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Ah, libertà, libertà! Persino un vago accenno, persino una debole speranza che essa sia possibile, dà le ali all’anima
he di c a n o r c
9 771827 881004
Anton Cechov
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
APPELLO AI POTENTI DELLA TERRA RIUNITI A DAVOS
Prima di tutto, le donne di Ayan Hirsi Ali
La vera priorità della globalizzazione è la condizione femminile. La più celebre dissidente dell’Islam lancia una sfida ai governi dell’intero pianeta alle pagine 2, 3, 4 e 5 I primi passi di Obama / l’etica
I primi passi di Obama / l’economia
Punture di spillo, mai decisioni coraggiose
Un colpo di teatro che guarda alla politica
Sorpresa: Auto verde Che noia Illazioni Barack è e sfida alla Cina, il malessere sul finto addio l’anti-Lincoln solo due bluff di An! dell’Ingegnere di Michael Novak a presidenza Obama si è insediata da una sola settimana, ma ha già delineato le sue principali linee morali. È difficile pensare a un presidente americano che, per carattere e progettualità, assomigli meno ad Abramo Lincoln di Barack Obama. Addirittura nei suoi primi sette giorni di mandato, diversamente da Lincoln, ha già dichiarato che il suo scopo principale è quello di restringere il cerchio attorno a quegli esseri umani i cui diritti hanno bisogno di essere protetti dalla legge. Che differenza: Lincoln aveva allargato il cerchio di vita e libertà, mentre l’impulso del presidente Obama è di ridurlo. Come dire: quello di Lincoln era un obiettivo liberale, quello di Obama è illiberale. Per proteggere l’Unione e la sua Costituzione - la mela d’oro in una cornice d’argento - Lincoln ritenne necessario e giusto sospendere l’habeas corpus e altri diritti civili, in alcuni luoghi e in determinate circostanze. Mentre il presidente Obama agisce come se l’Unione e la sua Costituzione impedissero la difesa straordinaria dei diritti civili, anche in momenti di estremo pericolo e distruzione. A conferma di ciò, è sufficiente prendere in considerazione le tre principali priorità che il presidente Obama ha affrontato nel corso dei suoi primi quattro giorni di servizio.
di Enrico Cisnetto
di Riccardo Paradisi
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di Giancarlo Galli
i candida a diventare il nuovo refrain degli anni prossimi venturi il malessere di Alleanza nazionale dentro il Pdl, l’insofferenza della destra “movimentista” verso il berlusconismo come categoria politica e stile antropologico. Come se non fosse già noto dalla sua genesi che il Pdl sarebbe stato un partito berlusconiano nelle forme e nella sostanza. Un’insofferenza dunque sterile quella di An che non ha mai prodotto una rottura politica, una presa di posizione conseguente. Al massimo qualche scaramuccia. Un refrain che si alimenta di mantra come il radicamento sul territorio, di retoriche identitarie. Un dibattersi dentro la fusione che ogni giorno presenta nuovi motivi per esibire, ma non troppo, un’eccezione, un distinguo, un rilievo. Paventando, come misura estrema di reazione, lo slittamento di una settimana del congresso del Pdl. E sai che paura! Quelli di An sono affondi senza spada: simulazioni di frondismo. Oggi in riferimento alla partita sulle intercettazioni e sulla riforma della giustizia, ieri sul cesarismo e domani ancora sul presidenzialismo, magari, il cavallo di battaglia della destra fino a quando a evocarlo non è stato Berlusconi. Ma come definire queste insofferenze che sempre poi si ricompongono?
titoli dei giornali non devono trarre in inganno: la pirotecnica uscita di scena dell’Ingegnere ha lasciato scettico e anche un po’ indifferente lo smaliziato mondo della finanza. Spiegazione: il nobile cavallo appariva da tempo piuttosto bolso, cioè a corto di fiato sul terreno del business come su quello della politica. Andiamo con ordine, partendo dall’altro ieri (il 2005), nel tentativo di decifrare questo eclettico personaggio a nome Carlo De Benedetti, nato a Torino nel 1934 da famiglia con radici ebraiche, residenza a Saint Moritz, due matrimoni e tre figli dei quali il primogenito Rodolfo in lancia di comando.
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Tim Geithner, neoministro del Tesoro on è per niente pacifista la partenza della nuova Amministrazione Obama. Certo, c’è la mano tesa all’Islam e la decisione di chiudere Guantanamo, ma ci sono almeno due “guerre” che sono state appena lanciate e che non sono meno importanti di quella all’Iraq, pur non prevedendo l’uso delle armi. La prima è quella contro il collasso dell’industria automobilistica, simbolo del capitalismo che è diventato una vera e propria palla al piede dell’economia Usa. La seconda è quella con la Cina, che rischia di essere declassata da “amica” a “nemica” forse senza aver ben calcolato a cosa si va incontro.
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se gu e a p ag in a 8 segu2009 e a pag•inEaURO 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 28 GENNAIO
se gu e a p ag in a 9 CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
19 •
WWW.LIBERAL.IT
Carlo De Benedetti
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 28 gennaio 2009
Parità. Occidente a parte, nel resto del mondo il sesso debole non ha voce: una denuncia al vertice che comincia oggi
L’altra metà di Davos
L’accorato appello al forum mondiale della più celebre dissidente dell’Islam: «Rifiutatevi di fare affari con chi viola i diritti delle donne» di Ayan Hirsi Ali a casa delle donne è vasta e non finita. L’ala occidentale è quasi completa. La maggior parte di noi che ci viviamo gode di privilegi come il diritto di votare e di mettersi in lizza per una posizione. Abbiamo accesso all’istruzione e possiamo mantenerci da sole, se lo vogliamo. Abbiamo convinto la maggior parte dei nostri legislatori che la violenza domestica, le molestie sessuali e la violenza sessuale sono crimini. Abbiamo il controllo dei nostri corpi e della nostra sessualità. I genitori, gli insegnanti, i capi possono prepararci, ma non ci possono obbligare a iniziare o chiudere una relazione. I nostri futuri compagni ci possono corteggiare, adulare ma dovranno ingoiare il loro orgoglio se li rifiuteremo. Come in tutte le case, le cose nell’ala occidentale non vanno sempre lisce. A volte le regole non vengono applicate. La violenza domestica viene ignorata e i colpevoli se la cavano spesso con poco. Alcune donne sentono di non ricevere lo stesso riconoscimento dei loro colleghi uomini pur svolgendo lo stesso lavoro. Altre si scontrano con il tipico soffitto di cristallo. Così alcune donne cercano di arredare la casa con maggiori regole e frantumare i tetti trasparenti. Se si va verso est, si vedrà che la casa non è finita. Alcune parti sono state cominciate, ma sono poi state abbandonate e ora stanno cadendo in rovi-
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na. In altre parti, ogni volta che si innalza un muro, c’è qualcuno che lo butta giù. In quelli che dovevano essere bei cortili, ora ci sono basse tombe senza nome, dove giacciono bambine morte perché non erano considerate degne di essere nutrite. A est, alcune bambine vengono trasportate come fossero proprietà - spesso con la connivenza dei loro genitori - per gratificare i desideri sessuali degli adulti. Le bambine lavorano la terra, vanno a prendere l’acqua, conducono le greggi, cucinano e puliscono dall’alba al tramonto senza alcun compenso. Altre ancora vengono picchiate im-
Sotto accusa i mancati inviti
Le leader al WEF sono meno del 10 percento di Luisa Arezzo
punemente. Centinaia di migliaia muoiono partorendo perché mancano le principali cure igieniche e sanitarie.
In alcuni angoli dell’est le donne non accolgono con felicità la notizia di essere incinta. Spesso si rivolgono a un medico per conoscere il sesso del feto, se si tratta di una bambina, il medico la rimuove, e se la donna non può permettersi le spese per l’aborto, la bambina una volta nata viene soffocata e abbandonata a se stessa fino alla morte. Questa pratica è così sistematica in alcune camere dell’ala orientale che gli uomini hanno difficoltà a trovare compagne da sposare. Nel mezzo dell’est, la maggior parte delle donne sono bandite dalle aule pubbliche e quando vi accedono, sono coperte da capo a piedi con tuniche scure e pesanti. Molte di loro non sanno scrivere e leggere, sono costrette al matrimonio e a vivere perennemente incinta. Non hanno diritti di riproduzione. Se vengono violentate, il fardello della prova giacerà nel loro grembo per dimostrare la loro innocenza e in alcune camere donne e bambine anche
solo di 13 anni vengono linciate e frustrate pubblicamente per disobbedienza sessuale. Nella parte più orientale della casa, alcune persone sono talmente terrorizzate dalla sessualità della donna che tagliano i genitali delle bambine, mutilandole e bollandole con il marchio della proprietà. In questi giorni molte persone stanno cercando di lasciare l’ala orientale per quella occidentale, dove il destino delle loro sorelle rimaste a casa viene spesso dimenticato. E mentre le bambine in Occidente si preoccupano delle comodità, gli uo-
gli aguzzini delle donne stiano frantumando le chiavi di volta dell’Occidente. Supponiamo che le loro priorità diventassero preservare ogni obiettivo conquistato nel lato occidentale e migliorare la situazione nel lato orientale. Immaginate se la liberazione delle donne fosse un compito da essere realizzato con la stessa solida convinzione con cui si è sostenuta l’abolizione del commercio di schiavi, la demolizione dell’apartheid o il perseguimento dei diritti civili.
Immaginate cosa succederebbe se i leader mondiali si impe-
Immaginate cosa succederebbe se i “capi” del mondo si impegnassero nella causa: quante vite salvate, quante prigioni spalancate, quante bambine risparmiate
l vertice è cominciato. “Ridisegnare il mondo dopo la crisi”, il motto dell’evento 2009, campeggia e risplende in ogni angolo della cittadina. Tutti possono partecipare, è scritto sotto, piccolo piccolo. Ma dal più grande forum del mondo: YouTube, non certo dal vivo. L’ingresso alla kermesse, infatti, è precluso a chi non ha l’invito. E non solo a loro. Dati alla mano, è di fatto interdetto anche alle donne. Che si sono organizzate programmando un contro-vertice annuale a Deauville, in Francia, ribattezzato polemicamente “Davos, il forum economico-sociale delle donne”. In effetti, la disparità numerica fra maschi e femmine al meeting svizzero è tale da suscitare forti dubbi sul reale ingresso nel XXI secolo dell’organizzazione elvetica. Ci sono solo 4 donne nel board della fon-
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mini a Est rivendicano camere dove possano praticare abitudini orientali.
A Davos - su una montagna incontaminata nei giardini curati dell’ala occidentale - parole come “Sharia”sono esotiche come favole. Ma a Birmingham, a Berlino e nelle banlieue di Parigi, la casa della libertà delle donne viene svuotata dall’interno. Supponiamo che gli uomini e le donne che si riuniscono a Davos nel 2009 possano vedere le profonde differenze tra le due ali della casa che tutti noi condividiamo. Supponiamo che possano afferrare l’immensa sofferenza di coloro che si trovano sul lato non finito, o possano aprire gli occhi su come
dazione Davos (su 22 membri, dunque appena il 18%) e nessuna nel managing board, che è di fatto responsabile dell’evento e della lista degli invitati. Cifra irrisoria, soltanto 2, fra i 10 direttori generali (20%), che hanno il compito di scegliere le tematiche da affrontare al vertice. Si segna un +52% soltanto fra gli impiegati della struttura, con compiti che non vanno al di là del “controllo sicurezza” o “servizi mensa”. Fra i cosiddetti co-chair (coloro che hanno il compito di aiutare a organizzare il vertice) è donna una su sette: Maria Ramos, direttore generale di Transnet. E fra i leader invitati, appertiene al gentil sesso meno del 10% dell’intero panel. Si segnalano: Connie Hedegaard, ministro dell’Energia danese, i commissari Ue Viviane Reding e Benita Ferrero Waldner, la premier tedesca Angela Merkel, un paio
gnassero nella causa della parità di diritti per tutte le donne, se rifiutassero strenuamente di intraprendere discussioni culturali e religiose che violassero i diritti della donna e abbattessero gli ostacoli posti sul loro cammino da coloro che hanno interessi acquisiti nell’oppressione della donna. Immaginate il numero di vite che salverebbero. Immaginate quanti cancelli di prigioni si spalancherebbero. Immaginate quante bambine sarebbero risparmiate da morte o da punizioni per mano dei loro giudici o dei loro padri. Immaginate cosa potrebbe fare per il mondo l’energia repressa di queste donne liberate. L’uomo di Davos non riesce ad immaginarlo, o forse sì?
di ministre (russa e messicana), la nostrana sindaco di Milano Letizia Moratti e poche altre. La risicata quota rosa - con la conseguente assenza di energie, idee e prospettive che potrebbero portare - non è certo cosa di cui andare fieri. Fino a due giorni fa, oltretutto, nella lista ancora ufficiosa che si poteva scorrere sul sito ufficiale del WEF, su 81 leader indicati come rappresentativi dell’importanza del meeting, soltanto 4 erano donne: siamo appena sotto la soglia del 5%.
L’emarginazione delle donne dalle issue economiche non solo non è nuova, ma è stata analizzata da fondazioni e centri di ricerca, come l’americana Catalyst, Goldman Sachs e McKinsey. E in tutti casi la risposta è stata sempre la stessa: che errore
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Cina, Iran, ex sovietici: i Paesi impegnati a lottare contro i diritti umani
Tutti i campioni della repressione di Vincenzo Faccioli Pintozzi ra i documenti ufficiali che compongono la cartella stampa del Forum economico di Davos, che si apre oggi in Svizzera, c’è la lista dei partecipanti. Si tratta di sette pagine fitte di nomi: leader internazionali, capi di Stato e di governo, esperti del settore. E, dal primo ministro russo Putin in giù, alcuni fra i più feroci repressori dei diritti umani dell’intero pianeta. La lista, così come l’incontro, abbraccia tutti i continenti: l’Asia e l’Africa, verità scontata, presentano i propri campioni e oscurano le nazioni occidentali. A discutere di come superare la crisi che ha colpito le economie mondiali nel 2009, che si preannuncia lunga e dolorosa per tutti, ci sono (in stretto ordine di presentazione): Ilham Aliyev, presidente dell’Azerbaijian; Wen Jiabao, primo ministro della Cina; Manouchehr Mottaki, ministro degli Esteri dell’Iran; Nursultan Nazarbayev, presidente del Kazakhstan; Yousaf Raza Gillani, primo ministro del Pakistan; Vladimir Putin, primo ministro della Federazione russa; Paul Kagame, presidente del Rwanda; Recep Tayyip Erdogan, primo ministro della Turchia; Nguyen Thien Nhan, vice primo ministro del Vietnam. Tutti leader che hanno fatto della repressione violenta e della dittatura la propria bandiera. Una bandiera che, all’atto pratico, si traduce in uso sistematico della tortura, arresti arbitrari, negazione dei diritti sanciti nella Carta internazionale dell’Onu, censura e violenza. Ma tant’è: pecunia non olet. A volerli vedere da vicino, prendendo in considerazione soltanto il 2008 per evidente mancanza di spazio, si ottiene una fotografia completa e agghiacciante dei metodi di governo dei leader economici di Davos. Ilham Aliyev è figlio del terzo Presidente dell’Azerbaijan Heydar Aliyev, e ha ottenuto la carica paterna dopo aver guidato il Partito per l’Azerbaijan all’interno del Politburo nazionale. “Intronato” nel 2003, dopo violente proteste per i brogli nel corso delle elezioni, ha iniziato una repressione feroce dei suoi oppositori politici, che ha riempito le carceri nazionali e ha fatto “sparire” alcuni fra i dissidenti più noti del Paese. Dove le donne sono considerate alla stregua di animali, e non hanno neanche il diritto di guidare. Per Wen Jiabao e il governo che rappresenta non basterebbe un libro. In Cina sono comuni e accettate le condanne ai lavori forzati per chi si macchia di atti collegati alla libertà di pensiero e osa criticare il Partito comunista. La censura regna sovrana e la libertà religiosa è pressoché inesistente. Non c’è democrazia, e la strabiliante crescita economica del Paese poggia le sue fondamenta sulla riduzione in schiavitù di buona parte della popolazione. Di Mottaki, che personalmente si ritiene un riformista, si potrebbero ri-
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non godere del loro apporto creativo e intelletuale. Un’affermazione che non nasce dalla volontà di dare un contentino al genere, ma piuttosto dall’analisi di dati certi: le donne, dal 2000 ad oggi, sono la maggioranza dei laureati a livello mondiale. E sempre dal Duemila, solo in seno all’Unione europea, su 8 milioni di nuovi posti di lavoro, ben 6 sono stati creati dal gentil sesso. Un rapporto inglese del 2006, realizzato dalla Women & Work Commission, ha stimato che il Paese potrebbe beneficiare di un incremento economico pari a 23 milioni di sterline (il 2% del Pil) soltanto utlizzando al meglio le competenze femminili. Non solo: sulle centinaia di aziende prese in considerazione, è indubbio che i risultati di quelle guidate dalle donne, godano di miglior salute. E allora perché continuare a tagliarle fuori?
A sinistra, la scrittrice Ayan Hirsi Ali. A destra, dall’alto: il premier cinese Wen Jiabao, il primo ministro russo, Putin, il premier turco Erdogan e il presidente del Ruanda Paul Kagame
cordare le impiccagioni ordinate durante la Rivoluzione di Khomeini, e il suo appoggio alla caccia agli omosessuali in corso in Iran.
Per non parlare della minaccia nucleare con cui l’esecutivo che rappresenta tiene in scacco il mondo intero. La situazione femminile iraniana è nota in tutto il mondo: basti ricordare che l’Arabia Saudita ha pubblicamente lodato l’impegno con cui Teheran“educa”le madri e le mogli islamiche. Costrette al velo e a una stretta osservanza dei precetti coranici. Nursultan Nazarbayev ha firmato nel 2008 una legge che impone nel suo Paese una “non-libertà religiosa”. Fedele agli insegnamenti di Stalin, si è sempre professato ateo: in questi ultimi tempi, fiutata l’aria che tira, ha iniziato a rivalutare “l’eredità musulmana”del Kazakhstan. Nel frattempo, ha cancellato ogni presenza non gradita dalla scena sociale e utilizza la tortura per ottenere delle “confessioni”dai suoi oppositori e sfruttarle per finire l’opera iniziata nel 2003, anno della sua“elezione democratica”. Raza Gillani, neo primo ministro del Pakistan, ha un passato personale abbastanza limpido. Eppure, il governo di Islamabad si sta pericolosamente avvicinando all’insurgenza talebana che opera nella parte settentrionale del Paese. Per compiacere gli scomodi vicini, ha accettato l’instaurazione della legge islamica in alcune parti del Pakistan e tratta le minoranze religiose in maniera inaccettabile. Oltre a permettere ai talebani di applicare la loro“filosofia” nel mondo femminile: una schiavitù di fatto. Per quanto riguarda Putin, si deve fare un discorso a parte.Aver concesso allo zar russo il discorso di apertura del Forum – a pochi giorni dall’ennesimo, duplice assassinio di giornalisti e avvocati avvenuto in circostanze misteriose a Mosca – lo eleva al di sopra degli altri partecipanti, sigillando di fatto il principio che apre questa lista. Pecunia, o per meglio dire energia, non olet. Kagame ha una storia diversa: il suo impegno nel fermare il genocidio in Rwanda è noto, ma rimangono delle ombre sulla modalità di trattativa messa in atto dal presidente durante la difficile pacificazione del Paese. In ogni caso, Human Rights Watch segnala diverse violazioni ai diritti umani commessi nello Stato africano. Erdogan e Thien Nhan hanno dei tratti comuni. Entrambi fanno parte di governi contestati, sia all’interno che all’esterno, ma non sembrano mossi da fanatismi personali. Più che altro, con il loro operato, lasciano agire indisturbati i fanatici dell’islam (nel caso turco) e gli eredi delle guardie rosse (nel caso vietnamita). Ma, secondo il principio di Ponzio Pilato, così facendo si macchiano quanto meno di connivenza. Proprio come molti di quelli che, a Davos, firmeranno ricchi contratti con questi Paesi per contrastare la devastante crisi economica. Una volta di più, a farne le spese saranno i diritti umani.
