ISSN 1827-8817 90117
Tutti gli uomini che in Italia
di e h c a n cro
si fanno da sé, è evidente che si fanno piuttosto male
Leonardo Sciascia
9 771827 881004
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La prossima settimana in aula al Senato un testo decisivo per il futuro dell’Italia
Tre domande sul federalismo misterioso
LA GUERRA DEI MEDIA L’Annunziata, per protesta, lascia la trasmissione. Fini scrive a Petruccioli per contestare “Annozero”. Ma il caso Santoro è solo uno degli esempi di un grande problema: chi controlla le notizie su Gaza mentre Israele pensa a una “tregua unilaterale”
di Francesco D’Onofrio inizio della discussione parlamentare in Senato nella prossima settimana dovrebbe costituire l’occasione giusta per un grande e rigoroso dibattito su tre questioni preliminari per qualunque deliberazione seria sul tema del federalismo fiscale: gli interessi sul debito pubblico; la definizione delle competenze; la sorte delle regioni a statuto speciale. Per quanto riguarda la questione degli interessi sul debito pubblico, occorre definire in via preliminare quale idea dell’Italia si ha in mente allorché si propone una radicale trasformazione del nostro sistema in senso federale. Non dovrebbe esservi alcun dubbio che il debito pubblico resti di competenza statale perché è l’Italia tutta ad essere responsabile della questione complessivamente denominata del debito pubblico.
L’
s eg u e a p ag i n a 8 serv izi a pa gina 8 e 9
Udine: Eluana non deve morire
Hamas Daily News alle pagine 2, 3, 4 e 5
di Franco Insardà a pagina 11
Confronto di tre ore a pranzo con avviso al premier: «La giustizia si cambia solo con l’opposizione»
Fini e Berlusconi, duello su riforme e Pdl Il presidente della Camera: meno decreti del governo e garanzie per An nel partito di Riccardo Paradisi
Ci sarà bisogno di una grande coalizione
ROMA. La colazione di Montecitorio
terne. E così, secondo le fonti ufficiatra il premier Silvio Berlusconi e il li, l’incontro di ieri tra Fini e Berluscopresidente del Consiglio Gianfranco ni sarebbe stato talmente «utile e Fini, cui ha partecipato anche il sottoamichevole» da generare una road segretario alla presidenza del Consimap per la fase finale della costruzioglio Gianni Letta, ha messo una topne del nuovo soggetto unitario. E sapa sulle lacerazioni che nelle ultime rebbe stata confermata la data del 27 settimane si erano aperte all’interno marzo per il congresso costitutivo del del Pdl. Dalle polemiche sul cesariPdl. Data che qualcuno nell’infuriare smo e la centralità del Parlamento a delle polemiche aveva minacciato di quelle sul ricorso compulsivo del gofar slittare. Fini e Berlusconi hanno verno alla decretazione d’urgenza, il anche parlato di una bozza di statuto Gianfranco Fini ha chiesto Pdl aveva subìto scosse profonde alla da sottoporre ad una comune discusa Berlusconi meno decreti da parte sua tenuta interna. L’incontro di ieri sione, indicando in questo statuto, ha del governo e più spazio per An tra i due uomini forti dell’alleanza specificato Fini, «Le regole di funzioe i suoi colonnelli nel Pdl serviva dunque soprattutto a restituinamento di un partito moderno, dere un’immagine più solida e serena del Pdl, che secondo i mocratico, che garantisca democrazia al suo interno». sondaggi stava perdendo consensi per colpa delle liti insegue a pagina 6 seg2009 ue a p•agEinURO a 9 1,00 (10,00 SABATO 17 GENNAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
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Ma la crisi cambierà tutti i loro piani di Enrico Cisnetto on c’è bisogno di essere marxisti – «l’economia è la struttura, la politica la sovrastruttura» – per capire che probabilmente anche l’attuale “foresta pietrificata” della politica italiana avrà qualche scossone se la palude del declino economico su cui galleggiamo da anni si trasformerà all’improvviso in un burrone. s egue a pag ina 9
N
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 17 gennaio 2009
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Il commento. La parziale informazione che arriva in Occidente fomenta la piazza, ma l’antisemitismo è un’altra cosa
Anche le parole sono missili «I media danno una versione ideologica e deformata del conflitto, la nostra guerra è contro Hamas, non contro i palestinesi» colloquio con Abraham B. Yehoshua di Luisa Arezzo n errore. Impedire alla stampa internazionale di entrare a Gaza per raccontare la guerra, si sta rivelando uno sbaglio. Le informazioni arrivano solo da Al Jazeera e fonti, quasi mai giornalisti, palestinesi, il cui unico scopo - totalmente ideologico - è quello di avvalorare la tesi di un genocidio in corso». Si accalora Avraham B.Yehoshua - scrittore e una delle anime intellettuali di Israele - davanti al dilagare di un’informazione quasi sempre schierata con «i terroristi». Ma non ha dubbi: «Questa guerra è sacrosanta, e non si può certo dire che io abbia benedetto tutte le iniziative avallate dai nostri governi in questi ultimi anni. Anzi. Ma ora basta. Per dare una chance alla pace questo conflitto deve proseguire. Ed essere vinto. Hamas sconfitto è l’unica possibilità per i palestinesi di arrivare a una pace. Di più: questa guerra è necessaria soprattutto per loro». Dopo solo venti giorni di guerra, in tutto il mondo occidentale si sono verificati episodi di
«U
antisemitismo. Giovedì si è aggiunta al coro anche Naomi Klein, mentre ieri, a Tolosa, in Francia, sono apparse scritte antisemite sui muri e marciapiedi e un ragazzo di 24 anni, a Fontenay sous Bois, vicino Parigi, è stato accoltellato per essere ebreo. Stesse scene si sono ripetute nei giorni scorsi in Belgio, in Gran Bretagna, in Olanda, anche a Roma. Seppur fortemente condannate dai governi e larga parte dell’opinione pubblica. Un’informazione parziale, come quella che arriva visto che i media non possono entrare nella Striscia, ha un ruolo in tutto questo? Sì e no. Certamente fare affidamento solo sulle cronache di Al Jazeera è un errore madornale. Ma non credo esista direttore di giornale occidentale che ignori la faziosità della rete. Dunque, è presumibile che una certa “maldisposizione” ci sarebbe stata comunque. Basta guardare agli anni passati. Sono otto anni, e specialmente dal disimpegno di Israele a Gaza, che qui siamo raggiunti da una quotidiana cragnuola di missili, primitivi, ma pur sempre missili. Che fino a qualche anno fa avevano una gittata di pochi chilometri e oggi possono farne quasi sessanta, tenendo sotto scacco almeno un milione
“
di persone. E quando abbiamo reagito la maggior parte dell’informazione ha sempre guardato dall’altra parte, a quei “poveri” schiacciati dalla mano pesante di Gerusalemme e Tel Aviv. «Guarda, gli spianano le case, guarda, distruggono interi quartieri...». Mai un cenno all’invivibilità nostra. Ma se a via Veneto un giorno sì e un giorno no missiletti cadessero bucando strade, tetti, macchine, rmettendo a rischio la vita delle gente, quanto resistereste a dire: adesso basta? Poco. Bene, noi abbiamo atteso anche troppo. Per questo è partita l’operazione “Piombo fuso”. Dunque lei critica larga parte della stampa internazionale? Sì, quando non offre l’esatto stato dell’arte.Voglio essere ancora più preciso. Questa non è una guerra fra un Paese forte e militarmente dotato di armi, aerei e milizie e un Paese povero e miserabile. Se il punto fosse stato questo, la guerra sarebbe finita dopo un giorno. Altro che guerra dei sei giorni. Il punto è che noi combattiamo contro questi missili artigianali, nascosti in ogni dove, e non ci fermeremo finché non saranno distrutti. Finchè non sarà garantito il ritorno alla normalità al nostro popolo. La tregua è lontana?
Impedire l’ingresso dei giornalisti è stato un errore. Ma la guerra è sacrosanta. E porterà la pace al popolo palestinese
”
No, le mie informazioni dicono che ormai è vicina. Molto. Ma bisogna fare un distinguo: i primi a beneficiari di questo attacco saranno i palestinesi stessi. Senza la sconfitta di Hamas, senza la messa al bando di questo incubo terrorista, nessun isareliano vorrà mai siglare un trattato di pace. Loro beneficeranno della nostra intransigenza. Gli europei non fanno altro che sottolineare la prepotenza militare di Israele e l’estrema indigenza dei palestinesi. Bè, questi miserabili sono diretti da un regime fondamentalista che non ha la minima pietà verso di loro. Che non si commuove davanti a nessuna forma di sofferenza. Che li ha allenati a sopportare il dolore in una maniera barbarica. Sono i fatti a dimostrarlo: dopo due settimane di guerra ancora non trattano per la pace. Ancora usano dei civili come scudi, non se ne preoccupano. Come giudica le dimostrazioni anti-israeliane in Europa? Ma queste avvengono in Paesi multiculturali, dove la presenza musulmana incita allo scontro, mostra strumentalmente le foto delle vittime civili, parla di genocidio quando i morti sono “appena” 1.100. Genocidio? Scherziamo? Loro combattono sempre, non conoscono altro perché mai altro gli hanno fatto conoscere. La verità è che noi stiamo combattendo con armi sofisticate contro fondamentalisti molto efficienti. Primitivi nei mezzi, ma estremamente efficaci. Dovreste aprire gli occhi e non mostare solidarietà da un lato e criticare ad alta voce un attacco. Se la stampa fosse entrata nella Striscia cosa avrebbe potuto testimoniare? Avrebbe potuto raccontatre che i missili vengono nascosti nella case, nelle cucine, e che ci vogliono pochi minuti per armarli, puntarli, e indirizzarli alla volta di Israele. Avrebbe scritto che i civili sono carne da macello. Lei ha più volta fatto appelli per la pace nella regione. È vero. Ma se vogliamo che questi popoli vivano pacificamente - e questo è il mio desiderio oltre che l’obiettivo politico ufficiale di Israele - la soluzione è rassicurare il mio Paese sulla definitiva cessazione della guerra lanciata da Hamas. Dalle informazioni che ho, il conflitto non dovrebbe durare più di tre giorni ancora, e l’Egitto, finalmente, sta lavorando alacremente a perché ciò accada. Dico finalmente perché Il Cairo sono anni che fa passare armi ai palestinesi grazie ai tunnel. Un business economico senza uguali. Che condividono varie nazioni, Iran in testa. Lei ha parenti nelle aree del conflitto?
prima pagina LA CRITICA. «Mi dispiace, qui si presentano al 99 per cento solo le posizioni dei palestinesi», così ha detto Lucia Annunziata a Michele Santoro, giovedì sera, durante «Annozero». Santoro non ha sopportato questa piccola critica e ha rimbeccato
l’Annunziata così: «Sei una giornalista, non venire qui a criticare come si fanno le trasmisioni». E poi un’assoluta volgarità: «Cerchi crediti da qualcuno?». L’Annunziata a questo punto si è alzata e se n’è andata. FINI. Il presidente della Camera ha telefonato al presi-
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dente Rai Claudio Petruccioli per denunciare che durante la trasmissione si «era superato ogni livello della decenza». IL CDA. Giuliano Urbani, consigliere Rai in quota Pdl, spiega che la questione Santoro-Annunziata finirà «sul tavolo della prossima riunio-
ne del Consiglio di Amministrazione». ZANDA. L’esponente Pd ha preso le distanze da Santoro: «Mi permetterà di dirgli che l’informazione anche quella dura è cosa diversa dalla spettacolarizzazione».
La lettera a Petruccioli sul caso Santoro dell’ambasciatore di Gerusalemme
Perché non parlate dei bambini israeliani? di Gideon Meir
“
Gli europei spesso dimenticano che gli abitanti di Gaza sono diretti da un regime fondamentalista che non ha pietà di loro I miei due figli. Il maggiore ha tre figli e ora si trova nella West Bank, il più giovane, invece, si trova a sud di Gaza. Sono terribilmente in ansia per lui e aspetto che il telefono squilli per darmi sue notizie. Ma questa guerra finirà, e allora l’Europa, la comunità internazionale e Israele potranno investire sulle rovine di Gaza e cercare di ricostruirla. Per i palestinesi. Noi non ci riprenderemo Gaza. È una certezza. Ci siamo ritirati. Sia chiaro, io non parlo ciecamente a favore di Israele, ma parlo per il bene della pace. La sofferenza della popolazione di Gaza deve finire e questo si può raggiungere, purtroppo, solo attraverso un atto di forza, solo attraverso la guerra. Nel 2003 a Falluja, in Iraq gli americani e gli inglesi hanno ucciso centinaia di persone e i feriti furono tantissimi. Ma un certo terrorismo è stato fernato, è stato evirato. Noi combattiamo per lo stesso fine. Estirpare i terroristi. E quelli che protestano (e che non lo fanno certo per il Darfur o la Georgia) facciano pure. Io accetto le proteste di chi pensa che Israele sia forte con i deboli. Le accetto. Ma noi andiamo avanti.
”
In alto, manifestazione antisemita in Turchia. Foto piccole, il presidente della Camera Gianfranco Fini e il conduttore di “Annozero” Michele Santoro. A destra, l’ambasciatore israeliano in Italia Gideon Meir. A sinistra, lo scrittore Abraham B. Yehoshua
Gentilissimo Presidente, lle scrivo in via eccezionale per esprimere il mio sconcerto e la mia protesta per la trasmissione televisiva Annozero, andata in onda ieri sera, 15 gennaio, su Raidue, e apparentemente dedicata alla situazione nella Striscia di Gaza. Devo premettere che io mi occupo di Mass Media da molti anni ormai, e che prima del mio incarico qui in Italia ho ricoperto per sei anni la carica di direttore generale per l’informazione e i Mass Media presso il Ministero degli Esteri a Gerusalemme. Questo mi ha permesso, in tutti questi anni, di prendere parte a centinaia di trasmissioni e di vedere migliaia di programmi di attualità dedicati al conflitto araboisraeliano. Devo dire che non ho mai visto sui Mass Media internazionali occidentali una trasmissione così poco accurata dal punto di vista professionale. Non soltanto nella trasmissione di ieri sera non vi è stato alcun tentativo di spiegare agli spettatori che cosa stia accadendo nella Striscia di Gaza, ma anzi, i pochi e isolati tentativi di qualche partecipante in tal senso sono stati messi a tacere dal conduttore senza esitazione, con la motivazione che si trattasse di argomentazioni troppo complesse per quella trasmissione e che ciò che si voleva fare lì era solo «occuparsi di ciò che sta accadendo a Gaza in questo momento».
“
deliberata di fare uso, da parte di Hamas, della popolazione civile come scudi umani, tattica che senza alcuna ombra di dubbio ha provocato perdite umane enormi tra la popolazione civile palestinese. E sarò lieto di fornirLe testimonianze scritte e visive di tutto ciò. Sono rimasto esterrefatto dalla scelta, compiuta dal conduttore, di ignorare totalmente anche tutti i bambini palestinesi uccisi dal fuoco di Hamas, per esempio, proprio un giorno prima dell’inizio dell’operazione militare, quando un missile lanciato da Hamas contro Israele è invece caduto su territorio palestinese, uccidendo due bimbe palestinesi a Beit Lahiya. E purtroppo quello non è stato il primo e unico caso di palestinesi uccisi dal fuoco di Hamas. Il conduttore è forse pronto a giurare che parte dei bambini uccisi in quest’ultimo conflitto non siano stati uccisi dal fuoco di Hamas, come quelle due povere bimbe.
A mio umile parere, la trasmissione ha divulgato pregiudizi e preconcetti sullo Stato ebraico
E che cosa sta accadendo in questo momento? Da spettatore attento ho compreso che secondo l’opinione del conduttore ciò che sta succedendo è che Israele sta deliberatamente compiendo un eccidio di civili palestinesi. Ed era palese che secondo il conduttore lo stiamo facendo già da molti anni. Con una scelta selettiva e manipolatrice il conduttore ha mostrato parti del film israeliano contro la guerra Valzer con Bashir, dalle quali ciò che si lasciava intendere è che anche in Libano l’intenzione era quella di uccidere, sempre senza alcuna apparente ragione, bambini palestinesi. Il titolo della trasmissione di ieri era La guerra dei bambini, ma sciaguratamente il conduttore non ha ritenuto opportuno parlare, neanche per un attimo, delle centinaia di bambini israeliani trucidati negli attentati terroristici o dai lanci di missili di Hamas sulle città israeliane. Centinaia di bambini israeliani non meritano, a quanto pare, di essere menzionati. Inoltre la trasmissione ha assolutamente ignorato la tattica tanto esecrabile quanto dichiarata e
Il tentativo di presentare Israele come uno stato
assetato di sangue, che intenzionalmente e deliberatamente uccide bambini palestinesi, a quanto pare per «punire Hamas», senza però fornire la minima spiegazione sulle guerre imposte a Israele negli ultimi 60 anni e sulle migliaia di attacchi terroristici palestinesi e sui lanci di 10.000 missili contro Israele, attacchi che in tutti questi anni sono sì invece stati deliberatamente mirati contro la popolazione civile e che sono costate la vita a migliaia di civili e di bambini, testimonia a mio umile parere non soltanto la mancanza di professionalità inappropriata e inadatta alla Televisione pubblica italiana, ma anche la divulgazione di pregiudizi e preconcetti del peggior tipo sullo stato ebraico, mediante la deformazione della realtà e la manipolazione dei fatti, cosa inaccettabile, anche sotto le vesti di critica, che sarebbe di per sé legittima, alle azioni israeliane in difesa dei suoi cittadini. L’uso di un doppio standard, la demonizzazione dello Stato d’Israele e la conseguente delegittimazione delle azioni israeliane in difesa dei propri cittadini hanno fatto sì che la trasmissione in questione non rispettasse nessuno standard professionale.
”
Siamo certi che Lei saprà adottare le necessarie misure per far sì che un simile spettacolo vergognoso non si ripeta più, e che possiate trovare la maniera adeguata per spiegare che si è trattato di una trasmissione che ha esulato da qualsiasi standard di etica giornalistica basilare.
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Striscia. Qui si combattono due conflitti: uno fra israeliani e palestinesi, l’altro fra militari e giornalisti. Un clamoroso autogol per tutti
La guerra dei media Il corrispondente di SkyTg 24: «Vi spiego perché a Gaza è impossibile raccontare la verità» colloquio con Renato Coen di Vincenzo Faccioli Pintozzi sraele «ha compiuto un autogol nell’escludere dalla guerra di Gaza l’informazione» perché escludendo i media «questo conflitto si è trasformato in uno scontro fra due propagande opposte: quella israeliana e quella palestinese». Lo dice a liberal Renato Coen, corrispondente di SkyTg 24 dalla Striscia di Gaza. Un posto da cui è oramai impossibile fare informazione, perché «ci si deve limitare alle fonti interne, oppure dare ascolto alle decine di incontri per la stampa organizzati dall’esercito israeliano». Come vive un corrispondente di guerra nella Striscia di Gaza? Come viene gestita l’informazione? Noi non siamo dentro Gaza: tutti i valichi sono chiusi, a parte quello con l’Egitto che è stato aperto tre giorni fa. Chi vive fra Israele e i territori palestinesi prende le sue informazioni ascoltando in primo luogo le fonti di informazione locale: radio, tv e stampa, ma sempre israeliani. Per bilanciare si telefona dentro Gaza, a degli informatori palestinesi di cui ci si può fidare e ascoltando quello che dicono. Si tratta sempre di persone che conosciamo da prima del conflitto, quelli che ti possono dare un’idea di quello che avviene quotidianamente sul territorio. Va detto che loro non hanno una visione complessiva dei combattimenti sul campo, né hanno idea di quale sia la strategia militare in corso. Ma, per sapere se le forze israeliane sono entrate in un lato specifico di Gaza (nord o sud) sono i migliori: anche perché sono gli unici. Queste sono le fonti principali del nostro lavoro, a cui ovviamente vanno aggiunte quelle solite: agenzie di stampa internazionali o i giornali dei colleghi. Che, però, sono sempre limitate: danno poche informazioni in più rispetto a quelle che possiamo avere dai locali. Quindi, quotidianamente, il lavoro di un corrispondente televisivo si svolge così: si fanno moltissimi collegamenti audio e video, intervallati da giri sul campo con l’operatore alla ricerca di storie da raccontare. Il problema vero è che, potendo raccontare solo la parte israeliana, non si riesce a essere equili-
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brato. Non possiamo parlare soltanto dei bambini chiusi nei rifugi, e ignorare quelli che muoiono sotto i bombardamenti. Sarebbe, e a volte è, talmente sbilanciato che diventa frustrante. Ne parliamo spesso, fra colleghi. Arriva il razzo su una casa ad Ashqelon: io prendo la macchina, vado con l’operatore e faccio il collegamento con le macerie dietro le spalle. Nel frattempo cadono duecento missili su Gaza, e quello non lo posso riprendere.
