2009_01_21

Page 1

90121

Il vero ribelle attinge

he di c a n o r c

alle fonti della moralità non ancora disperse nei canali delle istituzioni

9 771827 881004

Ernst Jünger

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Barack “Jesus” Obama di Michael Novak ono scappato da Washington assieme a mia moglie senza ripensamenti, rifugiandomi nel Delaware, là dove l’oceano Atlantico si insinua nella baia. Non era possibile restare in città: traffico impazzito, centinaia di migliaia di persone in giro. Non si poteva prendere la macchina, anzi: alcune zone erano proprio proibite. La metropolitana era chiusa. Il mio ufficio era chiuso. I taxi erano già tutti prenotati. Ma a stonare era l’entusiasmo per il leader e la grandiosa personalità del nuovo presidente. Al concerto di domenica sera davanti al Lincoln Memorial, sotto i gonfaloni rosso scuro montati sull’anfitetaro costruito per l’occasione, una folla adulatrice ha riportato alla memoria immagini della mia infanzia. Le emozioni che circolavano fra la gente – compresa quella che guardava la tv – rivelavano una fastidiosa vena messianica, che mal si accompagna con una repubblica democratica.

S

segue a pagina 7

Per la prima volta un afro-americano si insedia alla Casa Bianca. Sulla sua presidenza si accendono aspettative messianiche. Sarà davvero in grado di cambiare il corso americano del XXI secolo?

Il giorno della Storia Da pagina 2 a pagina 13 servizi con interventi di Aznar, Blair, Bottum, Henderson, Moïsi, Romano, Samuelson, Singer Tre nodi aperti sulla riforma in Parlamento

Risarcimenti, sì a un emendamento Udc

Federalismo Pasticcio Così non può del governo andar bene sulla Libia

Torino compra il 35% di Chrysler

Berlusconi: «Non è così grave il pil al -2%»

Finalmente la Fiat crede nel mercato

La guerra sui numeri della crisi

di Francesco D’Onofrio

di Marco Palombi

di Carlo Lottieri

di Franco Insardà

bbiamo ripetutamente affermato che non si può neanche iniziare a discutere seriamente di federalismo fiscale se prima - ribadiamo, prima - non si danno risposte dignitose a tre quesiti fondamentali. Primo. Diamo per scontato che il debito pubblico resti di competenza esclusiva dello Stato. s e gu e a p ag i n a 1 8

ROMA. Tutto in questa vicenda parte da

accordo tra Fiat e Chrysler, che ieri è stato ufficializzato, va salutato positivamente. Non tanto sul piano dei contenuti industriali e finanziari (che solo gli interessati conoscono veramente), ma su quello della prospettiva che sembra delineare in merito al rapporto tra Stato e industria automobilistica. seg ue a pag in a 2 1

ROMA. L’inaugurazione del padiglione

A

lontano. Inizia nel 1911 la colonizzazione italiana della Libia; data agli anni ‘50 la decolonizzazione e il primo trattato tra Roma e Tripoli; è fissato al 1970 l’arrivo sulla scena di Muammar Gheddafi e la cacciata degli italiani dalla Libia; iniziano 15 anni fa le trattative che hanno partorito l’accordo all’esame del Parlamento. s e g ue a p a gi n a 1 6

segu2009 e a pag•inEaURO 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 21 GENNAIO

CON I QUADERNI)

L’

• ANNO XIV •

NUMERO

14 •

WWW.LIBERAL.IT

dedicato a mamma Rosa al Pio Albergo Trivulzio di Milano ieri mattina ha messo di buon umore Berlusconi. Il premier-ottimista, infatti, commentando le previsioni di Bankitalia e della Ue che per il 2009 indicano un calo del Pil del 2 per cento ha detto: «La crisi economica non è così drammatica». segue a pagina 19

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 21 gennaio 2009

OBAMA 2009 L’insediamento. Nel discorso di Obama un forte richiamo all’identità occidentale, ma anche apertura a tutte le realtà emergenti

«L’èra della responsabilità» «Ci vuole un’America di nuovi pionieri: vogliamo tornare a guidare un mondo di costruttori e non di distruttori» di Barack Obama iei cari concittadini, sono qui oggi sopraffatto dal compito assegnatomi, felice per la fiducia che mi avete dato e consapevole dei sacrifici sostenuti dai nostri antenati. Ringrazio il presidente Bush per il servizio reso alla nazione e per la cooperazione che ha mostrato nel processo di transizione. Quarantaquattro americani hanno ricoperto l’incarico presidenziale, hanno parlato in tempi di prosperità e di pace. Questo ufficio viene intrapreso quando si oscurano le nubi: in questo momento, l’America non va avanti solo con le capacità dei no-

M

stri antenati, ma perché noi, il popolo, siamo rimasti fedeli alle ragioni, alle idee dei nostri antenati e al nostro documento fondativo. Così è stato e così deve continuare ad essere. Siamo nel bel mezzo di una crisi, la nostra nazione è in guerra per combattere l’odio, la violenza. L’economia si è indebolita. Le responsabilità sono di alcuni, ma anche di coloro che stanno per intraprendere il servizio nei confronti della nazione. E ogni giorno abbiamo notizie di sono avversari che continuano ad essere pericolosi per il nostro Paese, ma altrettanto profonda è la mancanza di fiducia. La paura che il declino americano sia inevitabile. La prossima generazione dovrà stare molto attenta. Oggi io vi dico che le sfide sono reali, serie e numerose e non sarà facile superarle, ma che comunque riusciremo a vincerle. Oggi ci siamo riuniti perché abbiamo scelto la speranza e non la paura. Oggi

siamo venuti a dire la parola fine alle sofferenze e discriminazioni che hanno costretto la nostra politica e l’hanno strangolata: siamo una nazione giovane, ma è arrivato il momento di mettere da parte l’incertezza, di essere determinati per portare avanti quell’idea nobile che è stata tramandata da una generazione all’altra. Dio ci ha detto che tutti sono uguali, liberi e devono avere la possibilità di raggiungere la felicità.

Oggi siamo venuti qui per dire basta alle sofferenze e discriminazioni che hanno costretto la nostra politica e l’hanno strangolata

Riaffermando la grandezza della nostra nazione noi capiamo che la grandezza non si ottiene da sola ma deve essere conquistata: non ci sono scorciatoie. Quelli che preferiscono divertirsi invece che lavorare non raggiungeranno la felicità; invece ce la faranno coloro che hanno sudato e lavorato, anche nascosti, per raggiungere la prosperità e la libertà. Per noi hanno solcato gli oceani alla ricerca di una nuova vita, per noi hanno lavorato duramente e sono morti, in Normandia. Questi uomini hanno lavorato strenuamente fino a ferirsi per una vita migliore. Questi sono gli uomini che portano avanti le nostre am-

Una casa divisa non si regge da sola

Il disco rso (di Li ncol n) che ha ispir ato i l n uovo presidente

bizioni al di sopra di ogni faziosità. E questo è il viaggio che continuiamo oggi. Siamo la nazione più forte e più prosperosa sulla Terra, le nostre economie possono non essere così produttive, ma le nostre menti sono ancora necessarie così come lo sono state le scorse settimane e gli scorsi mesi. La nostra capacità è ancora la stessa: ora dobbiamo iniziare il lavoro di ricostruzione

dell’America, uniti, insieme. Dove guardiamo c’è lavoro da fare. L’economia necessita azioni rapide e agiremo non solo per nuovi posti di lavoro ma anche per dare fondamenta a nuovi lavori. Costruiremo ponti, amplieremo le nostre reti elettriche, andremo avanti con la nostra tecnologia, sfrutteremo l’ambiente, il sole e la natura e trasformeremo le nostre scuole, le nostre università per andare incontro alle richieste di una nuova era.

l 16 giugno del 1858, i delegati repubblicani si incontrano in Illinois per la convention del partito. In questa occasione scelgono Abraham Lincoln come loro candidato, da contrapporre al democratico Stephen A. Douglas. Tre ore dopo la decisione, il futuro presidente pronuncia il discorso che passerà alla storia come “Discorso sulla casa divisa”. Persino i suoi più accesi sostenitori definirono il discorso, all’epoca, troppo radicale per l’occasione. Pubblichiamo di seguito alcuni stralci del testo, da cui il nuovo presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama ha preso spunto sia per il discorso dopo la sua vittoria elettorale che per quello che ha pronunciato proprio al Lincoln Memorial tre giorni fa.

I

Se per prima cosa noi sapessimo dove siamo, e in quale direzione tendiamo, potremmo giudicare meglio cosa e come fare. Siamo al quinto anno dal lancio di una politica che ha come scopo la fine dell’agitazione degli schiavi.

Tutte queste cose saranno fatte. Ci sono alcuni che dicono che le nostre ambizioni sono troppo alte che il nostro sistema, che non può tollerare un tale ambizioso piano. Ma hanno dimenticato quello che ha saputo fare questo Paese, quello che uomini e donne liberi possono raggiungere quando si mettono insieme con le loro capacità, le loro iniziative. Quello che i cinici non hanno capito è che le argomentazioni politiche che ci hanno consumato non si applicano più ora. Tutti i funzionari pubblici saranno responsabili di ogni dollaro che spenderanno, perché soltanto in quel momento potremo instaurare la fiducia tra il popolo e il governo. Anche il mercato è da mettere in dubbio. Ovviamente il mercato ci ha portato alla libertà, ma questa crisi ci ha ricordato che senza attenzione il mercato può andare fuori controllo. Certo, alcune misure non ci hanno portato alla prosperità: abbiamo capito che la prosperità non dipende solo dal nostro prodotto lordo ma anche dalla capacità di estendere la prosperità a tutti. Per quel che riguarda la difesa, noi rigettiamo la scelta tra sicurezza e ideali: i nostri Padri fondatori hanno affrontato pericoli

Eppure questa non soltanto non si è fermata, ma è aumentata in maniera costante. Una casa divisa al suo interno non può stare in piedi. Io credo che questo governo non possa reggere, se mantiene una popolazione divisa (fra schiavi e liberi cittadini). Non credo che l’Unione si possa sciogliere, non penso che la casa possa crollare, ma mi aspetto che la smetta di essere divisa. Deve divenire libera o in schiavitù. […]

La popolazione deve essere “perfettamente libera”, soggetta soltanto alla Costituzione. Se la Costituzione regola una materia, nessun altro deve intromettersi. Quindi dobbiamo assicurarsi che venga rispettata. Perché l’emendamento sul diritto di voto è stato bocciato nell’ambito della decisione Dred Scott [nel 1856 la Corte Suprema degli Stati Uniti fu chiamata a pronunciarsi sul caso Dred Scott contro Sanford: Dred Scott era uno schiavo che chiedeva di essere liberato in quanto era stato portato dal suo padrone in un territorio


21 gennaio 2009 • pagina 3

ra che noi abbiamo uno spirito forte e che non ci potete corrompere: noi vi sconfiggeremo. Perché noi sappiamo che la nostra eredità è la forza, non la debolezza: siamo una nazione di cristiani, di musulmani, di ebrei, di indù e anche di atei, siamo stati costruiti attraverso la diversità. Crediamo che nel momento in cui il mondo, l’umanità progredirà si rivelerà una nuova era di pace. Cerchiamo una nuova strada fondata sul rispetto reciproco. A quei leader che cercano conflitti o che ci accusano io dico che potete giudicare quando si costruisce, non quando si distrugge. A quelli che hanno raggiunto il potere con la corruzione dico che siete voi nel lato sbagliato della storia, ma noi vi tendiamo la nostra mano purchè voi non ci mostriate il pugno. Ai Paesi poveri dico che vogliamo lavorare per voi. Alle nazioni ricche dico che non possiamo permetterci la sofferenza al di là delle nostre frontiere. Il mondo è cambiato e noi siamo cambiati con esso.

inauditi per assicurare che lo stato di diritto venisse sempre applicato. Questi ideali sono ancora validi e non li daremo via. L’America vuole essere amica di ogni nazione che cerca un futuro nella pace e nella dignità. Ricordate quelle generazioni che hanno affrontato fascismo e comunismo, hanno capito che il

potere da solo non ci può proteggere e neanche serve a farci fare ciò che ci piace. Il potere cresce dalle idee e dalla giustizia della nostra causa, dalle qualità di umiltà e di forza e noi vogliamo mantenere questa eredità, guidati dai principi possiamo affrontare nuove sfide anche superiori con la coopera-

libero in cui non si poteva esercitare la schiavitù per il Compromesso del Missouri ndt]? Perché se fosse stato approvato, avrebbe sciupato la nicchia su cui si fonda quel verdetto. Perché la decisione della Corte è stata applicata? Perché persino l’opinione di un singolo senatore è stata rifiutata? Perché sarebbe stata una macchia su quella legge che regola l’elezione del prossimo presidente, e che prevede la libertà di voto per tutti.

Noi non possiamo essere del tutto sicuri che queste cose siano il risultato di un’operazione pre-concertata. Ma quando si vedono dei pezzi diversi, mossi da operatori diversi, che si incastrano perfettamente il dubbio viene. Come spigare altrimenti il fatto che posizioni diverse, leggi diverse, uomini diversi abbiano operato in maniera così perfetta da far sì che segmenti totalmente incompatibili di un singolo disegno si siano incastrati così bene? Non dovrebbe essere poi

zione tra nazioni. Inizieremo lasciando l’Iraq al suo popolo e poi con tutti gli amici e gli ex nemici combatteremo la minaccia nucleare, e anche lo spettro del surriscaldamento globale. Ci scuseremo per le nostre azioni e saremo sempre fermi sulla nostra difesa. E alle nazioni che applicano la forza diciamo allo-

ignorato il fatto che, nel decreto del Nebraska [che aprirà la strada alla Carta dei diritti civili, sancendo di fatto l’inviolabilità da parte del potere giudiziario dei principi espressi nella Costituzione ndt], c’è scritto che la popolazione di uno Stato o di un Territorio deve essere “perfettamente libero, soggetto soltanto alla Costituzione”. […] Eppure, il verdetto Dred Scott significa che gli schiavi non saranno soggetti della legge in tutti gli Stati. Che sia benvenuta o meno, una decisione del genere vuol dire

Se consideriamo il mondo che si sta sviluppando, dobbiamo dimostrare gratitudine a quegli americani coraggiosi in pattuglia ora nel deserto e nelle montagne: ci dicono qualcosa così come ce lo dicono quegli eroi, non solo perché sono stati custodi della nostra libertà, ma perché riflettono lo spirito americano, la volontà di trovare mezzi sempre più grandi. E anche in questo momento, un momento che definirà una generazione, è proprio questo spirito ci deve pervadere. Perché per quanto possa fare il governo e deve fare il governo è la fede, la determinazione del popolo americano su cui si fonda questo paese. Dico grazie agli operai che si possono anche tagliare lo stipendio pur di andare avanti, che lavorano in condizioni disperate pur di

questo, a meno che il potere dell’attuale dinastia politica non venga abbattuto. Dobbiamo iniziare a sognare, proprio come ha fatto la popolazione del Missouri. Loro sono sul punto di creare uno Stato libero, mentre la Corte Suprema ha fatto dell’Illinois uno Stato in catene. Quindi, ora più che mai, è urgente fermare questo potere politico prima che finisca il suo progetto. La nostra causa, dunque, deve essere appoggiata e condotta da coloro che le sono amici: ovvero sia, chi ha le mani libere e i cuo-

nutrire i loro figli. Le nostre sfide possono essere nuove, e gli strumenti che utilizzeremo possono essere nuovi, ma i valori su cui si fonda questo successo – onestà, lavoro duro, coraggio, tolleranza e curiosità, patriottismo – questi sono antichi, veri. Sono state la forza del progresso lungo la nostra storia. Quello che chiediamo è che si ritorni a queste verità, a una nuova era di responsabilità perchè abbiamo doveri nei nostri confronti, nei confronti della nostra nazione e del mondo. Siamo convinti che definendo il nostro carattere potremmo riuscire in un compito così difficile. Questo è il prezzo della cittadinanza, questa è la fonte della nostra fiducia. Sapere che Dio ci ha dato la possibilità di creare il nostro destino. E pensare che sessanta anni fa alcune persone non potevano neanche entrare in un ristorante: ora uno di questi si trova qui a prestare questo giuramento. È in questo momento che ci ricordiamo chi siamo e che viaggio lungo abbiamo percorso. Negli anni della nascita americana, un piccolo gruppo di patrioti si è riunito mentre il nemico avanzava e la neve era molto alta. Nel momento in cui la rivoluzione era incerta, i padri della nazione erano lì, e ora diciamo al mondo che nel pieno dell’inverno la città e il Paese, allarmati da un pericolo comune, si sono uniti. L’America è di fronte a un pericolo comune: ricordiamoci di questi momenti, con la speranza e la virtù, e affrontiamo ancora quel viaggio in mezzo alla tempesta. E sapremo dire ai nostri figli che dovevamo percorrere questo viaggio. E con gli occhi stretti lungo l’orizzonte e la mano di Dio su di noi abbiamo portato avanti quel dono, quella libertà anche per le prossime generazioni. Grazie. Dio vi benedica. Dio benedica gli Stati Uniti d’America.

ri impegnati nell’ottenere un vero risultato. Due anni fa, i repubblicani hanno superato le 130mila unità. Ci siamo riusciti grazie al singolo impulso di resistere insieme a un nemico comune, nonostante avessimo contro tutte le circostanze possibili. Nonostante si siano verificati strani, discordi e persino ostili elementi ci siamo riuniti dai quattro angoli del Paese per formare un esercito e combattere una battaglia difficile sotto il fuoco costante di un nemico orgoglioso e disciplinato.

Li abbiamo sconfitti tutti per poi ritrovarci a balbettare esitanti? Ora, proprio ora che lo stesso nemico è esitante, diviso e ancora aggressivo? Sul risultato non possono esserci dubbi. Noi non possiamo fallire. Se rimaniamo fermi nelle nostre convinzioni, non possiamo fallire. Alcuni buoni consigli potranno accelerare il finale, così come gli errori potranno ritardarlo ma, presto o tardi, la vittoria arriverà.


pagina 4 • 21 gennaio 2009

OBAMA 2009 Medioriente. Clinton e Bush hanno fatto passi in avanti soltanto a fine mandato. È ora che la presidenza si attivi dal primo giorno

Chiedo a lui e a Hillary... Blair: «Sì al ritiro delle truppe dall’Iraq. Ma senza dimenticare che la lotta al terrorismo continua» colloquio con Tony Blair di Michael Martins Tony Blair, ex primo ministro del Regno Unito, è oggi il rappresentante del Quartetto per il Medio Oriente, un’istituzione che opera per garantire la pace in questa regione. La prima domanda è quasi scontata: come è stata seguita l’elezione di Obama in Inghilterra?