Le pessime condizioni inflitte alle donne, insieme con censura e tortura, sono i tratti salienti dei governi riuniti in nome del denaro
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Sprechi di denaro. Word Economic Forum 2009 nell’ormai famosa città svizzera: un’edizione ancora più inutile e decadente del solito
Il Dopolavoro dei potenti Una volta era il “salotto buono”, oggi è solo un cattivo show non a caso ad aprirlo sarà lo zar Vladimir Putin di Maurizio Stefanini ncora ignaro di un Forum economico Mondiale ben al di là da venire ma a ridosso della tragedia della Grande Guerra, Thomas Mann ambientò nella “Montagna incantata” di Davos un dramma dall’inquietante simbologia: su personaggi che consumavano in inutili dibattiti sui massimi sistemi la lenta attesa di morire per“consunzione”. Poi, dal 1971, la località svizzera divenne il luogo dove ogni anno si riuniscono a discutere i “Davos Men”, come appunto li definì Samuel Huntington. I “padroni del mondo”legati a una dimensione della globalizzazione assolutamente cosmopolita e tali, dunque, da attirare le opposte antipatie sia del teorico dello “scontro di civiltà”
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BILL CLINTON L’ex presidente Usa sarà il fiore all’occhiello della delegazione americana, che non vede presenti in Svizzera ministri della nuova amministrazione Obama
sia di quel movimento autodefinitosi appunto noglobal. E che inventò l’altro Forun detto “Sociale Mondiale”in chiave anti-Davos.
Huntington è appena morto, 81enne, alla vigilia dell’ultimo Natale: in tempo per vedere gran parte di questi Davos Men travolti dalla presente crisi, anche se non per assistere a un Forum 2009 costretto a sedersi sulle rovine per meditarci sopra, a mo’di novello Scipione in una novella Cartagine. E la stessa scelta del nuovo presidente Usa Barack Obama di non andare a Davos e di non mandare in sua vece alcun ministro ma il semplice consigliere Valerie Jarrett è abbastanza significativa (anche se ci sarà Bill Clinton, ex presidente e consorte del nuovo Segretario di Stato). Pure indicativo, per quello che vorrebbe essere il salotto buono del capitalismo planetario, è il fatto che i primi due discorsi saranno dell’ex-agente del Kgb Vladimir Putin, premier di una Russia post-comunista in sempre maggiore e pericoloso riavvicinamento alle ombre del suo passato, e del cinese Wen Jabao, primo ministro di una Repubblica Popolare che dal punto di vista politico resta sempre una dittatura comunista, sia pure in campo economico ormai convertita al mercato. C’è chi aspetta che proprio un possibile duro attacco di Putin alla passata amministrazione di George W. Bush potrebbe ca-
Soltanto dibattiti e mai una ricetta dal vertice dei vertici
Ma è mai servito a qualcosa? di Francesco Pacifico l via vai di jet sulla pista di Zurigo è sempre frenetico: tre ore di sosta al massimo, poi si deve volare verso un altro aeroporto. I manager sono tronfi nel loro gessato migliore – non la cravatta, considerata poco friendly – i professionisti del catastrofismo guidano un codazzo di assistenti e i politici si guardano in giro temendo di essere fotografati con qualche faccendiere. Tutto come al solito sui Grigioni, come se non ci fosse la crisi, come se esistesse ancora “l’uomo di Davos” paventato da Huntington, che dal chiuso del suo ufficio faceva crollare i mercati, sconvolgeva i commerci, mandava per strada mille operai e cinquecento colletti bianchi in un minuto. Come non esisteva il Sim, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, tanto avversato dalle br, così il rischio di credit crunch smaschera Davos e fa apparire il vertice dei vertici per quello che è: una fantastica gita aziendale per signori con uno stipendio a sei zeri. Nella località svizzera non si è mai deciso nulla di sconvolgente per l’universo. Mai è arrivata una proposta né si sono identificati con precisione i rischi e le sfide del futuro.
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pensassero in modo diametralmente opposto. Persino l’anno scorso, con la crisi che faceva già bella mostra di sé, gli oltre duemila tra politici, manager e imprenditori ripetevano che il peggio era stato visto con la truffa da 5 miliardi di euro del broker Jerome Kerviel ai danni di SocGen. Guai soltanto a pensare che il capitalismo dovesse passare sotto le forche caudine dell’interventismo pubblico.
Così si è arrivati all’ultima edizione di quest’anno. I crack finanziari con i loro risvolti giudiziari hanno costretto gli organizzatori a modificare non poco il programma. Non a caso il maggiore contributo in un’edizione dedicata al “Shaping the Post-crisis World” ha visto il forte e
Nonostante la crisi, i protagonisti del Forum mantengono le loro certezze e i loro slogan sulla supremazia del mercato
Certo, di questi tempi la stazione sciistica è esclusiva come Martha’s Vineyard d’estate e Gstaad d’inverno, ma davvero il gotha del gotha ha bisogno di essere deportato sulla “Montagna incantata”per conoscersi, scambiarsi informazioni e fare affari? Negli anni Settanta il suo fondatore, l’accademico svizzero Klaus Schwab, propugnava per il prossimo futuro il modello renano con la sua commistione tra Stato e impresa. Invece sono arrivati il liberismo di Reagan e della Thatcher. Complice la caduta del muro, per tutti gli anni Novanta si ripeteva che il mercato aveva vinto e che le barriere sarebbero cadute a una a una. Peccato che le delegazioni dei vari Doha round la
decisivo contributo di John Thain, ex Ceo Merrill Lynch appena silurato dalla Bofa. Purtroppo un parterre con 41 tra capi di stato e di governo, 60 ministri, una trentina di banchieri centrali e un migliaio di top manager anche quest’anno non ci risparmierà le sue ricette per risollevare il mondo. Chiaramente al grido di trasparenza ed economia reale. Eppure qualcosa anche qui sta cambiando se il direttore generale del Forum, André Schneider, dice: «Non siamo stati in grado di ascoltare le voci critiche e i segnali all’orizzonte». Non a caso la fondazione World Economic Forum che organizza il vertice presenta interessantissimi studi sull’economia sostenibile. E denuncia scarsi investimenti ambientali, ritardi nelle energie alternative, nessun aiuto per integrare i più deboli nel mondo del lavoro. Che il futuro porterà Davos a scavalcare a sinistra il World Social Forum dei noglobal?
lamitare l’attenzione mondiale sul Forum: probabilmente, però, non proprio a vantaggio dell’immagine che vorrebbe accreditarsi, di appuntamento dove si viene per costruire. E nel calderone c’è poi pure la copresidenza di Kofi Annan, cui la ruffianaggine del Parlamento norvegese nel 2001 ha pure dato il Nobel per la Pace nonostante non abbia dato grande prova di sé da segretario Onu. Eppure, l’Europa a Davos interviene invece in massa: dal cancelliere tedesco Angela Merkel al premier britannico Gordon Brown, al presidente della Commissione Europea José Manuel Durão Barroso, al presidente della Bce Jean-Claude Trichet, ai nostri pur – tra loro non distanti – Giulio Tremonti, Mario Draghi e Emma Marcegaglia.
KOFI ANNAN All’edizione del Forum che sarà aperta dai leader di Russia e Cina, Putin e Wen Jabao, non poteva mancare il criticato ex segretario dell’Onu
Segno del fatto che l’Unione Europea è sempre più alla frutta? O che grande è il disordine sotto al cielo? O segno del grande paradosso per cui proprio questo Forum, a lungo contestato come simbolo della globalizzazione liberista, rappresenta in
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Il monito di Gurria (Ocse): Mai più interventi spot
Alla ricerca di regole comuni sulla finanza di Guglielmo Malagodi
ANGELA MERKEL Molto nutrita la presenza dei leader europei al Forum: oltre il cancelliere tedesco ci saranno il premier inglese Gordon Brown e il leader della Ue, José Barroso
realtà una delle assisi mondiali di possibile governo dell’economia cui ricorrere, nel momento in cui i governi decidono, o sono costretti a decidere, di tornare a dirigere il settore? Shaping the Post-crisis World,“Edificare il mondo post-crisi”, è infatti il titolo di un appuntamento presentato dagli organizzatori come il più importante nella storia della manifestazione: 41 capi di Stato e di governo, 16 ministri degli Esteri, 17 ministri delle Finanze, 20 ministri del Commercio, 1400 tra amministratori delegati e alti dirigenti delle più grandi multinazionali mondiali. Ma contando anche gli altri ospiti, si oltrepassa un totale di 2500 persone. Dopo avere iniziato negli anni scorsi a dedicarsi sempre di più all’ecologia, in particolare con la famosa ospitata a Al Gore (anche lui di nuovo presente), Davos 2009 cerca anche di rispondere alle accuse di elitismo, col ricorrere alle nuove tecnologie per permettere un’ampia partecipazione anche a chi non sarà tra gli invitati. Uno strumento sarà infatti You tube, attraverso www.youtube.com/davos. Un altro strumento sarà il social network MySpace, a
www.myspace.com/myspacejournal. C’è una promessa formale ad utilizzare i migliori contributi in arrivo attraverso questi due canali nelle sessioni di lavoro. Pure il dibattito previsto sul “codice etico dei banchieri” sembra un tentativo di cavalcare una contingenza che in teoria potrebbe condannare il Forum Economico Mondiale all’irrilevanza, proprio con il cercare di dimostrare che è invece proprio il Forum stesso uno dei mezzi già a disposizione per imporre ordine all’anarchia dei mercati. «In questo periodo di crisi, caratterizzato da una grande insicurezza, il bisogno di condividere le proprie preoccupazioni si fa sempre più impellente», ha cercato di spiegare il direttore generale del Forum, lo svizzero André Schneider, «La gente ha compreso la necessità di dialogare con i responsabili di altri settori economici e di diverse regioni del mondo, con i politici e con la società civile. Il forum di Davos è l’unico luogo informale di incontro dove poter analizzare assieme da dove veniamo e vagliare le possibili soluzione su dove e come andare avanti». E alle rimostranze secondo cui sono soprattutto quelli che discuteranno a Davos i principali responsabili delle crisi, ha convenuto: «Sono a Davos perché devono essere implicati nella ricerca di una soluzione. Si tratta dei principali dirigenti della finanza e non è possibile elaborare una strategia futura escludendoli da ogni discussione». L’idea degli organizzatori, infine, è che da Davos possa venire fuori una “road map” per uscire dalla crisi. Purtroppo, road map è pure un termine che è stato usato a proposito dei negoziati per la Pace in Medio Oriente. E non è che il precedente si presenti come particolarmente augurale.
La crisi finanziaria globale non ferma il World Economic Forum di Davos, che si apre questa mattina. Di fronte alla contingenza negativa, infatti, il vertice dei vertici risponde con presenze record: oltre 2.500 iscritti tra capi di Stato e di governo, ministri, economisti, manager, imprenditori ed economisti. Le delegazioni stanno via via arrivando nell’elegante stazione sciistica del cantone dei Grigioni, ma quel che è certo è che – più delle ricetta economiche promesse dagli organizzatori per superare la recessione – l’attenzione di tutti è catalizzata dal leader russo Vladimir Putin. Il quale aprirà i lavori e incontrerà il premier cinese Wen Jabao per provare a chiudere un’intesa sull’energia tra i due Paesi, sulla quale si discute inutilmente da molto tempo. Ma la crisi energetica tra Mosca e Kiev che si è conclusa non senza strascichi per l’Europa, mette sotto una diversa luce il discorso del primo ministro russo. E non soltanto per i messaggi che potranno arrivare per Bruxelles o per la nuova amministrazione america di Barack Obama. Stando a quanto riferito dal consigliere diplomatico del premier russo, Yuri Ouchakov, il discorso verterà su crisi economica e finanziaria, sicurezza energetica e forse anche la crisi del gas tra Russia e Ucraina. «Vladimir Putin», ha spiegato, «sarà per la prima volta a Davos come principale oratore sul tema del ”mondo dopo la crisi”. E il suo discorso dovrebbe durare 30 minuti e darà il tono del dibattito a Davos». Un’ipotesi che potrebbe aumentare l’interesse per una manifestazione da qualche anno in forte affanno.
Dal leader russo si attendono messaggi alla Casa Bianca e chiarimenti sui flussi del gas
L’ex presidente della Microsoft, Bill Gates, habitué del World Economic Forum, che si apre oggi a Davos. L’appuntamento ormai annuale nella località svizzera misura la stabilità dell’economia mondiale e offre ricette per salvaguardare il mercato. Protagonista di questa edizione la crisi congiunturale che porterà nel 2009 il Pil mondiale a crescere soltanto dell’uno per cento
Ma gli organizzatori del Forum non vorrebbero incentrare tutti i lavori sulle istanze lanciate da Putin e, di riflesso, sulla minaccia russa. Non a caso il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, ha mandato un chiaro messaggio ai partecipanti: «Il mondo ha la necessità di riscrivere le regole della finanza globale per rispondere alla crisi sollevata da un ’eccesso di innovazione finanziaria, aumentato anche dalla sete di profitti a breve termine». Ritorno all’economia reale, quindi. E non a caso Gurria, guardando anche alle proposte fatte dal ministro italiano all’Economia Giulio Tremonti, ha notato che la sua organizzazione «si sta concentrando sulle strategie di risposta alla crisi predisponendo raccomandazioni per i governanti. Questo riguarda anche una più rigida messa a punto delle regole per combattere anche quella parte scura della globalizzazione, rappresentata dalla corruzione e dall’evasione fiscale». E per spiegare che serve un accordo tra tutti i grandi del mondo per arrivare a una sorta di «global legal standard», cioè alla definizioni di regole globali di approccio al mercato, ricorda che non servono operazioni spot, ma candida tutte le organizzazioni internazionali a predisporre regole sui principi di corporate governance e paletti contro la corruzione. Intanto ieri si è aperto in Brasile il nono “Forum Sociale Mondiale”, nato in contrapposizione a Davos.
politica
pagina 6 • 28 gennaio 2009
Parlamento. L’ufficiale e deputato Gianfranco Paglia: «La commissione non si è mai riunita»
La rimozione dell’uranio colloquio con Gianfranco Paglia di Angela Rossi
ROMA. Quarantacinque soldati, tutti giovanissimi, morti. Cinquecentocinque ammalati. Tutti colpiti da forme tumorali dopo essere stati impiegati in operazioni di guerra soprattutto nei Balcani. In quelle aree sono stati utilizzati proiettili rivestiti da uranio impoverito, sostanza radioattiva che esaurisce il suo potenziale nocivo solo dopo quattromila anni. Una commissione di inchiesta e dieci anni di tempo non sono bastati a fare chiarezza. Oggi, gennaio 2009, l’organismo ad hoc, dall’inizio della legislatura, non si neanche mai riunito. La questione torna d’attualità ad ogni nuova vittima, per poi essere puntualmente riposta in archivio. Eppure libri di fisica e numerose ricerche descrivono ampiamente i danni causati dall’uranio impoverito, che ha una radioattività pari al sessanta per cento dell’uranio naturale ed è un cosiddetto prodotto di scarto delle centrali: causa contaminazione dell’ambiente, tumori, leucemie. Viene ad esempio impiegato nelle pareti dei reparti ospedalieri di radiologia per difendersi dalle radiazioni, ecco perché in quelle strutture si entra solo protetti. Erano protetti anche i ragazzi mandati in Kosovo? O giravano con semplici uniformi e tute mimetiche, assorbendo la polvere che si spargeva in aria e che proveniva proprio da questa sostanza depositandosi nei polmoni? In Kosovo, come in Somalia, c’era il tenente Gianfranco Paglia, oggi deputato di An, eletto in Parlamento lo scorso anno con un’intenzione dichiarata: «Più che da passione politica sono motivato dall’esigenza e dal desiderio di fare qualcosa per il mio Paese». Onorevole Paglia, sarà possibile, dopo tanti morti e tanto tempo, riuscire almeno ad avvicinarsi alla verità? A capire perché è finito in un reparto di oncologia chi aveva prestato servizio in Kosovo? In realtà non si capisce bene se questa problematica esiste. Obiettivamente non è stato fatto alcun monitoraggio sulla popolazione di quei posti mentre occorrerebbe proprio fare questo per capire se i militari colpiti si siano ammalati per questo o rientrano invece, purtroppo, tra le vittime di questa malattia che colpisce anche tanti italiani.
in breve Stupro di Guidonia, presi sei rumeni Dopo cinque giorni di indagini, sono stati fermati quattro romeni, accusati di violenza sessuale e rapina aggravata, per avere, nella notte tra giovedì e venerdì scorso a Guidonia, violentato una giovane di 21 anni e picchiato e rinchiuso nel bagagliaio della loro auto il fidanzato di 24. Fermati anche altri due romeni, con l’accusa di favoreggiamento, perché avrebbero coperto il branco fornendo alla banda alloggio e protezione subito dopo lo stupro. Quattro dei fermati sono stati bloccati dai carabinieri al casello autostradale di Tivoli, mentre a bordo di una Bmw tentavano la fuga. All’uscita della stazione dei carabinieri di Guidonia del primo dei sei romeni fermati c’è stato un tentativo di linciaggio da parte della folla.
Cresce ancora la spesa sanitaria
Militari della Nato in Kosovo. A fianco, l’ufficiale e deputato Gianfranco Paglia che denuncia: «La Commissione d’inchiesta sull’uso dell’uranio nei Balcani non si è mai riunita»
«Solo le Forze armate sono state vicine alle famiglie dei soldati, la politica invece…». Sulla sentenza su Nassirya: «Vergognoso accusare i comandanti» Ma non sono troppe le morti sospette per riferirle solo alle statistiche sul cancro? Non lo so, non ne ho idea. Io stesso sono stato in Kosovo. Se è così questi ragazzi hanno il diritto a che sia fatta luce. So solo che la commissione, istituita dal Senato per la prima volta nel 2005 e confermata nel biennio 2006-2008, non è mai stata convocata in questa legislatura, ma so anche che alcuni dei ragazzi colpiti non sono stati certo abbandonati dalle forze armate che continuano ad effettuare un attento monitoraggio.
Bisogna dire che, visti gli anni trascorsi e il numero delle vittime, non è che si sia stati granché sensibili all’argomento… Il ministro La Russa sente molto questa problematica e ha in mente di assumere delle iniziative. Occorre cercare di capire dov’è il problema. Ad esempio, io sono stato in Somalia e ho avuto contatti con gli americani, ma non ne ho mai visto nessuno girare con la mascherina, come si è poi detto. Nei Balcani la situazione era diversa, anche perché le zone dove abbiamo operato non sono state bombardate, quindi non si capisce come si sia venuti in contatto con la sostanza. Non voglio dire che manchi una sensibilità verso l’argomento così come non so perché al Senato non abbiano fatto ripartire la commissione. So che era nel programma del ministro La Russa e quindi, può darsi che il responsabile della Difesa si appresti a prendere delle decisioni. Ma la commissione non avrebbe potuto almeno costituirsi per dare un segnale alle famiglie delle vittime? Stiamo parlando di vicende che risalgono al ’95, ma la commissione è nata molto più tardi, dieci anni dopo. È da allora che si parla di uranio impoverito
però le nostre missioni sono continuate, anche nei Balcani. Per quanto mi riguarda so che le Forze armate non hanno abbandonato i nostri soldati, per quanto riguarda la politica non so. Ho indossato l’uniforme fino a sei mesi fa…». E adesso ? Penso che qualcosa debba essere fatta anche se non so sotto quali aspetti perché stiamo parlando di ricerche mediche e quindi dovrebbero essere gli specialisti a parlare. Conoscendo la verità potrà essere più efficace anche la solidarietà. Un’ultima domanda e sempre a proposito dei militari anche se per una vicenda diversa: cosa pensa della vicenda che ha visto finire in Tribunale i due ufficiali di Nassirya accusati di non aver attuato tutte le difese necessarie a salvaguardare le vita dei propri soldati? È scandaloso, non riesco a immaginare un comandante che agisca diversamente dal desiderio di salvaguardare i suoi uomini. È vergognoso, stiamo parlando di ufficiali che hanno fatto il loro dovere. Mi dispiace profondamente che qualcuno possa pensare che nostri ufficiali possano agire in maniera superficiale quando hanno fatto solo il loro dovere.
La spesa sanitaria italiana continua a crescere, e più rapidamente del prodotto interno lordo (Pil), «al punto che nel 2010 la forbice tra finanziamento statale e spesa rischia di aprire una voragine da 10 miliardi». è da allarme rosso l’avvertimento degli economisti del Ceis, il centro per gli studi economici e finanziari della facoltà di economia dell’università Tor Vergata di Roma, che hanno presentato il loro VI Rapporto sanità 2008.