“
Lavoriamo combattuti fra i briefing di Tzahal e le immagini dei palestinesi. Senza sapere la verità
”
Questa è la prima guerra senza media… Secondo me, questo è uno dei punti più interessanti da sottolineare: siamo davanti a un cambiamento epocale rispetto al conflitto con gli Hezbollah in Libano, avvenuto due anni e mezzo fa, che ho seguito esattamente come seguo Gaza. Le differenza sono enormi. Quella guerra,
da un certo punto di vista, era simile a quella attuale: l’esercito regolare israeliano in territorio ostile, che combatteva contro un movimento che lanciava razzi su Israele. Da questo punto di vista, anche la dinamica è simile al conflitto in corso: non sono due eserciti che si scontrano. La differenza è che al tempo, per 35 giorni, abbiamo avuto accesso – ovviamente litigando con i militari, entrando di nascosto in mezzo ai campi, cercando appigli da ogni parte – a quasi tutti i punti interessanti del conflitto. Io stesso, diverse volte, sono riuscito a riprendere dei soldati israeliani che tornavano sconvolti dal punto di combattimento e a parlare con loro. Li“beccavo” mentre attraversavano la rete del confine. Qui, invece, tutta la zona che in linea d’aria è lunga un chilometro dal confine con Gaza – da ogni lato la si guardi – è stata dichiarata area militare invalicabile.Tutta la parte in cui i militari si preparano a entrare nella Striscia, o ne escono dopo una missione, è inavvicinabile. I giornalisti pagano, in un certo senso, le capacità militari di Ehud Barak: due anni fa il ministro era Amin Peretz, un sindacalista poco capace dal punto di vista militare. La prima cosa che ha fatto il nuovo ministro della
Un soldato perquisisce un giornalista. A Gaza, nonostante la decisione della Corte Suprema israeliana, i sei giornalisti autorizzati non sono mai entrati. Nella pagina a fianco, uno dei tunnel usati da Hamas nel conflitto
Difesa, invece, è stata allontanare la stampa: non vuole assolutamente che i militari abbiano a che fare con la stampa. Allo stesso tempo, e questo indica una chiara volontà politica, veniamo bombardati da messaggi di testo sul cellulare inviati dalle forze armate israeliane – io ne ricevo circa 35 al giorno – in cui veniamo invitati ai briefing militari, dove ci mostrano filmati ripresi da loro (che poi finiscono anche su YouTube) e danno i dati sul conflitto. Un’azione di propaganda enorme, però mediata da Israele. È una strategia informativa totalmente opposta a quella del conflitto libanese, dove non c’era mediazione. I famosi sei giornalisti estratti a sorte dal governo, dopo la decisione della Corte Suprema di far entrare i media nella Striscia, che fine hanno fatto? A Gaza, di quei sei estratti, non c’è nessuno. La procedura proposta da Gerusalemme dopo la sentenza era questa: facciamo entrare sei giornalisti, poi li facciamo uscire e ne facciamo entrare altri sei. In realtà, il governo non ha mai rispettato la decisione. Hanno messo come scusa il fatto che l’offensiva di terra è iniziata dopo la sentenza, e quindi erano cambiati i parametri decisionali e le condizioni di sicurezza. Quello che ora fa Israele, ormai da giorni, è far fare un giro di poche ore a piccoli gruppi di giornalisti, che vengono presi e portati dai militari in alcune zone. Quelli che sono dentro sono entrati tramite il varco egiziano, grazie a dei la-
sciapassare firmati dai governi o dall’Unione europea. Ma, come tutti gli abitanti della Striscia, sono bloccati e non possono muoversi. Non sono controllati dai militari, ma sono fermati dalla guerra. Questa strategia di informazione controllata è un errore o un punto a favore di Israele? Io penso che sia un errore. Da un certo punto di vista, ma io non sono un esperto di comunicazione militare, il governo israeliano deve essersi fatto i suoi calcoli, prima di decidere in questo senso. È probabile che vogliano evitare grane dai circa 400 giornalisti che sono nella zona. Tra le grane, oltre al giornalismo investigativo, intendo anche la morte accidentale di un reporter. D’altra parte, però, il monopolio dell’informazione viene lasciato in questo modo a persone che non sono parti terze, nel conflitto, ma sono fin troppo coinvolte. Intendo tutti i giornalisti palestinesi dentro Gaza. E questo è un danno nei confronti di Israele.Tra l’altro, è noto che a Gaza non c’è la riservatezza riservata agli ospedali occidentali: questi entrano con le telecamere persino in sala operatoria. Anche se ci sono colleghi bravi e seri, colleghi che conosco, rimane il fatto che sono imparentati dei morti e dei feriti. Israele, secondo me, avrebbe dovuto consentire proprio per sé stesso l’ingresso di un terzo osservatore sulla scena del conflitto. Invece, così, ci si deve districare fra due propagande diverse.
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Il gabinetto di sicurezza del governo Olmert vota oggi lo stop all’offensiva
Israele: pronti a tregua unilaterale di Massimo Fazzi on una mossa a sorpresa, il governo israeliano ha deciso nella serata di ieri di prendere in considerazione l’opportunità di bloccare unilateralmente l’offensiva nella Striscia di Gaza, invece di accettare un formale cessate il fuoco con Hamas nei termini previsti dalla mediazione egiziana. Lo riferiscono fonti politiche israeliane dopo una giornata fitta di incontri fra Gerusalemme, Ramallah e l’Onu. «Il gabinetto di sicurezza del governo di Gerusalemme - ha detto una fonte anonima dello stesso esecutivo al quotidiano Haaretz - voterà a favore del cessate il fuoco unilaterale alla riunione di domani, dopo la firma dell’accordo a Washington per la lotta al traffico d’armi e dopo i significativi progressi fatti al Cairo».
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Questa mossa priverebbe Hamas di ogni conquista di carattere politico che deriverebbe da un accordo di tregua, a partire dall’allentamento del blocco dell’enclave costiera. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si era dichiarato ottimista, affermando che una tregua nella Striscia di Gaza «è molto vicina». Questa dichiarazione era arrivata dopo l’incontro con il primo ministro palestinese Salam Fayyad nella Muqata, il quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah. Opinione condivisa dal Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, alla luce dell’intesa raggiunta a Washington con Israele contro il riarmo di Hamas. Sulle ipotesi di cessate il fuoco restano però le divergenze tra le parti: Israele vuole una tregua senza scadenza, mentre Hamas pretende un limite di un anno. Inoltre, è necessario subordinarla al totale ritiro degli occupanti. Inoltre, Gerusalemme vuole che il controllo sui valichi di confine torni alle
forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. In pratica, un ritorno al potere degli uomini di al-Fatah, il partito da sempre rivale di Hamas. Il leader di quest’ultimo, lo sceicco Khaled Meshaal, aveva peraltro già respinto in blocco tutte le condizioni poste da Israele. Continua però l’operazione Piombo Fuso, che secondo i vertici dell’esercito israeliano è ormai prossima alla «fase finale».
Un annuncio che dà forza alla probabilità di tregua unilaterale. Dagli Usa arriva intanto la notizia dell’accordo siglato tra la Rice e la Livni sulle misure di prevenzione per il riarmo di Hamas, considerata indispensabile da Israele per sospendere le operazioni militari. Importante anche la missione affidata al generale Amos Gilad, consigliere politico del ministro della Difesa, Ehud Barak, che è tornato al Cairo per esporre ai mediatori le modifiche che Israele vuole apportare alla proposta di Hamas. All’incontro, insieme a Gilad, anche un emissario del presidente israeliano Olmert, il consulente diplomatico Shalom Turgeman. Nel frattempo, però, sono arrivate le prime precisazioni. Secondo una fonte della Difesa, che dichiara di aver parlato con il ministro Barak, «l’esercito israeliano rimarrà a Gaza dopo lo stop unilatarale dell’offensiva nell’enclave palestinese». La fonte, anonima, non rivela per quanto tempo l’esercito con la “stella di David”rimarrà nella striscia costiera. E, nel frattempo, l’esercito israeliano continua ad operare a Gaza: le forze terrestri compiono incursioni in diversi rioni, li perlustrano e poi si ritirano per passare ad un altro quartiere. Così è accaduto nel rione di Tel al-Hawa, e ieri nel campo profughi Shati. Al ritiro delle forze israeliane, dalle macerie di edifici colpiti a Tel alHawa sono stati estratti i cadaveri di 23 palestinesi.
Mille ingressi sotterranei assicurano ad Hamas armi clandestine e vie di fuga (in Egitto)
La verità sui tunnel del terrore Rafah li chiamano i nuovi ricchi: ci sono ormai centinaia di giovani uomini d’affari che guadagnano a man bassa – e da tempo – con il business dei tunnel sotterranei. Un numero consistente di mani operaie ha costruito questa rete sotterranea dalla quale passa di tutto, a partire dal confine egiziano. Puoi ricevere persino prostitute o mogli scelte in altri paesi arabi, ma anche droga, generi alimentari, latte, automobili e soprattutto armi a profusione. Per molti anni tutti ne parlavano, ma nessuno li aveva visti. Durante la seconda Intifada, nel 2000, i proprietari venivano protetti dall’autorità palestinese. Naturalmente i funzionari che chiudevano gli occhi partecipavano alla super rendita dei commerci sotterranei. Da noi chiamasi corruzione.
A
Quando gli israeliani si sono ritirati, nel 2005, dalla Striscia di Gaza, il traffico di armi è vistosamente aumentato: tra il 2005 e il 2006 il numero dei missili arrivato nella Striscia è passato da 179 a 946. La situazione è diventata ancora più allarmante quando nel 2007 tutto il potere è passato nelle mani di Hamas. Da allora i tunnel sono diventati un gigantesco mercato bellico di armi anche molto sofisticate, provenienti soprattutto dall’Iran ma anche dalla Cina. Naturalmente - anche in virtù dell’embargo - è continuato inoltre l’arrivo di altre merci clandestine, con il risultato che dalla rete sotterranea di cunicoli, in cui lavorano circa 12mila persone, vengono
di Gabriella Mecucci “estratti”650mila milioni di dollari – secondo una ricerca del quotidiano israeliano Ynet - un mega introito che ha mantenuto i 18mila abitanti della cittadina palestinese di Rafah. Qui - così raccontano i dati più recenti - ci sono ben 1.250 entrate per i tunnel, mentre altre 850 ne sarebbero state aperte in Egitto. Sul confine egiziano le trovi un po’dappertutto: in mezzo ai campi, alle piantagioni di ulivi o a quelle di al-
tri sotto terra. Ci poteva camminare un uomo a“quattro zampe”e in alcuni punti raggiungeva l’altezza di un metro e settanta centimetri. Era dotato di interfono per comunicare con l’esterno. Insomma, si trattava di un “tunnel tecnologico”. Durante il governo di Hamas i tunnel sono diventati 500, ciasuno ha più di una entrata e di un’uscita. Ma c’è di più, l’organizzazione terroristica palestinese li gestisce di-
Per anni se n’è parlato, ma nessuno li aveva visti. Oggi si sa che nei cunicoli lavorano circa 12mila persone, e da lì vengono “estratti” 650mila milioni di dollari beri da frutto: c’è un pezzo di territorio frontaliero che è una vera e propria groviera. Una volta un soldato francese che compiva una esplorazione nella zona del Sinai, entrò dentro una casa e da un armadio sentì uscire un forte spiffero d’aria. Domandò al proprietario il perché di quel vento e gli venne risposto, senza mezzi, termini che dentro la credenza c’era il terminale di un tunnel. Bastava aprirla e ci si trovava davanti ad un cunicolo abbastanza largo, che scendeva per ben trenta me-
rettamente e chiunque voglia usarli per i propri commerci, magari non strettamente legati alla guerra, deve pagare una tassa di 10.000 dollari all’anno. Se un lavoratore dei tunnel - quelli per intenderci che trasportano armi, missili e quant’altro - dovesse morire nel compimento del proprio dovere, Hamas esige dal datore di lavoro in sostanza si tratta di altri gruppi impegnati nella guerra ad Israele - che versi alla famiglia dello scomparso ventimila euro. E questo spiega anche perché Hamas è
particolarmente popolare presso ampi strati di popolazione palestinese. Chi vuol usare i suoi tunnel deve pagare un “pizzo” all’organizzazione e una liquidazione ai parenti di chi perde la vita mentre procura armi per altre organizzazioni terroristiche. Ogni mese entrano nelle casse di Hamas dai 6 agli 8 milioni di euro. Soldi che servono per acquistare altre armi, ma anche per aiutare la parte della popolazione meno abbiente. Insomma, la rete di cuniculi sotterranei serve per sostenere la guerra e per acquisire consenso. Al Cairo sono tutti convinti che la sicurezza egiziana sappia tutto di questi commerci, ma chiuda un occhio in cambio di soldi.
Corruzione vera e propria e qualche volta anche simpatie ideologiche. Sta di fatto che appena un agente viene a sapere che potrebbe esserci un bombardamento israeliano, la prima cosa che fa è correre ad informare i capi di Hamas. Dopo giorni e giorni di bombardamenti su Gaza, solamente una parte della rete sotterranea è stata distrutta, mentre sono ancora molti i tunnel che restano attivi. E per Israele la distruzione di tutti i cuniculi è forse l’obiettivo principale. Ma sarà comunque impossibile bombardarli tutti. E se ci sarà una tregua, chi controllerà che non riprendano subito a funzionare per scaricare a Gaza armi clandestinamente? È questo uno dei grandi problemi che un accordo fra le parti dovrà affrontare. Questione rognosa e forse addirittura non risolvibile.
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segue dalla prima Fin qui le dichiarazioni ufficiali tra le righe delle quali però possono leggersi segnali abbastanza chiari sul fatto che tra Berlusconi e Fini più che di pace fatta si dovrebbe parlare piuttosto di tregua armata. Porre l’accento, come ha fatto infatti Fini, sulla necessità di un partito che abbia al suo interno un funzionamento democratico è un messaggio abbastanza chiaro, per chi vuole capirlo, sul fatto che il Partito della libertà, come è stato concepito fino ad oggi, non garantisce sufficienti garanzie democratiche al suo interno. Ma non c’è solo questo. Il presidente della Camera nella prima parte della colazione dedicata ai rapporti tra Parlamento e governo, ha invitato ancora il premier a non abusare della decretazione d’urgenza, ribadendo la centralità delle Camere nel processo legislativo e auspicando di riavviare il percorso per la riforma della seconda parte della Costituzione e più nello specifico della gustizia, anche con l’auspicabile coinvolgimento dell’opposizione. Prediche che, come è noto, non mettono di buon umore il Cavaliere. Anche perché è su queste filippiche finiane che era nata e cresciuta di giorno in giorno l’incomprensione tra il leader di Forza Italia e quello di Alleanza nazionale.
Ma sembra esserci ancora dell’altro oltre quel poco che le note ufficiali dicono. Quanto al percorso costitutivo del Pdl, secondo la presidenza di Montecitorio infatti, Fini si sarebbe limitato a sostenere «la necessità di indicare nello statuto organismi, regole di funzionamento, modalità della scelta dei candidati». Silvio Berlusconi sarebbe poi eletto, e non acclamato, presidente dal congresso con un sistema di voto che potrà anche essere quello segreto o per alzata di mano. Quanto agli organi, si sarebbe ipotizzato di costituire una sorta di parlamentino:
Nella foto accanto il premier Silvio Berlusconi e il presidente della Camera Gianfranco Fini che ieri si sono incontrati in una lunga colazione a Montecitorio per parlare dei problemi del Pdl. Sotto, il ministro della Difesa e reggente di An Ignazio La Russa, che ha fatto da pontiere tra i due uomini forti del centrodestra
Summit. Confronto di tre ore fra il premier e il Presidente della Camera
Riforme, fiducia e Pdl Duello Fini-Berlusconi di Riccardo Paradisi una Assemblea Nazionale di circa 1000 persone, una direzione di un centinaio di membri, un ufficio politico o un esecutivo ristretto di una ventina, con tre coordinatori sotto Berlusconi stesso. Ci sarebbe anche qualcosa di più. Fonti interne ad An declinano con più precisione infatti le condizioni che avrebbe posto Fini a Berlusconi. Richieste che riguardano lo stesso futuro politico del presidente della Camera. In sintesi Fini avrebbe chiesto al Cavaliere che la ripartizione di dirigenti e
delegati da mandare al congresso di marzo – 30% ad An e 70% a Forza Italia – sia mantenuta anche dopo la fusione dei due partiti nel Pdl.
Questo per consentire ad An di non disarmare la propria tenuta e organizzazione e per evitare che invece di una fusione quella di marzo finisca con l’assomigliare a una vera e propria annessione. Come in queste ultimi mesi si continua a paventare negli ambienti anche periferici di An. Non solo; Fini vorrebbe che accanto alla presidenza
In questo modo An potrebbe far sentire il proprio peso all’alleato forzista alla vigilia dell’unione di fatto tra i due partiti che si appresta ad essere celebrata. Unione dentro la quale sarebbe ufficialmente garantita la preservazione delle reciproche identità. Sono condizioni che peraltro Berlusconi potrebbe non avere difficoltà ad accettare anche perché per ora il Cavaliere, accettandole, non dovrebbe sacrificare nulla della sua leadership. Anzi, attraverso il rasserenamento di Fini Berlusconi otterrebbe una pacificazione nel Pdl e potrebbe affrontare senza fronti interni la vera emergenza che lo preoccupa in questa settimane e che in prospettiva continuerà a dargli seri grattacapi. La questione settentrionale infatti si è aperta ufficialmente anche a destra e in questa settimana con le rivolte leghiste, le proteste di sindaci e governatori del nord contro la romanizzazione del governo, ha fatto sentire anche i suoi effetti politici nella votazione sul decreto anticrisi. In questa ottica di negoziazione si capiscono meglio anche le dichiarazioni di alcuni espo-
An chiede una diarchia dentro il partito, una segreteria da affiancare alla presidenza. Un vicario di Fini evidentemente, tale almeno fino al termine della legislatura del Pdl, funzione che spetterebbe naturalmente a Berlusconi, sia prevista anche una segreteria da affidare a un esponente di An. Un vicario di Fini evidentemente, tale almeno fino al termine della legislatura. Termine oltre il quale l’attuale presidente della Camera potrebbe tornare nell’arena politica con un ruolo di leadership ufficiale e garantito dentro il Pdl.
nenti di An. Come quelle di Ignazio La Russa: «Il capo della coalizione, e domani del Pdl, si chiama Silvio Berlusconi. Il capo di An, e domani leader del Pdl, si chiama Gianfranco Fini». O quelle del vicepresidente del Senato Domenico Nania: «Penso che quando si parla del Pdl come nuovo soggetto politico si deve considerare il rapporto tra Berlusconi e Fini come quello di un tandem che costituisce il valore aggiunto del centrodestra. In sostanza – continua Nania – il rapporto tra Berlusconi e Fini non può mai essere quello di cui si è parlato tra Forza Italia e Alleanza Nazionale di 2 a 1 (o di 70 a 30)». Insomma dice Nania: non si tratta di trovare un posto per Fini, «Ma di definire il ruolo del Pdl, in modo tale che si scriva Pdl ma si possa leggere Berlusconi-Fini».
