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ISSN 1827-8817 90116

Gli uomini in realtà sono sempre sinceri. A volte cambiano sincerità, ecco tutto

di e h c a n cro

9 771827 881004

Tristan Bernard

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

A Gaza colpita sede dell’Onu: Scontro tra Gerusalemme e Ban ki-Moon

Ma io dico che Israele ha già vinto di Edward Luttwak l mondo dei media sembra condividere l’opinione della maggioranza del mondo arabo, ovvero che i mille morti a Gaza siano un oltraggio maggiore dei duecentomila africani musulmani uccisi dagli arabi in Darfur. Una percezione che incoraggia Hamas ad attrarre il fuoco israeliano su bersagli civili, nascondendosi in scuole e case, supponendo – correttamente – che tali attacchi verranno ampiamente criticati e strumentalizzati a loro favore. Ma giornalisti e analisti, così facendo, mettono a fuoco la verità sbagliata. I musulmani, che hanno dimostrato contro Israele in Gran Bretagna, Indonesia e molti altri Paesi, sono totalmente indifferenti allla grande carneficina in Darfur, perché la loro furia non è umanitaria, ma teologica.

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di Ferdinando Adornato

Casini propone un piano di 15 miliardi per famiglie e aziende

Bankitalia: il Pil in caduta libera Confindustria critica: «Il decreto del governo è insufficiente» di Riccardo Paradisi l governo porta a casa il decreto legenti locali di arrivare al Senato. E infine è ge “anti-crisi”su cui aveva posto la ficostata l’affondo facile delle opposizioni: ducia martedì scorso – 283 voti favoquello del Pd, che è entrato nelle divisioni revoli, 237 contrari, due astenuti – ma della maggioranza come una lama nel dentro il Pdl lo sanno tutti che stavolta si burro, e quello dell’Udc che ha denunciatratta di una vittoria di Pirro. Il prezzo to l’insufficienza del decreto rispetto alla per il sì ottenuto alla Camera infatti è gravità della situazione italiana. L’omagdavvero molto salato. Alla maggioranza gio del capogruppo del Pdl alla Camera la prova di forza di ieri è costata anzitutFabrizio Cicchitto reso prima della dito l’apertura di una nuova faglia di divichiarazione di voto sul decreto anti-crisi, sione tra il premier Silvio Berlusconi e il è un indice barometrico significativo delpresidente della Camera Gianfranco Fini l’atmosfera che segna il rapporto tra Fordi Alessandro D’Amato a pagina 7 che in queste ore si minacciano reciproza Italia e An: «Voglio rilevare che ci sono camente sui tempi e i modi di una fusiodue grandi modelli di presidenti della Cane politica che si annuncia sempre più problematica. È costata mera del passato, quello di Luciano Violante che dava una mala defezione della Lega Nord e del Movimento siciliano delle no alla sua parte poltitica e quello di Nilde Iotti, che era super autonomie di Raffaele Lombardo, che astenendosi hanno con- partes. Lei segue il modello Iotti». s e g ue a p a g i n a 4 sentito all’ordine del giorno del Pd sul patto di stabilità per gli

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Trichet taglia i tassi Costo dell’euro al 2%

IL VATICANO E IL GOVERNO Dalle impronte ai Rom fino alla tassa di soggiorno: da alcuni mesi è scontro aperto tra la Chiesa e i ministri leghisti. Ma quello di Bossi si può ancora considerare un partito cattolico?

s eg u e a p ag ina 1 4 se rv iz i a p a gina 14 e 1 5

Lanzillotta: sì all’Udc E chiude a Di Pietro di Marco Palombi a pagina 6

Sfida sulla competenza dell’energia

Ora Tremonti vuole dimezzare Scajola

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Al diavolo la Lega! alle pagine 2 e 3

di Francesco Capozza

ROMA. Oggi il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola sarà a Bruxelles per chiedere all’Unione Europea di stanziare degli aiuti per il settore automobilistico italiano, ultimamente in difficoltà rispetto alla tendenza degli ultimi anni. Nel frattempo, però, c’è chi trama alle sue spalle e vorrebbe vedere ridimensionato il suo potere e le enormi competenze che la riforma voluta dal governo Prodi ha attribuito al suo dicastero. Prima su tutte quella sull’Energia e, quindi, su tutte le decisioni rispetto al Nucleare. I congiurati sarebbero, manco a dirlo, sicari dell’altro super ministro con analoghe competenze: il titolare dell’Economia Giulio Tremonti. segue a pagina 10 seg2009 ue a pa•gE inURO a 9 1,00 (10,00 VENERDÌ 16 GENNAIO

CON I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

11 •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Mutazioni. Erano paladini del cristianesimo. Ma ora sulla Lega piovono critiche da tutto il mondo cattolico, non solo dai vescovi

Il loro Dio è solo il Po?

Dai rom alla tassa sui permessi. Per la Cei, Bossi è ormai un avversario. E Napolitano: «Le Regioni ricche hanno il dovere costituzionale di aiutare il Sud» di Franco Insardà

ROMA. Quando ci sono polemiche la Lega non si sottrae. Anzi le affronta mantenendo le posizioni. Ieri sono arrivati gli strali del presidente Napolitano: «È un dovere costituzionale del Nord aiutare il Meridione», ha detto. Ma fino a ieri l’altro i colpire erano state le gerarchie cattoliche. Negli ultimi tempi gli uomini di Bossi sono entrati spesso in conflitto con esponenti della Chiesa. Soprattutto sugli immigrati.A fine maggio è scoppiato il caso ”immigrazione clandestina”inserito come reato nel decreto sicurezza dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni per il quale nel primo passaggio del testo al Senato è prevista una multa da 5 a 10mila euro e l’espulsione immediata e non più il carcere da 6 mesi a 4 anni. Poi, in estate, è stata la volta delle impronte digitali ai bambini rom che ha portato all’avvicendamento del prefetto di Roma, Carlo Mosca, vicino agli ambienti cattolici, che aveva rifiutato di adottare il provvedimento. Adesso lo scontro è sulla tassa sui permessi di immigrazione, battezzata ”balzello inaccettabile”.

Insomma la Lega che scende in campo per evitare la costruzione di moschee, che protesta per i musulmani in preghiera sul sagrato del Duomo di Milano e della basilica di San Petronio a Bologna viene criticata dalla Chiesa cattolica che in qualche modo difende. Sembrerebbe una contraddizione, ma il professor Franco Cardini che insegna Storia Medievale all’Università di Firenze osserva: «La Lega ama la Chiesa di un amore, in molti casi, non corrisposto perché i leghisti nelle loro esternazioni, spesso in buona fede, sono troppo estremi. Il cattolicesimo non è contrapposizione. La fede è un assoluto che viene trasferito attraverso la religione sul piano della storia. La Lega ha interesse per un cattolicesimo romantico-culturale, pseudostorico. Insomma da Carroccio». Una Lega che sarebbe rimasta al tempo delle Crociate, ma il senatore Giuseppe Leoni, presidente dei cattolici padani, la vede in modo diverso: «Non penso che esista un problema di rapporti difficili tra la Lega e la Chiesa. Alcuni vescovi dicono delle cose, ma i parroci che vivono sul territorio, in prima linea, non si sentono sicuri e la pensano come noi. Questi continui attacchi non fanno altro che aumentare i nostri consensi. Le posizioni prese da alcuni prelati hanno più un significato politico che religioso. Io vivo nel mondo cattolico e rimpiango il fatto di non aver avuto la possibilità di diventare prete. Umberto Bossi ogni tanto mi chiama scherzosamente chierichetto, per me è un motivo di vanto: sono un cattolico vero, non lo faccio per motivi elettoralistici.Vado anche in Africa a fare il volontario e sono convinto

La Chiesa non gli riconosce più un ruolo rappresentativo nazionale

Da partito del cambiamento a “sindacato del Nord” di Giuseppe Baiocchi he la rotta di collisione tra la Lega e la Chiesa fosse un’ipotesi plausibile era da tempo ampiamente scontata. E non tanto per la natura tutto sommato solida e immutabile della Chiesa (al di là di evidenti concessioni all’«onor del mondo» di vescovi e cardinali pusillanimi, per i quali la richiesta di perdono lanciata da Giovanni Paolo II è sempre drammaticamente attuale), quanto piuttosto per la natura della Lega Nord, che dimostra i suoi limiti e le sue sofferenze, una volta chiamata che sia alla prova di governo.

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Infatti, la gestione contingente della sicurezza e l’approccio al tema epocale dell’immigrazione mette a nudo il deficit culturale di cui il movimento di Bossi ha sempre sofferto: ovvero la tendenza a ripiegarsi verso una dimensione rassicurante, e nel breve produttiva, del “sindacato del territorio”, ove le spinte all’innovazione sono delimitate e sciolte nella rivendicazione e nella sanzione punitiva verso gli “altri”, anziché aprirsi alla sfida autentica della politica, che impone per forza di cose la scommessa di “rendere possibile ciò che è necessario”. Eppure, proprio la sostanza di una forte e coltivata identità territoriale doveva, per sua logica, cogliere le opportunità di sviluppo e di coerenza che le radici dalle quali comunque si proviene portano ad esprimere. E semmai, (sia ascoltato senza sciocche recriminazioni) è quello che chi scrive tentò di trasmettere nei suoi tre anni di direzione della Padania, a cavallo del cambio di millennio: ovvero che la “rivincita”del territorio era un tutt’uno con la natura della propria identità , naturaliter cristiana. E che solo la dimensione culturale di questo patrimonio, quando fosse declinata in politica, poteva esaltare il “locale”, laddove si ancorasse a una fonte che avesse gli orizzonti dell’ “universale” e cioè per storia e sostanza popolare obbligatoriamente “cattolico”(anche per semplice ragione semantica). La sfida del “glocal” (ovvero il «pensare globale nell’agire locale»)

ha molto seminato: e tuttavia si nota una scelta di pura rassicurazione e di assoluta conservazione quando, anziché caricarsi sulle spalle la complessità dell’azione politica (compresa la politica estera, che è vero che non porta un voto nell’immediato, ma è costitutiva imprescindibile di una strategia di lungo periodo e qundi di governo) si è preferito, dopo la vittoria elettorale dell’aprile scorso, di rinchiudersi nell’amministrazione dell’esistente. La Lega ingrasserà (e già lo fa) di sondaggi e forse di voti: nella competizione tutta interna alla maggioranza è indubbiamente favorita, anche per le labili motivazioni che assillano i suoi concorrenti interni. Nella corsa al “peggio” è sicuramente vincente, proprio perché torna ad assumere i connotati di Lobby (o meglio di “sindacato” di territorio, pur con tante ambiguità). Ma la dimensione corporativa, come la storia insegna, è produttiva nel poco (anche in termini percentuali) ma paralizzante nel molto. E a chi ambisce determinare le scelte fondamentali di governo, non può soddisfare nel tempo medio-lungo di una legislatura la funzione hobbistica di sindacato corporativo.

E persino la tanto agognata promessa del “federalismo fiscale” appare una amara occasione perduta: era l’opportunità di rivoluzionare davvero il rapporto cittadino-stato, puntando sulla chiave antica e modernissima di strutturare una complessiva “imposta di famiglia” collegata al territorio (che avrebbe dato fiato ai giovani, alle cellule sociali fondamentali, alla promessa di natalità, indispensabile per un Paese in forte declino demografico): si è preferita la comoda strada di una redistribuzione su percettori diversi e locali delle quote di tributo senza cambiare una virgola dell’evidente iniquità del sistema. E allora è logico che anche per la Chiesa (oltre che per il Paese) la Lega diventa una speranza amaramente appassita.

che l’immigrazione è un problema mondiale che va affrontato seriamente».

Le posizioni leghiste, ma soprattutto quelle del governo italiano e del ministro Maroni sono finite nel mirino del commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, che ieri dalle colonne di Repubblica dopo la visita alla baraccopoli di Roma ha dichiarato: «L’Italia sta approvando leggi discriminatorio che non rispettano i diritti umani». La replica leghista non si è fatta attendere e nella commissione straordinaria per la Tutela dei diritti umani di Palazzo Madama la vice presidente del Senato, Rosy Mauro, ha chiesto spiegazioni ad Hammarbeg. «Il nostro governo e il nostro Paese - ha detto la Mauro - sono stati associati agli incivili. Stiamo parlando di un emendamento e di un disegno di legge non ancora votati. È ancora tutto in discussione e, peraltro la tassa esiste già in altri Paesi». Contro il commissario Hammarberg sono intervenuti anche il ministro degli Esteri Franco Frattini, il presidente dei senatori del Pdl e l’onorevole Isabella Bertolini che ha sottolineato: «Dopo la campagna di insulti contro l’Italia della scorsa estate, il recidivo Hammarberg prosegue oggi con quella d’inverno». Lo stesso presidente dei senatori della Lega Nord,Federico Bricolo, assicura: «Siamo certi che rientreranno tutte le polemiche anche quelle sul contributo a carico degli stranieri che chiedono e rinnovano il permesso di soggiorno. D’altra parte - sottolinea- anche anche il Pd ha fatto una richiesta simile con un emendamento, poi ritirato, a prima firma Maritati». La stessa Bertolini cerca di fare chiarezza e di smorzare le polemiche: «Non parlerei di Chiesa cattolica, ma di associazioni che strumentalmente alimentano polemiche. Spero che si possano chiarire le cose, anche perché le politiche sull’immigrazione del ministro Maroni e del governo avranno effetti benefici. Non si tratta, come erroneamente si vuol far passare di una tassa, ma di un contributo minimo a copertura di un servizio che lo Stato fornisce agli immigrati». Ma l’Azione cattolica ha dichiarato il suo no alla tassa sul permesso di soggiorno agli immigrati. In un comunicato ha ricordato che: «Il provvedimento non incontra il parere positivo di gran parte delle forze politiche di maggioranza e di opposizione e ha gà ricevuto pareri negativi da diversi rappresentanti delle istituzioni». Critiche alla Lega non sono state risparmiate nemmeno dallìUgl. Infatti per Lucio Lagamba, presidente del Sindacato emigrati immigrati del sindacato: «Gli emendamenti in materia di immigra-


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Il vaticanista del Giornale difende i leghisti, ma con un dubbio

«A volte dimenticano che si parla di persone» colloquio con Andrea Tornielli di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. La Lega e la Chiesa «sono realtà ghiste. In questo incontro-scontro, seben radicate sul territorio, che parlano di problemi che conoscono». Quindi, più che di uno scontro, «queste bacchettate rappresentano in realtà un’espressione del rapporto dialettico che c’è fra i due: un rapporto in cui entrambi devono rendere conto del proprio operato». La Lega ai suoi elettori; la Chiesa alla sua missione. È l’opinione di Andrea Tornielli, vaticanista de Il Giornale, che a liberal spiega come i continui richiami di vari organismi cattolici alla Lega «non configurano per forza un’attenzione speciale del Vaticano su quel partito». Alla luce della bacchettata di due giorni fa sul “balzello” proposto da Maroni, e degli attacchi dei mesi scorsi sempre sul tema dell’immigrazione, c’è un’attenzione particolare delle gerarchie cattoliche nei confronti della Lega e del suo operato politico? Io non credo che ci sia un’attenzione speciale della Chiesa nei confronti del partito di Bossi. C’è invece un vero desiderio, da parte cattolica, di coniugare la necessità della sicurezza del Paese con la loro missione, che è anche quella dell’accoglienza nei confronti di tutti. Ma c’è anche da rilevare che in questo ultimo confronto entra anche la questione dell’accoglienza, che fa parte della nostra tradizione cristiana e va oltre la Chiesa. Inoltre, distinguerei i livelli dello scontro polemico non attribuendo tout court alla Chiesa espressioni contenute in alcuni editoriali, come quelli apparsi su Famiglia Cristiana al tempo della schedatura dei rom. Ripeto, penso che la preoccupazione più pressante sia per la situazione dell’accoglienza, uno dei temi più ribaditi da papa Benedetto XVI. Non sottovaluterei neanche il fatto che la Chiesa – intendendo quella gerarchica – ha ben presente di avere di fronte un partito come la Lega Nord, con delle vere radici popolari. Non è un partito finto, non è un’alchimia: è veramente radicato sul territorio. A tal punto che ci sono stati, anche in passato, taluni vescovi che hanno preso delle posizioni poi tacciate come le-

Franco Cardini: «Il cattolicesimo non è contrapposizione, i leghisti spesso lo dimenticano». Sull’emendamento al ddl sicurezza arrivano critiche anche dall’Ugl: «Non si può chiedere a medici e volontari di denunciare gli irregolari» zione promossi dalla Lega al disegno di legge sulla Sicurezza oltre ad essere inutili ed inefficaci sotto il profilo economico contrastano in molti casi con i principi della Costituzione e del diritto internazionale.Tra l’altro chiedere a un medico di denunciare il cittadino straniero non in regola con il permesso di soggiorno e bisognoso di cure rappresenterebbe una misura contraria, oltre che al dettato costituzionale, anche alla deontologica dei professionisti. Non vorremmo che qualcuno arrivi a imporre la stessa cosa alle migliaia di religiosi e volontari laici che ogni giorno accolgono e aiutano tantissime persone straniere indigenti fra le quali, è opportuno ricordare, ci sono anche non pochi italiani spesso disoccupati anche perché il nostro Paese ha un sistema di welfare fortemente deficitario».

Antonio Socci allarga il campo della discussione anche agli altri partiti sottolineando che: «Non ho approfondito l’argomento, ma quando sono in ballo questioni che riguardano i valori cattolici le diversità di vedute ci sono sempre anche negli altri partiti ed emergono punti di vista diversi da quello della Chiesa».

Il professor Franco Cardini riporta il ragionamento su un piano diverso: «Il cristianesimo è un’altra cosa: è l’amore per l’uomo. In certi ambienti leghisti questo è un discorso tra sordi, anche se in molti casi si giustifica con ragioni elettoralistiche e demagogiche. La passione leghista sarà sempre poco incline agli extracomunitari, ma non la si può ricondurre ai valori del cristianesimo. Alcuni leghisti sono xenofobi, ma le loro aziende sono all’estero o sfruttano gli immigrati. Ci sono certamente molte persone sensibili e civili, ma prevalgono quasi sempre quelli che alzano la voce e che vengono amplificati dai media. I ben educati purtroppo sono un po’ vigliacchi. La Lega e la Chiesa stanno facendo il loro mestiere. Il partito di Bossi esprime il sentimento dei cittadini padani, preoccupati della loro sicurezza. La Lega ha trovato il bandolo della matassa, il verme che rode il cuore del mondo: gli extracomunitari. I rappresentanti leghisti vogliono dare delle risposte ai loro elettori. I vescovi invece si preoccupano, ovviamente, delle questioni umanitarie: lo sviluppo, l’integrazione e la convivenza». L’inferno può attendere.

condo me, va sottolineato questo: si tratta di due interlocutori veri e presenti sul territorio di cui parlano. Infine bisogna tener conto del fatto che, in queste vicende, gioca molto la politica degli annunci. La Lega, per mantenere la sua fisionomia e un certo tipo di rapporto con il suo elettorato, deve calcare la mano nel tipo di annunci e nel modo in cui li espongono. Per cui, a volte la situazione si aggrava: a volte sembra che, nei confronti degli immigrati, la Lega non tenga conto del fattore umano. È vero che c’è la criminalità e il rischio islamico, ma la Chiesa non può mai dimenticare di avere a che fare con degli uomini. Direi che è un rapporto dialettico fra due realtà che hanno un vero legame con il tessuto sociale che rappresentano. La gestione Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha segnato con il solo fatto di esistere una svolta nei confronti dell’era Ruini. Dal suo punto di vista, la Cei è oggi più o meno impegnata sul piano della politica italiana? C’è una differenza di stile fra i due presidenti, che dipende anche dalla differenza di personalità. E lo si vede nel tipo di prolusioni che vengono fatte e il modo in cui sono poste. Ma va anche rilevato che, soprattutto negli ultimi interventi, sulle vicende sociali e politiche sono stati esaustivi. Non si sono fatti mancare nulla, per intenderci. L’attuale presidenza della Cei, mi sembra, punta a essere forse leggermente più defilata, mantenendo però una totale continuità anche negli interventi sulle vicende politiche. Vicende che, chiaramente, hanno una qualche importanza per i vescovi: la concordia del Paese, i temi eticamente sensibili (che oggi sono diventati il pane della politica) oppure la questione dell’immigrazione. Sono questioni in cui la Chiesa ha, in un certo senso, le “mani in pasta”. Si è cercato di riportare la gestione della politica italiana in mano alla Segreteria di Stato vaticana, ma questo non toglie la continuità fra le due gestioni. Che intervengono soltanto quando devono.

