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Una macchina può fare
di e h c a n cro
il lavoro di 50 uomini comuni. Nessuna macchina può fare il lavoro di un uomo eccezionale
9 771827 881004
Elbert Green Hubbard
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La Russa propone di disertare il match. Battisti confessa: «Aiutato dai francesi»
Italia-Brasile: meglio giocare e vincere! di Nicola Fano ice il ministro Ignazio La Russa (e la collega Meloni s’accoda) che non bisognerebbe giocare l’amichevole di calcio tra Italia e Brasile, il prossimo 10 febbraio a Londra. Dice che «non ci può essere nulla di amichevole con un paese che tiene a piede libero un terrorista». Non c’è bisogno di rifarsi allo scontatissimo spirito di Olimpia per non essere d’accordo con il ministro.
D
s eg u e a pa gi n a 6
NON SOLO FIAT
L’Italia è immobile Si discute giustamente di aiutare l’industria dell’auto. Ma si tace sul fatto che il Paese è quasi fermo. Le infrastrutture sono vecchissime. E l’intero sistema di trasporti non è all’altezza di un’economia moderna. Tremonti e Scajola lo sanno?
Lo sbarramento per le Europee
Quel che c’è di vero nella rivolta dei mini-partiti di Renzo Foa accordo tra il Pdl e Pd per l’introduzione dello sbarramento del 4% nella legge che fissa le modalità di voto per le Europee della prossima primavera sta provocando una vasta reazione tra le forze politiche più piccole, alcune della quali, dopo essere state escluse dal Parlamento italiano, corrono il rischio di non entrare neppure in quello di Strasburgo-Bruxelles. Come si ricorderà, liberal con l’Udc aveva promosso un movimento in difesa del voto di preferenza, pur sottolineando - il partito di Casini - di non aver timore di alcuna soglia di sbarramento.
alle pagine 2 e 3
L’
s eg u e a pa gi n a 4
Il rapporto tra verità e libertà
Perché Jefferson può guidarci nel XXI secolo
La massima autorità dell’ebraismo invita Ratzinger: insieme contro i neonazisti
I rabbini al Papa: «Vieni in Israele» Mentre un sacerdote di Treviso farnetica sulle camere a gas di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Paradossi dei negazionisti
Ma papà Lefebvre morì in un lager
a libertà umana dipende da una profonda conoscenza della condizione umana, non di come noi vorremmo che fosse, ma di come è: «La libertà vi renderà liberi». Supponiamo per esempio una situazione in cui la verità è resa schiava da un certo entusiasmo contemporaneo. Se la libertà viene tenuta prigioniera da una potente forza di attrazione, potranno mai gli esseri umani che vivono sotto questa forza trovare una strada per la libertà?
l Papa deve venire in Israele: «Si tratta di una visita che il Rabbinato generale di Gerusalemme aspetta, un viaggio molto importante. E i rapporti fra la Chiesa e il mondo ebraico non subiranno interruzioni: ora devono essere decisi soltanto i passi complementari da intraprendere per risolvere questa sfortunata vicenda dei lefebvriani negazionisti». Lo dice a liberal il direttore generale del Rabbinato, Oded Weider, che sottolinea: «Le parole pronunciate dal Papa durante l’udienza di mercoledì sono molto importanti: si è trattato di una presa di posizione forte contro l’Olocausto e chi lo nega».
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di Michael Novak
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CON I QUADERNI)
di Giuseppe Baiocchi e c’è un amaro paradosso è quello che vede in questi giorni mettere sostanzialmente sotto accusa per “tracce di antisemitismo” proprio la persona che nell’ultimo mezzo secolo ha lavorato più di ogni altro sul terreno teologico e su quello dottrinale per tessere il dialogo vero con gli ebrei, chiamandoli «fratelli maggiori».
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Floriano Abrahamowicz. In un’intervista alla Tribuna di Treviso ha sostenuto che le camere a gas naziste «servivano per disinfettare»
• ANNO XIV •
NUMERO
21 •
WWW.LIBERAL.IT
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19.30
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pagina 2 • 30 gennaio 2009
Strade. La discussione sulla crisi della Fiat rischia di far passare in secondo piano una delle nostre maggiori emergenze
Il Paese dell’immobilità
Infrastrutture vecchie, sistema dei trasporti al collasso, aerei nel caos E intanto si discute di aiuti all’industria automobilistica: per farne che cosa? di Francesco Pacifico
ROMA. Diciotto milioni di veicoli inquinanti in circolazione che presto l’Unione europea costringerà alla rottamazione. Una dorsale ferroviaria che sul versante adriatico diventa ridicola e che rende Bari o Perugia mete irraggiungibili. Strade e autostrade che si articolano su due corsie e per questo sono sempre intasate. Porti che, senza collegamenti, finiscono per essere cattedrali del deserto. E tutt’intorno – mentre si dà nuova linfa pubblica alle rottamazioni – un’Italia bloccata, immobile, che nell’era delle infrastrutture immateriali fa fatica a trasportare persone e merci, figurarsi sviluppo e idee.