Insomma un patto chiaro per la successione di domani. Un patto che preveda sin da oggi che quando sarà il momento la staffetta della leadership del centrodestra dovrà passare da Berlusconi a Fini. Si tratta di vedere, come dice lo stesso Fini, che succederà nei prossimi giorni. Se la road map verrà effettivamente disegnata secondo questi vettori. Come la prenderanno anche i colonnelli di Forza Italia che sarebbero poi quelli a pagare il prezzo più alto di un simile accordo. «Ora la fusione si fa non sul terreno dei valori – diceva venerdì l’ex ideologo di An Domenico Fisichella in un’intervista al Corriere della Sera – ma nell`assenza di valori». Non si riferiva ai valori della negoziazione evidentemente.
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Scissioni. Il segretario del Prc critica Vendola, la frattura, Sansonetti e Veltroni
in breve
Ferrero: no a Prodi, sì a Soru di Francesco Capozza
ROMA. Sono giorni di passione per Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista dal 27 luglio scorso. Prima l’affaire Sansonetti, il direttore di Liberazione defenestrato lunedì scorso. Poi la scissione annunciata dalla minoranza vendoliana. Ancora, l’incognita delle alleanze in vista delle Europee di giugno. Nonostante ciò, Ferrero appare tranquillo e con grande disponibilità ha accettato di rispondere alle domande di liberal. Segretario Ferrero, Nichi Vendola ha annunciato che la minoranza del Prc si riunirà il 24 e 25 gennaio per discutere della scissione. Le chiedo un commento. Se ciò avverrà, sarà per il partito una scelta dolorosa, il rischio è di creare solamente un ennesimo movimento che si andrebbe a collocare, tra l’altro, nell’orbita del Pd. Lei venerdì scorso ha avuto un faccia a faccia con Bertinotti. Il giorno dopo l’ex presidente della Camera ha detto che «questo Prc è irriconoscibile». Che ne pensa? Che non è vero quello che ha affermato Fausto. Ho seguito la stessa linea che lui tenne nel ’98, all’epoca della scissione che portò all’uscita di Cossutta, Diliberto ed altri. Potrei dire che, per come sto agendo, mi sento molto “bertinottiano”. Sempre Bertinotti sul caso Sansonetti ha detto che «è stata decapitata un’esperienza giornalistica unica». Perchè avete licenziato il direttore di Liberazione? Guardi, la faccenda è lineare: la gestione di Sansonetti è stata totalmente fallimentare. Con lui il quotidiano ha quasi dimezzato le vendite, passando da oltre 10.000 copie a meno di 6.000. Oltre ad un “buco” di quasi 3,5 milioni di euro. Una cifra simile, con il partito fuori dal Parlamento, è mortale. Secondo lei Sansonetti avrebbe dovuto dimettersi il giorno dopo il congresso? No. Per me Sansonetti poteva e doveva rimanere. Prendendo atto, però, da quanto emerso a Chianciano. Invece il giornale negli ultimi mesi non ha fatto altro che invitare allo scioglimento e al superamento di Rifondazione. Una linea inammissibile e, come ho detto, fallimentare. Lei ha criticato Liberazione anche per lo spazio dato a Luxuria e all’Isola dei famosi. Poi, però, a Vladimir lei ha offerto una candidatura alle Europee. Una mossa per “fare cassa”? Io non ho criticato il fatto che il giornale parlasse di Luxuria. Ho criticato il modo scellerato in cui la sua vittoria in un Reality è stata paragonata alla vittoria di Obama negli Stati Uniti. Detto questo, ho offerto a Vladimir di candidarsi alle Europee perchè la reputo intelligente, colta e attenta a quelle problematiche che a tutti noi stanno a cuore. Segretario, Oliviero Diliberto ha invitato Rifondazione a ricucire lo strappo del ’98, riunificando le sigle comuniste in un unico partito. Anche per lei sono superati i motivi che causarono quella scissione? Innanzi tutto le rispondo dicendo che noi non vogliamo nessuna ambiguità sullo stalinismo e su ciò che esso ha causato. E’ quanto di più lontano dal comunismo. Su questo con i compagni del Pdci siamo ancora distanti. E poi le dico che sono contrario all’unione di vari partiti solo perchè portano un richiamo analogo al comunismo. E se passasse la riforma della legge elettorale che prevede uno sbarramen-
“
La scissione sarebbe per il partito una scelta dolorosa, il rischio è di creare solamente un ennesimo partito di sinistra
Vendola si prepara alla “conta”
Il governatore vuole un altro partito comunista ROMA. Lo strappo causato con la rimozione di Piero Sansonetti dalla direzione di Liberazione è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nichi Vendola e i suoi della “mozione due”hanno deciso di tornare a Chianciano per decidere sull’uscita da Rifondazione comunista. Assemblea di minoranza, pertato, convocata nella cittadina termale toscana per il 24 e 25 gennaio prossimi. Una scelta non casuale quella della location. Lì, dal 24 al 27 luglio scorsi si è tenuto il VII congresso della Rifondazione comunista che ha sancito la vittoria (con un margine, tuttavia, non molto ampio) della “mozione uno”, quella di Ferrero e Russo Spena, per intenderci, su quella proposta da Vendola e dai bertinottiani. La prossima settimana i seguaci del governatore pugliese e dell’ex presidente della Camera, decideranno se è opportuno o meno lasciare il partito e fondarne uno nuovo. Magari posizionandolo vicino al Partito democratico di Walter Veltroni. Un bertinottiano di ferro come l’ex segretario Franco Giordano, però, è cauto sull’ipotesi scissione. Una minoranza nella minoranza? Ci auguriamo solo che non si arrivi alla scissione dell’atomo. ( f.c.)
”
to al 4%? Per prima cosa noi ci opporremo a quella proposta di legge. Se dovessimo essere vittima ancora una volta delle decisioni di Veltroni e Berlusconi, vedremo il da farsi. Non trova paradossale che Veltroni spinga per questo accordo? Su questa vicenda Veltroni si sta comportando come se fosse nella maggioranza. Vuole una legge ad personam del tutto simile al Lodo Alfano. È colpa di Berlusconi e Veltroni se siete fuori dal Parlamento? No, è colpa del fallimento del progetto politico che ci ha portato al governo nel 2006. Non abbiamo cambiato il Paese come gli elettori ci chiedevano. Non si è fatta una legge sui diritti civili. Non si è approvata una norma sulla tassazione delle rendite. Non si è fatto nulla per la precarietà. Le cause? Perché il governo Prodi, come oggi il Pd, è stato servo del Vaticano da un lato e dei poteri forti dall’altro. Veltroni candida Paola Concia ma poi la linea la detta Paola Binetti. Candida l’operaio della Thyessen ma poi ascolta Calearo. Che effetto le fa che a riproporre una legge sulle coppie di fatto sia un ministro democristiano di un governo di centrodestra? Se Rotondi riuscirà a far passare i DiDoRe avrà ottenuto un successo per il Paese. Credo che se ci fosse ancora la Dc avrebbe più autonomia del Pd. Soru si candida in Sardegna invocando il modello vincente dell’Ulivo e voi lo sostenete. È possibile il ritorno a quel centrosinistra? Con Prodi non rifarei l’accordo, con Soru subito. Ultima domanda: Di Pietro rappresenta l’elettorato di sinistra? Di Pietro cavalca l’antiberlusconismo. Mai avuto accanto a noi nelle battaglie come quella contro la precarietà. La sua è una politica priva di contenuti sociali.
Caso Sandri, a giudizio Spaccarotella L’agente della Polstrada Luigi Spaccarotella è stato rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario per la morte del giovane deejay romano Gabriele Sandri, ucciso nell’area di servizio della A1 di Badia al Pino (Arezzo). Lo ha deciso il giudice per l’udienza preliminare di Arezzo, Luciana Cicerchia, al termine della camera di consiglio. I legali del poliziotto, in apertura di udienza, avevano chiesto il rito abbreviato condizionato, richiesta respinta dal gup. La prima udienza del processo è in programma il 20 marzo prossimo al Tribunale di Arezzo. Secondo l’accusa, Spaccarotella ha sparato, la mattina dell’11 novembre 2007, dalla parte opposta della carreggiata centrando Sandri con un proiettile, e uccidendolo.
Moody’s non abbassa il rating dell’Italia Per Moody’s, nel prossimo futuro, «non ci saranno cambiamenti sostanziali del rating sul debito sovrano dell’Italia. Continueremo a monitorare le cose, ma nel confronto con altri Paesi, sta bene così com’è». Lo ha detto Pierre Cailleteau, capo-economista internazionale di Moody’s, ricordando che il rating attuale è «Aa2» con outlook stabile che è, comunque, «più basso rispetto ad altri grandi Paesi europei come Francia e Germania».
Le celebrazioni dell’Istituto Luigi Sturzo A novant’anni esatti dalla fondazione del partito e dall’appello ai «Liberi e forti», l’Istituto Luigi Sturzo celebra l’evento organizzando una tavola rotonda dal titolo “Sturzo e il Partito Popolare nella storia d’Italia”. L’incontro si terrà nella sala convegni dell’Istituto lunedì 19 gennaio 2009 alle ore 17.00, in via delle Coppelle 35 a Roma. Presiederà i lavori il professor Francesco Malgeri, docente di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma. Interverranno Pietro Craveri, Giovanni Sabbatucci, e Giuseppe Vacca.
politica
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Riforme virtuali. Dal Tesoro nessuna certezza sui costi del nuovo sistema, protestano Pd e Udc. E Napolitano accusa: «Vuoto di strategia per il Sud»
Il federalismo al buio La legge Calderoli arriva in Parlamento Ma ormai è diventata solo uno slogan di Errico Novi
ROMA. Nella prima bozza Calderoli c’era un dettaglio. Dal testo sul federalismo fiscale approvato due giorni fa dalle commissioni del Senato quel dettaglio è scomparso. Si tratta della norma che prevedeva un tetto massimo alla pressione fiscale complessiva. Sarebbe stato imposto contestualmente all’entrata in vigore dei primi decreti delegati. «Non c’era copertura, siamo soddisfatti per la soppressione di quell’articolo», hanno commentato giovedì sera i senatori democratici, promotori della modifica. Tutto è più chiaro, adesso: la riforma
dito l’allarme. Anche il capogruppo dell’Udc Gianpiero D’Alia lamenta «l’assenza di indicazioni sufficienti sulla sostenibilità economica del federalismo». E spiega la decisione del suo gruppo di astenersi sul ddl anche con le perplessità sulla «delega in bianco» data al governo «per scrivere norme che stravolgono i rapporti finanziari e istituzionali tra Stato, Regioni e autonomie».
D’Alia lamenta anche il rischio che il nuovo sistema ponga fine all’autonomia siciliana. Ieri il Consiglio dei ministri ha
Allarme del presidente della Repubblica per la «caduta di attenzione sul Mezzogiorno» e la «concreta diminuzione degli investimenti dello Stato».Toppa dal governo: un piano Marshall per Sicilia e Sardegna voluta fortemente dalla Lega e messa a punto dal ministro alla Semplificazione normativa procede al buio. Non si sa in che modo saranno sostenuti i costi necessari per assicurare l’uguale standard dei servizi in tutte le Regioni – pure previsto dal disegno di legge – a fronte delle diverse capacità contributive. Ieri i rappresentanti del Pd a Palazzo Madama hanno riba-
approvato, su proposta di Berlusconi, un emendamento al ddl per varare «una sorta di piano Marshall», secondo la definizione di La Russa, per Sicilia e Sardegna. Quello del federalismo resta però un contenitore vuoto. Non c’è alcuna garanzia che il graduale passaggio all’autonomia impositiva degli enti eviti brutte sorprese. Si può dare anzi quasi per
scontato che il passaggio al nuovo regime comporterebbe un aumento della pressione fiscale. D’altronde all’assenza di chiarezza sulla riforma federale corrisponde, evidentemente, quello che Giorgio Napolitano definisce «un puro e semplice vuoto di strategia verso il Mezzogiorno». Un’accusa pesante, rivolta ieri da Reggio Calabria nel corso del convegno “Mezzogiorno euromediterraneo, idee per lo sviluppo”, al quale è intervenuto dopo il commissario per le Politche regionali della Ue Danuta Hubner. «Allo stato attuale non è nemmeno dato sapere se il quadro strategico nazionale approvato per il 2007-2013 resta tuttora valido», ha detto il presidente della Repubblica, «c’è una drammatica caduta del grado di attenzione per tutte le forze rappresentative per il Mezzogiorno». Che, infierisce Napolitano, corrisponde a una «concreta caduta degli investimenti ordinari dello Stato».
Non è detto che i tempi di una così dura reprimenda siano stati scelti per esprimere implicita preoccupazione sul ddl Calderoli, che da martedì prossimo sarà discusso in aula al Senato. Napolitano sembra piuttosto
voler affermare un principio di unità dopo le ultime levate di scudi leghiste: dalla minaccia di non rispettare il patto di stabilità interno avanzata dai sindaci del Carroccio (e avallata dalla mozione del Pd) agli equivoci lasciati aperti dal governo sull’uso dei Fas, spesso dirottati dal Sud verso altre destinazioni. Se il vuoto descritto da Napolitano c’è, è in ogni caso doppio. Perché all’assenza di un disegno per il Mezzogiorno (contestata a Berlusconi dai suoi stessi parlamentari) si aggiunge appunto l’incertezza sui costi del federalismo. La capogruppo Pd Anna Finocchiaro
sollecita l’esecutivo a battere un colpo: «Ancora non esiste alcuna simulazione né sulle poste finanziarie coinvolte, né sugli effetti che il federalismo fiscale è destinato a produrre, manca ogni base informativa per valutare l’effettivo impatto della riforma sulla spesa pubblica». Il rebus è complicatissimo. I democratici chiedono certezze sul carattere “verticale” (dallo Stato alla periferia) del metodo di perequazione. Nello stesso tempo invocano, come l’Udc, assicurazioni affinché «dall’introduzione del nuovo sistema non derivi, nemmeno nella fase transitoria, l’aumento del carico fi-
Gli interessi sul debito pubblico, la definizione delle competenze e la sorte delle Regioni a statuto speciale
Tre domande su una riforma misteriosa di Francesco D’Onofrio segue dalla prima Se – come sembra – il debito pubblico resta di competenza statale è di tutta evidenza che bisogna evitare in ogni modo che le decisioni concernenti il federalismo fiscale mettano in dubbio, o anche soltanto concorrano a mettere in dubbio, la solvibilità complessiva dell’Italia in riferimento al pagamento degli interessi sul debito medesimo. Tutti sappiamo infatti che i sottoscrittori dei Titoli di Stato sono interessati alla certezza che il debito pubblico venga onorato anche in riferimento agli interessi concernenti le diverse tranches in scadenza. Ed è di conseguenza essenziale che gli investitori italiani e internazionali sappiano attraverso quali fonti anche fiscali venga onorato il pagamento degli interessi sul debito pubblico.
Non possiamo in alcun modo correre il rischio che il federalismo fiscale – che ovviamente tratta di questio-
ni fiscali – finisca con l’incidere in qualche modo sulla certezza della provvista statale dei mezzi finanziari per il pagamento degli interessi sul debito medesimo. Per quanto riguarda la questione delle competenze, riteniamo di tutta evidenza che è concettualmente inimmaginabile di poter procedere ad una qualsivoglia definizione della ripartizione dei tributi tra centro e periferia del nostro sistema costituzionale senza sapere con ragionevole precisione quali sono le competenze legislative e amministrative dello stato e quelle del pari legislative e amministrative delle regioni e degli enti locali.
Si tratta in particolare di sapere una volta per tutte che fine fanno le province: restano o no? Se restano, con quali competenze? Se scompaiono, a chi vanno attribuite le loro funzioni? Si tratta anche del fondamento comunale delle funzioni amministrative che è già affermato all’articolo 118 del Titolo V della Costituzio-
ne vigente e che attende ancora una qualsivoglia definizione delle competenze fondamentali dei comuni medesimi: si può procedere a definire una disciplina tributaria dei comuni italiani senza sapere a quali compiti essi sono chiamati e in quale modo si fa fronte al problema della grande differenza di popolazione tra un comune e l’altro? Come si può vedere, si tratta di una questione essenziale per qualunque decisione di federalismo fiscale si abbia in mente: regioni politiche o anche amministrative?. Moltiplicazione degli enti pubblici preposti alla spesa pubblica o loro riduzione rispetto alla situazione attuale? Centralità più volte affermata dai comuni quale pura affermazione verbale o sostanza fiscale, politica e democratica del nostro Paese?
Per quanto riguarda, infine, la questione delle Regioni a statuto speciale è sufficiente una pur sommaria lettura degli statuti medesimi, tutti diversi l’uno
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Il declino economico finirà per cambiare i piani della maggioranza
Una grande coalizione per uscire dalla crisi di Enrico Cisnetto segue dalla prima
scale sui contribuenti». Dovrebbe pensarci il Tesoro a fornire questi elementi, e invece, come dice il relatore di minoranza del ddl Calderoli, Walter Vitali, «suscita sconcerto l’assordante silenzio del ministro Tremonti e l’assenza di valutazioni sugli effetti finanziari della riforma». Un dato c’è, ed è quello ricavato dall’ufficio studi della Cgia di Mestre poco meno di un anno fa: il federalismo creerà uno spaventoso aumento della pressione tributaria per evitare che le regioni del Sud si vedano costrette a tagliare i servizi. Da via XX Settembre si attendono smentite.
Qui sopra, Umberto Bossi: è lui a spingere con determinazione sempre maggiore per l’approvazione della riforma fiscale a carattere federalista. A destra, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti
dall’altro anche per quel che concerne proprio la questione fiscale, per capire che si tratta di una questione decisiva per la nascita stessa del federalismo fiscale: restano o no le Regioni a statuto speciale? Se restano, con quali strumenti finanziari? Concorrono esse alla perequazione nazionale? Mantengono o no le proprie specifiche discipline finanziarie che hanno costituito parte non secondaria della stessa definizione di specialità regionale? Si è consapevoli che si tratta di fonti costituzionali quindi non modificabili con leggi ordinarie quali sembrano essere quelle previste per il federalismo fiscale?
Queste tre questioni preliminari devono costituire oggetto di un serio e approfondito dibattito politico e culturale prima che venga affrontato il problema del federalismo fiscale nei suoi aspetti apparentemente tecnici: non si tratta di questioni tecnicamente pregiudiziali in senso costituzionale ma di questioni di buon senso e di assoluta serietà politica e finanziaria prima ancora che di schieramenti politici favorevoli o contrari alla trasformazione federalistica dell’Italia. Ci auguriamo che l’inizio del dibattito parlamentare consenta di colmare un grande vuoto su queste questioni perché dalla soluzione che sarà data ad esse dipenderà in gran parte la valutazione - e non solo parlamentare sulla serietà stessa del federalismo fiscale italiano.
