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La libertà non è altro
he di c a n o r c
che una possibilità di essere migliori, mentre la schiavitù è certezza di essere peggiori
9 771827 881004
Albert Camus
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
«Un’intera generazione crescerà con un presidente afro-americano. Ciò cambierà il modo in cui i ragazzi di colore guarderanno a se stessi e il modo in cui i ragazzi bianchi guarderanno a quelli di colore»
Generazione Obama Il mondo attende il giuramento e il discorso del nuovo leader americano che, intanto, in un’intervista annuncia il compimento del sogno di Martin Luther King alle pagine 12, 13, 14 e 15 Il futuro del partito di Bossi
La Lega? Non può essere “cattolica” di Luigi Accattoli aro direttore, mi hai chiesto un parere sul rapporto tra la Lega Nord e la Chiesa: se sia un partito cattolico, o non piuttosto una forza politica particolaristica destinata a confliggere con la dottrina sociale della Chiesa. La mia risposta è a metà tra le due ipotesi. s eg u e a pa gi n a 1 1
C
D’Onofrio: troppi lo evocano a sproposito
I partiti aperti secondo Sturzo colloquio con Francesco D’Onofrio di Errico Novi
ROMA. Durante la celebrazione per il novantesimo anniversario dell’appello di don Luigi Sturzo «ai liberi e forti», Pier Ferdinando Casini ha anticipato una proposta di legge dell’Udc: vincolare l’erogazione dei rimborsi elettorali al rispetto della democrazia interna ai partiti. se gu e a p ag in a 8
Contro la politica dei nuovi «nominati» di Renzo Foa a pagina 9
Ieri dal seminario delle due fondazioni “liberal” e “Italianieuropei”
Giustizia, l’asse Casini-D’Alema Efficienza, garanzie per i cittadini e potere dei magistrati Una proposta concreta al Governo e al Parlamento
Parla Antonio Patrono
di Francesco Capozza
ROMA. «La sfida strati indipendel governo sulla denti e non. Il teriforma della giuma del dibattito, stizia va accettata, sinteticamente un’opposizione battezzato «Giuaventiniana sastizia: idee per rebbe dannosa una riforma», è per l’interesse del stato incentrato Paese». Sono le tutto sulla propoparole con le quasta delle due fonli Pier Ferdinando dazioni, redatta Casini ha carattein sedici cartelle Pier Ferdinando Casini e Massimo D’Alema rizzato, ieri, il e firmata da Misi sono confrontati ieri a Roma confronto trasverchele Vietti (retrovando molti punti d’incontro sale tra le fondasponsabile del sulla possibile riforma della giustizia zione Italianieusettore giustizia ropei e liberal. Gli ha fatto eco Massimo dell’Udc) e Giovanni Di Cagno (giurista ed D’Alema, richiamando il documento co- ex magistrato vicino alle posizioni della mune in discussione: «Non si sa bene cosa fondazione dalemiana), entrambi ex comil governo voglia fare della riforma della ponenti del Consiglio Superiore della Magiustizia e se terrà conto delle diverse pro- gistratura. Un breve cenno di benvenuto poste. Noi ci auguriamo che ne tenga con- da parte di Ferdinando Adornato, presito perché in materia di processo civile è dente della fondazione liberal - che ha voabbastanza grave che si sia chiesta la dele- luto sottolineare l’importanza di un simile ga. D’altro canto il nostro è un documento incontro «in un Paese, il nostro, dove si libero e trasversale che si accompagna al- parla di riforme condivise da 15 anni, ma le proposte presentate dai partiti». A con- senza che si sia mai arrivati ad alcun vero frontarsi nella sede della fondazione Ita- risultato concreto» - i due firmatari della lianieuropei, in un incontro volutamente a relazione hanno introdotto i termini del porte chiuse, c’erano esponenti di spicco confronto tra centristi e dalemiani. del Pd (ovviamente, per lo più di area dales eg u e a pa gi n a 2 miana) e dell’Udc, oltre a giuristi e magis er v iz i a p ag in a 2 , 3, 4, 5
segu2009 e a pa•giE nURO a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 20 GENNAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
13 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
«Ecco come si può riformare il Csm» colloquio con Antonio Patrono di Franco Insardà
ROMA. Sono tutti d’accordo da tempo: la giustizia deve essere riformata. Quando, però, si affrontano i temi specifici le posizioni sono così distanti da smorzare anche gli entusiasmi dei più ottimisti. Secondo Antonio Patrono, componente del Consiglio superiore della magistratura ed ex segretario di Magistratura Indipendente è arrivato il momento per procedere a una riforma del settore: «La giustizia funziona male e bisogna intervenire sia sulla durata irragionevole dei processi che sulla qualità non sempre adeguata della risposta giudiziaria, specie nel settore penale. Occorre, comunque, un intervento organico e complessivo». s eg ue a p a gi na 4
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 20 gennaio 2009
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Incontri possibili. Un confronto trasversale tra le fondazioni ”liberal” e “Italianieuropei”
Rifacciamo giustizia Casini: «L’opposizione non scelga l’Aventino, la riforma è necessaria» D’Alema: «Ci auguriamo che il governo voglia davvero il confronto» di Francesco Capozza segue dalla prima A Michele Vietti, il compito di spiegare i principi che hanno ispirato la parte del documento che prevede un’idea di riforma del processo civile, a Di Cagno, invece, la parte relativa al processo penale. Per Vietti, il seminario di ieri può essere definito la diretta appendice di quello svolto lo scorso novembre presso l’istituto Sturzo. Già allora, ha fatto notare Vietti, erano emersi numerosi punti di incontro tra «quanto noi dell’Unione di centro abbiamo in mente rispetto ad una complessiva riforma del sistema giudiziario italiano e le idee di numerosi autorevoli esponenti democratici oggi qui convenuti». Per il responsabile Giustizia dell’Udc,
I contenuti del documento discusso ieri a Roma
Giudice collegiale e Pm temporanei ROMA. Un giudice collegiale per le decisioni sulle indagini preliminari e l’istituzione della temporaneità nell’esercizio della funzione di pubblico ministero: sono questi i punti principali della convergenza fra Udc e Pd al seminario organizzato ieri dalle fondazioni liberal e italianieuropei.Vediamo, nel merito, su che cosa hanno convenuto gli esponenti dei due partiti. Per quanto riguarda il processo civile l’obiettivo è superare lungaggini formali. E questo anche prevedendo un solo giudice in tutto il primo grado di giudizio; mentre una garanzia importante per i cittadini dovrebbe essere quella dell’introduzione di un giudice terzo per l’assunzione delle prove. Quanto al processo penale, intanto è ritenuto irragionevole l’ampliamento dei termini di prescrizione mentre è da ipotizzare una limitazione del ricorso in Cassazione. Ma resta centrale il tema delle indagini preliminari, sia per quanto riguarda la tutela del cittadino sia per quanto riguarda la durata dei processi. Nel primo caso, occorre andare all’istituzione di un “giudice collegiale”per il rinvio a giudizio, nel secondo caso è indipensabile stabilire a monte riconoscibilità e durata delle indagini. Quanto alle intercettazioni, poi, il seminario di liberal e italianieuropei rimanda alle linee guida del vecchio disegno di legge di Clemente Mastella. In merito alla riforma della “giustizia come
potere”, il primo punto significativo è il mantenimento dell’obbligatorietà dell’azione penale, sia pure ridefinando i ruoli del Pubblico ministero e della Polizia giudizia in materia di comunicazione delle notizie di reato. In questo contesto, la priorità nell’esercizio dell’azione penale va necessariamente sottratto alla discrezionalità non solo del singolo Sostituto, ma anche del singolo Ufficio di Procura. Ma, se l’azione penale resta obbligatoria, il Pubblico Ministero, che la esercita, non può non restare un magistrato indipendente. Occorre porsi, tuttavia, il problema di un bilanciamento del potere che oggettivamente - anche per ragioni legate alle dinamiche del sistema mediatico - il Pm esercita oggi in tutte le democrazie contemporanee. In proposito, la ipotizzata separazione delle carriere tra Pm e Giudici, lungi dal risolvere i problemi, li aggraverebbe. Occorre, viceversa, introdurre il criterio della temporaneità nell’esercizio della funzione di Pm. È necessario, poi, dare vita a un’unica figura di magistrato, con identità di percorsi di accesso, di diritti e di doveri, di garanzie e di indipendenza, di regole di carriera e regole disciplinari, e con unico inquadramento amministrativo-burocratico all’interno del Ministero della Giustizia. Il che, non significa unificazione delle giurisdizioni, ma deve significare unificazione del sistema di governo autonomo delle magistrature.
«la proposta che il governo Berlusconi si accinge a presentare all’esame del Parlamento, mira a ridurre i cosiddetti ”riti” piuttosto che colpire nel centro il problema» ed è per questo che dal documento redatto a
posta di riforma della Giustizia: obbligatorietà dell’azione penale, ritorno all’antica concezione dell’udienza preliminare (che oggi è «a tutti gli effetti un quarto grado di giudizio, anzi, di più viste le numerose udienze preliminari che si celebrano nello stesso procedimento») e introduzione di un ”vero” rito abbreviato. Per entrambi i firmatari della proposta, è tuttavia necessario punto di partenza (concetto su cui è poi tornato con forza l’ex presidente della Camera Luciano Violante) la riforma strutturale delle circoscrizioni giudiziarie. A completamento dell’intero documento, ha preso la parola Roberto Garofoli, magistrato del Consiglio di Stato, che ha illustrato una relazione su “il sistema della Giustizia e i punti di contatto tra sfere diverse”. Per Garofoli, non è possibile una riforma del sistema giudiziario senza mettere a fuoco e rivedere sensibilmente i rapporti tra giurisdizione civile e giurisdizione amministrativa, tra prcesso amministrativo e
quattro mani emerge «una proposta provocatoria: l’introduzione di un giudice monocratico a partire dal primo grado di giudizio».
Ma per il relatore udiccino (e questo è stato anche il leit motiv di tutti gli altri interventi), «la Giustizia viene sempre di più avvertita dai cittadini come distante, ostile ed incapace di contribuire al progresso civile della nostra società», l’antidoto che le due fondazioni propongono percorre un duplice binario: «ottenere giudizi più rapidi, attraverso una robusta razionalizzazione del sistema, e rendere maggiormante prevedibili le conseguenze giuridiche dei comportamenti dei cittadini». Per Di Cagno, poi, sono tre i punti fondamentali della pro-
amministrazione, tra diritto penale e sanzioni amministrative e, da ultimo, tra la giurisdizione penale e quella amministrativa.
A seguire, sono stati molti gli interventi chiesti per una riflessione sul documento, dal professore di Diritto Costituzionale Verde (che ha esaminato più nel particolare la necessità di una complessiva riforma della Costituzione su i temi della Giustizia, a partire dall’articolo 100 sul Consiglio di
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La riforma del Csm secondo Luciano Violante
«Autogoverno non è autogestione» colloquio di Riccardo Paradisi con Luciano Violante Il capogruppo dei senatori Pdl Maurizio Gasparri dice che grazie alle posizioni più avanzate di alcuni esponenti della sinistra come lei si è molto vicini a un’intesa sulla riforma della giustizia. Condivide? Non conosciamo le proposte del governo, difficile rispondere. Come giudica la bozza emersa dal seminario sulla riforma della giustizia organizzato dalle Fondazioni Italianieuropei e liberal? La sua qualità più significativa è che parla sia della giustizia come servizio sia della giustizia come potere. E indica le priorità da un lato per evitare l’affastellamento di proposte, dall’altro per chiarire lo stato della geografia giudiziaria sul territorio. Più della metà dei tribunali è sottodimensionata rispetto alla normale efficienza. Un passaggio delicato della bozza è quello che riguarda la separazione della funzione disciplinare per affidarla a un’Alta corte di giustizia con un terzo dei componenti di nomina del capo dello Stato. È una proposta che cerca di evitare che l’autogoverno della magistratura coincida con una sorta di autogestione corporativa. Del resto qualora si metta mano all’ordinamento costituzionale bisognerebbe rivedere anche il ruolo della magistratura e quindi anche discutere del Csm. Insomma due riforme parallele. Se si mette mano alla riforma del potere politico è necessario anche discutere del ruolo
della magistratura. Non può essere che tutto cambia e la magistratura resta quella della metà del secolo scorso. Una proposta del genere però potrebbe avere delle reazioni negative, essere avvertita come un’invasione di campo. Ma siamo sicuri che il Csm attuale sia la migliore struttura per l’autogoverno della magistratura? Io registro critiche dappertutto, soprattutto tra gli stessi magistrati. In particolare sul peso eccessivo che le correnti hanno nel determinare il destino dei singoli magistrati. E sulle intercettazioni? Non è vero che sono troppe in Italia.altrove appaiono di meno perchè le fanno anche autonomamente polizia e servizi segreti. Più della metà delle intercettazioni d’altra parte vengono fatte a Milano, Catania, Palermo e Napoli, i luoghi di più elevata concentrazione criminale. Restano le polemiche sulle fughe di notizie dalle procure. Come darci un taglio? Il processo per la fuga di notizie non deve essere gestito dall’ufficio giudiziario da cui sono uscite ma da un ufficio diverso. Faccio un esempio: le notizie sono uscite dalla procura di Brescia? Decida Milano. Il peggiore giornalista è quello che non pubblica le notizie che ha. Per questo è indispensabile non farle uscire dalle procure.
Parla la vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio
«Sul ddl la Lega non torna indietro» colloquio con Carolina Lussana di Irene Trentin Qui sopra, Pierferdinando Casini. Poi, da destra, in senso orario, Luciano Violante, Carolian Lussana, Piero Fassino, Ferdinando Adornato, Michele Vietti, Massimo D’Alema, Giuliano Amato e Bruno Tabacci
Stato che, secondo il professore «non è più attuale, almeno per come il Consiglio opera attualmente»), al già citato presidente della Camera Luciano Violante, a Rino Pisicchio e Piero Fassino, passando per Carlo Federico Grosso e Felice Casson. Un punto fondamentale su cui il documento redatto dalle due fondazioni ha voluto concentrare l’attenzione dei convenuti, è stato quello all’attualissimo problema riguardante le intercettazioni. Se per Giovanni Di Cagno esse sono «troppe e incontrollate», per Luciano Violante «non è la quantità che andrebbe rivista, bensì la forma. Basterebbe, per iniziare, una netta divisione tra la procura che le ha ordinate e quella che poi è chiamata a giudicarle». Ma il problema delle intercettazioni è anche di carattere economico, ecco perchè dal documento emerge la proposta di porre dei limiti di budget, «non cadu-
catori, ma per lo meno indicativi». Per Di Cagno, infatti, le intercettazioni gravano sul bilancio dello Stato in maniera «spaventosa, come non accade in nessun altro Paese». Una riunione tra «persone ragionavoli», per dirla come Pier Ferdinando Casini, che adesso, però, dovrà vedersela con la forza numerica della maggioranza parlamentare.
ROMA. «Sul ddl della giustizia non siamo disposti a tornare indietro». La Lega non intende scendere a compromessi sulla riforma che venerdì prossimo approderà in Consiglio dei ministri. E spetta a Carolina Lussana, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio, difendere con i denti alcuni capisaldi. Onorevole, l’accordo c’è o no? Sulle linee guida ci siamo, ma c’è ancora da fare. De Magistris ha parlato di attacchi eversivi alla libertà delle toghe… Il solito ritornello da parte di alcuni voci isolate. Ogni volta che si parla di riforma della giustizia qualcuno grida che si vuole colpire qualcuno. Questa non è né l’intenzione della Lega né del Pdl. Il ministro Alfano e lo stesso Berlusconi si sono detti soddisfatti del dialogo con parte dell’opposizione, in modo particolare con Violante. È davvero una riforma condivisa? Spero che questo dialogo ci possa essere fino alla fine. D’altra parte l’opposizione ha espresso la nostra stessa preoccupazione per lo strapotere di alcune correnti che rischiano di condizionare le carriere dei magistrati e non premiano la meritocrazia. Condividete i sei punti indicati da Fini? La Lega chiede una separazione netta delle car-
riere dei giudici e degli avvocati. Riteniamo poi che le intercettazioni siano un ottimo strumento ma troppo a rischio di abusi e c’è da risolvere il problema della pubblicazione. Vogliamo inoltre tornare alla vecchia disciplina codicistica che ridimensiona il ruolo del pm limitandolo all’attività investigativa e d’indagine e potenziare invece quello della polizia giudiziaria. Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale sono i singoli sostituti procuratori a decidere se è il caso di procedere oppure no, ma è giusto che il Parlamento indichi la priorità dei reati. Temete che la riforma sulla giustizia sia d’ostacolo al federalismo fiscale? Bossi su questo è stato chiaro: prima il federalismo fiscale, poi la giustizia. È per questo il senatùr incontrerà Berlusconi? Glielo ricorderà sicuramente. Come gli ricorderà che per noi il testo sulle intercettazioni è quello del Cdm, non siamo disposti a tornare indietro. Donatella Ferranti, capogruppo del Pd in commissione giustizia alla Camera, ha parlato di testo“squilibrato”… Per noi è equilibratissimo. Le fondazioni di Casini e D’Alema hanno messo a punto un documento sulla giustizia… Sull’incarico a tempo per i pubblici ministeri non siamo d’accordo, è solo con la separazione delle carriere che si può garantire l’imparzialità. Sullo sdoppiamento del Csm e il budget per le intercettazioni siamo sulla stessa linea.
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Giustizia. Antonio Patrono su intercettazioni, gip collegiale, obbligatorietà dell’azione penale, separazione delle carriere
«Così cambierei il Csm» Una proposta dall’interno del consiglio: «Le procure andrebbero ridotte da 160 a 26» colloquio con Antonio Patrono di Franco Insardà segue dalla prima Dottor Patrono partiamo da uno dei temi più controversi: le intercettazioni. La disciplina delle intercettazioni telefoniche oggi è rigorosissima basta pensare che sono consentite solo se ci sono “gravi indizi di reato e siano assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini”. Più restrittivi di così i presupposti non potrebbero essere. La stessa cosa vale per le misure cautelari, che già oggi, secondo la legge, possono essere applicate solo in casi veramente estremi. Il problema non è la normativa ma l’applicazione pratica che talvolta se ne fa. Vuol dire che la colpa è dei magistrati? L’attuale sistema processuale e ordinamentale riguardante il pubblico ministero, responsabile delle indagini, e il giudice per le indagini preliminari, chiamato a rispondere alle richieste del pm e quindi in qualche modo a verificare la bontà del suo lavoro, in concreto rivela inconvenienti che devono essere corretti. Ci spieghi meglio? Quella del giudice per le indagini preliminari è la funzione più difficile perché interviene nella fase iniziale del processo, quando i fatti ancora non sono del tutto chiariti ed è quindi più difficile comprenderne gli esatti contorni. Oggi il giudice per le indagini preliminari è sempre monocratico, spesso giovane, e può trovarsi in difficoltà, ad esempio, ad andare contro richieste che gli siano rivolte da pubblici ministeri molto determinati e più esperti, dovendo talvolta anche affrontare l’onda di spinte ed emotività popolari. È necessario prevedere che questa funzione sia svolta sempre da magistrati di provata esperienza e nei casi più delicati, come per le decisioni sulle misure cautelari, occorrerebbe la composizione collegiale. Quali vantaggi ci sarebbero sui tempi del processo? Il gip collegiale per le misure cautelari
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renderebbe inutile il successivo riesame, consentendo quindi un risparmio dei tempi. Inoltre affiderei al gip collegiale anche il compito di decidere sulle richieste di rinvio a giudizio del pm. Oggi anche queste decisioni sono assunte da un solo giudice, quando addirittura non è lo stesso pm a disporre il rinvio a giudizio senza filtro preliminare. Il risultato è che si celebrano un gran numero di dibattimenti che spesso si chiudono con un’assoluzione. I processi possano portare all’assoluzione dell’imputato? Certo, ma solo nei casi dubbi. In realtà ci sono spesso processi che non dovrebbero svolgersi. Lo scopo del processo non è quello generico di accertare la verità, ma quello di stabilire se sia stato commesso un fatto di rilevanza penale, in caso contrario il processo crea solo ingiusta sofferenza e gravi danni, sia economici che morali. Un giudice collegiale, più forte di quello monocratico, potrebbe essere un filtro più efficace per evitare tutto questo e i tempi della giustizia se ne avvantaggerebbero notevolmente. Ma queste modifiche non indebolirebbero il ruolo della magistratura in generale, e del pm in particolare? Non vedo perché. Le norme processuali per me dovrebbero rimanere le stesse di oggi. L’unica modifica che farei, per delineare più correttamente i rispettivi ruoli, sarebbe prevedere che il pubblico ministero, che già oggi deve chiedere al giudice l’autorizzazione per la restrizione della libertà personale degli indagati e per effettuare intercettazioni telefoniche, dovesse chiederla anche per effettuare perquisizioni domiciliari e personali, che sono certamente più invasive delle intercettazioni e che oggi può invece disporre autonomamente. Davvero non c’è nulla da cambiare per le intercettazioni? Qualcosa di più è invece necessario fare per tutelare la privacy degli intercettati, specie se estranei al processo. Si potrebbero riprendere alcune soluzioni prospettate nel corso della passata legislatura, come la creazione di strut-
Un collegio per le misure cautelari servirebbe a evitare molti di quei processi che spesso si chiudono con assoluzioni
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Per Antonio Patrono (foto in basso): «Il principio dell’autonomia della magistratura implica che la maggioranza dell’organismo sia composto da magistrati. Oltretutto non c’è ragione di pensare che i componenti laici garantirebbero maggiore obiettività di giudizio dei magistrati»
ture centralizzate, più sicure, per l’esecuzione delle intercettazioni, la previsione di figure di “responsabili” delle procedure, e soprattutto l’inasprimento di sanzioni pecuniarie o amministrative nei confronti dei giornali che violino consapevolmente i divieti di pubblicazione previsti dalla legge. Veniamo al pubblico ministero: che cosa c’è che non va? Da molti anni norme e prassi hanno svuotato di potere i procuratori capo attribuendo in sostanza una quasi assoluta libertà di manovra ad ogni singolo sostituto procuratore. La riforma Castelli ha cambiato qualcosa al riguardo, ma funziona poco e male, in parte perché non è del tutto chiara, in parte per la resistenza abbastanza generalizzata ad accettarne la portata innovativa, che certamente consiste nel rafforzare i poteri dei capi degli uffici anche nel merito delle decisioni da assumere, e non solo sotto il profilo organizzativo generale. Lei come interverrebbe? Innanzitutto ridurrei il numero di procure, che oggi sono oltre 160, facendole coincidere con gli attuali distretti in modo da avere solo 26 uffici inquirenti piuttosto grandi, e quindi idonei a garantire sia un’adeguata specializzazione in ogni settore di indagine. In questi uffici dovrebbero essere assorbite le attuali procure generali. La guida dovrebbe essere affidata a magistrati di grande e sperimentato valore con ampi poteri organizzativi e decisionali e, come contrappeso, maggiori responsabilità, quantomeno dinanzi al Csm che, in caso di errori gravi o comunque di rivelata inadeguatezza, dovrebbe poterli rimuovere e sostituire in tempo reale.