Il prossimo 8 febbraio verrà inaugurato il Passante di Mestre, la bretella che dovrebbe risolvere i problemi di traffico dell’area più inquinata d’Europa. Inserita nella Legge obiettivo dal centrodestra nel 2001 (con la posa della prima pietra alla presenza del “presidente operario” Silvio Berlusconi nel 2003) e rilanciata dall’Unione nel 2006, vedrà di fatto la luce dopo meno di cinque anni di lavoro. Ma dietro questo successo c’è soprattutto una continuità politica, che spesso è mancata. Non a caso nota Mario Lupo, presidente dell’Agi, l’associazione dei general contractor italiani: «Il gap infrastrutturale si è formato sostanzialmente per motivi politici. Mentre gli altri Paesi hanno investito nell’ultimo decennio il 3 per cento del Pil, l’Italia ha impegnato circa il 2 per cento del suo prodotto interno lordo». Tradotto in soldoni, «c’è una differenza di circa quindici miliardi all’anno, quindi l’Italia dovrebbe impegnare almeno 45 miliardi di euro per affidarsi al migliore strumento anticiclico e mettersi alla pari con i suoi concorrenti stranieri». Soprattutto l’Italia è lontana da Cupertino, California, dove Steve Jobs e la Apple hanno dimostrato che con l’iPod si può ancora competere nel high tech con le major cinesi e giapponesi: i microchip vengono fabbricati a bassissimo prezzo in Asia, mentre il design e l’assemblaggio è made in Usa. In Italia si sperava di fare lo stesso sfruttando la Tav sulla Torino Lione o il porto di Genova come snodi per trasportare e trasformare le merci da ovest a Est d’Europa, dal Sud al Nord del mondo. Invece l’alta velocità, se ci sarà, non avrà neppure una stazione nei pressi di Malpensa, che avrebbe dovuto essere la sua piattaforma logistica naturale. Si chiamano produzioni a valore
Ferrovie e aeroporti: due mondi paralleli, la stessa soluzione
Spazio ai privati. E alla concorrenza di Carlo Lottieri problemi della mobilità, in Italia, sono davvero strutturali e vanno ben al di là della “questione Fiat”. A ben guardare, uno dei problemi principali della nostra economia è proprio il fatto che ogni azienda (di qualsiasi settore) deve quotidianamente fare i conti con un sistema complessivo di trasporti che è arretrato, costoso, inefficiente e inaffidabile a causa del permanere di logiche burocratiche e di una politicizzazione non più sopportabile.
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In questo senso, la vicenda della pessima privatizzazione di Alitalia (costata davvero un’enormità ai contribuenti italiani) condensa in sé tutti i principali mali del settore: un sindacalismo ottuso e corporativo, una politica che pretende di orientare e dirigere, un apparato pubblico sottratto ad ogni responsabilità e quindi inadeguato a competere nella nuova economica globale. Si pensi ai treni. Quello che oggi è urgente è una radicale separazione tra la Rfi, che possiede i binari, e Trenitalia, che invece gestisce il trasporto ferroviario in senso stretto. Solo attraverso questa netta divisione societaria è possibile immaginare un sistema ferroviaria che dia spazio a soggetti privati e nel quale si assista ad un’autentica conaggiunto, garantiscono un ritorno economico nel medio termine, permettono di assorbire lavoratori sia altamente specializzati sia con skills minori. E soprattutto sono fortemente competitive. Ripete spesso Francesco Micheli, pioniere nelle start up delle telecomunicazioni con Fastweb e oggi impegnato nel biotech: «Visto che non siamo capaci di gestire il turismo, le bellezze che abbiamo in casa, perché non buttarci su fasce di conoscenza con le quali possiamo confrontarci con il resto del mondo? E per questo che ho iniziato a guardare alle biotecnologie». Rainer Masera, ex presidente di Ltf, la società italo francese che si occupa di costruire il tratto dell’alta capacità tra l’Italia e la Francia, ricordava che l’opera, mettendo il Belpaese
correnza tra imprese determinate a servirci al meglio. Qualcosa di simile si può dire per il sistema aeroportuale, dove si sconta l’invadente presenza di amministrazioni locali e regionali che pretendono di imporre una loro “politica”, magari chiudendo Ciampino a Roma e Linate a Roma: tra le proteste della cittadinanza. Invece che cercare di rispondere al meglio alle esigenze delle imprese e delle famiglie, insomma, si usa del proprio potere per favorire questa o quella impresa (Cai o chi altri), a danno dei concorrenti e più in generale dell’efficienza del sistema produttivo nazionale. Ma la politica è chiamata a fare un passo indietro anche dai porti, che oggi languono perché sono ben lungi dall’essere gestiti come aziende private.
