna, che rappresenta il vero atto di nascita di Kafka come scrittore: «Nella Condanna ci trovi qualche significato, voglio dire un significato chiaro, coerente, che si possa seguire? Io non lo trovo e non posso neanche darti una spiegazione, ma ci sono molte cose strane. Guarda soltanto i nomi! Il racconto è stato scritto quando già ti conoscevo, Felice, e il mondo con la tua presenza era aumentato di valore, mentre non ti avevo anNella foto grande, uno dei primi strumenti fotografici. A sinistra, Giuseppe Garibaldi ripreso nel 1860 circa. Sopra, la Torre Eiffel in costruzione a Parigi. Nella pagina a fianco, alcuni esemplari di macchine fotografiche a soffietto e la costruzione del Vittoriano nella Roma fascista
cora scritto. E ora, vedi, Georg ha tante lettere quante Franz, ‘Bendeman? Consta di Bende e Mann, Bende ha tante lettere quante Kafka e anche le due vocali figurano allo stesso posto,‘Mann’deve, probabilmente per compassione, dare vigore a questo povero ‘Bende’ per le sue battaglie.‘Friede’ [pace] e ‘Glück’ [felicità] sono anche molto vicini. ‘Brandenfeld’ è in relazione, per questo ‘feld’ [campo], con ‘Bauer’[contadino] e ha la medesima iniziale. Di cose simili ce ne sono anche altre, naturalmente tutte cose che ho scoperto dopo».
Quella che può apparire come una dimenticanza o una distrazione riguardo all’esatta data di nascita della dagherrotipia o della morte di Lazarus Morell finisce per essere una veggenza. Risulta cioè in miracolosa coerenza con l’intera opera dello scrittore, che, per diversi decenni, ha educato il suo pubblico a cercare la verità tra le pieghe dell’inverosimile, dell’incontemplato e dell’apparentemente “inesatto”. Se consideriamo normale il fatto che usasse il termine “dagherrotipi” per dire “fotografie”, Borges
potrebbe infatti avere ragione: escludendo Niépce che vi giunse nel 1825 senza però pervenire a risultati tecnici tali da renderne possibile l’uso di massa, qualcuno avrebbe potuto giungere alla fotografia prima del 1835, cioè prima della morte di Morell, e rimanere a noi sconosciuto. È un’ipotesi per così dire “provocatoria”, ma ragionevolmente del tutto probabile. Da diverso tempo è ormai chiaro che all’inizio dell’Ottocento molti ricercatori erano sulla strada della fotografia, ognuno ignaro degli altri e qualcuno considerandola, distaccatamente, nell’ordine delle cose. Di uno di questi inventori, Antonoine Hercules Florence, si è avuta notizia soltanto nel 1977. Di lui si sa poco. Di altri invece moltissimo. E, per quello che si sa, alcuni di essi sembrano venir fuori da un romanzo, così come ad alcuni parve che la fotografia venisse fuori dal cilindro di un prestigiatore. Il racconto di Borges ha comunque ancora un particolare significato: pone in evidenza uno degli usi più consolidati della fotografia. Sin dai primissimi anni, infatti, essa venne inserita fra gli strumenti“scientifici”della polizia e servì qualche volta a far
cultura pittore e critico musicale –, fratello di Giorgio de Chirico, in un testo intitolato Fasti e nefasti della fotografia dirà: «Quando la fotografia fu inventata, sembrò che il mondo da un alto sonno si levasse. L’invenzione della fotografia segna un punto di trasformazione nella storia dell’umanità, supera per certi riguardi la conquista di Costantinopoli, la scoperta dell’America, altre ‘chiavi di volta’della storia. Se fatti di eguale momento si vogliono contrapporre a questa invenzione fatale, bisogna compulsare addirittura la storia del pensiero, cercare nell’archivio degli avvenimenti che hanno mutata non la faccia ma la psiche del mondo, citare il passaggio dalla Scolastica ai principi di filosofia nuova per opera di Bacone da Verulamio, risalire meglio ancora a Socrate e alla ‘scoperta della coscienza’». In realtà, l’invenzione della fotografia non fu un fenomeno improvviso, ma era nella cultura occidentale in nuce da secoli. Nondimeno essa è apparsa a molti nel 1839 come un’invenzione inaspettata e, nella sua natura, appunto, come dice Savinio, fatale.
Di fatto, la più antica fotografia giunta fino a noi è stata realizzata a 12 anni prima da Joseph Nicéphore Niépce, il quale aveva iniziato le sue ricerche fotografiche insieme al fratello prendere chi vi era rappresentato, come nel celebre caso di alcuni rivoltosi della Comune di Parigi del 1871 che, scampati alla settimana di sangue, vennero individuati e consegnati immediatamente al plotone di esecuzione.