Tutto questo potrebbe ridurre i tempi dei processi? È anche indispensabile sveltire e semplificare le notificazioni, usando soprattutto i mezzi informatici, e la disciplina delle nullità, imponendo che siano eccepite in tutti i casi appena rilevate senza dilazioni a pena di decadenza. Ma penso che sia necessario un intervento serio anche sulle impugnazioni. Oggi per troppi processi si celebrano inutilmente tre gradi di giudizio. Non è possibile che vi siano seri dubbi di legittimità in tutti i processi per cui si fa ricorso in Cassazione, e infatti molti sono dichiarati inammissibili o vengono respinti. Affiderei il massimo della garanzia ai due gradi di giudizio precedenti e specialmente all’appello. Troppo spesso si dimentica che le corti d’appello sono non solo giudici del merito del processo, ma anche della sua legittimità. Due gradi interi di giudizio, in fatto e in diritto, mi sembrano più che sufficienti per assicurare, per quanto possibile, decisioni immuni da errori. Molti propongono di modificare la composizione del Csm a vantaggio dei componenti laici rispetto a quelli togati. Sarebbe un errore. Il principio dell’ autonomia della magistratura implica che la maggioranza dell’organismo sia composto da magistrati. Oltretutto non c’è alcuna ragione per pensare che i componenti laici garantirebbero maggiore obiettività di giudizio dei magistrati. Si accusano le correnti di influenzare pesantemente il Csm. Non si può negare che il problema esista. Non tutto è influenzato dal corren-
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tismo, e rispetto al passato qualche miglioramento c’è stato. Ma la cosa più preoccupante è che ormai, per ragioni di deprecabile opportunismo, sia all’esterno che all’interno della magistratura è invalso l’uso di attribuire alle correnti anche colpe che non hanno, ma per le quali sono diventate il più facile capro espiatorio. A questo punto è forse nell’interesse dello stesso Csm una riforma che, oltre a cercare di eliminare i difetti veri del correntismo, impedisca che alle correnti della magistratura vengano strumentalmente attribuite anche le colpe che non hanno. Come andrebbe riformato il Csm? Questo è il vero problema. Il sorteggio è una proposta stravagante, non si può affidare al caso la scelta dei pochi chiamati a governare la magistratura su una rosa di oltre 9000 magistrati, non certo tutti eguali e egualmente idonei a un compito di tal genere. E credo che risolverebbe poco anche la modifica del solo sistema elettorale perché, quale esso sia, è ormai diffusa all’interno della magistratura l’abitudine a fare riferimento alle correnti come a referenti privilegiati per curare ogni tipo di interessi professionale. Tutto considerato, la nomina di un terzo di magistrati da parte del Capo dello Stato è finora l’idea più ragionevole che sia stata proposta, anche se si presta al dubbio sulla possibilità che ha una persona sola, il Presidente della Repubblica, di conoscere soggetti, normalmente estranei al suo ambiente, così approfonditamente da poter poi scegliere tra loro i più idonei a svolgere il ruolo di consiglieri del Csm. C’è l’ipotesi di staccare la Sezione Disciplinare dal Csm.
Si può fare e forse risolverebbe qualche problema pratico, ad esempio rimuovendo situazioni di imbarazzo, se non addirittura di vera e propria incompatibilità interne, ma non è il funzionamento della giustizia disciplinare il problema odierno dell’autogoverno. Non è minacciando o anche applicando punizioni esemplari o più efficaci che si fa diventare bravo chi non lo è, equilibrato chi non lo è, coraggioso chi non lo è. Semmai, se proprio dovessi trovare una pecca all’attuale sistema disciplinare, mi sembra che qualche difetto si ravvisi più sul piano dell’esercizio dell’azione disciplinare, oggi affidato ad un organismo politico come il ministro della Giustizia e a un organo giudiziario che lo esercita a tempo parziale insieme con tante altre funzioni come il procuratore generale della Cassazione. Penso che l’azione disciplinare sarebbe più efficace se fosse affidata a un organismo autonomo preposto esclusivamente alla verifica della correttezza e al rispetto dei canoni fondamentali deontologici per tutti i magistrati, che agisca professionalmente e senza condizionamenti funzionali da parte di nessuno, un ufficio all’interno del quale dovrebbero lavorare a tempo pieno magistrati e anche avvocati e che decida quali casi sottoporre al giudice disciplinare. Separazione delle carriere e obbligatorietà dell’azione penale: altri due argomenti caldi. La separazione delle carriere mi sembra davvero inutile. L’unico scopo per cui è proposta dai suoi sostenitori è quello di allontanare il giudice dal pm, perché sia più imparziale di oggi, ma lo stesso risultato si può ottenere in altro modo, rafforzando il giudice e rendendolo più autorevole anche dinanzi al pm, riequilibrando così la posizione di tutte le parti nel processo, senza rivoluzioni ordinamentali. In un regime di obbligatorietà dell’azione penale chiunque fosse preposto a ciò, Parlamento, governo, Csm, penso che avrebbe gravi difficoltà a stabilire ogni anno quali reati debbano essere perseguiti e quali no. Diverso è il caso di interventi con legge o di criteri dei capi degli uffici qualora vi siano dei fatti contingenti, come è avvenuto per il giudice unico di primo grado e per l’indulto. Piuttosto uno strumento utile a fini deflattivi potrebbe essere l’applicazione del principio dell’irrilevanza penale del fatto, che escluderebbe l’esercizio dell’azione penale in caso di evidente inoffensività in concreto della fattispecie riscontrata. Introdurrei, inoltre, nuove cause di estinzione del reato condizionate al risarcimento del danno per tutte le ipotesi di minore rilevanza. Insomma, sembra di capire che siano molte le cose che non vanno nel processo penale. Il sistema accusatorio ha molti pregi, ma da noi è stato introdotto prima e applicato poi spesso senza criterio. Molti istituti sono nati male e sono stati distorti ulteriormente dalla prassi. Io eliminerei o amplierei molto i termini di durata delle indagini e prevederei l’iscrizione del nome dell’indagato solo quando si debba compiere un atto per cui sia richiesto l’intervento del difensore, poiché l’iscrizione immediata dell’indagato, che doveva essere una garanzia, a causa dell’arbitrarietà del concetto di notizia di reato è diventata spesso il presupposto per ingiuste gogne mediatiche.
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Il presidente Palamara soddisfatto dell’apertura di Casini
«L’Anm è pronta al confronto» di Francesco De Felice
ROMA. «Ci fa piacere che il presidente Casini voglia confrontarsi con i magistrati sulla proposta di riforma della giustizia». Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ritiene prematuro dare dei giudizi sulla bozza Di CagnoVietti della quale si è discusso ieri nel convegno delle fondazioni Italianieuropei e liberal. Palamara dice a liberal: «Aspettiamo di vedere in concreto le proposte di riforma delle quali si sta discutendo e poi faremo le nostre valutazioni. Ma su alcuni punti abbiamo espresso chiaramente la posizione dell’Associazione nazionale dei magistrati». Su tutti la difesa delle del prerogative Consiglio superiore della magistratura: «Sì il Csm per noi è una vera e propria linea Maginot - dice Palamara -. Noi ne difendiamo l’attuale assetto perché garantisce l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati».
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zamento riguarda soprattutto il metodo che prevede il coinvolgimento nel dibattito anche degli operatori della giustizia».
L’altro argomento sul quale l’Anm fa le barricate è quello relativo alla figura del pubblico ministero. C’è chi vorrebbe separare le carriere e chi, come previsto nella bozza Di CagnoVietti, vorrebbe prevederne la temporaneità. Anche su questo l’Anm ha idee precise: «Diciamo no alla separazione delle carriere siamo per un pubblico ministero professionale che rimanga indipendente all’interno dell’ordine giudiziario». E sulla il temporaneità presidente Palamara dice: «Non sarebbe corretto togliere la specializzazione a una funzione così importante in maniera drastica. In questo modo si rischierebbe di far perdere delle professionalità che si sono acquisite negli anni. Sulle carriere c’è già stata la riforma che ha introdotto una netta distinzione delle funzioni non credo che sia utile ritornare ciclicamente sulle stesse questioni». Sull’altra vicenda che interessa la riforma della giustizia: l’obbligatorietà dell’azione penale lo stesso presidente dell’Anm si era espresso positivamente sulla proposta lanciata da Gianfranco Fini: «Ci fa piacere che il presidente della Camera confermi la validità del principio costituzionale dell’azione penale per garantire l’eguaglianza davanti alla legge. Piuttosto che un intervento del Parlamento sulle priorità da seguire, proponiamo l’irrilevanza penale per alcuni reati. Possibile che per una guida senza patente ci siano tre gradi di giudizio?» . I tempi stringono e tutti gli attori principali della riforma della giustizia sembrano scaldare i motori. L’agenda dovrebbe essere definita: mercoledì Silvio Berlusconi ne parlerà con gli alleati e venerdì il testo della riforma dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri.
Aspettiamo di vedere le proposte, poi valuteremo ma su alcuni punti abbiamo espresso le nostre posizioni
In questi giorni è stata lanciata la proposta dell’istituzione di un’Alta corte di giustizia nella quale i magistrati non sarebbero la maggioranza, ma anche su questo il presidente Palamara sottolinea la loro posizione : «Si può discutere di correttivi da apportare con legge ordinaria che preveda una distinzione tra le funzioni amministrative e quelle disciplinari, queste comunque vanno affidate a un’articolazione interna al Consiglio superiore della magistratura. Siamo però contrari a una riduzione della componente togata rispetto a quella laica». Invece sull’annosa questione delle correnti all’interno dell’organo di autogoverno dei magistrati Luca Palamara ammette: «La degenerazione del correntismo è un tema che andrebbe affrontato con un congresso straordinario della nostra associazione». La posizione dell’Anm sulla riforma della giustizia nel suo complesso è molto chiara: «È necessaria, ma è necessario distinguere su quali aspetti bisogna intervenire». Oltre alla vicenda del Csm per il sindacato dei magistrati bisogna migliorare l’efficienza del sistema giudiziario: in primo luogo la situazione del personale amministrativo, secondo il taglio delle risorse e infine la riduzione degli organici della magistratura. Tutte misure che porteranno allo snellimento dei processi. Noi vogliamo dare il nostro contributo per il miglioramento del sistema nell’ interesse dei cittadini. Il nostro apprez-
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economia
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Recessione. L’Unione europea rende pubbliche le stime per il 2009. L’Italia è al -2% e sforerà Maastricht: -3,8%
Pil in caduta libera. Come previsto di Alessandro D’Amato
ROMA. Meno 2% di crescita del Pil nel 2009, con una modestissima ripresina (+0,3%) l’anno successivo. Il rapporto deficit-pil arriverà al 3,8%, (un punto in più rispetto al 2008), e scenderà appena di un decimale alla fine del 2010, mentre il debito-pil schizzerà al 109,3% e l’anno dopo continuerà la sua corsa toccando il 110,3%. E il tasso di disoccupazione toccherà l’8,7 tra due anni, anche questo un record negativo. Le previsioni economiche del commissario Ue agli affari economici, Joaquin Almunia, sono impietose per l’Italia. In un quadro fortemente negativo per tutto il Vecchio Continente – che vedrà la fase più profonda della recessione in questo semestre – l’Italia soffrirà gli effetti della crisi economica come e più degli altri. E il motivo lo spiega lo stesso Almunia nella conferenza stampa: «L’elevatissimo de-
bito pubblico impedisce al governo di ricorrere in maniera più ampia a strumenti fiscali per far fronte alla crisi. Un ricorso agli stabilizzatori automatici porterebbe il disavanzo delle amministrazioni pubbliche ben al di sopra del 3% del Pil nel 2009, con un solo un marginale miglioramento atteso nel 2010. Questo, insieme con una crescita non certo esuberante implica l’aumento del debito. Ed eventuali ricapitalizzazioni bancarie potrebbero farlo salire ancora di più».
Da parte della Commissione si sottolinea anche che nelle condizioni date era difficile fare di meglio per Tremonti: «Le misure anticrisi prese dal governo italiano costituiscono una adeguata combinazione tra l’esigenza di stimolare l’economia e quella di mantenere prudenza», ma Bruxelles si mantiene cauta anche sullo
Conti a picco in tutta Europa, dove il prodotto interno lordo si prevede a -1,9% per quest’anno. Solo nel 2010 avremo i primi segni di ripresa da una crisi che si sta rivelando durissima spauracchio-sanzioni: «Non ho ancora la risposta sulla procedura da aprire per deficit eccessivo – dice Almunia – Il 18 febbraio pubblicheremo le nostre
opinioni sui programmi di stabilità e di convergenza dei Paesi membri, allo stesso tempo all’Ecofin del 10 marzo adotteremo le conclusioni su ciascun Paese, in termini di correzione del deficit successivo».
La depressione economica in ogni caso colpirà tutto il Vecchio Continente. La Commissione prevede per il 2009 un crollo del Pil dell’1,9%, ma sono le stime sul deficit a rappresentare la cifra più preoccupante degli effetti della recessione nell’eurozona (in media 4%) e nella Ue (4,4%): secondo le stime, fra i membri dell’euro il deficit più alto rispetto al Pil è quello dell’Irlanda (11,0%), che già nel 2008 era a 6,3%. Ma le previsioni sul deficit (vale a di-
re la spesa pubblica non coperta dalle entrate) sono molto oltre la barra del 3% anche per la Spagna (6,2%), la Francia (5,4%), e il Portogallo (4,6%). Sforamento, ma più lieve, anche per l’Italia (3,8%) e la Grecia (3,7%), mentre restano vicini ai limiti di Maastricht la Germania (2,9%) e il Belgio (3%). Fuori dall’eurozona, la caduta più impressionante è quella del Regno Unito (8,8%), ed è significativo anche il dato della Romania (7,5%). Male anche per la Lituania (6,3%), mentre gli altri due Paesi baltici restano sul 3% (Lettonia) o poco sopra (Estonia, 3,2%). Almunia ha comunque voluto sottolineare che nessun paese è a rischio di deflazione né di default, e che non c’è la possibilità che qual-
Qui sopra, il commissario Ue agli affari economici, Joaquin Almunia. Sotto, il superministro italiano Giulio Tremonti che sperava in numeri meno neri che nazione finisca fuori dal sistema euro: «Non credo nell’ipotesi di una spaccatura. Le differenze di spread sono normali ma è vero che dal 15 settembre sono aumentati, questo richiede un’analisi e un buon coordinamento». Intanto, però, dopo il declassamento ufficiale del debito della Spagna da parte di Standard & Poor’s, le previsioni sulla crescita e sulla finanza pubblica portano anche l’Italia tra i prossimi candidati a finire sotto la lente delle agenzie di rating.
Giovedì scorso, il governatore aveva previsto tutto. Ma Tremonti aveva polemizzato: è un astrologo...
Ma allora Draghi aveva dato i numeri giusti di Carlo Lottieri o scherno usato da Giulio Tremonti nei riguardi dei dati diffusi dalla Banca d’Italia (a detta del ministro, il governatore Mario Draghi avrebbe parlato“da astrologo”) è frutto di molte cose. Ma forse esso è stato dettato soprattutto dall’antipatia che il ministro avverte nei riguardi degli economisti, accusati di ogni nefandezza e, in primo luogo, di non aver saputo prevedere la crisi. Per di più Tremonti vede in Bankitalia un’istituzione che limita i poteri del governo e in Draghi, per giunta, uno dei pochi competitori al ruolo del premier nel caso in cui dovesse aprirsi una stagione nuova. Purtroppo per Tremonti, però, sostanzialmente gli stessi dati sono stati diffusi, nelle ore scorse, dall’Unione europea, secondo la quale quest’anno il Pil italiano perderà il 2% e il deficit dovrebbe giungere al 3,8%. Ma se è stato possibile risolvere tutto con qualche ironia di fronte ai segnali lanciati dalla banca centrale, difficilmente è possibile fare lo stesso con Bruxelles.
L
Soprattutto perché è irragionevole alternare il pessimismo cosmico dei mesi
scorsi, che aveva trovato espressione nel libro La paura e la speranza, con un altrettanto ideologico ottimismo di taglio berlusconiano. Come tutto non era sbagliato prima, così tutto non è esattamente a posto adesso: e se c’è chi segnala che il 2009 sarà un anno di crisi, non c’è motivo di prenderlo a pesci a faccia. Tanto più se è il responsabile di Palazzo Koch. Bisogna per di più riconoscere che Tremonti può disporre di argomenti di un certo peso, invece che battutine o insulti: e non tanto perché egli è persuaso di avere previsto la crisi dei “subprime”o, cosa ben più importante, perché il dissesto finanziario ha origini e produce conseguenze che poco hanno a che fare con le responsabilità del nostro ministro. Oltre a ciò, Tremonti può tranquillamente usare un linguaggio un po’ diverso perché la sua gestione dei conti pubblici appare – nel quadro europeo – tra le più ragionevoli. Lo stesso Joaquin Almunia ha ammesso che «nelle misure anticrisi finora adottate dal governo italiano c’e la giusta combinazione tra gli stimoli fiscali necessari e la dovuta pruden-
za». Come a dire che il rischio di ripetere, da italiani, manovre troppe spendaccione stavolta è stato evitato.