Non si tratta di uno scontro: sono due realtà radicate sul territorio e che devono rispondere del loro operato. La Chiesa pensa alla sua missione, la Lega agli elettori


politica

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Crisi. Crescono i dissensi nella maggioranza. Cicchitto: «Fini? Bravo, segue il modello Iotti»

Un decreto piccolo piccolo Opposizioni e Confindustria contro il governo mentre Bankitalia annuncia: il Pil a -2% di Riccardo Paradisi segue dalla prima «Lei segue il modello Iotti, presidente Fini, questo ci può anche creare problemi – dice Cicchetto riferendosi alla polemica aperta da Fini sul ricorso compulsivo alla fiducia da parte del governo – ma la ringraziamo per la scelta di alto profilo che ha fatto, e che non merita basse strumentalizzazioni». Ma se la tensione tra Berlusconi e Fini dura da mesi e ormai il Cavaliere la considera derubrica all’ansia finiana da successione è l’apertura del fronte con la Lega quello che preoccupa davvero il presidente del Consiglio. Che nell’ultima settimana ha cominciato a sentire sulla sua pelle il gelo del vento del nord che ieri ha prodotto i suoi effetti. Quando il governo, grazie all’astensione della Lega, è stato battuto in finale di discussione sul dl anticrisi su un ordine del giorno del Pd che riguarda il rispetto del patto di stabilità per gli enti locali.

ro bilanci, erogando servizi di ottima qualità ai loro cittadini, a tenere lo stesso comportamento. Insomma alla Lega – che martedì invitava alla rivolta i sindaci del nord contro i privilegi concessi al comune di Roma e bloccava l’accordo Pd-Pdl sulla riforma della legge elettorale per le europee – non è bastato l’ok alla tassa sul permesso di soggiorno voluta dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. Ma non è solo il nord a far sentire il suo nervosismo: anche il siciliano Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo per esprimere il proprio dissenso, non ha partecipato al voto sull’ordine del giorno del Pd. Per l’Mpa il provvedimento governativo non rispetta le attese dei cittadini del Sud e non rispetta il programma elettorale: «Il Sud – ha dichiarato in aula l’Mpa – è ben lontano dal tasso di crescita potenziale che deriverebbe dalle risorse sottutilizzate: avevamo preparato tre emendamenti per favorire lo sviluppo del Mezzogiorno. Con questo decreto è stato disatteso il programma del governo che prevedeva una serie di misure per il rilancio del Sud attraverso l’impegno straordinario di risorse che invece sono state ripetutamente distratte come nel caso dei fondi Fas che il governo tende a usare per interventi di diversa natura e quasi sempre non localiz-

Non è solo la Lega a fare defezione. Anche l’Mpa di Lombardo vota l’ordine del giorno Pd sul patto di stabilità per gli enti locali

Un ordine del giorno del Pd che chiedeva di allargare anche agli altri comuni italiani la facoltà di non inserire nel patto di stabilità i fondi stanziati per gli investimenti. E quindi di poter sforare i tetti della spesa pubblica come potrà fare la giunta capitolina di Gianni Alemanno. Un’evidente autorizzazione morale – era la tesi dei leghisti in aula – per tutti i sindaci che hanno ben gestito i lo-

La Lega in trincea contro le deroghe al patto di stabilità

«Berlu scon i stia attento, i l P dl deve r i sp et t a r e gli acc ord i» colloquio con Angelo Alessandri di Irene Trentin

zati al Sud». Era lo stesso Giulio Tremonti all’inizio della scorsa settimana a registrare preoccupato il disagio dei deputati forzisti del meridione che si lamentano della mancanza di fondi e attenzioni. Una situazione che Berlusconi ammette con i suoi essere reale e grave. Divisioni che aprono all’opposizione una grossa breccia d’attacco: il segretario del Pd Veltroni accusa la maggioranza di essere in grave difficoltà: «L’approvazione dell’odg presentato dal Pd fa emergere tutta la gravità della crisi nella quale si dibatte la maggioranza», colpevole, secondo Veltroni, di aver sempre

MILANO. «Un messaggio chiaro» quello lanciato ieri dalla Lega al governo. Il presidente del Consiglio federale della Lega, praticamente il Parlamentino del Carroccio, Angelo Alessandri, parla di «normale dialettica» all’interno della maggioranza. Ma da segretario nazionale dell’Emilia Romagna, che conosce bene il territorio, tutto il territorio del Nord, si dice pronto ad appoggiare la fronda dei sindaci decisi a sforare anche loro, come il governo, il patto di stabi-

respinto le offerte di collaborazione e dialogo. A entrare nel merito del decreto è stato Pierferdinando Casini. Di fronte ad una crisi che rischia di essere devastante – sostiene il leader dell’Udc – il Governo sta lasciando le famiglie e le imprese italiane a combatterla da sole. Il dl anticrisi è acqua fresca, mentre c’è bisogno di coraggio. Ad esempio varando il piano da 15 miliardi di euro». Insomma «Un piano per aggredire la crisi, non per subirla, tutelando famiglie e ceto medio, precari, opere pubbliche». E a proposito del patto di stabilità se è giusto non sforarlo, si possono tuttavia «reperire con “un patto intergenerazio-

lità. E, in vista delle amministrative di primavera, avverte che, anche se la collocazione della Lega non è in discussione, sul territorio «ci sono molti margini per collaborare sui temi che ci stanno a cuore anche col centrosinistra». Prima Malpensa, poi la tassa di soggiorno, ora il patto di stabilità…Non è che il fidanzamento tra Berlusconi e Lega sia stia incrinando? Solo una normale dialettica tra due partiti diversi. Il governo Prodi sì che aveva problemi seri di veti, i nostri non sono veti ma posizioni differenti su alcune questioni che non abbiamo ancora avuto il tempo di discutere. Colpa della fretta, quando ci sono troppe cose a bollire in pentola e non c’è tempo, si è costretti a trovare la sintesi sul

momento, magari direttamente in aula. Ma sono convinto che alla fine prevarrà il buon senso… Intanto, però, c’è la fronda dei sindaci del Nord disposti a sforare il Patto di stabilità. Tutta la Lega si schiererà dalla loro parte? Siamo disposti a sostenerli fino in fondo, non vogliamo rimanere un nano politico ma rivendicare il ruolo fondamentale che ci è stato assegnato dai nostri elettori. Quello di ieri – mercoledì, ndr – è stato un messaggio chiaro: ci potrebbe pure stare qualche giustificazione per Roma, ma non tale da motivare un buco che crei una disparità con tutti gli altri Comuni. Al Nord si è sempre rispettato il patto di stabilità anche a costo di enormi sacrifici, così però ci fanno passare per fessi.


politica

16 gennaio 2009 • pagina 5

Tre idee per rimettere in moto l’economia: ecco il progetto di Casini

Un piano da 15 miliardi per famiglie e imprese di Gian Luca Galletti approvazione del decreto anti-crisi con il voto di fiducia (chiesto dal Governo) ci rende forse l’unica nazione al mondo che non discute nelle aule parlamentari delle misure necessarie al Paese per contrastare la pesante crisi economica in atto. È una questione politica, evidentemente, ma non solo, e per rendersene conto basta guardare bene la sostanza del decreto. Costruito su fragili equilibri che oltre tutto hanno poco a che vedere con la crisi. Un contentino alla Lega con l’emendamento spot salva Malpensa da una parte, e dall’altra un contentino ad Alleanza nazionale con l’esclusione dal patto di stabilità del Comune di Roma per due anni. E cosi l’accordo è fatto senza pensare che esistono in Italia altri aeroporti che soffriranno a causa del fallimento dell’operazione Alitalia o che nessun altro comune riuscirà a fare un’ infrastruttura degna di questo nome senza sforare il patto di stabiltà. È ormai evidente che il provvedimento del governo ha perso completamente la sua funzione originaria: cioè quella di contrastare la crisi reale che sta investendo le famiglie e le imprese italiane. Per dignità non chiamiamolo più “anti-crisi” ma semmai “pro-crisi.” Solo così si può definire un decreto che nei fatti migliora i saldi di contabilità nazionale, cioè sottrae alle famiglie e alle imprese più soldi di quanti ne restituisce. Per dire tutta la verità poi alle famiglie il governo non destina un bel niente o comunque solo spiccioli. Ma la famiglia purtroppo non è l’unica dimenticanza di questo decreto. Anche le imprese sono abbandonate. Pochi e inadeguati gli incentivi alla produzione e nessun vantaggio fiscale.

L’

nale” delle risorse per superare la crisi invece di fare finta di non vederla».

Una lettura della crisi e delle soluzioni per fronteggiarla analoga a quella di Confindustria: «I 4 miliardi di euro previsti dal decreto anticrisi per il 2009 non sono sufficienti a fronteggiare la situazione economica del Paese – sostiene l’Associazione degli industriali – in Italia occorre riallocare in fretta un ammontare di risorse ben maggiore e occorre adottare riforme strutturali che portino risparmi nei prossimi anni e accrescano la credibilità del Paese, stabilizzino i mercati, alimentino il credito, sostengano la domanda».

Comunque sulla questione settentrionale ci sono diversi sindaci del centrosinistra del Nord disposti ad appoggiarvi… Il Pd sta iniziando a fare autocritica, a riconoscere gli errori commessi. E molti sindaci e amministratori hanno incominciato a fare quello che facciamo noi. Vedono che i nostri cittadini premiano la Lega, e ci corrono dietro. La nostra posizione politica è chiara, le alleanze non si rivedono. Sul territorio però possiamo collaborare su molti temi, se il Pd presenta ordini del giorno o emendamenti a favore del territorio siamo disposti ad appoggiarlo. Umberto Bossi ha detto che alle prossime amministrative si farà solo con chi sostiene il federalismo. Non è ancora stato sciolto

Nella foto sopra il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e l’esponente del Pdl Fabrizio Cicchitto. Nell’immagine in basso il leghista Angelo Alessandri

il nodo delle amministrative? Ci interessa prima di tutto che la riforma del federalismo fiscale vada avanti senza intoppi, poi si penserà alle alleanze. C’è ancora tempo per decidere quali, dobbiamo portare a casa il federalismo entro febbraio. È davvero fiducioso? Ci sono tutti i presupposti col governo Berlusconi che ha preso un impegno preciso con noi. Senza contare che anche parte del Pd vuole la riforma: più è condivisa, meglio è. Rimane il nodo della giustizia, sulla quale non c’è ancora l’accordo… È vero che non c’è ancora un accordo definitivo, ma non è un tema da liquidare in fretta. Sono convinto che nei prossimi giorni riusciremo a trovare la sintonia.

mo della crisi per investire sul futuro, diamo la possibilità agli imprenditori di rendere più competitive le proprie imprese, di avere macchinari nuovi per produrre di più e meglio e allo stato chiediamo di fare nuove scuole per i nostri figli, di rimettere a posto i ponti e le strade, fare nuovi edifici pubblici per rendere migliori, più sicure e anche più belle le nostre città. Nel contempo, così facendo creiamo posti di lavoro e rimettiamo in moto il ciclo virtuoso dell’economia indispensabile per combattere veramente la crisi.

Conosciamo già l’obiezione: come fa un Paese come il nostro, con il debito pubblico fra i più alti del mondo, a sostenere un piano di sviluppo così ambizioso senza compromettere definitivamente la propria stabilità finanziaria? I mercati finanziari e anche le autorità monetarie europee valutano la politica economica di un Governo nel medio-lungo periodo. Noi possiamo investire risorse oggi, nel 2009, anche in deficit, se mettiamo in atto riforme che negli anni avvenire creino risparmi duraturi di spesa pubblica. Quali riforme? La prima riguarda le pensioni. L’attuale sistema non ce lo possiamo permettere, anzi non se lo possono permettere i nostri figli. Noi proponiamo un grande patto generazionale: è disposta la mia generazione a lavorare un po’ di più per permettere ai propri figli di avere ammortizzatori sociali degni di questo nome? Poi, la riforma della pubblica amministrazione: questo governo pensa di risolvere il problema dell’inefficienza della pubblica amministrazione con la lotta ai cosiddetti fannulloni. Giusto denunciare chi non lavora, e questo vale nel pubblico e nel privato. È anche giusto però non criminalizzare nessuno; e voglio dire al ministro Brunetta che se oggi i dipendenti pubblici si vergognano del loro mestiere è proprio perché lui li ha additati tutti, fannulloni e virtuosi, alla stregua dei ladri. Il problema dell’efficienza si risolve invece applicando al pubblico standard di efficienza e di efficacia pari a quelli in uso nel settore privato e riportando lo stata e i comuni a fare il proprio mestiere cioè non gli erogatori dei servizi ma i regolatori e i controllori. In terzo luogo, occorre riformare i servizi pubblici locali: finora il governo ha latitato su questo tema. I veti della Lega hanno impedito qualsiasi accenno di riforma. Eppure da questa riforma non solo verrebbe un beneficio alle famiglie in termini di riduzione dei costi ma si libererebbero centinaia di milioni di euro che potrebbero essere impegnati proprio per quelle infrastrutture indispensabili ai nostri territori.

Le risorse vanno cercate con un patto generazionale per riformare le pensioni e nella ridefinizione generale dei servizi pubblici locali

La nostra proposta è molto semplice, ma anche molto coraggiosa. Aggredire la crisi, non subirla. Combatterla, non aiutarla. Occorrono 15 miliardi di euro per ridare fiato alle famiglie, alle imprese e, in sostanza, alla nostra economia tutta. Di questi, 6 miliardi occorre che vadano alle famiglie, 2 alle aziende, anche tramite ammortizzatori sociali, 7 a un grande piano per le infrastrutture. Insomma: non lavorare meno, come propone il ministro Sacconi, ma al contrario lavorare di più, e creando posti di lavoro. Ebbene, cominciamo dalle famiglie: 100 euro al mese per il primo figlio e 50 per ogni altro figlio con un tetto di reddito famigliare di 50.000 euro. Per le aziende, invece, occorre una revisione degli studi settore, la detassazione degli utili reinvestiti in ricerca, sviluppo, sostenibilità ambientale e riammodernamento produttivo. Infine, diamo via a un grande piano di opere pubbliche. Approfittia-


politica

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Alleanze. L’identità del Pd e gli incontri al centro secondo Linda Lanzillotta ROMA. «Se c’è un male oscuro nel Pd, l’importante è non farsi contagiare. Lo dico anche a Enrico Letta: condivido l’idea che ci siano punti di contatto con l’Udc riguardo alla modernizzazione del Paese e una buona sintonia sulla visione del futuro, ma le alleanze si decidono al momento delle elezioni. Adesso il nostro compito è continuare a costruire il partito e a definirne l’identità». Linda Lanzillotta, economista laureata in Lettere, funzionario di alto livello della Camera acquistato alla politica attiva dall’allora sindaco Francesco Rutelli, ha le idee chiare su quali siano le priorità nella casa “democratica”: definire se stessi per cambiare l’Italia. In questo processo, anche se parlare di alleanze è prematuro, «l’Udc è un interlocutore fondamentale», mentre l’asse con Di Pietro «è finito». Partiamo dal Pd. Qualcuno dice: ci sono le correnti ma non il partito. Più che correnti ci sono i vari gruppi che hanno promosso il Pd e si sono fusi creando una cosa nuova: il Pd funziona, se mi passa la citazione americana, se è fusion, cioè se è capace di fondere insieme cose diverse. È un’immagine un po’ idilliaca della situazione. Ma è ovvio che ci siano difficoltà: è già difficile in sé e quando si smette di innovare, di cambiare, emerge quasi in modo inerziale una sorta di riflusso, un ritorno al passato. Il nostro compito è spingere verso l’innovazione declinando nella nostra agenda politica lo scenario generale che Veltroni delineò al Lingotto. Però c’è anche chi vorrebbe tornare a Ds e Dl. È illusorio pensare, come se fossimo nel gioco dell’oca, di poter tornare alle caselle di partenza. In politica, come in molti altri campi della vita, il passato non

«L’Udc è un interlocutore Di Pietro non più» colloquio con Linda Lanzillotta di Marco Palombi

torna. Persone e forze molto diverse lavorano da 15 anni al grande progetto di dare alla politica italiana un strumento moderno per il nuovo secolo. Che sarebbe? Una forza riformista in grado di affrontare una realtà del tutto nuova. Tornare indietro sarebbe tornare a soggetti che abbiamo già giudicato inadeguati. Però Rutelli dice che nel Pd c’è aria di vecchio Pci…

Non siamo nel gioco dell’oca: non possiamo tornare alla casella di partenza. Dobbiamo continuare a guardare in avanti: di nuove intese parleremo solo al momento delle elezioni Come dicevo, quando si allenta la tensione in questo processo di innovazione, può prevalere proprio quel riflusso di cui parlavo. In questo senso è ovvio che visto che gli ex Ds sono la componente più forte e strutturata… Quindi anche il prossimo segretario sarà un ex Ds? Il problema non esiste. Il segretario c’è, è stato eletto dalle primarie e ha un grande compito davanti. Anche se, come dice Bettini, prenderete una «brutta botta» alle Europee? I sondaggi cambiano ogni settimana. Certo se invece di fare proposte per il governo del Paese perdiamo tempo a discutere del dopo elezioni… A proposito, cosa pensa della riforma della legge elettorale? Mi sembra che serva, anche per le europee, una riforma coeren-

te col processo di semplificazione che ha preso il via con la nascita del Pd: se non la faremo partiti piccoli o piccolissimi continueranno ad esistere grazie ai rimborsi elettorali. Il tema delle alleanze è tornato centrale. Lei che opinione ha? Intanto mi lasci dire che le alleanze dipendono dai sistemi elettorali e poi che vanno comunque fatte a partire dai contenuti e anche da una visione complessiva del futuro del Paese, perché altrimenti non si riesce a governare. Detto questo i punti di convergenza con l’Udc sono molto significativi. Io, ad esempio, con Tabacci concordo quasi sempre… E Italia dei Valori? Con loro l’alleanza è ormai sciolta e sono molti i punti che ci dividono, soprattutto sul piano della cultura politica.

Quindi la proposta di Dellai di un nuovo centro alleato col Pd la convince. No se vuol dire una divisione dei compiti con il centro a caccia del voto moderato e il Pd all’ala sinistra, sì se si tratta di condividere un’agenda di modernizzazione del Paese. In questo senso l’Udc è un interlocutore decisivo. Però non accetto l’idea che il Pd non rappresenti l’elettorato moderato. Al contrario, la sua missione è proprio espandersi al centro e se è possibile verso l’elettorato del centrodestra. Se così non fosse sarebbe la fine del Pd. E il ritorno dell’Ulivo invocato da Renato Soru? L’Ulivo per me è il Pd, ne è l’ispirazione, se invece si sta parlando di tornare alla formula dell’Unione non sono assolutamente d’accordo. La discontinuità del Pd, e la sua caratteristica più apprezzata, è stata proprio la coerenza programmatica. Siamo stati logorati, nella percezione del Paese, dall’immagine di coalizione incapace di assumere le decisioni necessarie. Per colpa della sinistra radicale? Certo, per colpa della sinistra conservatrice e anche della frammentazione. Quindi mai più alleanze a sinistra? No, è impossibile. Ora s’è aperto anche il fronte nordista. Mi va bene il Pd del Nord come mi va bene quello del Sud. È corretto, nell’ottica di un partito federale, che si affidi ai livelli locali il compito di rappresentare le specifiche esigenze e peculiarità di un territorio, ma certo il partito nazionale deve poter sintetizzare le complessità nell’interesse del sistema Paese. È la stessa cosa che deve accadere a livello istituzionale: per questo la nostra idea di federalismo è diversa da quella della Lega. Non possiamo non parlare della questione morale. Intanto mi faccia dire che gli amministratori locali sono la rete che tiene insieme il paese, che lega le istituzioni ai cittadini. Poi, senza entrare in casi personali, credo che il problema si sia creato nelle Regioni e nelle grandi città, laddove si concentra gran parte del potere delegato dallo Stato. È una questione politica e serve una risposta politica: dobbiamo rivedere le regole attuali per rendere efficace l’azione di controllo, meno pervasivo lo spoil system e liberalizzare le municipalizzate. Cosa non ha funzionato? Le regole per separare la politica dall’amministrazione. L’uso distorto o l’elusione di queste regole ha causato una degenerazione del sistema, ha portato alla creazione di potentati che influenzano la politica locale e, attraverso quella, la politica nazionale.


economia

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in breve Il presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, ha deciso un ulteriore taglio del costo del denaro portandolo al 2%. Era dal 2003 che l’euro non costava così poco. Ora bisognerà vedere se le banche favoriranno i prestiti oppure continueranno a speculare sui costi

Europa. La Bce ha deciso: il costo del denaro scende al 2%. Si torna ai livelli del 2003

Giù i tassi. E i mutui? di Alessandro D’Amato

ROMA. È il punto più basso raggiunto dal costo del denaro in Eurolandia. E anche se c’è ancora qualche margine – soprattutto se l’inflazione continuerà la sua discesa – più giù di così non si potrà andare. Jean Claude Trichet ha deciso il taglio di altri 50 basis point per i tassi della Banca Centrale Europea (in mattinata si era diffusa la voce di un ribasso più consistente, dello 0,75%), riportando così il livello al 2003, quando l’economia del Vecchio Continente arrancava ma non era ai livelli di oggi. «Le pressioni inflazionistiche sono diminuite – ha dichiarato Trichet nella conferenza stampa di rito –. I tassi fluttueranno fortemente; ci aspettiamo che l’inflazione riprenda a salire nel secondo semestre dell’anno, e l’incertezza resta eccezionalmente alta». E poi il presidente della Bce ha significativamente aggiunto che non vuole trovarsi «in una trappola della liquidità»: una locuzione che fa riferimento agli studi di John Maynard Keynes, e che definisce la situazione che si verifica quando, in corrispondenza di un tasso d’interesse molto basso, la domanda di moneta per fini speculativi diventa illimitata poiché i risparmiatori preferiscono detenere moneta in forma liquida piuttosto che investirla.

anche di diminuire il tasso sui depositi all’1% e quello marginale al 3%. La decisione dovrebbe puntare a incentivare le banche a erogare credito nel circuito economico, piuttosto che lasciare fondi immobilizzati presso la stessa Bce, come già segnalato da Trichet. L’euro ha reagito con un calo rispetto al dollaro, toccando anche un minimo di seduta a 1,3054 dollari. Intanto, a dicembre l’inflazione in Italia è scesa al 2,2%, in netto calo dal 2,7% di novembre secondo l’Istat Lo comunica l’Istat, confermando la stima preliminare resa nota il 5 gennaio. A livello congiunturale, rispetto a novembre i prezzi al consumo sono scesi dello 0,1%. Ma nella media del 2008, l’inflazione si è attestata al 3,3%, il livello più alto dal 1996 quando fu del 4%. «La ridu-

portato i tassi al minimo storico (1,5%), mentre tra i paesi emergenti, dopo i ribassi cinesi, l’India taglia di 1 punto. La Fed li ha azzerati, mentre la Bce dal 2,5% li ridurrà di almeno un altro punto entro la metà 2009 visto il calo dell’inflazione».