Anzi, il burrone c’è già: quello arrivato due giorni fa dalla Banca d’Italia è un Bollettino, sì, ma di guerra: con un pil che nel 2009 scenderà – come minimo, aggiungo io – del 2% (per trovare un dato peggiore bisogna andare indietro al 1975 della crisi petrolifera), con la produzione industriale che ha fatto un tonfo del 12,3% a novembre ma che secondo Bankitalia andrà anche peggio nei prossimi mesi, con la disoccupazione pronta a esplodere e il “credit crunch”che sta mettendo in ginocchio le piccole e medie imprese abituate ad anni di denaro tutto sommato “facile”. E, dulcis in fundo, con la pietra tombale sul “miracoloso” export, quello a cui, non più tardi di qualche settimana fa, venivano attribuiti poteri taumaturgici, ma che adesso si prevede calerà del 5% nell’anno in corso. Mettiamoci pure le statistiche Ocse, secondo cui l’Italia è stata la peggiore dell’Eurozona – dietro di noi solo il Portogallo – per crescita economica dal 2003 al 2007, ed è ancora più chiaro che di fronte a questi dati, anche la sola definizione di “declino” per descrivere la condizione economica dell’Italia non regge più. Questo 2009, infatti, vedrà venire al pettine senza sconti e tutti insieme i nodi strutturali irrisolti del “sistema paese”. E le conseguenze, è ragionevole pensare, non potranno limitarsi alla sfera economica. La crisi, infatti, creerà un “prima”e un “dopo”. E se al “prima”, quello del declino iniziato dagli anni Novanta, ha corrisposto un sostanziale galleggiamento del“sistema berlusconiano”, qual è la nuova “sovrastruttura” politica che si cucirà addosso alla struttura economica in un “dopo”fortemente recessivo?
non lo fanno dormire la notte: anche a non credere alle previsioni di un catastrofista come Nouriel Roubini (che però spesso ci azzecca, e ha previsto che entro 5 anni finiremo fuori dall’euro), è chiaro che l’allarme conti pubblici è sempre tarato al massimo, e il rischio del default sui titoli del Tesoro è sempre meno un’ipotesi di scuola. Per risolvere il“problema Tremonti”, poi, è già pronto anche il casus belli: le sue ormai proverbiali risse con la Banca d’Italia. Prima era Fazio, adesso è Draghi, che del suo predecessore ha un temperamento opposto, e dunque è difficile pensare che la colpa sia dei Governatori.
Ma anche “normalizzare” il ministero dell’Economia – ammesso e non concesso che la Lega lo molli come l’altra volta – potrebbe non essere sufficiente per tenere in piedi la maggioranza. In seno alla quale la conflittualità è sempre più alta: conflittualità che in passato era stata attribuita a “corpi estranei” come l’Udc, ma che adesso ha tutte le caratteristiche di un male oscuro “di famiglia”, che potrebbe andare fuori controllo se – e non c’è motivo di dubitarne – lo scenario recessivo del 2009 esploderà in tutta la sua violenza. Aziende che chiudono, boom della disoccupazione, tensioni sociali, sono l’incubo di qualunque governo, e possono essere fatali per una maggioranza divisa al suo interno e insieme patologicamente incapace di scelte impopolari all’estero.Tanto più che, nello scenario attuale, questi fenomeni porteranno necessariamente a una radicalizzazione nei due schieramenti: con un Pd magari più schiacciato su posizioni dipietriste e un Pdl sempre più in conflitto sia al proprio interno (vedi le esternazioni di Fini sull’eccesso di decretazione di Berlusconi) sia verso le crescenti tentazioni egemoniche della Lega. E, proprio in quest’ultimo caso, le frizioni già in atto potrebbero superare il livello di guardia, arrivando a provocare un cedimento strutturale. Mancando una seria alternativa (col Pd fuori gioco almeno nel breve-medio periodo), ecco aprirsi allora uno scenario del tutto nuovo: esaurita, per consunzione endogena, l’esperienza berlusconiana, e con una sinistra agonizzante, potrebbe essere finalmente l’ora di una fase (ri)costituente. Con una grosse koalition di stampo tedesco, che sia in grado di fare le riforme improcrastinabili (sanità, assetti istituzionali, previdenza, debito pubblico) e allo stesso tempo di gestire una crisi epocale che “da soli”, è evidente, non si riesce a governare. Se così fosse, questo 2009 potrebbe non essere solo la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa di nuovo. E di positivo. Speriamo. (www.enricocisnetto.it)
Prima o poi i conti pubblici scoppieranno e allora il governo sarà costretto ad affrontare il “problema Tremonti”. Ma il superministro è troppo preso a combattere Bankitalia
La parola d’ordine potrebbe essere “discontinuità”. Una frattura che potrebbe prodursi per via endogena: se è vero, infatti, che al momento, tra crisi di identità e di crescita, temperie valoriale e giudiziaria, non è prevedibile pensare ad un revanchismo del Pd, è giusto anche ricordare che questa non è una condizione necessaria perché l’attuale maggioranza possa arrivare a fine mandato. Certo, Berlusconi userà tutta l’abilità tattica di cui è capace per mantenere in vita il suo governo. Ed è prevedibile pensare che se fosse necessario un“sacrificio”per ingraziarsi gli dei del consenso, non si tirerebbe indietro. La vittima predestinata in questo caso c’è già, ed è il superministro Tremonti. Il quale, agli occhi del premier, si ostina troppo a difendere la santità dei conti pubblici contro chi continua a tirarlo per la giacchetta chiedendo di alleggerire le maglie della finanza pubblica, rendendosi inviso a tutti i ministri e alle parti sociali. Ma il titolare del Tesoro, che tra l’altro Cavaliere giudica troppo intento a lavorare al “dopo Berlusconi”, si è preso precise responsabilità davanti all’Europa, assumendo su di sé nobilmente l’eredità che era stata di Padoa-Schioppa, e non può cambiare registro. Inoltre, le voci circolanti nelle cancellerie europee, tra le banche d’affari e nell’Eurotower,
panorama
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Progetti. Verrà lanciato a Todi nell’annuale seminario della fondazione liberal
A febbraio il manifesto dell’Unione di centro di Francesco Capozza
ROMA. Il 20 e 21 febbraio si terrà a Todi l’annuale convegno della fondazione liberal. In quell’occasione verrà presentato il manifesto politico dell’Unione di centro sul quale in questi giorni sta lavorando il gruppo dirigente del partito. La notizia è stata data ieri da Ferdinando Adornato all’assemblea dei circoli liberal che si è tenuta a Palazzo Ferraioli. Nella relazione introduttiva Adornato ha manifestato l’intenzione dell’Udc di “sfruttare” positivamente quei due milioni di voti presi alle elezioni politiche del 2008, un «capita-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
le - secondo il presidente della fondazione liberal - che è stato ulteriormante rafforzato nelle tornate elettorali amministrative e che, stando ai sondaggi che ci giungono, è in continua crescita».
C’è l’intenzione, quindi, di continuare quel progetto, già
co che dovrebbe portare, nei progetti, ad una Costituente di centro aperta a tutti i cattolici e liberali che in esso si riconoscono e che dovrebbe concludere il suo processo fondativo in «un congresso, da tenersi probabilmente in autunno o all’inizio del prossimo anno». Come sempre, il
Una costituente che parla a cattolici e liberali, e un appello rivolto a tutti quelli che pensano che sia fallito il progetto di Veltroni e Berlusconi lanciato alle politiche dello scorso anno, di rimanere autonomi rispetto ai due «cartelli elettorali che costituiscono questo finto bipartitismo» e di ampliarlo ulteriormante a «tutti coloro che sono d’accordo con noi sul fallimento del progetto di Veltroni e Berlusconi». Il problema non è, dunque, quello delle alleanze, che tuttavia «non essendo sulla luna» vanno fatte (ma «valutando caso per caso»), ma la condivisione di un progetto comune attorno ad un manifesto politi-
convegno di Todi che si svolgerà a febbraio non sarà “chiuso” alla sola partecipazione di coloro che aderiscono all’Unione di centro, ma parteciperanno «ospiti delle due aree politiche maggiormente interessate», del Pd e del Pdl dunque, ma «non solo a quegli amici cui il progetto si rivolge principalmente, saranno invitati - ha confermato Adornato - anche esponenti politici che a questo progetto sappiamo non essere interessati, la cui partecipazione, tuttavia, è ugualmente
importante per capirne le reazioni politiche».
Alla riunione di ieri hanno partecipato tutti i responsabili regionali dei circoli liberal che del progetto costituente «fanno parte integrante», ognuno dei quali ha portato la testimonianza dell’entusiasmo che cresce a livello locale nei confronti dell’Unione di centro e della decisione coraggiosa, ancorchè reiterata, di “andare da soli” contro il tentativo di schiacciamento da parte dei due «finti» partiti. A concludere il dibattito è stato Angelo Sanza, coordinatore nazionale dei circoli e responsabile regionale dell’Unione di centro in Puglia. «I circoli liberal - ha detto Sanza - possono “aiutare“ a livello territoriale la nascita del nuovo soggetto politico. Per fare questo, però, c’è bisogno di un lavoro capillare sul territorio. Noi siamo parte integrante e fondamentale dell’Unione di centro». Inizia così quel percorso costituente da tempo annunciato e per cui, evidentemente «ora i tempi sono maturi».
L’ossessione del leader del Pd di dire sempre ciò che è giusto e ciò che non lo è
Veltroni, i quiz e la politica dei messaggi ome avevano ragione quelli - lo so, non erano Quelli della notte, erano quelli di Indietro tutta, ma tanto avete capito - che cantavano «la vita è tutta un quiz». Cominciamo con un quiz: chi è quel politico italiano che aveva detto lascio tutto e vado in Africa e invece è ancora qui con noi e ogni tanto spara qualche banalità del tipo la tv italiana regala centinaia di migliaia di euro a chi non sa fare nulla? Indovinato, Walter Veltroni, ma non avete vinto nulla. Se volete vincere, ma non so bene cosa, scrivete a Walter a chiedetegli: «Scusi onorevole Veltroni, secondo lei è più immorale o meno sobrio un concorrente che vince 70mila euro perché apre una scatola o un tale che intasca 100mila euro perché è amministratore di una società che è una scatola vuota? È più immorale o meno sobrio chi vince 30mila euro perché dice “A e l’accendiamo”e ci azzecca o un professionista che si fa pagare da un comune 300mila euro per aver perso tre cause? È più immorale o meno sobria una vincita una tantum ad un quiz televisivo o una pensione a vita natural durante per aver fatto il deputato per tre anni?».
C
L’altro giorno hanno intervistato Giulio Andreotti per i suoi 90 anni. Il giornalista Clemente Mimun gli ha
chiesto: «Che consiglio darebbe a Veltroni?». E Andreotti: «Di non parlare sempre come se dicesse delle grandi verità, di parlare come si mangia». Non so come mangi Veltroni, ma sicuramente non ha ascoltato il senatore Andreotti. Il maggior difetto del giovane Walter - chissà perché è sempre dato per giovane anche se è buono per la pensione - è proprio questo della Morale & Verità. È sempre dogmatico, dottrinario, moralistico. Sempre dalla parte del Bene, non ha mai torto, le sue intenzioni sono le migliori del mondo. Non sa proprio cosa sia il Male. L’ultimo suo discorso alla Camera l’altro giorno finiva così: «E questa è la differenza che c’è tra voi e noi». Ecco: Veltroni ha la certezza di appartenere a quella parte dell’umanità che sa di essere migliore e che è la migliore. Più buona, più saggia, con più cuore e più cervello. Naturalmente, più sobria. Non è un caso
che l’altro giorno Veltroni abbia usato proprio questa parola - sobrietà - per puntare il dito contro i concorsi a premi delle televisioni: «Certe trasmissioni mi appaiono marziane: è un messaggio sbagliato, occorrerebbe trovare la via della sobrietà e della solidarietà che abbiamo smarrito». In questa frase non c’è un dubbio, tutto è perentorio, anche se si sta dicendo una enorme fesseria. Veltroni è preoccupato del “messaggio sbagliato” e comunica il “messaggio giusto”. La sua politica è fatta di “messaggi”, come la sua morale è tutta un messaggio. Quante volte al giorno sentiamo frasi del genere: «Bisogna lanciare messaggi giusti»; «Attenti a lanciare messaggi sbagliati».Viviamo l’epoca in cui la morale è il messaggio e così la politica è fatta di messaggi. I telegiornali nel dare la notizia - notizia! - hanno detto: «Veltroni dice basta ai quiz». Fateci caso: la fun-
zione del politico è quella di chi dice basta sempre più spesso. Non si capisce perché il politico ci deve dire cosa è giusto e cosa sbagliato.
Qualcuno salvi il deputato Veltroni dai suoi “messaggi”. Ha avuto la sfortuna di imbattersi in Silvio Berlusconi che della celebre massima di McLuhan «il mezzo è il messaggio» ha fatto la massima della sua vita imprenditoriale e politica. Ma Berlusconi - che non è un fesso né un demonio - ha conservato la differenza tra il messaggio, che è una finzione, e la realtà che è fatta di fatti, di cose esistenti e dunque imperfette, umane, deboli e forti, viziose e virtuose. Il povero Veltroni, invece, ha preso la finzione come verità e crede di dire cose vere ma dice cose finte e inevitabilmente la realtà, che ha questo strano difetto di esistere e di vendicarsi, gli cade addosso.Veltroni crede nei film, nelle figurine Panini, nel mito kennediano, nel comunismo buono, nel capitalismo buono, nell’antifascismo buono, nell’anticomunismo buono perché Veltroni è buonista e dunque dice cose buone, pensa cose buone, lancia messaggi buoni che essendo tutte cose inesistenti restano lì, a mezz’aria, come le bolle di sapone che appaiono belle e luccicanti, si alzano e poi - paf - scoppiano come fanno le bolle di sapone.
panorama
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Polemiche. No della struttura sanitaria alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione per la ragazza in coma da 17 anni
Udine: Eluana non deve morire di Franco Insardà l 18 gennaio 1992 iniziava il calvario di Eluana Englaro. Dopo diciassette anni quella che liberal ha scelto come“donna dell’anno 2008”è ancora al centro di discussioni e decisioni che fanno discutere. L’ultima in ordine di tempo è la notizia che la casa di cura “Città di Udine” non la accoglierà per l’attuazione della sentenza che autorizza la sospensione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale. Ieri la direzione sanitaria della struttura ha fatto sapere che: «Siamo costretti a ritirare la disponibilità ad ospitare la signora Eluana Englaro e l’equipe di volontari esterni per l’attuazione del decreto emesso dalla Corte d’Appello di Milano il 9 luglio 2008 e ratificato dalla Corte di Cassazione».
so dell’attenzione e delle divisioni su quella che tecnicamente è la “Dichiarazione anticipata di trattamento” (Dat). Si comincerà il 27 gennaio quando in commissione Sanità a Palazzo Madama sarà presentato dal relatore Raffaele Calabrò il testo unificato degli 11 presentati da senatori di maggioranza e di opposizione. Il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, nei prossimi giorni illustrerà, invece, la proposta che ha presentato alla Camera e che potrebbe essere condivisa dagli esponenti del mondo cattolico in Parlamento. Il percorso sarà comunque lungo e il dibattito molto acceso.
I
Per Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare con delega ai problemi bioetici questa decisione riconosce «validità all’atto d’indirizzo che altri avevano definito legittimo ma inefficace». Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha dichiarato di concordare: «Piena-
Il 27 gennaio inizia in Senato la discussione sul testamento biologico, ma sia nel Pd che nel Pdl non esistono posizioni condivise mente con le iniziative del governo, del ministro Maurizio Sacconi e con l’invio della circolare». Sul fronte del Partito democratico la senatrice Emanuela Baio si è detta d’accordo con la casa di cura: «Una scelta saggia di dire no».
Eluana, suo malgrado, è diventata il simbolo della sofferenza umana, ma anche del dibattito sul testamento biologico che proprio in questi giorni ha avuto un’accelerazione. Undici le proposte di legge al Senato e sette alla Camera danno il sen-
Il Partito democratico dopo il nulla di fatto della riunione di giovedì si è dato appuntamento al 20 gennaio per trovare una linea comune più moderata, rispetto alla proposta di legge depositata da Ignazio Marino. I teodem, comunque, pur apprezzando lo sforzo di mediazione hanno chiesto libertà di voto e di coscienza. Secondo Paola Binetti: «Sarà l’Aula a decidere, al di là dei partiti. Nel
Imbarazzi. Dall’Italia dei Valori nessun provvedimento contro Francesco Barbato
Di Pietro grazia il ribelle campano di Angela Rossi
NAPOLI. Alla fine Francesco Barbato, deputato dell’Italia dei Valori, è stato graziato dal leader del suo partito, Antonio Di Pietro. Barbato, il ribelle che in più di un’occasione aveva messo pesantemente in discussione la moralità del suo partito, non è stato espulso così come in un primo momento avevano promesso Di Pietro e la tesoriera Silvana Mura. Un trattamento “speciale”che potrebbe autorizzare qualcuno a pensare che Barbato qualche ragione ce l’abbia a chiedere pulizia nel partito in Campania.
La decisione di non procede-
Di Pietro al ministero, indagato perché pare si fosse attivato per un intervento a favore di due amici di Di Pietro junior. La giustificazione dello stesso Di Pietro in merito al mancato provvedimento è stata quella di non volergli regalare l’aureola di martire. Ma una domanda sorge spontanea: vuole vedere che le uscite di Barbato non erano poi così peregrine? Vuoi vedere che contenevano un fondo di verità sul caos che regna all’interno dell’Idv? Un clima da fratelli coltelli dal qua-
drino dove era consigliere il capogruppo regionale dell’Idv Nicola Marrazzo.
Insomma, ce n’è per tutti i gusti. E così il partito moralizzatore della vita politica italiana ne esce con le ossa incrinate, una sorta di nemesi storica che si abbatte sul pm protagonista di Mani Pulite. Che di tutto potrebbe aver bisogno fuorché di un martire e che, in seguito alla bufera che continua a sconvolgere il partito, ha perso, secondo un sondaggio Ipsos effettuato tra il 3 e il 10 gennaio, tre punti percentuali rispetto allo scorso mese di ottobre. E Barbato? «Di Pietro le sta indovinando tutte e azzeccherà anche l’ultima per quanto riguarda la Campania. Sono sicuro – dice oggi – che se è stato così rigido col figlio, unico politico in Italia, invitando i magistrati ad andare avanti, lo sarà altrettanto rispetto ai casi da me denunciati e che riguardano Marrazzo. Casi che seppure non penalmente rilevanti fanno sì che non si possa rimanere nell’Italia dei Valori e né in politica».
Non è stato espulso il deputato che aveva denunciato diversi casi di comportamenti «poco chiari» da parte di esponenti del partito
re nei suoi confronti è stata presa l’altra sera, proprio quando si è saputo che anche il figlio di Di PIetro, Cristiano, è implicato nell’inchiesta sulle attività dell’imprenditore Alfredo Romeo. Corruzione, turbativa d’asta e abuso d’ufficio le ipotesi di reato a carico del giovane Di Pietro. In questa cornice, dunque, si inserisce la mancata espulsione di Barbato. Una decisione che fa riflettere, visto che Barbato non aveva avuto peli sulla lingua ad accusare di comportamenti inaccettabili suoi compagni di partito come Americo Porfidia, sotto inchiesta da parte dell’Antimafia o i senatori Nello Formisano, coordinatore campano che a propria volta compare nell’inchiesta della Procura di Napoli e Aniello Di Nardo, ex segretario di
le nessuno sembra escluso e non è detto che Barbato non sia il capofila di una protesta che potrebbe diventare sempre più corposa nonostante le richieste di Di Pietro di non trasformare «uno stuzzicadenti in una trave». «Quello che non vogliamo – aveva dichiarato Barbato a liberal qualche settimana fa – è gente che faccia politica per arraffare mentre noi vogliamo attuare una politica del dare. Bisogna essere responsabili ed avviare un’attenta analisi». Barbato ha reso anche pubblica l’esistenza di una informativa dei carabinieri sullo scioglimento, per infiltrazioni camorristiche, del Comune di Casan-
Pd c’è accordo al 90 per cento, ma sulla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione le posizioni sono diverse. È il nostro tallone d’Achille». Intanto le associazioni “Luca Coscioni e “Amici di Eleonora Onlus promuovono per oggi e domani una raccolta di firme per una petizione al Parlamento per l’autodeterminazione, del testamento biologico e dell’eutanasia.