Nel suo avversare sempre e comunque gli economisti di Palazzo e i “liberisti”dell’ultima ora, Tremonti non vuole investire in “stimoli” o altre diavolerie di poco costrutto. Nella sua antipatia per i poteri forti, inoltre, egli è determinato a non voler aiutare chi fabbrica automobili a Torino o chi controlla il sistema bancario.Tutte cose molto sagge, perché la crisi si avviterebbe su se stessa se fosse il pretesto per moltiplicare gli intrecci tra politica ed economia. Il nostro ministro passerebbe perfino alla storia se decidesse di affrontare i nodi irrisolti del caso italiano: a partire dalla necessità di operare le privatizzazioni sempre rinviate (dall’Eni all’Enel, dalle Poste alla Cassa depositi e prestiti, ecc.) e di realizzare una vera liberalizzazione. Ma già il rigore che va adottando è un buon punto di partenza. Argomenti ne ha, insomma. Lasci quindi perdere gli insulti e le parole in libertà.
economia
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in breve Vigilanza, Villari: disponibile a discutere su mie dimissioni
Contrappassi. L’agitazione organizzata dall’Anpac blocca 30 aerei. E l’azienda studia rimedi
Alitalia, vecchi scioperi e nuovo sindacato di Francesco Pacifico
ROMA. Undici voli cancellati nella giornata d’esordio. Ben trenta, ieri, nel primo sciopero ufficiale di quattr’ore organizzato dai duri e puri di Sdl. Non esserci biglietto da visita migliore la nuova Alitalia. Eppure guai a parlare di minaccia sindacale con Roberto Colaninno e Rocco Sabelli. I quali ripetono che sono «gli ultimi fuochi» di un sindacalismo incapace di comprendere il passaggio ai privati. O dichiarano che l’agitazione di ieri ha prodotto soltanto la cancellazione di quattro voli, non i trenta vantati dalla sigla ribelle. Nella fase di start up il presidente e l’amministratore delegato della compagnia sembrano avere altre priorità: innanzitutto i rapporti con il governo che non ha digerito l’abbandono di Malpensa, il necessario ridimensionamento di Linate e degli scali minori del Nord, il timore che Air France, una volta sganciati i 322 milioni di euro per il 25 per cento del vettore italiano, pretenda più potere di quello che spetterebbe a un semplice socio di minoranza. Con problemi del genere la pax sindacale è condizione basilare. Ma su questo fronte Colaninno e Sabelli sono sprovvisti di un interlocutore credibile. Avrebbero bisogno di un soggetto forte come il vecchio Anpac, la sigla dei piloti, in grado di controllare tutte le spinte all’interno e all’esterno dell’azienda. E ora, dopo averlo distrutto, sono costretti a lavorare per far rinascere qualcosa di molto simile.
Dagli accordi di luglio in poi, la Cai è stata bravissima a sparigliare il fronte sindacale. Messo nell’angolo l’Anpac, ha stretto un accordo privilegiato con i confederali della Cisl e della Uil, con l’Ugl, che assieme controllavano meno di 3mila dipendenti della vecchia Alitalia. Una mossa che ha costretto a miti consigli anche Epifani e la più bellicosa Cgil.
Non contenta ha colpito al cuore i privilegi dei piloti, togliendo all’Anpac il diritto di veto sulla scelta del capo dell’operativo o smantellando le attività di cargo che – con 5 aerei per un centinaio di piloti – altro
Con l’Anpac che non siede ai tavoli aziendali perché non ha firmato il lodo Letta come i confederali, l’Avia e l’Anpav, la leadership del leader Fabio Berti è al centro di forti attacchi. Commenta un pilota con lunghi trascorsi sindacali: «Come ha fatto a firmare la lettera d’assunzione, se il suo sindacato è ancora sull’Aventino». Così sono in molti a nutrire dubbi sul futuro del capitano più famoso d’Italia. Il mandato di Berti scadrà tra un anno, guarda caso lo stesso lasso di tempo che l’Anpac e l’Unione piloti si sono dati per fondersi in un’unica realtà. In realtà il matrimonio è più com-
Si acuisce la crisi mentre Colaninno cerca un interlocutore credibile per garantirsi la pax sociale. Si spera nella nascita di un’altra sigla o nella creazione di una leadership alternativa tra i piloti non era per la categoria che una forma “morbidissima” di scivolo verso la pensione. Dall’arrivo di Colaninno tante cose sono cambiate per i piloti: intanto il nuovo capo delle operazioni di volo, Roberto Germano, non ha mai avuto esperienze sindacali. La nuova gestione ha poi permesso il passaggio degli ex dipendenti Ati sui B777, finora feudo dei capitani di lungo raggio Alitalia. Se non bastasse il vicepresidente dell’Anpac, e vero cervello dell’organizzazione, Stefano De Carlo è finito in mobilità, mentre il leader dell’Up Massimo Notaro è stato prepensionato.
plesso di quanto si temesse. E di fatto è legato agli sviluppi delle relazioni sindacali. Proprio su questo frangente spera di inserirsi la Cai, che necessità di un interlocutore affidabile e con un forte consenso. In un primo tempo l’ipotesi privilegiata era quella di favorire la nascita di un nuovo sindacato dei piloti che racchiudesse tutti gli scontenti di Anpac e quelli che negli anni si erano avvicinati ai confederali, convinti per esempio dall’attivismo di Marco Veneziani, ex leader Uil ora in pensione. Adesso, invece, si aspettano novità dall’interno della principa-
le sigla dei piloti. A quanto pare si starebbe coagulando un fronte di scontenti della gestione Berti-De Carlo. Mancherebbe ancora una figura di coordinamento, ma in Cai c’è chi spera che le tensioni portino entro l’anno a una resa dei conti e a un nuovo corso per Anpac-Up. Con i confederali che si comportano in maniera sempre più ragionevole e con gli autonomi di Avia e Anpav reinseriti a pieno titolo nelle relazioni sindacali, finiscono per conquistare spazi i delegati di Sdl, l’ex Sulta. Gli stessi che ieri mattina hanno creato non pochi problemi a Fiumicino e che già minacciano un nuovo blocco per l’intera giornata.
Alle base delle proteste l’alto numero di esuberi, circa 8mila, i timori sui fondi per la cassa integrazione e l’applicazione dei criteri per le riassunzioni. Spiega il segretario nazionale del Sdl, Paolo Marras: «Che fossero state scelte regole per permettere a Cai di selezionare il “miglior materiale” umano a minor prezzo, lo sapevamo, ma qui si è esagerato. A madri con figli piccoli sono arrivate proposte di lavoro spalmati su più giorni della settimana». Dal vettore si fa notare che «sono state tutelate le categorie più deboli, che si è accontentato un po’ tutti». Replica Marras: «In parte è vero, tanto che sono state riassunte persone che non avevano i requisiti». Lavoratori, si maligna, spesso segnalate dai sindacati oggi più in voga alla Magliana.
«Sono disponibile a mettere all’ordine del giorno la discussione sulle mie dimissioni, da tenere quindi nell’unica sede istituzionale propria». Lo ha scritto ieri il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, RiccardoVillari, in una nota ai componenti della bicamerale. La nota è stata diffusa dopo che nel pomeriggio di ieri era circolata la notizia di una lettera di dimissioni di tutti i parlamentari della Vigilanza ai rispettivi presidenti delle due Camere. Il tutto, per permettere lo scioglimento di una commissione che, senza membri, tutti meno tre (il presidente eletto e contestato, Riccardo Villari; il radicale del Pd, Marco Beltrandi e Luciano Sardelli, Mpa) sarebbe di fatto nell’impossibilità di funzionare, dando il via così alla costituzione di un nuovo organo di garanzia con un presidente condiviso.
Caso Battisti, Fini a Lula: motivazione inaccettabile Il presidente della Camera è interventuto sulla vicenda della mancata concessione dell’estradizione di Cesare Battisti da parte del Brasile. «Camera e opinione pubblica sono perplesse e sconcertate» - ha detto Fini - «per il fatto che la decisione del ministro della Giustizia conceda al Battisti lo status di rifugiato, con motivazioni, tra cui quella di “fondati timori di persecuzioni”al rientro in Italia, francamente inaccettabili per un Paese profondamente democratico quale è l’Italia».
Englaro, il ministro Sacconi: non mi faccio intimidire «Non sono tipo da farsi intimidire». Questa la replica del ministro Sacconi che ha commentato la sua condizione di indagato per violenza privata dalla procura di Roma in seguito alla denuncia dei radicali sull’atto di indirizzo collegato al caso Englaro. Il ministro ha spiegato: «È stato un atto di governo doveroso, di indirizzo al servizio sanitario nazionale affinché avesse comportamenti omogenei sul dovere di alimentazione e idratazione delle persone disabili, in ossequio alla legislazione italiana e alle carte dell’Onu».
politica
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Appropriazioni indebite. Cruciale, per il fondatore del Ppi, era anche la democrazia interna, oggi dismessa da Pdl e Pd e rilanciata dall’Udc
Sturzo non è un santino Una proposta “popolare“: vincolare il finanziamento dei partiti al loro statuto colloquio con Francesco D’Onofrio di Errico Novi segue dalla prima «Solo le formazioni che avranno statuti democratici, certificati dalla legge, potranno usufruire dei finanziamenti: è un modo per onorare l’insegnamento di Sturzo». Proposta che rischia di far emergere le contraddizioni del Pdl anche nel caso in cui le richieste di Gianfranco Fini finissero nel vuoto. Francesco D’Onofrio – intervenuto pure lui alla commemorazione di domenica scorsa – spiega che la bat-
E secondo l’idea di Pier Ferdinando Casini il nuovo percorso potrebbe fondarsi sui “soldi dei cittadini che possono essere utilizzati solo per fare partiti davvero democratici”. Si può cominciare anche con l’obbligo di depositarlo, il proprio statuto, in modo da dargli maggiore pubblicità: tutti devono rendersi conto di come funziona l’organizzazione politica a cui pensano di dare il voto. Democratici e coerenti
«Berlusconi e Veltroni non coltivano l’idea della partecipazione, la loro è mera affabulazione», dice D’Onofrio, «è giusta perciò l’idea di Casini: concedere soldi solo a chi si dà regole democratiche» taglia sull’articolo 49 della Costituzione (in cui è sancito appunto il diritto dei cittadini di partecipare liberamente alla vita dei partiti) coincide con uno dei pilastri del popolarismo sturziano: «È un principio che è stato disatteso in parte anche dalla Democrazia cristiana: ad essere determinante in una formazione politica deve essere il rapporto tra partito e società, tra rappresentanza e identità, non quello tra partito e governo. Il partito-Stato finisce per allontanarsi dal vincolo della democrazia interna, e domenica scorsa non ho mancato di ricordare come la Dc sia caduta in questo errore. Dopo la fondazione del Partito popolare e la fase iniziata con De Gasperi, questa può essere una terza, nuova stagione nella storia della democrazia italiana moderna, in cui si afferma appunto il valore dell’apertura partecipativa.
con la lezione di Sturzo: ecco il requisito minimo. Il discorso è di identità politica, dunque ancora più ampio. Comprende gli altri due pilastri del popolarismo di Sturzo. Innanzitutto la laicità contrapposta al laicismo, che significa autonomia della politica (anche del partito dei cattolici) dalla Chiesa. Quindi la cultura delle alleanze, riaffermata da Alcide De Gasperi, da cui discende una evidente vocazione al sistema proporzionale. Sturzo spiega che nel corpo elettorale vanno create delle identità, e che queste corrispondono ai partiti. Senza le identità l’elettorato è solo un organismo informe. Ma questa necessità democratica non può che accompagnarsi con la cultura delle alleanze. Niente vocazione maggioritaria. Sturzo non esclude affatto che un partito possa diventare
Qui sopra, Francesco D’Onofrio. A destra, don Luigi Sturzo. Sotto, Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni, Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. Nell’altra pagina, Silvio Berlusconi maggioritario, ma deve sempre coltivare delle alleanze. È esattamente il contrario di quanto si è affermato nella campagna elettorale di un anno fa. Certo: sia nel centrodestra di Berlusconi che da parte di Veltroni c’è stata una forzatura in senso bipartitico. Si ammetta almeno che in questo modo non ci si pone più in continuità con il pensiero di Sturzo. Da anni ciascuno tende ad appropriarsi del fondatore del Ppi assumendone l’aspetto che più gli torna comodo: da una parte solo il liberale che critica la partitocrazia, dall’altra si rivendica il modello democratico sociale, senza farsi carico della componente clerico-conservatrice. Sturzo dunque non è un santino. E non si può chiamarlo in causa senza sottoscriverne la visione “proporzionale e plurinominale”, quindi con le preferenze, enunciata nel programma del Partito popolare. Ecco perché solo l’Udc può interpretare una nuova stagione della politica fondata sull’insegnamento di Sturzo. In questo modo si spiega e si definisce chiaramente perché noi dobbiamo restare fuori dall’assetto bipartitico. È come se dal ’94 fossimo ancora in attesa della transizione, è come se l’orizzonte di partenza restasse incompiuto, e il passaggio che manca è proprio quello sulla democrazia interna. Qualcuno potrebbe obiettare: non sono i partiti a essere diversi ma la domanda stessa dell’elettorato, che non sarebbe esso stesso disponibile a una partecipazione così accentuata.
Con la fine della Prima Repubblica si è cercato soprattutto di dare risposta a una questione, vera, che è quella della decisione. Ma si sarebbe dovuti arrivare a un punto di equilibrio tra decisione e rappresentanza. Invece ci si è fermati all’idea del leader che risolve tutto. Se un passo in avanti è necessario è anche per una questione di identità europea. In che senso? Dobbiamo raccogliere la sfida di Obama, giusto? L’Europa può farlo solo in un modo: non limitandosi a vivere il popolarismo solo a Strasburgo, come fatto istituzionale. Bisogna proporne una visione sostanziale, quella interpretata piuttosto fedelmente dal centro popolare tedesco: una economia sociale di mercato ecologicamente compatibile. È una ricchezza che solo nel Vecchio Continente siamo in grado di offrire, ed è la dimostrazione che il discorso su Sturzo non si limita all’aspetto celebrativo. Non dimentichiamo che sulla cultura popolare si è fondata la capacità dell’Europa di opporsi al fascismo e al comunismo. Bisogna
rivendicarlo con orgoglio, e oggi non si può pensare che le uniche risposte possibili alla sfida lanciata dall’America di Obama siano da una parte il liberalismo conservatore e dall’altra la democrazia sociale. Perché il centrodestra non è riuscito ad evolvere complessivamente in questa direzione? Posso dire intanto di essere tra quelli che sono rimasti delusi rispetto alle premesse del ’94, quando sembrava appunto che lo sguardo fermo al modello popolare avrebbe potuto portarci a un equilibrio tra rappresentanza e decisione. C’è stato un chiaro sbilanciamento verso la seconda esigenza. Nel modello tedesco c’è peraltro una soluzione: la sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità e lascia nello stesso tempo l’elettorato al centro della politica. Può essere questa l’architrave di una riforma costituzionale che riporti le forze in equilibrio. Intanto la sfida è nella democrazia garantita per statuto. L’Udc ha già avviato un percorso, con la Costituente di centro,
politica
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La vitalità dei partiti è decisiva per fermare la deriva leaderistica e burocratica del nostro sistema
Contro la politica dei “nominati” una nuova sfida costituente di Renzo Foa on so cosa debba fare, in questo 2009, una qualunque persona desiderosa di «entrare in politica», di iscriversi a un partito, per contribuire alla stabilità o alla crescita dell’Italia. Non credo che riuscirebbe a farlo cercando per strada o in una piazza una sezione a cui iscriversi: non ce ne sono quasi più e quelle rimaste aperte appartengono soprattutto alle formazioni maggiori e maggiormente insediate. A Roma, in pieno centro, dietro Campo de’ fiori, ce n’è una del Partito democratico che però sul muro esterno ha anche una vecchia insegna del Partito comunista e quindi si presenta più come un pezzo di antiquariato e di ambiguità che come un punto d’incontro per affrontare i problemi dell’oggi. Sempre a Roma, in pieno centro, in una traversa di corso Vittorio, uno stretto vicolo, c’è una saracinesca sempre abbassata con dipinta sopra l’insegna di Forza Italia: in questi anni l’ho vista comunque aperta nei giorni delle campagne elettorali, in un’occasione tappezzata di manifesti di un assessore regionale poi passato all’Udc, nominato sottosegretario nel governo Prodi e infine uscito di scena perché inquisito dalla magistratura. Poi, girando un po’, capita di vedere qualche sede aperta qua e là, soprattutto di Alleanza nazionale. Viene da chiedersi ovviamente se siano nuove o se risalgano all’epoca del Msi, partito che nella Prima Repubblica era – come si dice – «fortemente insediato nel territorio». In altre parole non sono più aperte – o se ci sono, sono pochissime – le vecchie porte che si dovevano aprire una volta quando si decideva di contribuire al bene del Paese facendo politica e scegliendo un partito.
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che credo debba sempre svilupparsi attorno al principio del partito nella società e non per il governo. In questo modo possiamo davvero interpretare una nuova stagione e realizzare, ripeto, anche un obiettivo che la Dc aveva perso di vista. È faticoso, senza dubbio, ma il senso credo debba essere questo. Partecipazione: l’idea di realizzarla attraverso i gazebo è dunque del tutto fuori luogo. Basta la parola: “Popolo” della libertà anziché “partito”.“Popolo” dà l’idea di un corpo informe. È un comitato elettorale e nulla più. Dall’altra parte va aggiunto solo il modello democratico rispetto a quello conservatore, ma cambia poco: in entrambi i casi non siamo alla partecipazione democratica ma all’affabulazione. Bocciato dunque anche lo schema del Pd attuale. Credo vi si possa scorgere la stessa logica del discorso di Palmiro Togliatti a Bergamo: si sceglie una parte dei cattolici non per riconoscimento delle loro istanze ma perché si tratta di quella parte dei cattolici collocata a sinistra. Quando Cossiga chiese a Kohl perché mai avesse fatto entrare nel Ppe il partito di Aznar, che era di derivazione franchista e non propriamente popolare, il cancelliere tedesco rispose: perché solo in questo modo possiamo essere in maggioranza rispetto ai socialisti. Non c’è logica in discorsi del genere, nel caso specifico perché al Parlamento europeo non c’è il maggioritario, e più in generale perché come detto non si possono considerare i partiti in funzione del governo.
formazione professionale per persone che volevano, partecipando democraticamente alla loro vita interna, contribuire al bene della comunità nazionale. I dirigenti, cioè i migliori, venivano eletti, spesso anche a scrutinio segreto e la preferenza, per una lunga stagione, è stato lo strumento per fare in modo che le rappresentanze nelle assemblee elettive fossero composte da persone conosciute e competenti.
Tutto questo è finito da tempo, certamente da prima che l’iniziativa di «mani pulite» distruggesse il sistema politico italiano e alcune delle sue maggiori forma-
delle formazioni politiche italiane appaiono – magari più di quanto non lo siano – costruite attraverso meccanismi in cui non esistono regole democratiche. Neanche le nuove regole, quelle a cui si pensa quando si parla delle «primarie» inventate e create prima dall’Ulivo, per designare Romano Prodi alla presidenza del Consiglio, e poi dal Partito democratico per scegliere il suo segretario (in questo caso va detto che Walter Veltroni in realtà era già stato scelto).
Il caso esemplare di questa anomalia italiana, quello di cui maggiormente si parla, riguarda comunque il Popolo della libertà, cioè il maggiore partito italiano, quello che ha vinto le ultime elezioni dopo essere stato improvvisamente fondato da Silvio Berlusconi una sera di novembre a Piazza San Babila a Milano di fronte ad un gazebo di Forza Italia. Il Pdl, la cui nascita formale avverrà tra breve, sorge, come sappiamo, soprattutto dall’incontro tra Fi e An e la sua costituzione è al centro di polemiche proprio per questa contaminazione: da un lato «il partito di plastica», quello i cui dirigenti sono nominati dall’alto e non eletti dal basso, dall’altro un partito con una lunga storia in cui le contese hanno pesato, anche se in molte occasioni Fini ha fatto ricorso anch’egli al metodo della nomina. Vedremo come finirà questa partita, tra chi chiede più regole democratiche e chi si affida invece al «potere del capo». Ma quel che già si può dire è che quel che succede con il Pdl sta andando in direzione nettamente contraria alla ricostruzione di un sistema democratico dei partiti, cioè nella direzione opposta a quella necessaria per ridare un po’ di ossigeno alla dialettica democratica. Ma soprattutto nella direzione opposta a quella che vedevano i padri costituenti che, dopo la sconfitta del fascismo, individuavano nella vitalità dei partiti gli anticorpi a processi di degenerazione come quelli a cui stiamo assistendo.