Nei decenni scorsi, l’Italia ha pensato di gestire la mobilità in maniera ministeriale: grazie ad aziende pubbliche lottizzate e sulla base di piani nazionali. Quell’illusione ora è in larga misura venuta meno, ma oggi prevale un perverso intreccio tra gli interessi privati più forti (i nuovi oligarchi) e il potere d’interdizione degli amministratori compiacenti. Quando si darà più spazio al mercato, la mobilità ne guadagnerà moltissimo. sulle direttrici dei commerci, «avrebbe rafforzato la nostra industria di trasformazione» e contribuito a «quella riconversione industriale che si attende da vent’anni». Da più di vent’anni si attendono anche quelle opere pubbliche che permetterebbero all’Italia di superare o competere con i concorrenti europei in tutte quelle attività che pure ciu vedrebbero storicamente avvantaggiati come il turismo, la meccanica di precisione o il tessile. Invece questi comparti devono spendere il doppio per recuperare le merci necessarie o per esportare i loro prodotti. Alessandro Gilardoni, professore di economia e gestio-
ne delle imprese della Bocconi e ideatore e curatore del rapporto sui “Costi del non fare”, ha calcolato che l’inerzia infrastrutturale presenterà entro il 2020 un saldo negativo di 218 miliardi di euro. «E fortunatamente», spiega, «nel 2008 qualcosa si è mosso nell’energia e sul versante ferroviario con la Tav». A destare le maggiori preoccupazioni, in un Paese che non conosce il trasporto su gomma, è l’obsoleto parco auto. Che siano macchine private o mezzi commerciali, la tendenza è la stessa: stando agli ultimi dati Aci del 2007, su 35 milioni di veicoli, 18 sono Euro 0, Euro 1 e Euro 2. Tipologie che per esempio il comune di Milano ha di fatto messo fuori legge introducendo l’Ecopass. Spiega Gian Primo Quagliano, direttore del centro studi Promotor: «Il problema principale riguarda i mezzi commerciali, i furgoni usati nelle consegne nei centri storici». Uno studio di Promotor e Econometrica ha calcolato che riconvertendo questi mezzi, i maggiori centri storici italiani vedrebbero ridurre di 1.020.615 le emissioni di gas serra. Più in generale è difficile parlare anche di intermodalità in Italia. Soltanto guardando al fronte della mobilità su gomma è indicativo che – come si evince dal rapporto sui “Costi del non fare” – il gap di tratti autostradali ancora da costruire sia di circa 1.500 chilometri. E parliamo di bretelle fondamentali come la Tirrenica o la Salerno Reggio Calabria.
Non va meglio sul versante ferroviario. Fs, che controlla la rete attraverso Rfi, si vanta di aver inaugurato 182 i chilometri di binari per l’Alta velocità dopo i 334 già aperti. Peccato che riguardino la dorsale tirrenica, mentre è ancora tutto fermo sull’asse Roma e Bari. Senza strade e binari non possono prosperare i porti e gli aeroporti. Se Gioia Tauro, prima piattaforma in Europa, si dedica al transhipping, il nuovo corso di Alitalia ha preferito smobilitare quel po’ di cargo che si fa a Malpensa. Rispetto a 120 miliardi promessi dal centrodestra nel 2001 con la legge obiettivo, il governo fatica a sbloccare 16,6, che sono ancora sospesi al Cipe. Andrea Martella, ministro ombra delle Infrastrutture del Pd, accusa: «Ancora non sappiamo quali sono le priorità». Replica il sottosegretario Mino Giachino: «Ma se è stato il ministro Matteoli ad aprire decine e decine di cantieri».
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30 gennaio 2009 • pagina 3
Il nodo della viabilità locale: parla l’economista Marco Ponti
«Mille piccole opere meglio di una grande» di Alessandro D’Amato
ROMA. «Sa qual è il vero grande proble- lia, soprattutto si investe male.