Ad ogni modo, gli effetti sulle vite dei cittadini non tarderanno a farsi sentire, con il ribasso dei mutui e degli altri prestiti indicizzati al tasso Bce. Anche perché nel frattempo è in netto calo anche l’Euribor: quello a 3 mesi è sceso di sei punti base, al 2,51%, toccando i minimi da due anni; quello a una settimana, è calato al 2,01% dal 2,13%, e quello a un mese al 2,20% dal 2,28%. Anche se della positività della situazione non è convinto Il Salvagente, rivista delle associazioni di consumatori: «A fronte di tassi più bassi, a salire è lo spread, ossia il ricarico aggiunto da ogni banca e che ne costituisce il guadagno». Anche i mutui indicizzati al tasso Bce non avrebbero funzionato: «Di fronte a un Euribor del tutto incontrollato, quale è stato negli ultimi mesi di delirio finanziario, e relativamente indipendente da Francoforte, la misura introdotta è sembrata la soluzione ideale per sfuggire all’inaffidabilità del tasso interbancario: quello Bce è decisamente più stabile e prevedibile. Peccato che la bella novità si sia dimostrata tutt’altro che conveniente: le poche offerte apparse fino a ora non sono affatto competitive e tassi e rate sono uguali, se non addirittura più alti, rispetto a quelle dei mutui tradizionali ancorati all’Euribor». Costrette ad applicare un tasso più basso, parametrato alla Bce, le banche se la cavano aumentando gli spread fino a livelli da capogiro: 2,152,25%. Soglie impensabili fino a qualche tempo fa quando si aggiravano sotto l’1%.

L’effetto più evidente dovrebbe essere quello di un alleggerimento degli interessi sui prestiti. Ma i consumatori denunciano: le banche speculano sui costi e non si adeguano

E sono anche altri i timori nascosti di Francoforte: la creazione delle condizioni per una futura fiammata inflazionistica, che possono scaturire proprio da tassi troppo bassi. Per questo Trichet ha escluso un ulteriore taglio a febbraio, rinviando a marzo qualunque decisione. Anche se ha sottolineato che quello del 2% non è un limite oltre il quale è impossibile andare: tutto dipenderà dalle condizioni dell’economia tra un bimestre. Che si annunciano tutt’altro che semplici. La Bce ha deciso

zione del tasso di sconto dello 0,50% da parte della Bce e la conferma dell’inflazione di dicembre indicano che si sta procedendo sulla strada del raffreddamento della dinamica dei prezzi, delle tariffe e degli interessi sui crediti e sui mutui immobiliari», ha dichiarato il ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, per il quale questo «rappresenta un sostegno per le imprese e un sollievo per le famiglie, soprattutto quelle a reddito fisso, che vedono crescere il proprio potere d’acquisto rispetto ai mesi scorsi e possono dunque mantenere il proprio stile di vita e di consumo». Diversa l’opinione del Centro studi Confindustria: «Nella riduzione dei tassi Francoforte appare in ritardo. La Banca d’Inghilterra – si legge nel suo bollettino – ha

Mercato dell’auto a picco in Europa Sensibilmente negativa la chiusura d’anno per il mercato automobilistico dell’Europa Occidentale. In tutto il 2008 le vendite sono state 13 milioni 558 mila, l’8,4 per cento in meno rispetto ai 14 milioni 797 mila del 2007. Il calo è generalizzato su tutti i principali mercati: oltre al -13,4 per cento dell’Italia, perdono volumi la Germania (-1,8 per cento), il Regno Unito (-11,3 per cento) e la Spagna (28,1 per cento). Solo la Francia contiene le perdite, segnando lo 0,7 per cento in meno rispetto al 2007. L’Italia ha perso il 13,3 per cento, la Germania il 6,6 per cento, la Francia il 15,8 per cento, il Regno Unito il 21,2 per cento e la Spagna addirittura il 49,9 per cento.

FIni e Schifani a Villari: adesso si dimetta Il presidente della Vigilanza Rai Riccardo Villari ha sospeso la riunione della Commissione per venti minuti averla aperta, prendendo atto della mancanza del numero legale. Alla riunione, infatti, erano presenti solo lo stesso Villari, il segretario Luciano Sardelli e il radicale Marco Beltrandi. In pratica, erano assenti sia gli esponenti del Pdl sia quelli del Pd sia quelli dell’Udc. Immediata la reazione dei Presidenti di Senato e Camera, Renato Schifani e Gianfranco Fini. I presidenti hanno chiesto a Villari, con una lettera, di «mettere a disposizione il Suo incarico, ci rimettiamo alla Sua sensibilità istituzionale».

Caso Battisti: La Russa attacca La «decisione incredibile» di concedere a Cesare Battisti lo status di rifugiato politico è «offensiva e mtte seriamente a repentaglio l’amicizia tra l’Italia e il Brasile»: è l’opnione del ministro della Difesa Ignazio La Russa: «È offensivo dire che è un rifugiato politico perché in Italia potrebbe essere sottoposto a persecuzione: è un uomo che ha ucciso forze dell’ordine e civili ed è stato condannato all’ergastolo da sentenze passate in giudicato».


politica

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Davide e Golia. Tra un mese le Regionali in Sardegna: per i sondaggisti il protagonismo del premier incoraggia le ambizioni di “mister Tiscali”

L’isola dei famosi Berlusconi in campo contro Soru ma rischia di irritare gli isolani e favorire il vip rivale di Errico Novi

ROMA. Ai sondaggisti la materia piace molto. Così tanto da suscitare uno strano riflesso, una specie di gelosia. Nicola Piepoli, per esempio, non si concede a una delle sue solite metafore. Parla del match politico in Sardegna con improvvisa sobrietà. «Una cosa è certa assicura - dal punto di vista dell’opinione pubblica la gara è tra Berlusconi e Soru». Ugo Cappellacci? Una semplice controfigura. «E chi ha più da guadagnare, in questa vicenda, è il governatore uscente. Ha ragione il mio amico Gampaolo Pansa - dice il sondaggista col

prenditori della comunicazione; il confronto ancora più suggestivo e indiretto tra lo stesso premier e l’eterno rivale Carlo De Benedetti, vero sponsor di Renato Soru come alternativa a Walter Veltroni; infine, la posizione indecifrabile del segretario democratico, per un verso impensierito dall’ascesa di mister Tiscali, per l’altro, sospeso a una vittoria che potrebbe alleviare gli affanni del Pd. Il tutto, concentrato in tempi brevissimi: tra un mese arriva il responso. C’è suspence, più che legittima. Gli studiosi delle intenzioni di voto si danno da fare. Luigi Crespi

rio. Silvio sembra preferire la scommessa personale, dai primi accenni di campagna elettorale dà l’impressione di volersi presentare come uno che lì è di casa». Al comizio d’esordio a Cagliari si è rivolto alla platea con il “noi”: «Dobbiamo valorizzare il nostro artigianato, preservare le nostre piante di mirto, ginepro e corbezzolo».

Secondo Crespi è un boomerang: «Ai sardi tutto questo può suonare strano, quasi come una provocazione. Da quelle parti il peggiore dei sardi rischia di vincere contro il migliore dei brian-

Secondo Grauso, talent scout del governatore uscente, «si affrontano due personaggi molto simili tra loro, sbrigativi e accentratori. Renato è l’unico che può misurarsi con Silvio anche a livello nazionale» pizzetto - l’eventuale vittoria in questa sfida tra imprenditori può essere per Soru un trampolino di lancio nazionale».

Tutto è strano e insolito, in questa campagna elettorale per le Regionali sarde che è forse la più veloce degli ultimi anni: Silvio che scende in campo non per conseguire un’incoronazione personale ma per «stroncare nella culla», si dice, un futuro competitor; lo scontro suggestivo, seppure indiretto, tra due im-

tiene riservati i numeri ma dà un’informazione di massima: «La maggioranza dei cittadini sardi sembra orientata verso la coalizione di centrodestra, ma l’indicazione sul governatore non è coerente: Soru è in testa». Cosa dovrebbe fare il Cavaliere? «Impegnarsi perché si sappia che il candidato della coalizione si chiama Cappellacci. Uno sconosciuto rispetto all’avversa-

zoli. E poi così Cappellacci finisce per diventare il povero candidato che ha bisogno di soccorso. L’obiettivo di Silvio dev’essere farlo uscire dall’ombra. Dai primi rilevamenti si direbbe che gli elettori dell’Udc e del Partito sardo d’azione non sappiano nemmeno chi sia lo sfidante di Soru». Un favore che, secondo il sondaggista, il governatore uscente non merita: «È un disastro, non ha saputo dare una prospettiva economica alla Regione. Ma ha architettato una trappola assai sofisticata. Il suo talento è discutibile, ma la sua ambizione è pericolosa». Non dovrebbe essere questo il copione, si lamenta Paolo Figus, direttore dell’Unione sarda: «Vorrei sentir parlare dei rimedi da opporre alla crisi, che in Sardegna si fa

Cappellacci è improponibile, dice lo scrittore Marcello Fois . «E per diventare uno di noi le ville non bastano»

«Il Pdl? Candida solo proconsoli dell’imperatore» colloquio con Marcello Fois di Franco Insardà

ROMA. «Teraccos. Così Silvio Berlusconi vorrebbe i sardi: dei servi pastori». Il giudizio impietoso sul premier è di Marcello Fois, scrittore e autore televisivo, che vive a Bologna, ma è legatissimo a Nuoro, alla Sardegna e conosce molto bene uomini e cose della sua terra. Ma Berlusconi ritiene di essere un sardo a tutti gli effetti. Se consideriamo le ville e gli ettari di terreno che possiede in Sardegna lo è più di me. Ma la sardità non può misurarsi con i metri quadrati che si posseggono, è ben altra cosa. Ugo Capellacci, il candidato del Pdl, è sardo a tutti gli effetti.

Sì, ma chi lo conosce? Il fatto che il presidente del Consiglio dei ministri decida di scendere in campo per sostenere Cappellacci la dice tutta sullo spessore del candidato. Mi viene alla mente l’impero romano con la Sardegna considerata una delle province nella quale si nomina un proconsole. Questa è il quadro che c’è dietro la candidatura di Cappellacci. Non lo ritiene, quindi, all’altezza di poter governare la Sardegna? Assolutamente no. In questi ultimi anni i sardi hanno acquisito una maggiore dignità, Con questo modo di ragionare berlusconiano si ritornerebbe indietro. Cappellacci è un fidatissimo. Mi risulta che il

padre, anch’egli commercialista, curasse gli interessi del Cavaliere agli inizi degli anni Ottanta, così come il sindaco di Olbia è il suo ortopedico. Il sistema è sempre lo stesso. Personaggi di terza, quarta fila che rispondono fedelmente all’imperatore. Sorpreso di questa scelta? Non mi sorprende più nulla. È l’ulteriore dimostrazione di quanto contiamo poco. Noi sardi siamo strambi: siamo affetti dalla sindrome del padrone che ci deriva da secoli di colonialismo. La bontà populista di Berlusconi riesce addirittura a essere credibile. Una visone molto pessimista. Non vede soluzioni?

sentire con più forza rispetto al resto del Paese. L’agricoltura, la pastorizia, l’edilizia: in tutti i settori tradizionali si perdono posti. L’Eni ha deciso di chiudere i propri stabilimenti, le richieste di cassa integrazione straordinaria si moltiplicano. Mi sembra che qualcuno stia tentando di indicare un bersaglio diverso per creare confusione». Qualcuno, cioè Soru. «Puntare su Roma è legittimo. Ma non si può confondere la strategia nazionale con la sfida per la Regione».

Le ombre cinesi di Soru possono davvero provocare uno spostamento di consensi? «No: chi è antiberlusconiano lo è a prescindere, non ha bisogno di certe suggestioni», sostiene il direttore del principale quotidiano sardo (l’altro, La Nuova Sardegna, ha la redazione centrale a Sassari anziché nel capoluogo). Eppure di suggestivo c’è molto, in questa sfida. Si in-


politica porto tra classi dirigenti e territorio evoca quello di molte regioni del Sud: clientele, convenienze, scarso peso del voto d’opinione. Tra le vittime del Soru padre-padrone, come lo definisce Pansa, ci sono i popolari del Pd, pronti a vendicarsi con un ridotto impegno nella campagna elettorale: «È una sfida mortale, soprattutto per Renato». Nella sua rappresentazione Grauso minimizza il ruolo di Cappellacci e scorge anche i rischi per il Cavaliere: «È una situazione simile a quella in cui si infilò D’Alema con le Regionali che segnarono la fine del suo governo». L’attuale premier sembra ben lontano da un simile precipizio, con i numeri che ci sono in Parlamento. Grauso però insiste con la parabola dell’antagoni-

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poggiare Cappellacci, facendo da garante per le persone che non lo conoscono: è un’arma interessante - ha detto il pubblicitario all’agenzia Adn-Kronos qualche giorno fa - d’altronde, tra il Cavaliere e Soru c’è un abisso: il governatore uscente ha problemi a comunicare, non è capace di rapportarsi con il grande pubblico. Gli elettori apprezzano anche chi sa stare sul palcoscenico, il modo in cui parla, i sorrisi. E Soru non sorride mai».

Potrebbe trattarsi di una di quelle differenze che, assicura Grauso, non mettono in discussione l’affinità di fondo: «Berlusconi è più allegro, Soru è più cupo, malinconico. Ma il modo di concepire la politica è lo stesso». Nemmeno gli impren-

Piepoli: «Soru ha tutto da guadagnare». Crespi: «Se non sei sardo e dici di esserlo fai la figura del provocatore». Sullo sfondo l’eterno duello Berlusconi-De Benedetti, sponsor del governatore travede il carattere dello scontro epico. Davide contro Golia, il giovane apprendista che insidia lo stregone dei media, l’uomo che riscatta la sinistra dalle umiliazioni subite con Veltroni. Chi se non Nicola Grauso può descrivere un simile sfondo? È lui, l’inventore della catena free-press di E.polis, ad aver seguito i primi passi del Soru manager. Il temerario governatore è, secondo il suo ex maestro, «l’unico politico italiano che può essere paragonato a Berlusconi. Con tutte le apparenti diversità, Renato è il solo ad avere lo stesso dna, a potersi collocare nel paradigma leaderistico inventato e imposto da Silvio. Sono personaggi spicci, sbrigativi, entrambi votati all’efficienza: ci sono solo loro due, la scena politica italiana è calcata anche da altre figure che però si trovano lì per caso e sono lontane dal modello vincente. Soru ha reso subalterni tutti i

partiti della sinistra. È esattamente la stessa cosa che Berlusconi ha fatto nel centrodestra. Le sembra una somiglianza irrilevante?».

Tutt’altro. Anche se l’annichilimento degli alleati è possibile sempre a condizione della loro inerzia, come insegnano le vicende nazionali. In terra sarda, assicurano i forzisti, il rapAlle Regionali del 15-16 febbraio Renato Soru si ricandida governatore della Sardegna. Contro di lui il Pdl schiera Ugo Capellacci, ma Silvio Berlusconi (a destra) si sta esponendo in prima persona nella campagna elettorale. In basso lo scrittore Marcello Fois

Conto sulla dignità di Alleanza nazionale. Pur essendo di sinistra ho rispetto per chi ha una tradizione politica. An sta cominciando a sentirsi a disagio. Speriamo. Stiamo vivendo una stagione di odio che è vicina alla guerra civile. Prima si era avversari politici, non nemici. Ho nostalgia di quei tempi nei quali governava la Democrazia cristiana. Renato Soru e Silvio Berlusconi: due imprenditori della comunicazione impegnati in politica. Sono simili? Non c’è alcun tipo di legame tra i due, nemmeno metaforico. Al centrodestra piace fare questa equivalenza: anche Soru ha un conflitto d’interessi, dicono, e lo ha risolto non bene. Ma le regole, così insufficienti, sul conflitto d’interesse le ha messe in campo Berlusconi. Soru le ha adottate. È assolutamente singolare, poi, che una delle accuse che Berlusconi muove a Soru sia quella di voler fare il principe. Detta da chi? Da uno che fa l’imperatore…

sta sottovalutato e ingigantito, nella sua pericolosità, proprio dal fattore sorpresa: «Dovesse vincere Soru, Berlusconi si troverebbe davanti al nemico più insidioso che potesse capitargli». Materia per sceneggiatori, non c’è dubbio. O per creativi del marketing come Gavino Sanna: «I due mettono in campo una presenza fisica superiore al normale. Berlusconi si impegna a venire ogni settimana per ap-

In questi giorni Renato Soru viene indicato come un possibile futuro leader del centrosinistra nazionale. Pensa che sia possibile? Se lui volesse farlo sarebbe una novità. Ho con Soru un rapporto in alcuni casi critico, ma devo riconoscere che la sua azione politica è condivisibile. Il suo problema in Sardegna è la sinistra, perché non è organico, non ubbidisce agli ordini della camarilla che fa capo al partito del mattone. Il centrodestra ha fatto il diavolo a quattro per non farlo dimettere. Quindi Soru rimarrà in Sardegna? Se il Pd nazionale non riesce a sistemarsi non c’è spazio per l’elaborazione politica. La Sardegna potrebbe essere un interessante laboratorio. Qualcuno legge la sfida BerlusconiSoru come la partita tra Costa Smeralda e resto della Sardegna. È così? No. Soru interpreta anche la Sardegna della Costa Smeralda. È una griffe.

ditori del settore turistico, naturalmente portati a una maggiore simpatia per il Cavaliere, sottovalutano le incognite dello scontro: «L’impegno del presidente del Consiglio a favore di Cappellacci può innescare meccanismi imprevedibili», dice Nicola Palomba, dirigente della Confindustria regionale. «Perché il governatore uscente potrebbe farsi vanto del fatto che lui non ha bisogno del soccorso di Roma, mentre gli avversari si

Negli ambienti berlusconiani si sostiene che se il Cavaliere si è così esposto significa una sola cosa: è sicuro della vittoria. Spero nell’affermazione di Renato Soru e penso che se Silvio Berlusconi ha deciso di affiancare Ugo Cappellacci è perché ha paura della sconfitta. Il fatto che Pisanu abbia preferito restare a Roma la dice lunga sulla situazione. Da autore di gialli a quali personaggi si potrebbero paragonare Berlusconi e Soru? Su Soru non ho dubbi: ha il classico allure tipico di Sherlock Holmes. Parla poco, ragiona molto ed elabora attentamente il suo pensiero. Per Berlusconi è più complicato. È a metà tra i personaggi dei gialli Mondadori anni Venti, quei principi che vivevano in mondi paralleli, fuori dalla realtà e i dittatori sudamericani. Forse si avvicina al nemico di James Bond: il ricco e malvagio Goldfinger.

aggrappano al mantello del capo. Naturalmente darebbe una lettura di comodo, perché anche il vertice nazionale del Pd si batte con dispiego di energie in favore di Soru. Credo che le teorie secondo cui Veltroni guarderebbe con preoccupazione all’eventuale affermazione dell’attuale presidente sardo siano infondate». Palomba non nasconde i vantaggi che un’elezione di Cappellacci potrebbe assicurare agli imprenditori della regione: «Lo dico con spirito imparziale, apolitico: quando c’è coincidenza tra il governo nazionale e quello locale i benefici si sentono. Nel caso specifico è facile immaginare la freddezza di rapporti che si determinerebbe tra Cagliarti e Roma, vista la caricatura da invasore che Soru proietta su Berlusconi». Secondo il responsabile del settore Turismo per l’Associazione industriali della Sardegna meridionale (sarà difficile da capire nel Continente, ma nell’Isola le differenze di latitudine contano eccome), «da noi le letture di comodo sono all’ordine del giorno: basti pensare al pretesto ambientalista che impone di costruire ad almeno due chilometri dalla costa. È una forzatura che in realtà favorisce l’abusivismo, perché rende meno facilmente controllabile l’ampliamento improvviso di certe strutture alberghiere».