Non esistono più i meccanismi che garantivano la partecipazione e che erano presenti anche nelle formazioni dove più pesava l’orientamento del vertice, come il Pci e il Msi
Si trattava di porte dalle quali, dopo essere state attraversate, iniziava normalmente un lungo percorso fatto di tempo disponibile e sacrifici.Ad esempio, si discuteva nelle assemblee e si votava. Non solo nella Dc o nel Psi o nel Psdi o nel Pri, ma anche nel Pci, anche nel Msi, cioè anche nei partiti dove più forti erano i vincoli dettati dai vertici. Poi s’andava, gratuitamente, a fare le campagne elettorali, a diffondere la domenica i giornali, ad organizzare manifestazioni pubbliche e a promuovere iniziative sociali. E le «carriere» dei singoli militanti venivano quasi sempre decise dalla quantità e dalla qualità dell’impegno che veniva profuso, dalla preparazione culturale e dalle capacità di far politica che si avevano. I partiti, in altre parole, sono stati per decenni una vera e propria scuola di
zioni come la Dc e il Psi. I vecchi partiti, non solo in Italia ma in tutta l’Europa, avevano cominciato ad entrare in crisi da tempo. Ma in molti casi a questa crisi si è cercato di dare una soluzione, non ci si è limitati ad assistere all’esaurimento della vita associativa nelle sezioni o alla trasformazione degli organismi dirigenti, ad ogni livello, da sedi di confronto ad «organizzazione di carriere», con spartizioni e lottizzazioni e, soprattutto con meccanismi in base ai quali la vecchia «elezione» si è trasformata in una pura e semplice «nomina dall’alto». Non c’è stata alcuna resistenza all’era in cui viviamo, cioè l’era del leaderismo, del capo, proprietario e padrone dei voti, ma soprattutto proprietario e padrone degli eletti. Non mi riferisco qui solo al «fenomeno Berlusconi», spiegabile con il modo in cui scese in campo nel 1994 e da allora mai corretto nei suoi meccanismi. Mi riferisco al fatto che una parte consistente
Escludere dai benefici del finanziamento pubblico le formazioni politiche costruite con regole interne non democratiche – benefici che consentono ad esse di esistere e di prosperare – può essere una prima e importante risposta alla crisi a cui assistiamo da troppo tempo. Per questo, nella sua tradizione di impegno, liberal sosterrà con gli strumenti di cui dispone, con l’informazione, la riflessione, la ricerca e il dibattito questa iniziativa per rivitalizzare la democrazia italiana, cominciando appunto dallo strumento costituzionale dei partiti.
panorama
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Rumors. Colpo di scena al vertice Fini-Berlusconi: anche i “piccoli” avranno loro leader
Un vertice a tre per il prossimo Pdl di Francesco Capozza
ROMA. Sull’incontro tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini svoltosi venerdì scorso nello studio del presidente della Camera, sono già stati versati fiumi di inchiostro. Sappiamo tutto di quel venerdì 16 gennaio (c’è mancato davvero un soffio perché la Cabala fosse chiamata in causa), dal menù spigola al sale e tanta frutta fresca alle tempistiche: due ore di colloquio fittissimo su tutti i temi all’ordine del giorno, dal Congresso istitutivo del Pdl al rimpasto di governo (passando, ovviamente, per il chiarimento sulle recenti polemiche tra i due leader). Doveva essere un colloquio senza dichiarazioni e invece sappiamo anche che il presidente del Consiglio,
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
complice, forse, il vino bianco «rigorosamente italiano» servito a tavola, ha schiacciato un pisolino pomeridiano (mandando in allarme molti colleghi giornalisti che non capivano dove fosse finito).
Nonostante il riserbo che entrambi i protagonisti avrebbero
vi vice ministri uno da via della Scrofa (presumibilmente Adolfo Urso) ed uno da Gemonio (la sottosegretaria leghista Francesca Martini, che avrà una “super delega” agli Affari sociali). La notizia più importante, però, e cioè quella sul nuovo assetto del Pdl, è filtrata con il contagocce. Si sa, per
Accanto a Verdini e La Russa ci sarà anche Rotondi, mentre spunta il giallo dello statuto. Via libera, intanto, al rimpasto del governo voluto mantenere sui contenuti del colloquio, si è venuto ben presto a sapere tutto, o quasi. Si sa, per esempio, che Fini ha chiesto - e ottenuto - a Berlusconi una sorta di ufficiosa “diarchia”(la carica istituzionale ricoperta dall’ex leader di An non gli consente di assumere ruoli operativi di partito). Si sa pure che Berlusconi avrebbe portato finalmente a casa il via libera al rimpasto di governo: due nuovi ministri (Brambilla al Turismo e Fazio alla Salute, come voleva fin dall’inizio il premier) e certamente due nuo-
esempio, che sulla data del Congresso, inizialmente fissata per il 27 di marzo (anniversario della prima vittoria berlusconiana), non c’è ancora un accordo definitivo. Si sa anche che la struttura del nuovo partito verrà eletta e non nominata, così come più volte richiesto da Gianfranco Fini. E si sa che non c’è ancora una accordo definitivo sullo statuto (c’è chi dice che ne circolino due versioni, una targata Fi e una An).
Se è vero, però, che l’inquilino di Montecitorio ha preteso e
ottenuto che il Pdl diventi un partito democratico e non una monarchia assoluta come si andava delineando nei progetti del Cavaliere, sull’altro fronte il presidente del Consiglio ha rilanciato la proposta dei due coordinatori nazionali messa sul piatto da Fini. Una fonte autorevole che ci tiene a mantenere l’anonimato ha infatti confidato a liberal che Berlusconi avrebbe, con i suoi ottimi esercizi di oratoria, convinto Fini della necessità di avere tre, e non due, coordinatori. Oltre a Forza Italia e An, infatti, confluiranno nel nuovo soggetto anche una serie di “piccoli”partiti che già ora gravitano intorno al Pdl. Un rappresentante «spetta di diritto anche a loro» avrebbe detto il Cavaliere. Se le nostre informazioni sono esatte, perciò, oltre a Denis Verdini e Ignazio La Russa, il Pdl avrà un terzo coordinatore: probabilmente Gianfranco Rotondi. L’attuale ministro della Dca, si sa, è molto sensibile alla parola berlusconiana, e sarà difficile vederlo contraddire il Cavaliere. Fini avrà pure vinto, ma è la classica vittoria di Pirro.
Le contraddizioni di chi, dopo aver combattuto lo Stato, ora gli chiede un vitalizio
Una pensione da star per Renato Curcio enato Curcio si lamenta e si meraviglia perché non gli riconoscono la pensione né il diritto all’assegno sociale. Il fondatore e ideologo delle Brigate Rosse ha 67 anni, ha lavorato in carcere ma i suoi “anni lavorativi” non sono sufficienti per avere l’assegno mensile dall’Inps. Può capitare. Capita.
R
Capita a chi ha lavorato una vita intera, figurarsi se non può succedere per chi per una vita intera a pensato a come insanguinare l’Italia. La moglie lavora e quindi in famiglia almeno un reddito c’è. Può andare avanti così, almeno per ora. Tutto a posto, quindi. Tuttavia, l’ex terrorista la pensione la vorrebbe e, dopotutto, le sue dichiarazioni fanno capire che ritiene di aver diritto alla pensione, proprio come ogni altro italiano che ha lavorato onestamente per tutta la vita. Ora - diciamo la verità - ciò che di questa storia, come di altre simili, fa pensare o, meglio, dovrebbe far pensare, non è se Curcio avrà o non avrà la pensione o se ha i contributi necessari per poterla avere, quanto il fatto che il capo delle Br ritiene giusto avere un diritto previdenziale. Insomma, è giusto che abbia la pensione. Come è possibile che il teorico dell’abbattimento dello Stato borghese chieda la pensione?
I parenti delle vittime hanno fatto sapere che non se ne parla proprio. Hanno ragione. Lorenzo Conti (il padre venne assassinato dai terroristi rossi nel 1986) dice: «Pretende la pensione lui quando nemmeno alcune vittime del terrorismo l’hanno ricevuta». E questo è un caso tipicamente italiano, purtroppo: troppo spesso i brigatisti sono ascoltati, invitati a discutere nelle aule universitarie o in televisione per presentare il loro immancabile libro, mentre il rispetto che si deve ai parenti delle vittime, al loro dolore, è messo da parte e poco considerato. Cosa volete che sia il dolore di chi ha avuto il padre o il figlio uccisi dai terroristi che sparavano in nome dell’Ideologia e della Verità Storica? Gli ex terroristi sono a volte trattati come delle vere personalità: persone che hanno sbagliato, certo, ma che sono state indotte all’errore - che nella maggioranza dei casi significa assassi-
nio, ma questo è quasi un particolare irrilevante - per la loro stessa grande intelligenza. È un po’ quella strana teoria che dice che si aveva ragione ad avere torto. Insomma, una buffonata che solo in Italia può diventare un argomento: c’è in questi ragionamenti, che spesso vengono fatti in pubblico e in privato, quel classico misto di cattiva coscienza morale e cattiva coscienza teorica, non saper agire e non saper giudicare che sono i due volti dello stesso panno. Un castroneria che, a guardare bene le cose, è il frutto più malato della stessa cultura marxista che ha sempre scambiato la storiografia come un modo per pulirsi l’anima: le ricostruzioni storiche sono sempre state fatte per salvare le idee politiche. Più la storia ha smentito il comunismo e più i comunisti hanno sconfessato la storia interpretandola a modo loro: con l’Ungheria, con Praga, persino con il 1989. Il comunismo è
un’idea buona realizzata male. In questa visione manipolatrice della storia rientrano naturalmente anche i fatti cruenti del terrorismo italiano nelle sue varie espressioni. In fondo, la Brigate Rosse prima di essere ritenute effettivamente Brigate Rosse furono per molto tempo definite «le sedicenti Brigate Rosse».
Sembra, dunque, proprio ingiusto dare una pensione a chi pur dichiarando chiusa l’epoca del terrorismo non ha mai veramente maturato la manifesta convinzione che quell’epoca non si sarebbe mai dovuta aprire. Tuttavia, se Renato Curcio ricevesse la pensione da quello Stato borghese che voleva abbattere, non sarebbe questa la più esemplare evidenza della sua sconfitta non solo personale ma anche ideale? Voleva sconfiggere lo Stato - la democrazia e la libertà - e non solo ha perso, ma riceve soldi dallo Stato. Il terrorista che teorizzava la violenza come una necessità della storia si adatta ora a ricevere la necessaria pensione per tirare avanti e campare. Come è possibile che l’Ideologo delle Brigate Rosse - che non si è pentito - possa anche solo pensare di avere ogni mese la pensione statale? L’idea che un ex terrorista non pentito abbia maturato il diritto alla pensione rende visibile l’invisibile: la malafede.
panorama
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Identità. Il Carroccio è al fianco della Chiesa per battaglie per lo più locali. Ma su questioni più importanti tende a polemizzare
La Lega? Non sarà mai un partito (del tutto) cattolico di Luigi Accattoli segue dalla prima Da almeno un decennio la Lega aspira a porsi come paladina delle rivendicazioni valoriali della comunità cattolica, ma la sua natura localistica la espone a ritornanti conati di rigetto dei contenuti ecumenici e solidaristici della predicazione cristiana. Tre date aiutano a riassumere la questione: il 1992, quando a Milano la Lega raccoglie firme contro il cardinale Martini, la fiammata polemica della settimana scorsa contro il cardinale Tettamanzi e l’incontro di Bossi in Vaticano con il cardinale Angelo Sodano il 19 maggio 1999. In mezzo, sia prima sia dopo lo spartiacque istituzionale del 1999, possiamo mettere tutti i favori amministrativi e i sostegni legislativi alle posizioni cattoliche venuti dalla Lega, così come ogni uscita polemica contro i “vescovoni”, il Papa “polacco” che“vorrebbe comandare”in Italia, il “cedimento”all’Islam.
Ciò che risalta è la clamorosa continuità di umori e di politica tra la Lega nascente – dove Bossi deve intervenire per chiarire
zi». Ma attenzione: Bossi ammise allora che il cardinale Martini – che una Pivetti rampante, in piena tangentopoli, aveva qualificato come «il Craxi della Chiesa» – «avrebbe dovuto essere più chiaro» sulla corruzione dei partiti e la settimana scorsa ha concesso ai leghisti di Varese che il cardinale Tettamanzi, da loro bollato come «vescovo di Kabul», si era «esposto un po’ troppo» sull’Islam. Dunque l’avvertenza politica a non superare un certo limite nell’attacco ai vertici ecclesiastici c’è sempre stata, ma con essa è anche sempre convissuta l’idea che quei vertici sbagliano e vanno con-
Con il Vaticano solo quando si deve votare a difesa della famiglia tradizionale; mai quando la Chiesa invita all’accoglienza del forestiero che la raccolta di firme «per l’allontanamento del cardinale Martini da Milano» non è autorizzata dal vertice del partito – e la Lega più che matura di oggi, quando è sempre Bossi a dover affermare che «non bisogna contestare il cardinale Tettaman-
trastati. I temi del conflitto possono variare: da tangentopoli alle carceri, dallo sciopero fiscale alla costruzione delle moschee. Ma non varia l’atteggiamento, che vede proporsi in rapida successione la proposta massimalista e il suo ridimensionamento
politico. Una volta sarà l’idea di sparare sugli scafisti e un’altra volta quella di spargere liquame suino sui terreni individuati come aree per future moschee, o di sottoporre la loro costruzione a referendum popolare. Un ecclesiastico dirà il suo dissenso e partirà la contestazione verbale più violenta, che dopo due giorni sarà contemperata politicamente ma non ritirata. Né queste precipitazioni polemiche impediscono che sul piano locale e su quello parlamentare gli esponenti della Lega si facciano carico con sostanziale continuità degli interessi e delle posizioni della Chiesa tutte le volte che non confliggono con gli interessi leghisti. Una continuità di sostegno e di polemica che non è stata intaccata dal gesto istituzionale del 1999, quando Bossi fece visita al cardinale Sodano segretario di Stato di Giovanni Paolo II. Gli osservatori simpatizzanti ne dedussero che la Lega si ritagliava un ruolo di partito cattolico e sarebbe cessata la sua fronda antiecclesiastica. La Lega non ha bisogno di qualificarsi come partito cattolico, né forse potrebbe farlo. In quanto
Tributi storici. Il Parlamento vota per ratificare il trattato con la Libia che costa 5 miliardi di euro
C’è la crisi, arriva la Gheddafi tax di Gian Luca Galletti hiamiamola “Gheddafi tax”: forse non è un bel nome, ma rende l’idea. E non è una bella idea, sinceramente. Il fatto è questo: in questi giorni, il Parlamento Italiano è chiamato a un atto che ha una grande rilevanza storica, la ratifica di un trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica Italiana e la Libia. Al trattato è affidato il compito di chiudere i contenziosi derivanti dal retaggio del passato coloniale.
C
I fatti sono noti: tutto co-
danni dei libici. Sono temi storici importanti e controversi, che hanno portato a una contesa decennale fra l’Italia e la Libia, oggi finalmente arrivati a una soluzione. Una soluzione che comporta un impegno economico per il nostro paese di 5 miliardi di euro da pagarsi in 28 anni. Nel trattato che il Parlamento deve ratificare, del resto, si fa riferimento esplicito al rammarico dell’Italia per le sofferenze arrecate al popolo libico a
settore della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi”(d’altra parte, proprio l’uso del petrolio libico ai tempi del fascismo è al cuore della vicenda). La nuova tassa, dunque, sarà pagata quasi interamente dall’Eni. Ma essendo l’Eni una società che opera in un regime di quasi monopolio, l’imposta sarà scaricata immediatamente sulle bollette del gas, con l’effetto che la Gheddafy tax sarà a carico delle famiglie e delle imprese italiane. Siamo proprio sicuri che, in un momento di difficoltà economica come quello che stiamo vivendo. la priorità dell’Italia sia quella di chiudere un contenzioso con la Libia che comporterà un aggravio di costi per le famiglie italiane? Noi pensiamo di no. Come crediamo che non si possa chiudere il contenzioso con la Libia prima di avere dato una risposta a quegli italiani che hanno perso i loro beni in Libia e che ora rischiano di non avere più nessun tipo di indennizzo.
La somma sarà pagata dall’Eni che la scaricherà sulle bollette. Nessun indennizzo, invece, è previsto per i beni confiscati agli italiani
minciò nel 1912, quando l’allora Regno d’Italia dichiarò guerra ai turchi impegnandosi in lunghi combattimenti, appunto, in Libia. Poi venne il fascismo, venne l’Impero e la presenza degli italiani in Libia si consolidò: molti italiani si traferirono dall’altra parte del Mediterreo contribuendo non poco al rilancio economico e strutturale di quella regione. Poi venne la fine della guerra e con essa, nel tempo, il ritorno in Patria della gran parte di quegli italiani i quali, a detta di Muammar Gheddafi, avevano arrecato danni materiali e d’identità a quel popolo. Senza contare lo sfruttamento di materie prime che le autorità dell’Impero d’Italia fecero, appunto, ai
seguito delle colonizzazioni italiane. Viceversa, nessun riferimento si fa invece ad impegni tesi a prevedere indennizzi ai cittadini Italiani che, costretti ad abbandonare in fretta e furia la Libia, subirono la confisca dei loro beni: un’altra contesa che si trascina insoluto da quasi quaranta anni.
E veniamo al merito della “Gheddafi tax”. Per trovare le risorse necessarie a risarcire la Libia, il governo propone di istituire una nuova tassa (addizionale Ires) a carico delle “società operanti nel
forza politica legata a un territorio, le basta rivendicare la tradizione locale per trovarsi fattualmente a fianco della Chiesa. E questo è ciò che più conta, sia per la Lega sia per la Chiesa. Ma se è facile per la Lega porsi – in nome della tradizione – come alleata della Chiesa sul territorio e in certe battaglie etiche nazionali, tutt’altra questione è quando la predicazione cattolica affronta le materie nuove del dialogo ecumenico e interreligioso, della solidarietà con i popoli poveri, dell’accoglienza per gli immigrati e i rifugiati. Qui più che mai “cattolico”vuol dire – secondo la radice greca – “universale” ed è inevitabile che l’universale cozzi con il particolare.
Potremmo concludere che la Lega è naturaliter un partito cattolico quando il sindaco sfila dietro al parroco per il paese, o quando i parlamentari leghisti votano a difesa della famiglia tradizionale; ma le è altrettanto naturale reagire polemicamente quando la Chiesa invita all’accoglienza del forestiero e – poniamo – al rispetto del suo diritto di pregare in un luogo “dignitoso”.
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OBAMA 2009 Inauguration day. Oggi Barack Hussein diventa il 44esimo presidente degli Usa A mezzogiorno (le 18 in Italia) il giuramento. Subito dopo l’atteso discorso
Il giorno di Obama E in un’intervista affronta il problema razziale, con una certezza: bianchi e neri non sono più contrapposti di Pierre Chiartano n’intera generazione crescerà con un presidente afroamericano. Ciò cambierà il modo in cui i ragazzi di colore guarderanno a se stessi e il modo in cui i ragazzi bianchi guarderanno a quelli di colore». È uno dei primi concetti espressi nella lunga intervista rilasciata al Washington Post il 15 gennaio, dal presidente, allora solo eletto, Barack Obama, ora in carica. È una sorta di anticipazione di uno dei temi del discorso d’insediamento alla Casa Bianca, che si terrà questa notte a Washington. Il servizio civile, ha aggiunto Obama, sarà l’arma della politica interna ed estera della nuova presidenza, del primo afro-americano che prenderà il posto, al comando della nazione, che fu di George Washington, il primo presidente americano, col record del discorso d’insediamento più breve della storia. Un approccio vagamente kennediano, che risponde alla crisi del capitale di carta, rilanciando con quello umano.