Con grande interesse e non è certo un segreto. Questa elezione apre grandi prospettive sia per l’America che per il mondo intero. So che le attese sono enormi e che non sarà facile per il nuovo presidente soddisfarle tutte, ma sono certo che non mancherà di farlo. A dire il vero, alcuni capi di stato e di governo, sia in carica che non hanno rivelato di aver tifato per Hillary Clinton.. Certo, la stima nutrita nei confronti della Clinton è alta.Viene considerata intelligente e brillante, risoluta e determinata e, personalmente, nell’ambito dell’opera che svolgo per il Medio Oriente, sono felice di poter contare su du leu e su Tim Jones, il futuro consigliere per la sicurezza nazionale, poiché entrambi hanno una

profonda comprensione della situazione. Qual è il principale cambiamento della presidenza Obama? Credo - anche se non è facile rispondere a questa domanda che il fatto che un uomo di colore sia stato eletto alla Presidenza degli Stati Uniti abbia risvegliato quel sentimento popolare per cui l’America è il Paese dove tutto è sempre ed ancora possibile. Le critiche alla potenza Usa non sono mai mancate. Ma poi la gente assiste a un evento quale l’elezione di Obama e pensa che, in fondo, vi sia davvero qualcosa di interessante in quel sistema. Qualcuno pensa sia strano che abbia inserito nella sua squadra degli ex-avversari politici, come la Clinton...

Obama è sicuro del fatto suo e non si preoccupa di dover collaborare con personalità di grande fama e caratura. Tanto per capirci: non considera ingombrante la Clinton e sa che è meglio averla nella sua squadra Tanto per cominciare Obama è persona sicura del fatto suo e poi credo che sia davvero alla ricerca di risposte e soluzioni ai problemi e non si preoccupi di dover collaborare con personalità di grande fama e caratura. Non li considera, per così dire “ingombranti”e sa che è meglio averli in squadra. Di cosa avrà bisogno Hillary Clinton per essere un buon Segretario di Stato? Di mirare a un mondo multipolare. E definire una nuova agenda comune: penso ad un’America che assuma una leadership in campo ambientale. Che abbia la volontà di far passi avanti sullo schacchiere mediorientale. Penso ad un’America che voglia assumere la leadership nella gestione della crisi mondiale, ma che si aspetti il contributo di tutti i Paesi. Vede, credo vi sia un modo in cui l’America può assumere un ruolo guida, ascol-

tare le varie opinioni ed elaborare un’agenda comune, ma credo anche che il resto del mondo debba comprendere – e credo si arriverà a questo convincimento molto rapidamente con il nuovo Presidente – che l’America si aspetta anche il contributo fattivo degli altri paesi. Che cosa vorrebbe che facesse l’amministrazione

Obama per sostenerla in medioriente? Ritengo che l’unica cosa importante da fare – ed Obama lo ha già espresso in modo molto chiaro – è affrontare seriamente la questione sin dal primo giorno. Lei ha lavorato a stretto contatto con entrambi gli ex-presidenti Usa, Clinton e Bush. Obama dovrebbe tener conto di qualcuno dei loro atti? Sono state gettate delle buone basi ed è stata fatta buona parte del lavoro preparatorio. Clinton definì dei parametri chiari su


21 gennaio 2009 • pagina 5

Per Aznar, serve una vera strategia contro Chàvez, Ahmadinejad e Putin

Ora deve battere il nuovo asse del male di José Maria Aznar re sono le grandi sfide che il mondo sta affrontando: economica, politica e d’idee. Le stesse con cui si dovrà confrontare il presidente Obama. Quando è scoppiata la crisi economica, molti studiosi (e non solo) si sono affrettati a certificare il decesso del capitalismo. Dimenticando che la libertà economica è stata ed è un potente motore di opportunità e prosperità, più solido e duraturo quando va di pari passo con la democrazia e lo stato di diritto. Un motore che per “girare” bene deve poter contare su uno governo che garantisca il funzionamento delle regole del gioco confermando: certezza giuridica, istituzioni stabili e leggi adeguate. La crisi attuale, invece, è figlia soprattutto della mancanza di regole e degli errori commessi da parte dello Stato. E si potrà superare soltanto recuperando i principi della libertà, ovvero responsabilità e trasparenza. Non tutti i Paesi riusciranno ad uscirne fuori né bene né tanto meno in fretta. Ma questo attiene anche alle varie misure che ogni singolo Stato deciderà di adottare. Ma di una cosa resto convinto: il cammino per superare la crisi esige più libertà ed apertura nelle relazioni economiche, e non di meno; esige più trasparenza e responsabilità dagli economisti e non di meno; richiede un minor tasso di protezionismo e l’apertura delle frontiere. Non viceversa. Esige una politica fiscale austera dove siano i cittadini e le imprese a prendere le decisioni, e non i politici o i burocrati. Insomma: quanto più mercato, più libertà, più trasparenza e più responsabilità ci saranno, prima si uscirà dalla crisi e si imboccherà la strada della prosperità.

T

cui basare l’accordo di pace. Bush ha lavorato seriamente sul piano Annapolis e dei progressi li abbiamo registrati. In Cisgiordania l’economia è tornata a crescere. Ma entrambi hanno conseguito questi successi a fine mandato. Ecco perché Obama deve affrontarlo subito. Per quanto attiene all’Iraq? Il ritiro dal Paese promesso da Obama si realizzerà? Penso di sì. Anche perché lo scorso anno, a seguito del “surge” e di altri fattori, la situazione è nettamente migliorata. Tanto che il governo iracheno ha dimostrato di essere pronto ad assumersi le sue responsabilità. Vi è poi - ed ovviamente continuerà ad esserci - la lotta in Afghanistan. E questo fronte si collega a molti altri, tanto da farci dire che stiamo portando avanti un’unica battaglia e che quanto accade a Mumbai, in Palestina, in Libano e in Iraq, non sia scorporabile. Dunque la stabilizzazione dell’Iraq è parte della soluzione del problema. Mi sembra un po’ reticente nel dare consigli, ma vorrei chiederglielo ancora una volta: ha qualche consiglio da dare al Presidente Bush nel momento in cui si accinge ad entra-

re in una nuova fase fase della sua vita? Non c’è cosa più difficile del dispensare consigli, anche se io stesso ci sono già passato. Penso che la cosa più importante da fare sia quella di concentrarsi sulle cose che più interessano. D’altronde, quando non si ricopre più la carica di Primo Ministro o Presidente, si può decidere in misura maggiore della propria vita e del proprio impegno. Un esempio: durante il mio mandato, ho dovuto occuparmi per sei mesi di una epidemia di afta epizootica e del grave problema della cosiddetta “mucca pazza”. Ora, ero forse entrato in politica per affrontare questo problema? No di certo, ma ho dovuto farlo. Ora sono libero di occuparmi di altro. C’è qualcosa in particolare che il suo temperamento e le sue capacità potrebbero aiutarlo a fare in questa nuova fase della sua vita? Onestamente, credo davvero che spetti a lui decidere. Ma non mi stupirei se volesse continuare a dare il suo contributo implementando le sue relazioni con la Cina. E poi, che si impegnerà per difendere la libertà, che è davvero il suo principio guida.

giata drammaticamente, si è sviluppata una politica estera sempre più aggressiva. Non è un caso che, nonostante le profonde differenze ideologiche, queste nazioni cerchino di allacciare alleanze di fronte a ciò che considerano il loro nemico comune: le nazioni libere basate sulla democrazia, lo stato di diritto ed il rispetto dei diritti umani. Testimonianza di queste alleanze è la crescente vicinanza tra Chàvez, Mevdevev ed il regime degli ayatollah. E credo che sia compito comune di tutti coloro che credono nella democrazia combatterle promuovendo la sua espansione in tutto il pianeta.

Anche il mondo delle idee soffre di una crisi profonda. In seno alle società libere si sentono voci poderose che incrinano le loro stesse fondamenta. Ma i principi sono importanti. Non tutto ha lo stesso valore. Non tutto è equiparabile. Non dobbiamo cadere nel relativismo morale di chi pensa che lo stato di diritto, l’uguaglianza tra l’uomo e la donna o l’indipendenza dei giudici sia uguale al desiderio oppressore del fondamentalismo islamico. Questo relativismo debilita le fondamenta sulle quali si basa il mondo libero e costituisce una minaccia per le radici stesse dell’Occidente. È una società che perde le proprie radici, è condannata al fallimento. Sono convinto che le idee siano importanti e abbiano delle conseguenze. In politica le idee trionfano quando vengono accettate dalla maggioranza. Ma quel trionfo è valido e ne vale la pena, se queste idee sono basate su dei principi giusti. Per questo, noi che difendiamo le idee di libertà e dignità della persona, dobbiamo avere la forza di resistere a questa valanga di discorsi pieni di relativismo morale. Dobbiamo avere il coraggio di difendere le nostre idee senza alcun complesso, anche se a volte è necessario remare controcorrente. Il socialismo del XX secolo è già fallito, lasciando una eredità di miseria, povertà e oppressione. E non c’è ragione per cui non debba falire anche quello del XXI. Oggi c’è un’altra agenda: l’agenda della libertà, della democrazia e del rispetto per i diritti umani. L’agenda delle libertà individuali e della dignità della persona. È l’agenda dell’impero della legge, delle istituzioni democratiche solide, del pluralismo politico, della separazione di poteri, del rispetto alla libertà d’espressione e della apertura al mondo. Questa è l’agenda di Obama.

Alcune nazioni stanno siglando un patto per abbattere la democrazia

Ma quella che stiamo attraversando non è solo una crisi economica. È anche politica. È innegabile che la libertà, la democrazia e i diritti umani abbiano avuto uno slancio senza precedenti dall’abbattimento del muro di Berlino. Slancio a cui ha fatto seguito un’onda di prosperità globale. I nemici della libertà, tuttavia, non danno tregua. L’abbiamo visto con crudezza l’11 settembre 2001, quando i terroristi hanno “inaugurato” l’era del terrore globale. Nessuno, in nessun posto al mondo, è estraneo a questa minaccia; la tragedia di poche settimane fa a Mumbai lo dimostra. Ma il terrorismo non è l’unica minaccia per le società aperte. In alcune nazioni dove la libertà è indietreg-


pagina 6 • 21 gennaio 2009

OBAMA 2009 Carisma. Tutti si aspettano che dia nuova fiducia al mondo. Non bisogna sopravvalutarlo. Ma nemmeno sottostimare gli Usa

Il secolo delle identità Paura, umiliazione e speranza, le parole chiave dell’èra che si apre colloquio con Dominique Moïsi di Sergio Cantone

BRUXELLES. Barack Hussein Obama, scelta pragmatica per gli Usa, mito per l’Europa. Per chi ha avuto occasione di eleggerlo, nella fattispecie una maggioranza di americani, il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà trovare un rimedio a una grave crisi economica, che è quasi crisi di identità. E per chi non ha potuto votarlo (ma avrebbe tanto voluto) come una moltitudine di europei, il nuovo presidente degli Stati Uniti dovrebbe esorcizzare il vuoto di grande politica di cui soffre il vecchio continente. Secondo Dominique Moïsi, grande esperto francese di relazioni internazionali, con una profonda conoscenza degli Usa, Barack Obama è una sorta di tentativo in extremis di bilanciare tre stati d’animo. La paura, l’umiliazione e la speranza, tre emozioni che con il loro squilibrio intossicano le relazioni tra stati, nazioni e blocchi regionali. Sicché, se la paura è propria dell’Occidente, che si sente «in declino», l’umiliazione caratterizza il mondo arabo-musulmano, alle prese con una sorta di sindrome da «sconfitta». Mentre la speranza è monopolio dell’Asia, per cui «il presente è meglio del passato e domani sarà meglio di oggi» e ciò, nonostante la grande crisi economico-finanziaria. Dominique Moïsi pensa che gli Usa abbiano imboccato la strada del declino e che quindi dovranno accettare di condividere la loro egemonia sul mondo con altri attori? Credo che si possa parlare senza alcun dubbio del declino relativo degli Stati Uniti. Vale a dire, pur restando sola nel suo rango di potenza, l’America non è più quella di una volta. Dovrà quindi accettare il divenire multipolare del mondo e che accanto a lei ci siano delle potenze emergenti come la Cina, l’India, per certi aspetti la Russia e, lo spero, domani l’Unione europea. In una sua recente opera La geopolitica dell’emozione lei dice che attualmente tre stati d’animo so-

no in grado di influenzare profondamente le relazioni internazionali, fino a provocare conflitti e crisi. Sono la paura, l’umiliazione e la speranza. Obama sarà capace di riequilibrare queste tre emozioni? La questione è tutta qui. Il problema al giorno d’oggi è sapere se la cultura della speranza tornerà, grazie a Obama, in Occidente. Oppure se la cultura della paura contagerà anche l’Asia, con una crisi economica che tocca giganti come India e Cina. Barack Obama dovrà agire subito in campo economico per affrontare la crisi. Fare degli investimenti nelle infrastrutture ecologiche e abbassare le tasse per le classi medie, ce la farà a mantenere le promesse, e soprattutto, que-

tratti di qualcosa di più profondo, se il Ventesimo secolo è stato il secolo dell’ideologia e dell’America, il Ventunesimo, come lei stesso sostiene, sarà il secolo dell’identità. Non potrebbe essere questo il vero problema per gli Usa, al di là di Bush o Obama? Sì, credo che la grande sfida che ci aspetta sia quella di non sovrastimare quanto possa essere fatto da un nuovo presidente. Ma credo anche che il dovere sia di non sottostimare

Salvo che la Russia non scivoli verso un ritorno al totalitarismo, gli europei si dovranno aspettare una certa indifferenza ste misure potrebbero già essere un buon inizio ? Si tratta di misure inevitabili, seppur contraddittorie, perchè il problema principale per gli Usa è il suo enorme indebitamento. Dunque, dovranno esser adottate dal presidente per rilanciare l’economia e per ristabilire la fiducia. Questi provvedimenti faranno crescere ulteriormente il debito degli Stati Uniti. Ma penso che gli americani si aspettino che Obama ridia fiducia all’economia. Poi c’è anche il mondo, si aspetta moltissimo dall’America. Per questa ragione il compito di Obama è doppio, dovrà infatti riconciliare gli americani con loro stessi e l’America con il mondo. Lei crede che la questione sia semplicemente legata alla personalità di un presidente? Non crede che si

la capacità di mobilitazione, non solo di un uomo, ma di un Paese. L’America ha una capacità di reazione superiore a quella europea. Si tratta di una qualità senza dubbio più vicina a quella dell’Asia, come mostrato all’indomani della grande crisi finanziaria del 1998. Negli Usa in questo momento c’è l’incontro tra un uomo e un Paese, tra un uomo e la cultura. E in fondo non è un caso che Obama sia arrivato al potere negli Usa e non in Fran-

cia e in Germania. Lui incarna il sogno americano, ma l’America era pronta a questo. E proprio perché un Obama europeo è così difficile da immaginare, non crede che malgrado tutte le speranze nate in Europa attorno alla sua personalità, le relazioni transatlantiche potrebbero diventare più difficili? Sul piano dell’azione politica, c’è un incontestabile avvicinamento tra gli Usa e l’Ue, che si è

già verificato nel secondo mandato di Bush. Ma sul piano delle emozioni l’America sceglie la speranza proprio nel momento in cui l’Europa tende a rinchiudersi nelle sue paure. Ci sarà quindi un divario crescente tra gli Usa e l’Europa? Nel caso in cui le politiche di Obama funzionino e rimettano in moto la macchina americana, l’Europa la seguirà oppure no? Ebbene, nella seconda ipotesi si potrebbe consumare il divorzio di cui ho appena parlato.


21 gennaio 2009 • pagina 7

Troppe aspettative provocano le parole e le prime decisioni di Obama

Ma non consideratelo un nuovo messia di Michael Novak segue dalla prima E che trova maggiore corrispondenza con quei sistemi basati sul culto della personalità. Ogni giorno, il presidente Obama trova una nuova maniera per paragonarsi ad Abramo Lincoln, il grande eroe dell’immaginario americana, ammazzato con una pallottola al Ford’s Theatre nell’Aprile del 1865. Ma Lincoln fu il primo presidente repubblicano, nonché l’autore della più sanguinosa guerra nella storia degli Stati Uniti. La guerra civile del 18611865, un conflitto utile “a salvare l’Unione” ma che significò anche la fine della schiavitù. Lincoln è stato il più coraggioso e di gran lunga il più sofferente dei nostri presidenti; ma ai suoi tempi anche il più disprezzato. La sua fine è stata tragica. Oggi, invece, come riportato da alcuni membri dello staff presidenziale ai vari giornalisti, Obama si aspetta che le parole del suo discorso inaugurale siano scolpite sul marmo. Potrebbe succedere. Ma una simile aspettativa spiega l’atmosfera di cui ho parlato e che ha contagiato praticamente chiunque, non solo a Washington. Nessun presidente è mai arrivato nella capitale con un tale consenso e così tante aspettative di una rapido cambio di rotta. Nel gennaio del 1992 sono stato invitato a fare un discorso per il Renaissance weekend davanti al presidente eletto Bill Clinton e il suo “copresidente”(due al prezzo di uno, insomma). In quella occasione dissi ciò che ripeto anche oggi: c’era troppo entusiasmo nell’aria e una fastidioso tentativo di paragonarsi al John F. Kennedy degli anni Sessanta. In tutta la mia vita, ogni presidente arrivato al soglio della Casa Bianca con grandi speranze è caduto nella polvere prima del termine del suo mandato. Kennedy. Johnson. Nixon. Ford. Carter. Reagan (con il sopravvalutato Irangate). Bush I. Clinton. Bush II. Il lavoro da presidente sembra andare a braccetto con la tragedia. Nessun uomo può onorare tutte le speranze con cui arriva alla Casa Bianca. La sua stessa forza spesso lo umilia. In questo caso, l’incredibile forza del neo presidente Obama sta nellla sua straordinaria capacità di costruire un mito intorno alla sua persona e nel suo indubbio talento di seduttore delle folle. La sua caduta, insomma, potrebbe rivelarsi davvero triste... e dunque non posso che fargli i migliori auguri di buona fortuna davanti alla crisi economica. Fortuna che già fa capolino dopo le ulime mosse di Bush, sia in termini di occupazione sia in termini economici. Ecco perché credo che il suo staff abbia fatto male ad accanirsi contro il presidente uscente. (...) È venuto il momento di passare dal pessimismo della campagna elettorale, alla concretezza per far mi-

gliorare le cose, facendo leva sugli aspetti positivi. E Obama potrà contare anche sulla fortuna di avere la stampa pronta ad enfatizzare ogni suo gesto ”progressita”.