L’annuncio dell’invenzione della fotografia da parte di LouisJacques Mandé Daguerre venne dato all’Académie des Science di Francia il 7 gennaio 1839 dallo scienziato e parlamentare François Arago, il quale, per lasciarla libera da brevetti che ne avrebbero limitato l’uso, aveva in animo di farla acquistare dal governo, cosa che effettivamente avverrà il 15 giugno. La presentazione dettagliata del procedimento sarà invece fatta dallo stesso Arago il 19 agosto, davanti all’Académie des Sciences e dell’Académie des Beaux-Arts riunite in seduta congiunta all’Institut de France. Si trattò di un giorno memorabile. Da ore un numero incredibile di persone si agitava nel cortile dell’Istituto, sulle rive della Senna. Secondo le annotazioni di un testimone oculare «la folla era come una batteria elettrica che emettesse un continuo flusso di scintille. Ognuno era felice di vedere felici gli altri. Nel regno del progresso senza fine era caduta un’altra barriera». Lo stesso testimone aggiunge: «Un’ora dopo tutti i negozi di ottica erano asse-
diati, ma non poterono mettere insieme una scorta sufficiente di strumenti per soddisfare l’esercito avanzante di coloro che volevano improvvisarsi dagherrotipisti; qualche giorno dopo in tutte le piazze di Parigi si potevano vedere camerae obscurae piazzate, su cavalletti a tre gambe, davanti a chiese e palazzi». Esattamente un secolo dopo, uno dei personaggi più eclettici della cultura europea, Alberto Savinio – scrittore,
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Claude, in Sardegna, intorno al 1796. E fu proprio con Niépce che Daguerre, nel dicembre 1829, stipulò un contratto nel quale i due ricercatori stabilivano di collaborare al perfezionamento del-
l’invenzione di Niépce che così com’era non poteva essere sfruttata commercialmente. L’immagine di Niépce giunta fino a noi è, infatti, rispetto ai nostri canoni estremamente confusa e ha richiesto un tempo di esposizione di circa 12 ore. Una vera e propria eternità. I tentativi di trovare un sistema migliore e, dunque, maggiormente pratico di quello che aveva fin lì attuato, portarono Niépce a spendere somme ingenti e a indebitarsi, sicché alla sua morte, avvenuta all’età di 68 anni, nel luglio del 1833, la moglie e il figlio furono costretti a vendere tutte le loro proprietà. Quest’ultimo però in qualità di erede del socio di Daguerre avrà dal governo francese, a partire dal 1839, una pensione annua di 4000 franchi, mentre quella dell’inventore della dagherrotipia sarà di 6000. L’annuncio dell’invenzione della dagherrotipia, così come accese l’interesse di un vasto pubblico, mise in grandissima agitazione altri ricercatori, e in modo particolare due: il trentottenne francese Hippolyte Bayard e il trentanovenne nobile terriero inglese William Fox Talbot. Il primo studiava da tempo l’azione chimica della luce e aveva già conseguito alcuni apprezzabili risultati. Riprendendo le ricerche, produce una serie di immagini che fa vedere al fisico e matematico Jean-Baptiste Biot e subito dopo ad Arago, il quale però, per non pregiudicare le trattative con il governo per l’accordo con Daguerre e Isidore Niépce, gli chiede di non rendere pubblica la sua invenzione, promettendogli il suo interessamen-
to a fargli avere un contributo finanziario. A giugno, infatti, riceve dal ministero dell’Interno 600 franchi, ufficialmente per acquistare una migliore apparecchiatura fotografica. Così facendo, lascia libero campo a Daguerre, che riceverà molti più soldi e, soprattutto, la gloria. L’amarezza porta Bayard a escogitare il primo scherzo macabro della storia della fotografia, decidendo di autorappresentarsi da finto morto. Si riprende nei panni di un annegato, semiavvolto in un lenzuolo bianco che mostra il contrasto tra le mani e la faccia abbronzate e il resto del corpo bianco.