Colaninno: «Alitalia Indipendente da Air France» La scelta dell’hub da parte della nuova Alitalia sarà fatta «in assoluta indipendenza» da Air France-Klm. Lo ha detto il presidente della compagnia, Roberto Colaninno nel corso di un’audizione congiunta delle commissioni Industria e Lavori pubblici di Camera e Senato a palazzo Madama. Illustrando l’accordo con il vettore franco olandese, Colaninno ha ribadito «l’assoluta indipendenza di Alitalia nella scelta delle proprie strategie e degli aeroporti. L’accordo con Air France è di tipo industriale e non finanziario. Siamo convinti che il mercato italiano, quello francese e quello olandese rappresentino nella strategia generale delle compagnie di volo».
politica
28 gennaio 2009 • pagina 7
Miniriforme. La maggioranza trova un accordo sul decreto: limiti di pena e multe a chi le pubblica
Intercettazioni, il governo alla fine stacca il telefono di Marco Palombi
ROMA. Berlusconi ha perso, Berlusconi ha vinto. Sulle intercettazioni non passa la linea del premier che vorrebbe renderle impossibili se non per i reati gravissimi, eppure le preoccupazioni del presidente del Consiglio continuano ad essere ben al centro del dibattito nella maggioranza. Ne è luminosa testimonianza il risultato dell’ennesimo vertice di maggioranza sul tema che si è tenuto ieri pomeriggio a palazzo Grazioli: l’accordo c’è, il limite di legge per autorizzare le intercettazioni resta a cinque anni di pena (anche se autorizzazioni e tempi per lo “spionaggio” saranno più stretti), ma la loro pubblicazione sarà assai difficile attraverso sanzioni per editori e giornalisti. Berlusconi ha vinto, Berlusconi ha perso. Al momento di andare in stampa non si conosce ancora la formulazione precisa dagli emendamenti scritti in pool da Niccolò Ghedini per Forza Italia, Giulia Bongiorno per An e Matteo Brigandì per la Lega, ma la linea sembra proprio quella di colpire eventuali abusi dei magistrati da un lato e, soprattutto, l’utilizzo di conversazioni private come fonte di dibattito pubblico. L’asse An-Lega, insomma, alla fine ha stoppato i progetti di Berlusconi, giovandosi - oltre che della sponda delle opposi-
quando sono stati resi pubblici gli emendamenti a firma Bongiorno, soprattutto i due riguardanti i giornalisti. Il primo, benevolo, introduce la possibilità per il giudice di condannare chi pubblica intercettazioni “vietate” a sei mesi di carcere (testo del governo) oppure ad una multa di 10.000 euro (emendamento). È il secondo, invece, quello interessante ed è una sorta di ragionevole offerta ai
Al termine di un lungo vertice, trovata una mediazione fra le esigenze del premier (tolleranza zero) e quelle di An e Lega (moderazione). A pagare saranno soprattutto editori e giornalisti zioni - anche del plastico appoggio dei carabinieri che hanno concluso con successo le indagini sullo stupro di Guidonia: è stato infatti il monitoraggio sui cellulari dei fuggitivi a consentirne l’arresto. Colpo pesante a livello di immagine pubblica per le smanie censorie del Cavaliere, che ieri ha capito ben presto che l’aria nella sua maggioranza non tirava nel verso a lui favorevole. Una riforma è necessaria, scandiva di prima mattina Italo Bocchino, ma «An è molto cauta», perché «non dobbiamo spuntare un’arma indispensabile per i magistrati». Gli alleati, dichiarava a ruota il ministro Ignazio La Russa, stanno venendo sulle nostre posizioni. A quali posizioni si riferisse è stato chiaro
falchi di Forza Italia. Di più, è quello che, scherzando, fonti di palazzo Chigi hanno definito l’emendamento “tranquillizzaBerlusconi”: il testo infatti «aumenta le pene» – nel ddl Alfano quantificate nel carcere da uno a tre anni più una multa da mille euro – per chi pubblichi conversazioni, anche sotto forma di riassunto, di cui sia stata ordinata la distruzione.
Per capire la battuta, bisogna tornare alla leggenda nera che ha segnato quest’inizio di legislatura: le presunte telefonate in cui Berlusconi parla in libertà di alcune donne politiche che entreranno a far parte del suo governo. Secondo la favola, queste conversazioni furono raccolte nelle indagini campa-
ne sul voto di scambio – finite peraltro in un vicolo cieco – e ne fu in seguito ordinata la distruzione: nonostante questo molti eufemistici riassunti ne sono apparsi sulla stampa nazionale e hanno spinto per un pomeriggio – quando sembrava che L’Espresso stesse per mandarle in edicola – il governo sull’orlo del baratro. In seguito, una minaccia di pubblicazione di queste conversazioni (oramai un oggetto mitologico di cui nessuno sa dire se abbia un qualche legame con la realtà) è riapparsa a dicembre, spingendo il premier prima a chiedere di rendere più stringente il progetto di legge messo insieme dal suo Guardasigilli, poi addirittura a minacciare di lasciare il paese nel caso fosse mai stata pubblicata una sua «conversazione di un certo tipo».
Questi, in breve, i fantasmi berlusconiani che hanno inchiodato la maggioranza a un nulla di fatto sulle intercettazioni negli ultimi mesi, nonostante la loro riforma sia stata continuamente presentata come una drammatica emergenza. «Sono otto mesi che attendiamo l’arrivo in Aula del provvedimento», spiegava ieri Michele Vietti, vice capogruppo dell’Udc, sottolineando ancora le divisioni nella maggioranza. Il ddl Alfano, come detto, è ancora parcheggiato in commissione, ma ora l’intesa sembra sia stato trovata: «Il meccanismo è quello non di
ragionare sull’elenco dei reati, le intercettazioni sono uno strumento di indagine e quello che deve essere colpito sono gli abusi. Si interverrà quindi sul sistema dei tempi e dei controlli», ha chiarito il capogruppo leghista Roberto Cota.Tanto è vero che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nell’aula della Camera s’è limitato a sottolineare «i costi fuori controllo» delle intercettazioni, ma non s’è spinto oltre.
Nella giornata di ieri pare tornato a dimensioni più umane anche l’altro psicodramma che ha incrociato la strada della riforma delle intercettazioni: quello riguardante il cosiddetto “archivio Genchi”. Il Copasir, guidato da Francesco Rutelli, si è mosso con molta cautela, informando i presidenti delle Camere e programmando una serie di audizioni sulla vicenda. Il censimento del materiale avviato dal Comitato, spiega uno dei suoi membri, è ancora assai parziale, ma si tratta di tabulati e utenze identificate, non di intercettazioni: il problema comunque più che la mole delle informazioni, spiega ancora la fonte, pare essere la libertà d’azione che un consulente come Genchi ha ricevuto nell’espletamento del suo incarico dal pm Luigi De Magistris (proprio su questo sta indagando il Csm). Una tempesta in un bicchier d’acqua?
in breve Anche Berlusconi celebra la giornata della memoria Un’esortazione a non abbassare la guardia contro il riprodursi del «virus dell’antisemitismo e di nuove speculazioni e aggressive campagne contro gli ebrei e contro lo Stato ebraico», proprio nel momento in cui «l’operato del governo di Israele può risultare controverso ed essere legittimamente discusso» dopo l’offensiva militare nella Striscia di Gaza: sono le parole dette dal presidente Giorgio Napolitano in occasione della Giornata della Memoria. Anche il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in un messaggio ha sottolineato come «le leggi antiebraiche sono ancora avvertite come una ferita profonda, inferta non solo alla comunita’ ebraica, ma alla intera società italiana, che perse improvvisamente una parte importante della propria storia. Il 27 gennaio di 64 anni or sono, furono abbattuti i cancelli di Auschwitz: questa data e quel luogo sono il paradigma dello sterminio di un popolo che ha segnato per sempre la storia dell’umanità».
Negazionismo: i lefevbriani si scusano I lefebvriani della Fraternità di San Pio X, con una lettera inviata al Papa, e resa nota dal Vaticano, hanno chiesto pubblicamente perdono per le affermazioni sulla Shoah fatte da uno dei loro vescovi, il britannico Richard Williamson. «Noi domandiamo perdono al Sommo Pontefice e a tutti gli uomini di buona volontà, per le conseguenze drammatiche di tale atto», si legge nella lettera, firmata da monsignor Bernard Fellay, superiore della Fraternità di San Pio X. «Le affermazioni di Mons.Williamson non riflettono in nessun caso la posizione della nostra Fraternità. Perciò io gli ho proibito, fino a nuovo ordine, ogni presa di posizione pubblica su questioni politiche o storiche», prosegue il testo. Prima dell’arrivo della lettera, anche il cardinal Angelo Bagnasco, aveva sconfessato le parole di Williamson.
mondo
pagina 8 • 28 gennaio 2009
America. Le prime decisioni prese dal neo-presidente vanno all’opposto delle promesse fatte all’insediamento
Barack, l’anti-Lincoln Omosessuali, aborto, Guantanamo: è lontano dal mito che ha evocato di Michael Novak segue dalla prima Il 20 gennaio il presidente Obama ha chiesto l’abrogazione del Doma (Defense of Marriage Act) la legge che stabilisce l’esclusiva eterosessualità del matrimonio, dichiarando inoltre la sua intenzione di riconoscere diritti e privilegi alle coppie omosessuali. Il 22 gennaio ha emanato un decreto esecutivo in cui annunciava la sua intenzione di chiudere entro un anno la struttura di detenzione per terroristi di Guantanamo, a Cuba. Purtuttavia, ha ammesso di non aver ancora deciso come farlo. (Il presidente Bush espresse un’intenzione simile, ma non riuscì a trovare altri Paesi disposti a “contribuire alla chiusura” prendendosi in carico la responsabilità dei detenuti). Un’intenzione lodevole quindi, ma di difficile messa in pratica.
Il 23 gennaio Obama ha emanato un decreto esecutivo che permette di finanziare organizzazioni pro-aborto all’estero.
Da questi tre“annunci esecutivi”, capiamo che il presidente Obama non riconosce alcuna differenza tra il patto giudaico-cristiano tra uomo e donna (un patto secondo il quale uomo e donna procreeranno e nutriranno i loro figli, se riceveranno la benedizione di averne) e un contratto civile tra due persone di qualsiasi genere, allo scopo di costituire un focolare di affetto e favori sessuali. Egli rifiuta di difendere il primo e ordina che il secondo sia trattato allo stesso identico modo del primo.
L’aborto, la chiusura di Guantanamo, i matrimoni omosessuali e la svolta verde per l’industria automobilistica hanno prodotto le prime contestazioni al neo-presidente Barack Obama
Si tratta di una ricaduta nella comprensione morale prima dell’era giudaico-cristiana. Si tratta di un ritorno al paganesimo. È un fallimento nel comprendere l’importanza della particolare e cruciale difesa che il giudaismo e la cristianità pongono attorno alla famiglia, più di tutti a coloro che allevano individui forti. Il punto delle reti di famiglie monogame sta nel trattare l’uomo e la donna con complementarietà e con dignità reciprocamente cooperativa, e nel collegare il potere della sessualità maschile (specialmente) alle comunità d’amore auto-sacrificanti. Da questi due poli - individui indipendenti e forti reti di famiglie si è generata la civiltà liberale. Quasi tutte le civiltà religiose onorano la famiglia, ma nessuna enfatizza meglio sia la responsabilità individuale che la solidarietà universale. Nessun’altra ha dimostrato di essere più adatta a generare istituzioni liberali. Apprendiamo, in secondo luogo, che il presidente considera come suo punto di riferimento nelle questioni di sicurezza nazionale, non il realismo duro nel proteggere “il Popolo”che quotidianamente ratifica la Costituzione, ma la preoccupazione
Le soluzioni materiali e spirituali che il Paese più ricco del mondo intende offrire alle popolazioni più povere e con maggiori difficoltà morali rischiano di apparire anche come le più illiberali della recente storia degli Usa personale per quale tipo di figura sta facendo nello scenario internazionale. Questo giovane presidente vuole lodi dalla sinistra internazionale a costo di non prestare attenzione alla sicurezza pratica della sua patria. Bei titoli prima di tutto, il pensiero pragmatico poi. In terzo luogo, scopriamo che il presidente intende realizzare quello che un notevole nu-
mero di contribuenti americani detesta e andrà comunque avanti in piena coscienza. Inoltre, molti di osservatori internazionali si prenderanno ancora gioco degli Stati Uniti: «Ecco che in America tornano (di nuovo) gli assassini di bambini!». È sbagliato pensare che le persone degli altri Paesi amino, onorino e rispettino la preoccupazione laicista per l’aborto. Ci si chiede, invece, quale sia la soluzione che il Paese più ricco del mondo offre alle popolazioni più povere. Senza dubbio un
paese ricco e attento come gli Stati Uniti ha qualcosa di meglio da offrire piuttosto che dare soldi alle donne dei Paesi più bisognosi per uccidere i loro bambini e per farlo proprio nei mesi in cui i bambini sono più indifesi, cioè quando si trovano nel grembo materno. Molti, sia negli Stati Uniti che altrove, considerano disgustosa questa strategia. Questa cruda procedura priva i Paesi poveri, le persone di colore specialmente, dei talenti e delle bellezze che questi esseri
mondo
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Il salvataggio dell’industria automobilistica ha una sola ragione: le major sostengono il welfare
Auto verde e sfida alla Cina, alla fine saranno due bluff di Enrico Cisnetto segue dalla prima Ma andiamo con ordine, e partiamo dall’auto. Nonostante il pacchetto da 17 miliardi di dollari già incassati, infatti, nessuno dei tre colossi di Detroit – General Motors, Ford e Chrysler – ha scongiurato ancora la possibilità di portare i libri in tribunale.
umani non ancora nati sono pronti a offrire per dare il loro contributo al mondo. I bambini sono la più grande risorsa naturale che un Paese possa ereditare. Il capitale umano è la più grande e insostituibile forma di capitale. E rappresenta la causa principale di benessere di un Paese.
La prima settimana non doveva cominciare così. Questi primi passi non sono all’altezza di un grande Paese e nemmeno di un leader serio. Questi ordini esecutivi hanno umiliato coloro che hanno votato per il Presidente Obama perché erano stati rassicurati - e a loro volta hanno rassicurato altri elettori - che il nuovo presidente avrebbe preso in seria considerazione la cultura della vita. Adesso è chiaro che il nuovo presidente sta facendo passare come bugiardi coloro che avevano rischiato la loro reputazione morale per sostenerlo. E.J. Dionne aveva esplicitamente avvisato in questo senso il presidente-eletto (in un articolo pubblicato sul Washington Post del 15 novembre). Puoi prendere in giro la gente una volta. Ma ci sono molti di loro che non riuscirai a prendere in giro una seconda volta. Nella sua prima settimana di presidenza, Bill Clinton aveva ferito profondamente la forza morale della sua stessa presidenza voltandosi bruscamente contro coloro che consideravano l’aborto come il male peggiore dei nostri tempi, come fu la schiavitù ai tempi di Lincoln. È triste vedere un presidente democratico commettere ancora una volta lo stesso errore.
Ecco allora il piano “verde”, per trasformare suv e pickup superinquinanti in auto a basso consumo e a emissioni ridotte. Ma a chi importa, in realtà, se le nuove auto americane dovranno dal 2011 percorrere 35 miglia a gallone (15 km con un litro), adeguandosi così alle severissime norme già in vigore nello stato più radicalchic d’America, la California? A nessuno, ma questo è stato il pretesto per far confluire ancora un po’ di denaro verso il disastrato carrozzone dell’auto made in Usa, mettendolo in condizione di concorrere con gli altri produttori internazionali (giapponesi, tedeschi e perfino italiani) che sono più avanti nella produzione delle uniche auto che potranno vendersi in futuro, cioè quelle che consumano poco. Il motivo vero, però, è uno solo: nessuno si può permettere di lasciar fallire l’auto americana non tanto per l’indotto che il comparto genera - in fondo rappresenta solo il 4% del pil statunitense, molto meno del 14% che Fiat e affini “pesano” sull’Italia bensì per il fatto che i colossi dell’auto si portano dietro anche le pensioni di 3 milioni di famiglie americane. Il destino dei 250.000 dipendenti di Gm, per esempio, è legato al fondo pensione aziendale che nel 2007 ha registrato un “buco” di 39 miliardi di dollari (pari a una finanziaria italiana). Nello stesso anno, il gruppo aveva emesso, per sostenere questa voragine, obbligazioni per 171 miliardi di dollari. Obbligazioni che vanno ripagate, altrimenti le famiglie dei suoi 250 mila dipendenti rimarranno sul lastrico, in un paese privo di ammortizzatori sociali: un’opzione nemmeno immaginabile nei giorni in cui le grandi corporation americane annunciano licenziamenti da decine di migliaia di dipendenti al giorno (solo lunedì scorso Caterpillar ha annunciato 20.000 esuberi, il gruppo di telefonini Sprint 8.000, Home Depot 7.000 e la
stessa General Motors 2.000). Solo così si spiega la “guerra verde” dell’Amministrazione Obama.
L’altro grande fronte, invece, è quello “giallo”. Ed è partito non meno violentemente con la dichiarazione di guerra alla Cina fatta dal neo-Segretario al Tesoro Tim Geithner. L’ex numero uno della Federal Reserve di New York ha detto chiaramente che “Pechino manipola i cambi per tenere artificialmente bassa la sua divisa”. Parole scelte con grande cura, perché una legge del 1988 prevede che se un Pae-
Donald’s senza capire che una Cina ormai diventata “fabbrica low cost” del mondo è un elemento determinante della capacità dell’Occidente di mantenere un alto livello di vita e di consumi. Elettrodomestici, computer, tessile di bassa qualità, meccanica, utensili: ormai il 90% di questi beni proviene dall’Asia (basta aver guardato una volta le etichette dei prodotti Ikea per rendersene conto). Boicottarla, magari in nome di un giusto principio di “fair trade”, significherebbe non aver capito nulla di come sono cambiati gli equilibri produttivi nel mondo.
L’altro grande fronte aperto dell’economia di Obama è la lotta commerciale con Pechino. Ma è uno scontro che in realtà sarà evitato per il semplice motivo che non conviene a nessuno se straniero manipola artificialmente la sua divisa, Washington ha il diritto di imporre dazi e sanzioni. Si arriverà dunque a una guerra commerciale sulle due sponde del Pacifico? Difficile, per almeno due motivi. Primo, perché le contromosse da parte della Cina potrebbero essere devastanti. Se Pechino decidesse di alleggerire i suoi acquisti di buoni del Tesoro Usa – di cui è recentemente divenuta il primo compratore, superando il Giappone – Washington si troverebbe improvvisamente impossibilitata a finanziare i suoi colossali piani keynesiani (per i quali, solo quest’anno, si stamperanno buoni per 2 trilioni di dollari). Secondo, perché combattere contro uno yuan considerato artificialmente basso sarebbe fare come quei no-global che tirano i sassi nelle vetrine dei Mc-
M a p r o b a b i l m e n t e l’annunciata guerra commerciale con la Cina – che non avverrà mai: scommettiamo? – più che una seria presa di posizione di politica estera è un contentino ad un certo mondo che ha sostenuto fortemente la candidatura e poi la campagna di Obama, in particolare, alle potenti “unions” sindacali e alla stessa maggioranza democratica al Congresso. Due interlocutori che non possono assistere inermi davanti ai loro rappresentati alle decine di migliaia di licenziamenti quotidiani. In tutti i casi, nonostante un uso magistrale della comunicazione, dalla Casa Bianca le misure adottate finora non sembrano particolarmente innovative: né nella guerra “verde”, né in quella “gialla”. (www.enricocisnetto.it)
panorama
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Polemiche. Che senso ha smarcarsi continuamente dal Cavaliere alla vigilia del partito unico?
Non se ne può più dei malesseri di An di Riccardo Paradisi na nevrosi dovuta allo smarrimento di un’identità che bene o male – più male che bene – la destra aveva prima della grande mutazione probabilmente, o forse semplicemente una sopraggiunta coazione allo smarcamento tattico, dettato da un occasionalismo politico esasperato che pensa di dover percorrere ormai ogni strada utile al proprio fine di giornata. Senza preoccuparsi troppo nemmeno di motivare scarti di traiettoria che appaiono spericolati all’osservatore equanime che si ostina a cercare non diciamo il filo della coerenza – chè abbiamo fatto tutti il militare a Cuneo – ma almeno il nesso di una logica interna a una strategia complessiva nelle azioni della politica. Ma con An è inutile bussare a questa porta: le posizioni che prende il partito si spiegano solo a posteriori, quando la nottola di Minerva
U
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
dell’esegesi finiana, che inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo, ti illumina paziente sulla più ampia strategia del presidente, sui ritardi di un partito che non lo segue, che non capisce le sue illuminazioni, la sua complessità, che non riesce a stargli dietro. Perché in fondo – dicono le avanguardie di An – è
uno che ti spiega una cosa ovvia, che un’ora fatale bussava al quadrante della storia e era quello il momento della costruzione del partito unitario del centrodestra, se appunto rilevi la contraddizione l’esegeta finiano ti risponde che il Novecento è finito, che ti devi svegliare, che le idee sono in mo-
Passando dalle «comiche finali» all’annuncio della storica fusione con Forza Italia, Fini ha continuato a spiazzare i suoi militanti un partito vecchio e conservatore, nei pensieri e nelle idee. Influenzato dal colonnellato dei berluscones, quelli che hanno sempre fatto il tifo per la fusione con Forza Italia. Che identificano la destra con la conservazione e magari, orrore!, con la destra storica e i conti dello Stato in pareggio. E se obietti che però è difficile star dietro a chi aveva detto che Berlusconi era alle comiche finali dopo il pronunciamento del predellino di San Babila, per poi proclamare con la stessa annoiata assertività, come
vimento, che alla logica esclusiva dell’aut aut occorre sostituire quella inclusiva dell’et et. Che è urgente aggiornare linguaggi, visioni, prospettive e che se non lo fai se ti ostini sul vecchio principio di non contraddizione sei un conservatore, uno che non accetta la sfida della complessità, uno a cui il futurismo e Marinetti non hanno mai fatto suonare una sola corda. A proposito di futurismo: l’ultimo numero di Charta minuta, la rivista della fondazione finiana Fare futuro, dedicava un anno fa copertina e
apertura a Graziano Cecchini. Il neofuturista che aveva colorato di rosso fontana di Trevi e fatto rotolare per Trinità dei monti migliaia di palline colorate. Ecco, Cecchini sarebbe colui verso il quale secondo Charta minuta avrebbe dovuto guardare la politica italiana: «Alla politica italiana servono le scosse immaginifiche e le azioni elettriche di Graziano Cecchini: provocazioni colorate come la quadricromia di Trinità dei Monti. Perché la politica italiana è grigia come la mondezza campana e le risposte delle istituzioni sono sempre più autoreferenziali». Ma a parte Graziano Cecchini – censurato e allontanato da An ai tempi del raid futurista a Fontana di Trevi – ci si potrebbe chiedere se oggi non sia contraddittorio accusare le istituzioni d’essere grigie e autoreferenziali quando a sedere ai vertici di queste istituzioni sono i tuoi leader e rappresentanti. Contraddittorio almeno quanto rivendicare il tuo malessere in nome di Bruce Chatwin o della centralità del Parlamento, perché Berlusconi è quello che è.