I presidenti americani sono, inevitabilmente, “simili”a Cristo.Tutti devono soffrire e infine cadere. La natura umana, come dice il poeta, non porta grandi successi. Si può sperare che il nuovo presidente, che possiede un’acuta intelligenza, sappia cosa il destino ha in serbo per lui – si prenda del tempo per capire cosa deve correggere, rispetto ai temi della campagna elettorale, mettendosi in linea con la realtà delle cose. Ci sono già dei segnali di questo processo – sulla volontà di proteggere la transizione in Iraq, sulla politica di difesa del suo Paese dagli attacchi terroristici, sulla ricerca dei benefici di una politica fiscale “leggera”, tanto per citare i temi più noti. Ma ci sono anche dei segnali che indicano che lui e il suo staff hanno ancora molto da imparare, per capire il mondo per quello che è veramente. Ha decisamente trascurato alcune delle tradizionali cortesie e abitudini politiche che un presidente deve ai singoli senatori. Il “mantra” del change è una costruzione simbolica che non fa differenze. Ci sono alcuni punti saldi della vita americana che, se venissero scardinati, arrecherebbero un danno ad Obama e al Paese. Abramo Lincoln ci ha insegnato che nascere in un casolare sulle ruvide colline del Kentucky non è un ostacolo alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti. Il potere è passato di mano, in modo pacifico, da un’amministrazione all’altra, per ben 44 volte nella storia americana - compresa la prima, in cui a George Washington erano stati conferiti ampi poteri dalla nuova Costituzione. Un passaggio fatto sempre con un entusiasmo popolare di cui la Costituzione non fa menzione – a meno che non si consideri la Costituzione scritta nel cuore e nel costume degli americani. Leges sine moribus vanae. Su questi – e tanti altri consigli pratici, imparati dai presidenti negli anni (sulla politica di riconciliazione, sugli effetti della spesa pubblica sull’inflazione) Obama è stato edotto tanto da non poterli eludere. La tradizione sopravvive solo nel cambiamento. Ma cosa eliminare e cosa lasciare in vita, appartiene ad una delle arti umane più difficili da coltivare e metter in pratica, come credo abbia affermato Aristotele. Il primo saluto dedicato dagli americani a Washington è lo stesso da gridare oggi per il nuovo presidente Obama: «Huzza! Huzza! Huzza!» (equivalente di hurrà). Con un po’ di tristezza per ciò che ci riserva il futuro.

Nessun presidente è mai arrivato nella capitale con un tale consenso e così tante attese per un rapido cambio di rotta. Fa una certa paura

In alto: Obama vuole rappresenun treno indiano tare il nuovo. Non pensa decisamente che proprio per questo sovraffollato. sarà tentato di stabilire delle relazioni più profon- Per Moïsi, direttore de con quella parte di dell’istituto francese di relazioni mondo da dove viene il internazionali, nuovo, cioè l’Asia ? tutta la regione Penso che nelle priorità ameriasiatica cane ci siano senza dubbio l’Arappresenta, sia e l’Africa: quest’ultimo è il simbolicamente, continente da dove viene suo la speranza. padre, ed è stato abbandonato a sè stesso troppo a lungo. In- Mentre in Occidente regna la paura teressarsi all’Africa, ridare la e nel Medioriente speranza all’Africa, va al di là l’umiliazione. dell’Africa, e per chiare ragioSolo trovando ni: il Medioriente allargato con una risposta la sua questione centrale. Obama si occuperà prima di a questi sentimenti, Obama potrà tutto del conflitto israelo-palestinese, oppure cercherà di tentare di infondere nuova linfa chiudere con le due guerre nelal pianeta le quali l’America si trova e inaugurare coinvolta, l’Iraq e l’Afghaniun nuovo corso stan. Tutto ciò ci porta a una della storia. conclusione, per noi europei A sinistra: piuttosto dolorosa, a Obama una festa cinese non interessa l’Europa, ma si interessa agli europei e a come questi possano contribuire al ruolo mondiale degli Usa. Quindi, salvo la Russia non scivoli verso un ritorno al totalitarismo più duro e più aggressivo, gli europei si dovranno aspettare una certa indifferenza verso di loro. © Euronews


pagina 8 • 21 gennaio 2009

OBAMA 2009 Per il Nobel, la sua popolarità sarà fondamentale

Ob i et ti vo 2 01 2 . Du e co n si gl i p er vi nc e re c on u n “n u o vo ” Ne w D ea l di Paul Samuelson

alla Grande Depressione abbiamo imparato una lezione. La risposta debole del presidente Hoover permise alla debole Recessione di Main Street del 1930 di divenire, da metastasi, un cancro maligno: una depressione di durata ben più lunga. Nei tre anni successivi al 1929, con il crollo delle Borse statunitensi e mondiali, si sprecò talmente tanto tempo da richiedere il salvataggio del capitalismo con il New Deal di Franklin Roosevelt. La squadra del presidente Obama non commetterà lo stesso errore di Hoover. Spero che la minoranza repubblicana raccolga la sfida di promuovere quei necessari programmi di deficit-spending per la produzione e le famiglie. Queste spese dovranno essere a breve e a lunga scadenza. I miei insegnanti di economia di Chicago negli anni ’30 erano scettici a formulare buoni consigli perché, prima del 1929, i cicli degli affari erano stati di norma moderati. I macroeconomisti di oggi hanno una capacità di reazione più veloce. La soddisfazione degli economisti della Ivy League si è velocemente indebolita quando le banche centrali, con le loro determinate

D

ortodosse manipolazioni di credito, hanno mantenuto moderati i cicli di affari.

La dolorosa realtà ha epurato la credenza secondo cui la spesa del deficit fiscale è soltanto uno strumento secondario di ripresa. Non credete a quel discorso su come la fiducia, da sola, può catapultare il mondo della produzione e della famiglia verso la ripresa del lavoro e l’aumento delle paghe. Discorsi non sostenuti da azioni genuine alimentano soltanto la delusione. A quanto ammonterà alla fine il costo della spesa necessaria? Nessuna giuria di esperti è in grado di stabilirlo. Quello che è certo è che spendere poco nel breve e lungo termine peggiorerà il tasso di inflazione futuro e il debito pubblico. Versare dollari per spese preventive farà risparmiare più dollari per spese successive. I non economisti sono fuori strada quando parlano di far ripartire l’economia. Non serve a nulla ricaricare una batteria scarica dell’auto se non si ha abbastanza carburante per camminare. Un altro errore sta nello sperare di raggiungere la ripre-

Valori. La battaglia sull’aborto scatena democratici e repubblicani. Che devono imparare a non mettere da parte una questione giusta per tutti

La frontiera della vita Obama è il presidente meno pro-life mai eletto negli Usa Perché vede la questione da un profilo politico, non morale di Joseph Bottum ccade ogni quattro an- L’elezione del 2008 ha sancito un candidato che ha rifiutato ni: quando c’è un’ele- la vittoria di Barack Obama, il persino la versione dell’Illinois zione, gli esperti politi- più coerente sostenitore della del Born Alive Act - la legge ci si improvvisano ora- legalizzazione dell’aborto mai che forza i filoabortisti in una tori e proclamano la morte del- candidato da un importante posizione insostenibile - allora la politica pro-life. Aver sentito partito. E ciò sembra dare più non riusciranno a sconfiggere questo stesso ritornello dopo incisività e mordente all’as- proprio nessuno. Non ci sono le elezioni degli ultimi 20 anni sunto che vuole finita la batta- dubbi sull’approvazione della fa pensare che si tratti di un al- glia sull’aborto. Se gli elettori legalizzazione dell’aborto da larme, più che di una vera ana- favorevoli alla tutela della vita parte del nuovo Presidente. lisi. Dopo l’elezione del 2004, non sono riusciti a sconfiggere Durante la campagna presiche “si giocava sui denziale Obama si è valori”, i democratirifiutato persino di ci hanno fatto preusare compromessi sente la necessità di di tipo verbale. La accrescere l’interesrisposta dal sapore se degli elettori proun po’ militare data al Saddleback Folife nei loro conrum - quando ha fronti. Per questo detto di non sapere motivo, gli antiabortisti si sono diquando inizia la vimostrati disposti a ta perché non spetta CITTÀ DEL VATICANO. Papa Benedetto XVI ha un qualche comproa lui pronunciarsi in voluto mandare un messaggio di auguri a Barack messo: un fatto cumerito - ha dimoObama, nel giorno del suo insediamento. In un rioso, considerata la strato che ha intetelegramma inviato al neo-presidente subito priposizione standard riorizzato la partima della sonstuosa cerimonia di insediamento, colare logica delle Joseph Ratzinger ha assicurato le sue «preghiere assunta dai mezzi sentenze Roe vs. in questa alta responsabilità». Più nello specifico, di comunicazione Wade e Casey vs. riconoscendo agli Stati Uniti un ruolo centrale sul tema, che dipinPlanned Panello sviluppo mondiale anche dal punto di vista ge come estremista renthood, che defispirituale, il Papa ha aggiunto: «Possa il popolo la posizione favoreniscono le leggi americano, sotto la sua leadership, continuare a vole alla tutela della contro l’aborto trovare nell’impressionante eredità religiosa e vita. Tuttavia il quapolitica, i valori spirituali e i principi etici necesun’ingerenza indedro generale è chiasari per cooperare nella costruzione di una sobita e incostituzioro ormai da più di cietà veramente giusta e libera segnata dal rispetnale da parte del venti anni: il partito governo in decisioni to per la dignità, l’uguaglianza e i diritti di ognuDemocratico sostieno dei suoi membri, specialmente i poveri, gli metafisiche del tutne la sentenza Roe vs. Wade e quello esclusi, e coloro che non hanno voce». to private. Ma la liRepubblicano no. nea da lui sostenuta

A

Un telegramma di Benedetto XVI

«Etica e spiritualità nel suo futuro»

Benedetto XVI. In un telegramma inviato ieri a Barack Obama, ha auspicato che l’America «possa mantenere la propria eredità e i principi etici necessari per cooperare nella costruzione di una società più giusta»

in precedenza in merito al fatto di non voler affatto che le ragazze giovani che commettono un errore «siano punite con la nascita di un bimbo» ha dimostrato che ha interiorizzato anche ciò che sta alla base di queste sentenze: una visione del mondo nel quale la vita non è un dono, bensì un fardello. In tema di aborto, il sostegno di Obama è così radicato che neanche in pubblico può fare a meno di rivelarlo. Non è un fanatico: rappresenta il prodotto finale di un sostegno convinto, e senza concessioni, nei confronti dell’aborto. Un uomo per il quale la questione

stessa dell’aborto qualcosa di irreale.

sembra

In un certo senso, per lui, non si deve scendere a compromessi con gli antiabortisti o combatterli. Piuttosto, si devono dissipare con spiegazioni esaurienti i loro timori e considerare la loro posizione favorevole alla vita come un qualcosa che scomparirà man mano che arriveranno a comprendere le vere cause dell’amarezza e del disagio economico e sociale che hanno associato all’aborto in modo ignorante e intollerante. Il risultato è già chiaro: il nuovo Presiden-


21 gennaio 2009 • pagina 9

sa «iniettando carburante nella pompa». Una salutare spesa del deficit non si deve fermare a una sola volta. Deve necessariamente essere rinnovata con spese nel corso degli anni per prepararsi ad una ripresa multipla. L’eredità del presidente Bush agli americani è caratterizzata da un’avversione universale al rischio così come da milioni di dollari di debito che non sarà mai pagato. Obama e il Congresso dovranno ricreare da capo una spesa di mercato che permetta all’America di mantenersi da sola. I critici di Roosevelt pensavano che gli sprechi avrebbero messo in ginocchio l’America per sempre. Si sbagliavano. Anche prima di Pearl Harbor, l’economia americana divenne la centrale elettrica che salvò il mondo dalla vittoria di Hitler. I soccorsi del New Deal hanno generato gli azzardi morali della fine degli anni ’30? Secondo gli storici economici non è stato così. Il presidente Obama si trova di fronte a una dura prospettiva. I suoi predecessori diranno «Non spendere troppo». Ma non entrano in aula con le mani pulite. La popolarità di Roosevelt

tra gli elettori fu fondamentale per la conquista dell’America sulla Depressione.

Speriamo che i critici emergenti di Barack Obama non rimanderanno e non comprometteranno il ritorno alla prosperità per il 2012 o prima. I travagli di oggi ci fanno tornare indietro direttamente alla vittoria elettorale di Reagan. Un presidente anziano circondato da sostenitori provvisori della destra radicale che piantarono il seme della deregulation del mercato di Bush. Bush padre e figlio arrivarono alla Casa Bianca con la nozione sconsiderata che il governo è il problema, non la soluzione. Questo pensiero è stato nocivo per la prosperità del mondo della produzione e della famiglia. Periodicamente lo stile di vita statunitense si è discostato dal reaganismo.Verso la fine degli anni ’90, il centrismo di Bill Clinton tramandò a George Bush figlio sia un bilancio fiscale equilibrato che un’innovativa economia in salute. Soltanto il presidente Obama può farci tornare a queste solide condizioni. Le nuove generazioni di elettori dovranno combattere questa giusta battaglia.

stati l’unico gruppo che è rimasto coerentemente fedele ai repubblicani. Come ha sottolineato Karl Rove, «dovrebbero essere ignorate le richieste di abbandonare il conservatorismo sociale, compresa la nostra agenda a sostegno della vita. Questi valori sono spesso più popolari del partito Repubblicano stesso. I repubblicani, nel perorare questi valori, devono dimostrarsi moralmente seri piuttosto che critici severi ed intolleranti». Entrando nel merito della questione, questo consiglio è probabilmente inutile. Senza resistenze da parte della Casa Bianca, i democratici al Congresso sono certi di riuscire ad andare ben oltre le posizioni dell’opinione pubblica sulle questioni della vita. E quando lo faranno, i repubblicani saranno costretti a dare ri-

Dopo il voto, si dichiara finita la battaglia sull’aborto. Che non finirà finché non cesserà il massacro delle vittime non nate

te eliminerà tutte le restrizioni in tema di finanziamenti federali alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Nel lontano 1992, Clinton affidò le politiche sociali all’estrema sinistra. Tutto fa pensare che Obama farà la stessa cosa. Il Freedom of Choice Act, attualmente all’esame del Congresso, è il provvedimento più estremista mai visto negli Usa: rende nulle ed inefficaci le restrizioni in tema di aborto. Obama ne è stato uno dei fautori al Senato e nel luglio scorso annunciò: «La prima cosa che farò da Presidente è firmare il Freedom of Choice Act».

Le nomine di Rahm Emanuel, di Hillary Clinton e di Lawrence Summers indicano la volontà di Obama di resistere all’agenda “sinistrorsa” dei membri più radicali del suo partito. Tuttavia, sulla questione dell’aborto e della tutela della vita, non ha dato segnali di questo tipo. Ad esempio, Nancy Pelosi alla Camera e Dianne Feinstein al Senato sono certe di riuscire a inserire, nella riforma dell’assistenza sanitaria, disposizioni che rendano obbligatoria la formazione dei medici in tema di aborto e i servizi per l’aborto negli ospedali. E se da un lato i consulenti politici di Obama

potrebbero dolersi delle obiezioni che ne deriveranno, dall’altro il Presidente stesso vedrà la questione solo come un problema di politica elettorale, e non di costituzionalità o etica. Dovendo affrontare questa situazione, il partito Repubblicano deve prestare ascolto a coloro che consigliano di non liquidare le questioni della vita. Molti fattori hanno contribuito alle vittorie democratiche del 2006 e del 2008, ma fra questi non vi è stata affatto l’opposizione all’aborto.

Infatti, gli elettori con posizioni a sostegno della vita sono

salto all’estremismo dei democratici. È una pressione insita nella politica dell’opposizione, e terrà sempre alla ribalta dei media le questioni della vita. Nel frattempo, che cosa dovrebbe fare il movimento prolife? I ragionamenti e le argomentazioni offerti da alcune delle figure pubbliche cattoliche che hanno sostenuto Obama sono stati pessimi, ma non per questo dovremmo ammettere il vincolo perpetuo fra la causa pro-life e il partito Repubblicano. I repubblicani hanno fatto del bene e del male alla causa, ma, tutto considerato, i risultati non hanno ripagato in pieno il sostegno che i fautori della tutela della vita hanno dato al partito nel corso degli anni. Le future battaglie non la-

sciano prevedere nuova serietà da parte dei Repubblicani. Predicano meglio di quanto non razzolino, per lo meno al Congresso, e spesso hanno fatto meglio in tema di vita quando non erano al potere che non il contrario. La politica dei democratici in materia determinerà in parte il ritorno degli elettori del conservatorismo religioso e sociale al partito Repubblicano a livello nazionale.