La lunga didascalia dice: «La salma che vedete qui è quella del signor Bayard, inventore del procedimento che vi è stato appena illustrato, e di cui vedrete presto i meravigliosi risultati. Per quel che ne so, questo ingegnoso e instancabile sperimentatore ha dedicato tre anni al perfezionamento della sua scoperta. L’accademia, il re e tutti coloro che hanno visto le sue immagini le hanno ammirate come le ammirate voi in questo momento, benché egli le consideri ancor imperfette. Ciò gli ha procurato molto onore, ma nemmeno un soldo. Il governo, che ha sostenuto il signor Daguerre più del necessario, ha dichiarato di non essere in grado di fare qualcosa per il signor Bayard, e l’infelice si è gettato nel fiume per disperazione. Oh! Instabilità delle cose umane! Per molto tempo artisti, scienziati e la stampa si sono interessati a lui, ma ora che giace da giorni alla Morgue nessuno l’ha riconosciuto o ha reclamato la sua salma! Signore e signori, parliamo d’altro in modo che il vostro senso dell’odorato non venga offeso perché, come probabilmente avete notato, il volto e le mani hanno già cominciato a decomporsi». L’altro ricercatore, l’inglese William H. Fox Talbot, che aveva cominciato a pensare alla fotografia durante una vacanza sul lago di Como, nel 1834, ha avuto, in realtà, maggiore fortuna, passando alla storia come l’inventore del negativo, attraverso il quale è possibile realizzare un numero virtualmente infinito di copie. In questo modo, nel febbraio del 1841, Talbot, che chiama il suo metodo calotipia – dal greco kalós, bello, e tìpos, impronta – supera il grave limite della dagherrotipia, attraverso la quale si ottengono solo copie uniche su lamina di rame argentato. E ciò fa dire a molti che fu proprio lui, Talbot, a inventare realmente la fotografia. Ad aprire la strada a milioni di immagini. E fu in una lettera a lui, che il 2 febbraio 1839, sir Charles Wheatstone usò per la prima volta il termine “photography” (fotografia), l’aggettivo “photographic”(fotografico) e il verbo “to photograph”(fotografare).
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Vittorio e Renzo Foa
NOI EUROPEI UN DIALOGO TRA PADRE E FIGLIO
Il racconto di come sono diventati i cittadini d’Europa lungo un secolo di grandi cambiamenti
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cultura
15 gennaio 2009 • pagina 21
Dibattiti. Evoluzione e Creazione sono a una nuova fase del loro confronto. Dove gli scienziati diventano sacerdoti
Il bipolarismo dell’esistenza di Alfonso Piscitelli
voluzione e Creazione: il bipolarismo che non esiste. Volendo utilizzare le formule del politichese per interpretare il dibattito in corso da un secolo e mezzo sulle origini dell’uomo e della vita si potrebbe interpretare così il senso il recente intervento di Benedetto XVI all’Accademia delle Scienze. Evoluzione e creazione sono due concetti che non si escludono per principio, e sbagliano coloro che semplificano il dibattito scientifico fingendo che esso si svolga tra due fronti nettamente contrapposti: i puri scienziati da un lato e barbuti lettori della Bibbia dall’altro. Già nell’Ottocento le due posizioni erano spesso intrecciate: «In realtà – precisa il genetista Giuseppe Sermonti – Darwin stesso era assai poco darwiniano. O almeno non era un darwinista ideologico, come lo sarebbero diventati i suoi discepoli. Sul finire della sua vita si convinse che i meccanismi di variazione e selezione casuale da lui individuati non erano sufficienti per spiegare il sorgere di organi di complessità stratosferica, questi organi sembravano più il frutto di una misteriosa fatalità che non del cieco caso». Contemporaneamente l’altro padre della teoria selettiva, il meno noto Wallace, si convinceva che l’evoluzione degli esseri viventi non poteva che essere il frutto di una “intenzione divina”. Il dibattito sulla evoluzione sembra svilupparsi su due piani diversi: il
E
“piano terra”della divulgazione scientifica, spesso caratterizzata da semplificazioni grossolane, e un piano più elevato (purtroppo circoscritto a testi di limitata tiratura) in cui le idee si affinano e certi miti si sbriciolano. Avete presente le file dei cavallini che si evolvono, presenti in ogni manuale di scienze? Oppure la sequela di uomini sempre più evoluti, il primo con la faccia da assassino psicopatico e l’ultimo con la faccia perfettamente rasata? Ebbene queste sequenze tanto care all’evoluzionismo divulgativo scompaiono nei testi più approfonditi e più problematici. Non è vero che i fossili degli
la cui presenza è attestata in una antichità che si calcola in milioni di anni».
La seconda impressione è che i famosi anelli di congiunzione che avevano alimentato tanta mitologia fanta-evoluzionista nei decenni scorsi siano creature fantasma. Nella realtà, tra i vari generi di viventi si estendono ampi spazi vuoti che non sono stati colmati. Ormai gli stessi darwiniani di nuova generazione preferiscono parlare di “salti evolutivi” piuttosto che di anelli di congiunzione. Prendiamo il caso di Stephan Jay Gould, forse il più importante studioso della evoluzione
scere della terra non si lasciano inserire in una sequenza “progressiva”: spesso fossili più antichi avevano aspetto più “moderno” e viceversa. Gould finiva col ricredersi anche sull’idea degli anelli di congiunzione. Il suo darwinismo alquanto scettico si capovolgeva così nella teoria degli “equilibri punteggiati”: i sistemi biologici si mantengono stabili nelle loro forme per lunghe epoche; poi improvvisamente, in maniera rivoluzionaria, cambiano lasciando il posto a nuove specie notevolmente diverse. Non una lenta trasformazione dunque, come quella immaginata da Darwin e Lamarck,
I due concetti non si escludono per principio. Sbagliano coloro che semplificano il dibattito scientifico fingendo che esso si svolga tra due fronti nettamente contrapposti e rifiutano il dialogo uomini si dispongano a formare una sequenza lineare: può capitare di trovare in strati fossili di grande antichità scheletri dall’aspetto più “moderno” di quelli adagiati in strati più recenti. A mano a mano che la ricerca paleontologica si approfondisce solitamente si amplificano due impressioni.