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«Avrà un’influenza anche sul mio discorso inaugurale» afferma Obama, parlando del modello organizzativo, nato nella campagna elettorale, per non dire cosa significherà nei quattro anni di governo. Il web come rete per il coordinamento e l’indirizzo della società civile, potrebbe essere la rivoluzione della “nuova politica”inaugurata dall’ex senatore dell’Illinois. È l’effetto Obama su molti programmi di volontariato civile negli Usa, che hanno avuto un vero boom d’adesioni nelle ultime settimane. «Serve your country» non solo con la divisa, perché quando c’è da costruire una scuola, un impianto d’irrigazione o un ospedale – continua Obama – siamo costretti a rivolgerci ai militari, perché mancano le risorse civili. Sia nelle missioni all’estero che in Patria. Grande apprezzamento è stato espresso nei confronti delle capacità del nuovo segretario di Stato, Hillary Clinton, definita «intelligente, tosta e capace». Un tema accuratamente tenuto sullo sfondo durante la campagna elettorale è stato quello razziale. Ora che Obama sta per en-
Washington blindata per la cerimonia. La città registra il tutto esaurito
Uno show di lustrini lo porta alla Casa Bianca di Andrea Mancia ashington è improvvisamente tornata di moda, con la doppia combinazione di una nuova folla di giovani idealisti, che credono davvero di poter cambiare il mondo, e l’arrivo del primo presidente nero americano. Perfino sventolare la bandiera a stelle e strisce è tornato a essere cool. Parola del New York Times, che nell’edizione di ieri non ha fatto niente per nascondere la propria eccitazione alla vigilia dell’Inauguration Day, addirittura arrivando a fare quello che – negli otto anni dell’amministrazione Bush – ha sempre contestato ai “cattivi” repubblicani: associare il “patriottismo” a una (e una sola) parte politica. Un’eccitazione, quella delle élite e delle folle obamiste, che ha trovato un primo sfogo simbolico in We Are the One, una sorta di Woodstock washingtoniana che ha visto 400mila persone (moltissime, per gli standard statunitensi) accalcarsi per assistere al megaevento musicale che ha portato star del calibro di Bono, Bruce Springsteen e Tom Hanks sul palco allestito tra il Lincoln Memorial e l’obelisco eretto in memoria di George Washington. Il presidente eletto, protetto dai cristalli antiproiettile, ha assistito all’happening in prima fila insieme alla famiglia e al vicepresidente Joe Biden con la moglie Jill.
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Alla fine ha preso la parola davanti al laghetto gelato per lanciare un messaggio di speranza (come dubitarne?), di fronte alle difficoltà dall’economia e le insidie della politica estera. «Possiamo ottenere qualunque cosa - ha assicurato Obama - non c’è ostacolo che si possa frapporre sul cammino di milioni di voci che chiedono un cambiamento». Più che per ascoltare ricette sulla crisi finanziaria e sulle tensioni con Mosca e Teheran, però, la folla aspettava con ansia i big dello star system, come Denzel Washington, Ashley Judd e Tiger Woods (che hanno letto frasi di ex presidenti, dai democratici Franklin Delano Roosevelt ai repubblicani John Fitzgerald Kennedy, da Ronald Reagan a Dwight Eisenhower), Jamie Foxx
(che ha ripreso brani del discorso pronunciato da Obama a Chicago dopo la vittoria del 4 novembre) e Tom Hanks (che ha riesumato Abraham Lincoln e il suo «non vorrei essere uno schiavo, ma non vorrei neanche essere un padrone»). E poi musica, tantissima musica. Springsteen ha cantato ”The Rising”, canzonesimbolo del post-11 settembre. Dopo le note di Pride (in the name of love), canzone a suo tempo dedicata a Martin Luther King, Bono ha auspicato che questo “sogno americano” (o obamiano?) possa contagiare il mondo, diventando un “African dream”, un “Israeli dream”, un “Palestinian dream”. Nessun accenno a Cina, Iran, Cuba o Corea del Nord. Poi Bon Jovi, John Taylor, Stevie Wonder e Sheryl Crow con il suo classico One Love. E ancora il duetto tra Springsteen e Pete Seeger in This land is my land. Poi Beyonce e Jon Bon Jovi, di contorno. Grande spettacolo, insomma, almeno sotto il punto di vista strettamente musicale, che infatti la tv via cavo Hbo ha trasmesso in diretta dopo essersi assicurata l’esclusiva per due milioni e mezzo di dollari. Più rilevante, invece, da un punto di vista squisitamente politico, il tributo di Martin Luther King III a suo padre, il leader del movimento per i diritti civili assassinato 41 anni fa e di cui ricorre l’anniversario proprio alla vigilia dell’insediamento del primo presidente afroamericano. Stesso luogo e stessa cornice di folla del celebre I have a dream del 1963.
Oggi si replica, con l’aggiunta di una passeggiata – accanto al tanto deprecato George W. Bush – dalla Casa Bianca a Capitol Hill, del giuramento sulla Bibbia di Abramo Lincoln di fronte al presidente della Corte Suprema. Fino al primo, attesissimo, discorso ufficiale. Senza dimenticare, naturalmente, gli intermezzi musicali nel segno di Aretha Franklin e Gabriela Montero. Prima dello scontatissimo bagno di folla finale con cui si aprirà questa “nuova era” degli Stati Uniti d’America e del mondo. The show must go on.
Un’immagine del nuovo presidente degli Memorial a Washington. Circa 400mila p trare nella Stanza Ovale, è venuto il momento di affrontare il problema. La sua origine viene interpretata come un elemento «unificante», in un momento in cui i sondaggi leggono un ritorno dell’onda razzista nel Paese che fu di Martin Luther King. Molti vedono Obama come il vero specchio dell’America. La nonna bianca che si spaventava
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Tutte le perplessità della lobby dei White Anglo-Saxon Protestant
Il suo problema? Hillary la “Wasp” di Andrea Margelletti l primo vero problema razziale che Obama dovrà superare è sicuramente quello della diffidenza dei cosiddetti “Wasp”della East Coast. I White Anglo-saxon Protestant democratici hanno da subito visto con grande perplessità la candidatura di un black man alla guida della nazione più potente del mondo. Non è certamente un mistero che le principali famiglie, con casa a Hyannis Port e Martha’s Vineyard, preferissero la Clinton in quanto espressione dello stesso mondo, che curiosamente in Europa continuiamo a chiamare “liberal” o “democratici”, ma che vista la loro attenzione al mantenimento dello status quo sarebbe meglio identificare come l’espressione delle più selezionate public school del Regno Unito. È palese, infatti, quanto il neo-presidente stia già pagando in termini di potere alla lobby di Little Rock. Ne è prova la stessa designazione di Hillary Clinton a Segretario di Stato. Non si ricorda a memoria un Segretario di Stato diretto concorrente del Presidente eletto e con posizioni così autonome rispetto all’inquilino del 1600 Pennsilvanya Avenue. Immaginare che Obama, che possiede indiscutibilmente una vision, possa dividere il potere con l’ex senatrice dello Stato di NewYork, che pare abbia una propria agenda in termini di foreign policy, è non solo folle, ma addirittura pericoloso. Il responsabile di Foggy Bottom è più di chiunque altro “l’uomo del Presidente”, in quanto ne rappresenta non solo le istanze, in termini di relazioni internazionali, ma ancor di più deve tradurre in azione la strategia del Presidente. Interpretandone i pensieri anche in ambiti, come nel caso di alcuni findings riservati che il Presidente degli Stati Uniti non può permettersi di esplicitare in pubblico. Per questo, la scelta della Clinton potrebbe rivelarsi
I
uno dei punti di maggiore criticità durante la prima fase della nuova Amministrazione Obama. Molto probabilmente, il nuovo Presidente ha dovuto fare i conti con “pesanti esponenti” dell’Asinello, che potrebbero aver chiesto un riequilibrio a favore dei Clinton, dopo che questi ultimi erano stati sconfitti alle primarie. La scelta di un politico come Leon Panetta, ex-Capo di Gabinetto di Bill Clinton, a Direttore della Cia, decisamente inusuale e irrituale, e quella di altri esponenti delle precedenti amministrazioni democratiche al Pentagono e in altri settori chiave, ha da una parte rafforzato il clan di Hillary, ma contestualmente ha creato non poche perplessità negli stessi elettori. L’elezione di Obama è stata forte e di rottura con il passato. Ed è per questo che vedere come già alcune sue posizioni si siano diluite, ha creato stupore in quelle specifiche fasce dell’elettorato che temono l’ala conservatrice dei Democratici. Gli Stati Uniti, e non solo loro – dopo gli anni dell’Amministrazione Bush, caratterizzati da luci e ombre, e per essere sinceri più ombre che luci – sperano che da Washington riprenda quel cammino guida per l’intero mondo occidentale, venuto a mancare negli ultimi anni, non per eccesso di multipolarità, ma piuttosto per una carenza di leadership alla Casa Bianca. Riteniamo quindi che le più importanti sfide che Barack Obama dovrà affrontare nei prossimi mesi siano essenzialmente di ordine interno. Un nuovo modo di affrontare la politica, ma soprattutto passare da una visione coinvolgente del mondo che si vorrebbe ad azioni concrete. Barack Obama Hussein ha coniato lo slogan Yes, we can, ci auguriamo tutti che al termine del suo mandato lo stesso non si sia trasformato in Yes, we could.
Non è un mistero che le principali famiglie, con casa a Hyannis Port e Martha’s Vineyard, preferissero la Clinton in quanto espressione dello stesso mondo
Stati Uniti, il democratico Barack Hussein Obama, mentre parla dal Lincoln persone si sono riunite per il grande show che ha preceduto il giuramento quando dei neri si avvicinavano al loro giardino – come racconta lo stesso neopresidente – «siamo noi. È l’America». Dunque un Paese pieno di contraddizioni, di virtù e di vergogne, ma con la voglia di cambiare e la forza per poterlo fare. Una caratteristica che ha fatto definire Obama, da alcuni commentatori, non come il primo presidente afro-ameri-
cano, ma come il primo appartenente a «due gruppi etnici». Il bianco e il nero. «Sono figlio di un uomo di colore del Kenya e di una donna bianca del Kansas», aveva affermato, nel marzo scorso a Filadelfia. A dimostrazione che il problema della declinazione dell’identità, sia sempre più una questione da risolvere su di un piano diverso da quello da cui
si è risposto fino ad oggi, tante sono le complessità messe in campo e le declinazioni d’identità possibili.Tanto è anche difficile dare una risposta complessiva, dopo la crisi del modello multiculturale. Ma alla domanda diretta su quale messaggio volesse lanciare agli afroamericani d’America, non ha voluto anticipare nulla. «Non cercate di scuotere il regalo per capire cosa ci sia dentro: dovrete aspettare Natale per scartarlo», la battuta di Obama per dribblare le richieste dei redattori del Post sull’argomento. Ha però sottolineato che «un’intera generazione di americani
crescerà dando per scontato che la più alta carica dello Stato sia ricoperta da un afromaericano». Un cambiamento radicale, i cui effetti non vanno sottovalutati. «Cambierà il modo in cui i bambini neri guardano a se stessi ha affermato Obama - e il modo in cui quelli bianchi guarderanno ai bambini neri». Nell’intervista di 70 minuti ha affrontato tutti gli argomenti sul tappeto, dalla crisi economica, con le preoccupazioni per il raddoppio del deficit federale, al nuovo welfare di cui avrebbe bisogno il Paese, all’indipendenza e l’efficenza energetica, ai problemi ambien-
tali. Ha evitato di rispondere su Gaza «abbiamo un solo presidente alla volta», ma ha ribadito la sua posizione sulla prigione speciale ospitata nell’estremo lembo occidentale di Cuba.
«Voglio chiudere Guantanamo» e velocizzare il percorso giudiziario per i prigionieri, nel pieno rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali. E non è mancato il sipario familiare, la passeggiata serale al monumento di Lincoln a Washington e la serata intima – il 17 gennaio – con Michelle, per festeggiare il suo compleanno.
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OBAMA 2009 L’analisi. Dal “Potere nero” alla rivoluzione dell’hip hop, tutte le trasformazioni sociali di un Paese che cambia il colore della pelle
La fine dell’America bianca? Obama alla Casa Bianca non segna la fine di un’era, ma l’inizio di una nuova di Hua Hsu vete letto L’ascesa degli imperi colorati di Goddard?». No. «Bè, è un libro che tutti dovrebbero leggere. L’idea è che se non ci mettiamo a pensare cosa diventerà la razza bianca, saremo presto sommersi. È una teoria scientifica, provata». A dirlo è Tom Buchanan, uno dei personaggi del Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald: un romanzo che tutti coloro che hanno studiato in America sono stati costretti a leggere almeno una volta. Anche se Gatsby non è un libro sull’ansia razziale, Buchanan non è il solo nel sentirsi assediato. Il libro di «questo Goddard» ha un vero omologo nel mondo reale: The Rising Tide of Color Against White World Supremacy, scritto da Lothrop Stoddard e pubblicato nel 1920, cinque anni prima di Gatsby. Nove decadi più tardi, la polemica di Stoddard rimane stranamente attuale. Lui parla della prima Guerra Mondiale come della “Guerra civile dei
«A
ralizzato cittadino americano provando di essere caucasico. La Corte considera nuovi studi antropologici che ampliavano la definizione di caucasico sino ad includere gli indiani, e i giudici arrivano a concordare sul fatto che tracce di “sangue ariano” scorrono nelle vene di Thind. Ma tutto questo serve a poco. La Corte stabilisce che Thind non è bianco «in accordo con il sentire dell’uomo comune» e che quindi deve essere escluso dalla categoria in cui sono inclusi coloro che godono del “fattore razza bianca”. Messa in altro modo: Thind era bianco, in quanto caucasico e persino ariano. Ma non era bianco nel modo in cui lo erano Stoddard e Buchanan.
Il dibattito sulla definizione di “fattore razza bianca” degli anni ’20 si svolge in una società attanagliata da un’acuta paranoia razziale; ed è facile prendere questo episodio come prova di quanta strada abbiamo fatto. Considerate però che
Secondo l’Ufficio censimenti, le minoranze razziali saranno la maggioranza della popolazione entro il 2042. Fra gli americani con meno di 18 anni, questa previsione si concretizzerà entro il 2023 bianchi”, lamenta il “ciclo di rovine” che potrebbero avvenire se “il mondo bianco”continua il suo corpo a corpo e illustra con una serie di mappe la distribuzione del “colore” nel mondo avvertendo: «La migrazione di razze diverse è un pericolo universale, che minaccia ogni parte del mondo bianco». Dall’isteria provocata dall’immigrazione degli europei orientali alla crisi culturale della Rinascita di Harlem, è facile capire come questa immaginaria parentela bianca sparsa per tutto il mondo si sentisse in pericolo negli anni ’20. E non c’è miglior esempio dell’insicurezza di quell’era del verdetto della Corte Suprema del 1923, nel caso Stati Uniti contro Bhagat Singh Thind. Nel caso in questione, un indiano-americano veterano della prima Guerra Mondiale cerca di essere natu-
queste ansie si sono affacciate quando il “fattore razza bianca” era sinonimo di mainstream, quando le minacce al suo stato erano per la maggior parte immaginarie. Se descrivete l’era attuale come l’alba di un’epoca post-razziale, o semplicemente come la fine dell’America bianca, noi stiamo raggiungendo un profondo punto di svolta demografico. Secondo un rapporto dell’Ufficio censimenti, datato agosto 2008, quei gruppi normalmente considerati minoranze razziali – neri e ispanici, asiatici dell’est e del sud – saranno la maggioranza della popolazione americana entro il 2042. Fra gli americani con meno di 18 anni, questa previsione si concretizzerà entro il 2023: questo significa che ogni bambino nato negli Usa apparterrà alla prima generazione post-bianca.
Ovviamente, il rapido aumento del tasso di matrimoni interrazziali complica questa fotografia, puntando verso quella che Michael Lind ha descritto come la «tendenza al beige» della società americana. Ed è possibile che “gli americani beige” si auto-identificheranno come “bianchi” in un numero sufficiente per spingere il punto di svolta più in là nel futuro di quanto prevede l’Ufficio censimenti. Ma anche se lo faranno, il “fattore razza bianca” sarà un’etichetta adottata per convenienza piuttosto che per aspirazione o necessità. Per una generazione precedente di minoranze e immigrati, essere riconosciuti come “bianchi americani”- piuttosto che come italiani, polacchi o ungheresi significava entrare nel mainstream del Paese. Chi era riconosciuto come qualcos’altro, e lo dimostra il caso di Thind, ne veniva escluso per sempre.
Oggi questa fotografia è ancora più complessa. Per fare l’esempio più ovvio, il “fattore razza bianca” non è più una pre-condizione necessaria per arrivare ai vertici degli uffici pubblici. Obama lo dimostra. Se parliamo da un punto di vista puramente demografico, l’America bianca in cui Lothrop Stoddard credeva così fermamente potrà finire nel 2040, 2050 o 2060. Ma se parliamo di cultura, è già finita. Per qualcuno, la sparizione di questo nucleo è la promessa di un futuro migliore. Nel 1998, l’allora presidente Clinton disse: «In poco meno di 50 anni, non ci saranno razze prioritarie in tutto il Paese. Nessun’altra nazione nella storia ha subito un cambio demografico di questa portata in un tempo così breve. Questi immigrati hanno danno energia alla nostra cultura e aumentato la nostra visione del mondo. Rinnovano i nostri valori principali e ci ricordano cosa vuol dire veramente essere americani». Non tutti sono stati così entusiasti. Il discorso di Clinton ha catturato l’attenzione di un altro ansioso Buchanan: Pat, l’intellettuale conservatore. Par-
lando del discorso dell’ex presidente nel suo libro del 2001, La morte dell’Occidente, Buchanan scrive: «Clinton ci ha assicurato che che il Paese sarà migliore, quando saremo tutti una minoranza arrivando a realizzare la vera diversità. Bene, gli studenti a cui lui ha parlato in quell’occasione avranno modo di scoprirlo: passeranno i loro anni migliore nell’America del terzo mondo». Oggi, l’arrivo di quella che Buchanan ha ironicamente chiamato “l’America del terzo mondo” è inevitabile.
A cosa somiglierà questa nuova America, e quali idee o valori porterà avanti? Cosa significherà essere bianchi, ora che il “fattore razza bianca” non sarà più il tratto caratteristico del Paese? Cosideriamo Sean Combs, re dell’hip hop e
uno degli afroamericani più famosi del mondo. Cresciuto durante il boom dell’hip hop, alla fine degli anni ’70, appartiene alla prima generazione nera che sarebbe divenuta realmente presente nell’industria: nel suo caso, in quella musicale. Alla fine degli anni ’90, Combs ha compiuto un gesto eloquente nei confronti dell’alta società di New York. Ha annunciato il suo ingresso nel circolo dei ricchi e famosi non distruggendo i loro party, ma invitando loro ad unirsi al suo. Le sue “feste bianche” (in cui gli invitati devono vestire di bianco) sono diventate leggendarie per la loro opulenza e per la loro qualità. Al punto che le elites degli Hamptons sono arrivate a omaggiare uno che si potrebbe tranquillamente definire “arricchito”. «Se ho letto il Grande Gatsby? – ha detto
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Smith nel cinema, l’hip hop ha contribuito a ridefinire il corso culturale americano, che non aspira più a divenire un’icona singola di stile o classe. Ma la cultura pop, oggi, sembra muovere verso un’inclusione multiculturale che sembra voler valorizzare ogni identità, tranne quella bianca. Rochelle Newman-Carrasco, della Enlace, spiega: «Sta diventando sempre più dura per gli attori biondi con gli occhi azzurri. I casting parlano chiaro: si cercano persone che potrebbero passare per ispaniche, oppure etnicamente ambigue». Se dovessero avere ragione loro, se l’America bianca stesse perdendo il controllo a favore di una popolazione post-razzi-
infantile e maggior facilità nell’ottenere prestiti bancari, ad esempio – tendono a minare una qualunque simpatia nei confronti di questo senso di emarginazione. Dice Wray: «Stiamo attraversando un periodo in cui i bianchi si chiedono veramente: chi siamo?».