Tuttavia, in termini generali, la vittoria di Obama significa che la lotta a tutela della vita non sarà sulla ribalta nazionale nei prossimi anni. Alcuni rappresentati del movimento a favore della tutela della vita hanno pensato che fosse giunto il momento di “forzare la situazione” – con un testo unico del Congresso o un referendum statale - che inducesse la Corte Suprema a sovvertire la sentenza Roe vs.Wade. Ora una tale ipotesi deve essere accantonata. È piuttosto nelle legislature statali e nelle iniziative dei candidati locali che il movimento ha le migliori possibilità di registrare progressi. Siamo tornati più o meno alla situazione del 1992. Per alcuni versi siamo in una situazione migliore: ad esempio, l’argomentazione degli intellettuali anti-Roe è oggi più forte e completa. Ma per altri versi, ci troviamo in una situazione peggiore: Barack Obama non è Bill Clinton. Dopo ogni elezione, arrivano in coro le voci di coloro che dichiarano ormai finita la battaglia sull’aborto. E puntualmente questa previsione si rivela errata. Il motivo è che, nel lungo periodo, la battaglia non finirà finché non cesserà il massacro di queste vittime non nate. Ma c’è anche un’altra ragione: i filoabortisti non si accontenteranno soltanto della loro vittoria elettorale. Andranno sempre avanti finché alla fine non riusciremo a fermarli. Direttore di FIRST THINGS


pagina 10 • 21 gennaio 2009

OBAMA 2009

Occidente. Tutti i leader del Vecchio continente guardano verso un nuovo multilateralismo. Ma Obama punterà sull’Asia

From Europe with love

Economia, clima, Medioriente: serve un nuovo rapporto privilegiato Ma ci sarà da battere la concorrenza dei giganti emergenti: Cina e India di Enrico Singer ancora il momento della festa, dei programmi e della pioggia dei messaggi d’auguri. Ma presto arriverà il momento delle mosse concrete e l’Europa che ha scommesso su Barack Obama – sia quella tradizionalmente filoamericana, sia quella che spera in una rottura netta con la politica di George Bush – lo attende finalmente alla prova. Henry Kissinger, che di presidenti americani se ne intende, ha scritto che la trionfale marcia di Obama fino alla Casa Bianca «definisce un’opportunità, non ancora una politica» e c’è anche chi già mette in guardia da un ottimismo troppo facile. «Le maggiori delusioni scaturiscono dalle speranze eccessive», ha detto Vladimir Putin ricordandoci che la Russia è e rimane un interlocutore-concorrente degli Usa che pretende da Washington l’abbandono del piano per realizzare un nuovo sistema di difesa missili-

È

stica con basi in Polonia e Repubblica ceca e che si oppone all’ingresso di Georgia e Ucraina nella Nato. Ma se la posizione di Putin è, in qualche modo, scontata, quella degli europei è più complessa.

sionaria, del suo carisma di leader, della sua giovinezza, delle sue promesse di novità. Di tutto ciò che, in fondo, da questa parte dell’Atlantico è molto raro. Neppure Bill Clinton, che con l’Europa ha condiviso le guerre balcaniche, era L’Europa, che ha paura di riuscito a suscitare un simile cambiare e di sognare in pro- entusiasmo. Tantomeno Roprio, si è innamorata di Barack nald Reagan e Bush padre che Obama, della sua capacità vi- – anche se molti adesso sembrano averlo dimenticato – sono i presidenti ameIl premier ricani che hanno britannico reso possibile la Gordon Brown. Capo del partito riunificazione dell’Europa. L’inLaburista, namoramento deè succeduto gli europei non è a Tony Blair il 27 giugno 2007, senza motivo. Tutti i messaggi che al termine Obama ha lanciadi un “processo to, dai giorni della di successione” campagna elettodurato circa rale fino a ieri, soun anno no diretti all’Europa oltre che agli

Usa. Dalla necessità di abbattere i muri a quella di ricostruire una vera solidarietà atlantica, dalla richiesta di aiuto in Afghanistan all’apertura verso la Russia fino all’impegno per combattere il riscaldamento del pianeta. Come se l’America e l’Europa fossero già quell’“unicum” che vorrebbero essere e che non sono: quello che comunemente chiamiamo l’Occidente, ma che su troppi capitoli è tutt’altro che unito. L’ultimo gesto di seduzione di Obama verso gli europei è stato il riconoscimento che la difesa dall’inquinamento sarà una priorità anche per gli Stati Uniti. Ancora prima della guerra in Iraq, il divorzio tra Bush e buona parte dell’Europa cominciò proprio con il rifiuto americano di ratificare il protocollo di Kyoto. Una chiusura interpretata come l’atto tracotante di chi non vuole pagare il conto dei danni che produce, mentre gli europei trovavano faticosamente un’in-

tesa sul taglio delle emissioni di gas serra.

L’innamoramento diventerà vero amore? Da parte europea, ci sono tutte le premesse per rispondere di sì, ma ci sono anche dei segnali contrastanti come quelli lanciati dal presidente francese appena la scorsa settimana. È corretto dire, come ha fatto Nicolas Sarkozy, che l’America non è più l’ombelico del mondo. Ma una cosa è sottolineare un mutamento dei rapporti internazionali che, con una formula, si può riassumere nella fine dell’unilateralismo americano, e altra cosa è voler quasi precostituire le basi di uno scontro tra una visione eurocentrica e una atlantica. È giusto avere aspettative di cambiamento dalle azioni che la nuova amministrazione metterà in atto: sarebbe sbagliato pretendere che Obama si comporti come vogliamo noi. L’unilateralismo non va rovesciato, ma so-


21 gennaio 2009 • pagina 11

Secondo Sergio Romano, lo stallo Usa-Russia si risolve soltanto passando dallo scudo missilistico in Ucraina e Polonia

«Ora deve risolvere i problemi con Mosca» colloquio con Sergio Romano di Francesco Capozza

ROMA. «Inizia una nuova stagione per gli Stati Uniti e per il mondo, ma credo che, tutto sommato, la presidenza Obama non si distanzierà molto dalle precedenti. Anche questa amministrazione punterà tutto sulla necessità di conservare la leadership mondiale». Ne è convinto Sergio Romano, ambasciatore, editorialista e scrittore esperto di politica estera e di Usa. Ambasciatore Romano, prima di parlare della nuova amministrazione, il cui insediamento è iniziato con il giuramento di Barack Obama, vorrei chiederle un’opinione sintetica sulla presidenza Bush. Se mi fa una domanda così diretta non posso che risponderle in maniera altrettando diretta. La presidenza Bush non è stata positiva. I suoi principali fallimenti riguardano la politica estera. Ha lasciato tre grandi questioni irrisolte: l’Iraq, una guerra tutt’altro che vinta, l’Afganistan, e, ovviamente la questione palestinese.Tutto ciò non ha nuociuto soltanto all’immagine americana ma anche a quella di tutta l’area atlantica. Più si avvicinava l’avvento di Obama alla Casa Bianca e più la popolarità di Bush crollava. Non trova bizzarro il fatto che anche i più forti sostenitori dell’ex capo di Stato oggi si ritrovino a benedire l’avvento del primo presidente afroamericano? In Italia si parlerebbe di ”trasformismo”, in America, invece, è ”patriottismo”. Sicuramente adesso Obama ha due americani su tre a favore e la contingenza politica ed economica richiede coesione. Credo, però, che la presidenza Bush se non sarà riabilitata sarà

quanto meno valutata anche per i suoi aspetti positivi. È un pò la “legge del rimbalzo”. Dopo tanto parlar male di un uomo, sono certo che si rivedrà il giudizio storico. Addirittura John McCain, l’acerrimo rivale nella corsa alla presidenza collaborerà con la nuova

Berlusconi e tutto il governo pagheranno lo scotto di aver voluto instaurare un rapporto troppo personale con Bush amministrazione. I repubblicani non esistono più, politicamente parlando? Come le dicevo c’è una certa volontà di coesione per il bene della nazione. Non escludo, tuttavia, che ci possano essere anche delle ambizioni personali, da parte di molti esponenti repubblicani, di rimanere “amici” della nuova amministrazione. Detto ciò, non credo che l’establishment repubblicano si sia dissolto. Anzi, credo il contrario: ben presto ci sarà una nuova leadership forte nel partito che si rialzerà. La storia ce lo insegna. A suo avviso se l’amministrazione Bush avesse agito diversamente e se il suo mandato non si fosse concluso in

tibilità delle nuove e rampanti potenze asiatiche. Se la crisi economica rimane per Obama la priorità delle priorità, le tre settimane di guerra nella Striscia di Gaza hanno proiettato la questione israelopalestinese, e del Medio Oriente più in generale, al primo posto nell’agenda degli interventi. La speranza europea è che con Obama - e con Hillary Clinton alla guida del Dipartimento di Stato - Washington possa tornare a svolgere un ruolo cruciale. Non dimentichiamoci che gli accordi di Oslo furono mediati da Bill Clinton e che, almeno finora, la maggiore apertura di credito alla nuova amministrazione è arrivata proprio da Gerusalem-

La Cancelliera tedesca Angela Merkel. Nel 2007, è stata al vertice del Consiglio Europeo e presidente del G8. Ha giocato un ruolo fondamentale nei negoziati per il Trattato di Lisbona

stituito da una vera partnership atlantica. E questo non sarà facile perché la crisi economica mondiale sta già alzando il tasso di protezionismo e di egoismo nazionale; perché ci sono divergenze oggettive su temi cruciali, a partire dalla parità euro-dollaro; perché Washigton avrà difficoltà a creare un legame privilegiato con la vecchia Europa senza irritare la suscet-

maniera così catastrofica, Obama avrebbe vinto lo stesso? No, credo proprio di no. Non va dimenticato che la sua candidatura aveva numerosi handicap, dal colore della pelle alla potenza mediatica ed economica dei Clinton, che inizialmente hanno molto osteggiato la sua candidatura. La crisi della popolarità dell’amministrazione uscente è stato, a mio avviso, un fattore significativo per la vittoria del candidato democratico. La crisi economica, poi, pur non attribuibile in prima persona a George W. Bush o alla sua amministrazione, è stato il colpo di grazia alla popo-

me che ha dichiarato la tregua unilaterale giusto in tempo per non coprire col rumore delle armi la festa dell’inauguration day di Barack Obama.

Vedremo quali saranno le mosse americane: per noi europei l’importante sarà coordinare le azioni senza cedere alle tentazioni di protagonismo. Va bene partecipare in massa al vertice di Sharm el Sheik e volare poi in Israele per affermare il ruolo indispensabile dell’Europa nella marcia, difficile, verso la pace. Ma non bisogna cadere nell’illusione di farlo da soli. Quella che va ricercata è una dimensione nuova in cui ci sia uno spazio importante per sinergie tra Ue e Usa anche nell’ottica dei rapporti con l’Iran, oggi più che mai Paese-chiave negli equilibri politici della regione. Che il regime fondamentalista di Teheran sia dietro Hamas – e Hezbollah in Libano – e lo rifornisca di armi è ormai a

larità dell’ormai ex presidente. Qualche polemica è scaturita dal fatto che Silvio Berlusconi ha deciso di non presenziare alla cerimonia di giuramento di Obama. Questo mi porta a chiederle una sua opinione sui rapporti che ci saranno tra la nuova amministrazione americana e il governo italiano. Queste sono polemiche di casa nostra e basta. Vorrei tanto vedere questa lunga lista di capi di Stato da cui Berlusconi si sarebbe sfilato. Secondo me ha ragione il premier quando dice che a Washington avrebbe fatto «la comparsa». Per quanto riguarda, invece, la seconda parte della domanda, credo che Berlusconi ed il suo governo pagheranno lo scotto del fatto che lui ha instaurato un rapporto troppo personale con Bush.Tuttavia, è vero pure, che l’uomo è particolarmente bravo nei rapporti umani e credo che il suo “appeal“ farà presto breccia anche in Obama. In un’Europa sempre più forte politicamente ed economicamente, quali saranno i rapporti con la nuova presidenza? Credo che ad Obama converrà un multilateralismo anche se ritengo plausibile che voglia mantenere ben salda la leadership dell’America. Lei è, che stato ambasciatore a Mosca, come pensa che saranno i rapporti degli Usa con la Russia di Vladimir Putin? I rapporti Usa-Russia sono in uno stallo che non si vedeva da tempo, se il nuovo presidente dovesse rivedere la posizione americana sulle basi antimissilistiche in Polonia e Repubblica Ceca, credo che si possa auspicare un ritorno alla consueta “amicizia”.

regole del gioco, dopo che la deregulation dei mercati, sponsorizzata senza riserve dall’America – non solo quella di Bush – ha portato a una crisi senza precedenti. Ci sarà intesa? La prima verifica è fissata per il summit del G20 che si terrà a Londra il 2 aprile prossimo. Ma Ue e Usa dovranno confrontarsi su un altro fronte Il premier caldo: quello degli italiano, Silvio aiuti alle industrie Berlusconi. automobilistiche. Nominato per Per evitare che i la quarta volta sostegni pubblici nel maggio che le aziende di del 2008, Detroit reclamasi appresta no – e che Obama a guidare sembra intenzioil prossimo G8. nato a concedere Con gli Usa «ha un rapporto – per non licenottimo da anni» ziare milioni di persone diventino armi di una perisere le risposte all’emergenza colosa battaglia commerciale. economica. La Ue chiede a Wa- Ma oggi è ancora il momento shington di riscrivere insieme le della festa e delle speranze. tutti evidente: in giugno in Iran ci sono le elezioni presidenziali, a trent’anni esatti dalla nascita della Repubblica islamica. E la partita diplomatica – preannunciata anche da Obama e Hillary – deve essere concordata tra Europa e Usa. Come concordate dovranno es-


pagina 12 • 21 gennaio 2009

OBAMA 2009 er i patiti di moda la nuova Jackie è Michelle Obama. Le post-femministe la vedono come una di loro, l’avvocatessa di successo laureata a Harvard che si è calata nei panni della “mamma-in-capo” di due figlie. Le donne afro-americane sostengono che metterà fine ai vecchi stereotipi della donna nera arrabbiata che non riesce a trovarsi o a tenersi un uomo decente. L’unica persona che sfugge a qualsiasi classificazione è proprio Michelle. Che non è come le altre donne di colore che l’hanno preceduta. Non è una single stacanovista come Condoleezza Rice. Non viene dal mondo dello spettacolo come Beyoncé. È famosa, ma in maniera diversa da Oprah. «Le donne di colore dovranno costantemente interpretare chi è Michelle Obama, un’aggressiva che cerca ogni volta di sminuire la sua carriera parlando del ruolo di mamma», sostiene Guy-Shetfall, a professore Spelman College. «Sarà sempre in mezzo ai riflettori. Michelle Obama potrebbe essere l’unica first lady a richiamare parallelismi con Eleanor Roosevelt, Jacqueline Kennedy e Hillary Clinton». I suoi comunicati stampa citano la dichiarazione

P

di Nancy Reagan secondo cui ogni first lady deve definire da sola il suo ruolo – e lei farà lo stesso. Non ci sono segnali che sarà una sorta di “co-presidente” come Hillary Clinton.

Diversa dalle altre donne nere di successo come Condi Rice, saprà adattarsi a ogni situazione e ascolterà i bisogni della nazione Michelle è stata una parte attiva ed efficiente della campagna del marito, ma spesso ha fatto la timida quando si trattava di occuparsi di politica. Una volta ha detto che preferiva non entrare nei dettagli per paura di sbagliare. «Non farà la prima donna di Washington ma sarà sempre lì ad aiutare il presidente Obama nel suo lavoro di comandante in capo», dice Charles Ogletree, professore di Michelle ad Harvard. «Credo sia meglio una relazione complementare piuttosto che competitiva». Michelle ha forgiato il termine “mamma-in-capo” per spiegare quale sarà il suo ruolo alla Casa Bianca. Ma secondo gli storici dovrà fare molto di più. Le first lady inattive vengono alla fine malgiudicate. Un nuovo sondaggio CBSNews - New York Times dimostra che gli americani sono ben disposti verso Michelle, molto più che verso le ex first lady. Il 46 per cento ha un’opinione positiva di lei, mentre solo il 7 per cento è contrario. Laura Bush aveva un

First lady. Icona di stile come Jacquelin materna come Laura Bush. Nel cuore degli

Modello

L’indice di gradimento è già a con l’accento del Sud piace

Eleanor Roosevelt: la forza e la speranza

Un mito ineguagliato «Nessuno può farvi sentire inferiore senza il vostro consenso». È questa una delle molte frasi di Eleanor Roosevelt passata alla storia e destinata a trasformarla in un mito americano ineguagliato. Nata a NewYork nel 1884, sposa suo cugino, Franklin Delano Roosevelt, poi trentaduesimo Presidente degli Stati Uniti. First Lady - dal 1932 al 1945 - di un’America in bilico, sul ciglio della depressione, viene ricordata come colei che seppe mettersi in sintonia con gli americani colpiti dalla crisi, impegnandosi in prima persona nelle iniziative di rilancio dell’economia: il famoso New Deal. Nel 1921, quando il marito contrasse la poliomelite e rimase paralizzato alle gambe, la sua personalità si impose su quella della suocera, che invitava il figlio a ritirarsi dalla vita politica e a rassegnarsi al suo destino. Eleanor invece lo convinse ad andare avanti, diventandone “gambe e orecchie”. Dopo che Franklin fu nominato governatore di New York nel 1928, lei cominciò a presenziare le visite a case, ospedali e prigioni. Ebbe una controversa relazione con Lorena Hickok, una giornalista dell’Associated Press che l’aveva seguita durante la Campagna in cui Franklin Delano fu eletto Presidente. Finita la seconda guerra mondiale, su richiesta di Truman, si impegnò per la ratifica della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo all’Onu.

di Nia-Malika

Stile e raffinatezza, un simbolo pe

Jackie, la più ama dagli american

Icona di stile ed eleganza, Jacqueline vier, detta Jackie, è stata forse la più a lady degli Stati Uniti d’America. Mogl Fitzgerald Kennedy, visse alla Casa B 1961 al 1963, anno in cui il marito mor tentato. Si sposò in seconde nozze con l greco Onassis, ma il primo e unico gran della sua vita fu John Fitzgerald e nell’i la coppia è ancora viva. Per la sua bell della cultura americana e un modello pe ca. Rimase per sempre nel cuore del po giovane Kennedy, Jackie lavorò per alcu tografa per il Washington Times, un lav blishment politico della capitale e cono suo futuro marito John Fitzgerald, astro mocratico. Durante gli anni della presid le quinte concentrandosi sull’educazion la Casa Bianca, nelle scelte culinarie im domestico. Morì nel 1994 per un linfom


21 gennaio 2009 • pagina 13

gradimento del 30 per cento, Hillary Clinton del 38 per cento, Barbara Bush del 34 per cento e Nancy Reagan del 28 per cento. In cima alla top-10 delle migliori first lady da 25 anni regna la signora Roosevelt. Il lavoro e la famiglia possono diventare argomenti politici anche molto caldi, un campo minato per una first lady già nel mirino sulla questione della razza. I temi razziali sono forse i più difficili, un peso per Michelle innalzata a modello della donna afro-americana. Sul terreno ha fatto da inviata presso la comunità nera per conto del marito.

Non farà la prima donna di Washington, ma sarà sempre lì ad aiutare il presidente Obama nel suo lavoro di comandante in capo

ne Kennedy, colta come Hillary Clinton, i americani già “nuova” Eleanor Roosevelt

Michelle

alto: l’avvocatessa di Harvard al 46 per cento dei cittadini

a Henderson

er tutti

ata ni

e Lee Bouamata first lie di John Bianca dal rì in un atl’armatore nde amore immaginario collettivo degli americani lezza e raffinatezza è rimasta un’icona er le generazioni femminili di ogni epoopolo americano. Prima di incontrare il uni anni come giornalista ed esperta fovoro che le permise di entrare nell’estaoscere personaggi di spicco. In primis il o nascente in quegli anni del partito Dedenza del marito rimase sempre dietro ne dei figli e sulla cura dei dettagli delmpregnate di francesismi e nell’arredo ma.

In una raccolta di lettere dal titolo Vai, raccontalo a Michelle, donne di colore ineggiano al significato di Michelle. «Avevo perso la speranza di avere successo a New York», si legge in una lettera. «Non pensavo di potere essere intelligente e sexy e venire presa in considerazione…. Voi due avete rivoluzionato ciò che io credevo possibile».