La prima impressione è che l’uomo sia un essere più antico di quanto comunemente si immagini. «Gli stessi fossili di scimpanzè e gorilla – ribadisce Sermonti – appaiono recentissimi rispetto a quelli dell’uomo,
di scuola darwiniana degli ultimi tempi. Brillante scienziato newyorkese con la battuta alla Woody Allen sempre pronta, “marxista” in politica, Gould era quanto di più lontano potesse esserci dallo stereotipo del fondamentalista che contesta il darwinismo in nome delle Sacre Scritture. Eppure Gould, in opere rivoluzionarie quanto brillanti (vedi Il pollice del panda o Il riccio nella tempesta) giungeva alla conclusione che molte idee care ai vecchi darwinisti erano soltanto teorie sorpassate. I fossili trovati dopo una minuziosa investigazione nelle vi-
ma lunghi periodi di “equilibrio”, di conservazione delle forme,“punteggiati”da fasi brusche di cambiamento, di rivoluzione.
Già, ma come possono avvenire queste straordinarie rivoluzioni biologiche? Qui i due fronti tornano ad essere rigidi e contrapposti: per puro caso, sostengono i materialisti. «L’orologiaio è cieco» dice il più ideologico dei darwinisti attuali, Richard Dawkins: ovvero il principio che ordina l’universo è cieco, inconsapevole, casuale. Le realtà biologiche, per la loro complessità strato-
sferica, non possono essere frutto del caso, ribattono i seguaci di una concezione spirituale della vita. Curioso notare come gli avversari della “casualità” della vita si appellino sempre più col passare degli anni a dati scientifici: il II principio della termodinamica, la fisica quantistica, l’accertata complessità delle strutture proteiche e del Dna.
Al contrario, i seguaci del Caso diventano sempre più ieratici, quasi sacerdotali, sicuramente intolleranti quando qualcuno osa contestare la loro concezione del mondo. Che sembra “moderna” e “scientifica”, ma in realtà è la riproposizione della vecchia fisica epicurea: quella che si studiava nel primo manuale di filosofia del liceo e che parlava di atomi che scontrandosi e accorpandosi casualmente tra di loro andavano a formare il cielo e la terra, i corpi degli uomini e quelli degli stessi dei. Dopo che Giovanni Paolo II ha compiuto una grande apertura di credito verso l’idea di evoluzione, Benedetto XVI oggi ribadisce l’esigenza di un ripensamento della stessa idea di evoluzione. Non in nome di una dogma e di una censura, ma proprio in nome della ragione e dei dati scientifici recentemente acquisiti. Al tramonto delle vecchie ideologie del XIX e XX secolo, concezione evolutiva e principio del disegno intelligente sembrano convergere in una nuova visione.
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dal ”New York Times” del 14/01/2009
«Serve educare Hamas» ducare o sradicare Hamas da Gaza? Quale potrà essere il vero obiettivo d’Israele con l’operazione Cast Lead (piombo fuso), è ciò che si chiede anche Thomas L. Friedman, in un editoriale sul New York Times di ieri. L’autore dà la sua risposta: «educare Hamas». Come, del resto, era successo per la guerra del Libano contro Hezbollah, nel 2006.
E
Superando l’autocritica fatta in Israele sugli errori di Tsahal, l’esercito di Gerusalemme, un risultato era stato ottenuto e certificato da una dichiarazione ufficiale del suo leader, Nasrallah. Se il 12 luglio del 2006 avesse anche solo immaginato l’entità della risposta israeliana al rapimento dei due militari del proprio esercito, si sarebbe astenuto da quella azione sconsiderata. Non avrebbe mosso un dito. «Non pensavamo neanche all’uno per cento, che la cattura avrebbe provocato un conflitto, con tanta rapidità e di quelle dimensioni. Mi chiede se lo avessi saputo già l’11 luglio... che quell’operazione poteva portare a queste conseguenze, l’avrei fatto comunque? Dico di no, assolutamente no», la risposta di Nasrallah durante un’intervista. Questa sarebbe dunque stato il risultato «educativo» per Hezbollah, che potrebbe essere raggiunto anche con Hamas a Gaza. In una situazione un po’ differente. Ormai anche in Israele non sono più in tanti a sostenere, come è successo per gran parte degli anni Novanta, che il problema palestinese e dei rapporti col mondo arabo, fosse legato indissolubilmente all’occupazione dei territori. Il ritiro unilaterale dal Libano e quello dalla Striscia di Gaza dimostrano esattamente il contrario. Quando Israele ha lasciato campo libero non ha fatto che eccitare l’odio dei nemici, che si sono sentiti più forti. Il dilemma spesso proposto da think tank israeliani, come il Reut Institute,
era «lasciare o restare nei territori occupati?». La risposta di personaggi quali Gidi Grinstein era: «Se il problema nasce dall’occupazione, il rimedio non può che essere di andarsene». Metà del Paese la pensava così. L’altra metà era invece convinta che abbandonare i territori avrebbe alimentato le ostilità. Sia l’attacco non provocato di Hezbollah nel 2006, che quello a freddo di Hamas, dimostrerebbero quanto la prima visione fosse sbagliata. Comunque non è sul piano militare che si vince o si perde una guerra, ma su quello della comunicazione. E i leader del radicalismo lo hanno capito molto bene. Quando in Libano, Hezbollah sfidava Tsahal non pensava di ottenere una vittoria militare, ma solo di provocare reazioni che potessero causare vittime civili da mostrare nel circuito mediatico.