Il distacco dal “fattore razza bianca” dei bianchi urbani, di buona istruzione e liberal non è l’unico tentativo di rispondere a questa domanda. Si può, infatti, anche voler entrare nel “fattore razza bianca”. E lo dimostrano i mormoni – per i quali gli anni ’50 non sono mai finiti – o gli anacronistici Wasp. Ma queste enclavi saranno meno importanti nella futura cultura ameri-
Possiamo discutere su come definirci attraverso lo stile di vita, ma le nostre decisioni sono ancora codificate dalla razza. Sappiamo che la razza è una finzione che spesso fa più male che bene
Sopra, Robert Redford in una foto di scena tratta dal film “Il Grande Gatsby“. La pellicola, girata da Jack Clayton, conta nel cast Robert Redford, Sam Waterston, Karen Black e Mia Farrow Combs durante un’intervista – Io sono il Grande Gatsby». Anche se la visione di Combs è lontana dall’essere rappresentativa, la sua industria è nel cuore di questo nuovo corso. Negli ultimi 30 anni, pochi cambiamenti nella cultura americana sono stati così significativi come la crescita dell’hip hop. Il genere musicale ha radicalmente scosso il modo in cui ascoltiamo e consumiamo la musica. Ma l’hip hop è anche una filosofia, un manifesto politico, un modo con cui approcciare e modificare la cultura. È una lingua franca, non soltanto
fra i ragazzi americani, ma fra quelli di tutto il mondo. Ma il suo impatto più profondo è simbolico. Durante la crescita della musica popolare del XX secolo, artisti e produttori bianchi hanno gestito le innovazioni degli afro-americani. Per l’hip hop è stato diverso: a parte Eminem, non c’è stato alcun Elvis a salvare per i bianchi un genere musicale nero. Oggi, la colonizzazione dell’immaginazione globale da parte dell’hip hop ha un carattere disneyano. E questa trasformazione ha condotto a una confidenza culturale nei confronti dei suoi creatori neri che non ha precedenti. Il “fattore razza bianca” non è più una minaccia o un ideale, e il multiculturalismo ha rimpiazzato la mentalità «noi contro il mondo» dell’hip hop degli anni ’90. Come hanno fatto Tiger Woods nel golf e Will
sta e multi-culturale, non dovrebbe sorprendere che molti americani bianchi siano ansiosi di perdere il loro “fattore razza bianca”. Matt Wray, sociologo alla Temple University, ha osservato che molti dei suoi studenti sono colpiti da una crisi di identità razziale: «Non si curano di fattori socio-economici; si preoccupano di cultura. Ed essere bianco vuol dire essere culturalmente incompleto. La risposta classica che forniscono i ragazzi quando gli si chiede chi siano è: non ho cultura. Si sentono svantaggiati, emarginati. Non hanno una cultura che sia bella o d’opposizione». Secondo Wray, questo sentimento non consente ai ragazzi di capire il loro status di privilegiati. Ovviamente, i chiari vantaggi materiali che derivano dall’essere nati bianchi – minor tasso di mortalità
cana di una qualunque minoranza. Gli anni ’90 saranno anche stati una decade durante la quale il multi-culturalismo è avanzato in maniera drammatica, ma è stata anche un’era in cui diverse forme di identità politiche si sono cristallizzate. E questo ha creato un senso crescente di solidarietà culturale fra i bianchi delle classi povere e media, una solidarietà spacciata per “autenticità” americana. Un’idea che cozza con la cultura global e quella urbana, per far vincere la nostalgia nei confronti del “modo in cui le cose venivano fatte”. Come altre forme di identità politica, la solidarietà bianca si completa con i suoi eroi del folk, le sue teorie cospiratrici e una lunga lista di ingiustizie. I bersagli e le scuse variano – dal multi-culturalismo alla perdita dei valori morali – e così fanno
i programmi politici che a loro si ispirano. Ma la questione centrale ha sempre a che fare con la dislocazione culturale e socio-economica. Wray è uno dei fondatori di quelli che sono stati definiti “studi sulla spazzatura bianca”, un campo concepito come una risposta all’emarginazione percepita dalla elite liberale composta dai bianchi lavoratori. Secondo l’accademico, la flessione economica degli anni ’70 è stata la pre-condizione per la formazione di una sensibilità “d’opposizione”da parte di questa classe. Ma queste ansie sono iniziate dopo le scosse dei movimenti di identità di base, negli anni ’60: «Io credo che lo spazio politico sia stato aperto dal movimento per i diritti civili degli anni ’50, e poi sia mutato nel decennio successivo. Seguendo il “potere nero”, le altre minoranze hanno lanciato la loro sfida creando il “potere marrone”, il “potere giallo” e quello “rosso”. Ovviamente, il problema nasce dal fatto che “potere bianco” non suona bene».
Il risultato di tutto questo è stato un orgoglio razziale che preferisce definirsi con attacchi culturali. È presumibile che queste politiche identitarie dei bianchi siano servite per vincere le elezioni del 2000 e del 2004, ma nella campagna McCain-Palin la strategia è fallita. Come aveva predetto DuBois, il problema del XX secolo è stato razziale. Succederà anche nel XXI con un presidente nero alla Casa Bianca? La sentenza del caso Stati Uniti contro Bhagat Singh Thind non ha più peso, ma la sua eco è inevitabile: aspiriamo a essere post-razzisti, ma viviamo ancora dentro le strutture di privilegio, ingiustizia e categorizzazione razziale che abbiamo ereditato da un ordine più antico. Possiamo discutere su come definirci attraverso lo stile di vita e non attraverso il colore della pelle, ma le nostre decisioni sono ancora codificate dalla razza. E forse questo è soltanto un modo già datato di guardare alle cose. Come diceva Carter, «abbiamo molti giovani adulti in procinto di entrare in un mondo diverso». E per gli americani nati negli anni ’80 o ’90, la cultura è un qualcosa da ricostruire a propria immagine. Questo momento non segna la fine dell’America bianca: non è la fine di nulla. È soltanto un ponte da attraversare. © The Atlantic
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Gaza. Israele conquista la gratitudine di Obama, dà un ruolo preciso alla Ue e lascia il merito del successo al rais egiziano Mubarak
Tregua in tre mosse Per tattica e strategia Gerusalemme vince Ma anche se sconfitta, la Striscia è senza pace di Mario Arpino ome tutte le “guerre brevi” di Israele, sotto il profilo militare anche questa si è conclusa senza l’ultima fase, che in gergo si chiama “sfruttamento del successo”. Il numero delle vittime civili, il saggio intendimento di non cadere nella trappola del cuore di Gaza con carri e blindati, l’onda montante dell’opinione pubblica internazionale sono stati certamente i fattori che hanno sconsigliato Tshaal dall’impegnarsi a fare fino in fondo piazza pulita nei depositi di armi e di missili.
C
Ma è stata sopra tutto l’approvazione del Governo di Gerusalemme dell’accordo di Wa-
striscia, ma non come se nulla fosse accaduto. Tutto il dispositivo resta attivato per una ripresa immediata in caso di ripetizione dell’offesa su città e villaggi. Hamas, c’era da aspettarselo, canta vittoria anche sotto il profilo militare. D’altra parte, anche gli eserciti arabi si sono sempre proclamati vincitori delle tre guerre che hanno puntualmente e clamorosamente perduto. Dove, invece, Hamas ha ottenuto una vittoria schiacciante è sotto il profilo mediatico, e, in questo, la presentazione quotidiana delle vittime civili sui teleschermi di tutto il mondo le ha senz’altro dato una mano robusta. La televisione è stata più forte delle
Tsahal ha smesso di sparare e con ordine e calma si ritira, ma non come se nulla fosse. Tutto il dispositivo resta attivato per una ripresa immediata in caso di ripetizione dell’offesa su città e villaggi shington tra Livni e Rice - è un favore che verrà compensato ad accorciare i tempi della tregua unilaterale. Tregua che ha fermato lo spargimento di sangue, troppo spesso innocente, senza tuttavia allontanare definitivamente lo spettro della guerra. Tshaal ha smesso di sparare e con ordine e calma lascia la
bombe di precisione, dei cannoni dei carri e dei suoi stessi Grad e Kassam.
Certo, non è la cessazione delle ostilità richiesta dalla Risoluzione 1860 votata dal Consiglio di Sicurezza l’8 gennaio scorso, e forse nemmeno quella faticosamente prima tentata nel corso dei colloqui del Cairo, e successivamente formalizza-
ta in quelli di Sharm-el-Sheik, ma va comunque valutata nei suoi aspetti politici, prima ancora che militari. Una tregua unilaterale comporta sempre molti difetti, con conseguenti vantaggi e svantaggi per le parti. Hamas, senza la pressione delle bombe - quella di Tshaal rimane - può permettersi di leccarsi le ferite e riflettere sul disastro di cui è stata all’origine. Ne valeva la pena? Simili considerazioni potranno essere fatte dagli abitanti, prime vittime di una sconsideratezza senza scuse. Se ha incassato una vittoria mediatica che rafforza il suo potere politico, è anche vero che ha subìto la decimazione dei capi militari, il ridimensionamento della sua capacità bellica e il fiaccamento della volontà di combattere dei suoi uomini. Ha giocato bene le sue carte, sotto pressione ha dichiarato una tregua unilaterale con condizioni che assomigliano molto a quelle che Olmert aveva già dichiarato, ma di fatto resta più isolata di prima. A questo riguardo, le congratulazioni per la “vittoria” pervenute da Ahmadinejad, le felicitazioni di Hezbollah e la sorniona soddisfazione della Siria non fanno che accentuarne l’isolamento. Il vertice dei 17 paesi su 22 della Lega Araba di Kuwait City, che, sebbene abbia finalità di carattere economico,
Abu Mazen chiede governo di unità nazionale ed elezioni. Ban Ki-moon lo sostiene
Europa: nessun aiuto finché c’è Hamas n governo di unità nazionale e nuove elezioni sia parlamentari che presidenziali, da tenersi simultaneamente nei territori palestinesi, sono stati chiesti ieri da Mahmoud Abbas alias Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, durante il vertice della Lega Araba in corso nel Kuwait. Nella Striscia di Gaza, dove l’offensiva israeliana si è appena fermata dopo 22 giorni di bombardamenti, Hamas ha creato un proprio esecutivo contrapposto a quello dell’Anp, che controlla la sola Cisgiordania ed è guidato dall’economista Salam Fayyad, un moderato al pari di Abu Mazen; entrambi appartengono ad al-Fatah, partito nazionalista che è da sempre avversario del gruppo radicale. Quest’ultimo stravinse le elezioni politiche di due anni fa, prendendo poi il potere a Gaza con la forza qualche mese più tardi. «Ciò che si richiede adesso», ha proclamato Abu Mazen, «è formare un governo palestinese di unità nazionale, che porti poi a elezioni presidenziali e legi-
U
slative simultanee». A tale scopo, ha proseguito il presidente dell’Anp, «occorre necessariamente che tutti noi palestinesi ci si incontri in Egitto». La riunione tra fazioni contrapposte deve avvenire “immediatamente”, ha sottolineato, così da «raggiungere un accordo: anche a costo di intavolare colloqui per migliaia di ore», ha aggiunto. Piena legittimazione alla sua richiesta è giunta anche da Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite intervenuto al summit arabo di Kuwait City. Nel suo discorso, parlando di Gaza, Ban ha anticipato che entro questa settimana «invierà una delegazione specializzata per valutare l’emergenza umanitaria nella Strsicia». Emergenza che studi Onu al momento valutano in oltre 4mila case distrutte e decine di migliaia di persone senza casa. E a proposito degli aiuti umanitari per Gaza, ieri l’Ue - per bocca del Commissario Ferrero-Waldner ha fatto sapere che l’Europa non interverrà fini a quando l territorio palestinese sarà governato da Hamas.
mondo Di fianco: il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza. In basso a sinistra, il premier Olmert e, a destra, il suo collega turco Tayyp Erdogan riprendere l’operazione alla prima offesa. Ma il vantaggio politico è sopra tutto quello di non aver patteggiato con Hamas, evitando ogni ipotesi di legittimazione di quel regime e mantenendo così una posizione di forza, cui consegue una più ampia libertà d’azione. È come dire “con Hamas se la vedano gli altri, Egitto e Autorità palestinese, io non c’entro. Fate voi, ma io attendo garanzie”. Una posizione che le consente anche altri vantaggi politici, sebbene per quelli militari abbia dovuto un po’“accontentarsi” di quei risultati che Olmert fa bene a dichiarare essere quelli voluti. Avrà la gratitudine del Presidente degli Stati Uniti, contento che il suo Paese sia stato il catalizzatore della tregua e di poter magari avviare, subito e non tardivamente come il suo predecessore, una nuova fase dei colloqui di Annapolis, rivitalizzandoli. Viene dato un ruolo all’Unione Europea, sinora timida e impacciata nei confronti del Medio-Oriente, coinvolgendola in precise responsabilità di sorveglianza e controllo. Infine, ciliegina sulla torta di quello che potrebbe sembrare un tragico gioco delle parti, viene lasciato tutto il merito del successo al rais egiziano Mubarak, che esce da questa triste questione come il vero vincitore.
Ottime mosse, sia sotto il profilo tattico che sotto quello strategico. Potremmo essere alla svolta, anche se troppo odio è stato ormai seminato. Occorrono cambi generazionali, per tutti e a tutti i livelli. L’America
I terroristi incassano una vittoria mediatica, ma subiscono la decimazione dei capi militari, il ridimensionamento della loro capacità bellica e l’isolamento da parte di molti Paesi arabi terrà anche una sessione speciale per Gaza, pur tra esecrazioni e minacce non farà altro che sanzionare questo isolamento.
Israele, dopo tante recriminazioni e le solite accuse di “sproporzione” con l’offesa, potrà in primo luogo accreditarsi la benemerenza di aver cessato per prima, senza necessità di contrattare alcunché con il partito armato, ed essere quindi obbligata al rispetto di troppi vincoli. In altre parole, è libera di continuare, se necessario, o di
ha già fatto la sua scelta. Ora attendiamo l’esito delle elezioni e dei cambi di governo anche in Israele e nei soggetti all’Autorità palestinese. Qui, nulla si può muovere senza che emerga una figura risoluta e credibile, più libera dei leaders attuali da legami con il passato, sulla quale possa confluire il consenso della maggioranza meno estremista delle fazioni. Anche qui occorrerebbe un’altra mossa coraggiosa da parte di Israele, che forse, anche senza metafora, ha in tasca le chiavi della soluzione.
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Le forti critiche turche all’operazione Piombo Fuso allontanano il Paese dalla Ue
L’errore diplomatico di Tayyp Erdogan di Luisa Arezzo è stato un momento, poco prima dell’annuncio della tregua unilaterale da parte di Israele, che la diplomazia turca del premier Erdogan sulla questione mediorientale non conosceva sosta. Il premier, infatti, cercava di accreditarsi presso le cancellerie, sia occidentali che mediorientali, come interlocutore fra Hamas e Israele. Un ruolo che il presidente Ue Topolanek (e molti altri leader internazionali) non è sembrato gradire troppo, definendo il Paese della mezzaluna “arabo” al pari dell’Egitto, e allontanando ancora per un po’ le ambizioni europeiste della Turchia. Ambizioni che proprio ieri Erdogan ha nuovamente sottolineato a Bruxelles, dicendo: «La Turchia non vuole diventare un peso per l’Unione europea, ma aiutare l’Europa a condividere i problemi che già oggi deve affrontare». Evidente l’allusione al Medioriente e alla Russia (non dimentichiamo che sul fronte energetico il Paese cerca di accreditarsi, visto che è territorio di transito di gas e petrolio dal Caucaso e dall’Asia centrale).
C’
rispetto alla Turchia perchè non l’ha avvertita dei suoi piani militari contro la Striscia e dovrà rimediare». Come, non è dato sapere. Ma le critiche alle sue parole non hanno tardato ad arrivare. Scende in campo il New York Times con mano pesante: «considerando che si tratta di un leader che cerca di accrescere la sua immagine di mediatore internazionale e soprattutto che il suo Paese è un membro della Nato, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed un candidato all’Unione Europea, la sua non è stata una performance tanto brillante». Ma il punto è che anche la stampa locale ha criticato la diplomazia del governo. Milliyet, uno dei principali quotidiani del Paese, scrive: «Le dichiarazioni di Erdogan e il suo atteggiamento a favore di Hamas hanno indebolito il ruolo di “potenziale mediatore” della Turchia
È dall’inizio dell’anno che Ankara immagina di portare alle Nazioni Unite - del cui Consiglio di Sicurezza è entrata da poco a far parte come membro provvisorio - le richieste di Hamas
Digressione Ue a parte, la verità è che le mosse di Erdogan rischiano di creare un’impasse non da poco. E non solo in Europa. Nei giorni scorsi, i durissimi discorsi di condanna dell’operazione militare israeliana, tenuti in diverse occasioni dal premier turco, hanno attirato critiche da diversi fronti per aver messo a repentaglio proprio la capacità del suo governo di “poter dialogare con tutte le parti”, poiché avrebbe dimostrato un’aperta simpatia nei confronti di Hamas, simpatia che la rete Al Jazeera non ha mancato di “pompare”in tutti i suoi collegamenti. Non solo: è dall’inizio dell’anno che Ankara immagina di «portare alle Nazioni Unite – del cui Consiglio di sicurezza la Turchia è entrata a far parte come membro provvisorio all’inizio di quest’anno – le richieste di Hamas». Una proposta certamente figlia dell’incontro avuto a dicembre con Ismail Haniye, leader del governo di Hamas a Gaza.Vertice criticato a tal punto da Israele, da fargli “dimenticare” di avvisare il governo di Ankara dell’attacco imminente. E questo al netto di una visita di commiato di Olmert ad Erdogan a meno di una settimana dall’avvio dell’operazione Piombo Fuso. Erdogan, evidentemente risentito per la mancanza di un qualsiasi accenno, ha rilasciato - ancora ieri - una dichiarazione al vetriolo: «il Governo di Israele ha mancato di
non solo in questa crisi, ma anche in quelle dei conflitti arabo-israeliani in generale. Giacché un Paese che si propone in questa veste dovrebbe cercare di mantenersi equidistante da tutte le parti».
Così non è stato. E le elezioni amministrative del 29 marzo prossimo potrebbero risentire di questa deriva pro-Hamas del premier. Rischia di saltare, oltretutto, anche un’altra ambizione di Erdogan: quella di monitorare il confine di Gaza, o meglio di far controllare ai soldati turchi i tunnel con cui Hamas di procura le armi, impedendone l’accesso. Ipotesi che, inutile dirlo, Israele al momento vieta senza “se” e senza “ma”.
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Riletture. Due recenti saggi ricostruiscono e analizzano le influenze delle “rivoluzioni aristocratiche” d’Ottocento nelle diverse opere del Maestro
I salotti borghesi di Verdi Le realtà storiche e sociali del compositore italiano attraverso la «musicalissima grazia» della Traviata di Jacopo Pellegrini rascorsa la seconda guerra mondiale, la Rassegna musicale riprendeva le pubblicazioni dopo quattro anni d’interruzione, nel gennaio 1947. E subito dal primo fascicolo chi volle intendere intese come alcuni fondamentali ingranaggi dell’oliato meccanismo che da oltre vent’anni reggeva la veneranda rivista, organo ufficioso e autorevole della critica musicale ispirata al verbo estetico di Benedetto Croce, come alcuni ingranaggi, dicevo, si fossero ormai irreparabilmente incrinati. Tanto per dire, alle pagine 3236 un breve, succoso e pungente intervento di Fedele d’Amico,“Verdi in salotto”, in opposizione agli «spiritualisti assoluti» attribuisce valore centrale alle eventuali, e inevitabili, ripercussioni «del mondo esterno» sulla cultura e sull’arte. L’invito dello studioso romano è ad «aprire un po’ più seriamente gli occhi su certe realtà storiche e sociali in cui Verdi nacque» e visse, «penso, per esempio – chiosa – ai suoi salotti», in particolare a quelli (Atto I e Atto II, Scena seconda) della Traviata. Premessa indispensabile di questo discorso, l’idea (suggerita dalle imaginifiche prose verdiane di Bruno Barilli) che il Bussetano fosse «in certo senso, un borghese; ma che della rivoluzione borghese vide soltanto il volto popolare, […] progressivo».