«La sua immagine americana a tutto-tondo - lavoratrice ma premurosa come madre e moglie - emana potere. Michelle rompe molti stereotipi razziali e di genere sulle donne nere: single, infelici, arrabbiate, non molto istruite, fastidiose,

seduttrici etc..», spiega Guy Shetfall. Per gli esperti di moda è una costruttrice di ponti quando si parla di abbigliamento. La gente tende a guardare il colore e lo stile, la silhouette, come per Jackie O. Ma per gli esperti il paragone con la Kennedy non regge. Jacqueline aveva 31 anni quando entrò alla Casa Bianca ed era una principessa con una voce soffice come una piuma. Michelle Obama, la discendente degli schavi del Sud Carolina, ha compiuto 45 anni ed è un’avvocatessa di Harvard. «Jacqueline Kennedy è stata la first lady dello stile, ma non della sostanza» - afferma Gutin - e io credo che Michelle Obama abbia sostanza. Penso sia la seconda Jacqueline Kennedy? Nient’affatto». Nelle scorse settimane Michelle Obama è rimasta dietro le quinte concentrandosi sulle sue due figlie. Le grandi scelte, le battaglie che sosterrà e chi sarà per la nazione sono ancora da definire. Prima delle elezioni le è stato chiesto che tipo di first lady vorrebbe essere. «È difficile saperlo - ha detto in un’intervista a Good Morning America - Quello che so è che mi adatterò a seconda delle situazioni. Dipenderà da ciò di cui avrà bisogno il Paese e la mia famiglia, Barack soprattutto. Voglio essere flessibile per fare la cosa giusta al momento giusto».

Laura Bush, più madre che moglie

La donna invisibile Materna, sobria, poco appariscente (mai un tacco troppo alto, mai un vestito sopra al ginocchio, mai una giacca fuori posto) e braccio più morale che politico di suo marito. Laura Lane Welch Bush ha voluto dare un taglio netto al ruolo della First Lady incarnato dalla precedente inquilina della Casa Bianca, Hillary Clinton. Figlia unica di Harold e Jenna Welch, è nata e cresciuta a Midland, Texas. Ha studiato alla Southern Methodist University di Dallas, prendendo un diploma in scienze. Dopo la scuola ha lavorato come insegnante nella scuola primaria Longfellow a Dallas per poi essere trasferita a Houston, in Texas, nella scuola primaria John F. Kennedy. Nel 1964 è artefice di un tragico incidente stradale in cui investe un ragazzo uccidendolo. Era ancora una teenager al tempo, 18 anni, e non fermandosi a uno stop investì un compagno di scuola. Una tragedia che «mi ha segnata per sempre».Conosce il suo futuro marito durante una cena da amici: erano gli anni in cui lavorava come bibliotecaria in una scuola. Nel 1981 nascono le sue figlie gemelle, chiamate, in onore alle rispettive madri, Barbara e Jenna. Lascia in eredità a Michelle Obama (che l’ha confermata), Cristeta Comeford, la chef della Casa Bianca. «Anche io amo mangiare bene» ha detto la nuova First Lady.


panorama

pagina 14 • 21 gennaio 2009

Elezioni. In vista delle Regionali in Sardegna, il premier preme su Scaroni per nuovi investimenti dell’Eni

Berlusconi, un presidente chimico di Alessandro D’Amato

ROMA. Ecco un comunicato del quale non si può dire che non sia chiaro il significato: è quello inoltrato giovedì scorso alle agenzie di stampa dal governo e pubblicato sul sito internet di Palazzo Chigi, riguardante una telefonata intercorsa tra Silvio Berlusconi e l’ad dell’Eni, Paolo Scaroni. Società, giova ricordarlo, quotata in Borsa a Milano e la cui maggioranza delle azioni è in mano al ministero dell’Economia.

Il tono del comunicato era chiaro: «Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è personalmente intervenuto questa sera sulla vicenda della chimica in Sardegna e ha chiesto e ottenuto precisi impegni dall’ad dell’Eni Paolo Scaroni». Il presidente del Consiglio dei ministri, poi, per spiegare in modo più chiaro quello che voleva dire, è andato nello specifico: «Ha chiesto che

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

l’Eni intervenga sulla vertenza assumendo le seguenti determinazioni: 1) tutto il personale degli impianti chimici della Sardegna deve essere richiamato a lavoro a partire dal 1° febbraio destinando il personale degli impianti che dovessero subire una fermata tecnica nei reparti produttivi dove esistono carenze di maestranze; 2) deve essere mantenuto in piena efficienza tecnica e operativa l’impianto di produzione di cumene e fenolo di Portotorres; 3) sempre dal 1° febbraio essere riavviato l’impianto deve

dicazioni del governo». E con una solerzia che non sempre si riconosce in altri amministratori delegati; specialmente quando a chiamarli non è l’azionista di maggioranza (che sarebbe il Tesoro, e non la presidenza del Consiglio). Certo, tra meno di un mese ci sono le elezioni regionali, si commenta con ironia dalle parti dell’Isola. Meno voglia di scherzare dovrebbe destare invece il fatto che non si capisca in che veste Berlusconi abbia convocato l’amministratore delegato di una società quotata in Borsa, che, fino a prova contraria, risponde all’azionista di riferimento in primo luogo, e non certo alla presidenza del Consiglio. Anche perché, il punto è un altro: il cane a sei zampe ormai da anni tenta di smantellare la chimica in Sardegna, visto che non crede all’investimento e lo ritiene improduttivo. E non lo fa proprio perché mandare a casa le persone è politicamente sconveniente. Per fortuna ci ha pensato il presidente del Consiglio. E comunque, se è vera una voce maligna che vuole Berlusconi fortemente interessato a una quota importante nell’Eni, il Cavaliere ha soltanto approfittato dell’occasione elettorale per portarsi avanti con il lavoro.

Botta e risposta fra il Cavaliere e l’ad del colosso petrolifero. Obiettivo: rimettere in attività degli impianti chiusi o improduttivi cracking di Portotorres; 4) deve essere avviato immediatamente il tavolo nazionale della chimica, come già deciso dal Ministro Scajola, per definire tutto il monitoraggio e la strategia della chimica sarda nel contesto nazionale ed europeo». Più limpido di così, è difficile.

E Paolo Scaroni, che ha risposto? Ha risposto «obbedisco»: «Alle puntuali questioni poste dal Presidente del Consiglio Berlusconi, il Dott. Scaroni ha ribadito l’impegno a definire nei prossimi giorni l’intera vertenza seguendo le in-

Perché nel Nord d’Italia non si investe in (per altro inutili) fonti alternative di energia?

Soffia il vento, infuria l’eolico (ma solo al Sud) Italia - si dice - deve investire nell’energia alternativa, ma per ora questo investimento avviene esclusivamente nel Mezzogiorno. L’energia eolica, generosamente sovvenzionata dall’Europa, è presente soltanto nelle regioni meridionali. Vale la pena dedicare un po’ di attenzione alla notizia. Soprattutto per un motivo: perché quando si parla di fonti alternative di energia sembra che si dica una verità rivelata. L’energia alternativa è a tutti gli effetti un dogma laico del nostro tempo. Vediamo. La cosa per essere strana è strana: le pale eoliche sono impiantate solo al Sud. Sia in ordine sparso, sia come “parchi”o “fattorie del vento” sono presenti esclusivamente nel Mezzogiorno. Niente al Nord. Come mai? La cosa è di certo curiosa perché non si può sostenere che al Nord non ci sia vento: il vento più forte d’Italia - la bora di Trieste - soffia, appunto, al Nord e non nel Tavoliere delle Puglie o nella Valle del Fortore in Campania.

L’

Eppure, non ci sono pale eoliche in Lombardia, Piemonte, vicino alle montagne, ma ci sono solo al Sud: in Campania, in Puglia, in Molise, e nelle isole Sicilia e Sardegna. Qui ce ne sono molte e molte altre stanno per arrivare. Le pale eoliche spuntano come funghi al posto degli alberi. Nel Mezzogiorno, anche

in assenza di vento, c’è stata l’invasione della cosiddetta energia eolica, mentre al Nord niente. Perché? La mappa delle pale eoliche non corrisponde alla “rosa dei venti”, bensì a una mappa sociale e geopolitica. Lo hanno sottolineato e documentato Carlo Ripa di Meana di Italia Nostra e Oreste Rutigliano del Comitato nazionale per il Paesaggio. Il loro studio è stato ripreso da Vittorio Sgarbi nel suo libro Clausura (Bompiani): Salemi, il paese siciliano di cui è sindaco Sgarbi, è praticamente circondato da quegli enormi ventilatori che deturpano la bellezza disarmante della Sicilia. «Dal loro lavoro», scrive Sgarbi citando la documentazione di Ripa di Meana e Rutigliano, «emerge uno spettacolo agghiacciante, è un’ipotesi razzista o neocoloniale, cioè che le pale eoliche trovano vento solo nel Sud, nelle regioni più povere, terra di conquista». Come funzioni quello che si può definire l’“affare

eolico” lo sanno un po’ tutti ma si finge di non sapere. Sgarbi riepiloga così: «I produttori di pale eoliche ottengono finanziamenti europei così cospicui da potersi permettere di “dare l’elemosina” di qualche centinaia o migliaia di euro ai sindaci di piccoli paesi, i quali ottengono quello che si chiama “ecorisarcimento”, implicita ammissione di un danno ambientale che deve essere riMa sarcito». qual è il danno che potete risarcire se alle spalle del tempio di Segesta piazzate - come hanno piazzato - le pale eoliche? Dietro la Valle dei Templi di Agrigento si vedono le pale eoliche. Sopra il più grande monumento dell’arte contemporanea, il silenzioso Cretto di Burri ci sono le pale eoliche. Sopra la collina della splendida Sant’Agata dei Goti ci sono le pale eoliche. Il danno che si arreca alla bellezza è irrisarcibile (mi si passi il termine). Ma al danno c’è anche la beffa. Le pale eoliche, infatti, non producono alcuna ener-

gia alternativa. Sono, di fatto, sterili (meno del 2 per cento del fabbisogno nazionale). Gli impianti sono autorizzati se si raggiungono 2.700 ore di vento all’anno. Ma nessun impianto ha mai raggiunto tale numero di ventilazione (ma sono stati comunque autorizzati).

Se poi si aggiunge che le pale eoliche non producono ma trasformano energia (non a caso all’inizio della rivoluzione industriale l’energia animale, idrica e eolica fu sostituita da quella industriale) si capisce come l’energia eolica sia solo un affare che cresce su un luogo comune. Solo al Sud. Tuttavia, l’energia eolica - come le altre fonti di energia alternativa - gode di buona stampa. In sostanza, si fa passare la bugia che se si investe nelle fonti alternative di energia si può ridurre o addirittura fare a meno del petrolio, del metano, del nucleare. Invece, come spiega bene Franco Battaglia nell’opuscolo L’illusione dell’energia dal sole pubblicato dal Cidas di Torino, l’energia pulita, come si dice con enfasi, non solo non risolve i nostri problemi energetici, ma neanche è in grado di affrontarli. Quando si parla di energia si commette un grave errore: si confondono energia e potenza, che sono due cose diverse. Alla nostra civiltà serve la potenza, vale a dire la rapidità con la quale l’energia è trasferita.


panorama

21 gennaio 2009 • pagina 15

Anniversari. Nella ricorrenza dell’appello ai «liberi e forti» occorre ripensare al tramonto di un ciclo storico

Don Sturzo e la diaspora democristiana di Gerardo Bianco 8 gennaio 1919, 18 gennaio 1994. Sono due date che si incrociano con la storia del movimento politico dei cattolici popolari. La prima fu dell’alba; la seconda, l’inizio del tramonto. A pochi mesi di distanza dalla fine della prima guerra mondiale, Luigi Sturzo, dall’albergo Santa Chiara, nel cuore di Roma, chiamava a raccolta «i liberi e i forti» nel costituendo Partito Popolare, per offrire una risposta nuova e vigorosa alla crisi sociale e politica che attraversava l’Italia. Era il punto di approdo del lungo“esilio”dei cattolici dalla vita politica del Paese, preparato da una vasta elaborazione dottrinale e da un’inesausta opera sociale.

1

Si avviò, così, un cammino glorioso che il fascismo interruppe, ma non spezzò. Proseguì sotto la guida di De Gasperi, nel secondo dopoguerra, ricostruendo l’Italia, rendendola una delle grandi democrazie del mondo. Il secolo XX è segnato da ruolo svolto dal partito popolare-democratico cristiano. Oggi, quella storia sembra definitivamente chiusa. Essa cominciò

Alla luce della storia passata andrebbero rivisti i tre mesi tra novembre 1993 e gennaio 1994 quando morì un partito che doveva ”rinascere“ a morire in quell’altro 18 gennaio, proprio quando, ritornando alle origini, se ne“sognava”la rinascita.Tocca agli storici chiarire le ragioni di un declino che sembrava impossibile. Cause internazionali e vicende interne, giudiziarie e non, verranno evocate per un destino che sarà giudicato storicamente inevita-

bile, ma chi ha vissuto da vicino la vita del partito non potrà, né dovrebbe rassegnarsi a considerarla definitivamente conclusa. I se e i ma possono non valere nell’analisi storica, ma hanno certamente senso nell’azione politica. Diverso, infatti, sarebbe stato l’esito della forza politica popolare e democratico-cristia-

na se in quel 18 gennaio 1994 si fosse realizzata l’unità e non, invece, la frattura del partito. Il profetico ammonimento che De Gasperi, nel suo ultimo discorso al V Congresso del 1954, aveva lanciato: «Solo se siamo uniti siamo forti, se siamo forti siamo liberi di agire, possiamo sviluppare il nostro piano di rinnovamento», fu irresponsabilmente ignorato, e cominciò la lunga eclissi. Prevalsero i calcoli e le ambizioni, in contrappunto al settarismo e al “giacobinismo” novista che sfigurarono l’anima stessa del partito, tollerante, solidale e democratico nelle sue procedure organizzative. È questo un passaggio - tra il novembre-dicembre 1993 e il gennaio 1994, quando l’ingiustificato scioglimento delle Camere colse il partito in mezzo al guado che andrebbe approfondito per comprendere meglio «come sono andate le cose». Ma nella ricorrenza del novantesimo anniversario della fondazione del Partito Popolare sarebbe almeno auspicabile un serio esame di coscienza ed una severa autocritica della classe dirigente di quell’ultima stagione, lasciando

agli storici celebrazioni e riflessioni sull’evento del 1919.

Si capirebbe, così, come la diaspora abbia comportato la cancellazione dell’autonomia organizzativa e politica dei popolari, ormai dispersi e subalterni, come all’inizio del secolo XX. E ciò accade quando più la politica perde dignità e vigore, per mancanza di cultura e di dottrina, diventando vacua schermaglia, affermazione di interessi corporativi e territoriali, populistica personalizzazione e perdita di “senso”delle istituzioni e dello Stato. Dinanzi alla crisi dell’Italia, all’esangue risposta del liberalismo, a quella contraddittoria e velleitaria del socialismo, alle macerie del nazionalismo fascista e al pericoloso rischio comunista i cattolici democratici, nel secolo scorso, con Sturzo, e poi con De Gasperi, seppero indicare, da protagonisti, una strada che si rivelò buona ed efficace. Oggi ci si aggrappa agli altri, che sono causa della crisi, abiurando alla propria storia e rinunciando a riprendere il cammino interrotto, proprio quando sarebbe l’ora per ricominciare.

Poltrone. Cresce, tra maggioranza e opposizione, la lobby per riportare in Rai l’ex direttore generale

Pier Luigi Celli, a volte ritornano di Marco Palombi

ROMA. I topi, si sa, sono i primi a lasciare la nave. Nella politica italiana, se è concesso il paragone zoologico a fini esplicativi, la parte dei topi ce l’hanno in genere i dipendenti Rai: costoro sono infatti dotati di misteriosi quanto efficaci sensori per capire da che parte tira il vento del potere e vi si sanno adeguare con prontezza di riflessi davvero sorprendente. Passando dall’antropologia alla cronaca, e quindi al motivo di questo scritto, gli ultimi movimenti dei piccoli roditori di viale Mazzini indicano una vertiginosa salita delle quotazioni di Pier Luigi Celli nei futuri assetti aziendali. L’attuale direttore generale dell’università confindustriale Luiss - è stato già scritto - è l’uomo che Massimo D’Alema avrebbe indicato come candidato alla presidenza: d’altronde fu proprio il lìder Massimo, in accordo con Franco Marini, che chiamò Celli a fare il direttore generale della tv pubblica nel 1998.

di Walter Veltroni (i cui candidati, misteriosamente per i più, sono Pietro Calabrese e Claudio Petruccioli). La somma di questi elementi, per i nostri piccoli topolini, non può che dare il seguente risultato: il segretario del Pd non si giocherà la partita del rinnovo del cda da protagonista. Adesso i veltroniani della Rai si aggirano per i corridoi in preda al terrore di ritrovarsi in mano al nemico interno e un gruppo non piccolo è già corso ai ripari facendo arrivare un messaggio direttamente a Celli: noi siamo sì veltroniani, ma come presidente della Rai vogliamo te, solo te. Hai visto mai?,

1998 e il febbraio 2001, quando se ne andò all’improvviso per prendere il comando di Ipse 2000, la società creata da Telefonica, Fiat, Edison, Acea, Banca di Roma e altre imprese italiane per lanciarsi nel mercato Umts (la cosa, poi, non andò in porto).

A posteriori, Celli ebbe modo pure di sostenere che si dimise in dissenso da Roberto Zaccaria, all’epoca presidente Rai, reo di aver schierato l’azienda contro Silvio Berlusconi. Recentemente poi ha aggiunto che tra gli eventi scatenanti quell’addio ci fu l’intervista di Daniele Luttazzi a Marco Travaglio, che però avvenne solo un mese dopo le sue dimissioni. Ovviamente a viale Mazzini le manovre sono in corso anche su altri fronti: a questo proposito in molti danno parecchia importanza al fatto che lunedì si aggirasse per Roma Pierluigi Battista, candidato nientemeno che alla direzione del Tg1. Il vicedirettore del Corsera, tra gli altri, ha incontrato l’eminenza grigia del Cavaliere Gianni Letta proprio per discutere del suo passaggio a Saxa Rubra.