Così per i Paesi arabi moderati e quelli europei sarebbe stato difficile appoggiare ancora la posizione di Israele e le strade del Medio Oriente si sarebbero infiammate. Un gioco perfezionato nel tempo. Contemporaneamente si puntava a demoralizzare la popolazione israeliana, col continuo lancio di razzi. Dall’altra parte si era convinti che l’unico mezzo efficace fosse colpire dall’alto le basi di lancio. Per vincere nei riguardi di un’entità non governativa serviva reciderne i legami con la popolazione. Infliggere abbastanza «dolore» nei civili legati ad Hezbollah – parenti di impiegati e militanti - poteva funzionare. Oggi l’organizzazione di Nasrallah ci penserà tre volte prima di intervenire a favore di Hamas, ma forse questo risultato, ottenuto nel 2006, sono in pochi a percepirlo a Gerusalemme. «Educando» Hamas, Israele potrebbe raggiungere i suoi obiettivi, visto che non nega il diritto per Hamas di governare nel territorio. Distruggere l’organizzazio-
ne islamica significherebbe produrre un disastro umanitario e perdite di vite umane civili inaccettabili, trasformando la Striscia in un caos totale, come è successo Somalia.
Gerusalemme dovrebbe invece e mettere gli islamici davanti ad una scelta precisa: costruire Gaza o distruggere Israele. Il primo di fatto era il tema principale della campagna elettorale, con cui è stato eletto Hanyieh. In cambio Hamas dovrebbe segnalare le sue intenzioni di impegnarsi responsabilmente per un altro cessate-il-fuoco, invece di sviluppare e costruire razzi che colpiscano sempre più lontano.
L’IMMAGINE
Fini si è svegliato e si è accorto che il Pdl non è il partito del centrodestra che voleva Dalle ultime notizie, dalle indiscrezioni, dalle voci di corridoio, dai “si dice”e “pare che”, insomma, da quello che si sente dire in giro, Gianfranco Fini ha capito che il Partito della libertà è fatto a immagine e somiglianza di Silvio Berlusconi. Anzi, per essere più precisi, il presidente della Camera si è svegliato e sta facendo finta di aver capito soltanto ora, perché in realtà aveva già capito da un pezzo, ma stava al gioco recitando la sua parte in commedia. A questo punto si apre un’altra fase: è in gioco il progetto del Pdl o soltanto il ruolo e la forza della destra? Il Pdl si fa o si deve decidere come si deve fare? Lo sapremo nelle prossime settimane e per rendercene meglio conto dobbiamo tener d’occhio il presidente della Camera che, per quanto sia divenato autorevole e abbia intrapreso la sua solitaria carriera istituzionale, ha pur sempre bisogno di un partito o di una forza politica. Non sembra che il Pdl possa essere il partito del centrodestra che anche Fini aveva immaginato.
Sebastiano Accolla
A PROPOSITO DEI WRITER IL GRUPPO FS PRECISA Gentile Direttore, desideriamo rispondere alla lettera “Le Fs assoldano i writers”(pubblicata sul Suo giornale venerdì 9 gennaio 2009) a firma del sig. Angelo Mandelli. Non siamo d’accordo con la valutazione negativa che esprime il lettore sul “muralismo”, oggi vera e propria forma d’arte, espressione della nuova società metropolitana. Altra cosa è il graffitaggio inteso come atto vandalico. Murales, disegni con acquerelli, sculture e foto, che sono stati utilizzati dal Gruppo per rinnovare con un tocco di colore e creatività i talvolta anonimi spazi di molte stazioni, sono, secondo noi, un modo per abbellire le stazioni, bene della collettività. I graffiti, usati in modo improprio e non autorizzato, che
vandalizzano vetture di treni, sottopassi e spazi di stazione e fonte di ingenti danni economici, non sono ovviamente sostenuti dalle Ferrovie dello Stato che al contrario li combattono con decisione. Per far fronte a questo problema il Gruppo FS ha siglato un anno fa un accordo con il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno che rafforza la collaborazione tra le FS e la Polizia Ferroviaria e prevede controlli serrati e pene più severe per chi imbratta treni e stazioni.