Cibi scaduti e adulterati: perché continuano le truffe ai danni della nostra tavola
Povero Paese degli spaghetti avvelenati i fa presto a dire “buon appetito”. Non sappiamo più cosa mangiamo. E non è un modo di dire. «Spaghetti pollo patatine e una tazzina di caffè» cantava il grande Fred Bongusto, ma oggi bisogna stare attenti a quel che ci mettono o mettiamo nel piatto. Il rischio intossicazione non è un’ipotesi di scuola. Non solo perché le schifezze che mangiamo ogni giorno di corsa, per non perdere tempo durante la cosiddetta “pausa pranzo”, fanno un tragitto dal produttore al consumatore che è meglio ignorare per evitare di rovinarsi la lenta digestione e ogni tipo di disturbi psicosomatici. Ma anche perché sempre più spesso accade che cibi avariati arrivano sui banchi dei supermercati. Sarà un caso, sarà la disattenzione, certo è che le truffe alimentari sono in netto aumento. Anche in questo caso - vedi articolo di ieri - c’è del metodo.
S
La notizia merita attenzione: mille tonnellate di cibi avariati, dai funghi cinesi alla carne in scatola, dai latticini al burro, addirittura all’acqua minerale sono stati sequestrati dai Nas - i carabinieri del nucleo antisofisticazione - per un valore di otto milioni di euro. Ottimo risultato, non c’è che dire. L’hanno chiamata “Operazione Setaccio”: i carabinieri hanno effettuato settecentodiciassette ispezioni in depositi di alimenti tra
il 19 e il 22 gennaio. Sono state riscontrate quattrocentonovantanove infrazioni, di cui sessantuno a carattere penale e quattrocentotrentotto a carattere amministrativo. Se si fa solo una banale considerazione, ossia che le ispezioni dei carabinieri sono state, per forza di cose, limitate nello spazio e nel tempo si può capire come alta sia la probabilità di scovare altre partite di cibi avariati o in scadenza nei depositi alimentari d’Italia. Come è possibile che la merce avariata, cioè da scartare e quindi far uscire dal ciclo della vendita, sia invece immessa nuovamente sul mercato o comunque non sia smaltita ed espulsa dai depositi e dai centri commerciali? Entriamo in un supermercato e ci portiamo a casa quanto ci serve. Un rapido sguardo alla data di scadenza, quando ce ne ricordiamo, e via. Un tempo c’era il negoziante di fiducia. Quello del quale ti potevi fidare ad occhi chiu-
si, quello che non si faceva i fatti i suoi e ti faceva il terzo grado ma che era una garanzia perché conosceva i tuoi gusti e le esigenze di famiglia e ti metteva da parte le cose. Ma oggi a trovare una salumeria o il classico “Alimentari e diversi” o lo strapaesano “Da Gaetano” si rischia di impazzire. Il mercato o è super o non è e i volti dietro il bancone cambiano a ritmo di quadriglia: forse avranno anche loro contratti di formazione lavoro. Insomma, non c’è più il tuo negoziante di fiducia, don Gaetano, e bisogna stare attenti a quel che si mette nel carrello. La data di scadenza, la confezione, il tetrapak, l’offerta speciale, il paghi due e compri tre e poi scopri che ti fregano per quattro. Il male si annida ovunque, ma può capitare. Ma quando ci si mette il dolo, allora, le cose cambiano perché significa che hai a che fare con dei bastardi. Ancora qualche elemento di cronaca: al termine dell’“Ope-
razione Setaccio”, che ha portato al sequestro di circa 1 milione e 200mila confezioni, sono trecentoquindici le persone segnalate alle autorità giudiziarie, sanitarie e amministrative.
Tra le regioni che hanno riportato più esiti positivi ai controlli dei Nas figurano la Sicilia, dove su cinquantanove ispezioni sono state riscontrate trentadue irregolarità e la Campania (ventisei su trentanove). Mentre in Sardegna solo un esercizio su cinquantadue è stato segnalato. In termini di quantità, invece, i sequestri più consistenti si sono registrati in Calabria, Campania,Veneto e Sardegna. Come si intuisce facilmente, il Mezzogiorno - il mio maledetto e amatissimo Mezzogiorno - ha anche questo triste primato della truffa alimentare. Ora, proprio qui è il punto: il cibo avariato invece di andare al macero è volutamente reintrodotto nel ciclo di vendita, smercio e consumo. La produzione è abbondante, oltre il necessario, e allora c’è chi pensa di non “sprecarla” portandola sui banconi di vendita o in mercati paralleli. Tutto si fonda sulla fiducia del consumatore. Il sottosegretario Martini dice: «Nessuna tolleranza per chi mette a rischio la salute dei cittadini». Bene. Ma sarebbe meglio stabilire questa pena: chi smercia cibi avariati sarà condannato a mangiarli.
panorama
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Riflessioni. Il sindacato di Guglielmo Epifani è in rotta di collisione con tutti. E nessuno capisce più perché
E pensare che anche la Cgil era riformista... di Giuliano Cazzola siste una strategia dietro la «renitenza alla firma» divenuta ormai linea di condotta della Cgil ? La confederazione diretta da Guglielmo Epifani vuole forse strumentalizzare la forza d’urto di un importante sindacato per portare avanti una dura opposizione al Governo «della fame, del freddo e della paura» del perfido Cavaliere? Qualunque risposta affermativa a questa domanda (e ad altre dello stesso tenore) dovrebbe essere salutata con un sospiro di sollievo. Perché così ci spiegheremmo, almeno, comportamenti difficili da comprendere altrimenti. C’è pur sempre una dignità nel condurre una lotta politica – con mezzi sindacali – ad un esecutivo ritenuto pericoloso per il Paese. La Cgil lo ha fatto per tanto tempo e ha cercato di farlo ogniqualvolta la componente socialista non fu in grado di impedirlo.
modo il muro di gomma del vertice confederale. Gianni Rinaldini e Carlo Podda hanno storie e personalità molto differenti. Il segretario della Fiom è l’ultimo dei “sandinisti”irriducibili (così vengono definiti i sodali di Claudio Sabattini, persona di grande ingegno, ancorché maligno, e di sicuro fascino intellettuale, prematuramente scomparsa) e, in quanto tale, erede di una lunga sequela di sconfitte devastanti. Il secondo è di tutt’altra pasta: escluso dalla segreteria confederale da Epifani, è alla ricerca di una rivincita sul campo, anche a costo di aggiungere ulteriori scioperi falliti nella sua categoria, al pari di quello del 12 dicembre scorso. Insieme hanno lan-
E
La segreteria confederale è debole. Guglielmo Epifani è condizionato dai poteri forti interni e di volta in volta si appoggia a maggioranze a geo-
Già nel 1955, nel 1980 e nel 1985 la confederazione si pose il problema della contrattazione artcolata. Ma ogni volta usciva da una pesante sconfitta metria variabile al solo scopo di durare. I due nuovi proconsoli dettano legge, proclamano scioperi insieme e tirano diritto, certi di poter sfondare in tal
ciato iniziative di lotta contro l’accordo sulle regole contrattuali da cui hanno costretto la Cgil ad auto-escludersi. Che cosa succederà adesso? Va da sé
che né la Confindustria né le confederazioni sindacali firmatarie dell’accordo si nascondono le difficoltà a vederlo applicare nella realtà. La scelta di andare ugualmente alla conclusione benché si conoscesse l’indisponibilità della Cgil è frutto di una precisa valutazione di carattere politico. Si sarebbe potuto stipulare un accordo siffatto molti mesi or sono (forse anche anni), ma si è sempre voluto evitare l’accordo separato. Ed è stata soprattutto la Confindustria di Luca di Montezemolo a temere lo strappo con la Cgil, fino al punto di subirne i veti e l’immobilismo. Se la nuova presidenza ha deciso di rompere gli indugi – nonostante le preoccupazioni che tale gesto comporta – c’è una ragione di fondo: la consapevolezza che la Cgil possa cambiare solo a seguito di una sonora sconfitta.
È triste, ma anche questa evenienza è parte integrante della storia della Cgil. Le grandi svolte nella linea politica sono sempre venute dopo la dura lezione dei fatti. Nel lontano
1955 la Cgil si pose il problema della contrattazione articolata (fino a quel momento giudicata alla stregua di un pericoloso aziendalismo) dopo la sconfitta nelle elezioni della Commissione interna alla Fiat. Allora c’erano dei dirigenti seri: i vertici della Fiom saltarono dalla sera al mattino. E iniziò una fase nuova. Decenni dopo, la Cgil (insieme alle altre confederazioni) si accinse (esemplari furono i chimici guidati da Sergio Cofferati) a misurarsi con i grandi processi di ristrutturazione industriale dopo aver conosciuto un’altra sconfitta alla Fiat nell’autunno del 1980. Ci volle poi nel 1985 l’inaspettata e cocente sconfitta del Pci e della componente sindacale comunista nel referendum sulla scala mobile per aprire quel travagliato percorso virtuoso che avrebbe portato al protocollo del 1993. Da adesso al momento dei rinnovi contrattuali deve passare ancora del tempo. C’è da augurarsi che, all’interno della Cgil (e del Pd) maturino ripensamenti e crescano nuovi gruppi dirigenti più illuminati.
Provocazioni. Il colpo di teatro di lunedì scorso ha poco a che fare con la finanza e molto con la politica
Illazioni sul finto addio dell’Ingegnere di Giancarlo Galli segue dalla prima Perché il 2005 e non un’altra data? Nell’aprile di quell’anno, l’Ingegnere si incontra nel suo studio milanese di via Ciovassino (udite, udite!) con il “grande nemico” di sempre, il Silvio Berlusconi che sta ancora a Palazzo Chigi, ma che sente nello spiffero dei sondaggi la prossima sconfitta elettorale. Di che parlano? Di soldi ed affari, naturalmente. Sul tavolo c’è la proposta di un Fondo di private equity, destinato a risanamenti aziendali. L’Ingegnere ha pronto un anticipo di 50 milioni di euro; il Cavaliere è disponibile per analoga cifra onde procedere alla costituzione della società. L’iniziativa provoca l’indignazione di Repubblica e dell’associazione Libertà e Giustizia, che l’Ingegnere aveva promosso quale testa di ponte per un ventilato ingresso in politica (se da attore o da regista dietro le quinte non sappiamo). Imperturbabile, restituisce il cip a Silvio, minimizza l’episodio. Nega la prospettiva di un accordo bipartisan. Eppure…
dell’imprevedibilità del personaggio, della sua arte nello smazzare le carte del potere, nelle relazioni, per non finire in un vicolo cieco. Davvero un genio in materia. Ultimo spettacolare gesto, appunto, lunedì pomeriggio: con in prima fila l’intera famiglia, con mimica teatrale annuncia che lascerà tutte le poltrone delle aziende create in quasi mezzo secolo. Cofide, finanziaria di famiglia; Cir ovvero le partecipazioni operative, pure il Gruppo Espresso, fiore all’occhiello della dinastia debenedettiana, sebbene nelle ultime stagioni i bi-
Tutto cominciò nel 2005, quando De Benedetti annunciò un accordo inedito con Berlusconi per un’iniziativa comune di «private equity»
Chissà come, l’Ingegnere è fra i tifosi di rango del Partito democratico, quello che con WalterVeltroni tirerà lo sgambetto a Romano Prodi mai amato da Carlo. In giro dice e lascia dire: «Tessera n° 1 del Pd».Vero o falso? L’altra sera ha sorriso: «Mai avuta, era una boutade per la stampa». Boutade, depistaggio o che altro? Prendiamo atto
lanci abbiano perso in floridità, facendo presagire prepensionamenti e ristrutturazioni. La platea comincia a credere di essere testimone di un vero “addio”. Breve illusione: cosa sarebbe il teatro senza colpi di scena? E poi, un Carlo tanto gagliardo, grintoso, più che mai sicuro di sé, può davvero trasformarsi in un placido patriarca? Infatti. Precisa che L’Espresso «non si vende fino a quando non sarò in vita io».Aggiunta: conserverà la presidenza onoraria della Fondazione omonima, riservandosi il diritto di nominare tutti i direttori, La Repubblica inclusa.Altro che abbandono! Ai non immemori torna alla mente di Enrico Cuccia. Allorché, raggiunta l’età del pensionamento
in Mediobanca fu costretto da una congiura ministeriale a lasciare la presidenza, sostenuto da potenti lobbies straniere e dagli Agnelli ottenne quella onoraria. Col risultato che non mutò né ufficio né orario di lavoro.Anzi moltiplicò il suo interventismo. Ricordiamoci del mitico Gattopardo: fingere di cambiare affinché nulla cambi. Così si è tentati di sostenere per “l’annuncio” di Carlo De Benedetti. Resta in sospeso l’interrogativo: a che pro? In omaggio a quale strategia?
Naturalmente fioriscono le illazioni: si propone di entrare in politica, magari spuntando la nomina a senatore a vita onde continuare ad esercitare influenza, nel convincimento che il Pd non gode di buona salute e che Berlusconi può durare l’intera legislatura e poi magari scalare il Quirinale del dopo-Napolitano. Intende, con l’aria che tira nell’economia, con le crisi delle aziende, le sue incluse,“mettersi a disposizione”per operazioni straordinarie di salvataggio? A ben pensarci Berlusconi potrebbe essergliene grato, come ha fatto in Francia Sarkozy con alcuni suoi tradizionali, ricchi e salottieri oppositori di sinistra. Infine, corposa, la supposizione che voglia realizzare un radicale cambio della guardia di direttori nel suo impero editoriale... L’Ingegnere è stato e resta un enigma italiano, indecifrabile e, piaccia o meno, più che mai fra noi.
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La letteratura e i film da Fellini a Rosi. Ma anche la bossanova di Joao Gilberto. Anticipiamo un «diario
gni volta che esce un film tratto da un romanzo celebre, rinasce la questione del limite di fedeltà, del limite concesso alla interpretazione. I letterati, in genere, protestano per la mancata fedeltà, protestano per i risultati del film tanto minori nella suggestione poetica. Eppure, nel concepire un film da un soggetto letterario sarebbe errato qualsiasi scrupolo di fedeltà, mentre è legittima qualsiasi forzatura interna che possa risultare favorevole alla conquista del ritmo narrativo tipico del cinema. Si noti, del resto, che i registi in genere (ed in particolare quelli con caratteristiche di impegno culturale) preferirebbero di gran lunga lavorare ogni volta su soggetti nuovi pensati apposta per un film. Ricorrono - mi pare - alle trame più collaudate della narrativa perché è un periodo in cui i soggetti originali buoni sempre più scarseggiano. La letteratura è una cosa, il cinema è cosa assai diversa. Il cinema viene sempre assai dopo la letteratura, e mai ha forza di indirizzo spirituale; la letteratura si è giovata solo di una certa suggestione del cinema negli anni del nuovo insegnamento tecnico che deriva dal fenomeno, e poi nella più diretta presa di contatto effettuata con la realtà, ed i simboli di essa, necessari strutturalmente al cinema.
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Pensando che il cinema è altra famiglia da quella letteraria, non si dice che sia impossibile ad un film realizzare suggestioni tipicamente e profondamente letterarie; non si dubita che la conoscenza delle arti figurative possa consentire ad un regista effetti estetici ed ottici singolari e nuovissimi. Si dice soltanto che la forza del cinema sta nell’inventare e nel proporre alla fantasia di tutti fatti e cose e suggestioni che non siano né di carattere letterario né di carattere figu-
Quando il cinema è (qu di Leone Piccioni nema un suo linguaggio, che non appartiene né alla poesia, né alla letteratura, né alle arti figurative, e nemmeno al teatro; ed è con questi suoi modi che esso deve esprimersi. Non sarebbe un complimento né per Pasolini né per Robbe Grillet dir loro che i migliori libri che hanno scritto appartengono alla loro opera cinematografica; ed è inutile ricordare che parecchi registi impegnati letterariamente furono in gioventù autori di racconti o di poesia o di saggi non propriamente coronati da grande successo.
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Una suggestione cinematografica risulterà sempre più inquinata, oppure meno espressiva, di quanto non risulti nella grande letteratura, come le immagini rispetto all’arte figurativa
rativo, ma intimamente connaturali con il suo linguaggio originale, con la sua struttura autonoma e irripetibile. In tutte le altre situazioni, infatti, accadrà che in ogni caso una suggestione di carattere letterario risulterà più inquinata, o meno forte ed espressiva, di quanto non risulti nella grande letteratura. Perché nessuna corretta ricostruzione ambientalmente figurativa potrà mai toccare in profondo come la vera arte figurativa. Mentre è propria del cinema una capacità di penetrazione e di raffigurazione, mentre è particolare del ci-
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La grande passione che il cinema meritatamente diffonde è data anche dai suoi grandi rischi, dal modo composito che lo fa sorgere, dall’apporto vario di indoli diverse, anche dall’impaccio della sua natura commerciale; un film vive così sul limite del rischio continuo, della caducità, dell’effimero, già passa e si spegne non appena uscito dal montaggio; quando va bene, ha già una breve scia luminosa che si va dileguando nel passaggio dalle prime alle seconde, magari alle terze visioni. Il risultato può essere determinato egualmente da
una precisa volontarietà, e da notazioni puramente fortuite o meccaniche. Merita, certo, che sia un grande amore, ma non si possono adoperare, quasi mai, per il cinema termini, raffronti, giudizi che abbiano il passo, che abbiano il metro della letteratura, o dell’arte. ***
Avevo sentito parlare di “bossa nova”a NewYork, avevo sentito incisioni come Desafinando, con l’acquistare i nuovi “samba” di Stan Getz. Ma il primo disco di Joao Gilberto mi capitò di sentirlo appena tornato in Italia, piacendomi tanto da far ricercare il cantante per prender parte ad uno spettacolo televisivo. Lo vedo in studio: timido, trasognato, non parla altra parola dal suo portoghese, sorride sempre, pare incantato dalle gentilezze che riceve. Intimo, segreto, strano, ha bisogno di molto raccoglimento in¬torno a sé; difficilmente avrà successo commerciale da noi, in questo momento. Lo manderanno infatti una sera allo sbaraglio, al Foro Italico, a Roma, davanti a migliaia di spettatori urlanti, in calda attesa di Celentano.
Viene a casa mia una sera, con la chitarra, con qualche amico, ma è restìo a cantare; poi piano piano si scioglie: gli amici si raccolgono intorno a lui. All’inizio la voce, senza aiuto di microfoni (ma così andrebbe ascoltato) pare non superare il raggio di due o tre metri: bisogna stargli addosso per sentir-
lo. Poi via via si scalda, prende posto nella stanza. Suoni, allora, colori, ritmi, le antiche danze che si fondono con il gusto più moderno e più nuovo del jazz, canzoni antiche e nuove, popolari ed eleganti, con parole piene di poesia. Non smetterebbe più di cantare, sorride, o si commuove, guarda trasognato, si ritrova ad gni accordo, in perpetua variazione inventiva. Dice del sentimento d’amore, e del suo paese, intona madrigali leggeri, sembra sollecitare, guidare una danza, elegantissimo e sobrio. Ma con un tanto di pazzia, pur nel ri-
il libro Lavagna bianca di Leone Piccioni uscì nel 1964 per l’Editore Vallecchi di Firenze, con il sottotitolo “Diario 1963, con agosto in Russia”. Il libro, è effettivamente un diario in cui l’autore traccia un autoritratto tra vita e letteratura dove le amate frequentazioni letterarie (Petrarca, Foscolo, Leopardi e il Novecento di Ungaretti, Gadda, Saba, Pavese) s’intrecciano con riflessioni su esperienze della contemporaneità (un viaggio in Urss o negli Stati Uniti, un film di Fellini). Dal volume, riedito adesso a cura di Santino G. Bonsera per le edizioni Quaderni del Circolo, sono tratti i brani pubblicati in queste pagine.