T
Dunque, «Verdi mette in scena […] una società a lui contemporanea», e nel farlo le sue «forme» musicali «pigliano un accento veristico» (si tratta, infatti, di danze alla moda); e questi salotti, accostati «in una ferma volontà di partecipazione», «non suonano mai falso», anzi si traducono «in musicalissima grazia». Occorsero 35 anni prima che qualcuno raccogliesse l’invito implicito di d’Amico a guardare un po’ più dappresso i formanti sonori impiegati da Verdi nella pittura d’ambiente, nonché a rendere giustizia al suo «sinfonismo». Quel qualcuno fu Fabrizio Della Seta, che nel saggio Il tempo della festa, comparso su «Studi verdiani» annata 1983, evidenzia come l’intreccio di balli,
brindisi, conversazione intonata e canto strofico in casa di Violetta (Atto I) risponda a una logica costruttiva di stampo strumentale, se si vuole «sinfonico». Osservazioni che non miravano a nobilitare una forma d’arte (l’opera in musica italiana) per mezzo d’un’altra presunta più dotta e nobile (il repertorio strumentale classico-romantico austro-tedesco), bensì a dar prova dell’«incontestabile funzionalità strutturale,
29,50), raccolta di scritti risalenti a epoche diverse (dal 1984 all’anno scorso), di taglio metodologico alcuni, esplorazioni dettagliate (di intere opere, atti, scene, singoli numeri) la più parte. Il quadro generale è dominato da Verdi (Ernani, Macbeth, Luisa Miller, Trovatore, Aida, il lessico tecnico adoperato dal musicista nell’esercizio delle sue funzioni, scandagli nella ricezione critica otto e novecentesca), ma si ramifica an-
Durante il suo soggiorno parigino tra il 1847 e il ’49, attinse al genere popolare e ricco di colpi di scena “a effetto” tipici del mélodrame teatrale e drammatica» (d’Amico) posseduta, anche in questi frangenti, dalla musica di Verdi. Della Seta, che di Traviata ha dato anche l’edizione critica, non ha voluto raccogliere quel contributo (definendolo immaturo: beato lui che può permettersi di screditare imprese su cui molti costruirebbero fama e carriera) in «…non senza pazzia». Prospettive sul teatro musicale (Carocci, pp. 315, euro
che verso immediati precedenti (Bellini) o verso contemporanei (Meyerbeer), con un’unica, folgorante puntata all’indietro su due scene nell’Atto II delle mozartiane Nozze di Figaro.
Il «non senza pazzia» del titolo si riallaccia al noto passo del “Prologo in teatro”del Faust I (Goethe), laddove il Comico auspica una drammaturgia all’insegna della fantasia e condita, per l’appunto, con un pizzico di follia; ma, soprattutto, serve a fornire il lettore d’una bussola per orientarsi nei 12 testi e nell’introduzione teorica, densa sì, eppure non poco brillantemente polemica. Giacché il volume si confi-
Due recenti saggi di Fabrizio Della Seta e di Emilio Sala (rispettivamente “Non senza pazziaProspettive sul teatro musicale” e “Il valzer delle camelie”) ricostruiscono e analizzano le influenze della rivoluzione borghese d’Ottocento nelle diverse opere di Giuseppe Verdi (in basso a destra), in particolar modo nell’Opera “Traviata” (a destra e in basso) gura come un rappel à l’ordre, meglio, come un “stringiamci a coorte”contro i recenti indirizzi della musicologia internazionale, in specie di quella angloamericana: gender studies, decostruzionismo, post-strutturalismo, vale a dire un relativismo pressoché assoluto, negatore di qualsivoglia significato universale nel manufatto artistico. Al contrario, Della Seta ci rammenta che «tutti i grandi capolavori della letteratura, dell’arte e della musica ci parlano di noi […] e costituiscono un valido antidoto contro ogni dogmatismo, contro la mercificazione dei valori e delle idee». Ricorrendo di volta in volta, e con grande varietà e autonomia all’ausilio, di discipline sorelle (teorie letterarie, filologia, semiotica), l’autore non concede tregua agli organismi operistici fintantoché essi non rivelino i loro significati più reconditi; e sono sempre significati di natura eminentemente drammatica, in cui la musica giuoca ruolo decisivo ma non esclusivo, accanto alla componente verbale e a quella spaziale, nel dare consistenza al «conflitto di idee» che si svolge ora in seno a uno, ora tra più personaggi. Emblematici in questo senso (e difatti sono posti in apertura) i callidi excursus sull’Atto III di Ernani (il cammino ascendente di Carlo V alla conquista della magnanimità inse-
parabile dalla lorica imperiale si compie in uno spazio sonoro attraversato da opposizioni armoniche destinate a sciogliersi nel Concertato finale) e su Aida, «lezione di realismo» in cui le tinte esotiche (due non una, legate rispettivamente al qui dell’azione e a un altrove fantastico) danno consistenza auditiva alle forze in lotta, il potere oppressivo (la teocrazia egiziana – Ramfis – e l’autorità paterna – Amonasro) da una parte, le irrealizzabili aspirazioni alla libertà e alla fuga dell’individuo dall’altra. A ragione Della Seta si mostra scettico riguardo alle letture di Aida in chiave d’imperialismo colonialista europeo o di anticlericalismo postrisorgimentale italiano: a dominare su tutto, asserisce, è «il pessimismo storico del Verdi maturo». Non riesce però a persuadermi del fatto che questo pessimismo, inducendo il musicista a una «comprensione “realistica” delle più profonde motivazioni dell’agire umano», finisca coll’agguagliare tutti, oppressori e oppressi. A me pare invece che nei confronti di Ramfis e di Amonasro Verdi non mascheri mai antipatia e repulsione: duro o insinuante il “prete”, ammantato d’una magniloquenza artificiosa o violentemente ricattatorio il re etiope, paternalisti entrambi. Impressioni personali, che nulla tolgono a un libro lucido e
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Montaubry, autore, tra le altre cose, d’una «ronde vigorosa, originale, facile» per la scena della cena (in Verdi c’è il brindisi famoso, «Libiamo ne’ lieti calici»), che riemergeva in orchestra alla morte dell’eroina, «come un ricordo costante della vita folle che esalava» (così lo stesso Dumas tradotto da Sala). Non difformemente, nella Traviata gli ultimi istanti di Violetta sono accompagnati da una melodia nota, non però connessa alla vie folle dell’eroina, bensì alla sua vie sentimentale: si tratta, come tutti sanno, della confessione amorosa pronunciata da Alfredo nel Duetto dell’Atto I («Di quell’amor ch’è palpito») e più volte riproposta, tanto da configurarsi come «main theme» o «motivo-simbolo» dell’opera.
profondo, ogni asserzione calibrata su un orecchio finissimo (l’analisi degli abbozzi per l’aria «D’amor sull’ali rosee» di Leonora, Il trovatore, Parte IV) e su un sapere così vasto da saper riconoscere nella «musica villareccia» che accompagna l’ingresso di re Duncano nel castello del suo assassino (Macbeth, Atto I) un’ultima eco delle marce al patibolo eseguite durante la rivoluzione francese.
Un Verdi stagliato su uno sfondo europeo, più precisamente parigino, ci prospetta anche Emilio Sala, il quale già dal Preludio del suo Il valzer delle camelie (EDT, pp. 168, euro 15,00) rifiuta l’immagine del Verdi “contadino” e “padano” cantata da Barilli e, un po’, anche da d’Amico. Eppure, senza saperlo (l’antica provocazione di d’Amico non figura in bibliografia), Sala finisce col dimostrare senza possibilità di smentita che la tappezzeria musicale applicata ai saloni della Traviata (1853) è proprio la stessa entro la quale “folleggiava” Violetta Valéry, alias Marguerite Gautier in Dumas, Marie Duplessis in società, Alphonsine Plessis all’anagrafe (1824-47). Valzer e polka quali segnali di modernità, un “moderno” in cui si riflette – notava già d’Amico – il nuovo assetto sociale a metà Ottocento, con l’aristocrazia insidiata dalla
però Sala sceglie a ragione la via dell’estro nervoso, della complicità trascinante col lettore, Della Seta opta per un argomentare pacato e consequenziale che persuade a grado a grado, implacabilmente.
Al Preludio già citato, Il valzer delle camelie fa seguire tre capitoli (tre movimenti, come in una Sonata? tre atti, come in un dramma?) e una Coda: passando dagli uni all’altra apprendiamo tutto quel che è dato apprendere sugli echi di Parigi nella Traviata, secondo quanto recita il sottotitolo del volume:
per queste regine della mondanità; la fortuna delle danze spagnole e del corteo carnascialesco del «bue grasso» nella Parigi di Luigi Filippo.Vi è poi il rapporto simbolico tra tubercolosi e ballo, a un tempo esorcismo e manifestazione pubblica della malattia (tra le tisiche preda di deliqui indotti dall’ebbrezza del volteggiare, oltre agli esempi citati da Sala, si può ricordare una tarda rappresentante della categoria, Simonetta nei Medici di Leoncavallo, 1893); – il ricorso a strumenti solisti – espressione di sentimenti e punti di vista collegati ai singo-
Nella sua opera, trame intricate accompagnate da dosi massicce di musica in funzione descrittiva. Quasi colonne sonore “ante litteram” «“volgarità” del terzo stato». Anche Sala, come Della Seta, ama sollecitare l’elemento musicale con strumenti desunti da materie affini, storie letterarie, storia sociale e delle mentalità, edificando, sulla scia di Benjamin e Foucault (modelli non da poco), un originale esempio di archeologia audiovisiva. I due tomi si intersecano e si integrano sia negli ambiti e nei modi della ricerca (con affondi non casuali in fondamenti teorici), sia nello stile della scrittura. Intanto, caso raro, si tratta di testi stesi in italiano vero; mentre
– a quali titoli potrebbe aver presenziato Verdi, durante il suo soggiorno parigino tra il 1847 e il ’49, nei teatri dediti al genere popolare e “ad effetto”del mélodrame (trame intricate e avventurose, ricche di colpi di scena, accompagnate da dosi massicce di musica in funzione descrittiva o di potenziamento espressivo, quasi colonne sonore ante litteram); – i balli nei quali eccelleva la vera Signora delle camelie, esponente preclara delle lorettes, vale a dire mantenute d’alto bordo; il significato di certi fiori
li personaggi – e a “motivi di reminiscenza” – temi pregnanti che tornano nei momenti clou della vicenda, in special modo nelle catastrofi conclusive – sono espedienti drammatici che il Verdi della Traviata apprende sulle musiche di scena confezionate in serie per i mélodrames e per le normali commedie del repertorio francese, non esclusa la riduzione teatrale della Signora delle camelie preparata nel 1852 per il Théâtre du Vaudeville. Il commento sonoro a quelle rappresentazioni recava la firma di Edouard
Capolavoro senza tempo, La traviata risulta tale anche per la materia oggi non meno di allora scabrosa, incandescente, attuale. Un’attualità ch’è in prima istanza nelle dinamiche psicologiche e sociali esplorate dal plot e nella musica, mentre il quadro ambientale si presta alle più diverse soluzioni: per molto tempo la vicenda venne retrodatata agli ultimi anni del Re Sole (1700 circa); a partire da fine Ottocento si introdussero le crinoline, cronologicamente esatte (prima ancora dello spettacolo parigino del 1903 segnalato da Sala, in Italia aveva cominciato a indossarle Gemma Bellincioni); Visconti nel 1955 azzardò un Secondo impero; i registi d’oggi inclinano ad attualizzazioni estreme (Vick, Carsen, Decker, Irina Brook, ecc.). Codesto clima di perenne contemporaneità è indotto proprio dai fantasmi di danze che aleggiano ovunque, anche al di là dei brani direttamente trattati da Sala (Atto I, festa da Flora, «Addio del passato», Baccanale del «bue grasso», Finale III). Giacché nella partitura si consuma un portentoso rito alchemico, per cui ballabili di consumo connotanti un’epoca circoscritta – vogliamo dire un generico Ottocento? – si rovesciano in allegorie del tempus fugiens, che scivola via e svanisce in eterno, lasciando intorno a sé solo rovine e desolazione. Non sorprenderà pertanto che La traviata abbia fatto scuola al melodramma a venire, e su molteplici fronti: la cornice scenica tra saloni e feste ritmate di danze (Manon di Massenet, Evgenij Onegin di Cajkovskij, Chénier e Fedora di Gordano, Adriana Lecouvreur di Cilea…), il fiore o i fiori identificati colla protagonista femminile (Mimì, Tosca, Fedora, Adriana), la morte dell’eroina come redenzione da una “colpa” (sempre Fedora, sulla quale si leggano i contributi di Virgilio Bernardoni e Marco Emanuele contenuti in Fedora. Sardou, Colautti, Giordano, Edizioni Plus, euro 18,00), gli immancabili “motivi di reminiscenza”.
spettacoli
pagina 20 • 20 gennaio 2009
In scena. Al Palladium di Roma, il nuovo spettacolo di Peter Brook “Warum Warum”
«E il settimo giorno Dio creò il teatro» di Enrica Rosso
ROMA. Apre alla grande il Teatro Palladium della Capitale, proponendo come assaggio di stagione l’ultima, in ordine di tempo, creazione di Peter Brook: Warum Warum, monologo in lingua tedesca sopratitolato in italiano e interpretato da Miriam Goldschmidt. In scena, oltre alla già citata signora, l’italianissimo Francesco Agnello e il suo hang (trattasi di strumento musicale a percussione composto da due contenitori metallici sovrapposti, come due valve di ostrica, con un foro centrale capace di sonorità perentorie ed echi sognanti come il gocciolare dell’acqua, che ricordano quelle del gong o del gamelan). Inizia lo spettacolo: «Davanti a noi un luogo senza forma, il pavimento senza fondo, il tetto senza tetto». Vuota la scena, come la tazza del racconto Sufi: ché per esser pronto a ricevere, devi prima creare il vuoto. La totale assenza di scenografia, a cui ci ha abituati il geniale regista inglese, denuncia il palcoscenico vissuto come luogo di ricerca, di studio, di pensiero, di prova, non come contenitore in cui esibire un progetto cristallizzato. A conferma di ciò si chiedono «le luci da lavoro». Solo in un secondo mo-
A destra, due cantinelle inchiodate, entrano in scena mondi. Francesco Agnello, musici- il grande regista inglese sta e compositore, carezza o percuote il Peter Brook suo hang come fosse la lampada di Alaalla cerimonia dino. Ed ecco scaturirne suoni metallici di consegna di diversa natura e forza espressiva che precedono il materializzarsi di varie per- dell’Ibsen Award 2008, sonalità, tra cui non mancano due eccelal Teatro lenti infiltrati shakespeariani: il conte di nazionale Gloucester dal Re Lear e Shylock dal di Oslo. Mercante di Venezia. Si parla di ricerca Sotto, due teatrale per questo Perché Perché, testo immagini firmato a quattro mani dallo stesso Peter del nuovo Brook e da Marie-Hélène Estienne, (con spettacolo cui collabora da sempre) che cita e acco“Warum sta i più grandi teorici della storia monWarum”, diale del teatro, da Artaud a Craig, da attualmente Dullin a Mejerchol’d a Stanislavskij. in scena «Non ho mai creduto in una unica veal Teatro rità. Sia che si tratti della mia o di quella Palladium degli altri. Credo che tutte le scuole, tutdi Roma te le teorie possano essere utili in un certo luogo e in un certo momento. Ma credo che non si possa vivere se non identificandosi con passione, e, in modo assoluto, a un punto di vista». Un distillato dei testi fondamentali introiettati in una vita dedicata alla ricerca e all’esplorazione a tuttocampo, che riportano sempre alla domanda primaria che riaffiora
Attraverso un vertiginoso susseguirsi di passaggi, lo spettatore si ritrova ad assistere come in una macchina del tempo allo svolgersi della storia del teatro del ’900 mento l’illuminazione verrà utilizzata per regalare intensità e definizione all’azione scenica. La camaleontica Miriam Goldschmidt , attrice danzatrice e coreografa indo-tedesca dalla pelle di luna, dal 1971 a fianco del Maestro, ci introduce al gioco serio del teatro. Attraverso un vertiginoso susseguirsi di passaggi ci ritroviamo ad assistere come in una macchina del tempo allo svolgersi della storia del teatro del ’900. Il trucco è subito svelato: basta lasciarsi andare al potere della fantasia e con il semplice passaggio attraverso una porta, simulata da
come fosse il peccato originale: Perché? Una dichiarazione d’amore alta e profondamente ispirata che racchiude, com’è nel suo impeccabile old english style, la sobrietà più assoluta, quella per intenderci che non lascia spazio neppure agli orpelli dell’anima.
Questo magnifico artista racchiude in sé l’ingenuità di un bimbo e la saggezza e visionarietà di un mistico orientale. «Il teatro è una medicina molto pericolosa, è un’arma rischiosa, insidiosa come il fuoco» ci mette in guardia la Goldsc-
midh, sottintendendone forse il potere ammaliatore, e ancora: «Teatro conforto per i solitari, teatro conforto per gli uomini ebbri, teatro consolazione degli uomini », mentre poi si lancia con grande ironia e classe a rappresentare e catalogare, a ridicolizzare le mille convenzio-
ni teatrali. E ci avverte: «Ovviamente ciò che chiamiamo teatro sono tutte stupidaggini, tutto un imbroglio, un fare finta», ed ecco che ci svela i trucchi del mestiere per far scaturire dal nulla emozioni come il pianto e il riso: semplicemente producendo una piccola pressione digitale sul plesso solare.
E qui però sorge un dubbio: mettiamo pure che questo giochetto del plesso sia efficace (francamente non ci ho mai provato) quello che viene generato risulta essere, a mio avviso, l’involucro svuotato dall’emozione, dunque decaduto dalla sua funzione, diciamo morto. E, se non ricordo male, proprio il teatro mortale, distaccato, algido, viene messo al bando e incolpato di rubare pubblico allontanandolo dalle sale per troppa noia ne Il teatro e il suo spazio. A fine serata il resoconto esilarante della nascita del teatro e di tutto ciò che ne deriva: «Il settimo giorno, mentre si riposava, sentendo gli umani annoiarsi il Signore diede loro il teatro…». Insomma, quasi una lezione spettacolo, una riflessione teorica dove favoriti sono sicuramente gli addetti ai lavori che hanno a disposizione più elementi di conoscenza diretta. In ogni caso illuminante per la qualità e compostezza del tanto che succede in scena: «La vita nel teatro è più leggibile e intensa perché è più concentrata, l’atto di ridurre lo spazio e comprimere il tempo crea un concentrato». Lungi dall’avere intenti celebrativi, questo nuovo pezzo di storia del teatro segna il punto sulla poetica Brookiana riconsegnandoci intatto, dopo cinquanta minuti di domande serrate sulla vita e sull’arte teatrale, il quesito iniziale: Perché? Per tutti noi la ricerca continua cavalcando il motto di quest’artista gentile e generoso che suo malgrado è un Maestro: «Hold on hightly, let go lightly», cioè «proseguire nella crescita, procedendo con leggerezza».
sport
20 gennaio 2009 • pagina 21
Gli antieroi della domenica. Il genitore del bomber rossonero fa pressing sul figlio (e sui 100 milioni offerti per lasciare il Milan)
La discesa “in campo” di papà Kakà di Francesco Napoli oi tempi che corrono, si sa, un buon padre di famiglia si premunisce. Come quell’imprenditore friulano che, pur benestante, ha pensato di portarsi avanti, perché non si sa mai: il rischio d’impresa va bene ma i figli son figli e pezzi di cuore (tradotto da Mario Merola per i non napoletani). E dunque ha autocertificato la sua nullatenenza, si è fatto passare per anni dallo Stato contributi e assegni che non gli spettavano minimamente e, immagino, pizzicato dalla Guardia di Finanza avrà avuto anche un piccolo moto di stizza pensando tra sé e sé che lo stava facendo per loro, per i figli, e che, in fondo, chiunque al posto suo avrebbe fatto lo stesso. Così deve aver pensato anche papà Kakà, al secolo Bosco Leite, ingegnere civile che in fatto di calcoli, avendo per di più una moglie insegnante di matematica, qualcosa in più di noi la deve pur sapere. La sua è una preoccupazione più che legittima: i due figli sono dopo anni di sacrifici impiegati nel Milan A.C. e con solo, dico solo, 9 milioni di euro quello famoso, Ricardo, 1 quello scarso, Digao, messo lì forse per arrotondare come una sorta di assegno famigliare, e chi l’ha visto giocare alzi la mano.