Federico Fabretti Direttore Centrale Relazioni con i Media
L’ETIMOLOGIA DELLE PAROLE Massimo D’Alema ci tiene ad affermare che l’azione militare di Israele non è una guerra, ma una
Per chi pulsa la campana Questa campanella invece di suonare pulsa. Il puntino luminoso posto al centro della nebulosa, che si trova a 6 mila anni luce dalla Terra, è infatti una pulsar cioè una stella di neutroni che ruotando su se stessa (compie 30 “piroette” al secondo) emette impulsi costanti di radiazioni elettromagnetiche. Generando un vento di particelle che interagisce con i gas della nebulosa spedizione punitiva. Le sue teorie dovrebbero essere commentate anche dai tanti martiri di Gaza che non conoscono l’esatta definizione del termine guerra, ma conoscono il fischio terribile delle bombe. Le stesse bombe che riecheggiavano in Jugoslavia quando egli era al governo insieme alla sinistra pacifista. Se conoscesse bene l’etimologia delle parole non perderebbe
tanto tempo con programmi inutili, che non tengono conto che la guerra è il trionfo militare di un odio male amministrato, e non altro.
Bruno Russo
CONTROINDICAZIONI POSITIVE Le riforme sono azioni dovute che un governo deve fare quando non si tratta solo di migliorare, ma anche adeguarsi alle realtà interna-
zionali in momenti di crisi o di forte cambiamento. La crisi, in sintesi, ha la controindicazione di favorire il cambiamento; un po’ come avvenuto, arzigogolando il concetto, in Russia, quando il crollo del prezzo del petrolio e i corrispondenti problemi hanno ammorbidito gli accordi. Forse è quell’ottimismo che l’opposizione non capisce.
Lettera firmata
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
La testa che gira e il cuore che manca Mi sembra che nessun uomo sia mai stato per nessuna donna quello che tu sei per me. Il pieno deve sempre essere proporzionale al vuoto, non è forse vero? E solo io so che cosa c’era prima, quell’ampio deserto senza fioritura di rose, e la brama di felicità come una nera voragine spalancata davanti a questa scintillante inondazione. Non è meraviglioso questo mio vivere come in un sogno, e il fatto di poter sfatare non certo te - ma il mio stesso fato? Chiunque improvvisamente tratto da una cella buia e trasportato in cima a una montagna si ritroverebbe con la testa che gira e il cuore che manca, proprio come accade a me. Tu dici di amarmi sicuramente di più. Chi devo ringraziare, te o Dio? Entrambi, in verità, e non c’è possibilità che io possa ricambiare né te né Lui! Ti ringrazio come può farlo un’anima indegna... e come tutti ringraziamo Dio. Come potrò mai mostrarti quello che provo? Mi interrogo invano. Abbi soltanto abbastanza fiducia in me, mio unico amore, da usarmi semplicemente per il tuo vantaggio e la tua felicità, e per i tuoi fini, senza preoccuparti d’altro. Questo è tutto ciò che potrei chiederti senza timore! Dio ti benedica! Elizabeth Barret Browning a Robert Browning
ACCADDE OGGI
IL DIALOGO INTERRELIGIOSO? FELICE COLPA! Il dialogo interreligioso ed interculturale si situa su più dimensioni e livelli: politico, istituzionale, teologico, pastorale, accademico, dottrinale, normativo, sociale, comunitario. Voler ricondurre ogni forma di dialogo ad una delle categorie succitate è un errore che riduce il valore universale dell’incontro tra le diversità, specie se questa categoria è condizionata dalla pretesa della reciprocità e del calcolo e dall’assenza del dono e della profezia. La preghiera islamica dinanzi al Duomo di Milano ha avuto un sapore amaro, perché scaturita al termine di una manifestazione in cui ci sono stati atteggiamenti di violenza e di odio razziale; amara perché è sembrata agli occhi di chi non c’era come una sfida, una provocazione, un’ostentazione, un’occupazione. Un turbamento dell’animo come la violenza di queste ore nella striscia di Gaza dove oramai il torto supera la ragione. Quale responsabilità ha in tale vicenda la Diocesi di Milano e il Suo Pastore? Le parole di Giuseppe Baiocchi su liberal del 10 gennaio, i dubbi circa la fede ed il coraggio di Tettamanzi, l’accostamento a Don Abbondio, oltre che offensive non aiutano il dialogo ma sostengono quanti credono ai muri piuttosto che ai ponti. Perché non si discute delle eventuali colpe di chi ha consentito che il corteo non si bloccasse come
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
15 gennaio 1936 Il primo edificio completamente rivestito in vetro viene completato a Toledo 1943 Seconda guerra mondiale: i giapponesi vengono scacciati da Guadalcanal 1943 Viene ultimata la costruzione del Pentagono 1944 Un terremoto colpisce la zona di San Juan in Argentina, i morti sono 000 1945 Viene fondata l’agenzia di stampa Ansa 1967 Viene disputato il primo Super Bowl. I Green Bay Packers sconfiggono i Kansas City Chiefs per 35 a 10 1969 L’Unione Sovietica lancia la Sojuz 5 1970 Muammar Gheddafi viene proclamato premier della Libia 1971 Inaugurazione della diga di Assuan sul Nilo 1973 Richard Nixon annuncia la sospensione delle offensive sul Vietnam del Nord 1975 Il Portogallo concede l’indipendenza all’Angola 1976 L’aspirante assassina di Gerald Ford, Sara Jane Moore, viene condannata all’ergastolo 1992 La Comunità Europea riconosce formalmente la Slovenia e la Croazia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