Un lungo e antico cahier de doléances Auto. In Italia circolano 35 milioni veicoli. Di questi 18 milioni sono inquinanti (rientrano tra le categorie Euro 0 e Euro 2 prossime al bando). Peggiore la situazione sul parco auto commerciale: tra i 3 milioni di mezzi leggeri, 2,3 sono obsoleti. Strade e autostrade Tra nuove opere e allargamento di quelle esistenti, è stato calcolato che il gap autostradale sia pari a 1.500 chilometri. Alla base di questo il difficile rapporto tra i gestori e l’Anas. Non va meglio per le statali e le provinciali: i Comuni hanno lamentano un taglio del 10 per cento sugli investimenti. Ferrovie Nel 2008 sono stati consegnati 182 chilometri di binari per l’Alta velocità. Eppure è vicina alla saturazione la cosiddetta linea storica, mentre non è previsto un collegamento veloce per la dorsale adriatica. PortiQuesto fronte necessita di investimenti per un punto di Pil. Non soltanto per le sue strutture interne, quanto per i collegamenti, come dimostra i ritardi a Genova sul Terzo valico.
A destra: in altro, l’economista Marco Ponti; in basso il ministro dei Trasporti Altero Matteoli. Nella pagina a fianco, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne
ma della mobilità in Italia? Che lo Stato centrale vuole assolutamente tenersi per sé i fondi per le infrastrutture, senza demandarli alle Regioni. Questo per motivi prettamente politico-propagandistici. Ecco perché noi puntiamo sempre sulle grandi e grandissime opere, mentre ad essere davvero congestionata è la viabilità locale». Marco Ponti, è ordinario di economia dei Trasporti al Politecnico di Milano. Ha svolto attività di consulenza per la Banca Mondiale, il ministero dei trasporti, le Ferrovie dello Stato e del ministero del Tesoro occupandosi di regolazione del settore aereo e autostradale. Svolge attività di ricerca nell’ambito dei modelli trasporti-territorio, di analisi di fattibilità economica e finanziaria dei progetti (versioni avanzate dell’analisi costi-benefici), regolazione economica e liberalizzazione del settore (tecniche di gara, regole di accesso alle infrastrutture ecc.) e di “public choice”. E spiega perché bisognerebbe puntare sul “piccolo” rispetto al grande: «La cosiddetta “immobilità” del Paese è mitizzata. O meglio: c’è, ma riguarda soprattutto le grandi città e gli agglomerati urbani, al nord e in parte al centro. Il 75% dei “blocchi” riguarda la media o la breve distanza, in regioni od aree ben precise. E invece la politica investe soprattutto nelle infrastrutture a lunga distanza. Ma c’è da capirli: le grandi opere sono finanziate dai governi centrali, mentre investire sulla mobilità in aree metropolitane non ha un impatto forte sul consenso politico…». Ma indipendente dai soldi dati alla Fiat, non crede che ci sia un problema congenito nella mobilità del paese, che ha un parco macchine vecchio e inquinante, che deve essere comunque sostituito? Non proprio. Per quanto riguarda le emissioni di Co2, stiamo messi meglio rispetto ad altri paesi del Vecchio Continente. Certo, per quanto riguarda invece particolato ed ossidi, che colpiscono la salute, la situazione è invece molto diversa e più grave. Ma il punto è che nei trasporti, in Ita-
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Perché? Perché spesso spingiamo su opere che hanno un grande impatto mediatico ma pochi ritorni economici. Basta guardare al trasporto ferroviario: i treni assorbono troppe risorse (tre miliardi di euro l’anno) con risultati modali che sono comunque modestissimi. La stessa Alta Velocità, in termini di numeri, va male: in alcune tratte, come la Roma-Napoli, abbiamo investito già cinque miliardi, ma i passeggeri sono pochini perché le alte tariffe sono un lusso che pochi possono permettersi. Bisognerebbe essere più realisti, e fare quello che davvero serve al cittadino. Non quello che va bene alla politica. Per quanto riguarda le autostrade, quindi, lei non ritiene prioritario il completamento dei corridoi e delle dorsali? Il corridoio ha una funzione medioevale. Le nostre sono ottime autostrade, molto sicure: tanto che gli incidenti sono in continuo calo. Anche se, come mi è già capitato di dire, le tariffe sono troppo alte. Ma se c’è un problema, quello risiede nella viabilità cittadina. È lì che si dovrebbe andare a incidere, dando la possibilità di spendere agli enti locale. In questa battaglia, mi perdoni, mi sento molto leghista. E gli aeroporti? Cosa ne pensa del proliferare dei mille piccoli aeroporti, quasi uno per provincia in molte zone d’Italia? Che è un bene.Tutti se ne lamentano perché dicono che sono troppi, ma gli aeroporti piccoli servono alle low cost, e fanno bene al mercato del traffico aereo perché almeno riducono lo strapotere delle grandi compagnie. Inutile nasconderci che hanno una funzione fondamentale nell’aumentare la concorrenza in questo settore, che non è che ne abbia tanta in Italia come all’estero. E sono anche un asset fondamentale per le imprese: avere un aeroporto a due passi è un bel vantaggio per la logistica, da tutti i punti di vista. Invece, leggo ad esempio che Marrazzo vuole cacciar via Ryan Air da Ciampino, per mandarla a Viterbo, al puro scopo di favorire Cai-Alitalia. Mi dica lei se è un ragionamento a favore del consumatore…