L ’urbanistica è un altro punto critico dell’amministrazione Soru: è l’accusa di parte della Confindustria sarda. Il tema è uno di quelli che dovrebbero alimentare l’immagine del Berlusconi liberatore da tutti i punti di vista: dal centralismo semi-monarchico di Soru, dalle consuetudini corporativistiche della politica locale «che investe poco sul turismo per preservare i privilegi di altre categorie, per quanto queste siano meno capaci di produrre ricchezza». Palomba, che pure fa l’albergatore come tanti amici di Silvio della costa settentrionale, guarda con rassegnato realismo anche a un eventuale ribaltone: «Certi schemi resistono a prescindere dall’estrazione politica del governatore». Si concede una sola invocazione: «Che ci sia omogeneità tra il presidente eletto e la maggioranza in Consiglio. Diversamente, la pianificazione sarebbe ancora più problematica». Eppure è questo lo scenario che prefigurano i sondaggi: vince Soru grazie al voto disgiunto. Finisse così, la drammaticità di questo particolare turno elettorale verrebbe assai attenuata: il possibile antagonista di Berlusconi non coltiverebbe più l’assalto al cielo di Roma. O forse lo rinvierebbe fino al giorno in cui non sarà più costretto a giocarsela con il Cavaliere.


panorama

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Rumors. Pressing del ministro dell’Economia per dimezzare le competenze del collega

Tremonti toglie l’energia a Scajola? di Francesco Capozza segue dalla prima Non è un mistero per nessuno che all’interno di Forza Italia ci siano varie correnti contrapposte. E non è nemmeno un mistero che Claudio Scajola e Giulio Tremonti non “militino”, se così possiamo dire, nella

fese del ministro dell’Economia. È perciò notoria - almeno negli ambienti forzisti la reciproca antipatia tra il fiscalista di Sondrio e l’ex dirigente dell’ Inpdap di Imperia. Tuttavia, che il primo volesse mettere i bastoni tra le ruote al secondo, ed in modo così dirompente, è una novità anche per i più informati sulle contrapposizioni a via dell’Umiltà. Il piano del titolare dell’Economia, stando a quanto ri-

Non l’ha mai amato, memore anche della sua freddezza nei giorni in cui fu defenestrato da via XX settembre stessa corrente azzurra. I due non si piacciono e non si sono mai piaciuti. Per capirlo basta citare, tra i tanti, un fatto accaduto nel recente passato. Quando Tremonti nel 2004 fu costretto a dimettersi dal governo Berlusconi II a causa del duro scontro con l’allora vice premier Fini, Scajola fu tra i pochi all’interno di Forza Italia che non prese le di-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

ferito a liberal da una fonte vicina a via XX settembre, sarebbe degno del migliore Richelieu.

Tremonti, infatti, starebbe lavorando ad uno “spacchettamento” delle deleghe del ministero per lo Sviluppo economico e alla nascita di un dicastero, magari con portafoglio, dell’Energia. Non solo. Per rendere più appetibile l’ipotesi al presidente del Consiglio, Giulietto da Sondrio - che ben conosce i punti deboli del Cavaliere - avrebbe proposto di assegnare quel dicastero al senatore forzista Guido Possa. In pratica, come dire ad un bambino che se fa il bravo lo si porta al luna park e magari gli si regala pure dello zucchero

filato. Noto, infatti, è il legame affettivo che lega Berlusconi al senatore milanese. Quasi coetanei (Possa è del ’37, Berlusconi del ’36), i due hanno condiviso assieme una vita intera, da quando, poco più che ventenni, vendevano le prime scope elettriche in circolazione in Italia. L’amicizia si è poi accresciuta in Fininvest, dove il Cavaliere volle Possa prima come responsabile della segreteria di presidenza e poi come direttore del settore Sviluppo, e si è ulteriormente consolidata negli anni della politica e di governo.

In più, avrebbe sussurrato Tremonti all’orecchio di Silvio, Guido Possa avrebbe anche le competenze giuste per sostenere un così delicato incarico: è, infatti, laureato in Ingegneria nucleare al Politecnico di Milano. Come dire: l’uomo giusto al posto giusto. E al premier l’idea non dispiacerebbe affatto. Almeno due circostanze, tuttavia, potrebbero far titubare il capo del governo. Il fatto che a subire un torto sarebbe uno degli uomini più potenti in Forza Italia (elettoralmente parlando) in un Nord Ovest dove la Lega è sempre più forte, e le reticenze da parte di vari ambienti del Pdl (An in primis) ad un rimpasto di governo. In un momento come questo, però, in cui Berlusconi ha diversi sassolini nella scarpa da togliersi nei confronti di Fini, l’operazione proposta da Tremonti risulta ancora più allettante.

Il sindaco di Bologna segna un autogol e spiana la strada al centrodestra

La “delirium tax” di Tex (Cofferati) olo l’altro giorno parlavamo delle tasse che sarebbero dovute andare giù e invece stanno sempre lì e ora giunge questa notizia straordinaria: a Bologna c’è la “delirium tax”. Cos’è? Il Comune, alla cui guida c’è il celebre Tex Willer alias Sergio Cofferati, ha deciso di tassare ogni cosa che i negozianti espongono all’esterno e che può essere interpretata come una forma di pubblicità. Esempio: c’è uno zerbino all’ingresso del negozio che ha delle iniziali di non si sa bene cosa? Tassato. C’è un menù con l’indicazione dei prezzi? Tassato. Ci sono le carte di credito esposte per far sapere che lì si paga anche con quelle carte di credito? Tassate. Fuori dai bar ci sono quei classici pannelli con le immagini dei gelati e l’indicazione dei prezzi? Tassate. Un delirio, appunto.

S

Ma siccome c’è della follia ma anche del metodo - ed è questa la cosa che più fa paura e rabbia - la tassa su zerbini, figurine, menù applica un decreto legislativo che risale al 1993 e il provvedimento comunale è retroattivo. Che è un concetto tutto italiano. Che meraviglia delle meraviglie. La parola “retroattivo” significa “attivo dietro”. Un controsenso. L’attività per definizione ci spinge nel futuro, si fa nel futuro, si svolge in avanti. La retroattività, invece, svolge un’atti-

vità nel passato: ritorna indietro, riavvolge la pellicola della vostra vita per poi nuovamente proiettarla. Tassarla. Quando si tratta di tassare non si fanno distinzioni. Resta da capire come è possibile stabilire che lo zerbino era lì anche due o tre anni fa. I commercianti bolognesi sono in rivolta. Come non essere dalla loro parte? Come si può decidere di tassare menù, zerbini, figurine e pretendere anche che il provvedimento valga per gli anni passati? L’ex sindaco di il Bologna, Guazza, pare che si voglia nuovamente candidare. Il Guazzaloca è uomo di buon senso e una tassa delirante come questa non l’avrebbe mai imposta. E’ vero che Tex ha già annunciato che a fine mandato si ritirerà a Genova, «perché non posso fare insieme e bene sia il sindaco a Bologna sia il papà a Genova», ma un autogol del genere lo poteva anche evitare. Ben 4.300 sanzioni in pochi giorni per oltre un milione di

euro di multe. Avanti Guazzaloca. Ma sulla tassa del delirio non si è detto tutto. Perché quando si tassa bisognerebbe sempre adottare il principio della “tassa giusta”. Vale a dire: che cosa si tassa e perché. Ora, il provvedimento bolognese è un’imposta su cose esposte fuori dai negozi che, in alcuni casi, potrebbero essere anche “fuori luogo”. A volte per dirla bene - i negozianti portano il loro esercizio fuori dal negozio, invadono la strada, la piazza, il marciapiede creando confusione e disagio. Ma questa è una questione di ordine più che di fisco. Il comune dovrebbe comportarsi in modo diverso: decoro, pulizia, ordine. La tassa qui non c’entra niente. Anzi, ha l’effetto di regolarizzare ciò che non è regolare. Questo è lo stile di molte cose italiane: il condono, la sanatoria, la regolarizzazione. L’ingiusto diventa giusto con un tocco di bacchetta magica. Così la funzione della legge viene snaturata

perché rende legale l’illegale, giusto l’ingiusto. Un condono può essere un’eccezione, ma troppo spesso in Italia diventa la “norma”. E quando si supera la soglia del buonsenso è difficile, per non dire impossibile, conservare alla legge un significato di equilibrio e giustizia.

È giusto avere decoro fuori dai negozi, ma se invece di far rispettare ordine e pulizia si ricorre alle tasse si giunge alla “delirium tax”: si tassa uno zerbino che il gioielliere ha messo all’ingresso del suo negozio in piazza Maggiore proprio per dare pulizia e decoro. Quando Guazzaloca divenne sindaco di Bologna in molti si meravigliarono. Ma non i bolognesi, che pure avevano sempre votato per i loro sindaci di sinistra. Guazzaloca aveva una sola idea, ma grande: amministrare la città conoscendo i problemi della città. Dovrebbe essere il principio base, invece nella maggioranza dei casi è un lusso. Ma prima della conoscenza c’è la volontà del governo: spesso sindaci e amministratori non governano perché si muovono in un “mondo parallelo” a quello reale. Il Guazzaloca non veniva dal mondo dei partiti, ma direttamente dalla società bolognese e sapeva che quella società aveva il bisogno di essere governata a partire dai problemi e non dai partiti. Forse Guazzaloca ritornerà.


panorama

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Polemiche. Le condizioni economiche generali di fatto hanno modificato il rapporto tra i cittadini e il lavoro

La riforma delle pensioni risolta dalla crisi di Gianfranco Polillo icono, ed è vero, che la crisi acceleri tutti i processi economici e sociali. La crisi del 1983 portò alla rottura dell’egemonia democristiana. Quella del 1992 alla fine della prima Repubblica. IN entrambi i casi l’opinione pubblica si mostrò più avanti della politica. Non sappiamo se il 2009 sarà foriero di un processo analogo. Quello che è, invece, evidente fin da ora è il crollo di antichi miti. Colossi dai piedi d’argilla che, improvvisamente, come nel caso della previdenza, crollano sotto i colpi dell’incertezza e della risposta che l’intelligenza diffusa della gente autonomamente promuove.

D

Fenomeni diffusi, fenomeni di massa che almeno una parte della politica non riesce a vedere. Non coglie che, nel tunnel della crisi, il problema del pensionamento anticipato, croce e delizia della società italiana, non esiste più. E non esiste perché sono i lavoratori a rifiutare di ricorrere ad un istituto che, inevitabilmente, li penalizza. Negli anni passati, specialmen-

Non ci sono può seconde occupazioni, ecco perché la proposta del ministro Brunetta di equiparare l’età di uomini e donne va incontro alla realtà te nelle aree del centro nord, andare in pensione a 58 anni significava solo incassare il Tfr, godere di una pensione superiore all’entità dei contributi versati, e con questo piccolo capitale alle spalle tentare l’avventura di un nuovo lavoro. Possibilmente in

nero: visto il saccheggio fiscale a favore di uno Stato sprecone. Oggi non è più così. Le prospettive di una seconda occupazione si sono quasi esaurite. Il mercato del lavoro è divenuto fin troppo flessibile. Cresce la cassa integrazione e si ingrossa l’e-

sercito dei precari disoccupati. Le aziende sono divenute più guardinghe. Dalle banche possono ottenere credito, quando queste ultime allargano i cordoni, solo se presentano strutture consolidate, in grado di garantire adeguati ritorni. Insomma la richiesta di lavori occasionali e in deroga alle disposizioni fiscali, se non è evaporata completamente si è, comunque, enormemente ridotta. In queste condizioni, la speranza di un nuovo lavoro è divenuta una chimera. La gente ne ha avuto consapevolezza e si aggrappa, quando ce l’ha, al proprio lavoro. Del resto, perché dovrebbe scegliere la strada più antica? Dove dovrebbe investire i soldi della liquidazione? In banca? Per avere un rendimento che è inferiore al tasso di inflazione. In borsa? Per subire continui rovesci? Nell’acquisto di una casa? Non c’è proporzione tra il valore dell’affitto e il costo dell’immobile. Meglio quindi rimanere in servizio. Si godrà di un reddito maggiore – 20/30 per cento in più – e dalla sicurezza che è garantita da questa forma di socializzazione.

Pony Pdl. Il ministro della Difesa costretto a fare da postino tra il premier e il presidente della Camera

La Russa suona sempre due volte di Francesco Paolo Scotti

ROMA. Neanche il tempo di tornare da una visita ufficiale in Libano che il ministro della Difesa si è trovato a dover gestire una situazione bizzarra ancorché imbarazzante. È mercoledì pomeriggio e l’umore del Presidente del Consiglio è più nero del solito. Ancora risuonano nelle sue orecchie le parole pronunciate il giorno prima da Gianfranco Fini («in tanti anni di vita parlamentare ho avuto modo di ascoltare molteplici ragioni per le quali il governo, avvalendosi di una sua esplicita prerogativa, ha deciso di porre la questione di fiducia. È la prima volta, però, che mi capita di sentire porre la questione di fiducia da parte del rappresentante del governo in onore del lavoro della commissione e del parlamento»), e la notizia che il numero uno di Montecitorio avrebbe avuto in mattinata un incontro col capo dello Stato lo ha ulteriormente infastidito.

che il giorno in cui alla Camera, chi non era in Aula, ha assistito ad un siparietto degno della migliore commedia all’italiana. Nell’attesa di assistere alle dichiarazioni di voto sulla fiducia posta sul pacchetto “anticrisi”, il presidente del Consiglio ha deciso di tenere alcuni incontri non a palazzo Chigi, e nemmeno a Grazioli, ma nell’ufficio riservato al capo del governo a palazzo Montecitorio,

so di circostanza e poi Gianfranco Fini scende lo scalone per andare a presiedere l’Aula.

A metà pomeriggio, dal presidente del Consiglio arriva Ignazio La Russa, appena tornato dal Libano si diceva. Spiega a Silvio Berlusconi che nel Pdl ci sono delle «fibrillazioni» che derivano dal fatto che «ci sono due modi diversi di concepire la vita di partito. Ci vuole - continua il reggente di An - un punto di sintesi tra come la intendete voi e come, invece, siamo abituati a vederla noi». Il ministro, poi, si congeda dal premier. Due rampe di scale ed è da Fini, tornato nel frattempo nel suo ufficio grazie alla “turnazione” alla presidenza dell’Aula. Riferisce. Si congeda dal presidente della Camera. Scende le scale ed è nuovamente dal Cavaliere, che intanto ha fatto il suo ingresso nell’emiciclo (quindi i due, ancora una volta, non si sono nemmeno incrociati). Riferisce che Fini prende atto delle sue dichiarazioni e poi si lancia in un consiglio personale: «Sarebbe auspicabile - spiega La Russa - che tu e Fini vi riparlaste». Di fare il “postino”, evidentemente, ne ha piene le scatole.

Abbiamo due modi diversi di concepire la vita di partito. Ci vuole - dice a Berlusconi - una sintesi tra come la intendete voi e come, invece, la vediamo noi

Logico, infatti, che Napolitano abbia apprezzato le parole di Fini e questo, benché scontato, ha irritato non poco il Cavaliere. Ma mercoledì è an-

in un corridoio accanto all’emiciclo. Riceve gente, firma carte, ascolta il fidato e onnipresente Bonaiuti, telefona. A dividere i due amici/nemici, il premier ed il presidente della Camera, c’è soltanto un piano. La terza carica dello Stato è a quello superiore, nell’ala presidenziale del Palazzo, nel suo ufficio di rappresentanza. Sbriga pratiche e ogni tanto sbircia le agenzie, sempre aperte sul suo computer. Ad un certo punto appare sullo schermo quella in cui il premier elogia il presidente della Camera: «è super partes», dice. Un sorri-

C o m po rt a me nt i r a z i o na l i , quindi. Che la politica non coglie. La Lega resta avviluppata nei suoi pregiudizi. Pensa ancora al Nord di una volta, senza vedere che questa realtà sta cambiando pelle. Il sindacato, indebolito dal decorso della stessa crisi, si aggrappa, come un naufrago, alla zattera delle sue antiche certezze, condizionando lo stesso Ministro del lavoro lungo una linea di inutile resistenza. Solo Renato Brunetta, con la sua tipica effervescenza, ha colto l’essenza del problema, proponendo l’equiparazione tra uomini e donne. E la fine di un arcaico privilegio. Se la sua proposta sarà accolta, il limite d’età per il pensionamento, come avviene in tutti i paesi europei, sarà di 65 anni. Un sasso in piccionaia che sta determinando una piccola slavina. Alla Camera, proprio ieri, Pier Ferdinando Casini ha riproposto il tema della grande riforma. Con lui ha consentito Fabrizio Cicchitto. Forse è presto per parlare di una nuova fase. Ma qualcosa si sta muovendo.


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Come è nata la Costituzione, quasi monarchica, su cui il 20 gennaio giurerà Barack Obama. Un “prodig

Sua Altezza, il Presidente di Ettore Cinnella

arack Obama s’accinge a giurare fedeltà ad una costituzione, quella degli Stati Uniti d’America, che è in vigore da oltre due secoli e che, nel corso del tempo, pur ritoccata e arricchita via via d’una serie di emendamenti, è rimasta inalterata nella sua architettura fondamentale. Si tratta d’un vero prodigio storico, che non ha paragoni nelle turbolentissime vicende costituzionali del mondo occidentale nell’Otto e Novecento. Eppure, intricatissime e multiformi sono le scaturigini di quel testo semplice e conciso, che ha resistito all’usura delle gigantesche trasformazioni economico-sociali e dell’enorme espansione territoriale che le tredici colonie fondatrici degli Usa conobbero dopo l’indipendenza. Val quindi la pena riflettere su come sia nata la costituzione americana e su quali siano le sue radici, specie quelle meno note e oggi pressoché dimenticate dalla quasi totalità dei cittadini statunitensi (ed europei).

B

Che la rivoluzione americana sia stata una “rivoluzione costituzionale” (tesa ad instaurare la supremazia delle regole e delle leggi e, quindi, diversa da quella sociale e violenta esplosa in Francia pochi anni dopo), è stato detto e argomentato da studiosi di grande autorevolezza (da Charles H. McIlwain a Nicola Matteucci). In verità, sin dai tempi dei primi insediamenti nel XVII secolo e della concessione delle carte coloniali, le comunità inglesi emigrate nel nuovo continente basarono la loro convivenza civile su documenti scritti i quali, sebbene concessi dal sovrano, divennero il pilastro giuridico dei territori d’oltreoceano gettandovi il seme della libertà. Pur rette da un governatore di nomina regia, le colonie avevano assemblee legislative elettive, che funsero da palestre costituzionali e democratiche. Antiche e solide, anteriori cioè alla penetrazione del pensiero illuministico, sarebbero le radici dei mutamenti nel costume politico e nella mentalità giuridica, che verranno poi sanciti dalla guerra d’indipendenza e dal definitivo distacco delle colonie dalla madrepatria. La maggior conquista della rivoluzione america si racchiuderebbe, dunque, nel primato delle norme costituzionali e delle leggi, fissate per iscritto e superiori alle passioni e agl’interessi dei singoli cittadini. Il diritto, e non la forza, fu il principio ispiratore della vita interna della nuova confederazione statale sorta dalla rivoluzione. Ciò è senz’altro vero, ma non ren-

Oltre all’apporto essenziale del pensiero europeo, fu il diritto (e non la forza) il principio ispiratore della vita interna della nuova confederazione statale sorta dalla rivoluzione de ragione di altri aspetti e fenomeni rilevanti della vita politica e intellettuale nelle colonie nordamericane. Non è lecito negare o sminuire l’apporto essenziale del pensiero europeo e dei classici dell’illuminismo.

I legami, culturali e sentimentali, tra le due sponde dell’Atlantico erano allora saldissimi; anzi, malgrado le colossali distanze coperte a fatica dai mezzi di trasporto dell’epoca, essi apparivano assai più stretti di quel che sarebbero stati in epoche successive, quando le pulsioni isolazionistiche negli Usa e i furori antiamericani in Europa avrebbero tante volte offuscato nell’uno e nell’altro mondo la percezione delle comuni radici. Il rinnovamento del pensiero politico nel vecchio continente varcò l’oceano propagandosi nelle colonie britanniche. Non solo Montesquieu, ma anche Rousseau e gli altri filosofi radicali venivano letti

e commentati sull’altra sponda dell’Atlantico, contribuendo a plasmare la visione politica degl’intellettuali americani.

Il culto della tradizione repubblicana, che era uno degli elementi centrali del nuovo pensiero politico, si nutriva bensì d’esempi contemporanei (dalla rivoluzione di Cromwell ai Paesi Bassi e agli altri Stati repubblicani), ma ancor più era pervasa di reminiscenze classiche e d’ammirazione per Atene, Sparta e Roma (specie per quest’ultima). Può forse riuscire stupefacente per noi, avvezzi a considerare l’antichità classica oggetto di studi eruditi e seriosi, concepire un’epoca della storia moderna in cui la profonda conoscenza dei testi greci e latini formava la base d’una cultura non scolastica e uggiosa, ma viva e tutt’altro che avulsa dai temi e problemi dell’attualità.

Nel Settecento gl’ideali repubblicani, corroborati dalla lettura degli autori latini e greci, permeavano la riflessione politica e influivano altresì sull’elaborazione di progetti tesi al trionfo delle virtù civiche tipiche (così si riteneva sulle due sponde dell’oceano) delle città-Stato dell’antichità. In America il culto di Roma e di Sparta finì per intrecciarsi con la radicata consapevolezza che gli agricoltori d’oltreoceano, liberi proprietari, fossero i più adatti a praticare le virtù necessarie per un buon governo repubblicano. Come ha scritto lo storico statunitense Gordon S. Wood, «nell’eccitazione del movimento rivoluzionario, i valori repubblicani classici si fusero con la tradizionale immagine degli americani, gente semplice amante della libertà e dell’uguaglianza, formando una delle ideologie più coerenti e potenti che il mondo occidentale avesse mai prodotto».