Sono cominciate solo ora le vere grandi manovre per i vertici di Viale Mazzini. E Pierluigi Battista incontra Letta puntando alla direzione del Tg1

Nelle ultime settimane però, pare che dell’attività di lobbyng a favore del nostro si sia occupato nientemeno che Luca Cordero di Montezemolo, il quale avrebbe trovato orecchie attente e benevole in quel di palazzo Chigi. L’attivismo pro-Celli di pezzi così importanti del potere italiano si lega, peraltro, all’evidente debolezza politica

si dice nella capitale. Dal canto suo Celli, 66enne romagnolo di Verucchio, fama da tagliatore di teste, manager e scrittore (il suo ultimo libro è il preoccupante, per i sottoposti, Comandare è fottere), continua a sostenere pubblicamente che lui non ha nessuna intenzione di tornare in Rai dove fu capo del personale all’inizio degli anni Novanta – licenziato dall’allora presidente Letizia Moratti con ancora un paio d’anni di contratto – e direttore generale tra il


politica

pagina 16 • 21 gennaio 2009

Memorie. In Parlamento il «Trattato di amicizia»: l’Udc preme per il risarcimento a chi fu cacciato da Tripoli

Pasticcio sulla Libia Il governo dimentica i profughi italiani e tace sui diritti umani calpestati di Marco Palombi segue dalla prima Tutto in questa vicenda parte da lontano ed è destinato a durare ancora negli anni. Fu l’Italia di Giolitti nel 1911 a iniziare la conquista di quella che Gaetano Salvemini, che era contrario, chiamava «la scatola di sabbia»: quella guerra finì solo negli anni Trenta, dopo espedienti non proprio edificanti quali bombardamenti con l’iprite, deportazioni di massa, uso massiccio di mine e 100mila morti libici su una popolazione di circa 800mila persone. Tutte quelle azioni, cioè, per cui oggi la Libia chiede un indennizzo. La colonizzazione italiana finì nel ’43 con l’arrivo degli inglesi, che si fermarono a loro volta fino al 1951: è far data da allora che esiste la querelle dei rapporti italo-libici. Nell’ottobre del 1956 l’allora presidente del Consiglio Antonio Segni pensò di averla risolta con l’accordo sottoscritto a Roma col suo omologo libico Mustafa Ben Halim: l’Italia si impegnava a versare poco meno di 5 miliardi di lire per la ricostruzione della Libia, due terzi dei quali da spendere per l’acquisto di

prodotti dell’industria italiana, e Tripoli dal canto suo aprì le porte all’Eni. All’epoca fu però il governo Segni, e non i libici, a non voler menzionare in quell’accordo i risarcimenti coloniali, scelta che si rivelò poco lungimirante.

Quando infatti, nel 1969, un golpe dei giovani ufficiali nasseristi guidati dal colonnello Gheddafi spodestò re Idris, la faccenda ritornò all’ordine del giorno. Il 7 ottobre 1970, pom-

posamente ribattezzato il Giorno della Vendetta, furono ventimila gli italiani espropriati di tutto - si parla di beni per 400 miliardi di lire di allora - e cacciati dalla Libia. Poi venne il periodo dello scontro con gli Stati Uniti e del terrorismo finanziato dalla Libia che insanguinava i cieli europei e dopo ancora, e siamo ai giorni nostri, l’alleanza tattica di Gheddafi con l’occidente in funzione anti-fondamentalista: nasce da tutto questo, e da

Una vicenda che parte da molto lontano: tutto cominciò con le mire colonialistiche del 1911. Ma nel 1970 fu Gheddafi a drammatizzare la situazione espropriando i beni degli italiani

L’opera trovata dagli italiani nel 1913 è stata restituita come risarcimento per i danni di guerra

Gheddafi e la Venere: «Quella statua senza testa...» a Venere anadiomene che sorge dal mare è una copia ellenistica greco romana del secondo secolo dopo Cristo della Venere di Cnido di Prassitele. Fu ritrovata dagli italiani a Cirene nel 1913 quando la Cirenaica era diventata colonia italiana dopo la guerra italo-turca del 1911. Nel 1989 il colonnello Gheddafi chiede che l’Italia restituisca la Venere all’Italia come risarcimento per i danni di guerra. Una richiesta fatta senza troppa convinzione all’allora ministro degli Esteri Gianni De Michelis. Che per anni resta sospesa. Un decreto del Tar del Lazio del 2007 – poi confermato dal consiglio di Stato malgrado

L

un ricorso di Italia nostra – stabilisce che esistendo un precedente accordo italo-libico la Venere deve essere restituita, affermando che l’area in cui è stata fortuitamente trovata all’epoca faceva parte del territorio libico. Anche se la Libia allora non esisteva come entità statuale. Quando il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi andò in Libia nel 2002 il colonnello Gheddafi gli dà in omaggio un fucile italiano preda bellica della guerra italo-libica. Berlusconi in cambio gli promette che l’Italia avrebbe restituito alla Libia la Venere di Cirene. Il colonnello – raccontano le cronache – gli risponde che di una statua senza testa la Libia non se ne sarebbe fat-

to nulla. Che meglio sarebbe che l’Italia contribuisse a costruire autostrade. È nella legislatura successiva, quando titolare dei Beni culturali è Francesco Rutelli che il Tar del lazio decide per la restituzione. Rutelli si dice d’accordo con la sentenza del Tar, perchè, sostiene il titolare di via del Collegio romano così si crea un precedente perché l’Italia possa chiedere a sua volta che le siano restituite le opere sottratte. Cosa che non risulta essere mai avvenuta. È il ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani nella legislatura 20012006 a sdemanializzare la Venere perchè l’opera d’arte – la statua senza testa – possa essere restituita a Gheddafi.


politica

21 gennaio 2009 • pagina 17

Sopra e a sinistra alcune raffigurazioni ai tempi del colonialismo italiano in Libia. Al centro della pagina il dittatore Gheddafi. In basso a sinistra un’immagine della Venere di Cirene

Polemiche. Parla Giovanna Ortu, presidente degli italiani rimpatriati dalla Libia

«Ora si ricordano di noi Bene. Ma non basta» di Riccardo Paradisi opo 38 anni siamo stanchi, adesso l’Italia deve ricordarsi di noi». Giovanna Ortu è la presidente dell’Associazione italiani rimpatriati dalla Libia: oltre 20 mila persone che nel 1970 furono cacciati dal colonnello Gheddafi perdendo beni, lavori, pensioni.

«D

un lavoro diplomatico portato avanti da 5 governi italiani in una quindicina d’anni, il Trattato di amicizia firmato dal colonnello e da Silvio Berlusconi ad agosto. I termini dell’accordo, però, lasciano qualche perplessità: l’Italia pagherà alla Libia 5 miliardi di dollari in vent’anni (200 milioni di euro all’anno) finalizzati alla costruzione di infrastrutture, in più c’è un inedito accordo militare – il primo del genere con una dittatura – e quello che potremmo chiamare un Patto di non aggressione. La spesa è peraltro finanziata grazie ad un aumento dell’Ires fino al 2028 ai danni dell’Eni, che dovrebbe portare nelle casse dello Stato oltre 4 miliardi di euro: oltre a non essere un introito certo (dipende dai guadagni dell’ente petrolifero), non è chiaro se questo nuovo balzello finirà per pesare sulle tasche dei consumatori attraverso le bollette.

Oltre a quello che nell’accordo c’è, interessante è pure quello che manca: nel testo non si fa alcun cenno al recupero dei crediti italiani in Libia (oltre cento aziende italiane che vorrebbero vedersi pagati più di 600 milioni di euro), né ai risarcimenti dei ventimila italiani cacciati da Gheddafi quarant’anni fa. Questioni, queste ultime, che paiono solo in parte risolte grazie alla pressione di

Udc e Pd che ha convinto il governo a stanziare a questo fine 150 milioni di euro. «Certo che dal punto di vista politico in Libia, come in altri paesi arabi, c’è un deficit di democrazia, ma questo accordo, pragmaticamente, è un passo importante – spiega Khaled Fouad Allam, saggista e studioso del mondo islamico – Bisognava rompere il ghiaccio perché Italia e Libia sono strategici l’una per l’altra e anche perché l’Italia deve guardare ai suoi rapporti con la Libia al di là di Gheddafi e oltre Gheddafi». Ma questo ragionamento non ha persuaso del tutto le opposizioni a votare per la ratifica del trattato: pesa la mancanza di un richiamo esplicito al tema dei diritti umani in Libia e pesa la limitatezza del risarcimento. E dunque tutte le opposizioni eccetto i Radicali, che hanno presentato ben tremila emendamenti sul complesso del testo: «È un assegno in bianco a un regime totalitario che usa l’arma dell’immigrazione clandestina per ricattare il nostro paese e che non fornisce alcuna garanzia di rispetto delle norme internazionali in materia d’asilo e immigrazione», ha spiegato Matteo Mecacci, che ha criticato anche l’entità dei fondi stanziati per gli indennizzi. Qualche mugugno si registra anche tra i deputati di quella che fu An: «Adesso sai quanto si incazzeranno gli esuli giuliano-dalmati?».

La signora Ortu è davanti alla Camera con un presidio di decine di persone unite a lei dalla stessa sorte. Sono alcuni di quegli italiani che nel giro d’un giorno dovettero lasciare la Libia, dove vivevano e lavoravano da anni, accusati di essere dei colonizzatori. «Era il 20 luglio1970 – racconta la signora Ortu – quando venimmo a sapere, con 24 ore di anticipo, che gli italiani sarebbero stati investiti di un decreto di confisca di tutti i loro beni. Era il giorno del mio compleanno, compivo 31 anni». Per il colonnello Gheddafi però quello è il Giorno della vendetta: anti-italiana. «Ricordo che erano pronte due bottiglie di spumante malgrado soffiasse già aria di proibizionismo. Mentre mangiavamo a malincuore la torta, arrivò una telefonata da un ufficio del governo per mio fratello. Gli ordinavano di rimettere immediatamente l’azienda nelle mani del governo libico. Il giorno dopo mio fratello andò nella nostra azienda agricola e pagò lo stipendio agli operai. Prima di poter lasciare la Libia abbiamo dovuto consegnare tutto: tutti i beni, le macchine, gli attrezzi di lavoro, facendo file umilianti e spossanti davanti agli uffici. Ricordo che gli stessi libici, con cui gli italiani avevano rapporti ottimi, si vergognavano di quello che stava facendo il loro governo». Negli anni successivi questi italiani non hanno mai avuto una legge ad hoc che li risarcisse dei danni subiti. Hanno solo beneficiato di leggi riparatorie nei confronti di tutti i cittadini italiani che sono andati all’estero di propria volontà e che poi, a seguito di conflitti o eventi di altro genere, hanno perso tutti i loro beni. «In totale, dagli anni Ottanta ad oggi, l’ammontare di quanto restituito agli italiani cacciati dalla Libia non ha mai neanche raggiunto il valore nominale al 1970 – dice amareggiata Giovanna Ortu – Quando siamo stati espulsi dalla Libia noi abbiamo perso beni per 400 miliardi di lire, rivalutati a 3 miliardi di euro». Ora qualcosa sem-

bra però essere cambiato. La ratifica del nuovo trattato d’amicizia italolibico, che in prima battuta non faceva cenno al risarcimento degli italiani rimpatriati dal colonnello, ha dovuto integrare un emendamento presentato da Pd e Udc che fa stanziare al governo italiano per loro 150 milioni di euro. «È un parziale indennizzo che almeno non offende la nostra dignità – commenta la signora Ortu con la poca voce che gli è rimasta dopo ore di presidio davanti a Montecitorio – e che costituisce almeno un primo passo». Non ci credeva nemmeno lei per come si erano messe le cose nel primo pomeriggio e per l’antifona delle ultime settimane. Mi sono molto dispiaciuta che il presidente del consiglio Berlusconi nella conferenza stampa di presentazione del nuovo trattato di amicizia con la Libia «si sia vantato della sua politica estera dedicando molto spazio all’accordo con la Libia ma non ha voluto spendere nemmeno una parola per rassicurare i rimpatriati, i quali per 40 anni hanno atteso che l’intesa internazionale ponesse fine anche al conten-

«Ci saremmo aspettati di essere ricevuti dal premier. Invece per far sentire la nostra voce abbiamo dovuto organizzare un presidio. Meglio un piccolo risarcimento che niente» zioso derivante dalla confisca dei loro beni, avvenuta in violazione dell’accordo bilaterale, precedente. Noi ci saremmo aspettati dal premier in persona una risposta concreta alle nostre istanze. Ma noi non abbiamo clandestini con cui minacciare l’Italia».

Per la verità c’erano forze in seno al governo che si erano impegnate a sostenere le posizioni dell’Airl: il capogruppo dei senatori Pdl, l’esponente di An Maurizio Gasparri, aveva detto nei giorni scorsi che «una politica tesa alla cooperazione tra i popoli nel Mediterraneo, che ha portato alle recenti intese, deve essere accompagnata da adeguati interventi nei confronti dei cittadini italiani che furono espulsi dalla Libia nel 1970». Può essere una riparazione onorevole 150 milioni di euro? «È una piccola percentuale – dice Giovanna Ortu – rispetto a quello che abbiamo perso. Ma essere completamente esclusi da questo trattato sarebbe stata una cosa troppo violenta»


politica

pagina 18 • 21 gennaio 2009

Oggi nell’aula di Palazzo Madama arriverà la replica del governo, dopo la discussione generale sul disegno di legge per il federalismo fiscale che si è svolta ieri. L’Udc sembra chiaramente orientata verso il no, mentre il partito di Walter Veltroni lascia aperto uno spiraglio, dopo l’incontro che si è tenuto ieri tra i rappresentanti della Lega e alcuni esponenti democratici

Coperture. Veltroni chiede garanzie ma non esclude il sì. Casini è più netto: «Se il testo resta così, non lo votiamo»

Pd amletico. Anche sul federalismo di Errico Novi

ROMA. È come se la tensione enorme che due anni e mezzo fa si scaricò nel no referendario alla devolution stavolta sia diluita, verificata in tanti piccoli passaggi. Nel primo giorno di discussione in Aula sul federalismo fiscale, il Senato appare persino troppo piccolo per contenere tutti i nodi della questione. Tra le parti in causa il Partito democratico è senz’altro quella attraversata dalle lacerazioni più profonde. Così gli uomini di Veltroni lasciano uno spiraglio aperto, sicuramente meno impercettibile di quello a cui è legata la disponibilità dell’Udc a votare il ddl Calderoli. «Ci sono tre condizioni che chiediamo di rispettare», dice Walter Veltroni, «senza le quali corriamo il rischio di votare un volantino».

I costi: ecco il punto più complicato, il dubbio che avvicina più di altri i democratici al partito di Pier Ferdinando Casini. «Serve l’indicazione delle risorse», ammonisce Veltroni, «il ministero dell’Economia non ha detto nulla sulla copertura del provvedimento, che così appare più un contentino politico che altro». Giulio Tremonti sarà questa mattina in Aula per la replica. «Risponderà alle richieste del Pd», assicura Roberto Calderoli. Prima ancora delle dichiarazioni veltroniane, in effetti, c’era stato un incontro tra i rappresentanti del governo e quelli del Pd: tra loro il relatore di minoranza del ddl Walter Vitali e il ministro ombra ai Rapporti con le Regioni, Mariangela Bastico. Oltre al nodo delle risorse, sono stati messi sul tavolo quelli relativi alla Carta delle autonomie che, ri-

corda Anna Finocchiaro, «deve definire i poteri, le funzioni e le risorse dei Comuni» e all’istituzione del Senato federale.

Si tratta di richieste non del tutto impossibili da soddisfare. O che almeno concedono all’esecutivo e alla maggioranza la possibilità di chiedere tempo. È

probabile a questo punto che i democratici si astengano sul voto finale, previsto per giovedì, in modo da non compromettere del tutto il faticoso negoziato con il partito di Umberto Bossi. Inoltre i veltroniani devono fare i conti con un sempre più insofferente “partito del Nord”: una chiusura net-

Incontro tra leghisti e veltroniani in Senato, oggi la replica del governo. Il partito di Walter ha in sospeso altre trattative e non può deludere troppo l’ala nordista. Bresso: «È tutta una bufala»

ta sull’ipotesi di decentrare la tassazione renderebbe ancora più aperto il conflitto interno, tenuto anche conto che già la versione in via di approvazione in Senato è considerata «una bufala» da Mercedes Bresso. Dal fronte Pd non è arrivata alcuna particolare osservazione sul rischio che il federalismo fiscale aggravi il divario tra Nord e Sud del Paese. Con molta più decisione si è pronunciato invece Casini: «Non voteremo il ddl così com’è oggi». Con lui, il capogruppo centrista a Palazzo Madama, Gianpiero D’Alia, che parla

senza indecisioni di voto contrario «se non verranno offerte garanzie sugli equilibri territoriali: così com’è, il provvedimento è una delega in bianco al governo che mette le mani in tasca ai cittadini e aumenta il divario tra Settentrione e Mezzogiorno». Senza considerare «le norme che travalicano la Costituzione», notate da D’Alia oltre che dal responsabile del Programma dell’Udc Francesco D’Onofrio. Il Pd si è esposto e adesso rischia di trovarsi solo nel dare l’avallo a una legge che, parole di Veltroni, si presenta come un «volantino».

Il governo continua a tacere su carico fiscale, funzioni degli enti locali e Regioni a statuto speciale

Tre domande ancora senza risposta di Francesco D’Onofrio segue dalla prima E lo facciamo perché riteniamo che gli obblighi interni e internazionali li abbia contratti lo stato italiano e immaginiamo che la riforma federalistica non comporti in alcun modo il venir meno dell’idea di Stato. Abbiamo pertanto richiesto e continuiamo a richiedere con quali risorse anche fiscali lo Stato italiano garantisce agli investitori interni ed internazionali il pagamento degli interessi sul debito, man mano che vengono a scadenza e che devono essere rinnovate le diverse tranches. Su questo punto non si può scherzare perché ne va della affidabilità stessa dell’Italia e nessuno – ripetiamo, nessuno – può chiudere gli occhi su questo punto.

Secondo. Stentiamo a credere che si possa seriamente affermare che si procede a prevedere risorse fiscali per i

diversi enti locali senza che siano preventivamente definite almeno le funzioni essenziali di ciascuno di essi. Non si tratta di un prima e di un dopo. Si tratta, infatti, di una regola di assoluto buon senso: non si possono prevedere tributi propri degli enti locali se non si sa quali siano le funzioni dei medesimi. Così si era fatto in passato anche in riferimento al Titolo V della Costituzione. E per queste ragioni chiediamo che cosa si intende fare prima di passare alla previsione delle risorse finanziarie. Questa questione non è esclusivamente di diritto costituzionale – il che sarebbe comunque sufficiente – ma anche di finanza pubblica. È infatti di tutta evidenza il constatare che con il federalismo fiscale si dà vita ad una notevole pluralità di centri di spesa e si vuol sapere – una volta per tutte – se le Province restano o no

e – se restano – con quali funzioni amministrative.