Il vero problema è che si investe male. Spesso pensando più al ritorno di immagine che alle soluzioni
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politica
pagina 4 • 30 gennaio 2009
Resistenze. Anche i prodiani accusano: l’alleanza tra Veltroni e Berlusconi è un atto di egoismo che il Pd pagherà caro
La vendetta dei piccoli I partiti della sinistra bloccano le giunte locali contro lo sbarramento al 4% voluto dal Pd di Marco Palombi
ROMA. Intanto è riscoppiata la seconda guerra mondiale. Lo sbarramento al 4% nella legge elettorale europea, all’esame della Camera da martedì, ha innescato reazioni durissime tra i piccoli partiti con tanto di richiami al fascismo e alla necessità di un nuovo Cln e, soprattutto, ha fatto iniziare quella che potrebbe essere la resa dei conti definitiva all’interno del Partito democratico. D’altronde Massimo D’Alema lo diceva da mesi: fare la riforma con uno sbarramento alto significa, in definitiva, rompere con la sinistra radicale. «Vogliamo quindi rinunciare a quasi tutte le giunte degli enti locali?», disse in una riunione mesi fa. Le prime notizie gli danno ampiamente ragione: i gruppi dell’ex Arcobaleno hanno già cominciato a non presentarsi nei consigli comunali, provinciali e regionali. È successo mercoledì alla provincia di Milano e nel consiglio regionale del Piemonte e ieri la febbre s’è traferita, tanto per fare qualche esempio, nei comuni di Genova, Savona e nella vicina Cairo Montenotte, tradizionale zona rossa e operaia. Tutti segnali assai preoccupanti per il Pd, e soprattutto per la componente ex diessina, che non sono stati placati neppure dalle dichiarazioni concilianti di Paolo Ferrero e Nichi Vendola: «Non ci sarà nessuna ritorsione sui territori», ha annunciato il presidente della regione Puglia, che per altro, in quanto tale, parla in leggero conflitto d’interessi. Grazia Francescato, invece, che è presidente solo dei Verdi, ieri ha detto chiaro e tondo «non faremo alleanze sul territorio con un partito che vuole reciderci la giugulare». Basta stare attenti alle parole. Il problema vero non sono le Giunte che esistono già, ma il fatto che a giugno, oltre a votare per le europee, si va al rinnovo di oltre sessanta province, 50 e più delle quali governate dal centrosinistra allargato. La cosa è talmente seria che mercoledì sera, a quanto si apprende, si è tenuta la prima
Le Europee non devono garantire governabilità
Quel che c’è di vero in questa rivolta di Renzo Foa segue dalla prima Proprio per questo, su queste colonne ci piace sottolineare che siamo solidali con quelle forze più piccole perché è in discussione un doppio principio di democrazia: quello di un’intesa generale quando si cambiano le regole del gioco e quello della completezza della rappresentanza.
La semplificazione del sistema politico continua ad essere l’argomento maggiormente usato dagli esponenti del Partito democratico e del Popolo della libertà per giustificare il loro accordo. Ma sappiamo che non si tratta di questo, sappiamo che il voto per il Parlamento europeo è, fra tutti quelli che siamo chiamati a dare, il meno impegnativo su questo terreno perché l’Assemblea di Strasburgo-Bruxelles, nonostante i cambiamenti degli ultimi anni, continua ad avere poteri molto limitati. Sappiamo invece che l’introduzione della soglia del 4% per avere deputati eletti ha un altro scopo: sia il Pd che il Pdl continueranno infatti ad usare l’argomento del «voto utile» e a non disperdere i consensi, il tutto per sperare di evitare di avere un risultato complessivo inferiore alle loro attese. In altri termini è un tentativo di gridare vittoria e di imporre la sparizione di alcuni contenenti con un un atto di prepotrenza. Sappiamo che il partito di Veltroni cerca di far definitivamente sparire la sinistra «antagonista», i verdi, i socialisti e l’Udeur, tutti alleati durante l’ultima esperienza di governo, e di evitare che i radicali si presentino autonomamente. E sappiamo che il partito di Berlusconi teme soprattutto un’affermazione della destra di Storace, che potrebbe essere una buona sponda per i malumori di An, ma teme anche le sue forze minori (come il Mpa, ad esempio) attratte da una conta proprio in concomitanza con la nascita del Pdl.