La conoscenza approfondita degli autori classici e del mondo antico era, certo, appannaggio dei ceti colti e istruiti, i quali leggevano senza difficoltà il latino e il greco. Ma gli scrittori più celebri erano noti, in versione inglese, ad un va-

sto pubblico, grazie anche all’elevato grado d’alfabetizzazione dei coloni americani. Nell’Autobiografia Benjamin Franklin raccontò come nella piccola biblioteca di suo padre Josiah, un religiosissimo artigiano inglese trasferitosi a Boston nel 1682, figurassero anche le Vite di Plutarco, ch’egli adolescente lesse a lungo; e confessò di pensare «tuttora», in tarda età, «che quel tempo sia stato speso con grande profitto». Neppure nel bagaglio culturale dei ceti umili mancavano i più celebri autori dell’antichità, che erano divorati assieme alla Bibbia e alla vasta letteratura d’argomento religioso, fiorita in Inghilterra e in America sul terreno delle vivaci dispute dell’epoca. L’autodidatta Franklin, il quale a dieci anni aveva dovuto interrompere gli studi per lavorare nella bottega del padre, da grande volle imparare il latino, malgrado i suoi tanti impegni d’imprenditore, uomo politico e scienziato.

Che la società americana fosse assai meno gerarchica di quella europea e che ben minori vi si presentassero le disparità economiche, ebbero modo di constatarlo ancor prima di Tocqueville i viag-


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gio storico” che ha resistito oltre due secoli

pale contributo». Il vento politico era mutato, anche sotto l’impressione suscitata dalla rivolta degli agricoltori impoveriti del Massachusetts (esplosa nel 1786 e soffocata con le armi). Nel nuovo clima di diffidenza verso l’illimitata iniziativa popolare, s’impose una soluzione più conservatrice alla quale, ancora una volta, contribuirono le reminiscenze classiche. Alla maggioranza dei delegati parve opportuno fondare un sistema costituzionale che sancisse, oltre all’indipendenza della magistratura, le prerogative dell’esecutivo (il presidente) e che affiancasse un autorevole corpo elitario (il senato) all’assemblea legislativa popolare (la camera dei rappresentanti). Insomma, pur senza rinunciare ai nuovi princìpi del potere costituente del popolo, molti ora propendevano per un sistema misto, contraddistinto da una sorta d’equilibrio e di sintesi tra differenti organi di potere.

americano Quando, nel 1789, si riunì il primo congresso degli Usa e si insediò il primo presidente George Washington, il desiderio di conferire un’autorevolezza quasi monarchica al capo dell’esecutivo spinse alcuni senatori a suggerire per il presidente il titolo ufficiale di Sua Altezza. Ma la proposta fu presto abbandonata, perché stridente con il comune sentire repubblicano

giatori più sagaci venuti dal vecchio continente. Un sacerdote svedese, che visitò il New Jersey nel 1770, notò che qui i contadini agiati avevano un tenore di vita paragonabile a quello della piccola nobiltà del suo paese. Lo spirito d’indipendenza e il sentimento di dignità degli americani affondavano le proprie radici, oltre che nella vastità di terre a disposizione degli agricoltori, nell’ampia autonomia di cui le colonie godevano sin dalla nascita e che fu messa seriamente in pericolo solo intorno alla metà del XVIII (provocando, come sappiamo, la rivolta contro l’Inghilterra). Una siffatta mentalità, coniugandosi con le idee illuministiche provenienti dalla vecchia Europa, portò alla rivoluzione e alla guerra con la madrepatria.

Sebbene qualcuno abbia persino negato il carattere rivoluzionario della dichiarazione d’indipendenza (1776) e dei successivi avvenimenti, non v’è dubbio che gli eventi d’America siano stati il prologo dei successivi sconvolgimenti in Europa (i quali, peraltro, avrebbero poi preso una piega differente dal modello originario). Le idee sul patto sociale e sulla sovranità

popolare, da tempo circolanti sulle due sponde dell’oceano, ebbero modo di concretarsi e d’affermarsi, per la prima volta, proprio durante la rivoluzione americana. Per quanto sia importante l’indagine sulle radici e sulle premesse della rivoluzione, non bisogna dimenticare che gli eventi del 17761777 rappresentarono l’autentico e originale laboratorio della costituzione. Fu allora, dopo l’inizio del conflitto armato con la Gran Bretagna, che le colonie ribelli fissarono in nuovi documenti scritti le regole della convivenza democratica al proprio interno, gettando alle ortiche i vecchi statuti concessi dai re d’Inghilterra. Pur diverse tra loro in dettagli operativi, le nuove carte costituzionali elaborate dagli Stati in lotta per l’indipendenza proclamavano la sovranità del popolo, la separazione dei poteri, il ruolo essenziale dell’assemblea legislativa elettiva.Ve n’erano di assai radicali, come quella della Pennsylvania (somigliante, per certi versi, alla costituzione giacobina del 1793), e di più moderate, come la carta approvata nel 1780 dai coloni del Massachusetts (che fungerà poi da modello per la costituzione finale degli

Il 17 settembre del 1787, Benjamin Franklin chiuse il dibattito a Filadelfia esortando i delegati al voto unanime e dichiarando: «Io aderisco a questa Costituzione con tutti i suoi difetti, se pur vi sono» Stati Uniti). Ma tutte erano accomunate dal proposito di fissare norme chiare e nuove, che traessero legittimità dalla volontà del popolo costituente.

Dopo che, nel 1783, le tredici colonie (nel frattempo unitesi in una confederazione di Stati) videro riconosciuta internazionalmente la loro indipendenza, si posero il problema della creazione d’un governo federale e d’una costituzione comune. Si sviluppò allora il lungo e tormentato dibattito tra i federalisti (come erano chiamati i fautori d’una struttura unitaria, che garantisse comunque una certa autonomia ai singoli Stati) e gli antifederalisti, gelosi dell’indipendenza di cui ciascuna colonia godeva, di fatto, sin dai tempi della sua fondazione. Per risolvere le questioni ancora aperte, fu deciso di convocare a Filadelfia una sorta d’assemblea costituente, che elaborasse la carta fondamentale valida per il futuro Stato (federale o confederale). Conosciamo nei dettagli le posizioni emerse alla convenzione di Filadelfia, riunitasi dal maggio al settembre 1787, grazie al diario che James Madison (l’estensore del testo finale della costituzione) tenne durante i lavori. I delegati s’impegnarono in una discussione approfondita e amplissima, che spaziava dalla riflessione sulle più recenti vicende politiche alla rievocazione dei fatti salienti della storia antica e medievale. Numerosi furono, ancora una volta, i riferimenti all’esperienza politicocostituzionale di Sparta e di Ro-

ma, giudicate modelli non da imitare pedissequamente ma da studiare con attenzione. Tra i problemi dibattuti, ci fu anche quello che noi chiameremmo conflitto d’interessi. Vi accennò, fra gli altri, Franklin, il quale ricordò l’esperienza storica della Pennsylvania, ch’era stata una colonia di proprietà sin da quando (1681) il quacchero William Penn l’aveva ottenuta in concessione dal re d’Inghilterra Carlo II, trasmettendola poi in eredità ai suoi discendenti. Pur mostrandosi magnanimi e accordando ai coloni là insediatisi un’assemblea elettiva, i Proprietari (Proprietors) consideravano quell’immenso territorio una cosa personale; e i governatori da loro nominati entravano spesso in conflitto con il corpo legislativo, esigendo per sé esenzioni fiscali e regalie ed impedendo che venissero tassati i beni dei padroni della colonia. Fu così che, tra gli americani, si radicò l’idea che i detentori d’enormi ricchezze non dovessero mai ricoprire importanti cariche pubbliche.

Dalla lettura del resoconto di Madison emerge un altro aspetto essenziale del dibattito, al quale val la pena accennare. Non pochi delegati espressero preoccupazione e timore per il sempre crescente potere che, in molte ex colonie, le assemblee legislative popolari andavano acquistando ai danni dell’esecutivo. Franklin tentò invano di elogiare «la virtù e il senso civico del nostro popolo minuto, che ne ha fatto sfoggio in larga misura durante la guerra, al cui esito favorevole esso ha dato il princi-

Il “governo misto” britannico (re, camera dei lords e camera dei comuni) suscitava l’ammirazione di alcuni delegati presenti a Filadelfia. Ma ancor maggiore era il fascino esercitato dalla“costituzione mista” (miktè politeia), della quale aveva parlato lo storico greco Polibio nella sua monumentale indagine sull’ascesa di Roma all’epoca delle guerre puniche. Secondo la ricostruzione polibiana, la repubblica romana doveva la stabilità interna e l’espansione esterna alla sua peculiare forma di governo, che contemperava il principio monarchico (incarnato dai due consoli), quello aristocratico (impersonato dal senato) e quello democratico (rappresentato dai comizi popolari). Alla convenzione di Filadelfia trionfò il principio federalista d’una formazione statale, che non fosse un mero conglomerato di Stati indipendenti (ciò sarà poi sancito, sul piano linguistico, dall’obbligo di far seguire alla denominazione ufficiale United States of America il verbo al singolare); e vinsero altresì coloro i quali preferivano un forte esecutivo, indipendente dai corpi legislativi, e un senato prestigioso, ben distinto dalla camera bassa. Quando, nel 1789, si riunì il primo congresso degli Usa e si insediò il primo presidente George Washington, il desiderio di conferire un’autorevolezza quasi monarchica al capo dell’esecutivo spinse alcuni senatori a suggerire per il presidente il titolo ufficiale di Sua Altezza (ma la proposta fu presto abbandonata, perché stridente con il comune sentire repubblicano). Nacque così, a conclusione d’una lunga e multiforme esperienza storica e d’una accesissima discussione politica, la costituzione degli Usa. Anche Franklin (il quale avrebbe preferito una carta diversa, più attenta ai bisogni del mondo popolare), il 17 settembre 1787 aveva chiuso i dibattiti della convenzione di Filadelfia esortando i delegati al voto unanime e dichiarando: «io aderisco a questa Costituzione con tutti i suoi difetti, se pur vi sono».


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mondo

Guerra a Gaza. Colpita la sede delle Nazioni Unite nella Striscia, Barak si scusa Abu Mazen: ore cruciali per la tregua. Ucciso ministro interni di Hamas

Tensione Israele-Onu Il Vaticano attacca l’uso strumentale dei civili da parte dei terroristi, ma chiede di far passare gli aiuti di Pierre Chiartano na giornata da dimenticare, quella di ieri a Gaza, per i cosiddetti danni collaterali, causati principalmente dalla volontà di Hamas di portare gli scontri in mezzo alla popolazione. Anche il Vaticano ha espresso lo sdegno per un conflitto in cui i civili vengono considerati «scudi umani per ottenere risultati politici e militari». Lo ha sottolineato l’arcivescovo Celestino Migliore, ieri mattina, durante un intervento al Palazzo di Vetro a New York. I combattimenti si sono intensificati nel tentativo di snidare le ultime cellule dei miliziani di Hamas - che continuano col lancio di razzi verso Israele - nascosti in moschee e altri edifici ad uso civile.

U

Nuova offensiva su Gaza city, Rafah e Khan Yunis a sud. Sul terreno sono sempre più numerose le postazioni di Hamas abbandonate, segno che lo scontro si concentrerà nelle zone urbane. Ucciso il ministro dell’Interno di Hamas, Said Siam, uno dei principali leader del movimento islamico nella striscia. Scoperto e distrutto, da unità dei paracadutisti, un tunnel la cui apertura sbucava all’interno di un’abitazione oltre confine nord, in territorio israeliano. A sud, vicino Rafah, è stato invece smantellato un deposito di armi all’interno di una moschea che conteneva razzi e proiettili per mortaio. Colpita dall’artiglieria, ieri mattina, anche la sede dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi. Tre dipendenti sarebbero rimasti feriti. Scuse arrivate dal ministro della Difesa di Gerusalemme, Ehud Barak, al segretario generale Ban ki-Moon, che si è detto «indignato e scandalizzato» per l’accaduto, proprio nel giorno della visita ufficiale in Israele, in cui si dichiarava convinto che una tregua fosse vicina. La vuole l’Onu perchè darebbe senso alla risoluzione 1860 dell’8 gennaio scorso; la vuole la Comunità europea che gira a vuoto da settimane sulla vicenda, nonostante l’attivismo del presidente francese; la vuole soprattutto Hamas – lo affermano fonti egiziane - che vede la sua leadership sfaldarsi, braccata sul campo, i suoi uo-

Il commento. L’indignazione musulmana per i palestinesi è ipocrita

Nessuno l’ha capito: Gerusalemme ha già vinto di Edward Luttwak segue dalla prima È difficile sintetizzare in poche righe la contraddittoria posizione verso gli ebrei, ma il Corano suggerisce che, ai tempi del profeta, questi fossero deboli e destinati a rimanere tali. Di fatto, il Corano promette potere e superiorità al popolo musulmano. Oggi, la superiorità militare degli ebrei sui musulmani instilla tremendi dubbi sull’Islam stesso. In Darfur, la maggior parte delle vittime sono musulmane. Ma lo sono anche i carnefici. Tuttavia, nessuno di loro, nel mondo, ha mai mostrato una decima parte della rabbia prodotta dalle vittime di Gaza.

Questo, tuttavia, non è l’unico pradosso che attiene ai musulmani e la stampa. Entrambi, infatti, sono convinti che Hezbollah abbia ottenuto una grande vittoria in Libano nel 2006. Nel crederlo, ignorano l’analisi di decine di esperti che ben sanno che i danni provocati al Libano da quella guerra hanno profondamente mutato l’atteggiamento dei libanesi verso Hezbollah, che mai più sosterranno un’avventura di tale portata. Naturalmente, il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il cui nome significa “vittoria derivata da Dio”, ha consacrato a lui la sua presunta vittoria. Ma se questo successo fosse stato vero, Israele non avrebbe attaccato Hamas per paura che Hezbollah li avrebbe sostenuti almeno al nord. Nasrallah, invece, ha sì suggerito ad Hamas che li avrebbe aiutati in caso di attacco, incoraggiandoli alla sommossa. Ma poi non è mai intervenuto. Anzi: come alcuni missili sono partiti dal Libano, ha subito provveduto a informare Israele che loro non c’entravano punto. Probabilmente, la mistificazione più dolorosa, è che l’attacco di Israele sia stato indiscriminato. Secondo le fonti di Gaza, da quando è cominciata la Fase 2 via terra, qualcosa come il 25% delle vittime sono state civili. Israele riduce la quota al 20%. In entrambi i casi, è innegabile che l’attacco israeliano sia stato estremamente preciso. Nelle recenti campagne aeree in Kosovo e Iraq, errori di mira hanno causato maggiori morti fra i civili. Come

hanno fatto gli Israeliani a essere così chirurgichi? L’unica risposta è che sia stati avvertiti. Direttamente dalla popolazione di Gaza. I cellulari esistono anche lì. Certo, alcuni informatori saranno stati pagati. Ma altri saranno oppositori di Hamas, che vedono quanta povertà, sofferenza e morte ha causato l’inutile lancio missilistico su Israele. E altri ancora saranno contro la politica violenta condotta dall’Iran, che li spinge alla carneficina e a non dialogare con nessuno. Anche l’ingiustizia ha un suo peso. Nizar Rayan, un leader di Hamas ucciso il primo gennaio, era - sulla carta - un mite professore sottopagato. È morto con 4 delle sue mogli e 10 dei suoi figli: dunque non rispettava il Corano che vieta di sposare più donne di quante se ne possano mantenere. Qualche soffiata da gente di Fatah sarà certamente arrivata. In breve, molti a Gaza vorrebbero che Israele facesse abbassare la cresta ad Hamas. Che ha vinto le elezioni del 2006 perché era l’unica alternativa alla corruzione di Fatah. Non ci sono prove a sostegno del fatto che Fatah sia in crescita. Tuttavia è certo che solo loro potrebbe far cadere Hamas. Questo pone un limite agli obiettivi di Israele, in quanto il regime potrebbe non cambiare di molto.

Detto questo, si può indebolire Hamas riducendo la sua forza militare, come fecero con Hezbollah nel 2006. Con poche eccezioni, le forze armate di terra di Israele stanno attaccando grazie ai raid senza occupare territori. Saranno a corto di obiettivi in pochi giorni. Allora, avendo indebolito Hamas, un cessate il fuoco con un monitoraggio credibile sarebbe possibile, e auspicabile, per entrambe le parti poiché è l’unica alternativa ad una nuova occupazione. Allora, probabilmente, Hamas affermerà la sua vittoria. Esattamente come Hezbollah nel 2006. Ma come in quel caso, non avrà più alcuna forza e dovrà starsene tranquillo. Il mondo musulmano e i media continueranno a leggere tale “vittoria” per il suo valore apparente. Sbagliando. Perché Israele avrà raggiunto i suoi obiettivi. © Prospect’s blog

Dall’inizio dell’operazione Piombo fuso del 27 dicembre scorso, l’82% degli israeliani ritiene che Tsahal non abbia abusato della sua forza mini decimati, e una popolazione a Gaza stremata dal conflitto e dall’indigenza. Tanto che Abu Mazen, nella serata di ieri, ha dichiarato che «le prossime ore saranno cruciali per un cessate il fuoco». Dall’Europa, ieri, si è levato un coro di proteste. «Indifendibile e inaccettabile» sono state le parole usate dal premier britannico, Gordon Brown per definire l’attacco alla sede Onu di Gaza. Naomi Klein, autrice di No Logo, chiede dalle pagine dell’Espresso, di boicottare Israele come successe per il Sud Africa.

«Scioccato e sgomento», invece, si è detto il commissario europeo per gli Aiuti umanitari, Louis Michel, per il bombardamento israeliano del compound Onu. Fra gli edifici danneggiati anche quello di «Al Shuruq», che ospita la sede di molte testate arabe e internazionali, lì due cameramen palestinesi sarebbero rimasti feriti. L’edificio è sede degli uffici dell’agenzia Reuters, delle emittenti Fox, Sky ed Rtl e di media


mondo

16 gennaio 2009 • pagina 15

Tsahal lancia una nuova regola: lasciare i media fuori dalla porta

Il prossimo Pulitzer? Al portavoce militare di Stranamore no dei miti con i quali dobbiamo convivere è quello del villaggio globale e della copertura mediatica capillare di qualunque evento in qualunque luogo grazie ai video, immagini e notizie trasmesse alla velocità della luce nelle nostre case, non solo da giornalisti, ma dalla “gente”. Non è così, non sarà mai così (per fortuna) e il conflitto in corso a Gaza ne è un perfetto esempio. Israele sta conducendo con successo una operazione complessa di information warfare che oltre agli aspetti di cyberwarfare e di guerra elettronica si estende alla gestione della informazione “pubblica”. Seguendo una dottrina sviluppata negli Usa e ormai, sia pure non ufficialmente, fatta propria anche dalla Nato, le gestione delle informazioni viene considerata parte importante delle“operazioni belliche”vere e proprie, tanto è vero che i comunicatori in divisa sempre più spesso vengono associati ai colleghi che si occupano di guerra psicologica ed entrambi dipendono dall S3/J-3, la componente dello Stato Maggiore che si occupa di condurre la guerra. L’obiettivo è la “gestione della percezione”, sia presso l’opinione pubblica interna, sia presso quella internazionale. Israele è stata scottata dalla esperienza della guerra del 2006 in Libano, quando subì pesanti rovesci ad opera di Hezbollah che ribatteva colpo su colpo ai comunicati ed alle informazioni diffuse da Israele, come neanche un governo regolare avrebbe saputo fare. Ma una delle grandi doti di Israele è quella di far tesoro immediato delle lezioni apprese. E ne vediamo i risultati a Gaza.

U

arabi come al Arabiya ed Mbc. Colpiti dall’artiglieria israeliana anche la sede centrale della Mezza Luna Rossa e il vicino ospedale in Tell al Hawa, nel cuore di Gaza City, con all’interno centinaia di degenti. Gli ultimi eventi hanno stravolto l’agenda della missione mediorientale del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che da lunedì prossimo avrebbe dovuto incontrare numerosi protagonisti della vicenda. Saltano gli appuntamenti in Siria e Libano per la concomitanza – spiega la Farnesina – di un vertice della Lega Araba. Il 19 sera Frattini dovrebbe incontrare l’omologa isareliana, Tzipi Livni e il giorno successivo Ehud Barak. Martedì sarà a Ramallah per un meeting con il primo ministro dell’Anp, Salam Fayyad. Il viaggio si dovrebbe poi chiudere al Cairo, con un vertice assieme al ministro degli Esteri egiziano, Abu Gheit. La posizione italiana sarà di pieno sostegno al piano di tregua egiziano, ha confermato la Farnesina.