Ma anche su questo argomento il Pdl non vuole essere da meno del Pd e anche nel suo interno, al momento, non c’è condivisione sul testo da discutere. Benedetto Della Vedova, presidente dei riformatori liberali e deputato del Pdl, ha infatti presentato il 29 ottobre un suo testo sulle “Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario”. «Non c’è nulla di definito - dice Della Vedova - è necessaria una legge per dare pieno compimento al principio della libertà terapeutica, non per limitarlo. A pensarla così nel Pdl non sono l’unico. Anzi».
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il paginone
Il vicepresidente di Sky Italia analizza il rapporto tra “vecchia” e “nuova” informazione. E scommette: «Le
«I media del futuro sara colloquio con Andrea Scrosati di Andrea Mancia on so quale sarà la tecnologia del futuro, ma una cosa è certa: la sceglieranno i consumatori». Andrea Scrosati, 37 anni, vicepresidente di Sky Italia, non crede che la prepotente emersione dei new media sia destinata a “cancellare” i mezzi tradizionali d’informazione. Anzi, è pronto a scommettere sulle opportunità positive della «contaminazione». Nel 2008 l’informazione online ha superato la carta stampata nelle preferenze dei cittadini americani. E tra i giovani la Rete ha ormai raggiunto la tv. È una tendenza definitiva o un’anomalia statistica? Questo dato va considerato nel contesto di un Paese, come gli Stati Uniti, in cui la banda larga è molto diffusa. In generale, poi, tutte queste tendenze dipendono da come evolvono i vari mezzi. Sarà banale, ma la televisione di ieri è diversa da quella di oggi e quella di domani sarà diversissima da quella di oggi, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello della fruizione. In realtà, a un certo punto, bisognerà anche cercare di capire esattamente cos’è la televisione e cos’è Internet. Quando hai una connessione in fibra ottica, in realtà hai la possibilità di accedere sul tuo schermo ad una qualità video che è pari, o addirittura superiore, a quella che è possibile raggiungere su un normale televisore. Sky sperimenta da tempo la tecnologia Iptv... Sì. E proprio l’Iptv si può definire tranquillamente “televisione”, anche se tecnicamente passa attraverso la Rete. È difficile fare distinzioni troppo nette. Lei, insomma, tende a separare il mezzo con cui l’informazione - o l’entertainment - vengono trasmessi e la produzione di contenuti... Assolutamente sì. La tecnologia è semplicemente uno strumento a disposizione di chi crea, immagina, produce e confeziona contenuti per distribuirli all’utente finale. Ed è un mezzo, non il fine. Una cosa è certa: saranno sempre di più gli utenti a scegliere la tecnologia che preferiscono. Ci sono vecchie tecnologie, messe sul mercato in molti Paesi, anche con grandi sforzi di promozione e sostegno, che non erano
«N
Aereo nell’Hudson: Twitter batte i network
La prima fotografia del volo 1549 US Airways, miracolosamente planato sulle acque del fiume Hudson senza provocare vittime, l’ha scattata Janis Krums, un turista della Florida in visita a New York. E pochi secondi dopo - grazie al suo iPhone e al servizio di “microblogging” Twitter - è finita online, per diffondersi in pochi minuti, nella miglior tradizione della diffusione “virale”, nei meandri più remoti del cyberspazio. «C’è un aereo nell’Hudson - scrive Janis nella breve didascalia della foto - sono nel battello che sta andando a prendere le persone. Incredibile». Trentaquattro minuti dopo aver “postato”la sua fotografia, il network televisivo Msnbc intervistava Krums in diretta, come testimone dello straordinario evento. E tutte le tv americane iniziavano a trasmettere le foto e i video prodotti dagli improvvisati “citizen journalist” che si erano trovati, in quel momento, nei paraggi dell’Hudson. Si tratta dell’ennesima dimostrazione, se ce ne fosse ancora stata la necessità, di come le nuove tecnologie sono destinate a sconvolgere le fondamenta dell’informazione tradizionale. E il “lieto fine” con cui si è conclusa la vicenda, grazie all’eroismo e al sangue freddo del pilota (Chesley B. Sullenberger III) rende ancora più sensazionale tutta la storia.
“
La comunicazione tradizionale non deve avere il timore di farsi “contaminare” da creatività, innovazione e sviluppo. Solo in questo modo è possibile continuare a crescere soddisfacenti per gli utenti e che dunque non hanno avuto nessun successo... Non starà mica parlando del digitale terrestre in Italia... No, no, assolutamente no! Il digitale terrestre è appena partito ed è difficile dare un giudizio. Però, se torniamo indietro nel tempo, ci sono esperienze illuminanti. Per esempio? All’inizio degli Anni Ottanta, in Francia, venne introdotta una tecnologia che qualcuno considera come antesignana di Internet, Minitel, che ebbe un grandissimo successo, perché diventò un primo rudimentale strumento di social networking. L’hardware veniva distribuito gratuitamente in tutte le case, come alternativa all’elenco telefonico, ma poi iniziarono ad arrivare molti altri servizi, comprese le prime “chat”, che spinsero Minitel verso una grande diffusione. In Italia, si tentò di introdurre un sistema simile, chiamato Videotel... E fu un insuccesso clamoroso... Esatto. E questo dimostra che il consumatore italiano non
”
riuscì a trovare in quel sistema un contenuto che gli piaceva. Tra l’altro si trattava di un hardware già obsoleto rispetto ad altre alternative disponibili. Il concetto di fondo, però, è chiaro: è il consumatore a scegliere. Non siamo più ai tempi in cui una tecnologia veniva “imposta”. Se il consumatore non trova una tecnologia soddisfacente, ci sono abbastanza alternative sul mercato. Qualunque sia la tecnologia, poi, il consumatore sceglie in base alla qualità del prodotto che vede dentro di essa. Il consumatore vuole avere libertà di scelta. Non crede, però, che la crescita esponenziale di questa libertà di scelta spinta da successive accelerazioni tecnologiche possa portare ad un vero e proprio cambio di “paradigma” nel sistema della comunicazione? Può anche essere vero, ma non vedo in questa prospettiva la fine di altri strumenti di comunicazione o di informazione. Se, per esempio, analizziamo il mercato dell’informazione, oggi troviamo due grandi categorie. Da una parte prodotti
il paginone
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e tecnologie le sceglieranno i consumatori»
anno così» Secondo Andrea Scrosati, vicepresidente di Sky Italia, oggi «se il consumatore non trova una tecnologia soddisfacente, ci sono abbastanza alternative sul mercato. Il consumatore vuole avere libertà di scelta»
“
La tecnologia è semplicemente uno strumento a disposizione di chi crea, immagina, produce e confeziona contenuti per distribuirli all’utente finale. Ed è un mezzo, non un fine
d’informazione, frutto di una storia consolidata nel tempo, che viene proposta al pubblico in una forma ben definita, scelta da chi li produce. È il caso della carta stampata, ma non solo. Poi ci sono una serie di prodotti informativi che, per così dire, si sviluppano all’interno del “pubblico” in maniera quasi autonoma. Pensare che queste due categorie siano in conflitto tra di loro, secondo me è un errore molto rilevante. Ognuna di queste due categorie può contaminare l’altra e può fornire all’altra elementi di creatività, innovazione e sviluppo, anche strutturali. La televisione di oggi è radicalmente diversa da quella di dieci anni fa, soprattutto perché è stata in grado di comprendere l’evoluzione della società. Il fatto che su Sky, e in generale sulla televisione digitale, vengano offerti centinaia di canali ci
porta ad una situazione del tutto diversa rispetto a quando la scelta era completamente in mano agli editori. Oggi la scelta è in mano al consumatore e si tratta di una differenza radicale, anche se noi continuiamo a parlare di “televisione”. Se dieci anni fa lei avesse detto a qualcuno che una televisione era in grado di proporre 170 canali contemporaneamente, chiunque le avrebbe risposto che quella non era una “televisione”. Come giudica i grossi guai finanziari a cui stanno andando incontro alcune storiche testate della carta stampata statunitense? Io mi occupo di televisione digitale in Italia, dunque per me è molto difficile giudicare la situazione. Lavorando in un gruppo come News Corporation, però, posso dire che abbiamo dimostrato, come nes-
sun altro, che se si inseriscono innovazione e creatività la carta stampata è più viva che mai. L’esempio migliore è proprio quello del Wall Street Journal che è stato acquisito dal nostro gruppo ormai un anno fa e che negli ultimi mesi ha recuperato quote di mercato con una infusione di nuove idee in grado di offrire al lettore un prodotto all’altezza delle aspettative. Proprio il presidente di News Corporation, Rupert Murdoch, nella primavera 2005 “implorò” gli editori statunitensi a non lasciarsi travolgere dalla rivoluzione digitale, ma di coglierne le opportunità potenziali... L’obiettivo di chiunque lavori nel mercato dei media è quello di confrontarsi, costantemente, con creatività e innovazione, nuove idee e nuovi linguaggi. Il punto di fondo del messaggio che il nostro presidente ci ripete in tutte le occasioni - è quello di sfidare se stessi per cercare svolgere il proprio lavoro in modo sempre più innovativo. La televisione digitale è un perfetto esempio di tutto questo: ogni giorno si innova e, attraverso l’utilizzo delle nuove
”
tecnologie, cerchiamo un “confronto culturale” costante con Internet. Cerchiamo, per esempio, di integrare la nostra programmazione televisiva con le attività che si svolgono sulla Rete. Il fatto, poi, che il gruppo abbia acquisito una realtà come MySpace ci porta ad un confronto costante con il mondo dei social network. Anche in Italia? Anche in Italia. Il nostro sito Internet, per esempio, è arrivato ad ospitare la principale community sportiva online di tutto il Paese, con oltre un milione e 800mila interventi in un anno. E in questo momento ospita i giochi online legati al calcio che hanno più successo, in particolare il Fantacalcio con 400mila squadre iscritte. Nella nostra programmazione televisiva di Sky Sport, poi, richiamiamo costantemente la possibilità di interagire attraverso il nostro sito. Il motivo per cui c’è questa interazione, però, e questo è un fatto fondamentale, non è la “paura”nei confronti di Internet, ma la convinzione che sia possibile creare un prodotto sempre migliore proprio contaminando tutte le possibile vie espressi-
ve di creatività e di comunicazione. Sono molti gli utenti Sky che scelgono i vostri prodotti più innovativi, come “My Sky” o l’alta definizione? Si tratta di una percentuale che sta crescendo in maniera costante e molto velocemente. E questo ci da molta soddisfazione. Per altro, utilizzare queste tecnologie permette di avere un’esperienza televisiva impensabile fino a pochi anni fa. Sono previsti altri canali in alta definizione per il futuro prossimo? La settimana scorsa abbiamo appena aggiunto un nuovo canale di cinema in hd. E i prossimi campionati mondiali di calcio in Sudafrica, come le Olimpiadi di Vancouver e di Londra, saranno trasmessi in alta definizione. Anche le nostre ultime produzioni originali - come “Romanzo criminale”sono state girate in alta definizione. Quale sarà lo scenario futuro per la televisione digitale? Lo sviluppo delle tecnologie è una curva esponenziale, per cui è molto difficile riuscire ad immaginare le tecnologie che avranno successo da qui a dieci anni. E chiunque provi a predire il futuro compie un azzardo. Come ho già detto, però, su una cosa sono pronto a scommettere: vinceranno le tecnologie scelte dai consumatori.
mondo
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Retroscena. Oggi al Cremlino Vladimir Putin e Yulia Tymoshenko dovrebbero firmare la pace che riaprirà i rubinetti chiusi dal primo gennaio
Gas, all’Eni i danni di guerra Un consorzio europeo pagherà il metano “sparito” nella pipeline in Ucraina di Enrico Singer
Q
uesta sembra davvero la volta buona. Un consorzio europeo, guidato dall’Eni, pagherà il miliardo e mezzo di metri cubi di gas necessario per riattivare il gasdotto che raggiunge l’Europa attraverso l’Ucraina. In pratica acquisterà dalla Russia il gas che dovrà letteralmente riempire i quasi 2500 chilometri di pipeline rimasti vuoti da quando Gazprom ha chiuso i rubinetti. Così anche l’ultimo ostacolo tecnico, ma soprattutto economico - alla ripresa delle forniture dovrebbe essere superato. E oggi Vladimir Putin e Yulia Tymoshenko, se non verranno fuori altri problemi, potranno firmare al Cremlino la pace del gas. Silvio Berlusconi, che l’altro giorno aveva telefonato a Putin offrendo questa via d’uscita, e l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, che ha passato due giorni in trattative a Mosca, potranno rivendicare il merito di avere posto fine a una guerra che ha lasciato a secco la Bulgaria, la Romania, la Slovenia e i Balcani, oltre ad avere minacciato anche il nostro Paese.
Tutto è bene quel che finisce bene, allora? In realtà, dietro il possibile accordo ci sono dei punti critici. Prima di tutto bisogna capire bene che cosa ha promesso l’Italia attraverso l’Eni. Quando s’interrompe il flusso di gas in un gasdotto come hanno fatto i russi - il risultato è che le migliaia di chilometri di tubature (larghe in media mezzo metro), nonché le stazioni di pompaggio intermedie si svuotano. Per far tornare il gas fino ai terminali dei diversi Paesi-clienti è necessario riempire di nuovo tubi e stazioni di pompaggio con una quantità di gas che la Russia deve cedere, ma che tecnicamente non arriva ai compratori perché serve a tenere in pressione il gasdotto. Si tratta esattamente di 1,7 miliardi di metri cubi che costano 675 milioni di dollari che Mosca voleva far pagare all’Ucraina considerandola colpevole della crisi e della conseguente chiusura dei rubinetti, ma che Kiev non aveva alcuna intenzione
di sborsare. Questo “gas tecnico”, come è chiamato in gergo il metano che si trova nel gasdotto, sarà il consorzio europeo a pagarlo. L’Eni si è impegnata a coinvolgere le altre tre compagnie interessate: la tedesca E.On, la francese Gaz de France-Suez e l’austriaca Omv. Una spesa da condividere, insomma, anche se non in parti uguali perché le quote dipenderanno dalle quantità di gas importato dai singoli Paesi (e all’Italia toccherà l’esborso maggiore), ma comunque una spesa teoricamente da recuperare perché dovrebbe essere scalata (sia pure in tempi ancora da definire) dai diritti di transito che spettano all’Ucraina. Questo complesso meccanismo ha già una prima morale: a pagare la fattura della guerra del gas tra Mosca e Kiev sarà l’Europa con l’Italia in prima fila. Certo, sull’altro piatto della bilancia bisogna considerare il vantaggio politico che il nostro Paese, attraverso l’operazione del consorzio europeo guidato dall’Eni, potrà conquistarsi in quei Paesi che erano rimasti al gelo, in particolare nell’area balcanica. Soprattutto in Serbia, Bo-
Nella foto grande, una delle stazioni di pompaggio in Ucraina. Sotto, la sala di controllo del gasdotto e, in basso, la sede di Gazprom a Mosca. Nella pagina a fianco, Scaroni insieme con il presidente di Gazprom Miller e la cartina del gasdotto Nabucco
snia, Croazia, ma anche in Slovenia e in Ungheria, negli ultimi giorni si era creata una situazione molto delicata. La società E.On Ruhrgas ha cominciato giovedì scorso a cedere una parte delle scorte tedesche a questi Paesi, ma a un prezzo di 500 dollari per mille metri cubi di fornitura: ossia tra i 50 e i 70 dollari in più del prezzo della normale bolletta di Gazprom. E questo trattamento ufficialmente giustificato dal fatto che venivano intaccate delle scorte - aveva provocato non poche tensioni.
Ma il vantaggio politico di presentarsi come il “cavaliere bianco” che riporta la pace nel mercato del gas ha anche un costo molto pesante. Vladimir Putin è riuscito a scaricare i rischi del transito del suo gas in Ucraina sul consorzio europeo. E attenzione: per il Cremlino non si tratta di risparmiare 675 milioni di dollari che,
per la Russia in fondo, sono poca cosa. La verità è che Vladimir Putin e Dmitri Medvedev - che di Gazprom è stato a suo tempo presidente - vogliono interrompere il loro vecchio rapporto di fornitura e transito con l’Ucraina per proporre all’Europa di diventare, in un futuro quanto più prossimo possibile, cliente-grossista. Sia attraverso l’attuale gasdotto che attraversa l’Ucraina, sia attraverso il nuovo South Stream - progettato assieme con l’Eni - che dovrebbe portare il gas russo in Occidente senza passare per l’Ucraina. Come liberal ha già scritto, quella che tutti chiamano guerra del gas è, in realtà, una guerra per costruire nuovi gasdotti. Ci sono quelli che stanno a cuore al Cremlino: oltre al South Stream c’è il North Stream che collegherà direttamente Russia e Germania passando sotto il Mar Baltico e che è in
mondo
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Gara per i giacimenti a Nord di Baghdad e contratto con l’Egitto
Ma Edison punta sull’Iraq e non rinuncia a Nabucco di Alessandro D’Amato
ROMA. Non passano solo per Eni – e per la
Serve un miliardo e mezzo di metri cubi per rimettere in servizio il gasdotto. L’Italia guadagnerà un vantaggio politico tra i Paesi rimasti a secco, Mosca intascherà 675 milioni di dollari
mano a un consorzio presieduto dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. E ci sono quelli che dovrebbero bypassare la Russia: Nabucco e Igi che dovrebbero portare il gas dell’Azerbaijan all’Italia. Ufficialmente Mosca dichiara di non avere paura della diversificazione delle fonti di approvvigionamento e di trasporto del gas.
Anche Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri russo, ha detto che il Cremlino «non è preoccupato dalla politica di diversificazione delle fonti energetiche». Ma ha anche aggiunto che «gli europei sono ben consapevoli del fatto che la Russia è stato un partner affidabile per decenni». Come dire che, fino a quando l’Ucraina non ha scatenato la guerra del gas, tutto è filato liscio e che la soluzione più semplice è eliminare il “rischio di transito” che sarebbe rappresentato
da Kiev realizzando nuovi gasdotti come North Stream e South Stream. Ma continuando a comprare il gas russo. L’Italia, è opportuno ricordarlo, produce l’11 per cento del suo fabbisogno e importa tutto il resto dalla Russia (30 per cento), dall’Algeria (30 per cento), dalla Libia (11 per cento), dall’Olanda (10 per cento) e dalla Norvegia (7 per cento). Mosca, naturalmente, vuole mantenere la sua quota per rimanere il principale fornitore di metano all’Europa. Se possibile, anzi, vuole incrementarla anche offrendo all’Eni - nel caso della realizzazione del nuovo gasdotto South Stream - la possibilità di diventare a sua volta grossista nei confronti di Paesi terzi. Un grosso business, insomma, che può valere anche l’acquisto del miliardo e mezzo di metri cubi di “gas tecnico” per rimettere in funzione il vecchio gasdotto che passa per l’Ucraina.
Russia – le vie italiane per l’approvvigionamento del gas. La sua “sorella minore”, l’Edison, da tempo sta attuando una strategia di diversificazione delle fonti che la porterà ad essere indipendente da Gazprom e dalla ragnatela che l’Orso russo sta tessendo per utilizzarla come arma di pressione internazionale dal punto di vista geopolitico. Rimanere attaccati alla canna del gas della Russia è pericoloso e a Foro Bonaparte ne sono perfettamente consapevoli. Infatti, un paio di giorni fa l’amministratore delegato, Umberto Quadrino, ha firmato al Cairo un assegno di un miliardo di euro: un contratto per rilevare la concessione di sfruttamento di tutta l’area egiziana, dove si estraggono ogni anno 1,5 miliardi di metri cubi di metano (e 1,5 milioni di barili di condensato, che è una specie di petrolio leggero e di qualità). Grazie a un ulteriore investimento di 1,2 miliardi di euro, la produzione raddoppierà entro il 2012 a 3 miliardi di metri cubi di gas.