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o italiano» di Leone Piccioni Qui accanto, una celebre foto di Marcello Mastroianni e Federico Fellini sul set di «Otto e mezzo»: i due strinsero un sodalizio poetico di grande spessore, articolato in molti dei migliri film del regista riminese. Nelle foto sotto, alcune immagini de «Le mani sulla città» di Francesco Rosi. Nella pagina accanto, Leone Piccioni
uasi) poesia
spetto esatto e matematico d’una regola, d’una scansione, come fuori dalla norma, in una lucida atmosfera rara. Come tanti fatti nel gusto e nella storia della canzone, anche Gilberto passerà, o sta passando, ma per questa serata, penso che seguiterò a serbarlo lungamente nella memoria. ***
Si è già da qualche parte notato che il cinema, entro i limiti della sua possibile originalità di invenzione poetica, deve mettere in moto un linguaggio suo proprio, che non appartiene a nessun’altra forma espressiva, mentre molto spesso si assiste al tentativo fatto attraverso il cinema di tradurre emozioni letterarie o poetiche proprie delle altre forme d’arte. (Ma già il discorso si complica perché vor-
rebbe prescindere dai grossi moventi commerciali del cinema stesso).Vedo Otto e mezzo di Fellini, e finalmente so più che mai, forse meglio di sempre, che il cinema talvolta può esprimersi pienamente e con forza privata e corale, in un modo che è soltanto suo, attraverso un linguaggio irripetibile, tutto d’invenzione, di fantasia, d’estro. Come accada, come in Otto e mezzo sia accaduto, può anche essere misterioso: una squadra di collaboratori al lavoro, tempi e tempi di ripresa, pentimenti e correzioni, nel caso specifico dicono dubbi infiniti, indecisioni, fino al montaggio. E si gira seguendo un filo scritto, una traccia premeditata, già la ripresa filmata è un tentativo di traduzione dell’idea. Poi il montaggio, e di nuovo sarebbe necessario nel montaggio una ricom-
posizione (tra tanto materiale disponibile, chissà quanti “ciak” per ogni inquadratura!, le varianti, i ripensamenti infiniti), d’un’idea ben precisata. Fellini, e chi con lui ha lavorato, riescono a lasciare a quest’opera il senso di un’invenzione continua, mai premeditata, tutta inventiva. Il ritmo che ne esce, il linguaggio, i trapassi sono, tante tante volte, folgoranti, toccano al centro: è quasi stato scoperto il montaggio vero che necessita al cinematografo, per essere una cosa a sé, irripetibile. Con una perizia tecnica straordinaria che potrebbe anche confondere le idee quanto a risultanze d’arte (ma questa è concezione vecchiotta e romantica, perché senza grande perizia tecnica non c’è grande poeta o pittore, ed i più grandi poe-
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largando nei tempi, giocando nei toni, con un rigore, che assai di rado s’allenta. Esco da Otto e mezzo quasi stupefatto, e davvero felice.
Ora io dico: questa è una strada. Certo una strada (perfino forse conciliabile con la commercialità) segnata da un talento geniale, ma tutte le strade furono segnate da talenti geniali. Questa è la strada della pura invenzione, conoscendo il mezzo disponibile, sapendo di tutta la sua possibile larghezza espressiva, mai d’accatto, tutta d’estro emotivo. Non è forse la sola strada. Ma stando al cinema italiano (che del resto consegna, in questo senso, i fermenti di ricerca più vivi nel panorama mondiale - mi pare -, crisi o non crisi), da questo estremo non c’è che da passare a
Vedo «Otto e mezzo» e finalmente so più che mai, forse meglio di sempre, che il cinema talvolta può esprimersi pienamente e con forza privata e corale, in un modo che è soltanto suo ti e pittori furono certo anche quelli più straordinariamente dotati di perizia tecnica. E non solo di quella, naturalmente!).
Nel film di Fellini i tempi della memoria, della fantasia, della cronaca. Direi, distinguendo, che nei risultati, la parte meno trascinante sia quella della fantasia; anche quando l’allestimento scenografico sia perfetto, come nella ricostruita casa dell’infanzia, bellissima figurazione. Ma si metta a raffronto la parte dei bimbi che introduce alla scoperta della Saraghina con la fantasia dell’“harem” da
marito italiano. La delicatezza emozionata, libera, totalmente inventiva, da una parte; il peso di un certo carico barocco nella seconda - da ricordare, pur in meglio, il francamente brutto episodio dello “spogliarello”, nel tanto minore film La dolce vita. Minore dico di Otto e mezzo. Sono tempi che entrano l’uno dentro l’altro, certi accorgimenti che sono stati usati in provincia per far meglio capire, avviliscono, se davvero sia necessario ricorrere con il grande pubblico a ciò, perché la più vittoriosa e persuasiva cosa del film, (a parte il racconto che in un film non può mai essere cosa ferma e certa ad esiti di poesia), è proprio data da questa ampia, patetica, continuamente rinfrescata libertà senza confini, di legare e di svolgere, di procedere a raccordi impetuosi, al-
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quello fedelmente documentario, che punta sul rigore dell’immagine, e del suo scorcio, sfruttando il carattere che è solo del cinema: riprendere l’oggetto com’è, nella sua verità ma riuscire egualmente a deformarlo sentimentalmente o polemicamente. Il poeta, invece, l’artista deve procedere ad una totale invenzione dell’oggetto stesso incontrando tanto spesso il rischio della descrizione.Anche il cinema, pur nel documentario, rischia la descrizione dell’oggetto, e subito decade. Ma c’è chi riesce, per sobrietà, per cultura, per impegno, a sfuggire a questo: chi sa mettere in
campo le cose come sono, eppure le sa deformare, piegare ad un senso poetico e umano. Da Fellini di Otto e mezzo, insomma, andrei a Rosi del Bandito Giuliano.
In mezzo, a me pare, possono stare cose ottime, divertenti, da cassetta, d’impegno vero, di sicura ricerca intellettuale, con piglio sperimentale, oppure guidate da gusto che più grande non se ne potrebbe trovare nella riproduzione, nella ricostruzione vera (e ci sono anche le tante altre orribili cose che sappiamo): ma in tutta la gradazione pur positiva, subentra sempre l’uso di un linguaggio che non è più solamente o strettamente cinematografico, è letterario, di Cultura, è figurativo, chiamatelo come volete, ma insomma è di derivazio¬ne o d’accatto, tenta di
mettersi a gara con un modello, soccombendo in partenza alla capacità d’emozione del modello vero. Vedo di Rosi Le mani sulla città. Film pieno, condotto di nuovo con grande bravura, con rigore estremo dal regista, senza cedere nulla al colore, alla descrizione, con totale chiusura, pur di ricostruire, ancora una volta (e questa volta sui fatti) ma deformando liricamente. Non ha a mio parere la suggestione nuova di Giuliano, ma è un film che merita un suo posto particolare.
Ma perché (vorrei richiamarmi ad un altro mio scritto, quello sui critici e moralisti) questo film è amato o avversato, e se ne scrive, solamente per l’eventuale“messaggio”che porterebbe con sé? Perché si parla o del coraggio di Rosi, o della cedevolezza della censura, al nord con un certo compiacimento per il sud succhiasangue, in tanti ambienti per il preteso significato filocomunista del film stesso? Sgomenta che il clima di un paese come il nostro sia, possa essere, così provinciale. “Messaggio”: sarebbe un messaggio contro ovvie brutture, contro chi, per il proprio interesse, è disposto a passare su tutto, vite umane, sofferenze, figli. È la storia di un gangster, o di una banda di gangsters, e naturalmente il regista, e quanti scrivono per il film sono“contrari”. Sperano in una società regolata diversamente. (Torna in mente la vecchia storiella inglese, dal marito laconico che esce per andare al servizio divino, non però seguito dalla moglie. Al ritorno la moglie vuol sapere, e chiede notizie sulla predica del pastore. “Ha parlato - risponde il marito sul peccato”. - “E che ha detto?” “Ha detto che è contrario”, fu la risposta). E questo sarebbe “messaggio”, o “coraggio”? Se lo è, se lo fosse, poveri noi! E non lo dico solo per le accoglienze ostili al film per motivi politici - si badi bene -, lo dico anche per la posizione di partenza di certe schiere sostenitrici del film, per questo affare del “messaggio”, che sfiorano la presunzione. Certo può esserci donchisciottismo; il peccato, il male non basta indicarlo per sradicarlo. C’è da per tutto, di continuo risalta fuori nel mondo; forse è una condizione di natura. Ma una certa unanimità nell’esser contrari non dovrebbe, almeno sul piano ideologico o teorico, essere difficile! Se si parla di coraggio, di messaggio, con film di pura e piena struttura commerciale, gli americani, senza nessun chiasso, hanno con il cinema indicato, e aperto ben altri bubboni, ben altre piaghe, toccando ben altre strutture, che quelle di un consiglio comunale napoletano che cambia maggioranza, in epoca di larghe clientele popolari. Per dire, insomma, che il film di Rosi è un bel film, indipendentemente, o soltanto in preciso rapporto di struttura, dal messaggio o dalla polemica. Con i messaggi, con la polemica si fanno “pamphlet”, comizi, discorsi, programmi politici, anche di Governo. Non si fa poesia.
mondo
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Gaza. Attacco palestinese rompe la tregua e uccide un soldato. Tsahal reagisce. L’Egitto: entro febbraio si trova un accordo
La “pace” è già finita? Ancora scontri al confine tra Israele e la Striscia E Obama a una tv araba parla agli «amici islamici» di Luisa Arezzo l filo sottile che sostiene la fragile tregua tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza si è spezzato ieri mattina per l’uccisione di un soldato israeliano e il ferimento di altri tre commilitoni durante un attacco palestinese contro una pattuglia di militari di Tel Aviv. Israele ha immediatamente reagito con un’incursione dentro la Striscia che ha provocato la morte di un palestinese (fonti mediche non confermate parlano di due morti). E
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dell’Unione europea, Javier Solana, è già atterrato a Tel Aviv per incontrare il ministro degli Esteri Livni, dopo una sosta al Cairo (al centro dei colloqui anche l’eventuale pattugliamento costiero a firma Ue, fortemente osteggiato dall’Egitto). Sui particolari dell’attacco fonti palestinesi hanno riferito che in apparenza è stato attuato da un gruppo formato da due o tre miliziani, che sono stati visti avvicinarsi al confine israeliano per sparare un razzo anti-
Gli Usa sono pronti a «tendere la mano dell’amicizia» verso il mondo islamico, ha detto il neo-presidente. «Ho parenti musulmani e conosco questo popolo». Valanga di sms: che Allah ti aiuti! sembra aver lanciato anche un missile con un drone (aereo senza pilota) che avrebbe centrato uno scooter all’interno della Striscia di Gaza, nella località di Khan Yunis, ferendo due persone. Questa ennesima crisi è immediatamente successiva alla prima intervista ufficiale di Barack Obama, simbolicamente data all’emittente saudita al Arabyia, in cui ha teso una mano al mondo islamico, e precede di poco l’arrivo nella regione dell’inviato Usa in Medioriente, George Mitchell. Mentre il suo omologo
carro contro una jeep militare. Da lì alla risposta israeliana il passo è stato breve. Sul fronte politico,Tel Aviv ha reagito chiudendo nuovamente i valichi della Striscia e bloccando gli aiuti umanitari destinati alla popolazione. Sia Hamas che il Jihad islamico si sono dichiarate estranee all’attacco. Contemporaneamente, in un forse incauto tempismo, il ministro degli Esteri egiziano Ahmed Abul Gheit, annunciava che una tregua “permanente” tra Israele e Hamas avrebbe potuto essere concordata nella
prima settimana di febbraio. Ma poiché tale scenario è vincolato a un cessate il fuoco permanente e alla conseguente riapertura dei valichi di frontiera a Gaza, l’attacco di ieri sembra quantomeno posticipare la data di una sua applicazione.
Sul fronte mediorientale, ieri è stata però anche la giornata di Barack Obama. Anche qui il tempismo non è stato dei migliori, ma certo non per colpa sua. Il presidente Usa ha infatti concesso la sua prima intervista ufficiale all’emittente saudita al Arabyia, e questo nonostante le minacce formulate alla sua Amministrazione dal principe Turki al-Faisal (leggi articolo di Daniel Pipes in basso, ndr) lanciate tre giorni fa
dalle pagine del Financial Times. Gli Stati Uniti sono pronti a «tendere la mano dell’amicizia» verso il mondo islamico. «È mio compito comunicare che gli Stati Uniti si interessano al benessere del mondo islamico, ha detto Obama. «Io ho membri musulmani della mia famiglia... Ho vissuto in Paesi musulmani (...) e so che il mondo musulmano è pieno di persone straordinarie. L’America non è il nemico». E ancora: «Se
Teheran aprirà il pugno, troverà una mano tesa». L’intervista ha suscitato grande entusiasmo tra gli utenti dell’emittente saudita: una valanga di messaggi ha mandato in tilt il sito on-line della tv araba per congratularsi con «il Benedetto Hussein Obama», (Barack in arabo significa benedetto, ndr). «Che Allah ti aiuti» il commento più frequente. Mistero, invece, sulla capitale araba che Obama ha detto di voler presto visitare.
Turki al-Faisal, principe d’Arabia, ha ammonito tre giorni fa Obama “dettandogli” sei regole per salvare il Medioriente
La minaccia saudita: «America, con noi o sarà Jihad» di Daniel Pipes ato nel 1945 alla Mecca, figlio del futuro re Faisal, la biografia ufficiale ci informa che Turki alFaisal ha studiato presso la Ta’if Model Elementary and Intermediate School, alla Lawrenceville School e alla Georgetown University. La sua carriera è iniziata nel 1973 come consigliere della Corte Reale. Per circa venticinque anni, dal 1977 al 2001, è stato direttore generale del principale servizio di intelligence estero del Regno saudita, incarico che ha lasciato poco prima dell’11 settembre. Tra il 2002 e il 2007, ha rappresentato il suo governo come ambasciatore a Londra e a Washington. In pensione, è presidente del King Faisal Center for Research and Islamic Studies a Riad ed è co-presidente del C100 Group,
N
un affiliato del Forum economico mondiale. Queste credenziali servono a calibrare la portata dell’importante articolo pubblicato da Turki il 23 gennaio sul Financial Times e titolato “l’Arabia Saudita sta perdendo la pazienza”. Nel pezzo egli inizia col rievocare i suoi decennali tentativi di promuovere la pace araboisraeliana, con particolare riferimento al Piano Abdullah del 2002. «Ma dopo che Israele ha lanciato il suo sanguinoso attacco a Gaza», egli scrive «quegli appelli all’ottimismo e alla cooperazione sembrano ormai un lontano ricordo». Poi arriva una minaccia: «Se la nuova amministrazione statunitense non prenderà delle efficaci misure dirette ad evitare ulteriori sofferenze e carneficine dei palestinesi, il processo di
pace, il rapporto tra gli americani e i sauditi e la stabilità della regione saranno a rischio».
Turki passa a colpire George W. Bush in un modo non proprio usuale per un ex-ambasciatore saudita: «Non solo l’amministrazione Bush ha lasciato uno sgradevole retaggio nella regione, ma ha altresì contribuito alla carneficina degli innocenti, tramite un’arrogante posizione assunta riguardo la mattanza di Gaza». Poi, arriva una nuova minaccia, riformulata in modo più diretto: «Se gli Stati Uniti volessero continuare ad avere un ruolo di leadership in Medioriente e mantenere intatte le proprie alleanze strategiche - specialmente lo “speciale rapporto”instaurato con l’Ara-
bia Saudita - dovranno rivedere in maniera drastica le linee politiche verso Israele e la Palestina». Per poi cominciare a dettare istruzioni alla nuova amministrazione circa il modus operandi da adottare: condannare le atrocità commesse da Israele contro i palestinesi e appoggiare una risoluzione delle Nazioni Unite in tal senso; condannare le azioni israeliane che hanno portato a questo conflitto, dalla costruzione degli insediamenti in Cisgiordania al blocco di Gaza, agli omicidi mirati, agli arresti arbitrari dei palestinesi; dichiarare che l’America è intenzionata a lavorare per un Medioriente senza armi di distruzione di massa, con un ombrello di sicurezza per i Paesi che firmino e sanzionando quelli che non lo faranno; chiedere
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Come in Libano, la sicurezza dei confini deve essere gestita da una forza internazionale
Nuova missione Unifil. Questa volta a Rafah di Stranamore entre si torna a sparare a Gaza, ancora ci si chiede quali fossero gli obiettivi israeliani all’inizio delle ostilità e se siano o meno stati conseguiti. È chiaro infatti che l’operazione Piombo Fuso è stata preparata con cura, per mesi, ed aveva scopi che vanno molto al di là del“blocco”del lancio dei razzi, che è peraltro impossibile da attuare, anche se si fosse deciso di re-occupare la Striscia. I razzi di Hamas infatti non rappresentano una minaccia militare o strategica ma, impiegati contro i centri abitati israeliani, sono uno strumento del terrore, peraltro molto meno efficace rispetto ai terroristi kamikaze. Non c’è una soluzione militare che consenta di impedirne il lancio o di intercettarli tutti con sistemi di difesa antirazzo e mortaio (i cosiddetti C-RAM). Quello che serve è convincere i palestinesi a non tirarli. Ed evitare che sia possibile portare a Gaza gli esemplari più potenti, che non si possono produrre localmente. Anche se una certezza al proposito non la avremo mai, si può pensare che Israele abbia affrontato il problema in modo pragmatico, per cercare un miglioramento della situazione strategica attraverso un’operazione militare limitata nel tempo che, a differenza di quanto avvenne in Libano nel 2006, si è conclusa subendo perdite minime e con costi diretti accettabili. Ai palestinesi è andata diversamente, ma in ogni caso non si è arrivati a quelle “stragi”di cui, come al solito, si parla senza verificare.
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Foto grande: un’immagine degli scontri fra Gaza e Israele nelle scorse settimane. Foto piccole: a sinistra, Barack Obama e a destra il suo inviato in Medioriente George Mitchell. A destra, Turki al Faisal
un immediato ritiro delle forze israeliane dalle fattorie di Shab’ah in Libano; incoraggiare i negoziati di pace israelosiriani; e appoggiare una risoluzione dell’Onu che garantisca l’integrità territoriale dell’Iraq. In più, Barack Obama dovrebbe fortemente promuovere l’iniziativa di pace di Abdullah.
E non finisce qui: Turki osserva che Mahmoud Ahmadinejad ha chiesto alla «Arabia Saudita di guidare un jihad contro Israele che, se perseguito, genererebbe un caos e uno spargimento di sangue senza precedenti». E dice conciliante: «Finora, il regno ha ignorato questi appelli», ma poi, reitereando per la terza volta la sua minaccia conclude: «ogni giorno questa posizione moderata diventa sempre più difficile da mantenere. Alla fine, il Regno non sarà in grado di impedire ai propri cittadini di unirsi alla rivolta mondiale contro Israele». Questi gli antefatti: ma che si può fare davanti a tale straordinaria minaccia? Non molto.
Israele ha cercato di ripetere quanto ottenuto in Libano: infliggere una sconfitta militare al nemico, convincerlo a pensarci bene prima di effettuare nuovi attacchi (e Hezbollah sta buono da 2 anni e mezzo) e, soprattutto, internazionalizzare la sicurezza dei confini. Israele dice che la Unifil II è inefficace, ma se Uni-
1) Come ben chiarisce il FT, l’articolo del principe richiama alla mente le lettere che re Abdullah, da principe ereditario, inviò nel 2001 a George W. Bush, avvisando che il regno avrebbe rivisto i rapporti con gli Stati Uniti se l’amministrazione americana non avesse adottato un’efficace iniziativa per la pace in Medioriente. Le missive fecero suonare dei campanelli d’allarme a Washington, ma questi ultimi furono ben presto fatti passare in secondo piano dagli attacchi dell’11 settembre, che coinvolsero un gruppo di sauditi. I legami con gli Stati Uniti tornarono a migliorare solo dopo che Riad lanciò la propria campagna contro il terrorismo a distanza di due anni e iniziò a occuparsi delle originarie cause del radicalismo. In altre parole, la minaccia - date le condizioni - non è stata sperimentata.