programmato ma che continuasse fino a Piazza Duomo? Qual è la colpa del Pastore di Milano? Quella di essere un uomo di dialogo? Allora siamo in parecchi colpevoli. Come segretario del Laboratorio per il dialogo interreligioso di Salerno ho percorso in questi anni la strada dell’incontro tra uomini e donne di diverse religione e cultura. È un’esperienza che mi ha svelato la bellezza della mia fede cristiana e nel contempo mi ha confermato che Dio, quel Gesù Cristo che non ha ritenuto un tesoro nascosto la sua uguaglianza col Padre, non si è tenuto nascosto nemmeno alle altre culture e agli altri popoli. Nella polemica si inseriscono altre due questioni: i luoghi di culto e la riconsacrazione del Duomo di Milano. I luoghi di preghiera sono espressione della fede e nel contempo il bisogno di un popolo. Non bastano i soldi, i finanziamenti o lo sviluppo demografico ad esigerne la costruzione. Prima delle mura del tempio, dei soldi e dei referendum bisogna che la comunità nasca intorno alla preghiera, nella comunione, nella carità. L’uomo è il primo e vero tempio di Dio, solo una comunità il cui cuore è ricolma del bisogno di incontrare il Dio della Pace desidera accamparsi sotto la tenda dell’intimità, per santificarsi, per separarsi dal mondo e nel contempo esserne sale e lievito. La fede infatti ha sempre una rilevanza pubblica.
Pietro Ravallese
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
SOLIDARIETÀ AI GIOVANI DELLA DESTRA: LA NOSTRA CITTÀ È ANCORA A DEMOCRAZIA LIMITATA Ci risiamo. Pisa si caratterizza ancora una volta per essere una città a democrazia limitata. Sabato scorso, come peraltro annunciato, alcuni gruppi di associazioni antagoniste insieme a diverse sigle di sinistra, tra cui anche partiti istituzionali come Comunisti italiani e Rifondazione, hanno presidiato e occupato fin dal mattino piazza del Carmine, per evitare la manifestazione dei giovani di gioventù italiana - La destra, e ci sono riusciti. Di più. Nel parcheggio scambiatore di via Pietrasantina, dove i giovani di destra si erano nel frattempo radunati, alcuni militanti della sinistra radicale e antagonista hanno cercato e ottenuto lo scontro fisico con i giovani di destra. Ricordiamo che la manifestazione era autorizzata e veniva proposta da una forza politica nazionale candidata alle ultime elezioni politiche e amministrative e presente nelle istituzioni di diversi comuni italiani. Anche per questo mi pare chiaro che sabato scorso si è compiuto un altro passo falso, e non è il primo, per una vera democrazia nella nostra città. Non entriamo nel merito della decisione presa del comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza di Pisa per evitare che di sabato pomeriggio nel pieno centro di Pisa si assistesse ad uno scontro “armato”, che pensavamo appartenesse ai decenni del passato. Certo è che aspettiamo che vengano presi provvedimenti contro chi mette a repentaglio la libertà di manifestare e, ancora una volta, a nome di valori come l’antifascismo, pratica la violenza gratuita come forma di lotta politica. Sentire poi da queste associazioni antagoniste che, grazie a loro, Pisa è stata salvata dalla presenza dei fascisti, è sinceramente troppo da sopportare. Purtroppo sabato scorso non siamo stati salvati dai fascisti ma anzi, grazie a loro, abbiamo avuto a Pisa un classico esempio di comportamento degno del fascismo. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L O L I B E R A L P I S A
APPUNTAMENTI DOMANI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Miti infranti. Per salvarsi, l’ateneo vuole aumentare le tasse
E alla fine anche Oxford ha ceduto alla di Silvia Marchetti a più prestigiosa e antica università del Regno Unito (e del mondo) potrebbe presto ritrovarsi sull’orlo della bancarotta. La venerata e invidiata Oxford University – perla dell’Europa, dove nel corso dei secoli si sono laureati grandi pensatori e leader mondiali del calibro di Tony Blair e Bill Clinton, nonché l’attuale primo ministro inglese Gordon Brown – quest’anno ha perso ben 100 milioni di sterline per via del credit crunch che ha inghiottito il Paese. Il budget è decisamente in rosso. Tra fondi investiti nelle banche islandesi andate in fumo e un calo nelle donazioni provenienti dai privati, per fare fronte all’emergenza finanziaria l’ateneo sta pensando di ricorrere a un aumento delle tasse universitarie. E così, ecco che spuntano fuori altre vittime indirette della crisi creditizia che ha colpito il mondo intero: le università, e di conseguenza gli studenti. Se ieri per iscriversi a Oxford ci voleva una fortuna, domani molto probabilmente ce ne vorranno due. Il valore totale degli investimenti di Oxford University – rappresentato soprattutto dagli immobili – in un anno è crollato da 689 milioni a 593 milioni di sterline. Ma oltre a questi 100 milioni di sterline andate in fumo, c’è da aggiungere anche il portafoglio di risparmi che l’ateneo aveva investito negli istituti di credito dell’Islanda ormai congelati, altri 30 milioni di sterline. Oxford è stata infatti l’università britannica che ha investito più di ogni altra nei depositi bancari di Reykjavik. Insomma, nel complesso lo tsunami finanziario si è mangiato più di 130 milioni di sterline del ricco patrimonio dell’università.