Le riserve sono stimate in 70 miliardi di metri cubi e spettano all’Edison per il 40 per cento mentre l’altro 60% andrà agli egiziani, secondo una formula che ormai è la regola nel settore degli idrocarburi. Una decisione in linea con le dichiarazioni rilasciate proprio da Quadrino al Financial Times i primi di gennaio: «La crisi rappresenta un buon momento per le società con una solida strategia industriale e una solida posizione finanziaria. E noi abbiamo entrambe». Il gruppo ha debiti per 2,9 miliardi di euro, a fronte di ricavi nei primi nove mesi del 2008 a 7,8 miliardi, in crescita del 31,2 per cento e Margine Operativo Lordo sostanzialmente in linea a parità di perimetro. E non c’è solo l’Egitto. Più difficile, ma potenzialmente più remunerativa, è la sfida irakena: Edison ha superato le “prequalificazioni”in una gara con altri 300 competitor per i giacimenti a nord di Baghdad, che hanno una capacità di 4-5 miliardi di metri cubi l’anno. Particolare importante: la via di approvvigionamento è totalmente slegata dall’Est europeo, passando per la Turchia, che, perlomeno geopoliticamente, rappresenta un fronte meno “caldo” di quello dove oggi si combattono battaglie di influenza che prescindono dal fattore energetico. Ecco che quindi un “passaggio a sud-est” sarebbe strategicamente più sicuro, almeno ad oggi, con la pax americana in vigore nell’area. Ma gli stessi uomini Edison fanno comunque presente che la strada è difficile, visto il gran numero di aziende concorrenti che la
stanno presidiando. Sempre in tema di gasdotti, è in completamento l’Igi, che porterà attraverso la Grecia il gas dell’Azerbaijan in Italia: altri 8 miliardi di metri cubi che saranno anch’essi slegati da territori in cui ci sono tensioni geopolitiche. E in completamento è anche il rigassificatore a Rovigo, con il quale l’Edison ritiene possa contribuire per il 10 per cento al fabbisogno nazionale e a circa il 10 per cento della capacità di rigassificazione installata in Europa.
ll gas arriverà dal campo “North Field” nel Qatar, il più grande giacimento di gas al mondo, con più di 25.000 miliardi di metri cubi e sarà liquefatto con moderni treni di liquefazione in loco. Dal punto di vista so-
Firmato al Cairo un accordo per rilevare la concessione di sfruttamento di tutta l’area egiziana dove si estraggono 1,5 miliardi di metri cubi di metano. Gas arriverà anche dal Qatar cietario c’è ancora sul tavolo il problema Zaleski. Il 10 per cento di proprietà della Carlo Tassara potrebbe essere messo all’asta dal finanziere franco-polacco, ma c’è il problema della plusvalenza: la scatola finanziaria ha in carico Edison a un valore molto più alto dell’attuale quotazione – 1,16 euro contro gli 0,95 dell’attuale quotazione – e non potrebbe accettare un prezzo basso per ovvi problemi di bilancio. Il presidente del consiglio di gestione di A2A, Giuliano Zuccoli, non aveva nascosto in passato un certo interesse per il pacchetto, ma anche l’Electricité de France potrebbe averci messo gli occhi. Se quindi Zaleski deciderà alla fine di cedere il pacchetto – pur avendo dichiarato in pubblico di volerlo lasciare ai suoi figli in eredità – potrebbe scatenarsi un’asta, anche se i patti parasociali impediscono ai francesi di superare il 50% dell’azionariato. A2A in ogni caso ha intenzione di fare un’offerta: tra qualche tempo il problema potrebbe trovare una soluzione, in un modo o nell’altro.
mondo
pagina 16 • 17 gennaio 2009
Germania. La Costituzione tedesca sarà messa alla prova dalla frammentazione dei partiti nelle elezioni del 2009
La Merkel va alla conta di Katrin Schirner
BERLINO. Domenica prossima i cittadini dell’Assia torneranno al voto, ma un risultato si conosce già adesso: formare un governo in Germania è diventato più difficile. In quest’ultimo anno l’opinione pubblica ha potuto rendersi conto di come i partiti abbiano provato – senza riuscirci – a convertire il risultato elettorale del gennaio 2008 nell’esistenza di un nuovo governo per il Land. Cinque partiti in tutto, i due grandi (Cdu e Spd) e tre piccoli (i liberali della Fdp, i Verdi e la sinistra die Linke) - si comportano esattamente come nel Bundestag di Berlino. Nessuno dei due maggiori partiti è sufficientemente forte da formare una coalizione con un solo alleato tra le forze minori. L’Assia ha dimostrato l’anno scorso ai tedeschi, cosa c’è da attendersi, se si continua a votare così. O una grande coalizione o un’alleanza a tre. Ma entrambe le opzioni prefigurano rischi per la stabilità del Paese.
L’anno appena iniziato è fondamentale per l’elettorato tedesco. Sono in programma quindici elezioni; praticamente si assiste a una campagna elettorale permanente. Già quella in Assia dava un’idea di quel che ci si può attendere in futuro. Nessuno dei partiti vuole impegnarsi preventivamente a dichiarare la propria idea di coalizione sul dopo. Nessuno, soprattutto, vuole escludere qualsiasi opzione. Ciò significa che agli elettori vengono presentate solo dichiarazioni programmatiche abbastanza vaghe. Eventuali promesse, infatti, potrebbero diventare molto velocemente carta straccia, se, ad esempio, partiti così diversi tra di loro - come la Fdp ed i Verdi si trovano come alleati in un governo. Peggio ancora, se non si sappia in anticipo se un tale governo sarà
I padri fondatori della Repubblica Federale vollero creare uno schermo protettivo da una guida politica troppo forte. Oggi quel modello potrebbe portare all’ingovernabilità politica a guida della destra o della sinistra. In Germania, dunque si discute di varie coalizioni secondo i colori, la cosidetta «Giamaica» (dal colore nero, giallo e verde della bandiera di quel Paese, che richiama la Cdu, la Fdp e i Verdi) o quella «semaforo» (secondo la combi-
nazione Spd-Fdp-Verdi). Entrambe le alleanze racchiudono il pericolo che, anche dopo la formazione di un governo, il tiro alla fune continui costantemente. La stessa Grande Coalizione (Cdu e Spd) rimane problematica. E indebolisce entrambi i partiti, tanto che nessuno sembra più volerla portare avanti.
La situazione diventa più complicata a causa del sistema federale in Germania. Già da decenni la seconda Camera, il Bundesrat, si costituiva con maggioranze diverse rispetto al Bundestag. Di conseguenza, numerosi e importanti progetti di legge sono stati bloccati. Una stituazione che potrebbe ulteriormente peggiorare nel caso di coalizioni «a tre» nei Laender, per non parlare nel governo federale a Berlino. Un Land (il Bundesrat è rappresentato da delegati provenienti direttamente dai Laender) che non può esprimere un’opinione chiara deve – come prevede la norma – astenersi. Si assisterebbe così, sempre più di frequente, a uno stallo. I padri fondatori della Repubblica Federale vollero creare – per note ragioni storiche – uno schermo protettivo da una guida politica troppo forte. Questo era rappresentato dal sistema proporzionale
e dalla seconda camera federale. In tempi in cui i cittadini sempre di più votano per i diversi “colori”della tavolozza politica, il sistema cessa di funzionare. Un sistema-Paese come quello tedesco - in competizione con realtà come quella francese, britannica e statunitense non può permettersi una guida politica troppo debole.
L’attuale situazione economica mondiale, inoltre, richiede anche per la Germania sforzi eccezionali. Il «Super-anno elettorale», come il 2009 viene sin d’ora chiamato, coincide sfortunatamente con la più grande crisi economica dal dopoguerra.Tutto questo aumenta l’incertezza, perchè la politica non sa quale tra le sue ricette riuscirà ad imporsi, amesso che se ne imponga una. Molti cittadini si faranno quindi guidare, ora più che mai, dal loro stato d’animo, piuttosto che da un vero e proprio ragionamento. Ma la crisi presenta anche delle opportunità. La storia insegna che i tedeschi - nei tempi difficili - vogliono una guida politica forte. Un bonus per l’attuale Cancelliera, dunque; ma anche un bonus per i due grandi partiti che finora si sono mossi con un certo decisionismo. Il 2009 è anche il sessantesimo anniversario della nascita della Repubblica Federale. Verrà festeggiato e giustamente. I cittadini hanno infatti creato - partendo dalle previsioni dei padri della costituzione con un comportamento elettorale intelligente, una storia di sucesso, fatta di governi stabili e capaci di governare. Forse i tedeschi lo ricorderanno anche nel superanno elettorale 2009.
in breve Missionario italiano ucciso a Nairobi Padre Giuseppe Bertaina, un missionario comboniano 82enne di Cuneo, è stato ucciso a Langata, un quartiere tra i più poveri di Nairobi, dentro un istituto di filosofia gestito dai padri della Consolata, in quello che appare un tentativo di rapina. L’istituto era stato fondato dallo stesso Bertaina, che ricopriva ancora il ruolo di amministratore, oltre che di In docente. base a una prima ricostruzione due ladri sarebbe infatti entrati nell’ufficio dove lavorava il missionario e, dopo averlo legato e picchiato, gli avrebbero «tappato la bocca provocandone la morte per soffocamento», riferisce l’agenzia Misna. La morte del sacerdote è stata confermata anche dalla casa generalizia in Italia cui apparteneva il missionario, che ha già informato la famiglia. L’ambasciata italiana a Nairobi ha precisato che il sacerdote è stato trovato soffocato, forse strangolato, con la bocca piena di pezzi di plastica. Per l’omicidio è stata fermata una donna.
La crisi è la prima preoccupazione degli europei La crisi economica è la preoccupazione più grave per i cittadini di nove Paesi europei, fra i quali l’Italia. È quanto emerge da un sondaggio effettuato da Eurobarometro nell’autunno del 2008, nel pieno della crisi dei mutui subprime. Per quanto riguarda l’Italia il 39 per cento degli intervistati nel periodo fra il 6 ottobre e il 6 novembre 2008 indica la crisi economica fra le le questioni più urgenti da affrontare, segnando un aumento del 6 per cento rispetto all’analogo sondaggio condotto nella primavera scorsa. La media europea è del 37%, con un aumento di ben 17 punti rispetto all’Eurobarometro precedente. Alle preoccupazioni per la crisi economica, gli europei, e con loro gli italiani, associano i rischi legati all’inflazione, che rimane in testa alla classifica dei timori per il 37 per cento degli europei e per il 44 per cento degli italiani.
mondo
17 gennaio 2009 • pagina 17
Il presidente uscente degli Stati Uniti, George W. Bush, che lascerà l’incarico il prossimo 20 gennaio. Bush ha tenuto l’ultimo discorso alla Casa Bianca nella tarda serata di giovedì, venerdì all’alba in Europa. Secondo l’analista americano Charles Krauthammer, non appena il nuovo presidente Obama avrà le mani in pasta nella difficile realtà dei delicatissimi equilibri internazionali, stravolti dalle nuove dinamiche globali, sarà garante più della continuità che del cambiamento rispetto alle linee della politica del suo predecessore
Casa Bianca. La lotta al terrorismo e un po’ di autocritica nel discorso d’addio del presidente eorge W. Bush ha tenuto l’ultimo discorso alla Casa Bianca nella tarda serata di giovedì, venerdì all’alba in Europa. Mai nessun presidente aveva raggiunto una popolarità così bassa dopo due mandati. La storia giudicherà col tempo necessario, ma a breve potrebbe essere Barack Obama alla testa della «schiera dei revisionisti che rivaluteranno l’operato di George W. Bush negli otto anni di governo».
G
Ne è convinto Charles Krauthammer, non appena il nuovo presidente avrà le mani in pasta nella difficile realtà dei delicatissimi equilibri internazionali, stravolti dalle nuove dinamiche globali, sarà garante più della continuità che del cambiamento rispetto alle linee della politica del suo predecessore. Almeno così la pensa l’analista americano sulle pagine del Washington Post. Ieri, il discorso d’addio del presidente, alla presenza della maggior parte degli uomini e delle donne che hanno condiviso con lui le responsabilità di governo. Ha rivendicato i successi, in Patria e all’estero, ricalcando, in parte, i temi già evidenziati durante l’ultima press conference del 12 gennaio. Sull’Afghanistan ha sottolineato come abbia cessato di essere il Paese governato dai talebani, che accoglieva al Qaeda e «lapidava le donne per le strade». Un percorso intrapreso da «una giovane democrazia che sta combattendo contro il terrorismo e incoraggiando le ragazze a fre-
L’orgoglio di Bush America, ti lascio più libera di Pierre Chiartano quentare le scuole» che può essere letto come un risultato assolutamente positivo dell’intervento militare che tanta preoccupazione sta sollevando negli ultimi mesi. Qualcuno ha fatto notare come abbia sorvolato su alcuni aspetti negativi, come il deterioramento della realtà sul campo. Situazione che ha costretto Washington a inviare 30mila uomini di rinforzo ai contingenti già presenti, per evitare che le milizie legate ad
diviso sciiti e sunniti e che tanti cittadini Usa siano convinti che quella guerra sia stata un errore, ma serve tempo prima di giudicare.
La stessa eredità della politica del duo Bush-Cheney, giudicata in campagna elettorale come disastrosa, ora comincerebbe secondo Krauthammer - a vedere i primi segnali di una migliore considerazione da parte del
Krauthammer: «La storia lo giudicherà col tempo, ma potrebbe essere lo stesso Obama alla testa di tutti quei revisionisti che rivaluteranno l’operato di questi otto anni di governo» al Qaeda e ai talebani possano riprendere il controllo dell’Afghanistan. «L’Iraq si è trasformato – ha spiegato poi il presidente – da una brutale dittatura, nemica giurata dell’America, in una democrazia araba, nel cuore de Medio Oriente, e amica degli Stati Uniti».
È vero che c’è ancora molta violenza e il Paese rimane intrappolato all’interno di una storica ostilità che ha sempre
nuovo presidente. Specialmente dopo il primo viaggio in Medio Oriente del numero due del ticket presidenziale, Joe Biden. Forse convinto che il piano per un ritiro in tre anni delle truppe Usa dall’Iraq, sia preferibile ai 16 mesi proposti in campagna elettorale da Obama. Inoltre Bush, dopo aver ammesso gli errori per le armi di distruzione di massa mai trovate, gli abusi di Abu Ghraib e il caos iracheno del
biennio 2006-08 è andato a ratificare l’ultimo risultato dei succesi post-surge (la politica miltare del generale Petraeus) beccandosi anche l’umiliazione del lancio di un paio di scarpe misura 44. Un prezzo piuttosto alto per l’orgoglio e la dignità di un erede della tradizione presidenziale di George Washington. Cheney è stato l’unico membro del governo (nel primo mandato) ad essere stato citato personalmente da Bush, durante i ringraziamenti iniziali. Il presidente ha sottolineato come alle polemiche su molte delle decisioni perse dalla sua aministrazione non abbia fatto da contraltare un dibattito sui risultati ottenuti: «Sette anni durante i quali l’America non ha più subiti attacchi sul proprio territorio».
«In vista delle prospettive di un tracollo finanziario abbiamo preso delle misure decisive - ha poi aggiunto Bush per salvaguardare la nostra economia», come la scarsamente popolare decisione di salvare il settore finanziario, col gigantesco piano da 700 miliardi di dollari (Tarp). Molte critiche sono state sollevate
sulla scarsa trasparenza con cui è stata spesa la prima tranche del finanziamento (circa 350 miliardi) e qualche ammissione è stata fatta dallo stesso Bush. Le corde emotive sono rimaste – non poteva essere altrimenti – quelle legate al sacrificio umano degli attentati dell’11 settembre 2001. Il distintivo dell’agente di polizia Howard, portato in tasca come un talismano dal presidente o il ringraziamento fatto agli uomini in divisa. Citando episodi di raro candore civile ed umano che non sarebbero compresi nella cinica Europa o peggio, classificati come ipocrisia.
Così come i richiami alla limpidezza morale. È la democrazia delle virtù che permette «a questa giovane nazione» di poter meglio guardare «ai sogni del futuro piuttosto che alla storia del passato» uno degli ultimi passaggi dell’intervento di Bush che ha citato Thomas Jefferson. Una interpretazione dell’ottimismo americano verso il futuro che dal 20 gennaio sarà nelle mani del nuovo inquilino della Casa Bianca, Barack Obama.
cultura
pagina 18 • 17 gennaio 2009
Un quadro una storia. L’autore delle Quattro età dell’uomo, seguace del Caravaggio, si distingueva dal “maestro” per la predilezione di una luce piuttosto fredda
Il malinconico “amador” Così veniva chiamato Valentin de Boulogne, il pittore dei personaggi che non comunicano tra loro di Olga Melasecchi a grandezza di Caravaggio ha oscurato per lungo tempo e ingiustamente la fama di molti dei suoi seguaci. L’artista lombardo non aveva allievi, né aiutanti, realizzava da solo i suoi dipinti e non amava insegnare ad altri il segreto delle sue straordinarie composizioni, la tecnica con cui realizzava gli incredibili effetti di chiaroscuro delle sue opere. Non poté tuttavia impedire di avere un folto stuolo di appassionati imitatori del suo stile, italiani ma soprattutto stranieri, francesi, tedeschi, fiamminghi, spagnoli. Seguaci della prima ora, attivi quando il maestro era ancora vivente, e ancor più febbrilmente operosi negli anni immediatamente successivi alla sua morte, avvenuta nel 1610.
L
cenati, tra i quali vi erano alcuni tra i più esperti connosseurs degli ambienti colti romani, come Cassiano dal Pozzo, segretario del cardinal Barberini, amavano molto anche soggetti laici e particolarmente piacevoli come le scene di concerti con pochi suonatori e scene di giocatori di carte. Riproduzioni di passatempi amati dagli stessi
cenno di comunicazione tra i personaggi in esse raffigurati.