2) Nonostante tutti gli anni trascorsi all’apice dell’establishment saudita, nel 2006 Turki ha lasciato in modo ignominioso la sua ultima posizione ricoperta. Qui di seguito, un resoconto della sua
fil non ci fosse ora dovrebbe mantenere un formidabile dispositivo di forze alla frontiera settentrionale, forze esposte al fuoco delle armi a tiro diretto di Hezbollah. Oppure dovrebbe occupare nuovamente una fascia di territorio libanese. Grazie ad Unifil e all’Esercito libanese questo non è necessario. E la forza navale che controlla le coste libanesi è internazionale.
Se si arriverà a dispiegare una forza internazionale a Rafah, nella Striscia, per sorvegliare il confine con l’Egitto, se si amplierà la terra di nessuno fino a 1-2 km, rendendo molto difficile realizzare nuovi tunnel, se una forza navale multicolore si occuperà di pattugliare la frontiera marittima… Israele avrà raggiunto un ottimo risultato, anche se poi naturalmente si lamenterà della inefficacia dei controlli. Hamas, inoltre, ora sa che se esagera o se reagisce con troppa violenza alle provocazioni israeliane (come è stata l’eliminazione di 6 terroristi a novembre, a tregua in corso) rischia una punizione devastante. Il gruppo ha perso durante la guerra almeno 3mila uomini, tra morti e feriti. Si potranno sostituire, ma si è trattato di un colpo durissimo. Ed è possibile che Hamas sia spinta ad accettare un cessate il fuoco di media-lunga durata. Aggiungiamo poi che la campagna psicologica-politica volta ad affermare che Israele muove la guerra ad Hamas, ma non alla popolazione della Striscia, qualche prodotto lo sta avendo. Perché Hamas, a Gaza, ha vinto le elezioni grazie alla corruzione e incapacità politica di Fatah, però ha sprecato il tempo e i soldi che poteva impiegare per migliorare la situazione della popolazione, ha “provocato” una guerra con Israele e ha pensato bene di continuare a liquidare gli uomini di Fatah. Se a Gaza tornasse Fatah e si arrivasse ad un governo di unità nazionale, Israele avrebbe colto un ulteriore successo.
uscita, nelle parole del Washington Post: «Il principe Turki al-Faisal, ambasciatore saudita negli Stati Uniti, a detta di funzionari americani e di rappresentanti stranieri, ieri è fuggito da Washington dopo aver informato il segretario di Stato Condoleezza Rice e il suo staff che avrebbe lasciato l’incarico dopo soli quindici mesi di attività (…) Turki, un ex-capo d’intelligence con anzianità di servizio, secondo diplomatici arabi, ieri pomeriggio ha detto ai membri del suo staff di voler trascorrere più tempo in famiglia. I colleghi si sono detti sorpresi della decisione. L’uscita è avvenuta senza fanfare, festeggiamenti e tributi che di norma accompagnano la partenza di un importante rappresentante, e men che meno senza una dichiarazione pubblica». 3) Turki ha una lunga storia di radicalismo islamista e di impulsività nei confronti del conflitto arabo-israeliano. In un discorso pronunciato agli inizi del mese in occasione di un forum sui rapporti tra la regione del Golfo Persico e gli Stati Uniti, si è rivolto così a Obama:
«L’amministrazione Bush le ha lasciato una vergognosa eredità e un’incauta posizione verso i massacri di Gaza. Adesso basta! Oggi siamo tutti palestinesi e cerchiamo il martirio in nome di Allah e della Palestina, seguendo coloro che sono morti a Gaza.
“Cercare il martirio”? Sa di rivoluzionario regime iraniano e non di tranquilla monarchia saudita. 4) Le minacce di Turki potrebbero plausibilmente influenzare l’amministrazione Obama, ma i commenti del neo presidente circa le recenti ostilità di Gaza lasciano intendere che egli sta procedendo in una direzione decisamente differente, avendo stabilito tre condizioni che Hamas dovrà onorare prima di essere accettato come partner diplomatico (riconoscere il diritto di Israele a esistere; rinunciare alla violenza; e rispettare gli accordi precedenti). Nelle parole di un’analisi del Washington Post, finora, «Obama sembra uniformarsi alla linea seguita dall’amministrazione Bush».
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Terrorismo. Frattini richiama l’ambasciatore. Mantica: no all’amichevole di calcio con il Brasile
Sfida diplomatica per Battisti di Francesco Capozza Qui accanto, l’ex-terrorirsta Cesare Battisti al momento della sua cattura in Brasile. Sotto, l’abbraccio del Presidente Lula a Giorgio Napolitano, in occasione della sua visita a Roma
in breve Onu, Susan Rice ambasciatore Usa Il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite è Susan Rice, ed ha appena presentato le sue credenziali al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. Rice è la terza donna, la prima afroamericana, a ricoprire questo incarico. Prima di lei, si erano succedute Madeleine Albright e Jeane Kirkpatrick. Il neo ambasciatore ha presentato i quattro obiettivi del suo mandato: rafforzare le capacità di successo delle Nazioni Unite in operazioni di pace complesse, portare avanti l’agenda sui cambiamenti climatici, quella sulla non proliferazione nucleare e, infine, porre gli Stati Uniti al centro degli sforzi internazionali per ridurre la povertà.
Nigeria, rapito sacerdote cattolico
ROMA. L’Italia ha deciso di richiamare l’ambasciatore a Brasilia. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sentito il Presidente del Consiglio e «in relazione alla grave decisione» presa sul caso Battisti da parte del procuratore generale della Repubblica brasiliano, Antonio Fernando de Souza, «ha disposto il richiamo a Roma per urgenti consultazioni dell’Ambasciatore Michele Valensise». Il ministro degli Esteri ha definito “grave” la decisione della Procura brasiliana di chiedere l’archiviazione della richiesta di estradizione per Cesare Battisti avanzata dall’Italia. «Avevamo auspicato un ripensamento, una riflessione approfondita» ha affermato il numero uno della Farnesina, «il fatto di decidere solo dopo 48 ore senza aver valutato con quella profondità che avevamo auspicato ci sembra un po’ un non voler decidere e coprire pienamente e semplicemente la decisione politica del ministro della Giustizia. Questo è francamente inaccettabile, quindi convochiamo l’ambasciatore d’Italia per consultazioni sulla vicenda. Voglio capire da lui quali sono le strade». Ma la vicenda ha anche un risvolto calcistico, dal momento che il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, ha proposto di non far disputare per protesta l’amichevole fra Italia e Brasile in programma il prossimo 10 febbraio a Londra. E se Lippi si è detto in attesa di indicazioni dalla Federazioni, le reazioni politiche al richiamo dell’ambasciatore non sono mancate.
«Bene ha fatto Frattini», ha detto Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl, «un gesto forte a dimostrazione dell’indignazione del nostro Paese e della determinazione del governo. Non ci rassegneremo di fronte ad una decisione così sconcertante». Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, parla di «decisione gravissima e inqualificabile» da parte del governo brasiliano. «Il Brasile non si è comportato da paese amico», ha sottoli-
neato il ministro per le Politiche Europee, Andrea Ronchi, «è intollerabile che l’assassino di quattro cittadini italiani se ne possa girare libero in Brasile». Tuttavia, liberal ha voluto, però, sentire anche le considerazioni diplomatiche di due ambasciatori italiani di peso: Bruno Bottai, ex ambasciatore a londra e presso la Santa Sede e Ludovico Incisa di Camerana, già vice direttore generale della Fao. Il problema è capire ora che cosa si possa fare per risolvere la questione. Per Bottai «la cosa più importante, al momento è salvaguardare i rapporti diplomatici tra il nostro Paese e il Brasile. Questa frizione sul caso Battisti è una doccia fredda in un momento in cui l’amicizia tra le due nazioni era divenuta particolarmente stretta nel recente incontro tra il nostro presidente della Repubblica e il capo di stato brasiliano, ospitato ad-
lo per quattro omicidi commessi negli anni 1970. Souza era già noto alle cronache nostrane perché l’anno scorso aveva raccomandato l’estradizione dell’esponente dei Pac, Proletari armati per il comunismo, ma in un comunicato diffuso ieri ha spiegato che la richiesta non è più valida, dopo che il governo del presidente Luiz Inacio Lula da Silva ha concesso a Battisti lo status di rifugiato politico. Il ministro brasiliano della giustizia, Tarso Genro, ha dichiarato poi nelle scorse ore che la condanna di Battisti è macchiata dall’essere stata emessa quando l’Italia stava cercando di mostrare che stava reprimendo presunti atti di terrorismo. «Voglio dire che quando Battisti è stato processato in Italia la decisione era probabilmente appropriata nelle circostanze storiche di quel paese. Oggi qualsiasi giudice assolverebbe Battisti per insufficienza di prove» ha dichiarato Genro alla televisione statale brasiliana.
La decisione della Farnesina dopo l’annuncio che il caso sarà archiviato nel Paese sudamericano. Intanto resta sospesa l’ipotesi del boicottaggio sportivo. Lippi: «Io aspetto nuove indicazioni» dirittura al Quirinale da Napolitano». Per Incisa di Camerana, poi, «è auspicabile che entrambe le parti facciano di tutto per evitare delle mosse diplomatiche ancora più forti, come potrebbe essere il ritiro permanente del nostro ambasciatore a Brasilia». Entrambi, tuttavia, sono convinti «che non si arriverà ad una “rappresaglia”diplomatica». «Il Brasile capirà», si augurano.
Le ore che hanno preceduto la decisione di Frattini erano state molto agitate, soprattutto per le notizie che arrivavano da Brasilia. Nella notte tra lunedì e martedì, infatti, il procuratore brasiliano Antonio Fernando Souza aveva chiesto alla Corte Suprema brasiliana di archiviare il procedimento di estradizione di Cesare Battisti in Italia dove deve scontare una condanna all’ergasto-
Battisti, intanto, rimane detenuto a Brasilia in attesa della decisione della Corte Suprema sulla richiesta di estradizione.Va anche ricordato che il Brasile ha una lunga consuetudine come rifugio di latitanti. Il più infame riguarda il dottor Josef Mengele, detto l’«Angelo della Morte» di Auschwitz, morto in questo paese nel 1979. In Brasile trovò rifugio anche Ronald Biggs, autore della nota rapina al treno britannico, tornato a Londra nel 2001.
Un sacerdote cattolico è stato sequestrato da ignoti nel Delta del Niger, la ricca regione petrolifera nel sud della Nigeria. Lo riferisce l’agenzia missionaria Misna che cita l’agenzia di stampa nazionale nigeriana (Nan). Pius Kii (questo il suo nome) è stato rapito da ignoti domenica mentre stava lasciando la parrocchia Cristo Re a Port Harcourt, capitale dello Stato di Rivers. La polizia, che ha confermato il sequestro, ha sottolineato che le dinamiche sono ancora confuse e che padre Kii (già presidente dell’organismo per l’educazione scolastica primaria del Rivers) è il primo sacerdote ad essere rapito nel Delta del Niger.
Usa-Russia: vertice il 2 aprile Il presidente russo Dmitry Medvedev e il suo omologo statunitense Barack Obama potrebbero incontrarsi a margine di un vertice dei G20 il 2 aprile a Londra. Lo ha reso noto il midegli nistro Esteri russo, Sergei Lavrov. Il ministro ha spiegato che lui e il nuovo Segretario di Stato Hillary Clinton si sono accordati per incontrarsi prima di quella data. Obama ha telefonato lunedì a Medvedev. I due, ha riferito la Casa Bianca, si sono trovati d’accordo sull’importanza di fermare la “deriva” delle relazioni tra i due Paesi e sulla necessità di incontrarsi per discutere delle sfide comuni.
mondo
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Ieri, la Chiesa ortodossa russa ha scelto Kirill, metropolita di Smolensk e Kaliningrad, come successore del patriarca Alessio II, morto il mese scorso. Oltre Kirill, era Kliment di Kaluga e Borovsk l’altro candidato al trono: Filaret di Minsk e Slutsk si era ritirato nel pomeriggio di ieri annunciando il proprio sostegno a Kirill
Russia. Il metropolita di Smolensk e Kaliningrad ha battuto Kliment di Kaluga MOSCA. Dopo una sfarzosa cerimonia religiosa accompagnata dalle preghiere di centinaia di fedeli, la Chiesa ortodossa russa ha scelto ieri Kirill - metropolita di Smolensk e Kaliningrad - come successore del patriarca Alessio II, morto il mese scorso. Da giorni i fedeli sono arrivati da tutte le parti della Russia per pregare, accendere una candela o posare un’icona davanti alla cattedrale del Cristo Salvatore, dove si è riunito il sesto Concilio della Chiesa ortodossa russa (il primo dell’era post comunista). «Sono qui per pregare affinché la nostra Chiesa abbia un patriarca degno di Alessio», racconta Irina, una pensionata arrivata da una cittadina vicina a Mosca. Centinaia d’agenti circondavano invece la cattedrale per evitare disordini, mentre le strade circostanti sono state chiuse al traffico trasformando la capitale in un immenso ingorgo. Oltre al metropolita Kirill, era Kliment di Kaluga e Borovsk l’altro candidato al trono (Filaret di Minsk e Slutsk si era ritirato nel pomeriggio di ieri annunciando il proprio sostegno a Kirill). Kliment, 59 anni, tesoriere della chiesa noto conservatore e vicinissimo al Cremlino, è nato a Mosca e ha servito per due anni nell’Armata rossa. In seguito ha vissuto in Canada e negli Stati Uniti guidando la comunità religiosa russa locale. In molti oggi sperano che Kirill riesca a rendere il patriarcato più indipendente dal Cremlino. L’interesse dei vertici russi verso la chiesa è diventato molto attivo da quando il pri-
Kirill il conciliatore alla guida degli ortodossi di Francesca Mereu mo ministro ed ex presidente Vladimir Putin è salito al potere nel 2000. Putin invitò Alessio II al Cremlino per benedire il passaggio di potere tra lui e Boris Eltzin e poi l’ascesa al trono di Dmitry Medvedev lo scorso anno. E sia il presidente che il premier ai funerali di Alessio II si sono inchinati davanti alla sua salma baciandola in fronte.
Kirill, 62 anni, nato a Leningrado, ora San Pietroburgo, in una famiglia di preti, era a capo del potente dipartimento degli affari esterni della chiesa (lo stesso ruolo che svolgeva Alessio II prima di diventare patriarca) ed è stato il portavoce principale della chiesa ortodossa in Russia e all’estero. Ha preso i voti nel 1969 ed è stato sempre
descritto come il numero due della gerarchia ecclesiastica, tanto che dopo la morte di Alessio, è stato nominato patriarca ad interim. Buon oratore, amante dei mass media,
ne politica della Chiesa ortodossa nei confronti della Chiesa cattolica. Anche se nel dicembre del 2007 Kirill ha guidato uno dei rari incontri di una delegazione ortodossa rus-
62 anni, nato a San Pietroburgo in una famiglia di preti, era a capo del potente dipartimento degli affari esteri della chiesa, lo stesso ruolo che svolgeva Alessio II prima di diventare patriarca sarà a capo di una chiesa di circa 165 milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo e avrà anche il compito di decidere la direzio-
sa da Benedetto XVI in Vaticano, non sembrerebbe più propenso al dialogo del suo predecessore. «Non credo che ci sarà una maggiore apertura. Il metropolita Kirill è una persona espansiva a causa anche della professione che svolgeva (era a capo del dipartimento degli affari esterni della chiesa), ma una volta salito al patriarcato la sua politica verso la chiesa romana non differirà da quella portata avanti da Alessio II», ha commentato Aleksandr Radikovsky, esperto di religione presso l’associazione non governativa Sovà. E in un’intervista pubblicata lunedì dal giornale Trud Kirill ha detto che per ora un incontro tra Benedetto XVI e il Patriarca rimane assai improbabile. «Questo sarà possibile solo quando ci
saranno segni concreti di progresso su fatti che da tanto tempo hanno reso difficili le nostre relazioni», ha affermato Kirill. La Chiesa di Mosca, infatti, accusa quella cattolica di proselitismo in territorio ortodosso. Soprattutto negli anni che seguirono il crollo comunismo, secondo la chiesa russa, i cattolici avrebbero mandato centinaia di missionari nel loro paese. «Kirill è una persona molta attiva, che ama parlare con la stampa, ma non è aperto al dialogo. È più liberale rispetto agli altri candidati o ad altri membri della chiesa, ma questo non significa essere veramente liberali», continua Radikovsky. E in questo mese di campagna elettorale Kirill ha visitato il monastero di Sretensky – un centro di conservatorismo ecclesiastico – e ha dichiarato che sarebbe rimasto fedele ai dogmi tradizionali della chiesa e di condividere gli insegnamenti dell’archiepiscopo Ilarion, canonizzato di recente.
«Quando le idee liberali iniziano ad infiltrarsi nella teologia, quando alcuni teologi iniziano ad affermare che non c’è differenza tra le varie confessioni, che sono tutti rami di uno stesso albero, bisogna ricordare San Ilarion. Lui nel suo straordinario libro Non c’è cristianità senza la Chiesa, ha affermato, sulle basi del Santo Padre e dello Spirito Santo, che esiste una sola Chiesa sacra, comune e apostolica, e questa è la Chiesa ortodossa». Secondo un’indagine condotta a gennaio da VTsIOM, il 50 per cento dei russi ha detto che il patriarca dovrebbe essere la guida spirituale del Paese.
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Stagione sinfonica. Siamo stati al Teatro Olimpico e all’Auditorium della Capitale (in mezzo a un pubblico indisciplinato, maleducatissimo e chiacchierone)
Vacanze romane in musica Viaggio ragionato dentro Freud, Freud, I love you, Concert romanesc e Helikopter-Streichquartett di Jacopo Pellegrini
ROMA. Titolo: Vacanze (musicali) romane. Soggetto: un provinciale, giunto nella città eterna per ragioni di studio e lavoro, assiste a tre appuntamenti musicali, tutti in modo diverso significativi. Svolgimento. Teatro Olimpico, per la stagione dell’Accademia filarmonica romana, prima universale dello «scherzo musicale in un atto» Freud, Freud, I love you. Parterre degno delle grandi occasioni, meglio, delle occasioni grandiose. Per la musica del compositore milanese naturalizzatosi veneziano Luca Mosca, classe 1957, allievo di Donatoni e Sciarrino, ha steso un libretto Gianluigi Melega, firma illustre dell’Espresso e di Repubblica, già direttore dell’Europeo, attivissimo come poeta in duplice idioma, inglese e italiano.
na, di Melega-Mosca: Oskar Kòkoshka (accento sulla prima “o”, c’insegna il libretto), abbandonato da Alma Schindler in Mahler – indi in Gropius, in Werfel, in ecc. ecc. – va in giro con una bambola a grandezza naturale che riproduce le fattezze della donna (la nota introduttiva di Melega assicura trattarsi di fatto storico), e per guarire dall’insana passione si rivolge a un Siegmund Freud più interessato a far soldi che al buon esito della terapia. Sarà
svolte e trapassi del discorso, fors’anche a causa di un apporto strumentale troppo ridotto nell’organico (cinque elementi in tutto: l’Ensemble Algoritmo diretto da Marco Angius) e, di conseguenza, nella varietà di colori. Non mancano d’altra parte soluzioni timbriche felici, specie quando è di scena la parodia: Euridice travestita da bambolona arieggia Olympia, l’automa dei Racconti di Hoffmann di Offenbach, con in più qualche goccia di cabaret alla Weill e uno spruzzo di erotismo jazz (tre capisaldi del repertorio musicale germanico negli anni Venti). Parodia che Mosca molto lodevolmente tiene sempre un passo al di qua del cosiddetto postmoderno, non rinnegando cioè un linguaggio imparentato colla Nuova Musica anche a costo di sacrificare qua e là la comprensibilità del testo.
All’Accademia nazionale di Santa Cecilia, il direttore principale dell’orchestra, l’anglo-italiano Antonio Pappano, ha ideato un percorso intorno al genere del concerto. Quello per solista e orchestra è rappresentato dall’opera 77 di Brahms
Sala dunque fitta di nomi illustri, professionisti e professioniste della penna, dell’economia, della legge, della politica (pochi invero), della mondanità, e persino qualche musicista. Epifania terrena d’un’idea platonica per nulla superata – come da qualche sociologo a torto si crede – il “generone romano”, agiata borghesia imprenditorial-intellettuale, tutto un botulino e un «caro, cara»; un mondo con cui, a occhio e croce, i due schivi, angelici autori hanno poco a che spartire. Pubblico oltretutto, indisciplinato e maleducatissimo, catarroso e chiacchierone, sbadigliante e irrequieto, incapace di non dico intendere, ma neppure ascoltare i Lieder di Alma e Gustav Mahler e i formidabili pezzi da camera di Berg e Webern, che componevano la prima parte della serata. Eccellenti gli strumentisti, specie il pianista Ciro Longobardi e Giorgio Casati al violoncello, e molto bravo il baritono Roberto Abbondanza nei Rückert Lieder di Gustav. Lo stesso Abbondanza, insieme alla funambolica Alda Caiello e all’inappuntabile Luigi Petroni, dava vita all’operina, 35’ appe-
un’assistente del medico, dal nome parlante di Euridice (alla vicenda di Orfeo e della sua consorte Kòkoshka dedicò un dramma espressionista, messo in musica nel 1926 da Krenek), a guarire l’artista. Mentre paziente e dottoressa fuggono assieme, Freud resta solo in scena, mano nella mano con la bambola (cui presta corpo e movimenti Leda Lojodice). Una Posse, una farsa nella tradizione viennese (così la interpreta anche il regista Piero Maccarinelli), verseggiata con spirito e gusto della rima croccante; successione di metri rotolanti a scapicollo, in ragione dei quali, anzi, non sarebbe mal congegnata una pausa distensiva che, per contrasto, ne mettesse in rilievo il passo di corsa (se ne potrebbe giovare la parte di Kòkoschka, un po’ sacrificata).