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E non finisce qui: come effetto secondario del credit crunch ci sarà in aggiunta una riduzione nelle donazioni dei privati. Con meno soldi a disposizione i filantropi inglesi e stranieri che hanno sempre investito nella reputazione dell’ateneo saranno costretti a tagliare i finanziamenti che ogni anno devolvono al budget universitario. E si sa quale danno ciò avrà sulle casse di Oxford: come in America, una grande fetta delle risorse finanziarie universitarie – qui si tratta di circa il 4,5 per cento – proviene dalle donazioni dei benefattori. Anche i fondi per la ricerca saranno dunque messi a repentaglio,
poiché in Inghilterra la ricerca avviene principalmente nei laboratori universitari grazie a finanziamenti esterni. Senza generosi “protettori”alle spalle, per poter rimettersi in piedi l’università sarà costretta – come molte altre messe in ginocchio dalla crisi immobiliare – a ricorrere alla tanto temuta leva fiscale. In altre parole, Oxford vorrebbe aumentare le rette universitarie, già oggi molto elevate. Ci sarebbe l’idea di introdurre anche qui il modello americano, ossia portare a 20mila sterline annue i contributi
a carico degli studenti, ma il governo sta ancora valutando la fattibilità di alzare il limite del prelievo fiscale. Sborsare 20mila sterline diventa un onere che pochi possono permettersi, l’equivalente di oltre 30 mila euro. Che l’esecutivo laburista permetterà una simile “riforma” è poco credibile.
Già alcuni anni fa il Paese era stato scosso dalle proteste degli studenti scesi in piazza contro gli incrementi nelle tasse universitarie, e per smarcarsi dalle scelte del suo predecessore, Gordon Brown ha fatto dell’istruzione “paritaria” (anche uniun versitaria) obiettivo del suo governo. Se il premier ha dunque in programma di dare alla maggior parte dei ragazzi le stesse opportunità di studio e di carriera, difficilmente acconsentirà alle richieste fiscali
CRISI
Tra fondi investiti nelle banche islandesi andate in fumo e un calo nelle donazioni provenienti dai privati, non ci sono più soldi. E il credit cruch si è mangiato altri 100 milioni di sterline del fondo immobiliare universitario dei big Oxford &Co. In questo momento, con la popolarità ai minimi storici, soffocato dalla crisi economica che attanaglia la Gran Bretagna e a pochissimi mesi di distanza dalle prossime elezioni nazionali che già lo danno sconfitto, l’ultima cosa che vuole Brown è dare l’impressione di colui che alza le tasse, di qualsiasi natura esse siano. Soprattutto quando ha appena promesso un sostanziale alleggerimento della pressione fiscale. Sta di fatto, tuttavia, che con o senza l’aiuto del governo per gli atenei della Gran Bretagna (soprattutto quelli prestigiosi) si profilo un inverno duro. Secondo Wendy Piatt, direttrice generale del Russell Group che riunisce le università d’élite quali appunto Oxford e Cambridge, «tutti gli atenei inglesi saranno soggetti a difficilissime situazioni economiche con profitti in discesa, costi in lievitazione e competizione internazionale in escalation». Già, perché se una volta andare a studiare negli Stati Uniti – a Yale, alla Columbia o a Harvard - era un lusso per pochi prescelti, oggi diventa quasi “conveniente”per chi aveva intenzione di laurearsi a Oxford e dovrà invece ripensarci, soprattutto se ci saranno aumenti nelle rette annuali delle università britanniche.