Terzo. Sappiamo tutti che in ciascuna delle cinque Regioni a statuto speciale sono previste discipline anche finanziarie diverse le une dalle altre: si deve sapere oggi se queste disposizioni restano in vita o no perché non si tratta di puri aggiustamenti marginali ma di sostanziali previsioni legislative che – nel caso degli statuti speciali – sono disposizioni di rango costituzionale e quindi non modificabili con legge ordinaria. Abbiamo notato che su queste questioni non vi è stata fino ad ora nessuna risposta ne’ da parte di singole componenti parlamentari della maggioranza, né da parte del Governo, al quale dovrebbero pure stare a cuore le sorti dei conti pubblici. Attenderemo ancora fiduciosi le risposte: il silenzio sino ad ora conservato è sempre meno tollerabile culturalmente e politicamente.


politica

21 gennaio 2009 • pagina 19

Previsioni. Per il premier la crisi non è così drammatica. Walter Veltroni: «Sorprendente»

Berlusconi l’ottimista smentisce Almunia di Franco Insardà segue dalla prima Un Silvio Berlusconi che smentisce in pratica il commissario europeo per gli Affari economici dell’Unione europea, Joaquin Almunia, che da Bruxelles ha chiesto un immediato ritorno alla normalità della situazione del credito. Al termine della riunione dell’Ecofin, Almunia ha spiegato: «La nostra principale preoccupazione è che abbiamo bisogno che la situazione della liquidità torni alla normalità il prima possibile». In precedenza c’era stato l’appello della presidenza ceca di turno dell’Ue ai ministri delle Finanze: «I Paesi riducano al più presto i deficit pubblici schizzati in alto a causa dei piani anticrisi». Ma da Bruxelles il ministro dell’Economia Tremonti, ha sottolineato: «La politica messa in atto dal governo italiano per fronteggiare la crisi è stata valutata dalla Ue come giusta». Ottimismo e fiducia: questa la ricetta che Silvio Berlusconi propone già da qualche mese: «La profondità della crisi sta nelle nostre mani. Bisogna aver paura di avere troppa paura: bisogna dare il nostro piccolo contributo perché questa crisi non sia troppo tremenda». Eppure proprio qualche giorno fa il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi aveva lanciato l’allarme bollato subito da Tremonti: «Sono congetture. torneremmo al 2005-2006, mica al Medioevo». Un’altra iniezione di buon umore a Silvio Berlusconi è arrivata dai dati del sondaggio realizzato il 12 gennaio dall’Swg, pubblicato ieri dal quotidiano online Affaritaliani.it, con il Pdl stabile al 38 per cento, il Pd al 25 e con la Lega e l’Italia dei Valori che per la prima volta dalle elezioni politiche perdono terreno. Considerando quanto il premier tiene in considerazione i sondaggi queste notizie sono per lui pillole di longevità. Sulla questione pensioni, poi, il premier ha assicurato che non si cambierà il sistema, ma ha confermato che ci sarà un intervento sull’età pensionabile per le donne: «La Ue ritiene che le donne in Italia siano discriminate perchè vanno in pensione 5 anni prima degli uomini».

Industria: crollano gli ordini Crollano gli ordini e il fatturato dell’industria a novembre. In particolare, segnala l’Istat, gli ordinativi hanno segnato un calo del 6,3% su base mensile e del 26,2% su base annua, mentre le vendite sono scese del 3,9% rispetto a ottobre e del 13,9% rispetto a novembre 2007. Per entrambi i dati si tratta del peggior risultato tendenziale da gennaio 1991.

Piemonte: Siamo pronti ad accogliere Eluana

Il presidente del Consiglio ha assicurato che non si cambierà il sistema pensionistico: «Ci sarà con ogni probabilità un intervento sull’età pensionabile per le donne, ce lo chiede la Ue»

Ma le brutte notizie ieri sono continuate. L’Istat ha, infatti, comunicato che a novembre si è registrato un calo rispetto allo stesso mese del 2007 del 13,9 per cento di fatturato e del 26,2 per cento di ordinativi dell’industria italiana. Per non parlare dell’industria dell’auto che registra riduzioni pari a un terzo. Inevitabilmente le dichiarazioni di Berlusconi hanno scatenato una serie di reazioni. Il segretario del Pd Walter Veltroni è laconico: «Dichiarazioni sorprendenti». Pier Luigi Bersani, ministro ombra dell’Economia è molto duro: «È inaccettabile che il presidente del Consiglio si rivolga al Paese in questo modo in un momento simile. Mentre il premier sta al caldo tanta gente sta perdendo il lavoro, sta chiudendo l’impresa, non avrà il rinnovo del contratto a termine. Dov’è finito Robin Hood?». Anche Ste-

in breve

In alto Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi; a fianco, il Commissario Ue agli affari economici e monetari, Joaquin Almunia

fano Fassina, consigliere economico del governo ombra, fotografa la situazione con una battuta: «Quel meno 2 per cento è come il pollo di Trilussa: è la media tra coloro che magari vedranno aumentare i loro redditi e chi li avrà tagliati perché perderà il posto di lavoro senza avere ammortizzatori sociali. Quella cifra contiene quindi il dramma personale di migliaia di lavoratori».

Il segretario confederale della Cisl, Gianni Baratta, entra nello specifico e commenta i dati su fatturato e ordinativi dell’industria: «La crisi è strutturale, riguarda il sistema produttivo italiano, l’unica strada per uscirne è quella di adottare manovre anticicliche puntando sul recupero competitivita. Gli imprenditori si dovrebbero impegnare di più su innovazione e ricerca». Luca Cordero di Montezemolo, più moderatamente consiglia: «La fiducia non si fa con slogan, ma con la presa di responsabilità. Di crisi si parla troppo e spesso con eccessiva mancanza di fiducia. Da un lato c’è chi si comporta come se non stesse succedendo niente, dall’altro c’è chi vede la fine del mondo. Bisogna che ci sia una presa di responsabilità da parte di tutti». Per qualcuno siamo in un Paese felice e ottimista, per altri l’industria è in grave difficoltà, la spesa pubblica è incontrollata, si vive male e le misure messe in campo dal governo non sembrano in grado di offrire risposte convincenti.

Il presidente del Piemonte Mercedes Bresso si è detta disposta ad accogliere Eluana in una struttura pubblica. «A noi non è stato chiesto niente e non ci offriamo, però se ci verrà richiesto, non ci saranno problemi. Ovviamente in strutture pubbliche - ha aggiunto Bresso perché quelle private sono sotto scacco del ministro». Il riferimento è alla disposizione di Maurizio Sacconi che ha vietato agli ospedali - per altro pubblici e privati convenzionati - di interrompere l’alimentazione alle persone in stato vegetativo. Un gesto di aperta sfida al ministro del Welfare quello di Mercedes Bresso.

Napolitano: ora nasca uno Stato palestinese Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, scrivendo al Presidente egiziano Hosni Mubarak, ha espresso l’auspicio «che i negoziati tra Israele e l’Anp possano presto riprendere e conseguire rapidamente progressi tangibili, per giungere alla nascita di uno Stato palestinese, economicamente vitale e capace di convivere in pace, benessere e sicurezza reciproca con Israele». Inoltre, il Presidente Napolitano ha confermato che l’Italia «parteciperà agli sforzi della Comunità internazionale volti a dare continuità al cessate-il-fuoco raggiunto, e resta disponibile a valutare e sostenere ogni misura che dovesse rendersi necessaria». Il presidente egiziano ha risposto a napoletano ringraziando l’Italia per l’impegno profuso nella mediazione.


economia

pagina 20 • 21 gennaio 2009

Riequilibri. L’operazione innesca un percorso che potrebbe far cambiare forma al primo gruppo industriale italiano

Che faranno da grandi? Con Chrysler, la Fiat tenta la carta Usa Ma il futuro è sospeso fra auto e servizi di Francesco Pacifico

ROMA. Se la ride Sergio Marchionne perché proprio Oltreoceano vendica le critiche di hedge funds e agenzie di rating, che da sempre mettono l’accento sulla bassa produzione e la scarsa internazionalizzazione della Fiat. Per non parlare della possibilità di intascare fondi pubblici, che Tremonti continua a negargli in patria. Se la ride per lo stesso motivo Bob Nardelli, ceo di Chrysler, il quale con un produzione legata a veicoli altamente energivori temeva di veder trasferire verso le altre case di Detroit (Gm e Ford) e soprattutto verso Toyota i fondi che la Casa Bianca ha concesso per la produzione di auto più piccole e meno inquinanti. Ora, con il Lingotto che metterà a disposizione le piattaforma e il know how della city car 500, potrà incassare dallo zio Sam circa 3 miliardi in più di quanto preventivato. Soprattutto se la ridono i soci della Fiat, gli Agnelli all’unisono che arrivati ormai alla sesta generazione possono vantare una schiatta composta da più di 160 membri. E spesso con interessi divergenti tra loro. Se la ridono perché con l’operazione Chrysler il Lingotto si è rilanciato

non spendendo un centesimo e ha anche messo le basi per una separazione tra azienda e famiglia. Nell’acquisto del 35 per cento di Chrysler da parte di Fiat lo storico Valerio Castronovo vede un parallello con il passato. «C’erano stati già due tentativi da parte del Lingotto di conquistare un’azienda Oltreoceano. Nel 1983 con Ford, ma l’operazione saltò perché gli americani si resero conto che Torino avrebbe avuto la maggioranza nella controllata europea. Nel 1998 con General Motors che poi è finita come è finta». E in entrambi casi c’è «l’amore dell’Avvocato verso l’America, che a New York si sentiva di casa».

Un parallelo con il passato, Castronovo, lo vede anche nella sempre più possibile estensione dell’alleanza ai francesi di Peugeot: «Tra Torino e Parigi i primi rapporti commerciali risalgono agli anni Sessanta, ancora oggi c’è un accordo sui veicoli commerciali. Il Dottore Umberto ha iniziato a lavorare proprio in Fiat France». Se non bastasse, «sia l’Avvocato sia il fratello hanno sempre amato gli Stati Uniti e la Francia. Proprio l’Avvocato guardava con

Lettera di intenti tra il colosso di Detroit e il Lingotto

Operazione a costo zero TORINO. Fiat ha firmato un primo accordo non vincolante con Chrysler per acquisire il 35% del gruppo americano ma la quota italiana potrebbe salire. Sulla possibilità di arrivare al controllo del colosso che sta attraversando una gravissima crisi, «vedremo» ha spiegato il vice presidente del Lingotto John Elkann. «è un accordo positivo - ha ripetuto -, guardiamo avanti, a un suo sviluppo positivo». Secondo Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fiat, «La lettera di intenti è una occasione per valutare importanti possibilità di collaborazione dal punto di vista della tecnologia e degli sboc-

chi sul mercato futuri. Ho sentito Marchionne per la centesima volta – detto ancora Montezemolo -, la collaborazione con Chrysler riguarderà soprattutto l’uso di tecnologie per i motori e le piattaforme» e la possibilità di soddisfare il mercato americano tramite «vetture che garantiscano meno consumi e che siano più piccole. E noi siamo leader mondiali nel campo delle basse emissioni». Positive le reazioni in Borsa, come pure sono stati entusiastici i commenti dei leader politici. In particolare il ministro Tremonti ha detto che «l’accordo è un importante segno di vitalità e di flessibilità industriale».

idiosincrasia alla Gran Bretagna o alla Germania». Come la Fiat di allora, quella di oggi cerca alleanze con quello che rimane dei giganti di Detroit o con il gruppo Psa. Ma i paragoni, soprattutto quelli sentimentali, finiscono qui. Perché rispetto al passato gli Agnelli arrivati alla sesta generazione – quella, per intenderci, dei piccoli Leone e Oceano Elkann – sembrano immedesimarsi sempre meno con la fabbrica. Guardano come un tempo ai lauti dividendi, che il Lingotto difficilmente riuscirà a garantire all’accomandita. Già il Dottore consigliava a tutti un lento disimpegno dall’auto, diversificando con la sua Ifil nell’alimentare, nei viaggi come nell’immobiliare o nella finanza. Così oggi si guarda alle occasioni che offrono un dollaro debole e una crisi di liquidità planetaria. Lo stesso accordo tra Fiat e General motors voluto e benedetto dall’Avvocato non avrebbe dovuto avere un esito diverso. Se alla fine del secolo scorso Carlo Azeglio Ciampi spingeva perché gli Agnelli si buttassero, garantendone la bandiera, nelle utilities come Telecom o Edison, oggi il mercato aspetta un interessamento al mercato immobiliare – John Elkann ha fatto le prime operazioni nel 2006, a crisi non ancora conclusa – o nell’engineering. Meglio ancora se in Asia. Anche perché la Exor, la finanziaria controllante Fiat e nata dalla fusione tra Ifil e Ifi, ha in pancia circa 1,3 miliardi di liquidità. Nel 2003 la crisi di Gm da un lato, l’interventismo delle banche e il rischio di ritrovarsi con un pugno di mosche di fron-

Alcuni rami della famiglia guardano come faceva Umberto Agnelli a una diversificazione e una lenta uscita dalle quattro ruote. Elkann controlla Exor e Montezemolo si guarda in giro te all’impossibilità di restituire il prestito convertendo dall’altro, spinsero la famiglia a cambiare idea e ad accettare la dura ricapitalizzazione chiesta da Umberto Agnelli. Ma se questo valeva 6 anni fa, oggi con una Fiat risanata non vale più morire per il marchio di famiglia. Perché si possono registrare con un po’ di pazienza e un pizzico di abilità forti plusvalenze da reinvestire altrove.

Se dall’alleanza con Chrysler nascesse quel colosso a 4 milioni di vetture e un 10 per cento del mercato globale, sarebbe

più facile fondersi con il gruppo Psa. Oltre che comandare in questo nuovo schema. Anche perché i francesi apporterebbero quei due milioni e più di veicoli, per arrivare a sei, che secondo Marchionne sono necessari per competere negli successivi alla grande crisi. A quel punto i soci Fiat potrebbero alleggerire progressivamente la loro posizione, mantenendo una quota che garantirebbe buone entrate. Fantafinanza? Forse, ma è un progetto al quale guarda buona parte della casata torinese. E non soltanto chi come Margherita Agnelli ha prima rifiutato di aderire al rilancio in accomandita chiesto dello zio e poi, più prosaicamente, ha chiesto dov’era finita l’eredità di suo padre. Come ha ri-


economia

21 gennaio 2009 • pagina 21

Aiuti di Stato e sviluppo del nostro capitalismo

Meglio il mercato della rottamazione di Carlo Lottieri segue dalla prima Un rapporto che da sempre rappresenta un elemento chiave del sistema produttivo italiano. Una delle frasi più note del senatore Gianni Agnelli è quella secondo cui «ciò che fa bene alla Fiat, fa bene all’Italia». Ovviamente non è così, e il Paese ha anzi pagato a lungo questa confusione. Per decenni l’azienda è vissuta in simbiosi con i partiti e con i meccanismi distributivi che hanno inventato. La cessione dell’Alfa Romeo al gruppo torinese, voluta da Romano Prodi, è stata forse l’espressione più evidente di tutto ciò.

cordato Oddone di Camerana, cugino di Gianni Agnelli, «ora che lui (l’Avvocato, ndr) è scomparso, dispiace ma ci si sente liberati». Infatti la composizione dell’accomandita, la famiglia Giovanni Agnelli & Sapa, come gli equilibri delle controllate principali hanno subito dalla morte del maggiorente una rivoluzione copernicana.

Nella cassaforte di famiglia manager affidabili come Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens sono riusciti a tenere sotto controllo i tanti malumori, compresi quelli di Andrea e Anna Agnelli, discendenti di Umberto che controllano il 10 per cento dell’accomandita e hanno legato il loro futuro professionale ad altro. In verità incidenti di percorso non mancano. Nello scorso maggio la sorella dell’Avvocato Maria Sole si astenne sulla richiesta di nominare come amministratore “l’esterno” Gianluca Ferrero.

Mentre c’è stato unanime consenso in famiglia sulla scelta di John Elkann di “rinunciare” alla presidenza Fiat dopo aver optato per quella di Exor, alla fusione di Ifi e Ifil non convertendo i titoli privilegiati, e all’acquisto del 35 per cento di Chrysler senza spendere soldi. In questo clima non deve sorprendere che Luca Cordero di Montezemolo – garante soprattutto delle quote di alcune zie come Susanna e Clara Agnelli – e Sergio Marchionne siano alla guida del Lingotto. E ci saranno fino a quando l’alleanza con gli americani non si estenderà ad altri partner. Ma l’ex presidente si guarda in giro. Libero ha rilanciato il suo sogno di guidare la Rcs, ma chi lo conosce bene fa notare che con la crisi attuale non è certamente una poltrona appetibile.

John Elkann, Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne: il vertice della Fiat che ha condotto le trattative a Detroit con la Chrysler. In basso, la vecchia e la nuova 500. A destra, l’Avvocato Gianni Agnelli

Questa strada non si è però rilevata vincente, tanto che si è avuta una progressiva perdita di dinamismo del gruppo torinese, sempre più orientato verso la politica e, di conseguenza, verso la creazione di un sistema di potere (anche informativo) in grado di orientare a proprio favore l’opinione pubblica. E se il Cav. si è trovato a disporre delle televisioni, a Torino si è pensato bene di giocare un ruolo decisivo nei luoghi in cui si elabora l’opinione pubblica “colta”: a partire dalla grande stampa nazionale. Ma con l’arrivo di Sergio Marchionne a Torino e la concomitante presenza di Silvio Berlusconi (non certo amico della dinastia piemontese) al vertice della politica, da qualche tempo la Fiat si orientata verso logiche più propriamente industriali. E stavolta i risultati sono arrivati. Mentre solo qualche anno fa il gruppo si trovava vicino al baratro, e c’era chi evocava gli scenari più pessimistici, oggi le cose vanno meglio. Certamente gli ultimi sei mesi sono stati mesi segnati dalla crisi finanziaria, ma anche in questo nuovo quadro oggettivamente meno roseo la Fiat sembra in grado di giocare le proprie carte. Purtroppo, una Fiat che si sviluppasse sul mercato toglierebbe spazio alla politica e alle sue pretese: e non a caso c’è chi, a dispetto dei conti pubblici, continua a spingere perché le si concedano aiuti di Stato. Stavolta non si tratterebbe più di rottamazione (il tema si è fatto démodé), ma invece di incentivi all’innovazione: soprattutto verso l’automobile“verde”.

E in questo senso più voci già lamentano presunti “ritardi” italiani, poiché molti Stati europei stanno muovendosi in tal senso, mentre il nostro governo fino ad oggi è stato prudente. L’argomento degli interventisti è che non ci può essere equilibrio nel mercato europeo se francesi e tedeschi aiutano le loro imprese, e in Italia ciò non avviene. E questo indipendentemente dal fatto che quei finanziamenti siano sensati oppure no. In realtà, l’appartenenza al mercato europeo non ci deve imporre di condividere gli errori compiuti dai partner. Specie quando le nostre imprese appaiono orientate a giocare le loro carte rafforzandosi sul mercato, senza bisogno di “stimoli”di alcun tipo.