Nei sondaggi all’Italia dei Valori viene attribuito il 12% dei voti. Un altro motivo di preoccupazione per Walter Veltroni
Dunque i vertici del Pd e del Pdl agitano ancora il «bipartitismo per legge», cioè il tentativo di rimettere sui binari un’esperienza già esauritasi in questo prino anno di legislatura, con la caduta verticale dei consensi subita dal primo e con la mancanza di credibilità del secondo che sta nascendo come un puro e semplice atto notarile e non come una scommessa di democrazia politica. C’è dunque da sperare, se l’accordo tra Pd e Pdl sarà confermato, in un comportamento saggio e virtuoso dell’elettorato italiano, chiamato la prossima primavera non solo a scegliere i propri rappresentanti in Europa, ma anche a far fallire questo falso bipartitismo. C’è da sperare cioè che non votino né per il Partito democratico né per il Popolo della libertà ma per un altro dei partiti presenti sulla scena a difendere la pluralità democratica del sistema politico taliano.
Anche nella riunione dell’area Ds vicina all’ex ministro degli Esteri - molta parte della quale espressione delle cosiddette “regioni rosse” - la critica al segretario è serrata: non ha nemmeno pensato alle conseguenze di un accordo che escludesse la sinistra dal Parlamento europeo e adesso magari ci ritroveremo all’opposizione in posti che non vedono governare la destra da qualche decennio. Senza contare che, dicono, nell’ultimo caminetto si era deciso
informale riunione di questa legislatura degli ex dalemiani. «Sullo sbarramento abbiamo già deciso», dichiarava in quelle stesse ore alla Stampa Walter Veltroni, «la discussione nel partito è stata lineare» e “non credo” che emergeranno fronde interne. Previsione azzardata, a quanto pare, visto che anche solo a stare alle dichiarazioni pubbliche l’area “A sinistra” all’interno del Pd (Sergio Gentili, Livio Turco,Vincenzo Vita) ha dichiarato via comunicato che l’accordo sullo sbarramento “è un errore nel metodo e nel merito”.
di accantonare per il momento la questione proprio per non incappare in problemi alle amministrative. Un altro elemento di preoccupazione non secondaria all’interno del Pd, e particolarmente nell’area della Quercia, è il crescente peso assegnato dai sondaggi ad Italia dei Valori, secondo alcune rilevazioni oramai nei pressi del 12%. «È un’enormità e noi gli regaliamo pure un altro po’ di propaganda sull’inciucio con Berlusconi fatta dalla sinistra», spiega un dirigente toscano.
Secondo la “Velina Rossa” di Pasquale Laurito, organo di dichiarate simpatie dalemiane, la fronda interna si sarebbe addirittura spinta a chiedere un’immediata assemblea costituente del Pd, dove aprire la fase precongressuale lanciando nientemeno che la candidatura di Pierluigi Bersani a segretario.
politica
30 gennaio 2009 • pagina 5
Le formazioni di centro si riuniscono in conclave contro l’accordo elettorale
Mastella arringa i “nanetti”: «Ora rifacciamo il Cln» di Francesco Capozza
E se fosse questione di soldi? L’eventuale introduzione dello sbarramento del 4% nella legge elettorale per le europee sicuramente ridurrebbe il numero dei partiti italiani a Strasburgo, ma rischia di non incidere sulla quantità di simboli presenti sulla scheda elettorale e non produrrà alcun risparmio nella divisione dei rimborsi elettorali. Se, infatti, per accaparrarsi un eletto bisognerà ricevere il 4% dei voti, per avere diritto ai rimborsi la quota fissata dalla legge 157 del 1999 è l’1%: per questo è probabile che molte liste che non hanno comunque nessuna possibilità di avere eletti - dai Pensionati di Fatuzzo a Forza Nuova - presenteranno il loro simbolo puntando ad ottenere almeno i soldi necessari a continuare la loro attività politica.