«Non ci sono evidenze dell’uso illegale o improprio del fosforo bianco a Gaza da parte dell’esercito d’Israele», lo ha affermato in un comunicato ufficiale del 13 gennaio la Croce Rossa, dalla sua sede di Ginevra. Gerusalemme lo aveva sempre affermato, ma con questa dichiarazione di un’istituzione internazionale si stronca

sul nascere un altro tentativo di mistificazione della realtà. Aggiungiamo che trattandosi di guerra con vittime civili – condizione di per sé orribile – non ci sarebbe alcun bisogno di costruire accuse infondate. Riguardo all’episodio dell’incidente alla sede Onu di Gaza, il portavoce del ministro della Difesa di Gerusalemme, ha dichiarato che «il ministro Barak ha fatto presente al segretario generale Ban ki-Moon e al presidente del comitato internazionale della Croce Rossa internazionale, Jakob Kellemberg, che Hamas sta usando i civili palestinesi come scudi umani, sparando ai militari israeliani da posizioni vicine a strutture dell’Onu. L’Esercito di Gerusalemme ha risposto e continuerà a farlo, contro qualsiasi tentativo di attacco in base al semplice principio di autodifesa. Allo tesso tempo - continua il comunicato - le forze israeliane continueranno a fare ogni sforzo possibile per evitare il coinvolgimento di civili innocenti, cercando di aiutare le strutte Onu coinvolte nelle attività umanitarie». Il 12 gennaio al passo di Kerem Shalom sono state sequestrate delle apparecchiature elettroniche, tra cui una per la visione notturna, che si cercava di introdurre illecitamente a Gaza a bordo di un convoglio di aiuti umanitari. A dimostrazione di quanto sia difficile, in guerra, distinguere i buoni dai cattivi.

La scelta sarà forse un po’

soltanto l’Aeronautica, affiancata dalla Marina: le legioni di reporter non vedevano niente, se non le fiammate e le nubi di fumo delle esplosioni, spesso molto lontane. Anche Hamas rispondeva, per quanto possibile, con armi a tiro indiretto, razzi e mortai. E quindi, in mancanza dei briefing fintamente approfonditi cui ci ha abituati il Pentagono ci si doveva accontentare dei comunicati ufficiali, peraltro forniti copiosamente e delle clip registrate dai sensori dei velivoli senza pilota israeliani. Si è tornati un po’alla Desert Storm del 1991. Visto che nessun reporter vola sugli elicotteri o gli aerei israeliani non c’era racconto o immagini “indipendenti”in presa diretta.

Anche quando è stata avviata la Fase 2, con l’intervento da terra, Tsahal ha ottenuto la sorpresa, anche grazie ad operazioni di disinformazione mirata e quasi innocente: dico quel che voglio dire e ti faccio vedere quel che mi pare e così nascondo quel che mi interessa resti segreto. Dopodichè è stato negato l’accesso al teatro operativo di guerra a tutti i giornalisti. I pochi presenti (compresi quelli di Bbc e Reuters) non seguono i combattimenti in diretta. Non possono. Le Tv e i giornali musulmani invece restano ancorati al “vecchio” modello di comunicazione, che funziona abbastanza con il proprio pubblico di riferimento: quindi si fanno vedere i morti, naturalmente quasi sempre solo i civili, le distruzioni, gli ospedali, le sofferenze della popolazione. E basta. Ma non ci sono embedded con i combattenti o gli artiglieri di Hamas. Tsahal poi è riuscita anche a “disinnescare”la decisione del tribunale israeliano che aveva ordinato di far entrare a Gaza un pool ristretto di giornalisti. Troppo“pericoloso”. Come sarebbe troppo pericoloso disobbedire e entrare a Gaza“di contrabbando”. Quindi niente guerra in diretta e le cronache belliche di combattimenti urbani casa per casa che talvolta si leggono sono solo romanzi. A volte ben scritti. Ma romanzi. Nessuno sa esattamente cosa stia accadendo nella striscia, se ci sia battaglia e dove, quanto accesa, con quali esiti, dove siano le truppe israeliane e così via… Se a questo si aggiunge l’uso magistrale che Israele fa della “rete” e delle reti (anche a fini realmente bellici) e della guerra psicologica (anche i vituperati volantini servono, a Rafah, forse il vero obiettivo di Israele, 3/5 della popolazione civile è sfollata) davvero si può dire che Israele ha battuto Hamas (comunque meno sofisticata di Hezbollah su questo piano) anche nella guerra di comunicazione. Che questo impedisca al mondo di conoscere cosa davvero sta accadendo, rendendo “disoccupati” i corrispondenti di guerra è marginale.

Allo speaker dell’esercito viene affiancato un esperto politico-diplomatico, sì da fornire un quadro completo alla stampa. Basta martiri gratuiti

brutale, ma Tsahal ha deciso che il modo migliore per ottenere una superiorità schiacciante anche in questo campo è quello di “sterilizzare”quanto più possibile il conflitto, impedendo l’accesso alle hard news direttamente ai media, specie a quelli internazionali. I quali a quel punto, devono “abbeverarsi”alle informazioni ufficiali, almeno per quanto riguarda la cronaca bellica. E al portavoce militare spesso se ne affianca uno politico-diplomatico, sì da fornire un quadro davvero completo. In Italia ce ne siamo accorti poco perché trattando della guerra, di tutto i media si occupano tranne che di raccontare e spiegare la guerra. Ma nel resto del globo così non è stato. Israele ha ottenuto lo straordinario risultato di una completa sorpresa strategica, operativa e tattica, che le ha permesso di ottenere risultati devastanti contro Hamas nelle prime 48 ore di guerra. E considerando quando sia piccola Israele e “aperta”questo è stato un enorme successo. Il nuovo corso alle operazioni di information warfare è stato senza dubbio più semplice durante la prima settimana, quando ha agito


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mondo

Congo. Denis Mukwege è l’uomo africano dell’anno, ha già vinto il premio Olof Palme. Cura le vittime degli stupri

Il medico dell’Africa Franz Gustincich

ormalmente loro non vogliono farlo, ma se qualcuna resiste, allora uso il mio fucile per prendere ciò che voglio, e il più delle volte accettano». Le parole del guerrigliero, pronunciate con la semplicità di chi spiega la sua routine, gelano il sangue. L’uomo appare nel documentario di Lisa Jackson sugli stupri di massa nella Repubblica Democratica del Congo (RDC)“Il più grande silenzio”. L’uso sistematico delle violenze sessuali contro donne congolesi da parte dei combattenti, è iniziato nel 1996. Lo stupro è un’arma impropria usata con la stessa frequenza dell’artiglieria, durante le guerre che, intermittenti, affliggono questo Paese africano, e che però non si arresta nei periodi di pace. Le cifre ufficiali raccontano, con lo sterile linguaggio dei numeri, che circa 30mila fra donne e bambine vengono violate ogni anno nella RDC. Alla pura violenza sessuale si aggiungono le percosse e le mutilazioni. Oltre tremilacinquecento vittime di questo crimine vengono ogni anno curate nel Panzi Hospital di Bukavu, nel Kivu, a due passi dalla guerra. L’ospedale è stato fondato ed è ora diretto dal dottor Denis Mukwege, 53 anni, un ginecologo laureato in Burundi e specializzato in Francia che insieme al suo staff opera circa dieci donne al giorno per sanare i danni provocati dalle brutali violenze. Il dottor Mukwege non si limita a curare le ferite, ma offre alle donne un rifugio e, soprattutto, restituisce loro quella dignità che hanno perduto di fronte alla società che, dopo la violenza carnale, le ripudia. Stuprum, in fondo, in latino significa disonore, ma quella che dovrebbe essere l’onta dell’aguzzino, si trasforma in vergogna delle vittime.

«N

Denis Mukwege, che è stato insignito il 9 gennaio del prestigioso riconoscimento svedese intitolato ad Olof Palme, ieri ha ricevuto anche la comunicazione dal giornale nigeriano The Daily Star di essere stato nominato “uomo africano dell’anno 2008”. Il premio, consegnato a Mukwege nella capitale nigeriana Abuja, alla presenza del Segretario Generale dell’Organizzazione per l’Unità Africana, Selim Ahmed, viene dato ogni anno a personalità che «abbiano il coraggio di cambiare la vita della gente» e di affrontare i problemi della società africana contemporanea. “Il medico delle donne”– così è stato definito il vincitore del 2008 – ha dichiarato che destinerà i ventimila dollari del premio, ad un progetto di reinserimento delle donne nella società. Quelle donne che lo stesso dottore ha definito «il nemico comune di tutte le parti in conflitto». Le donne che si rivolgono al Panzi hospital, purtroppo, sono ben di più di quelle che possono essere curate, costringendo il dottor Mukwege e gli altri medici che lavorano con lui a fare turni di 18 ore al giorno. Per questo è stato avviato il progetto di costruire “la città della gioia”, un luogo di

in breve Venezuela, parlamento apre a rielezione Chavez Il Parlamento venezuelano ha approvato la proposta di emendamento costituzionale che permetterà alle alte cariche dello Stato di presentarsi candidati senza alcun limite di mandato, permettendo di fatto la permanenza indefinita al potere del presidente Hugo Chavez. L’emendamento dovrà ora essere sottoposto a referendum, che dovrebbe svolgersi il 15 febbraio prossimo.

Turchia, famiglia all’ergastolo per delitto d’onore Un’intera famiglia turca composta da quattro persone è stata condannata alla pena dell’ergastolo per aver commesso un delitto d’onore contro la figlia di 16 anni, rimasta incinta dopo essere stata stuprata. Il tribunale di Van, nella regione orientale della Turchia, ha emesso una sentenza considerata tra le più pesanti nella storia dei processi per delitti d’onore, condannando all’ergastolo il fratello della vittima, ritenuto l’esecutore materiale del delitto, il padre, la madre e due zii, tutti accusati di istigazione al delitto.

A sinistra, Denis Mukwege Mukengere, il ginecologo congolese premiato come “Africano dell’anno” per il suo impegno a favore delle vittime di stupro (foto sopra). A destra, il medico a New Orleans nella giornata mondiale contro la violenza sessuale; alcune donne nella sua clinica Panzi

Russia, il 17 vertice sul gas. “No” di Francia e Germania

accoglienza per quante abbiano bisogno di assistenza non solo medica ma soprattutto psicologica. Già oggi esistono delle piccole organizzazioni che apprestano nei villaggi dei forum delle vittime, dove le donne possono incontrarsi e parlare liberamente delle loro esperienze e sostenersi ed aiutarsi a vicenda, ma ci sono ancora le enormi difficoltà culturali di una società fortemente patriarcale.

Qualcuno, nella Repubblica Democratica del Congo, parla del proprio Paese come della “miniera dello stupro”, intendendo dire con questo che c’è una relazione diretta tra le ricchezze del sottosuolo e le violenze alle donne. Se si sovrappone la cartina delle miniere del Congo e quella delle aree con maggior densità di quest’odioso crimine, si scopre che le aree interessate nell’una quanto nell’altra coincidono. È solo un’ulteriore dimostrazione di come le guerre, che anch’esse si sovrappongono negli anni, e che hanno interessato questa martoriata regione africana, sono guerre per il controllo delle ricchezze, e lo stupro è un’arma per il controllo sociale. John Holmes, segretario delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, sostiene che gli stupri nella RDC sono i peggiori del mondo, per la brutalità, l’efferatezza ed il grado di violenza che esercitano, ma anche per l’impunità. Lo stupro non è un reato pre-

53 anni, laureato in Burundi, lavora 18 ore al giorno. Ha fondato il Panzi hospital. Le violenze nella Repubblica Democratica del Congo sono impunite visto dal codice penale congolese, «nemmeno» aggiunge un operatore umanitario occidentale, «quando viene fatto con la canna del fucile».«Le donne sopravvissute a una violenza sessuale nella RDC - spiegava poco prima di morire la cantante Miriam Makeba, ambasciatrice per la Fao - devono fare i conti con una “triplice tragedia”, ossia un danno fisico, psicologico e sociale». Sono le donne, infatti, nell’80% delle famiglie, a garantire la sopravvivenza ed un reddito. Siamo certi che il dottor Mukwege, preferirebbe essere disoccupato, perché significherebbe che gli stupri sarebbero cessati.

La presidenza russa ha convocato ieri un vertice il 17 gennaio con i capi di stato e di governo dei paesi consumatori di gas russo e con quelli in cui il metano russo transita. Ma l’invito ha suscitato piccate reazioni diplomatiche, come quella tedesca e francese. Kouchner, ministro degli Esteri, ritiene che «non ci siano proprio le condizioni». Intanto l’Ucraina continua a negare il transito del metano.

Londra, sì a terza pista Heatrow Il governo britannico ha annunciato che saranno approvati i piani della controversa terza pista all’aeroporto internazionale di Londra-Heathrow, uno dei più congestionati del mondo. Il tracciato sarà opeatovo dal 2020.


mondo

16 gennaio 2009 • pagina 17

A lato, un gruppo di guerriglieri islamici di Abu Sayyaf, il braccio filippino di al Qaeda. Fondato all’inizio degli anni ‘90 dal predicatore islamico Abdulrajak Abubakar Janjalani, il gruppo conta oltre un migliaio di seguaci e ha continuato le sue cruente azioni di guerriglia anche dopo l’uccisione nel 1998 del suo leader storico, al quale è succeduto il fratello Khaddafy. Sotto, un operatore della Croce Rossa mostra le fotografie dei tre collaboratori rapiti

Filippine. Dietro all’operazione ci sarebbe Abu Sayyaf, braccio locale di al Qaeda. Fra i sequestrati anche un italiano

Rapiti 3 operatori della Croce Rossa di Massimo Fazzi elle Filippine torna a colpire Abu Sayyaf, e ricorda al mondo che l’estremismo islamico non riguarda soltanto i Paesi arabi. Il gruppo (i “Portatori di Spade” in lingua locale) ha rapito ieri tre operatori umanitari nel sud del Paese: uno di loro è italiano. Si chiama Eugenio Vagni ed è un ingegnere 61enne originario di Montevarchi, in provincia di Arezzo. Vive da anni nel sud-est asiatico, tanto da essere iscritto al-

N

l’Aire, l’anagrafe dei nostri connazionali residenti all’estero. La Farnesina ha confermato il suo sequestro, ha aggiunto che i suoi familiari sono stati avvertiti e ha comunicato che è stata attivata un’unità di crisi. Gli altri due rapiti, Andreas Notter e Jean Lacab, sono di nazionalità svizzera e filippina: insieme a Vagni facevano parte di una missione medica. Il sequestro è avvenuto nell’isola meridionale di Jolo, nell’arcipelago di Minda-

nao, dove operano i gruppi estremisti musulmani considerati vicini ad al Qaeda e autori, in passato, di diversi sequestri. Sono le autorità militari filippine a indicare nei ribelli di Abu Sayyaf i probabili responsabili del rapimento.

Il gruppo musulmano, sorto nei primi anni ’90, è legato alla rete di al Qaida ed è accusato di diverse azioni terroristiche tra cui l’attentato ad un traghetto presso la baia di Manila

zato diversi rapimenti nei pressi di Jolo e nella vicina isola di Basilan. Il più eclatante nel 2002 quando i terroristi rapirono una ventina di turisti, decapitandone alcuni. Nel periodo più recente i sequestri firmati dai militanti islamici del gruppo si sono conclusi con la liberazione dei rapiti dopo il pagamento di un riscatto. Fondato all’inizio degli anni ’90 dal predicatore islamico Abdulrajak Abubakar Janjalani, il gruppo conta oltre un migliaio di se-

L’organizzazione internazionale conferma: nessuna interruzione degli interventi nel sud del Paese. Attiva l’unità di crisi della Farnesina. I tre erano in zona per controllare un carcere che nel 2004 costò la vita a un centinaio di persone. I ribelli combattono per la creazione di uno Stato islamico indipendente nell’arcipelago filippino. Una proposta a cui il governo di Manila si è sempre opposto, anche se ha aperto un tavolo di confronto con i leader dell’altro gruppo musulmano storico di Mindanao: il Fronte islamico di liberazione Moro, che chiede una sorta di autonomia regionale in nome di una differenza etnica rispetto al resto delle Filippine. Il Moro non gode però delle simpatie di Abu Sayyaf, che li accusa di essere troppo teneri e di aver abbandonato troppo presto la lotta armata, durata in realtà più di 40 anni. Per confermare le proprie distanze dai ribelli “istituzionali”, il gruppo ha organiz-

guaci e ha continuato le sue cruente azioni di guerriglia anche dopo l’uccisione nel 1998 del suo leader storico, al quale è succeduto il fratello Khaddafy, anche lui morto circa due anni fa. Quanto alla dinamica del sequestro, il presidente della Croce Rossa delle Filippine Richard Gordon ha detto che al momento del rapimento i tre operatori umanitari si trovavano in macchina, sulla strada per l’aeroporto di Jolo, dopo una visita al carcere locale. I tre operatori di Croce Rossa, conferma a liberal il sovrintendente di polizia locale, sono stati rapiti mentre lasciavano il Centro di coordinamento dell’area: una grande sala fra il municipio provinciale e la prigione. I rapitori, almeno otto secondo testimoni oculari, li

hanno costretti a fermare il veicolo proprio sotto le mura della galera, e hanno fatto scendere i tre membri filippini dell’equipaggio. Eugene Clemen, comandante della terza Brigata di marines di stanza nella zona, dice: «Ci chiediamo come sia possibile che il rapimento sia avvenuto a così poca distanza da un luogo che, di norma, è sorvegliatissimo. Secondo me l’azione è stata coordinata dal gruppo di Abu Sayyaf che fa capo a Albader Parad: in ogni caso, i funzionari di Croce Rossa erano in zona proprio per controllare lo stato della prigione e dei detenuti». E questo, continua il militare, «è il motivo per cui nel gruppo c’era anche gli ingegneri Vagni e Lacaba: per controllare le infrastrutture e vedere come operare per migliorare la vita all’interno del carcere».

Roland Bigler, portavoce della Croce Rossa nelle Filippine, spiega che l’organizzazione non ha alcuna intenzione di fermare le sue operazioni nella parte meridionale del Paese, dove centinaia di migliaia di persone sono costrette alla fuga dagli scontri fra l’esercito regolare e i ribelli del Fronte di liberazione islamico Moro. Secondo Bigler, infatti, «non ci sarà alcuna interruzione: il nostro lavoro umanitario continua. Siamo consapevoli della pericolosità di questa situazione, ma siamo un gruppo neutrale e non possiamo girare con scorte armate».


cultura

pagina 18 • 16 gennaio 2009

Scrittori rimossi. L’autore di Poesie grigioverdi, Gente in Aspromonte, Vent’anni, L’uomo è forte e Quasi una vita

L’anti-eroe dei due mondi Antifascista per cultura («mai per professione») Corrado Alvaro prese le distanze anche da certi oppositori di Filippo Maria Battaglia il 1930. Corrado Alvaro ha trentacinque anni, gli ultimi quindici dei quali trascorsi a fare il giornalista: prima a Bologna al Resto del Carlino, poi a Milano al Corriere della Sera e da ultimo a Roma al Tempo. Lo scrittore calabro è uno spirito inquieto: nel ’21 ha accettato la proposta di Giovanni Amendola, decidendo di andare a Parigi come corrispondente del Mondo e, dopo una breve esperienza quale critico teatrale al Risorgimento, è passato alla Stampa per la quale ha scritto diversi reportage dal Medioriente, la Russia, la Germania. Ma è il ’26 l’anno cruciale per la sua formazione letteraria. Grazie a Massimo Bontempelli, è infatti assunto come segretario di redazione della rivista 900. Se non una rivoluzione, è un’autentica svolta: la prosa di Alvaro risente l’eco poderosa dei maggiori scrittori europei, di cui legge e traduce le opere ancora inedite in Italia.

È

individuo solo nelle avversità economiche e sentimentali. Come ha scritto Giorgio Pullini, «il taglio di narrativo è secco, incisivo, senza concessioni al descrittivo o al romanzesco, in una prosa di forte concentrazione drammatica che ha costituito un caso originale nella narrativa tra le due guerre e un prezioso raccordo fra il veri-

Dopo questi racconti, nel decennio ’30-’40, tocca ad altri due romanzi

Il suo taglio narrativo era secco, incisivo, senza concessioni al romanzesco, in una prosa di forte concentrazione drammatica che ha costituito un caso originale nella narrativa tra le due guerre

R i s p e t t o a l l a p r i m a produzione (Polsi, Poesie grigioverdi), in cui sembra attardarsi in vecchi cliché veristici, la sua scrittura si arricchisce fino a giungere alle narrazioni mitiche di Gente in Aspromonte (1930) che lo renderanno celebre in tutta Italia. Composta di tredici racconti che si aprono con una novella eponima, l’opera è accomunata da una concezione fatalistica dell’esistenza: ogni uomo è solo, e sembra realizzarsi quale

allo scrittore (datato 1968): «Mettendo di nuovo a profitto la lezione del Verga, Corrado Alvaro riesce a costruire a poco a poco, senza ricorrere a prestiti e a concezioni filologiche estetizzanti, un linguaggio poetico dalle qualità più istintive e terrestri che letterarie, in cui ogni parole viene definitivamente restituita alla sua dimensione primigenia. Questa impetuosa rottura stilistica determina fin dagli inizi lo svolgimento della linea interna del racconto condizionando profondamente anche i suoi sviluppi successivi».

smo dell’Ottocento e il recente neorealismo». La critica accoglie favorevolmente la raccolta, giungendo a definirla un’inedita prova di «arte corale». La maturazione dello scrittore Alvaro in quel breve ma decisivo scorcio di anni è stata bene messa in luce da Ludovico Alessandrini nel suo studio dedicato

esprimere la poetica dello scrittore di San Luca: dello stesso periodo è Vent’anni, seguito ad otto di anni di distanza da L’uomo è forte. Il primo, concepito come un lungo racconto, narra la storia di Luca Fabio, un contadino meridionale che attraverso il primo conflitto mondiale entra in contatto con uno stile di vita e una cultura fino ad allora sconosciuta. È un incredibile susseguirsi di illusioni e di delusioni, che formano tuttavia il giovane protagonista, vero e proprio al-

ter ego dell’autore, fino a farlo diventare uomo. Il libro si trasforma così in una sorta di autobiografia che, se da un lato cede spesso ad episodi e pensieri frammentati, dall’altro è una delle analisi più anticonformiste dei processi sociali legati al dramma della prima guerra mondiale. Totalmente diverso nella struttura è L’uomo è forte, il primo dei romanzi pubblicati per Bompiani. Questa volta ad essere messa sotto accusa è la condizione di disumanizzazione della dittatura. Per


cultura zibaldone di «appunti, che dovevano servire per me, per i racconti, i saggi, le opere, che avrei scritto un giorno, e che tuttavia spero mi sia dato il tempo e la lena di scrivere». A metà tra una narrazione microcosmica e una memoria moralistica sugli anni del fascismo, la cronaca non prescinde mai dalla singola persona come reale ed effettivo protagonista della storia ed è al tempo stesso una lucidissima analisi sul regime.