Alla terza collaborazione teatrale con Melega, dopo Mr Me (2003) e Signor Goldoni (2006), Mosca asseconda e deliba questo ritmo senza soste in un perpetuum mobile sonoro, utile certo a cementare i differenti numeri chiusi (arie, duetti, un terzetto) tra loro e con le sezioni dialogiche, dove il recitativo intonato si alterna al parlato, ma non sempre abbastanza flessibile e vario nell’inflettere
Auditorium Parco della musica, Stagione sinfonica 20082009 dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia: il direttore principale dell’orchestra, l’anglo-italiano Antonio Pappano ha ideato un percorso intorno al genere del concerto. Quello per solista e orchestra è rappresentato dall’opera 77 di Brahms, che il violinista Christian Tetzlaff imposta su un cantabile legatissimo e asciutto, molto elegante, senza però riuscire del tutto a mascherare la flebile consistenza del suono e qualche impurità nell’intonazione. Nell’accezione, barocca e novecentesca, di concerto come pezzo orchestrale punteggiato da assoli o da interventi dei singoli leggii, è la volta di due pagine imparentate tra loro: col Concert romanesc (Concerto romeno) del 1951 il ventottenne György Ligeti stabiliva infatti un dialogo a distanza ravvicinata e da più pro-
In basso, il direttore d’orchestra anglo-italiano Antonio Pappano. A destra, l’Accademia nazionale di Santa Cecilia a Roma; il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen (foto in bianco e nero) e, sotto, il compositore ungherese Béla Bartók
cultura
spettive (essere nazionali in musica prescindendo dal nazionalismo, da cui l’attenzione verso il patrimonio folklorico non solo ungherese, ma dell’area balcanica in generale; il netto posizionarsi sul crinale estetico della “modernità”) con il Concerto per orchestra (1944) del più anziano connazionale Béla Bartók, modello augusto, in arte e in vita, di libertà e dignità.
La cura Pappano sta, in tutta evidenza, funzionando con Santa Cecilia. Lo sgobbo ch’egli impone all’orchestra si tramuta tutto in salute. Gli archi hanno infine un corpo e una sostanza vere, gli ottoni sono impeccabili, un po’ meno equilibrati e fusi i legni. L’appiombo, assai migliorato, necessita di ulteriore perfezionamento, frasi in apparenza semplici ma scoperte (attacco dell’Allegro non troppo nel Concerto di Brahms) rivelano ancora qualche scollamento tra le famiglie strumentali, strappate e accordi in forte del “tutti” potranno guadagnare in asciuttezza. Ma il livello complessivo è davvero molto alto. Anche come interprete Pappano attraversa una fase di crescita: le sezioni in tempo veloce e ritmicamente ben profilate, si sa, gli calzano come un guanto, animate incisive senza mancare di elasticità (secondo e quarto movi-
mento di Ligeti, ultimo di Bartók); è nelle parti lente, pensose che si riscontrano novità interessanti, ombreggiature poetiche molto suggestive, sebbene il sublime notturno bartókiano dell’Elegia risulti un po’ carente di mistero. Sempre Auditorium Parco della musica, Sala Sinopoli stavolta: frutto del connubio tra Istituzione dei universitaria concerti e Musica per Roma, prima italiana d’un’utopia sonora, la più impervia forse tra quante ne concepì quell’ardito cercatore di mondi inauditi ch’ebbe nome Karlheinz Stockhausen, l’Helikopter-Streichquartett, ovvero Quartetto per archi “degli elicotteri”. Nato tra il 1991 e il ’93 come pezzo autonomo, poi rifuso nella saga teatrale Licht – ciclo allegorico di sette spettacoli in musica (uno per ogni giorno della settimana) – quale Parte terza del Mercoledì da luce (Mittwoch aus Licht), esso quartetto prevede l’impiego dal vivo di quattro elicotteri, ciascuno ospitante uno strumentista, nel caso nostro (come in tutte le rare esecuzioni precedenti) i componenti del Quartetto Arditti, impeccabili e
impassibili dinanzi al periglio e alla fatica fisica dell’impresa. Giacché si tratta di eseguire 31 minuti abbondanti di tremoli, tremoli che a giudizio dell’autore si mescolano «benissimo con i timbri [sic] e i ritmi delle eliche e dei motori degli elicotteri, utilizzati come strumenti musicali», tremoli appena interrotti da qualche isolata nota tenuta e da qualche glissando (che forse sarebbe più corretto definire scivolamento microtonale), tremoli sovrastati di quando in quando dalle voci dei musicisti, intenti a contare in tedesco da uno a un massimo (se ricordo bene) di quindici, tremoli piegati a una sintassi appena più varia e conseguente per un breve trat-
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to nella seconda parte del pezzo, tremoli che nulla lasciano percepire della complessa architettura interna (la “struttura” si sarebbe detto ai tempi dell’Avanguardia imperante) con tanta pazienza indagata da Guido Barbieri sul programma di sala.
Codesti 31 minuti, che oltre ai 4 archi di prammatica e ai 4 elicotteri “di rinforzo”, mobilitano 4 videocamere, 4 televisori, 12 microfoni e 12 trasmettitori – multipli di 4, si capisce: il numero e il suo valore simbolico avant toute chose – per le riprese sui velivoli, 4 colonne di monitor (a Roma sostituite con uno schermo grande in cui si aprivano 4 riquadri, uno per
elicottero), almeno 4 gruppi di casse e una consolle adibita al mixaggio (affidato ad Alvise Vidolin) per la trasmissione in sala, rischiano di apparire non il frutto d’un’immaginazione fervida ed audace (Stockhausen ha scritto di aver avuto in sogno l’idea del quartetto), ma la provocatoria alzata d’ingegno d’un artista originale a ogni costo, uno sfizio non poco costoso (a Roma per fortuna gli elicotteri erano offerti da uno sponsor), un giuoco, uno scherzo. Per certo, di musica intesa come relazioni di altezze, ritmo, timbro, prospettiva temporale (anche nella forma statica ripetitiva orientale prediletta da tanto Stockhausen), se ne coglieva molto poca.
spettacoli
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l tour più atteso del 2009? No, non è quello di Bruce Springsteen, non sono i nuovi show di Madonna o degli U2. Macché, il pubblico (per lo meno quello inglese, stuzzicato da un sondaggio del sito di rivendite di biglietti Viagogo) invoca a gran voce il ritorno degli Abba. Più desiderato di una reunion dei Pink Floyd, dei Faces con Rod Stewart, dei Take That con Robbie Williams.
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Ci hanno pensato Meryl Streep e il film musical Mamma Mia! a riportarli di prepotenza nell’immaginario collettivo facendo esondare una travolgente nostalgia. Mamma Mia!, per inciso, è già il dvd più venduto della storia in Gran Bretagna. E i numeri, quando ci sono di mezzo i quattro svedesi, fanno sempre impressione: 26 milioni di copie vendute fino ad oggi con l’ubiquo greatest hits Abba Gold, che portano a oltre 370 milioni di dischi il computo totale. Cifre da vera e propria hit factory, una fabbrica di successi cruciale per l’export nazionale. Modellata, si direbbe, sull’esempio della Volvo: stessa organizzazione scientifica e democratica del lavoro. Due belle voci femminili fatte per cantare all’unisono, l’alto soprano di Agnetha Faltskog e il mezzo soprano di Anni-Frid “Frida” Lyngstad, norvegese rifugiata in Svezia a seguito della nonna per sfuggire alle malelingue che la additavano per strada come un frutto del peccato, la relazione di una giovane donna prematuramente scomparsa con un soldato nazista ai tempi dell’occupazione. Due musicisti e compositori già rodati e che sapevano il fatto loro, Bjorn Ulvaues e Benny Andersson: orafi del pop con un’attenzione maniacale per l’arrangiamento musicale e un istinto animalesco per il ritornello, il “gancio” melodico che prende all’amo l’orecchio dell’ascoltatore per non mollarlo più. E poi un editore musicale, Stig Anderson della Polar Music, che credeva ciecamente in loro. Testardo come un mulo e implacabile come un mastino, nel fare gli interessi dei suoi assistiti e promuoverli infaticabilmente in giro per il mondo. Aggiungeteci l’amore e l’affiatamento di due coppie amorose, Bjorn con Agnetha e Benny con Frida, e capirete che nella loro stagione d’oro gli Abba furono un team invincibile, predestinato al successo. Trionfan-
Musica. Un sondaggio rivela: il pubblico invoca a gran voce la reunion
In Inghilterra tutti pazzi per gli Abba di Alfredo Marziano do all’Eurofestival 1974, a Brighton in casa degli inglesi, Waterloo aprì loro le porte del paradiso segnando l’inizio precoce di quell’“europop” che sottraeva al Regno Unito il mono-
cing Queen e Money Money Money, Chiquitita e The Winner Takes It All era un delitto inconfessabile, quantomeno una disdicevole leggerezza. E come non provare imbarazzo
rio gay (ricordate il film Priscilla, la regina del deserto?), un imbarazzo per tanti altri. Eppure, lo si venne a sapere solo in seguito, gli Abba piacevano anche agli intellettuali e avevano
Se non in carne ed ossa, li vedremo sicuramente in azione virtuale grazie a un itinerante Abba Museum, che nel corso del 2009 promette di sbarcare nelle maggiori città del mondo con esperienze interattive e meraviglie tecnologiche polio continentale della musica giovane e commerciale. Già, commerciale: allora, mentre nel mercato gli lp soppiantavano i 45 giri, mentre in classifica imperavano i Led Zeppelin, i Genesis e i cantautori “impegnati”, appassionarsi a canzoncine stucchevoli e sentimentali come S.O.S. e Fernando, Dan-
In questa pagina, alcune immagini della storica band degli Abba. Un recente sondaggio del Regno Unito ha rivelato che il pubblico d’oggi invoca una loro reunion a gran voce
davanti a quei ragazzotti dai capelli cotonati e pettinature da paggetto, stretti in abitini in lamè da glam rock di provincia? (a Brighton, in tema con la canzone, il direttore d’orchestra Sven-Olaf Waldorf aveva osato presentarsi sul palco vestito da Napoleone…). Un invito a nozze per certo immagina-
fan insospettabili tra i colleghi, il serioso Peter Hammill dei Van der Graaf Generator, il polemico Elvis Costello e gli iconoclasti Ramones. Sotto la luccicante stagnola le loro canzoni erano cioccolatini pop di immacolata confezione che sottendevano l’amore di Bjorn per il folk nordico, gli studi classici
di Benny, la capacità del gruppo di parlare una lingua semplicissima eppure forbita, universale. Conquistarono la snob e diffidente Inghilterra (nel 1977 per un concerto alla Royal Albert Hall, 5.500 posti disponibili, arrivarono 3 milioni e mezzo di richieste), fecero impazzire l’Australia che pure era agli antipodi della loro collocazione geografica e culturale. Il segreto? Talento e tanto duro lavoro. Benny al pianoforte e Bjorn alla chitarra lavoravano ogni giorno con metodo e senza sosta, dalle 10 del mattino alle 5 della sera. E se c’era una scadenza incombente se ne partivano per qualche sperduta località vacanziera del Nord, 15 giorni di assoluto isolamento a produrre il materiale necessario. «Tutte quelle ore di noioso lavoro ci ripagavano perché ci permettevano di sbarazzarci delle canzoni scadenti» spiegava Bjorn. «Col tempo alleni l’orecchio, ti accorgi quando sta per arrivare qualcosa di buono e lo afferri all’istante». «Il che», aggiungeva in risposta ai critici che li massacravano, «è in se stessa una forma d’arte». Dedizione assoluta, ecco la ricetta. Il loro ingegnere del suono, Michael B. Tretow, ricordava con affetto le lunghe sedute in sala di registrazione: «L’unica cosa di cui posso lamentarmi è che non si interrompevano neanche per il pranzo. Per dieci anni mi hanno fatto morire di fame!».
La favola bella durò dieci anni, anche meno, naufragando in un litigio con Anderson, nel divorzio di entrambe le coppie felici, nella tempesta della disco music e della rivoluzione punk. Il “culto” è però rimasto inossidabile, fino alla nuova, travolgente “Abbamania” di questi ultimi mesi. Possibilità di una reunion? «Nessuna, se non per una causa eccezionale e straordinaria», ha sempre detto Ulvaues, ma chissà che la calorissima accoglienza mondiale riservata a Mamma Mia! non gli faccia cambiare idea. Se non in carne ed ossa, li vedremo sicuramente in azione virtuale grazie a un itinerante Abba Museum che nel corso del 2009 promette di sbarcare nelle maggiori città del mondo con tanto di esperienze musicali interattive e meraviglie tecnologiche, strumenti e costumi originali, foto e memorabilia mai viste prima. Meglio ricordarli così, in fondo. Non è mai facile, il ritorno, per i re in esilio.
società
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Miti. Fenomenologia di Riccardo Cassin, lo scalatore forte come le sue rocce, considerato un’autentica «leggenda vivente»
Cent’anni di solitudine (sulle vette) di Paolo Ferretti A destra, l’alpinista Riccardo Cassin, che lo scorso 2 gennaio ha compiuto cento anni. A sinistra, i rilevamenti sul massiccio del Karakorum di Ardito Desio (anche nella foto in basso). Sotto, Achille Compagnoni sul K2; un’immagine di Walter Bonatti e uno scatto dell’Everest
ento anni. Come cento sono state le sue “prime” sulle pareti delle montagne di tutto il mondo. Dalle Dolomiti al massiccio del Monte Bianco, dall’Himalaya alle Ande, fino ai monti dell’Alaska. Un saliscendi continuo, cercando e aprendo nuove vie, scalando pareti mai violate prima, tra rocce, speroni, neve, ghiacciai e crepacci. L’uomo delle “prime” si chiama Riccardo Cassin. Ha fatto l’alpinista per più di settant’anni. Leggenda vivente di una disciplina tanto affascinante quanto insidiosa, capace di trasformare emozioni indescrivibili in delusioni cocenti, magari a un passo da una vetta che sembra essere lì, a portata di mano ma che può trasformarsi in un attimo in un lunghissimo calvario, ha compiuto un secolo all’inizio del 2009. Cent’anni tondi, il 2 gennaio scorso. È salito ovunque, Cassin. Se ne è andato su, per la parete Sud-Est della Piccolissima di Lavaredo nel 1934; ha fatto suoi, uno dopo l’altro, i mille metri di granito dello spigolo Sud-Est della Torre Trieste, nel gruppo del Civetta, nel 1935; ha cercato, nello stesso anno, nuove strade sulla parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo.
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Si è arrampicato, più di una volta, sulla Nord-Est del Pizzo Badile; prima nel 1937, per replicare, poi, mezzo secolo più tardi, a 78 anni; ha superato per primo lo sperone Walker, sulla Nord delle Grandes Jorasses, nel massiccio del Bianco, nel 1938, per entrare, così, nella storia dell’alpinismo; ha compiuto
una delle sue più grandi imprese, in Alaska, scalando, per la prima volta, la parete Sud del Monte McKinley, conquistandone la vetta insieme con i Ragni di Lecco e ricevendo i complimenti del presidente J.F. Kennedy, nel 1961; capo della spedizione, nello stesso anno, verso i 6126 metri dello Jirishanca, il Cervino delle Ande. Su, metro dopo metro, ogni vol-
la prima guerra mondiale. A Lecco, invece, c’è il lago.
Per sua fortuna, ci sono anche il Resegone e la Grigna. Le paragoni all’Himalaya o alle Ande, sembrano due colline. Sono state la sua scuola. Il teatro delle prime arrampicate, sotto la guida di Emilio Comici, uno dei maestri della disciplina, all’inizio del secolo scorso. E non fosse stato per un pugno troppo forte, ricevuto durante
gini che raccontano la sua storia. Ha circolato persino un autobus di linea con la sua fotografia sulle fiancate. Carattere duro, come la roccia, davanti a tanto affetto è rimasto quasi impassibile. Forse normale per chi, in più di settant’anni di arrampicate, di emozioni ne ha vissute tante. Come la conquista, nel 1958, del Gasherbrum IV. In realtà, in vetta ci arrivano Walter Bonatti, considerato il suo erede naturale, e Carlo
Il 2 gennaio scorso l’alpinista ha compiuto un secolo e la città di Lecco, dove abita ancora oggi, ha commissionato un monumento in suo onore ta con la sola forza delle mani e con il solo aiuto di piccozze e di chiodi. Li costruiva da sé, con gli avanzi presi nella fonderia dove lavorava. Fabbro per necessità. Per mantenere la madre e la sorella, orfano di padre – morto in una miniera del Canada – dall’ età di quattro anni, si era trasferito a Lecco, nel 1926, dopo un’infanzia trascorsa a Savorgnano di San Vito al Tagliamento, a due passi dalle trincee del-
una breve ma discreta carriera da pugile, avrebbe continuato con la boxe, anziché praticare l’alpinismo. Lecco, dove vive ancora oggi, non poteva non ricordarsi di Cassin. Lo ha fatto, inaugurando il giorno del suo compleanno un monumento in suo onore: cento fili di ferro che spuntano da una roccia, davanti al municipio. In centro, invece, è stato sistemato un tappeto con le imma-
Mauri. Cassin è il capo della spedizione. Ma quei 7929 metri rappresentano comunque una delle pagine più belle della sua storia di alpinista. Non solo perché si tratta di una delle montagne dell’Himalaya più difficili da affrontare, ma anche e soprattutto perché segnano una rivincita dopo l’amara esclusione dalla storica spedizione sul K2 guidata da Ardito Desio. Cassin avrebbe dovuto farne parte. Con Desio, aveva partecipato a uno dei primi sopralluoghi. Ma al momento di scegliere gli uomini per l’assalto finale alla vetta, è tagliato fuori. Ufficialmente per problemi di cuore. Le malelingue, invece,
parlano di gelosia da parte di Desio. Una figura troppo imponente, quella di Cassin, che avrebbe rischiato di mettere in secondo piano la leadership del geologo. Eccola, dunque, la pecca – l’unica – nella storia di uno dei più grandi alpinisti italiani e del mondo. La mancanza di un Ottomila. Ci prova nel 1975, a capo della spedizione che va verso gli oltre 8500 metri del Lhotse. Deve rinunciare per il maltempo. Con lui c’è Reinhold Messner, l’erede di Bonatti che gli ha passato il testimone. Inevitabile che anche il re degli Ottomila arrampicasse con Cassin. Quasi fosse una cordata virtuale a unire il passato, lontano e recente, dell’alpinismo. Dalle sue parti, lo considerano un uomo speciale. Lui, però, non si sente tale.