L’interessato ha smentito: «Io lavoro per la ditta», ha spiegato, e il percorso congressuale “è già definito”. Non è smentibile però il malumore nel partito. Persino i prodiani l’hanno presa male. Franco Monaco, che spesso esprime informalmente la linea del Professore, sostiene che l’accordo col Cavaliere è «un atto di egoismo di partito che il centrosinistra pagherà a caro prezzo». In questo bailamme rischia di passare sotto silenzio il fatto che anche dentro Italia dei Valori s’è aperta la fronda anti-sbarramento. Beppe Giulietti, deputato indipendente del partito, ha annunciato che voterà no alla riforma della legge elettorale, mentre Pino Pisicchio, parlamentare pugliese cresciuto nella Dc, ha definito “incomprensibili” le ragioni di uno sbarramento del 4% e chiesto al suo gruppo di impegnarsi in una battaglia contro l’estromissione delle “culture politiche più rappresentative del paese” dall’assemblea di Strasburgo.
Nella foto grande qui sopra, il leader del Pd Walter Veltroni. A destra, Clemente Mastella. Nella pagina a fianco, il premier Silvio Berlusconi e il governatore della Puglia Nichi Vendola
ROMA. Non vogliono parlare. Silenzio stampa fino a che non ci sarà un’ufficiale presa di posizione comune. Comunque, la notizia è che i partiti più piccoli non accettano l’accordo tra i due «grandi cartelli elettorali, il Pd e il Pdl» sulla legge elettorale per le Europee, che imporrà, se approvato dal Parlamento e controfirmato da Napolitano, uno sbarramento del 4% per accedere all’assemblea di Strasburgo. Il Comitato per la Democrazia, che riunisce Ps, Prc, Verdi, Sd, Udeur, radicali, Pri, Partito d’Azione, Pli, Liberaldemocratici, Psdi e Movimento dei 101, manifesterà martedì prossimo davanti al Quirinale e dentro Montecitorio. Proprio alla Camera martedì l’aula dovrebbe discutere la riforma. Diverse le reazioni fra i partiti più piccoli che sono alleati con il centrodestra. In un comunicato congiunto la Dca di Rotondi, il Nuovo Psi, il Pri e Azione sociale di Alessandra Mussolini si dichiarano «disponibili» ad accettare uno sbarramento del 4% «per lealtà nei confronti di Berlusconi e del Pdl», ma allo stesso tempo considerano «utile presentare liste alle elezioni europee». Fanno fuoco e fiamme La Destra di Storace e l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo. Proprio il movimento di quest’ultimo ha addirittura occupato ieri pomeriggio l’aula di Montecitorio. La seduta è stata sospesa dal presidente di turno.
lista unitaria della sinistra di classe e anticapitalista. Il Codacons ricorrerà alla magistratura e alla Corte costituzionale. Il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, afferma: «Per noi il tema sarà trovare un simbolo che riassuma le esperienze minori del Pdl».
Più colorita la proposta dell’ex ministro della Giustizia del governo Prodi: «Questa è un’emergenza democratica e se è così allora alle Europee ci vuole una lista come quella del Cln». Clemente Mastella durante la riunione del comitato per la democrazia ha proposto ai partiti presenti di presentarsi all’appuntamento elettorale in un’unica lista. Alla riunione hanno partecipato, tra gli altri, Riccardo Nencini del partito socialista, Franco Russo di Rifondazione Comunista, Clemente Mastella dell’Udeur, Marco Pannella dei Radicali, Carlo Leoni di Sinistra democratica, Stefano De Luca del Partito liberale, Paola Balducci e Grazia Francescato dei Verdi. «Se volete si può fare, stando tutti assieme e chiedendo un voto per dimostrare che il pluralismo in questo paese è a rischio. Sia chiaro - aggiunge - faccio questa proposta senza avere interessi personali» ha incalzato l’ex Guardasigilli. La cui proposta in effetti non cade nel vuoto. Ma alla riunione i primi commenti non sono stati certo entusiasti. «Se deve essere il Cln, allora deve avere gli stessi scopi - ha detto ad esempio Marco Pannella perché il Cln si batteva contro il fascismo e allora io ci sto solo se serve a voltare pagina rispetto a questo regime imperante. Altrimenti sarebbe un tentativo fine a se stesso». Il leader radicale, notoriamente a favore di sistemi elettorali di tipo maggioritario, non avrebbe tuttavia espresso giudizi sulla modifica ale sistema elettorale. Contrario, invece, Franco Russo di Rifondazione: «Hai ragione a dire che è un’emergenza democratica, ma aderire alla tua proposta sembrerebbe avvalorare una logica di casta. E cioè: mi buttano fuori e io faccio una lista secondo lo spirito del “basta esserci”». Freddi ovviamente anche i Repubblicani del Pdl che tuttavia si impegnano a garantire “diritto di tribuna”agli esclusi e Carlo Leoni della Sinistra democratica, secondo il quale «l’urgenza ora è di denunciare l’abuso che sta avvenendo». Alla fine non si arriva a un pronunciamento netto. E la bozza Mastella resta in campo. «Aspettiamo solo che la legge sia approvata è stato il ragionamento di sintesi - quindi portiamo la proposta Mastella nei rispettivi organismi di partito e facciamo decidere a loro».