Nonostante il successo di pubblico

questo, l’autore è costretto a premettere al libro un’avvertenza in cui dichiara che l’azione del romanzo si svolge non nell’Italia fascista, ma nella Russia sovietica. La realtà descritta è drammatica e alienante: il protagonista, Dale, prima si estranea totalmente dalla comunità in cui vive, poi, per il timore di essere controllato e spiato, diventa assassino.

Finita la seconda guerra mondiale, lo scrittore calabro decide di aderire al Fronte democratico. Per questo, è fortemente attaccato dalle colonne del Corriere della sera, al quale collabora e dal quale si dimette. Ma le critiche sono destinate ad aumentare. Nel 1950 pubblica Quasi una vita, uno

Nella pagina a fianco, un’immagine dello scrittore calabrese Corrado Alvaro. Sopra, un appostamento di partigiani e, sotto, una parata militare fascista. A destra, la copertina del libro “Terra nuova”, riedito di recente per i tipi di Otto/Novecento e curato da Fedriano Sessi

e di critica che nel 1951 gli varrà il Premio Strega, Quasi una vita è comunque oggetto di feroci attacchi. All’autore si rimprovera - questa volta da sinistra - un atteggiamento di neutralità e di «morbidezza» nei confronti della dittatura. L’ostilità che ha dimostrato durante il ventennio evidentemente non basta: lo scrittore calabro ha il torto di non appuntarsi sul petto, durante i frenetici mesi del ’43, nessuna «straordinaria esperienza sulle mie montagne», magari immediatamente spendibile nel secondo dopoguerra. Alvaro però non si rassegna, e decide di andare al contrattacco: «Ero antifascista per temperamento, per cultura, per indole, per inclinazione, per natura». E aggiunge causticamente: «Non sono mai stato un antifascista professionista». La critica al fascismo e ai suoi falsi miti non gli impedisce infatti di polemizzare contro i criteri indiscriminati dell’epurazione del dopoguerra, «che colpisce in basso per salvare in alto», accentuando la sfiducia di intere classi sociali e il malcostume italiano. Torna comunque a scrivere sulla terza pagina del quotidiano di via Solferino fino all’11 giugno del 1956, quando muore nella sua casa di Piazza di Spagna, a Roma. La sua disillusione si accentua nella prima delle numerose opere postume, Ultimo diario, una sorta di testamento letterario che prosegue la narrazione di Quasi una vita, raccontando gli anni dell’immediato dopoguerra. Qui lo scetticismo lascia il posto a una vera e propria visione fatalistica che spinge a fargli scrivere: «No, la storia non ha un senso». E questo, forse, potrebbe essere l’epitaffio adeguato a ricordare l’opera e l’autore di San Luca.

16 gennaio 2009 • pagina 19

Al confine tra saggistica e narrativa

“Terra nuova” La prima cronaca dell’Agro pontino l fascismo è «la manifestazione del complesso d’inferiorità degli italiani». Così scriveva nel 1933 Corrado Alvaro, accentuando una presa di distanza (che si sarebbe rivelata sempre più netta negli anni avvenire) nei confronti del «Duce e dei suoi uomini».

I

Proprio in quel torno di anni, lo scrittore calabrese scriverà una delle sue più interessanti e suggestive opere della sua produzione saggistica: Terra Nuova, di recente riproposto per i tipi dell’editore Otto/Novecento per le cure di Fedriano Sessi, con un sottotitolo significativo: «Prima cronaca dell’Agro pontino». Un testo a confine tra saggistica e narrativa, dove l’attenzione dello scrittore, più che sui fasti dell’opera del regime, è tutta tesa a mettere in evidenza l’aspetto che più gli interessa della bonifica: quella del passaggio che segna l’addio dell’ancestrale mondo della palude e che consacra l’arrivo del mondo nuovo, del progresso e dei coloni. E sono loro, i coloni appunto, i protagonisti principali del saggio-racconto di Alvaro. Sempre dotati di buona volontà, con nomi che già da soli la dicono lunga, come il signor Pocaterra. È, insomma, il ritratto dell’Italia piccoloborghese che con la bonifica trova o sembra trovare il suo riscatto. Ed è quell’Italia, o meglio quella particolare inclinazione che una certa Italia mostra di possedere, che ad Alvaro interessa. La sua voglia di riscatto, la sua sensibilità mista a un’ingenuità paesana velata dalla disperazione e dalla povertà. Come scrive Sessi nell’introduzione, «stupisce, allora, constatare il velo pietoso calato su questa opera,“minore” nella produzione complessiva di Corrado Alvaro, ma importante, perché punto di snodo della sua maturazione politica, e forse momento culminante della sua crisi di intellettuale, del suo aspro isolamento».

L’opera è il ritratto dell’Italia piccolo-borghese che con la bonifica sembra trovare il suo riscatto

Anche perché, “Terra Nuova” sembra ormai che sia di fatto «espunta dalle bio-bibliografie dell’Autore, o se vi è riportata, è passata sotto silenzio, lasciando così spazio all’idea di una compromissione insanabile dello scrittore con il regime, e impedendo così l’esame completo della sua maturazione di uomo e scrittore. Tutto, nei limiti del possibile e della decenza, si dovrebbe conoscere di uno scrittore, tanto più Terra Nuova di Alvaro, dove la mano dell’Autore licenzia un testo piacevole alla lettura, e insieme lo spaccato storico di un’epoca in cui il popolo è stato chiamato più a patire che non a godere delle promesse del regime fascista». E in definitiva, al netto delle polemiche ideologiche post-1945, non si può che essere simpatetici nei confronti di questa delicata e sommessa descrizione di un’Italia che (f.m.b.) non esiste più.


cultura

pagina 20 • 16 gennaio 2009

Anniversari. Il 19 gennaio gli Usa festeggeranno il grande narratore

Poe, i suoi primi duecento anni di Maurizio Stefanini l 20 gennaio 2009 gli Stati Uniti festeggiano l’insediamento di Barack Obama. Il 19 gennaio 2009 gli Stati Uniti festeggiano i duecento anni dalla nascita di Edgar Allan Poe. Solo una coincidenza, ovviamente. Ma è davvero un bello scherzo della storia quello che mette a contatto così diretto l’arrivo alla Casa Bianca del primo presidente negro con

I

letto ebraico: «Nelle Avventure di Gordon Pym, il narratore sbarca su una calda isola antartica, chiamata Tsalal, dove tutto è nero, compresi i selvaggi dall’aspetto bestiale che salgono a frotte a bordo della nave Jane. Anche la loro lingua è una varietà di ebraico: in altre parole, i tsalalesi sono fuegini trasferiti nella finzione, con l’aggiunta

Ironia della sorte, il giorno dopo gli States celebreranno Barack Obama, l’uomo che oggi incarna ciò che lo scrittore osteggiava colui che in molti celebrano il più grande scrittore della storia americana: anche se la concorrenza diretta di nomi come quelli di Walt Whitman, Mark Twain, Nathaniel Hawthorne, William Faulkner, John Steinbeck o Ernest Hemingway rende il dibattito per lo meno aperto. Ma che, nel contempo, è anche considerato come il massimo esponente di quella cultura del “Vecchio Sud” che fu spazzata via dalla Guerra Civile; e con la cui sconfitta iniziò appunto la lunga via che ha portato Obama alla presidenza.

Portato in Virginia ancora piccolo, «Edgar Poe crebbe come sudista – nonostante fosse nato a Boston – e non smise mai di sentirsi tale spiritualmente», annotò ad esempio Julio Cortázar nella Vita di Edgar Allan Poe da lui scritta nel 1963. «Molte sue critiche alla democrazia, al progresso, alla credenza nella perfettibilità dei popoli provengono dal suo essere “un uomo del Sud”radicato nei costumi mentali e morali modellati dalla vita virginiana». Mentre annota Bruce Chatwin nel suo Ritorno in Patagonia. Dopo averci presentato quel capitano James Weddel che nel 1822 scoprì l’esistenza degli indios fuegini mettendosi in testa che parlassero un dia-

di un po’ dei pregiudizi che Poe aveva contro i negri». E se non sono feroci e infidi, allora sono stupidi: come quel servo Jupiter che nello Scarabeo d’oro per non saper riconoscere la destra dalla sinistra fa scavare i cercatori del tesoro di Capitan Kidd dalla parte sbagliata.

Con i negri, un altro suo bersaglio preferito è il potere del denaro. «Il vostro truffatore è piccolo; le sue operazioni sono fatte su piccola scala; i suoi affari sono al dettaglio, a pronta cassa o contro tratta pagabile a vista. Se si lasciasse tentare da splendide speculazioni, perderebbe immediatamente la sia fisionomia caratteristica e diventerebbe ciò che è definito “finanziere”», scrive in La truffa considerata come una delle scienze esatte. «Un governo repubblicano non poteva essere altro che un governo disonesto», spiega su quel che è accaduto in Nord America 1000 anni prima il personaggio dell’anno 2848 protagonista di Mellonta Tauta. Mentre il dialogo tra quattro yankee e l’egizio resuscitato Allamistakeo in Qualche parola con una mummia è non solo un capolavoro di humor nero, ma anche un requisitoria reazionaria di prim’ordine. Tecnologia, filosofia, scienza, politica: tutto dell’America del XIX secolo risulterebbe inferiore al tempo dei faraoni, non ci fossero la moda e le pastiglie a risollevarne le quotazioni! «L’attività materiale, esagerata fino alle proporzioni di una mania nazionale, lascia negli spiriti ben poco posto per le cose che non siano della terra», scriveva d’altronde Charles Baudelaire per spiegare la vita infelice di Poe. Trasformandosi così non solo nel grande iniziatore della fortuna dello scrittore in Europa, ma anche nella sua volgarizzazione come paradossale icona di un antiamericanismo che nasce dall’estrema destra, anche

Sopra, Edgar Allan Poe, del quale il prossimo 19 gennaio ricorre il bicentenario della nascita. Il giorno dopo, gli Usa festeggeranno l’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama (a sinistra)

se poi finisce all’estrema sinistra senza quasi trasformarsi. Eppure, come spiega sempre Cortázar, «altri elementi di stampo prettamente sudista avrebbero concorso a influenzare la sua immaginazione: le bambinaie nere, i domestici schiavi e un folklore nel quale le storie di fantasmi e i racconti sui cimiteri e sui cadaveri erranti nelle foreste provvidero a organizzare un ricco repertorio del sovrannaturale, su cui non mancò di fiorire una vivace aneddotica». Spregiatori di neri ma imbevuto del loro immaginario, l’icona americana antiamericana Poe è allo stesso tempo anche, appunto, un sudista nato a Boston; un critico

della democrazia americana che scrive il romanzo giovanile Il corsaro per esaltare la rivoluzione di Washington; e anche un contestatore della modernità che si forma in una professione moderna come il giornalismo al punto da contrarne una sorta di deformazione professionale: in quella teoria secondo la quale sia l’autore che il lettore dovrebbero approcciare l’opera «in una sola seduta», come un articolo.

Insomma, forse lui quella discendenza non l’avrebbe riconosciuta. Ma, nel grande Melting Pot che ha fatto gli Stati Uniti, in fondo Obama è figlio anche di Poe.


cultura

16 gennaio 2009 • pagina 21

In libreria. La grande lezione di John Henry Newman sulla funzione dell’Università nella riedizione degli “Scritti” curata da Marchetto

L’educazione... sperimentale di Guglielmo Malagodi

el recente dibattito sull’università italiana, i media hanno decisamente trascurato la questione “educativa”. Presi dall’urgenza di individuare risorse finanziarie per alimentare la ricerca e dall’emergenza della iper-specializzazione spesso fittizia dei corsi di laurea e dei relativi insegnamenti, i protagonisti della vita accademica e i suoi più autorevoli osservatori non sono stati neppure sfiorati dalla domanda se l’Università abbia una valenza educativa, e come eventualmente la adempia. Il che, invece, fece John Henry Newman (1801-1890), sacerdote prima della Chiesa Anglicana, poi, dal 1847, della Chiesa Cattolica, della quale, nel 1879, diventerà Cardinale. Teologo, storico, filosofo, poeta, romanziere, polemista, scrittore molto prolifico, egli ebbe anche la ventura di fondare una Università Cattolica a Dublino (18511858), chiamatovi dai vescovi irlandesi, che non accettavano di affidare alle università anglicane o, peggio ancora, secolari, l’educazione dei propri giovani e dei propri laici.

N

Il contributo di Newman all’educazione universitaria viene oggi raccolto per i lettori italiani nel volume Scritti sull’Università (Bompiani, Milano 2008, pp. 1595 + CCXLIV), che presenta le conferenze e i saggi del classico Idea of a University e di Rise and Progress of Universities, qui in prima traduzione italiana. Il curatore, Michele Marchetto, docente di Filosofia dell’educazione alla Scuola Internazionale di Scienze della Formazione di Venezia, già curatore di un’altra importante raccolta di Scritti filosofici del Cardinale inglese (sempre Bompiani), è autore di un’ampia introduzione, ricca di dettagli sul pensiero newmaniano e sul contesto in cui maturò. Egli individua il fattore di unità più significativo dei multiformi aspetti della biografia intellettuale di Newman proprio nella preoccupazione di educare, ossia di elevare la consapevolezza cul-

Qui a fianco, John Henry Newman (1801-1890), sacerdote prima della Chiesa Anglicana, poi, dal 1847, della Chiesa Cattolica, della quale, nel 1879, diventerà Cardinale. Teologo, storico, filosofo, poeta, romanziere, polemista, fu anche scrittore molto prolifico. In basso, la copertina della riedizione dei suoi “Scritti sull’Università” curata per Bompiani da Michele Marchetto

luppi, secondo una dialettica di invariabilità e mutamento. È ciò che molto bene dimostrano i saggi di Origine e sviluppo delle Università, in cui la scioltezza della prosa newmaniana, resa con efficacia nella traduzione italiana, conduce il lettore attraverso lo sviluppo storico dell’idea di università, dalle scuole di Atene agli Studia Generalia, dalla biblioteca di Alessandria all’Universitas medievale, fino all’Inghilterra dell’Ottocento. Qui, utilitarismo e liberalismo sfidano l’essenza stessa dell’Università, caratterizzata dall’universalità, intesa

Newman non condivide affatto questa linea, che aveva portato alla fondazione dell’Università di Londra (1827). Piuttosto, egli ritiene che un’educazione autenticamente liberale miri a coltivare l’intelletto fino alla sua perfe-

La convinzione era che un insegnamento liberale dovesse mirare a coltivare l’intelletto fino alla sua perfezione: la ragione paragona, adatta e connette facendo del sistema la propria anima turale dei Cattolici, ampliandone la mente e fornendo loro le basi per sostenere e difendere le proprie posizioni. Del resto, Newman fu sempre un educatore: fellow dell’Oriel College ad Oxford, la sua “residenza perpetua”; animatore della piccola comunità di Littlemore, che preparò il grande passo verso Roma; fondatore del primo Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra, a Birmingham; primo rettore dell’Università Cattolica d’Irlanda. Centrale per comprendere le sue opere sull’Università è il rapporto polare di idea e realtà: la realtà storica dell’Università non è altro che la declinazione della sua idea nella concretezza dei fatti; e l’idea di Università non può non incarnarsi in situazioni storiche e culturali che esigono che essa si adatti e si svi-

sia come il convenire in un unico luogo di docenti e studenti provenienti da ogni dove, sia come l’insegnamento del sapere universale.

Il sistema accademico della nuova epoca, infatti, istituisce università secolari, in cui si insegna un sapere professionale, diviso in un caravanserraglio di discipline, immesse sul mercato della conoscenza à la carte. Secondo i guru dell’Inghilterra vittoriana e positivistica, l’Università dovrebbe insegnare ciò che è utile, limitando l’educazione a un fine circoscritto, che si risolva in un’opera determinata, che si possa pesare e misurare. All’investimento di chi manda i figli all’università deve corrispondere un ritorno sensibile, che si traduca in ricchezza, utilità ed efficacia.

zione, basandola su una disposizione “filosofica”della mente, una ragione che paragona, adatta, connette, spiega fatti e dottrine, facendo del “sistema” la propria “anima”. Si tratta di una facoltà formativa, che agisce sulla nostra natura mentale e forma il carattere. Essa, già all’opera in ognuna delle scienze, non è né una super-scienza né una logica delle scienze, ma una funzione di sintesi e di unità, anzi, la ragione più profonda dell’unità delle scienze e della

persona stessa. Il suo esercizio esclude il rischio dell’usurpazione reciproca delle scienze, e garantisce, invece, un’armonia superiore in cui ogni scienza assolve il proprio compito entro i propri limiti e nella relazione con tutte le altre scienze. È l’“intelletto imperiale” che trova nell’Università la sua istituzione peculiare, e il cui scopo è perseguire, per quanto è possibile all’uomo, ciò che nella sua pienezza è misterioso e imperscrutabile. Essa non trascura alcun metodo né scienza, ma, ammettendoli tutti, non consente ad alcuno di usurpare; e si attiene alla massima secondo la quale la verità non può contraddire la verità. Educazione autenticamente liberale, si diceva, perché qui il sapere è fine a se stesso, sempre utile perché è bene e produce il bene, non bene perché utile; e quindi non utile in senso meccanico e commerciale, ma come bene diffusivo.

E tuttavia, agli occhi di Newman, l’eccellenza intellettuale non fa il cristiano né il cattolico, ma il gentleman; la filosofia dell’“intelletto imperiale” non garantisce né la santità né la moralità evangelica. E l’eccellenza intellettuale non coincide con l’eccellenza morale, tant’è vero che San Basilio e Giuliano l’Apostata, entrambi educati nella medesima Atene del IV secolo, finirono col percorrere strade opposte, santo l’uno, persecutore dei cristiani l’altro. Si pone così la questione dell’Università Cattolica: essa, in quanto “Università”, educa all’eccellenza intellettuale in tutti i campi del sapere, compresa la teologia, benchè non possa definirsi “cattolica” semplicemente perché insegna la teologia. In quanto “cattolica”, educa alla morale e alla fede cattolica sotto l’egida della Chiesa. Se dunque l’insegnamento del sapere universale, ossia il perseguimento di un fine intellettuale, non morale, costituisce l’essenza dell’Università, la Chiesa ne è l’integrità, un dono aggiunto alla sua natura, senza il quale essa, pur essendo completa, non può tuttavia dirsi in buone condizioni. E questa è l’Università Cattolica. Libertà e verità la sostengono: essa, infatti, «non teme alcuna conoscenza, ma le purifica tutte; non reprime alcun elemento della nostra conoscenza, ma coltiva l’intero». Dato che non c’è alcun bisogno di un Euclide o di un Newton cattolici, il principio al quale si ispira la Chiesa rispetto al sapere è «non proibire la verità di alcun genere, ma vigilare che nessuna dottrina passi sotto il nome della verità, se non quelle che a ragione la rivendicano». L’edizione degli Scritti sull’Università di Newman che qui presentiamo si raccomanda non solo per i contenuti che abbiamo sommariamente richiamato, ma anche per l’accuratezza della presentazione: oltre alla già citata introduzione, il ricco apparato critico e l’utilissimo indice tematico guidano il lettore fra le pagine di un classico della letteratura saggistica inglese, a confrontarsi con temi di grande attualità.


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dal ”Washington Post” del 14/01/2009

Giudici nel caos di Guantanamo di Peter Finn uantanamo verserebbe in uno stato di nel caos giudiziario. Lo ha affermato un ex procuratore militare, davanti ad una corte federale un paio di giorni fa. Ordinare le prove per costruire un processo contro i terroristi detenuti a Camp X-ray non sarebbe possibile, secondo la testimonianza del militare.