L’alleanza strategia globale delineata dall’intesa Fiat-Chrysler risponde ad una convinzione radicata di Marchionne: e cioè che dopo la crisi il mercato automobilistico

Solo un gruppo ristretto di imprese saprà uscire dalla crisi, perciò sono necessarie scelte coraggiose per la costituzione di grandi gruppi lascerà sul terreno molte vittime. Solo un gruppo ristretto di imprese saprà uscirne ed è per questo che sono necessarie scelte coraggiose per la costituzione di gruppi di notevoli dimensioni. Ma se questo è vero, perde molto del proprio senso la proposta di studiare anche in Italia misure “a sostegno” delle imprese automobilistiche. Le regole della buona economia ci dicono che gli aiuti sono complessivamente dannosi e perfino da Torino giunge il segnale che l’impresa non sta ferma: assistendo inane al corso degli eventi. E a detta di Marchionne come del suo omologo americano, Bob Nardelli, i gruppi sembrano integrarsi perfettamente e sono quindi entrambi in condizione di trarre benefici dall’accordo. Nell’interesse di tutti, lasciamoli lavorare in pace.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal ”New York Times” del 19/01/2009

Gli stregoni di Gotham Bank di Paul Krugman ’economia voodoo - quella legata al mantra sul tocco magico dei tagli fiscali – è stata bandita da ogni dibattito civile. Il culto di chi sostiene solo la parte produttiva della società si è talmente ridotta che ci trovi solo pseudo-matematici, ciarlatani e repubblicani. Purtroppo ci sono notizie che segnalano molte persone influenti, come dirigenti della Federal Reserve, controllori bancari e membri della nuova amministrazione Obama, che pare siano diventati dei seguaci di un nuovo tipo di voodoo: la convinzione che seguendo elaborati rituali di carattere finanziario si possano tenere in vita istituti bancari decrepiti. Per spiegare meglio mi permetterò di descrivere la situazione di una banca fittizia. La chiamerò Ghotamgroup, per brevità, Gotham (è la città di Batman, ndr).

L

Gotham sulla carta ha 2mila miliardi di dollari di attività e 1.900 miliardi di passività, in maniera da aver un patrimonio netto di 100 miliardi di dollari. Una parte sostanziale delle sue attività – diciamo 400 miliardi - però sono costituite da obbligazioni ipotecarie e altri prodotti finanziari “tossici”. Se la banca tentasse di venderli non otterrebbe più di 200 miliardi. Gotham è una banca zombie: opera ancora sul mercato, ma la verità è che è morta. Le sue azinoni non hanno perso completamente di valore – ha una capitalizzazione sul mercato di circa 20 miliardi di dollari - ma quel valore si basa completamente sulla speranza che gli azionisti vengano salvati dall’intervento statale. Perché lo Stato dovrebbe intervenire? Perché è una banca che gioca un ruolo centrale nel sistema finanziario. Quando si è permesso a Lehman di fallire, il mercato fi-

nanziario si congelò e per diverse settimane l’economia mondiale barcollò al limite del collasso. Dal momento che non si vorrebbe ripetere quell’esperienza, bisogna permettere che Gohtam funzioni. Ma come farlo? Bene, il governo potrebbe semplicemente finanziarla con un paio di centinaia di miliardi di dollari, tanto per farla tornare solvibile. Questo però sarebbe un grande regalo agli attuali azionisti, che potrebbe condurre a prendere rischi eccessivi anche in futuro. Un’altra possibilità e che questo regalo sostenga le quotazioni azionarie.

L’approccio migliore sarebbe quello che fece il governo dopo la crisi delle casse di risparmio (saving&loan) alla fine degli anni Ottanta. Confiscando le banche ed eliminando gli azionisti. Poi trasferendo i debiti ad una istituzione speciale, la Resolution trust corporation, fornendo liquidi per la solvibilità dei debiti, per poi vendere gli istituti, dopo questa operazione, a nuovi acquirenti. Attualmente sembra che la politica non voglia prendere in considerazione nessuna di queste soluzioni. Starebbero invece indirizandosi verso un compromesso: spostare le perdite tossiche dai bilanci privati a delle «bad bank» o «banche aggregatrici», di proprietà pubblica, che assomiglia alla soluzione della trust corporation, senza però la preventiva confisca degli istituti. Sheila Bair, presidente della Federal deposit insurance corporation (istituto che assicura i depositi, creato nel 1933 a seguito della Grande depressione, ndr) ha

affermato che «la banca aggregatrice acquisterebbe le attività al giusto valore». Ma cosa significa «giusto valore»? Tornando all’esempio di Gohtam, che ha in bilancio 400 miliardi di debiti spazzatura, il loro giusto valore sarebbe di 200 miliardi. Per rendere solvibile la banca, però il governo dovrebbe acquistare quelle attività ad un valore superiore a quello di mercato.

Può darsi che il mercato non voglia pagare il giusto valore per i prodotti tossici e la Bair conferma che non esiste un sistema preciso che ne definisca il valore effettivo. Ma il governo deve dichiarare di saper fare meglio del mercato? E siamo sicuri che pagando il «giusto valore», qualsiasi esso sia, riusciremo a salvare Gotham. Alla base di quello che, così com’è, sembra solo un regalo agli azionisti delle banche, c’è un governo terrorizzato dall’idea di anche solo pronunciare la parola «nazionalizzazione». Da ciò deriva il successo del nuovo voodoo finanziario, che illude chi governa di poter rianimare banche già morte e sepolte.

L’IMMAGINE

Il “dramma” di Kakà è autentico: il giocatore ha un animo nobile Voi al posto di Kakà cosa avreste fatto? Uno sceicco pieno di soldi gli ha offerto una montagna di dollari, eppure il giocatore brasiliano del Milan è riuscito a dire: «No, grazie!». Ma allora è vero che i soldi non sono tutto. È anche vero che per Kakà la vita è un po’ diversa da quella dei comuni mortali: gioca in una delle squadre più famose del mondo e ha già di suo una barca di soldi.Tuttavia la sua storia sembra proprio esemplare. C’è da capire se in questa moderna favola è davvero tutto vero, come ha detto il presidente Berlusconi in diretta televisiva al Processo di Biscardi. Kakà ha la faccia d’angelo ma veste pur sempre la maglia del “diavolo”. Il papà di Kakà, giunto a Milano per la speciale occasione della trattativa col Manchester, ha raggiunto un compromesso con Galliani e il Club rossonero: forse un aumento, dei benefit, una garanzia sul futuro. Insomma ha fatto quello che si fa in questi casi: ha tirato acqua al suo mulino. Ma il “dramma” di Kakà è autentico: il giocatore ha un animo nobile.

Giampiero Galli

INSEGNAMO AI GIOVANI LA CULTURA DEL SACRIFICIO Che i giovani non siano in grado di autolegittimarsi come categoria perché non ricevono degli input dalle istituzioni è una tesi zoppicante; che risentano spropositatamente della pressione esercitata da una società turbolenta è eccessivo. La verità è che la società dei giovani di oggi è quella del Grande Fratello, dell’Isola dei Famosi del “devo godermi la vita, non ho tempo di studiare”, quella in cui leggere un libro è diventata una fatica erculea. Eppure i giovani si piangono addosso perché non si sentono rappresentati e perché il mondo è ingiusto con loro. Ciò non è imputabile alle istituzioni, ma al venir meno della cultura del sacrifi-

cio e al viscerale disinteresse con cui affrontano la vita scolastica e la vita civica. Come potranno essere cittadini coscienziosi domani se oggi i loro valori languono?

Antonio Filippo

È GHEDDAFI L’ITTERO DI MARONI Il Mediterraneo è pieno di morti, Lampedusa di immigrati e Maroni di bile perché Gheddafi, pieno di gas, tutti i giorni ci manda un “ricordino”per la promessa autostrada verso l’Egitto. Ho approvato il “caro” accordo fatto dal Premier per chiudere una pagina di storia non proprio bella ma, non avendolo il Parlamento ancora ratificato, ecco la barchetta. Non ci sono libici sulle carrette ma solo uomini in fuga dalla guerra e dalla miseria, abbagliati

Amore in pillole È ora che Cupido metta arco e frecce in naftalina per prendersi una bella vacanza. Tra qualche anno potrebbe essere la medicina a gestire la nostra vita sentimentale. O meglio, alcuni ricercatori sono sulla buona strada per capire i meccanismi neuronali e genetici coinvolti nell’amore e per modificarli a piacimento. Per far perdere la testa a qualcuno basterà insomma fargli inghiottire una pillola? da ingannatrici tv che inducono in tentazione. L’ultima volta che sono stato a sud della Libia, mi sono reso conto che, se il Califfo volesse fermare le carovane dei nuovi schiavi, basterebbero venti gendarmi. In Libia “non si muove foglia che Gheddafi non voglia“ e, invece di arrabbiarci, andiamo “giustamente” sotto la sua tenda, beduini ossequiosi, a prendere

un thè alla menta, cercando, senza averne le qualità, di essere come Mattei. Diamoci una mossa, l’alternativa è troppo cara per noi e per i “ricordini”.

Dino Mazzoleni

SCONTRO SANTORO-ANNUNZIATA Ho seguito lo scontro Santoro-Annunziata. Se persino una giornalista non propriamente di destra (ri-

cordiamo tutti lo scontro televisivo col Cavaliere) rimane schifata dalla faziosità e dal pessimo giornalismo dell’ossigenato conduttore e abbandona lo studio di Annozero, significa che si è toccato davvero il fondo. Invito Santoro a fare del vero giornalismo anziché spazzatura mascherata da impegno sociale e lotta per la legalità.

Lettera firmata


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Non avrei dovuto sposarti Gioisco ora nel sogno come di ogni cosa che mi fa sentire meglio la gioia di possederti. Legittimamente possederti, ma onestamente? È evidente che io non avrei dovuto sposarti. Oggi che mi sento tanto vicino a te moralmente, comprendo come questo resto di gioventù che potrei dedicarti non sia fatto per una simile intensità di sentimento. Nei primi giorni della tua assenza rifacevo l’antico desiderio di prenderti al tuo ritorno, coricarmi vicino a te e magari esaurirvi ogni forza, tutta la vita. Invece oggi vorrei averti vicina a me, prenderti una mano e lasciarti dormire sempre tenendoti la mano e augurandoti con un augurio intenso che possa giovare che tu dorma che tu riposi che tu infine guarisca. Penso con Tolstoi che i rapporti più facili siano quelli fra fratello e sorella. Confessa che almento per un buon fratello a me non mancherebbe nessuna buona qualità. Tu non sai come io sarei capace di molti sacrifici per risparmiarti un dolore. Non puoi saperlo perché viceversa poi quando nel mio fisico trionfa il marito geloso desidererei fulminarti. È dunque il marito il tuo nemico. Il marito che da una parte non ti dà tutto quello che dovrebbe e dall’altra procura di toglierti la più piccola soddisfazione che potrebbe derivarti dalla tua bellezza. Italo Svevo alla moglie Livia Veneziani

ACCADDE OGGI

DON LUIGI STURZO È un ricordo molto bello quello dell’amico Luigi Bottazzi di don Luigi Sturzo e del suo appello del ’19 “Ai liberi e forti”, ma l’amara verità è che gran parte dei cattolici in politica non hanno studiato, non hanno meditato, non hanno amato, non hanno seguito il pensiero e l’azione del fondatore del Partito popolare italiano. E non hanno fatto alcun profondo esame di coscienza. I valori popolari non sono mai stati mantenuti vivi dal vertice della Dc, in particolare, dalla sua ala sinistra, che non ha mai portato il pensiero di Don Sturzo alla base del partito cattolico, né ha fatto una politica ispirata dal popolarismo di matrice sturziana. Per la Dc è quindi stato fatale non ascoltare i consigli e gli ammonimenti di Sturzo negli anni Cinquanta e ancor più averli dimenticati nei decenni successivi, quando il sacerdote di Caltagirone ha subito un secondo esilio, un esilio di tipo culturale, dopo quello fisico sofferto a causa del fascismo. E questo secondo esilio deve essere stato più amaro del primo, perché era imposto da uomini che avrebbero dovuto avere la stessa fede dell’esiliato, una fede maestra di vita che andava praticata nel concreto della vita politica. Per concludere, non posso non rilevare che la Dc, caro Bottazzi, si è frantumata perché è mancata la sua vera ragione d’essere, ossia la seria applicazione dell’ideale cristiano alla politica. È mancato quel “soffio etico-religioso” che doveva essere sempre presente in chi aveva ac-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa

21 gennaio 1899 Viene fondata la fabbrica di automobili Opel 1908 New York approva una legge, l’Ordinanza Sullivan, che rende illegale per le donne fumare in pubblico 1911 Prima edizione del Rally di Monte Carlo 1924 Vladimir Lenin muore. Josif Stalin inizia ad eliminare i suoi rivali per assicurarsi il ruolo di leader 1925 L’Albania si proclama Repubblica 1954 Il primo sottomarino nucleare, il USS Nautilus, viene varato a Groton da Mamie Eisenhower, First Lady degli Stati Uniti 1968 Un B-52 precipita in Groenlandia: delle quattro bombe nucleari a bordo, una non venne mai ritrovata 1982 I carabinieri Giuseppe Savastano ed Euro Tarsilli vengono assassinati da esponenti dei Comunisti Organizzati fermati per un controllo 1998 Il papa Giovanni Paolo II va in visita apostolica a Cuba, e qui incontra anche Fidel Castro 2001 La tedesca Jutta Kleinschmidt è la prima donna a vincere il rally Parigi-Dakar

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Enrico Singer

cettato l’onore e si era assunto l’onere di fare politica in un partito che si definiva cristiano.

Angelo Simonazzi

GALLI E L’OMOFOBIA Nei giorni scorsi il consiglio regionale della Lombardia ha bocciato una proposta di adesione alla giornata mondiale contro l’omofobia che si tiene il 17 maggio. L’adesione a tale iniziativa avrebbe dovuto essere scontata in quanto si chiede il rispetto della libertà, di vivere dignitosamente la propria vita, senza essere discriminati per il fatto di avere affetto per le persone del proprio sesso.Votare a favore di questa proposta avrebbe aiutato quelle associazioni e organizzazioni che si battono affinché venga depenalizzato il reato di omosessualità, così come previsto dal Consiglio generale dell’Onu e avrebbe contribuito a far pressione su quegli Stati dove gli omosessuali subiscono il carcere e anche la pena di morte. Sono concetti tanto chiari e semplici, che non dovrebbero più essere messi in discussione da nessuno, in quanto l’essere contro l’omofobia non implica l’accettare le legittime richieste di equiparazione dei matrimoni tra coppie eterosessuali ed omosessuali. Il protagonista della bocciatura alla Regione Lombardia è stato il consigliere Stefano Galli, Lega Nord. Dal suo intervento si evince la scarsa conoscenza di quanto affermato dalla Oms: omosessualità non malattia mentale, e la poca sensibilità verso coloro che sono discriminati e perseguiti per amare persone dello stesso sesso.

Luca Maggioni

Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA COMMEDIA DELLA VIGILANZA RAI Ritorna di scena il caso Villari-Vigilanza Rai, e lo sconcerto cresce. Il Pd affronta questioni fondamentali della propria esistenza in vita, scaricando sulle istituzioni le sue divisioni, i problemi di dosaggio del potere fra le varie componenti. Si sta mettendo in scena sulla Vigilanza Rai una commedia che rischia di dare l’ennesimo colpo al prestigio delle Istituzioni. Una meschina vicenda di partito per la distribuzione di poltrone, elevata a questione istituzionale. Il Pd e i suoi dirigenti non contenti delle randellate che prendono ogni giorno dal partito di Di Pietro, insistono e perseverano. Bisogna ricordare che l’attuale presidente della Vigilanza non è stato eletto da fantasmi; chi l’ha votato se ne assuma la responsabilità fino in fondo. Le ipotesi in campo sono due: o Villari è stato eletto da incapaci oppure quelli che l’hanno voluto erano ben consapevoli di farlo, tertium non datur. Nel primo caso c’è da preoccuparsi, e non poco, per avere in Parlamento gente che non sa cosa vota; nel secondo, se Villari è stato scelto consapevolmente vuol dire che ragioni di opportunità politica inducevano a percorre questa strada. Adesso, però, per fare una “cortesia” a Veltroni, brutalmente, si dice a Villari: scusaci, avevamo bisogno di un fantoccio, abbiamo scherzato; servivi solo per fare fuori Orlando. Cosa che agli osservatori esterni non è sembrato. Infatti, non è stato così. Bella politica, tra confusione, sciatteria, superficialità, incoerenza! La Vigilanza Rai, con dichiarazioni, repliche, lambiccamenti di vari esponenti politici pare sia diventata questione fondamentale per le sorti del mondo, forse più della guerra Israele-Palestina o della crisi mondiale dell’economia. Se il presidente del Senato, convoca la giunta per il regolamento per cacciare Villari, vuol dire che la politica è messa proprio male. Una volta erano i partiti a far funzionare le Istituzioni, adesso sono le Istituzioni che devono farsi carico di risolvere meschini problemi interni ai partiti. Siamo alla frutta. Un partito il cui segretario non riesce ad esprimere una sintesi e una politica su questioni ordinarie lo si può considerare soltanto alla deriva, nonostante il clamore e gli osanna dei tifosi. L’unica cosa che può fare è dimettersi. Il Pd purtroppo è un organismo politico acefalo, non nato da un’idea, inconcludente, può solo nuocere alla buona politica, alimentando la babele e le opacità. Il fatto quando non nasce dal pensiero produce guasti. Raffaele Reina C I R C O L I LI B E R A L PR O V I N C I A D I NA P O L I

APPUNTAMENTI 20 - 21 FEBBRAIO 2009 TODI Hotel Bramante via Orvietana VII Seminario di Cultura e Politica

ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Marco Staderini Amministratore delegato: Angelo Maria Sanza Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Lorenzo Cesa, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Emilio Lagrotta, Gennaro Moccia, Roberto Sergio Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Emilio Spedicato, Davide Urso,

Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)

Marco Vallora, Sergio Valzania

Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


he di cronac di Ferdinando Adornato

23 GENNAIO 2008 NASCE IL QUOTIDIANO 23 GENNAIO 2009 LIBERAL RADDOPPIA Da venerdì esce la nuova edizione online con aggiornamenti in tempo reale sull’Italia e sul mondo

www.liberal.it


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.