C
A destra, il bomber rossonero Kakà. In alto: tifosi milanisti allo stadio San Siro; il giocatore insieme con il presidente del Brasile Lula; una supporter della nazionale brasiliana sostenitrice di Kakà
Allora lui, papà Kakà, incurante dei blog dei tifosi del Milan che invocano a questo campione il senso di appartenenza o della volontà del figlio, che quasi quasi vuole restare pensando che la nuova destinazione Manchester, ma sponda povera, quella dei citiers, lo terrebbe lontano dai grandi palcoscenici calcistici per un paio di anni con possibile conseguente depressione e saudade, è sbarcato alla Malpensa da San Paolo del Brasile e avrà chiarito a suo figlio, quello che gli ha dato tante soddisfazioni ma che proprio non vuole capire come va la vita, che forse è il caso di preoccuparsi poco degli aspetti tecnicoaffettivi, quelli che porterebbero Ricardo a non lasciare la casacca rossonera, e pensare finalmente al futuro. C’è stato prima un dialogo chiarificatore con il figlio e poi le faccende di affari. Un padre premuroso fa così, prima ascolta le confidenze filiali e poi decide. «Vuoi mettere? Qui nessuno ti darà una lira in più, un domani potresti pentirti della scelta. E metti caso che va via Ancelotti,
bravissimo ragazzo ma col quale pure hai avuto qualche diverbio, e al suo posto viene un Mourinho qualsiasi con le sue idee sui brasiliani, vedi Adriano, cosa fai? Sarai vecchio e non avrai davanti a te tante prospettive».
Sarà stato più o meno questo il concione. «Ma, papà, qui sto bene, nessuno mi caccerà mai di squadra. Se proprio si deve per la fami-
Bosco Leite, ingegnere civile, è sbarcato a Malpensa da San Paolo del Brasile per convincere il “pargolo” a pensare seriamente al futuro glia, allora hai pensato al Real?». Potrebbe essere stata la risposta. E poi a continuare. «Ma va là, ingenuo. Lo sai che lì sempre e soltanto sotto elezioni si muovono per davvero e il nuovo Presidente del club sarà eletto a giugno, potrebbe essere troppo tardi. Tanti anni in Italia a riguardo non ti hanno insegnato
proprio nulla?». «Papà, io vorrei restare». «Va bene, figlio mio, vedremo che cosa si può fare, sai che ho semplicemente a cuore la sorte tua e quella di tuo fratello e la vostra felicità e per questo son venuto a Milano». «Ma mio fratello verrebbe con me a Manchester?». «Vedremo, penso di sì, anche se per lui mica hanno in mente di scucire i 100 milioni di euro, dico 100, che hanno sottoscritto per te». «Lo immagino, ma è che mi aiuta tanto in casa e anche in allenamento, mi porta via le scarpette fatte di fango e ha cura che la mia borsa sia sempre pronta». «Vedremo, ora non ti preoccupare, farò il possibile». «Papà, un’ultima cosa: sai che quella tragedia in Brasile mi ha molto colpito?». «Quale?». «Ma come, il tetto che è crollato nella chiesa dove mi son sposato tre anni fa e che ha ucciso sette persone. Non vorrei che fosse un segno di Dio ostile a questo mio passaggio al soldo musulmano, non pensi?». «Figlio mio, ma tu hai la benedizione del Presidente Berlusconi che ormai ha acconsentito. Lui, che di soldi se ne intende, anni fa aveva anche detto che nel mondo non conosceva nessuno che potesse batterlo sul piano economico e che quindi tu restavi da loro. Fidati». E giù un’ultima pacca sulla spalla del figlio prima di andare da Adriano Galliani a discutere di soldi.
Si sa, in questi casi son tanti a sbocciare come fiori a primavera nel ruolo di maestrini, ben solerti a dire cosa è giusto e cosa no, ma in un mondo come quello calcistico l’etica mi pare sia stata dimenticata da un pezzo o, quantomeno, messa in panchina, se non in tribuna. Alla velocità con la quale la cronaca supera la fantasia e smentisce anche se stessa, Kakà potrebbe tanto restare al Milan o essere già in procinto di attraversare la Manica seguendo ragioni che volano oltre le teste dei comuni mortali. Ma non ragioniam di uno al quale di certo non gli cambierà la vita più di tanto qualsiasi sia la destinazione finale, e accantoniamo una vicenda che ad altrettanti fiorellini un po’ appassiti dalla vera realtà quotidiana susciterebbe lo stesso moto di Clark Gable-Rhett nei confronti di Vivian Leigh-Rossella in Via col vento.
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dal ”The Jordan Times” del 19/01/2009
Il sangue (e i traumi) dei vinti di Omar Obeidat rauma psicologico» è il termine per definire lo shock che hanno subito tantissimi abitanti di Gaza negli ultimi giorni, a causa dell’operazione Piombo Fuso (Cast Lead). E potrebbe sembrare perfino un eufemismo.Tre settimane di operazioni militari dell’esercito israeliano, bombardamenti e scontri casa per casa, hanno lasciato un segno, oltre i morti, in chi rimane e deve pensare a riprendere la vita quotidiana. Molti medici volontari da Amman stanno raggiungendo Gaza, proprio per affrontare l’onda montante di un problema che numericamente, sembra, potrebbe superare quello delle ferite “vive”.
«T
Il presidente dell’Associazione giordana dei medici (Jma) Zuhair Abu Fares ha confermato, domenica scorsa, che un team di 24 specialisti è andato a sostituire la prima squadra di volontari mandata nella Striscia, per la prima emergenza, quella dei feriti negli scontri a fuoco. Ora i medici dovranno affrontare quello che tecnicamente viene definiti Post traumatic stress disorder (Ptsd). «Ora i palestinesi di Gaza stanno soffrendo di problemi di natura psicologica, causati dal ritorno a casa, nel vedere le abitazioni distrutte e i corpi dei propri cari decomposti fra le macerie», ha affermato Ayman Rashid, un medico del Shifa hospital di Gaza, durante un’intervista telefonica, domenica. Il Ptsd può affliggere sia chi abbia subito ferite dirette, sia chi sia stato semplicemente testimone di eventi traumatici. Ma cosa causerebbe questa patologia? «Si perde qualsiasi interesse per cose che prima potevano essere fonte di felicità e benessere», spiega Mohammad Habbanesh, uno psicologo di Amman, anche lui pronto a raggiungere i col-
leghi sul campo. Si diventa irritabili, aggressivi, in alcuni casi anche violenti. Viene rimosso ogni ricordo legato al trauma, che altrimenti causerebbe una sofferenza non sopportabile. Le conseguenze cliniche portano a tutta una serie di patologie che andrebbero curate immediatamente. Sarà questa l’emergenza clinica a Gaza, appena sarà superata quella chirurgica.
Purtroppo le strutture ospedaliere, situate lungo la costa sul Mediterraneo, soffrono ancora per carenze di medicinali e ci si aspetta l’arrivo dell’ultima ondata di feriti, ora che ci si potrà muovere per il cessate-il-fuoco. Serve una terapia intensiva che cominci da subito e che potrebbe avere un decorso lungo anni, confermano gli esperti giordani. Ma quella psicologica non è, purtroppo, l’unica emergenza. Sono tantissimi i feriti che hanno subito delle amputazioni, perciò servirebbero, con urgenza, degli ortopedici. E ormai sono centinaia i medici giordani - continua il presidente dell’Ordine professionale - che si sono iscritti nelle liste per essere mandati a Gaza come volontari. Le autorità di Amman si stanno coordinando quotidianamente, con quelle della Striscia, per sfruttare al meglio la disponibilità di camici bianchi per l’emergenza. Servono assolutamente rifornimenti di materiale per la chirurgia e la medicina generale. Sono state inviate anche delle squadre di infermiere dalla Jordanian nurse and midwives (ostetriche, ndr) association e la Jordan Ashemite charity orga-
nization sta raccogliendo fondi per affrontare l’emergenza, ora che si è cessato di combattere. Già domenica scorsa è stato inviato un convoglio di 18 camion, con 280 tonnellate di generi alimentari, acqua, medicinali e mille unità di sangue. Nelle stesse ore l’ambasciata belga ad Amman aveva deciso di inviare aiuti attraverso la charity giordana.
Lunedì sarebbe già arrivato il primo carico di attrezzature mediche, con un volo direttamente da Bruxelles. Altri fondi sono stati raccolti dalla Jordan river foundation (Jfr), serviranno all’acquisto di tende, medicinali e generi di prima necessità, da poter distribuire immediatamente nella Striscia. La campagna di aiuti dello Stato arabo è partita seguendo le direttive della regina Rania, sempre molto attiva nelle emergenze umanitarie, pienamente coinvolta nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica interna e internazionale sulla situazione della popolazione civile a Gaza.
L’IMMAGINE
20 gennaio 2009: avanti Obama, “qui si parrà la tua nobilitate” Oggi il neopresidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama diventerà di fatto il 44esimo presidente della Casa Bianca.Tutto il mondo guarda a Washington perché Washington rappresenta l’ultima grande super potenza del mondo. Non è più tale, infatti, la Russia che pur essendo un grande Stato e una grande Nazione non può assurgere al ruolo di superpotenza o di guida del mondo. Non è tale neanche la Cina, che è un colosso e ha davanti a sé il futuro, ma non è in alcun modo legittimata ad essere un riferimento politico per le democrazie del mondo. Insomma, è l’America che ha sulle spalle il peso del valore etico-politico dell’Occidente e non solo dell’Occidente. Grandi sono le attese per Obama. Il suo mandato ha già un preciso obiettivo: una pace duratura a Gaza. La situazione mediorientale è, oggi come ieri, la cartina di tornasole del valore della presidenza americana. Avanti Obama,“qui si parrà la tua nobilitate”.
Enrico Costanzo
I COSTI DEI CLANDESTINI GRAVANO SUGLI ITALIANI Nei Centri d’accoglienza i clandestini mangiano, dormono, telefonano, fumano e vengono curati, per una somma pro capite giornaliera da 43 a 185 euro, oltre al patrocinio legale. Il rimpatrio d’ogni clandestino costa da 2.300 a 3.000 euro;occorrono scorte, spesso di due poliziotti per clandestino, per evitare rivolte e fughe; gli aerei devono essere disinfettati dopo ogni viaggio. Questi elevati oneri sono sopportati dallo Stato e, quindi, dal cittadino italiano, per maggiori imposte e minori servizi pubblici usufruibili. La concentrazione di clandestini in date aree apporta degrado, pericolo e diminuzione dei valori immobiliari.
Gianfranco Nìbale
UTILIZZIAMO LE OPERE ESISTENTI Le risorse sono scarse. Il buon governante mai sperpera il sudato denaro dell’onesto cittadino. Le sole nuove opere – urgenti e necessarie – sono le vie di comunicazione, data la carenza e pericolosità delle attuali. Prima di pensare e/o programmare nuove opere d’altro tipo (auditorium, centro congressi, ulteriori impianti ricreativi, sportivi e sollazzevoli), il Sindaco – o chi di dovere – cerchi d’innalzare il coefficiente d’utilizzo annuo delle opere già esistenti, che sono veramente molte e pregiate. Fra le opere (pubbliche e private) utilizzabili meglio e appieno, si citano: edifici e aree scoperte; chiese e basiliche; palestre, stadi, impianti, palazzi, costruzioni e campi sportivi; padiglioni per fiere, mo-
Il maschio perfetto Non c’è pesciolina che non sogni di accasarsi con lui. Il jawfish (“pesce mascella”), come tutti i maschi della sua famiglia quella degli Opistognathidae, è un perfetto “uomo di casa”. Si prende cura dei nascituri, covando le uova nella sua grande bocca fino al momento della schiusa. Il mascellone rimane un rifugio sicuro per i piccoli anche dopo la nascita, in caso di attacco dei predatori stre e altre contrattazioni; teatri, conservatori e auditorium; ospedali, cliniche e strutture sanitarie; immobili, biblioteche e attrezzature scolastiche. Occorre: perseguire sempre l’interesse generale; respingere il condizionamento e le pressioni di lobbies, oligarchie privilegiate e categorie potenti e chiassose. Gli oneri – anche per nuove opere – rischiano
l’impennata, sia per l’inopportuna eliminazione di controlli sostanziali esterni sulle spese delle pubbliche amministrazioni, sia per l’eventuale ingordigia di clientele e forchettoni. Se l’amministrazione rifiuta o cerca d’addomesticare il Difensore Civico, il cittadino viene svillaneggiato e ridotto a mero suddito.
Lettera firmata
ASSURDO IL PROCESSO PER ECCESSO DI DIFESA A Palermo un pregiudicato ha tentato di investire un appuntato dei carabinieri, il quale, pur a terra, ha sparato e ucciso la “brava“ persona alla guida. Ora però il carabiniere è indagato per eccesso di legittima difesa. Ma non è un po’ troppo?
Francesco Maiorana
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA
Vorrei infrangere le barriere di tenebra La storia della distruzione, dell’odio, della morte non è che la storia dell’ignoranza, dell’equivoco, delle barriere di tenebra che sussistono tra gli uomini. Un uomo mortale può far qualche cosa per infrangere queste barriere e avvicinare tutti gli uomini fra loro facendo diminuire l’odio? Sì bisogna che la Grande amicizia, se vuol conquistare il mondo, cominci in un cuore umano. La scintilla del fuoco sacro, che propagandosi riscalderà questo mondo sostituendo l’amore all’odio, deve alimentare dapprima il chiuso focolare: il suo ardore ne sarà più intenso. Quel cuore è forse il mio? E sarò io quell’uomo? Ahimè, ne sono ben poco degno. Mi sento più artista, più sensibile che buono. Trovo ancora in me molti istinti impetuosi o sensuali, aspri talvolta; sono lontano dall’estrema dolcezza, dall’immutabile e profonda benevolenza di chi dovrebbe ricondurre gli uomini a pensieri di fraternità. Potrò invece fare molto poco, avendo per di più ricevuto una così crudele smentita a tutte le mie speranze. Ah!, le giornate di giugno! Ma tu sei venuta, mi hai posto sul vertice di una montagna, che dominando oggi le miserabili barriere, dagli uomini credute insormontabili limiti, Alpi eterne, mi fa ardere di nuovo dalla speranza di poterle abbattere. Jules Michelet a Athénais Mialaret
ACCADDE OGGI
EINAUDI E PELLA È ancora in corso al Palazzo della Regione a Milano la mostra commemorativa di Luigi Einaudi e della sua eredità culturale, decisamente interessante in questo difficile momento economico nel quale non ci aiuta certo l’esborso annuo di 80 miliardi di euro che lo Stato deve fare per interessi sul debito pubblico, una pesante penitenza sui peccati del passato. La crisi finanziaria ci ha colpito, come il resto del mondo, ma il nostro corpo sociale è più malato degli altri, è indebolito da ha un virus preesistente di 1.700 miliardi di debito grazie a una cattiva e subdolamente estensiva interpretazione delle teorie di Keynes, protratta per cinquant’anni. In questo lungo periodo quali sono i politici che si sono “concretamente” battuti per un pareggio di bilancio? Io ne ricordo ben pochi dopo Einaudi, tra questi c’era di sicuro Giuseppe Pella. Persino gli alti dirigenti della Banca d’Italia che sono passati alla politica, hanno abbandonato il rigore di bilancio tanto esaltato a parole durante il loro servizio in via Nazionale, per assecondare stanziamenti senza valida copertura, compiacendo i fautori dell’incremento della spesa, assecondando le esigenze della politica e dei partiti, in danno agli italiani. Pella, che succedette a Einaudi, cercò veramente nei primi anni ’50 di raggiungere il pareggio, ma le forze trasversali di spesa cercarono sempre di sopraffarlo e in tal modo lui rispose in Senato ai suoi contestatori, con parole ad oggi ancora validissime: «Sa-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
20 gennaio 1958 Elvis Presley riceve la cartolina di leva
1961 John F. Kennedy è il 35° presidente degli Stati Uniti 1964 Viene pubblicato Meet the Beatles, il primo album dei Beatles uscito negli Usa 1965 Lyndon B. Johnson diventa il 36° presidente degli Stati Uniti 1969 Richard M. Nixon diventa il 37° presidente degli Stati Uniti 1975 Michael Ovitz fonda la Creative Artists Agency 1977 Jimmy Carter diventa il 39° presidente degli Stati Uniti 1981 - Ronald W. Reagan diventa il 40° presidente degli Stati Uniti 1986 Regno Unito e Francia annunciano i piani per la costruzione del tunnel della Manica 1989 George H. W. Bush diventa il 41° presidente degli Stati Uniti 1990 In seguito a pogrom antiarmeni, Mosca dispiega l’Armata rossa a Baku 1993 Bill Clinton diventa il 42° presidente degli Stati Uniti 1996 Yasser Arafat è eletto presidente dell’Autorità palestinese
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,
rebbe una delittuosa illusione il pensare che si possa seriamente ricostruire l’economia con una politica della spesa indulgente, preoccupata di evitare le necessarie impopolarità. La difesa del bilancio statale non è contro la giustizia sociale, costituisce anzi, il presupposto per cui sul piano concreto tale altissimo valore non sia tradito e ridotto a vuoto formale». I fatti e la storia gli hanno dato ragione ma tutti quelli che si sono succeduti a sedere sui banchi del parlamento non l’hanno mai capito. Nei periodi di depressione la ricetta di lord Keynes è esatta, ma come le medicine, va presa solo durante la malattia e in piccole dosi. Protratta per decenni significa solo distruggere l’economia di uno Stato.
Angelo Rossi
FAZIOSITÀ TELEVISIVA La faziosità della seconda rete televisiva nella questione Gaza e, in particolare, del programma di Santoro, appare chiaramente. La evidenzia la lite del conduttore televisivo Santoro con Lucia Annunziata che giustamente ha fatto più volte notare la sola presenza nello studio di testimonianze a favore di Hamas.
Lettera firmata
INUTILE CONTATTARE UN POLITICO VIA E-MAIL A cosa serve trovare l’indirizzo e-mail e contattare i parlamentari se poi non si degnano, salvo rarissime eccezioni, di rispondere?
Mario Casali
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
dai circoli liberal
L’UDC PER IL RILANCIO DELLA BASILICATA L’Unione di Centro si candida a rinnovare la politica e rilanciare le Istituzioni in Basilicata attraverso un nuovo patto sociale con gli elettori, capace di interpretare le reali esigenze dei cittadini per porre fine al teatrino della politica dopo la fallimentare gestione del governatore De Filippo e della sua sconquassata maggioranza. Ascoltando gli umori della gente si registra un clima di totale sfiducia nei riguardi di una classe politica e di partiti troppo presi e interessati a risolvere le lotte intestine e le contraddizioni scoppiate tra le lobby di potere anzicché preoccuparsi di ripiegarsi a studiare e risolvere i problemi e affrontare con determinazione le tante emergenze della Basilicata. L’Unione di Centro è nata per ridare nobiltà e valori alla Politica e per queste ragioni si candida ad essere forza politica attrattiva e di governo, portatrice di nuove idee e di un nuovo modo di interpretare la politica che anche i lucani attendono da anni. In uno scenario politico confuso e caratterizzato da individualisti, egoismi e forti contraddizioni è necessario ripensare ad un nuovo soggetto politico, popolare, liberale di forte matrice europeista (Ppe) capace di rilanciare le diverse emergenze e le questioni che frenano lo sviluppo e la crescita delle nostre comunità per ridare speranza e fiducia ai cittadini. Siamo stati sempre rispettosi delle idee degli altri, ma è necessario che anche altri che a giorni alterni si richiamano al Centro, seguano l’esempio del consigliere regionale Gaetano Fierro ed assumano comportamenti di coerenza e di grande responsabilità politica e che di fronte ad una fallimentare gestione del centrosinistra prendano atto una volta e per sempre che non possiamo correre il rischio di ritrovarci corresponsabili per soddisfare meri interessi di pochi. L’Udc intende costruire un nuovo progetto politico, ispirato al bene comune, al servizio della famiglia, per rilanciare le nostre comunità e per incoraggiare le nuove generazioni a scommettere su un futuro diverso della Basilicata. Per queste ragioni, i Circoli Liberal per l’Unione di Centro, plaudono al lavoro portato avanti in questi anni dall’Udc di Basilicata e in particolare dal coordinatore regionale Agatino Mancusi, dal capogruppo Vincenzo Ruggiero e dal segretario provinciale Palmiro Sacco, caratterizzandosi come “altra” opposizione diversa e attenta alle istanze della gente e che con l’arrivo del consigliere regionale Gaetano Fierro si arricchisce di nuove intelligenze e di nuove energie. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI 20 - 21 FEBBRAIO 2009 TODI Hotel Bramante via Orvietana VII Seminario di Cultura e Politica
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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