G

«Il sistema di raccolta e gestione delle prove è così caotico che non penso si potrà mai costruire un vero processo», è stata la rivelazione di Darrel Vandeveld, un ex tenente colonnello della riserva. La testimonianza è stata allegata alla richiesta di scarcerazione per Mohammed Jawad, un afghano detenuto nella base americana di Cuba da oltre sei anni. Jawad aveva appena 14 anni quando fu arrestato a Kabul nel 2002, dopo un attacco con granate che ferì seriamente due membri delle forze speciali statunitensi e il loro interprete. Vandeveld che ha prestato servizio in Iraq e Afghanistan, è stato il pubblico ministero nel processo contro Jawad, fino a quando non ha chiesto di essere sostituito lo scorso anno, per una dichiarata crisi di coscienza. Ha affermato che il caso è stato caratterizzato da numerosi problemi. Da presunti abusi fisici e psicologici sull’imputato, provocati prima dalla polizia afghana e poi dai militari americani, fino a un castello accusatorio le cui prove sarebbero andate perse, si sarebbero dimostrate false oppure poco credibili. Durante un’intervista telefonica l’ex ufficiale ha ammesso che «la completa mancanza d’organizzazione» è un problema che ha influenzato quasi tutti i procedimenti penali istruiti a Guantanamo. Sembrava alle volte – continua – che le prove fossero state raccolte alla rinfusa, durante un raid in un

villaggio, caricate sugli elicotteri e portate direttamente in aula. Senza neanche una rudimentale classificazione nominativa o temporale. Vandeveld fu assegnato alla procura militare di Guantanamo nel maggio 2007, appena prima del rinvio a giudizio di Jawad. Chiaramente ciò che ha influito su questi giudizi così severi è l’attività che svolgeva nella vita civile: il vice procuratore generale nello Stato della Pennsyivania. Per lui è stato un vero shock incominciare a raccogliere e leggere le carte del caso del govane afghano. Chi l’aveva preceduto non aveva effettuato alcuna classificazione dei documenti, che erano impilati senza ordine sulla scrivani e sistemati alla rinfusa nei cassetti. Le prove più importanti poi – continua l’ex procuratore – o non esiteva più o erano state depositate non si sa bene dove.

Le forze armate, tirate in ballo dalle accuse, hanno respinto ogni addebito mosso da Vandeveld, come ha fatto il colonnello Lawrence Morris, a capo della Procura militare. Ha sostenuto che dietro le accuse ci sarebbe del risentimento personale. Vandeveld si sarebbe risentito per non essere stato promosso a responsabile del team dell’accusa – ha affermato Morris – non sollevando alcuna perplessità di carattere etico e morale durante tutto il periodo in cui avrebbe lavorato sotto la sua supervisione. Inoltre avrebbe emesso una richiesta di condanna per 40 anni di carcere per Jawad, solo poche settimane prima delle sue dimissioni, sempre secondo la tesi della Procura militare. Il giudice “pentito”ha

risposto rigettando ogni parola della versione del suo ex capo. Comunque qualche passo sarebbe stato fatto su suggerimento dell’Ufficio per le military commissions. Sarebbero state create nuove giurie, con il compito di passare di nuovo al vaglio tutte le accuse, con una riassegnazione dei casi. Le reazioni da parte degli avvocati militari degli imputati sono state negative. Sempre Vandeveld aveva dichiarato che la polizia afghana aveva fatto firmare a Jawad - che era analfabeta - con l’impronta digitale, una confessione scritta in lingua farsi. Per costringerlo a una confessione, e prima di consegnarlo ai militari Usa, i poliziotti avevano minacciato di morte lui e la sua famiglia.

Successivamente il prigioniero aveva fatto alcune dichiarazioni agli americani, registrate su di un video tape che il pm non è mai riuscito ad ottenere. Tutto l’incartamento sul giovane afghano è ora nelle mani delle autorità federali che dovranno prendere una decisione entro un mese sulla sua scarcerazione.

L’IMMAGINE

Gli Israeliani sono tutti Occidentali ma non tutti gli Occidentali sono Israeliani Siamo tutti Israeliani: Israele è parte del mondo occidentale, anche se una parte non piccola del mondo occidentale non si ritrova con Israele. Nelle nostre città, oltre alle manifestazioni a sostegno di Israele ci sono anche manifestazioni a favore della Palestina. Non tutte finiscono con la bandiera israeliana in fiamme. Molte svolgono un’opera di indottrinamento per il riconoscimento di due popoli, due territori, due Stati. Tuttavia, la questione sembra essere proprio questa: i palestinesi, e chi sostiene le loro ragioni, vogliono effettivamente due popoli e due Stati? Non sembra credibile infatti l’idea secondo la quale si vogliono due popoli e due Stati e da decenni, da sempre, non si riesca a creare le ragioni per la convivenza di due popoli e due Stati. Oggi, poi, a questa impasse si aggiunge anche il determinante elemento antisionistico e antiebraico: si vuole in sostanza la cancellazione dello Stato di Israele dalla cartina geografica.

Enzo Maccoli

CHI SEMINA NON SEMPRE RACCOGLIE Voglio fare la parte dello stupido ottimista. Credo, e spero, che a Gaza la guerra finirà presto, prima che Obama arrivi al Soglio, ultimo favore della Rice agli Usa e a Hillary. La politica estera non è come la biancheria che si cambia tutti i giorni e Obama non farà miracoli. Credo che lui abbia dato il suo assenso ad Israele per quello che è avvenuto, solo che vorrà risultare vergine del sangue Palestinese per poter operare con più libertà in Medio Oriente. Hamas andava “ammorbidito” per poterci parlare, ostacolo inviso a tutti gli Arabi moderati, Ryad e Cairo in testa, desiderosi di“sistemare”una storia troppo lunga e pericolosa per i loro interessi. Hillary non è una tenera ed è sempre una Clin-

ton, quello arrabbiato per Camp David, quando Arafat non firmò l’accordo con Barack perchè ricattato dai suoi oltranzisti, da califfo vecchio, sopraffatto dai suoi “affari”e forse anche invigliacchito dalla malattia;ebbe paura di fare la fine di Sadat. Bush, dopo aver fatto di tutto per far vincere i Democratici, farà loro quest’ultimo favore, capro espiatorio per tutte le cose che “dovevano”essere fatte in questi anni, Iraq compreso. La storia dirà se il Petroliere sia stato tutto quel disastro di cui viene accusato. Non sempre chi semina raccoglie.

Dino Mazzoleni

UCRAINA: CHI PAGA AVRÀ IL GAS Dopo l’accordo strategico firmato in dicembre tra Kiev e Washington, nel quale è previsto

Con le ali ai piedi Accelerano fino a sfiorare i 90 chilometri all’ora. Per poi spiccare il volo, cercando di atterrare il più lontano possibile. Non sono uccelli, ma sciatori spericolati. Il record mondiale di salto con gli sci è del norvegese Bjørn Einar Romøren che ha percorso ben 239 metri, rimanendo in aria 8 secondi. Lo sport fu inventato da alcuni norvegesi, militari costretti ad usare gli sci nelle situazioni più difficili l’aiuto Usa per lo sviluppo delle infrastrutture energetiche del Paese, il presidente ucraino Viktor Iushenko ha proposto al collega russo Dmitrij Medvedev di firmare un documento tecnico che fissi rotte, quantità, qualità e pressione del gas-metano. A una settimana dalla chiusura dei rubinetti russi decretata da Putin, non si intravede ancora una via

rapida d’uscita dal tunnel, nonostante le telefonate roventi sull’asse Bruxelles-Mosca-Kiev e le numerose azioni legali già annunciate da più parti. Non basterebbe, invece, una sensata valutazione dei propri interessi primari perché Usa, Ue e Russia smettessero di fingere di ignorare che una partnership strategica di lungo periodo con l’Ucraina, o

con ciascuna delle repubbliche ex-sovietiche sia nel Caucaso sia nell’Asia centrale, potrà essere appannaggio soltanto di un alleato che si faccia carico della bolletta energetica di tali Paesi e giammai di un arcigno socio che, da vicino o da lontano, faccia mostra di minacce o di solidarietà diplomatico-muscolari?

Matteo Maria Martinoli


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Mi desiderate o mi amate? La mia natura debole e il vostro temperamento ardente devono produrre pensieri molto diversi. Voi dovete ignorare, o disprezzare, le migliaia di sofferenze insignificanti che mi turbano; dovete ridere di ciò che mi fa piangere. Forse non sapete neanche che cosa sono le lacrime. Che cosa sareste per me: un sostegno o un padrone? Mi consolereste dei mali che ho patito prima di incontrarvi? Capite perché sono triste? Capite la compassione, la pazienza e l’amicizia? Forse siete stato allevato con l’idea che le donne non hanno anima. Pensate che ce l’abbiano? Non siete né un cristiano né un musulmano, non siete un uomo civilizzato né un barbaro - siete dunque un uomo? Che cosa si nasconde in quel petto mascolino, dietro quella fronte superba, quegli occhi leonini? Avete mai un pensiero nobile, fine, un sentimento fraterno e pio? Quando dormite, sognate di volare verso il paradiso? Quando gli uomini vi feriscono, credete ancora in Dio? Sarò la vostra compagna o la vostra schiava? Mi desiderate o mi amate? Quando la vostra passione sarà soddisfatta, mi ringrazierete? Quando vi avrò fatto felice, saprete come dirmelo? Sapete cosa sono io e vi angoscia il non saperlo? Per voi io sono un essere sconosciuto cui aspirare e di cui sognare? George Sand a Pietro Pagello

ACCADDE OGGI

…E IO PAGO! E così anche l’Alitalia 2 è volata via col nuovo corpicino ripulito,lasciando a terra i suoi stracci, le lamentele dell’utenza, qualche migliaio di dipendenti e vecchi debiti sui quali campeggia un bel cartello “cittadini, pagateli voi”. Ma non è che Alitalia 2 se ne è andata del tutto risanata, si è portata addosso ancora una bella carica di batteri che da un momento all’altro sono in grado di scatenare febbri sindacali di scioperi. Sinceramente non se ne può più. I viaggiatori sono esasperati e anch’io. Quando leggo Alitalia, subito la associo al concetto di sciopero, interminabili permanenze in aeroporto, bivacchi, esasperazioni, impegni che saltano. Mi sentirei più sereno viaggiando sulla scopa di una Befana. Tutte le proteste dei lavoratori compiute sul corpo agonizzante di Alitalia 1 mi sembravano simili agli atti di Maramaldo che uccideva un uomo morto, una serie impietosa quanto assurda di violenze per distruggere quel che restava del proprio posto di lavoro. Se la nuova Cai-Alitalia farà dei corsi ai propri dipendenti di terra, di cielo e d’ogni luogo, pregherei di inserire anche qualche ora per illustrare che cos’è un fallimento, che fine fanno i dipendenti di un’azienda fallita e che fine, invece, hanno fatto loro in maniera privilegiata, almeno perché si rendano conto del pericolo scampato grazie a leggi speciali assurde che permettono di salvare aziende private, come se fossero pubbliche. E che l’Alitalia fosse privata non c’è alcun dubbio, era persino quotata in Borsa. Ora, se anche la nuova Compagnia fa-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

16 gennaio 1938 Memorabile concerto di Benny Goodman alla Carnegie Hall, con Gene Krupa alla batteria 1945 Adolf Hitler si trasferisce nel suo bunker sotterraneo, il Führerbunker 1956 Il presidente dell’Egitto Gamal Abd el-Nasser promette di riconquistare la Palestina 1970 Buckminster Fuller riceve la medaglia d’oro dall’American Institute of Architects 1977 I Fratelli Marx vengono introdotti nella Motion Picture Hall of Fame 1979 Lo Scià Mohammed Reza Pahlevi lascia l’Iran e si rifugia in Egitto 1991 Gli Stati Uniti e 27 paesi alleati attaccano l’Iraq per l’invasione del Kuwait 1992 Funzionari governativi e ribelli di El Salvador firmano gli Accordi di pace di Chapultepec: stop a 12 anni di guerra civile 1994 Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro scioglie le Camere 1995 Giappone: un violento terremoto colpisce la regione del Kansai, provocando più di 4 mila morti

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

cesse la stessa fine della prima, dobbiamo pagare ancora noi i suoi debiti con la stupida scusa che viene definita “Compagnia di bandiera”?

Pietro Rossi

LA COLLETTIVIZZAZIONE DELL’INDIVIDUO L’essere umano nasce, viene battezzato a sua insaputa e considerato aderente alla religione. I maschi devono difendere la patria. La società ha i suoi diktat impliciti; spinge al matrimonio, «avente come scopi: la procreazione, il reciproco aiuto e il rimedio alla concupiscenza». Le persone non coniugate sono spesso considerate “da sposare” e “zitelle”, se donne. Chi non figlia può essere malvisto, perché non fa fruttificare la fertilità. La persona va inserita nella folla, nel coro, nel gruppo, nel gregge. L’individuo solo, indipendente, autosufficiente e intellettualmente autonomo incute timore, specie se non “tiene famiglia”: può essere giudicato individualista, egoista, inaffidabile. Conviene ubbidire al potere: così il padrino mette in cattedra il pupillo; il sacerdote benedice il fedele. I persuasori occulti pubblicitari sollecitano all’acquisto di beni e servizi; la propaganda al voto partitocratico. La massificazione consiglia di figliare tanto, per ottenere moltitudini omologate, uniformate, collettivizzate. Il libero, l’originale, l’eccentrico e il solista rischiano d’essere ritenuti le bestie nere. La persona corre l’alea d’essere standardizzata e degradata da fine a mezzo.

Gianfranco Nìbale

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

dai circoli liberal

IL PEGGIOR NEMICO DEL PARTITO DEMOCRATICO È SE STESSO Autunno 2007: nasce il Partito democratico. Per molti si tratta di una vera e propria rivoluzione, per altri di una fusione a freddo, per altri ancora di un colpo di teatro sul palcoscenico della politica italiana. Il leader Walter Veltroni spiega che il Pd è e dovrà essere la sintesi di culture diverse: quella erede del comunismo, quella del socialismo, quella del cattolicesimo democratico, quella del libertinismo radicale. Dapprima sostiene che il Pd si presenterà alle elezioni politiche da solo, poi stringe un’alleanza con quanto di più vicino ci sia all’incarnazione dell’antipolitica: l’Italia dei valori. Nasce un cocktail dal colore e dal sapore indefiniti e, difatti, l’elettorato non lo comprende e non lo vota. Dire oggi agli amici Popolari «ve l’avevamo detto!», sa di puerile e di inutile. Come decisamente improvvidi appaiono, almeno per il momento, gli inviti a lasciare il Pd per entrare a far parte dell’Unione di centro. Quel che è certo è che se dovessimo tracciare un consuntivo sugli effetti finora prodotti dalla nascita del Pd, dovremmo necessariamente prendere atto che la politica italiana ha subito e sta subendo un grave deficit: 1) i grandi partiti hanno preferito trasformarsi in contenitori disomogenei; 2) il Partito democratico lo è di nome ma non di fatto: adotta, quali criteri di selezione della propria classe dirigente, metodi plebiscitari, pilotati nei candidati e blindati nelle liste elettive; 3) in particolare la disomogeneità del Pd ha riproposto, quale suo unico collante, ciò che per quindici anni era stato il solo elemento di “unione” del centrosinistra: l’antiberlusconismo (peraltro interpretato con molta più efficacia e virulenza dai dipietristi dell’Idv); 4) il “non-partito” Pd ha prodotto l’esperienza speculare della Pdl (altro “non-partito”), restituendo linfa politica a quel Silvio Berlusconi che, sempre nell’autunno del 2007, sembrava sull’orlo del logoramento suo e dell’intera Cdl; 5) l’immediata conseguenza del quarto punto ha trasformato il gesto disperato di San Babila nel P2 - …non siate maliziosi - trattasi del secondo proclama berlusconiano (il primo, se non erro, fu nel 1994 quando, a reti Mediaset unificate, annunciò la sua discesa in campo). Come dire…! Appare quasi che il peggior nemico del Pd sia il Pd stesso. Mauro Cozzari P R E S I D E N T E R E G I O N A L E CI R C O L I L I B E R A L D E L L ’ U M B R I A

APPUNTAMENTI OGGI VENERDÌ 16 GENNAIO 2009 ROMA - PALAZZO FERRAJOLI - ORE 11 RIUNIONE NAZIONALE DEI CIRCOLI LIBERAL

ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529

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PAGINAVENTIQUATTRO Regno Unito. Per l’abate Jamison la major «strumentalizza la spiritualità»

E la Chiesa mette all’indice i cartoni della di Silvia Marchetti

el Regno Unito le fatine, cappuccetto rosso e il lupo cattivo, la strega e Biancaneve salgono sul banco degli imputati. È scoppiata l’ennesima polemica culturale capeggiata dalle gerarchie ecclesiastiche, ma questa volta a fare la voce grossa è la chiesa cattolica d’Inghilterra, che mette “all’indice”i cartoni animati della Disney. L’attacco giunge direttamente dal numero due del cattolicesimo britannico, Christopher Jamison, abate di North in West Sussex e in pole position per diventare il prossimo arcivescovo di Westminster, ossia il leader spirituale dei cattolici della Gran Bretagna, quando il cardinale Murphy O’Connor si ritirerà.

N

secondo l’abate «il messaggio dietro ogni film, libro, parco-giochi e maglietta è quello di credere che il mondo dei nostri bambini abbia bisogno della Disney». Di conseguenza, questo meccanismo fa sì che «i nostri ragazzi non si possono certo perdere il nuovo cartone animato uscito nei cinema, che noi educatori regale-

DISNEY

Secondo Jamison la major hollywoodiana starebbe «strumentalizzando la spiritualità» con l’obiettivo di vendere i propri prodotti e trasformare così Disneyland in una moderna meta di pellegrinaggio. Nel nuovo libro in uscita questi giorni nelle librerie inglesi intitolato Trovare la felicità - una sorta di manuale spirituale per vivere meglio - Jamison critica il mondo amorale proiettato e rappresentato dalla Disney. I cartoni animati quali La bella addormentata nel bosco e La carica dei 101 corrompono i ragazzi, sostiene, spingendoli verso il consumismo più sfrenato e inculcando una visione distorta della vita tramite un finto moralismo, che non fa altro che creare una cultura ancora più materialista. Nella sua opera l’abate mette in guardia la società contro il declino dei valori religiosi e la perdita della dimensione spirituale; afferma che molte persone sono diventate ossessionate dal lavoro, dal sesso e dal cibo nel tentativo di ignorare il loro perenne stato di infelicità. Le colpevoli di tutto ciò sarebbero le grandi aziende e le multinazionali che sfruttano questo malessere per fare profitti promuovendo una falsa cultura della gratificazione immediata. Secondo Jamison, la Disney è il “classico esempio”di come il consumismo viene commercializzato come alternativa alla felicità. Insomma, il mondo animato di Topolino, Paperino e Biancaneve sarebbe pieno di falsi valori che corrompono l’anima, soprattutto quella dei più piccoli. Jamison punta il dito contro i «metodi» Disney. Secondo lui l’obiettivo dei produttori è quello di mostrare nei cartoni animati il trionfo del bene contro il male per convincere le famiglie ad acquistare i prodotti della casa cinematografica e sentirsi così «buoni e felici». Il marchio Disney è sempre stato sinonimo di allegria, ma

sneyland e se i bambini non ci vanno non sono pienamente felici: è questo per l’abate Jamison il messaggio distorto e pericoloso diffuso dalla casa cinemtografica. «Un tempo la moralità faceva parte della nostra eredità culturale - scrive nel libro - oggi sono le grandi corporazioni che la confezionano e la vendono come se fosse un

prodotto facilmente godibile. Siamo di fronte allo sfruttamento commerciale della spiritualità». L’abate aggiunge inoltre che il mondo animato dell’universo Disney «è ormai entrato a fare parte della nostra immaginazione rendodoci avidi». Non è un caso che Trovare la felicità sia uscito proprio nel periodo delle festività natalizie, quando l’atmosfera è intrisa di impulsi consumistici (ma il portafogli degli inglesi piange). La preccupazione che ormai il Natale si sia svuotato di significato accomuna sia gli anglicani che i cattolici. Le parole di Jamison seguono infatti di pochi giorni l’appello dell’arcivescovo di Canterbury a riscoprire il senso profondo dell’Avvento e la cultura dell’attesa. Trovare la felicità è già diventato un tormentone sui siti religiosi inglesi, l’abate Jamison gode di una grande popolarità dopo aver partecipato al documentario spirituale “Il Monastero”, mandato in onda dalla Bbc e filmato proprio nella sua abbazia di Worth.

Famose favole come “La bella addormentata nel bosco” e “La carica dei 101” corromperebbero i ragazzi, spingendoli verso il consumismo più sfrenato e inculcando una visione distorta della vita tramite un finto moralismo remo loro anche in dvd come regalo di compleanno». Insomma, è evidente che le critiche di Jamison non sono soltanto rivolte a chi vende certe prodotti, ma anche a chi li compra, ossia ai genitori che dovrebbero seguire con attenzione la crescita dei figli e spesso non lo fanno. La mecca della felicità oggi è Di-

Sta di fatto che il manuale della felicità di Jamison non fornisce istruzioni precise su come vivere meglio la propria quotidianeità anche perché «possiamo trovare molte risposte alle nostre domande semplicemente vivendo con più naturalezza». Ma non mancano i consigli pratici: rifiutare «le tentazioni superficiali della cultura contemporanea», dire no all’ossessione della celebrità che crea gelosia e insoddisfazione e cercare di domare i propri pensieri praticando una maggiore auto-disciplina e controllo di sé. In una parola: tamponare la deriva consumistica dell’esistenza.


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