Il dipinto nel quale questo sentimento di incomunicabilità è maggiormente evidente è sicuramente l’olio su tela raffigurante Le quattro età dell’uomo, ora conservato alla National Gallery di Londra. Donata alla collezione in-
Primogenito di quattro figli di un pittore vetraio, dalla cittadina francese di Coulommiers-en-Brie, dove era nato, arrivò a Roma forse agli inizidel secondo decennio del Seicento e purtroppo non si conosce nulla di quella che fu la sua formazione
Nemici dichiarati della coeva corrente classicista, quella prediletta dalla committenza ufficiale - sebbene molti cardinali romani, i grandi mecenati della pittura barocca, avrebbero venduto l’anima per possedere un dipinto dello stesso Caravaggio o almeno dei suoi epigoni - alcuni di loro, da Orazio Gentilischi a Gerrit von Honthorst, da Georges de La Tour a Jusepe de Ribera godevano in realtà, già al loro tempo, di una fama indiscussa. E sono artisti che noi ancora amiamo, anzi il realismo di quelle opere, l’effetto cinematografico di quegli “sbattimenti di luce”, incontrano pienamente il gusto estetico della modernità, e vale dunque la pena indagare all’interno dei cosiddetti caravaggeschi minori per scoprire invece autentici maestri. Uno di questi, ben noto agli studiosi, è Valentin de Boulogne (1594-1632). Primogenito di quattro figli di un pittore vetraio, dalla cittadina francese di Coulommiers-en-Brie, dove era nato, Valentin arrivò a Roma forse agli inizi del secondo decennio del Seicento e purtroppo non si conosce niente della sua formazione e degli anni precedenti al soggiorno romano. A Roma si legò alla confraternita dei Bentvueghels, “uccelli di stormo”, composta da artisti olandesi e tedeschi, pittori di scene di genere molto apprezzate dai conoscitori d’arte. Non si conosce altro della vita privata di questo artista misterioso, del quale non esiste neanche un ritratto, e che ha lasciato tuttavia una ricca e splendida produzione di dipinti ad olio su tela, documentati fin dal 1615 circa, la maggior parte dei quali di soggetto religioso, come richiedeva la committenza ecclesiastica. I suoi me-
Disposti in cerchio intorno ad un tavolo quadrato son seduti quattro personaggi rivolti verso di noi, appena illuminati da una fonte di luce che piove dall’alto a sinistra, come insegnava la tradizione caravaggesca. In primo piano al centro è un bambino, allegoria dell’infanzia, che con espressione malinconica e rassegnata guarda verso un punto al di fuori del quadro sorreggendo una gabbietta per uccelli aperta, forse simbolo della speranza illusoria che fugge, come fugge troppo in fretta l’innocenza e la leggerezza dell’infanzia. Alla sua destra è un giovane elegantemente vestito con berretto piumato, camicia con ricca manica a sbuffo, mentre, seduto su di un sedile marmoreo di fattura classica, suona uno strumento a corda, forse un liuto. Raffigura la giovinezza e in particolare il desiderio amoroso, come indicano la bellezza del giovane, il suo abbigliamento e la musica che accompagna e consola il suo animo innamorato. Dalla parte opposta è la figura più misteriosa, un uomo in armatura, con barba e baffi, in capo ha la corona d’alloro simbolo di vittoria, e con la mano destra sorregge un libro aperto in cui si intravvede la pianta di un edificio fortificato, mentre poggia tristemente il capo sul braccio sinistro. E’ l’allegoria della maturità, ma anche della vanità della gloria umana come indica la posizione della testa reclinata e lo sguardo rivolto malinconicamente verso il basso, posa tradizionale dell’umor melanconico.
committenti, ma interpretati non con umore lieve e giocoso, bensì con uno spirito velato da una lieve malinconia. Le opere di Valentin si distinguono da quelle degli altri artisti caravaggeschi proprio per questa vena malinconica che doveva probabilmente appartenere al carattere stesso dell’artista, che forse per questo veniva soprannominato l’“Amador”, ossia l’Innamorato, dai suoi confratelli della compagnia di fronda nordica. Una delle caratteristiche peculiari delle opere del Valentin, che segna anche la maggiore distanza dalle atmosfere dei dipinti del Caravaggio, è l’assenza di un qualunque
glese dal Visconte di Bearsted nel 1938, la tela misura 96.5 x 134 cm e dovrebbe coincidere con l’omonima opera citata per la prima volta in un inventario di beni del 1650 di Michele Particelli, signore d’Hémery a Parigi e ministro del cardinale Richelieu, per poi passare di proprietà del Duca D’Orléans nel sec. XVIII. Datato dalla critica intorno al 1626 sulla base di confronti stilistici con opere documentate per quell’epoca, non si conosce purtroppo il committente, la cui identità avrebbe forse potuto spiegare qualcosa in più di questo soggetto estremamente enigmatico.
Sarebbe interessante poter identificare l’edificio fortificato, allusivo probabilmente ad un castello o ad una fortezza come quelle che aveva progettato agli inizi del Cinquecento l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini e forse di proprietà dell’anonimo committente. Potrebbe trattarsi proprio del lucchese signor d’Heméry che ancora alla metà del secolo possedeva il dipinto, e vedere perciò nel soldato in armatura un riferimento diretto all’abile consigliere del cardinale Richelieu, che ordina ad un illustre artista della sua terra d’elezione una scena di memento
cultura
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mori per ricordare a se stesso e agli altri la fugacità della gloria terrena, tema frequente nella pittura e nella letteratura barocca. In una visione laica e pessimista come quella del Valentin, la vanità e i trionfi mondani dell’uomo nell’inesorabile scorrere del tempo sono destinati ad infrangersi davanti all’indebolimento del suo corpo e della sua forza morale, ed ecco quindi infine il cerchio chiudersi sulla figura del vecchio seduto nel fondo, che stringe con una mano un bicchiere di vetro, allusivo alla fragilità della vita umana, e con l’altra un fiasco di vino. Davanti a lui sul tavolo è un mucchietto di monete, allegoria dell’avarizia. La quarta età è vista dal Valentin o dal suo committente come l’età della decadenza, l’età dell’oblio nel vino e dell’avidità come gretto ed estremo attaccamento alla vita. Nessuno di questi personaggi comuni-
Giunto a Roma, si legò alla confraternita Bentvueghels, “uccelli di stormo”, composta da artisti olandesi e tedeschi, pittori molto apprezzati dai conoscitori d’arte dell’poca
In queste pagine, alcuni tra i dipinti più significativi del Valentine de Boulogne: “Un concerto” (a sinistra); “Il baro” (in alto); “Cacciata dei mercanti dal tempio” (in alto a destra); “Le quattro età dell’uomo” (sopra) e “Solomon” (qui a fianco)
ca con l’altro, il pittore accentua la drammaticità di questa allegoria figurata della caducità della vita umana isolando i personaggi, ognuno di loro riflette individualmente sul proprio tragico destino, e non cerca consolazione nel confronto con l’altro, nell’umana compassione.
Il senso di solitudine è uno dei drammi dell’uomo nuovo, l’uomo del diciassettesimo secolo, il secolo della nascita della scienza moderna, che proprio con l’avanzare della modernità perde sempre più fiducia nella Provvidenza, nello spirito consolatore della fede. Priva di questa fede la luce delle opere del Valentin è una luce fredda, una luce che non riscalda l’anima, diversa da quella intensa e sovrannaturale del religiosissimo Caravaggio. L’uno, l’italiano, sorretto e guidato dalla cristiana letizia della Chiesa di Roma, l’altro, il francese, rassegnato alla predestinazione della dottrina luterana.
cultura
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“Io, Ippocrate di Kos” è il “romanzo documentario” che ricostruisce la vita del padre della medicina, scritto da un chirurgo, Massimo Fioranelli, e da un giornalista con la passione per la storia, Pietro Zullino
are luce su un passato remoto che ha lasciato un segno importante nella storia dell’uomo. Forse più della filosofia di Aristotele, più della geometria di Euclide, più delle piramidi egizie. La storia della medicina, che si incarna in un uomo, Ippocrate della cui vita sono rimaste tracce insufficienti per ricostruirla in tutti i passaggi fondamentali. Ecco perché un addetto ai lavori (un chirurgo, Massimo Fioranelli) e un giornalista con una provata vocazione per la storia (Pietro Zullino) hanno scelto l’unica strada praticabile per ricostruirne la vicenda umana: il romanzo.
F
“Io, Ippocrate di Kos” (Laterza editore, 138 pagine, 19 euro) è un “romanzo documentario”, in forma di autobiografia, che non presta il fianco a critiche sul contenuto, perché riflette con rigore scientifico gli insegnamenti (e le scoperte) del padre della medicina, ripercorrendone la vita in modo assolutamente verosimile. E’ il risultato massimo possibile con i documenti a disposizione che i due autori hanno studiato a fondo, con la competenza incrociata di un discepolo-discendente di Ippocrate e di uno scrittore colto e raffinato, autore di alcune biografie impeccabili (Catiina, Giuda, I sette re di Roma). «All’età di novant’anni e in procinto di concedermi la buona morte, siccome i più antichi collaboratori e tutti i miei figli maschi mi hanno preceduto nell’aldilà, voglio dettare al grammatico certe memorie, nella convinzione che i posteri potrebbero di me soltanto favoleggiare, quando l’avventura dello scienziato fosse disgiunta dai casi della sua nuda vita». L’incipit del libro è esemplare per creare subito la confidenza fra il lettore e il narratore, svelando alcuni elementi essenziali del protagonista, che morì in età veneranda e che aveva un supremo rispetto per la propria sofferenza, come per quella dei suoi pazienti. Si è discusso molto – nelle ultime settimane – di accanimento terapeutico, di rispetto per il malato, di spine o di flebo da staccare al mo-
In libreria. Un romanzo-documentario ricostruisce la vita del “padre” della medicina
L’Ippocrate del giuramento di Massimo Tosti mento giusto (sempre che esista un momento giusto). Ippocrate (24 secoli fa) era già sensibile a questi Come temi. medico introdusse un’autentica rivolu-
dere la cartella dei propri pazienti e ad introdurre i concetti di diagnosi e di prognosi. Era anche lui un discepolo e un discendente. Discendeva – niente di meno – da Asclepio (o Esculapio), il dio della medicina. Suo padre era medico,
noscendo gente del calibro di Sofocle, Euripide, Fidia, Socrate, Protagora. Si era legato di profonda amicizia con alcuni coeta-
Come medico, fu il primo a spiegare che le malattie non corrispondono affatto a una maledizione degli dei, ma ad una condizione negativa dell’organismo umano zione nella medicina: fu il primo a spiegare che le malattie non corrispondono a una maledizione degli dei, ma ad una condizione negativa dell’organismo umano (individuale, fisica, non trascendente); fu il primo a sten-
e così il nonno e il bisnonno, per diciassette generazioni, fino al capostipite sull’Olimpo. Il suo atteggiamento etico di fronte al malato derivava sicuramente anche dalle frequentazioni.
Aveva studiato ad Atene, nei tempi aurei di Pericle, co-
nei come Democrito, Tucidide e Archelao. In nessun angolo del mondo – da duemilaquattrocento anni a questa parte – c’è stato un concentrato di cervelli come in quella età dell’oro. Ippocrate fu (per usare un termine oggi controverso, esaltato o demo-
nizzato) fu un campione del relativismo, promuovendo in tal modo uno straordinario sviluppo della scienza medica, che con lui uscì dalla preistoria, dominata dagli stregoni e dai maghi, dagli oracoli e dalle offerte votive. Asserì il valore dell’indipendenza del medico e sostenne che ogni malato è diverso dall’altro, giungendo alla logica conclusione che è il malato che deve essere curato, non la malattia. Ma fissò anche un altro principio oggi ritenuto fondamentale, che nessuno oserebbe più contestare: la necessità di creare un rapporto fiduciario fra medico e paziente. Alcuni suoi insegnamenti sono oggi più che mai attuali. Con l’avvento dei computer e delle analisi cliniche più avanzate, molti medici hanno perso il rapporto con il paziente, e perdendo progressivamente il cosiddetto “occhio clinico”, la capacità diagnostica collegata alla profonda conoscenza del malato. Ippocrate è entrato nella storia anche per il famoso “giuramento” che porta il suo nome, e che tutti i medici devono sottoscrivere: una serie di norme etiche che promuovono la loro professione (o mestiere) al rango di missione.
Come la interpretò lui, Ippocrate, fino al giorno della morte. «Un Ippocrate muore oggi, ma subito ne sorge un altro. Lasciamo vuoto quell’avello, e incerto il posto dove le mie povere ossa giaceranno. Da qualche parte intorno a Larissa o intorno alle Piramidi, che importa? E poi la trovino vuota, ogni mia tomba! Dove avrà esalato il grande Ippocrate e quanto vecchio? – si chiederanno. Ebrimanga bene, sempre in logo un benefico dubbio. Che io non sia mai morto!». Qualche dubbio affiora, che sia morto davvero. Ogni volta (le troppe volte) che si parla di malasanità. Uno spunto di riflessione per i lettori, e – soprattutto – per tutti i medici che questo libro farebbero bene a leggerlo e digerirlo. Magari storcendo il naso, come faceva Pinocchio quando la fatina gli offriva il bicchiere con la medicina: «Se è amara, non la voglio».
spettacoli
17 gennaio 2009 • pagina 21
Dietrofront. Dopo critiche e tentennamenti, la Apple dà il via libera alla musica senza i “lucchetti” del Digital Rights Management
La rivoluzione industriale (di Jobs) di Alfredo Marziano
una rivoluzione. Anzi, no, è una restaurazione. Dopo tante critiche, tentennamenti e negoziati a porte chiuse, Steve Jobs e la Apple hanno ceduto alle insistenze di case discografiche e consumatori. Addio al FairPlay, il software di protezione che limitava la libertà d’uso dei file audio digitali per arginare il rischio della copia pirata, via libera alla musica senza i “lucchetti” del Digital Rights Management, duplicabile a volontà e riproducibile su qualunque tipo di lettore digitale. Pungolata da Amazon, ma anche dai legislatori e dalle associazioni dei consumatori che la accusavano di comportamento anticoncorrenziale, l’azienda ha finalmente abbassato la guardia scardinando il circuito chiuso che per anni ha costretto chi acquistava musica da iTunes ad ascoltarla solo sull’ iPod.
che, chi perché poco in sintonia con le nuove tecnologie o impegnato a difendere l’integrità dei propri album, che i clienti di iTunes sono invece abituati a sminuzzare a piacimento acquistando solo le canzoni preferite.
È
Dal 6 gennaio scorso, grazie all’opzione “iTunes Plus”, l’80 per cento di quello sterminato catalogo musicale è già disponibile senza Drm; dal mese di
In sei anni di vita, lo store di iTunes ha venduto 6 miliardi di canzoni a 75 milioni di utenti, conquistando oltre il 70 per cento del mercato digitale mondiale aprile 2009 lo sarà il 100 per cento dell’archivio, oltre 10 milioni di brani musicali digitalizzati. In sei anni di vita, lo store di iTunes ha venduto 6 miliardi di canzoni a 75 milioni di utenti, conquistando oltre il 70 per cento del mercato digitale mondiale: ovvio che ogni minimo movimento di un tale colosso sia destinato a lasciare un’impronta profonda sul terreno. Ma non è tutto, perché contravvenendo alle sue convinzioni e al suo modello di business originario, Steve Jobs ha accettato per la prima volta di derogare al comandamento del prezzo unico così come gli chiedevano con insistenza le major della musica: scaricare un nuovo brano musicale dal “negozio”online della Apple costa sempre 99 centesimi (di dollaro o di euro), nel caso di titoli da poco disponibili sul mercato; il prezzo scende però a 69 centesimi per i titoli più vecchi (il cosidetto back catalog), salendo invece a 1,29 dollari per le “hits”, i grandi successi del momento. Non costerà troppo neppure convertire automaticamente nel nuovo formato “libero”da protezione i brani acquistati in precedenza e archiviati sul computer: bastano un clic e 30 centesimi a canzone, o circa 3 dollari per album. Un bel colpo assestato ad Amazon, Microsoft e tutti gli altri, non c’è che dire. Ma anche un regalo all’industria discografica, impantanata in
una lotta apparentemente impari contro il download pirata e il file sharing illegale sulle reti peer-to-peer.
Il 2008 è stato un anno interlocutorio e non brillantissimo per il mercato mondiale della musica digitale, a dispetto dei progressi registrati negli Stati Uniti (dove per la prima volta i download di singoli e album hanno superato il miliardo di unità). Ma questo scatto in avanti di Apple potrebbe rimescolare le
carte in tavola e mandare a monte le proiezioni degli esperti di mercato. Soprattutto se, come continuano a giurare i bene informati, il 2009 vedrà finalmente ripubblicati in digitale e in forma “liquida”i dischi storici dei Beatles. Paul McCartney, Ringo Starr, Yoko Ono e Olivia Harrison sono tra i pochi a non avere ancora ceduto alle lusinghe di Jobs, insieme ad Ac/Dc, Kid Rock, Bob Seeger, i Tool e il re del country Garth Brooks: chi per motivazioni economi-
Buona notizia, dunque. Apple, monopolista di fatto del mercato, ha finalmente smosso le acque. Ma se fosse «troppo poco e troppo tardi», come scrivono l’irriverente sito Web americano Hits DailyDouble e il caustico Bob Lefsetz, nel suo frequentatissimo blog sul music business The Lefsetz Letter? «Gli unici a cui interessa qualcosa del Drm», sostiene quest’ultimo in un post pubblicato a commento della notizia, «sono quelli che la musica la rubano invece di comprarla. Se così non fosse Amazon avrebbe eclissato la Apple. E la società di Seattle, non quella di Cupertino, sarebbe padrona del mercato musicale online». Concentrarsi ancora nella vendita di singole canzoni, secondo l’accreditato columnist, «equivale a pensare di raccogliere la sabbia di una spiaggia tra le dita, un granello alla volta, invece di usare un caterpillar». Per non parlare dell’idea di aumentare, sia pure parzialmente, i prezzi… «Se le chiamate dal cellulare costassero ancora un dollaro al minuto», sostiene Lefsetz, «le compagnie telefoniche sarebbero tutte morte da un pezzo… Il trucco non sta nel far pagare di più quel che già viene acquistato, ma nel fare pagare quello che oggi viene rubato. Bisogna trovare un modo di rendere la musica un prodotto davvero a buon mercato, vendendola al maggior numero di persone possibile». Dunque, secondo Lefsetz e altri esperti di mercato, la mossa della Apple «è un passo nella giusta direzione. Ma tardivo e così minuscolo da risultare quasi insignificante». Soprattutto oggi che le stesse case discografiche, coadiuvate da siti Internet e produttori di telefonini, incoraggiano i consumatori a considerare la musica come una commodity gratuita, un ricco buffet con cui saziarsi lasciando che siano altri a pagare il conto. Jobs e i suoi ne sono sicuramente consapevoli, e allora viene da pensare che dietro alla loro improvvisa arrendevolezza si nasconda un radicale ripensamento strategico. Grazie alla musica, l’iPod è diventato uno status symbol universale. Lo sarà ancora, ma per quanto? Alla Apple sanno bene che i cellulari “intelligenti”, gli smartphones di nuova generazione capaci di riprodurre musica ma anche di svolgere le funzioni di un sofisticato computer in miniatura, spostano la sfida a un livello superiore: la loro tempestiva risposta si chiama iPhone. E su quel nuovo oggetto del desiderio gli strateghi di Cupertino concentreranno probabilmente le energie future: ora che ha tirato la volata, la musica potrebbe tornare a un ruolo da gregario.
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da ”le Monde” del 15/01/2009
La differenza tra Battisti e Sofri di Philippe Ridet esare Battisti e Adriano Sofri sono due nomi che corrispondo a due maniere diverse di affrontare le accuse per il reato di terrorismo. Due stili nell’affrontare le proprie responsabilità. Due personaggi che simboleggiano, nella memoria degli italiani, i cosiddetti “Anni di piombo”, gli anni Settanta, e quello che resta di quel periodo. Il primo, Cesare Battisti, ex capo dei Proletari armati per il comunismo (Pac), è stato condannato all’ergastolo in contumacia.
C
I quattro omicidi - che lui ha sempre negato - che gli vengono addebitati dai tribunali italiani, sarebbero stati commessi verso la fine del 1970. Martedì scorso, il 13 gennaio, gli è stato riconosciuto lo status di “rifugiato politico”dal Brasile. Era detenuto in quel Paese già dal marzo del 2007. Dopo essere scappato dalla Francia che aveva ormai deciso per la sua definitiva estradizione in Italia. La seconda figura è quella di Adriano Sofri. Lui ha invece deciso di affrontare le conseguenze causate dalle dichiarazioni di un pentito. Lo si accusava di essere stato l’ispiratore dell’omicidio, nel 1972 a Milano, del commissario Luigi Calabresi. Il movente era legato alla ritorsione per la morte, per mano della Polizia, dell’anarchico Giuseppe Pinelli, a sua volta sospettato di essere l’autore di un sanguinoso attentato, avvenuto il 12 dicembre del 1969 a Milano (la strage di Piazza Fontana, ndr). Ispiratore ideologico del gruppo radicale di sinistra Lotta Continua, Sofri fu arrestato solo molti anni dopo quei tragici eventi e condannato a 22 anni di carcere, nonostante abbia sempre negato le accuse. Ha sempre rifiutato di presentare ricorso per la con-
danna (e anche la richiesta di grazia indirizzata al presidente della Repubblica, ndr). Il destino ha voluto che, oggi, questi due percorsi di vita possano incrociarsi di nuovo. Sofri che sta scontando la pena agli arresti domiciliari per gravi motivi di salute, ha appena pubblicato, il 15 gennaio La Notte che Pinelli... (Editore Sellerio). Un libro in cui, per la prima volta, riconosce una sorta di responsabilità morale per la morte del commissario Calabresi. Nello stesso giorno, Battisti, diventato negli ultimi anni un romanziere, potrebbe ricostruirsi una vita in Brasile, dopo il suo rilascio. «La mia idea di responsabilità – afferma Adriano Sofri – mi fa ritenere che se qualcuno abbia deciso di metter in pratica ciò che avevo proclamato ad alta voce, non possa essere considerato innocente (...) Sono responsabile. Lo sono solo per questo, non per il resto o per qualsiasi altro atto di terrorismo avvenuto nel 1970. Ma per l’uccisione di calabresi, sì. Perché l’ho affermato e l’ho scritto, oppure ho permesso d’affermare e di scrivere che “Calabresi, tu sarai suicidato”». Parole che sono state interpretate come un gesto pacificatorio, rispetto a un tardivo quanto benvenuto rimorso.