Ama ripetere di avere una testa, due braccia e due gambe, come tutti. Il fisico gli ha consentito di salire in montagna fin’oltre i novant’anni. Se solo le gambe lo sorreggessero, probabilmente salirebbe ancora. A cercare qualche nuova parete nascosta, di quella che più volte ha definito essere la migliore amante della sua vita.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”Financial Times” del 27/01/2009
Non solo Occidente di Robert Zoellick li storici hanno sempre diviso le epoche, a seconda dei valori culturali, economici e politici che le rappresentavano meglio. Così abbiamo avuto il Medioevo, il Rinascimento, la Riforma e l’Illuminismo. Ma come potrebbe essere definita la prima metà del XXI secolo? Ci sarà un ritorno al passato, con i Paesi che si ritirano all’interno dei propri confini per tornare verso un modello nazionale di politica, dimenticando il tempo del benessere? Sarà invece l’epoca dell’intolleranza, a causa della crescita dell’immigrazione e l’invasione di popolazioni straniere accusate di provocare disoccupazione? Oppure sarà semplicemente e laconicamente il tempo del declino? Dovrebbe e potrebbe essere l’era della responsabilità, come l’ha giustamente chiamata Barack Obama. Perché per ciò che accade ci sarà bisogno di cambiare atteggiamento e politica negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
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Ma come potrebbe essere quest’epoca della responsabilità? Prima di tutto, parliamo di globalizzazione responsabile, dove la condivisione e la sostenibilità dovranno avere la precedenza sull’arricchimento di pochi. Ciò comporta un obiettivo per uno sviluppo che crei opportunità per le fasce più povere della popolazione, sviluppo tecnologico, microfinanza e prestiti per le piccole imprese; accordi commerciali non a senso unico e sostegno umanitario tale da poter conseguire gli obiettivi del «Millennium development goal». Il primo passo sarà quello di concludere il Doha round sul commercio internazionale. Il secondo sarà legato a preservare l’ambiente globale. L’accordo di Copenhagen sulla riduzione dei gas serra, nel prossimo dicembre, potrebbe aprire la strada a questa politica.Terzo, dovrà essere l’era della responsabilità nel mondo della finan-
za, sia a livello dei singoli operatori che a livello di sistema. Il principio potrebbe essere un accordo del G20, nel prossimo summit di Londra, che potrebbe mettere le basi per politiche di espansione fiscale, però con dei limiti di rigore di bilancio. Servirebbe anche un piano che permetta la riapertura dei mercati del credito, eliminando i crediti tossici, in modo da permettere alle banche di ricapitalizzarsi. Senza sprechi inutili e sconfiggendo le tendenze protezionistiche. Quarto, dovrebbe essere il tempo del multilateralismo responsabile, dove Paesi e istituzioni cerchino soluzioni pratiche a problemi che coinvolgono tutti. Un buon esempio sarebbe quello di trovare degli accordi credibili per gli aiuti alimentari, i prezzi dell’energia e una fiscalità a supporto degli investimenti nelle energie pulite e nel risparmio energetico. Quinto, dovrebbe essere l’epoca della responsabilità civile, dove la partecipazione ai meccanismi dell’economia globale porti anche delle responsabilità, così come dei benefici. Ciò dovrebbe permettere di far spazio a nuove realtà economiche, da parte del vecchio club dei Paesi più ricchi e sviluppati. In buona sostanza, dovrebbe essere un club veramente globale e non solo occidentale. La strada verrà tracciata da come risponderemo alla crisi nei prossimi mesi. I Paesi sviluppati dovrebbero devolvere almeno lo 0.7 per cento dei loro piani anticrisi nazionali a un fondo di «vulnerabilità», per aiutare quei paesi in via di sviluppo che ne abbiano più bisogno. La Banca mondiale potrebbe gestire la distribuzione di questi fondi in coordinamento con l’Onu e le istituzioni locali per lo sviluppo. Potremo
utilizzare meccanismi già esistenti per distribuire i finanziamenti in maniera veloce e adeguata, vigilando con attenzione sul modo con cui verrebbero spesi.
A causa dello shock dei prezzi sui generi alimentari ed energetici dello scorso anno, la crisi finanziaria ha messo ancora più in difficoltà i Paesi più poveri. Lì la stretta creditizia e la recessione globale stanno erodendo le entrate fiscali e la capacità dei governi di raggiungere gli obiettivi nel campo dell’educazione, della sanità e dell’emancipazione. Le rimesse dall’estero stanno rallentando. Gli investimenti interni e internazionali si sono bloccati. Si è calcolato che la perdita di un solo punto di Pil, in questi Paesi, significa 20 milioni di poveri in più.Tutti questi obiettivi sono alla nostra portata. Usando solo una frazione, lo 0,7 per cento, dell’enorme quantità di denaro devoluta per gli stimulus package, si darebbe quel segnale forte che si voglia passare dall’epoca del ritorno al passato a quella della Responsabilità. La scelta è molto chiara.
L’IMMAGINE
La frana sulla A3: tutti sapevano ma nessuno è responsabile! In Calabria chi doveva sapere, sapeva che quella collina presentava un altissimo rischio di frana. Infatti, la frana c’è stata e pure due morti. Come al solito ci sono state dichiarazioni, polemiche, probabilmente seguiranno avvisi di garanzie e bla bla. Persino il presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, non ha voluto far mancare la sua dichiarazione, mettendo le mani avanti, e in pratica tirandosi fuori dalla vicenda. Chi risponderà dell’accaduto? Il vero problema del nostro Paese è la completa assenza del principio di responsabilità. Le nostre istituzioni, con le varie appendici di uffici burocratici e affini, sembrano ignorare l’elementare principio della responsabilità: si risponde, in positivo e in negativo, delle azioni intraprese o omesse. Fino a quando questo elementare principio, presente nelle democrazie adulte, non sarà accolto con chiarezza in Italia, avremo sempre disastri colposi senza l’individuazione dei diretti responsabili.
Giovanna Milicia
LA CULTURA DEL RICORDO La giornata del ricordo è passata più inosservata del passato per tutto ciò che sta succedendo. Eppure non era l’elegia delle fede ebraica e del popolo di Israele che andava celebrata, ma l’efferatezza di una persecuzione e di una strage razziale nei campi di sterminio e altrove, che necessitava il ricordo come assicurazione verso il futuro, della volontà umana di non ripetere una crudeltà del genere. Forse sarà così, ma l’odio resta, resta il seme di una pianta malefica che nella storia si è insediata in molte terre del pianeta, portando alle conseguenze che sappiamo.
Bruna Rosso
LA SCELTA POLITICA DI LULA Anche se la vedova D’Antona lo ha ribadito, resta ovvio che la scelta di
Lula su Battisti è prettamente di natura politica. In queste ore la tristezza riempie le coscienze di noi italiani che abbiamo sofferto per un terrorismo violento che si è servito della criminalità comune per perpetrare le sue scelte. Una vicenda che arriva dopo che per mesi molti media avevano sottolineato come sta cambiando il Sudamerica, di nuovo in mano a dittatori senza scrupolo di stampo marxista.
Lettera firmata
A SCUOLA QUALCOSA NON VA Dal ministero giunge un’alluvione di carte, costituenti il didattismo coatto di Stato. Sono giovaniliste e pongono lo studente al centro dell’azione didattica. Il giovanilismo colpevolizza gerarchia, ordine,valutazioni e bocciature. L’ideologia egualitarista ha dissolto la merito-
Devoto a sonagli Nonostante i quaranta sonagli agganciati alla pelle, quest’uomo non sente dolore. Chi ha provato il Kavadi - un rituale induista che prevede la mortificazione del corpo come pratica purificatrice - è infatti pronto a giurare che non si sente niente. I devoti in trance si conficcano nella carne spilloni e uncini. Il tutto senza una goccia di sangue e, sembra, senza cicatrici crazia. Il rapporto scuola/discente viene rovesciato a favore di questo, il cui eventuale insuccesso diventa colpa dell’istituzione. I “corsi di recupero” sono di fatto afflittivi dei docenti. L’impegno di studio è poco avvertito, in presenza di promozioni generalizzate. Il docente perde motivazione ed efficienza, anche perché non gli si chiede d’insegnare quel che sa: lo
si vuole sottomesso a collettivi ideologizzati e al pedagogismo di funzionari ministeriali. Le lezioni in classe possono essere mortificate dai lavori di gruppo, nonché da ripetuti disturbi, comunicazioni e interruzioni. Il passato misconoscimento della funzione del voto di condotta ha portato a una caduta della disciplina e all’affermazione di disturbatori e bulli. Le at-
tività extrascolastiche spostano spesso fuori d’aula gli studenti: conferenze, proiezioni, gite, “viaggi d’istruzione”. Erra la scuola che si fonda sull’accessorio (animazione) e sminuisce l’essenziale: lettura, scrittura e calcolo. Inoltre, la scuola rischia di declinare, da palestra di sapere a strumento d’indottrinamento.
Gianfranco Nìbale
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Dimmi una parola nostra! Lenor, dammi una parola buona, ti prego, una parola nostra. Non ho più pace. L’ho letta e riletta. È mostruosa. Mai ma proprio mai non m’avevi parlato così. È un colpo di follia cattiva. Ne ho ancora il sangue sconvolto. Ed è il primo dolore non buono che mi viene da te. Siamo spajati di strada, tu dici. Ma i due destini nemici non hanno impedito che le due creature s’unissero in un grande amore, in un grande e lungo amore che riempiva ogni distanza, ogni silenzio, che schiacciava ogni dubbio. I destini erano vinti. Chi pensava più ai destini nemici, alle vite disparate e lontane? Si guardava più in là. Ciascuno intento al lavoro d’ogni giorno che deve preparare la pace.Oggi mi dici che non hai né la gaiezza, né la forza necessaria per rivedermi. Non ti ho mai chiesto gajezza. Sempre sei stata nel dolore e t’ho cercata sempre e t’ho seguita sempre e i sentieri d’Italia lo sanno e ti cerco e ti chiamo e voglio ancora seguirti oggi e sempre. Rimani dove sei, chiamami per nome. Verrò io. Ma dimmi una parola nostra, ti prego, dimmene una. Arrigo Boito a Eleonora Duse
ACCADDE OGGI
DARFUR E ARMENI Anche se in ritardo desidero complimentarmi per l’articolo “Incriminate al Bashir” dello scorso dicembre, che mi ha fatto pensare: ecco un giornale che ha coraggio e grida la verità con indignazione! Il suo giornale, direttore, mi stupisce in ogni pagina: analisi perfette e spregiudicate su politica italiana ed estera, religione, giustizia, letteratura. Vorrei ora scriverle di un argomento quasi - ma anche senza quasi - tabù: gli Armeni e il loro genocidio, che i turchi non intendono riconoscere. Ma fossero solo i turchi a non volerlo! Il Parlamento europeo l’ha riconosciuto nel 1987, nel 2000 e nel 2002. Ma la Commissione europea no: vi ha sempre posto il veto giudicando ininfluente tale riconoscimento da parte della Turchia ai fini della sua adesione all’Unione europea. Ha invece riconosciuto e lodato la Turchia per i suoi sforzi nella direzione dell’attuazione dei diritti umani... Il genocidio degli armeni è avvenuto solo 20, o poco più, anni prima di quello degli ebrei; non è avvenuto all’epoca dell’arca di Noè. E se i Turchi - e certi occidentali potenti - non lo riconoscono, quel genocidio potrebbe ripetersi, e sotto gli occhi del mondo che, anche volendo, non potrebbero intervenire. D’altronde, non riconoscere un genocidio, è commetterlo due volte.
Lettera firmata
LA MIA PASSIONE Sognavo di vivere in un Paese democratico, libero e civile. Sognavo di
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
28 gennaio 1918 Inizia la guerra civile finlandese
1932 La marina giapponese bombarda Shanghai 1935 L’Islanda diventa la prima nazione a legalizzare l’aborto 1945 Seconda guerra mondiale: i rifornimenti iniziano a raggiungere la Cina lungo la strada birmana 1958 Inventati i celeberrimi mattoncini Lego 1979 Deng Xiaoping, rappresentante del governo della Cina Popolare, compie il primo viaggio ufficiale negli Usa 1982 Il generale statunitense James L. Dozier viene liberato dall’antiterrorismo italiano dopo 42 giorni nelle mani delle Brigate Rosse 1986 Lo Space Shuttle Challenger esplode subito dopo il decollo uccidendo tutti e sette gli astronauti a bordo 1998 La Ford Motor Company annuncia l’acquisto della Volvo per 6,45 miliardi di dollari 1998 Uomini armati tengono in ostaggio per diverse ore 400 tra bambini e insegnanti, in una scuola elementare di Manila
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
poter fare politica, ma politica con la “P” maiuscola, perché in un Paese democratico e libero anche i meno abbienti hanno il diritto di realizzarsi, se capaci, e di vivere i loro sogni, le loro passioni e i loro ideali.Invece crescendo ho visto e toccato con mano che l’Italia non è un Paese per niente libero e democratico. E qui potrei elencare una serie di ingiustizie subite perché figlio di un operaio, cioè di un “lavoratore” onesto che purtroppo è morto in un incidente sul lavoro nell’88. Sognavo di “poter” fare politica, politica intesa come servizio per difendere i diritti di tutti e soprattutto dei deboli, dei disoccupati, dei lavoratori, delle casalinghe, degli studenti privi dei mezzi economici necessari a mantenersi all’Università, dei giovani. La politica per me è carità! Ma in Italia i sogni svaniscono, le passioni si spengono nella realtà quotidiana e in quella Istituzionale perché non trovi nessuno che ti ascolti. Perché una persona capace, piena di ideali e di sani principi non può perché non è figlio di... Se non fai parte del “giro” è inutile bussare, parlare, scrivere. Inoltre, per fare politica bisogna avere soldi, tanti soldi! In pratica lo “spazio” te lo devi comprare a suon di banconote. Il merito non esiste! E di conseguenza mi chiedo e domando agli altri: questa è democrazia? Questo è un Paese libero? Questo è un Paese dove si premiano i capaci, i meritevoli e gli onesti? Ho forti dubbi!
Ilario Maiolo
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
IN ATTESA DEL PDL È di pochi giorni fa la notizia relativa alle dimissioni dell’onorevole Adriana Poli Bortone da coordinatrice di An per la regione Puglia. Si tratta di un dato rilevante poiché lascia presagire situazioni tese in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. La decisione della onorevole leccese, donna di notevole esperienza e capacità, ha provocato un vero e proprio terremoto in casa Alleanza nazionale. Vi erano state, in un recente passato, momenti di fibrillazione fra la ex ministro e gli onorevoli Fini e La Russa, ma sembrava che le polemiche si dovessero spegnere per cedere il posto ad una politica sinergica. Oggi, invece, si registra questo “strappo” alla vigilia del nuovo partito unitario del centrodestra. È evidente che l’accoglimento delle dimissioni con relativa sostituzione, favorisce il ministro Fitto e si ipotizza che intorno all’asse Fitto-Mantovano (anch’egli salentino) possa nascere il nuovo partito. Tuttavia la mossa della Poli Bortone deve far riflettere su un punto che diventa sempre più attuale ed importante, se consideriamo le politiche messe in campo dal governo a “favore” del Mezzogiorno. Assistiamo, infatti, ad alcune manovre che lasciano perplessi come, ad esempio, quelle relative al depauperamento delle risorse accantonate nei fondi Fas e Fondo sociale europeo. Apprendiamo, inoltre, quasi quotidianamente come sia forte il “pressing” della Lega Nord per attivare politiche che possano aiutare le regioni settentrionali e gli interessi che gravitano in quelle aree; un esempio per tutti riguarda il confronto fra i due principali scali aeroportuali italiani (hub) di Roma Fiumicino e Milano Malpensa. Gli interessi a favore del Nord riescono a tenere uniti non soltanto gli uomini della Lega, ma tutte le persone del Nord a prescindere dalla loro appartenenza politica. È allora in questa ottica che bisogna interpretare determinate prese di posizione. Qualcuno asserisce che sarebbe necessario un Bossi del Sud; noi ci limitiamo a salutare con favore la decisione dell’onorevole Poli Bortone, poiché se da un lato assistiamo ad una politica di governo incapace di affrontare i problemi del Mezzogiorno, dall’altro lato la ex ministra sottolinea che è possibile fare scelte coraggiose e condivise che possano alimentare un progetto vero per un movimento del Sud. Francesco Facchini P R E S I D E N T E C I R C O L I P R O V. BA R I
APPUNTAMENTI 20 - 21 FEBBRAIO 2009 TODI Hotel Bramante via Orvietana VII Seminario di Cultura e Politica
ATTIVAZIONI IL COORDINAMENTO REGIONALE DELLA CAMPANIA VERSO LA COSTITUENTE DI CENTRO HA ATTIVATO IL NUMERO VERDE PER LE ADESIONI: 800910529
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PAGINAVENTIQUATTRO Turismo. I cittadini protestano contro il progetto di uno scalo
Quell’aeroporto non s’ha da fare! In rivolta l’isola di di Maurizio Stefanini
no dei posti più irraggiungibili del mondo è in rivolta contro un aeroporto, proprio perché vuole rimanere irraggiungibile. «Sant’Elena, piccola isola», aveva scritto nel 1788 il povero studente Napoleone Bonaparte in un quaderno di geografia. «Sant’Elena, in posizione salubre e isolata», aveva scritto il governo inglese nel documento con cui aveva comunicato all’imperatore prigioniero il suo luogo d’esilio. «Non è un soggiorno piacevole», disse lo stesso Napoleone il 9 agosto 1815, nel vedere per la prima volta dal vascello Northumberland quelle scogliere frastagliate, irte di canne e coronate da enormi cactus. Scoperta dai portoghesi nel 1502, il suo primo abitante fisso fu dal 1516 al 1526 un Fernão Lopez che per avere in India disertato, essersi convertito all’Islam ed avere addirittura preso le armi contro di loro, i suoi compatrioti avevano punito tagliandogli il naso, le orecchie e un braccio, e che quindi si vergognava a tornare in patria a quel modo.
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Possedimento della Compagnia Inglese delle Indie Orientali dal 1658 dopo essere stata contesa a portoghesi e olandesi, Sant’Elena è stata via via promossa a Colonia della Corona nel 1834, Territorio Britannico Dipendente nel 1981 e infine Territorio Britannico d’Oltremare con quel British Overseas Territories Act 2002 che restituì ai poco più di 4mila abitanti la piena cittadinanza. Ma persa la sua antica importanza di scalo per le navi dopo l’apertura del Canale di Suez
l’isola, poco meno di 420 Kmq a 1800 Km di distanza dalla costa africana e a 3600 da quella sud-americana, ha col tempo cessato di essere anche un luogo di deportazione: dopo Napoleone, il re zulu Dinuzulu ka Cetshwayo, 5mila prigionieri di guerra boeri, l’auto proclamato sultano di Zanzibar Seyyid Khalid Bin Barghash, e ancora tra 1957 e 1960 tre principi del Bahrein. Anche la posizione di snodo telegrafico è venuta d’altronde meno col progresso delle teleco-
SANT’ELENA municazioni, e la decisione delle Poste Britanniche di usare per i suoi sacchi le più economiche fibre sintetiche al posto del lino neo-zelandese di Sant’Elena portò nel 1965 anche alla chiusura del locale stabilimento tessile. Oggi, dunque, Sant’Elena sopravvive di un’economia precaria. Quasi tutto deve infatti essere portato da Regno Unito o Sudafrica via nave, a un costo che oltrepassa i 6,4 milioni di sterline all’anno, e quasi del doppio è la spesa di quel settore pubblico che assicura oltre 1100 posti di lavoro, contro i poco meno di 900 impiegati da 218 micro imprese private e una cinquantina di disoccupati. In cambio, l’isola rende circa 250mila sterline di export, quasi tutto costituito da pesce e dal pur pregiato caffè lodato dallo stesso Napoleone; più 60mila sterline per vendita dei francobolli locali, che come per tutte le rarità del genere sono molto apprezzati dai filatelici; più 430mila sterline portate dal poco più di 1100 turisti che arrivano ogni anno. Oltretutto, fin dal 1858 i luoghi di interesse napoleonico sono stati ceduti dal governo inglese alla Francia, che oggi li amministra attraverso un console generale nominato direttamente dal Ministero degli Esteri, che è anche amministratore delle proprietà e conservatore del museo. Insomma, un pozzo senza fondo. Poiché nel 2010 la nave che oggi assicura i collegamenti andrà pure in disarmo, il governo di Londra ha allora pensato di investire 200 milioni di sterline in più, e di farci un aeroporto, che magari potrebbe aumentare il flusso turistico e ridurre le spese di mantenimento. E i lavori sono
partiti a cura dell’italiana Impregilo, anche se a dicembre sono stati momentaneamente aggiornati per il sopravvenire della crisi.
Il Consiglio locale ha allora espresso il proprio “amaro disappunto”, per un’infrastruttura che aveva chiesto fin da quando
I lavori, voluti da Londra per diminuire le spese di mantenimento del piccolo atollo, sono a cura dell’italiana Impregilo. Il paesino sopravvive grazie all’export di pesce, caffé, e soprattutto della vendita dei rari francobolli locali nel 1999 un guasto della nave aveva lasciato l’isola, scusate il bisticcio, isolata. Ma a quanto hanno rivelato i sondaggi del Saint Helena Independent, uno dei due giornali locali, gli elettori non sono d’accordo. Il 90% dei lettori ha infatti votato, il 58% di loro ha detto di considerare l’aeroporto “inutile”, e addirittura il 63% di esservi contrario dal punto di vista “personale”. Insomma, l’abbandono del progetto sarebbe visto come “provvidenziale”, nel timore dichiarato che l’arrivo di aerei e visitatori disturbi la quiete cui sono abituati. Senza diventare maggioranza, la percentuale di favorevoli risale un po’ solo se si passa a un altro sondaggio fatto su Internet: ma solo perché on line hanno risposto anche gli isolani ormai residenti nel Regno Unito, e che con l’aereo si vedrebbero dunque facilitare le rimpatriate. Che oggi richiedono prima un viaggio all’altra isola di Ascensione, che invece l’aeroporto ce l’ha, su un volo bisettimanale della Raf; e poi un ulteriore tragitto per nave di due giorni. Ancora più tempo serve ai turisti, che devono invece partire da Città del Capo.