Sul fronte brasiliano invece, la decisione delle autorità di Brasilia è stata presa piuttosto negativamente in Italia. «È offensivo, che qualcuno possa pensare che Cesare Battisti sia considerato un perseguitato politico in Italia, equivale a negare l’esistenza della nostra democrazia», la dichiara-
zione di un ministro del governo di Roma. Battisti aveva rilasciato una dichiarazione pubblica, all’inizio di questa settimana, in cui affermava che la sua vita sarebbe stata in pericolo dopo un eventuale rientro in Patria.
Per le associazioni della famiglie delle vittime si tratta di una «umiliazione», che si aggiunge a quella già subita nell’ottobre scorso in Francia, dopo il rifiuto di dare corso alla richiesta d’estradizione per la brigatista, Marina Petrella. «È una ulteriore dimostrazione di insensibilità e mancanza di rispetto per la nostra democrazia», l’affermazione di Sabina Rossa, parlamentare e membro del Partito democratico, ma soprattutto figlia di Guido Rossa, il sindacalista ucciso dalla Brigate Rosse (a Genova il 24 gennaio del 1979, ndr). «Continuiamo pensare che sia giusto per l’Italia poter giudicare appena possibile Cesare Battisti».
L’IMMAGINE
Le asserzioni semplicistiche dei politici scoraggiano e fuorviano i giovani Si vorrebbe rinvigorire la classe politica con la speranza che la generazione più giovane possa trovare la voglia di lottare contro il dominio dei vecchi. Ma come si può pretendere che i giovani siano invogliati ad avvicinarsi alla politica se compaiono sui giornali delle asserzioni come quella di Brunetta: «Tocca ai dipendenti pubblici tirarci fuori dalla crisi». Come dire che l’Italia ha avuto fortuna a ritrovarsi un apparato burocratico poco produttivo. Mettendolo a tirare la carretta per bene, l’economia si salverà, le industrie ricominceranno a produrre, i previsti licenziamenti rientreranno, le banche si troveranno ricapitalizzate, la borsa sprizzerà salute: tutto per merito degli statali. Capisco che in fondo non siano frasi del genere a propugnare una trasformazione rivoluzionaria, anziché la partecipazione costruttiva, ma certo indicano la mentalità di chi ci governa: sinistra, destra, centro, non importa, la differenza è talmente poca.
Ilaria Zerbi
IL SINDACATO E LA CULTURA DEL CONFLITTO Primo giorno della nuova Alitalia: più di 11 voli cancellati. Una storia infinita. La questione Alitalia ha dimostrato, ancora una volta, come il sindacato nel nostro Paese sia rimasto fermo al 1947 in quanto a mentalità, in quanto cinghia di trasmissione della politica, ideologicamente ancora pregno di lotta di classe contro il maledetto padrone sfruttatore e ricco, anche se il poveretto sta per fallire. Non interessa un risultato apprezzabile sulle concrete cose che contano, sembra invece più importante “l’azione sindacale” per dimostrare che il sindacato esiste, fa qualcosa, va all’attacco in uno scenario di conflitto degli interessi collettivi. Un conflitto che coinvolge anche le federazio-
ni sindacali più piccole. Queste, infatti, non possono mostrarsi più remissive e concilianti rispetto alle due sigle che di fatto comandano lo svolgersi degli avvenimenti. Non mi si dica che anche nei sindacati vi sono falchi e colombe. Queste possono essere moltissime, ma poi basta un qualunque falchetto per bloccare l’attività lavorativa con danno per tutti. E se un’azienda, applicando il principio che è meglio prevenire, aumenta “sponte sua” il salario? Qualche caso è avvenuto e abbiamo anche visto come s’arrabbiano i sindacati. Nulla può avvenire al di fuori di loro, nemmeno un beneficio per i lavoratori. Le nostre imprese, già strette nella morsa di una concorrenza globalizzante, si trovano a dover combattere assurdità sindacali, le
AAA Guardiano cercasi Cercasi guardiano per isola: orario flessibile, vitto e alloggio vista mare, compenso di 70 mila euro per 6 mesi. Quest’annuncio è pubblicato sul sito dell’ente del turismo del Queensland, in Australia. Se non aspettavate altro che un’occasione per farvi pagare mentre sguazzate nel mare azzurro vicino a questo reef a forma di cuore, potete spedire la vostra candidatura al sito www.islandreefjob.com stranezze dei verdi, un fisco spesso assurdo e incomprensibile, una burocrazia lenta e ottusa, propagande anche violente dei centri sociali e minacciosi volantinaggi agli ingressi in fabbrica, come se vivessimo una inesauribile onda rivoluzionaria nel trionfo di una confusa e implacabile anarchia.
Angelo Rossi
L’ITALIA DEI PLUSVALORI Turbativa d’asta, corruzione e abuso d’ufficio: un carnet di accuse che hanno fatto abbassare i toni di Di Pietro. Ma sentenziare che occorre fare chiarezza su tutto e non guardare in faccia a nessuno, anche se l’accusato risulta imparentato con i politici, è ancora demagogia politica. Se i valori fossero l’elemento distintivo del suo partito, dovrebbe
dimettersi. Intanto a Napoli, da dove parte l’inchiesta, tre dei quattro assessori incarcerati per l’affare Romeo sono di nuovo liberi. Il sindaco li aveva chiamati “sfrantummati”, adesso li chiamerà sicuramente “ricomposti”: dall’Italia dei valori ai valori dell’Italia, l’opposizione tutta si oppone al primo governo che usa il rigore.
Bruna Rosso
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Sono beato del crederti Quando mai ho disprezzato, quanto ho trascurato e ricusato superbamente una volta! e ora amo tanto! Ci furono anni nei quali lo sguardo più promettitore di donna non mi avrebbe distratto un attimo dal seguire lo splendore delle mie idee. E ora per te sento, che se non mi facessi forza, commetterei la viltà di dimenticare tutto, di sacrificarti tutto. Imàginati dunque che questi pensieri mi vanno sempre per l’animo, che la imagine tua mi perséguita sempre, quella imagine al cui piede sono tentato di gittar tutto, imàginati il furore della mia passione; e vedi poi che cosa deve succedere in me quando mi si svegliano rabbiosi in cuore quei serpenti vespertini e notturni dei sospetti gelosi. Se certe notti non perdo la testa, è che il mio cervello è troppo sanamente e fortemente organizzato: ma perciò patisco di più: non sono un imbecille, un pazzo, un romantico; sono un uomo forte, un intelletto intiero, un’anima né volgare né molle, che patisce, patisce il doppio e il triplo, come avviene alle costituzioni ferme e sane e robuste. Lina, mi riconfortano, mi consolano, le ultime soavissime e divine affermazioni del tuo foglio. Io ti credo, amor mio: io sono beato del crederti: non posso vivere che di codesta fede. Giosuè Carducci a Carolina Cristofori Piva
ACCADDE OGGI
DALLA PARTE DEL CITTADINO? Salvo modifiche, entro il 20 febbraio, nella conversione del decreto legge n. 200 approvato il 22 dicembre scorso “Misure urgenti in materia di semplificazione normativa”, si eliminerà il decreto legislativo luogotenenziale n. 288 del 14 settembre 1944: una norma che tutela chi reagisce ai soprusi dei pubblici ufficiali. Il D.L. ha tagliato 29mila leggi che vanno dal 1861 al 1947, tra cui anche il testo del 1944 senza accorgersi che così priva il cittadino di una garanzia dell’ordinamento democratico contro gli eccessi arbitrari dei funzionari pubblici: e cioè la norma che esime il cittadino dalle ricadute penali di talune sue reazioni ad atti arbitrari o illegali dell’Autorità pubblica. Insomma all’uso scorretto del potere discrezionale dei rappresentanti dello Stato. Oggi, chi subisce un fermo per motivi infondati, chi allo stadio si ritrova vittima di azioni immotivate delle forze dell’ordine, chi in piazza vede equivocato il proprio ruolo nel parapiglia di una manifestazione politica, chi in udienza ha un acceso confronto con un giudice prepotente, si ritrova più indifeso rispetto a potenziali soprusi di Stato. Nel codice penale, infatti, alcuni articoli puniscono la resistenza o minaccia a pubblico ufficiale; la violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario; l’oltraggio a un magistrato in udienza. Però, grazie all’articolo 4 del decreto legislativo luogotenenziale n. 288 del 14 settembre 1944, i
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
17 gennaio 1929 Braccio di Ferro, fumetto creato da Elzie Crisler Segar, appare per la prima volta con una striscia su un quotidiano 1945 L’Armata Rossa occupa e distrugge Varsavia 1946 Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite tiene la sua prima sessione 1948 Viene firmato un armistizio tra le forze nazionaliste indonesiane e l’esercito olandese 1966 Simon and Garfunkel pubblicano il loro secondo album, Sounds of Silence 1973 Ferdinand Marcos diventa presidente a vita delle Filippine 1985 Crollo del palasport di San Siro a Milano a causa di una forte nevicata 1985 La British Telecom annuncia il ritiro delle celebri cabine rosse britanniche 1991 Guerra del Golfo: l’Iraq lancia 8 missili Scud su Israele, nel tentativo di provocarne la reazione 1998 Paula Jones accusa il Presidente Bill Clinton di molestie sessuali 2005 Giappone: Max Biaggi diventa pilota ufficiale della Honda
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
cittadini sono esenti da sanzioni «quando il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio o pubblico impiegato» abbia causato la reazione dei cittadini «eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni». Oggi in un regime apparentemente liberticida e garantista, ci ritroviamo a dover rimpiangere leggi promulgate in tempi di guerra. Questo è il paradosso italiano: nulla è vero di tutto quello che appare.
Antonio Giangrande
RIFLESSIONI E RESPONSABILITÀ La questione della striscia di Gaza ha riacceso quei toni antisemiti, che poi verranno sopiti di poco il 27 gennaio, in occasione della giornata del ricordo. La destra in questo ha dimostrato di essere più democratica dell’intera opposizione, perché ha integrato la conclamata difesa di Israele al riconoscimento che la questione potrà dirsi conclusa, quando conviveranno due popoli con due territori. La sinistra ortodossa invece coglie l’occasione per i soliti roghi di bandiere, offendendo proprio il simbolo per il quale si sono immolati tanti soldati in tutte le guerre, di tutte le Nazioni. Quanti errori si sono fatti a livello internazionale dopo la fine della seconda guerra mondiale: si è cercato di proiettare nel futuro l’importanza del ricordo, e invece tra est e ovest e i reciproci giochi di potere, si sono costruiti, muri e strisce di territorio, dove strangolare la libertà dei popoli.
dai circoli liberal
IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE L’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo sancisce che il diritto all’istruzione è uno dei diritti fondamentali della persona e che i genitori hanno la priorità «di scegliere il genere di educazione da impartire ai loro figli». L’articolo 34 della Costituzione italiana,inoltre, dichiarando che «la scuola è aperta a tutti», riconosce a ciascun cittadino tale diritto. La libertà di scelta e il diritto-dovere all’istruzione sono le due tematiche fondamentali intorno alle quali si è incentrato l’attuale confronto delle diverse posizioni in campo politico e parlamentare. Se da una parte c’è chi riconosce solo allo Stato la possibilità di assicurare e gestire l’istruzione dei suoi cittadini, dall’altro c’è chi, appellandosi al principio della libertà e del pluralismo democratico, rivendica il diritto alla scelta tra diversi indirizzi senza interferenze dello Stato o di terzi. A favore di questi ultimi c’è anche l’articolo 13 del Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali che dichiara espressamente: «Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’istruzione. Si impegnano a rispettare la libertà dei genitori e, ove del caso, dei tutori legali, di scegliere per i figli scuole diverse da quelle istituite dalle autorità pubbliche, purché conformi ai requisiti fondamentali che possono essere prescritti o approvati dallo Stato in materia di istruzione, e di curare l’educazione religiosa e morale dei figli in conformità alle proprie convinzioni. Dunque, un’esigenza imprescindibile della società democratica e liberale è quella di dover coniugare i bisogni collettivi e i bisogni individuali per consolidare sempre più il “primato della persona”. Dal confronto delle diverse opinioni,auspico il superamento della contrapposizione Istruzione statale-non statale e la confluenza nella soluzione della creazione di una scuola di qualità,che accolga in sé laici e cattolici e che recuperi la libertà come valore fondante della società contemporanea. Il diritto all’istruzione dovrà affermarsi per sconfiggere il recente declino verso l’ignoranza, lo sfruttamento, la povertà e favorire la partecipazione alla vita politica libera e consapevole. Un popolo che non investe nella cultura è un popolo che non avrà progresso. Raffaele Grimaldi P R E S I D E N T E CI R C O L O LI B E R A L CA R D I T O ( NA )
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
Bruno Russo
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
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PAGINAVENTIQUATTRO Libri. Riti e suggestioni araldiche di centinaia di squadre nel volume di Salvi e Savorelli
Dalle divise alle coreografie Tutti i colori del di Mario Bernardi Guardi
olto mi piace la lieta stagione di primavera/ che fa spuntare foglie e fiori,/ e mi piace quand’odo la festa/ degli uccelli che fan risuonare/ il loro canto pel bosco,/ e mi piace quando vedo su pei prati/ tende e padiglioni rizzati,/ ed ho grande allegrezza/ quando per la campagna vedo a schiera/ cavalieri e cavalli armati». Proprio così: al trovatore Bertran de Born (11401225) piaceva la guerra. E altrettanto gli garbavano la primavera e l’amore. Vogliamo dirlo? Nella civiltà feudale, tra virtù cavalleresche, poeti cortesi e donne dalle angeliche sembianze, si faceva l’amore e si faceva la guerra in perfetto accordo. A primavera, poi, con un gusto tutto particolare (cfr. Franco Cardini, Quell’antica festa crudele, Sansoni, 1982 e Guerre di primavera, Le Lettere, 1992).“Et per cause”, con quella bella festa della natura rinnovata, nella delicata pienezza dei profumi e dei colori. Già, i colori. I guerrieri ne facevano grande sfoggio. Perché «il colore era rito (…), ostentazione fisica di coraggio, spirito di corpo: il colore mi dice che non sono solo, che c’è come un’anima collettiva a sostenermi nello scontro, come un unico corpo in un solo vestito. Ma oltre a ciò il colore mi identifica, è funzionale. Nella mischia, nella polvere, quando ho perso l’orientamento, quando il sangue mi cola negli occhi, devo d’un tratto trovare i“miei”, attaccare o ritirarmi, capire i segnali; e lo faccio riconoscendo lo stendardo di un reparto o la livrea del mio clan o del mio reggimento. Utilizzando perciò un “codice cromatico di identificazione”» (Sergio Salvi-Alessandro Savorelli, Tutti i colori del calcio, Le Lettere).
«M
La guerra come “festa”, crudele, sì, ma colorata; la guerra con le sue forme, i suoi codici, il suo “stile”; la guerra, che tornei e giochi di piazza imitano e ripropongono, rimane inalterata nei suoi tratti di costume virile fino a Napoleone e oltre: poi, dal duello a viso aperto si passa al subdolo agguato, si gioca di astuzia, i corpi cer-
cano di fondersi e confondersi con la terra, e il soldato non è più uno «sfrontato pavone guerriero» ma un «camaleonte che mima il colore del suolo e della vegetazione per catturare la preda» (op. cit., p. 1). E allora? E allora le divise colorate vengono relegate alle parate solenni e alle rievocazioni storiche. Ma non basta, perché il colore, cacciato via anche dalla moda maschile a partire dall’Ottocento, si rifugia in una nuova sfera della vita sociale, lo sport, che istituisce una sorta di «isola felice» per la sua «sopravvivenza» (ivi,p.5). O vogliamo dire per il suo trionfo? Perché è fuor di dubbio che nel calcio il colore trionfi, come ben evidenziano Salvi e Savorelli in questo piacevolissimo saggio che rac-
me appuntamento “forte” comunitario/identitario e modulo di aggregazione/nazionalizzazione, che ha sostituito la mobilitazione/contrapposizione ideologico/politica, ma ne conserva le pulsioni violente; il calcio come “tifo”, con variegati scatenamenti umorali dell’individuo e della massa.
Dunque, un gran concentrato di emozioni e di passioni, e, all’occorrenza, di furori. Un gioco
CALCIO La storia del gioco e le sequenze istituzionali, da un club all’altro, da una nazione all’altra. Origini, miti di fondazione, simboli, segni e insegne, in un fiorire di succose curiosità che danno la misura di un libro confezionato da mani (e menti) esperte conta tutto il football, la storia del gioco e le sequenze istituzionali, da un club all’altro, da una nazione all’altra, andando a esplorare origini, riti e miti di fondazione, segni e insegne, simboli e suggestioni araldiche di centinaia di squadre, in un fiorire di succose curiosità che danno la misura di un libro confezionato da mani (e menti) esperte. Che è poi quel che ci vuole per dare un “senso” a quel che a tanti pare insensato: il calcio come gioco/gara/guerra; il calcio co-
brutto, sporco e cattivo? Eccome, ma anche bello, anzi bellissimo: e ci sono gli eroi, e ci sono i martiri. Le belle battaglie, le belle bandiere,la “meglio gioventù”. L’attesa e la contesa, il colpo messo a segno, l’esultanza collettiva, migliaia di persone che diventano un uomo solo, plaudente e commosso, gli inni, gli slogan. Le ferite e la solitudine degli sconfitti; l’omaggio cavalleresco (qualche volta) dei vincitori. Un momento: e gli sprangati, i pestati, i morti ammazzati, dove li mettiamo? Ragazzi, il calcio è guerra: le regole non ne riscattano la ferocia primigenia e non possono nobilitarne la brutalità di fondo. E la leggiadra, cromatica, poesia dell’araldica in fondo viene solo a confermarci quello che sappiamo dell’uomo, animale e angelo a un tempo. Ne hanno perfetta contezza Salvi e Savorelli che nella loro vasta tessitura di notizie e di aneddoti (con puntuali, coltissimi richiami alla storia, alle lotte tra i comuni, alle contese tra Papato e Impero, alle guerre tra gli Stati, agli antagonismi ideologici, contrassegno cruciale del XX secolo), non possono certo annacquare e decolorare quell’universo calcistico in cui vitalità e visceralità ripetono risse “ancestrali” connesse alla “natura” umana (umana, troppo umana? disumana? subumana?). Ma poi ogni lettore è chiamato a consolarsi, gustando le “chicche” che riguardano la sua squadra, insegne e colori compresi. Ad esempio, per quel che ci riguarda, il colore viola. Così ambivalente: nefasto ieri, alla moda oggi, da sempre eletto dalla Fiorentina per le sue casacche. Davvero “da sempre”? Tutti i colori del calcio vi svelerà l’arcano.