La Destra di Storace e gli autonomisti di Lombardo fanno fuoco e fiamme: per protesta ieri hanno occupato l’aula di Montecitorio
I partiti più piccoli hanno tre armi a loro disposizione: rompere con Pd e Pdl sulle amministrative e negli enti locali; allearsi fra loro per superare lo sbarramento del 4%; ottenere un intervento da parte del capo dello Stato contro la riforma della legge elettorale «a partita già iniziata». Elezioni Europee ed Amministrative si svolgeranno contemporaneamente il 6 e 7 giugno. I cosiddetti “cespugli” hanno già cominciato a raccogliere le firme e quindi i giochi sono in movimento: Clemente Mastella propone una lista di emergenza democratica. Nencini preferisce attendere l’approvazione in prima lettura della riforma da parte della Camera. Diliberto propone un unico simbolo con la falce e martello sulla scheda. Ferrero (Prc) gli ribatte: «Oggi vogliamo fare unitariamente una battaglia contro questa nuova legge truffa, contro l’europorcellum. Dare per scontato che questa legge ci sia già, vuol soltanto dire fare un favore a Veltroni». I radicali sono pronti a continuare la battaglia con il Comitato per la democrazia. Vendola vuole un cartello delle sinistre da Rifondazione ai socialisti. Sinistra critica (D’Angeli) preferirebbe una
politica
pagina 6 • 30 gennaio 2009
Terrorismo. Il magistrato Otello Lupacchini e i contorni di una violenza politica che non scompare
«L’internazionale delle Br» di Pierre Chiartano
ROMA. Le Brigate rosse sono ancora un pericolo? Le «rabbiose dichiarazioni», come le ha definite Sergio Romano, dei brigatisti di Seconda posizione (Sp) contro Piero Ichino, durante il processo di Milano della scorsa settimana, riaprono il problema. Un capitolo che l’Italia ha tentato di chiudere, forse troppo frettolosamente, tanto anacronistica, quanto poco efficace appare, dopo l’11 settembre, qualsiasi azione che si richiami al vecchio modo di fare terrorismo. Sarebbe un grande errore, e Otello Lupacchini, magistrato coinvolto nei processi chiave di molte trame del terrorismo, ha spiegato a liberal pericoli e contorni del nuovo terrorismo targato Br. Si è occupato fra l’altro dei casi degli omicidi del generale Usa, Leamon Hunt, di Roberto Calvi e di Massimo D’Antona. Il brodo di cultura delle tensioni sociali, create dalla crisi economica, potrebbe essere il vivaio dove pescare le nuove leve del terrorismo nazionale, per non parlare della sempre presente rischio di una saldatura tra la “tradizione” italiana e il nuovo terrorismo di matrice islamica ultrafondamentalista.
Il magistrato, autore del libro Il ritorno delle Br (Edizioni Koiné) rimane sul sentiero della sua esperienza e non si abbandona a ipotesi. «La crisi sociale che attraversa il Paese e lo stato d’isolamento, in cui le frange estreme del terrorismo, si sono venute a trovare, soprattutto, il luogo scelto per lanciare le minacce e il soggetto contro cui sono stati indiriz-
zate, sono tutti elementi significativi di una difficoltà di dialogo. Rimane solo la minaccia appunto e - Dio non voglia l’uso delle armi».
Quindi più che di una ripresa di un’azione strategica delle Br è possibile che ci siano risposte irrazionali, «sicuramente la situazione e su livelli di tensione tali, che potrebbe provocare spinte verso soluzioni irrazionali e irragionevoli». Si tratta dunque di capire come il nuovo terrorismo, formato da figure che gli esperti del nostro Ministero degli Interni definiscono come «il terrorista della porta accanto», possa essere di nuovo una minaccia per la democrazia e le sue Fuori istituzioni. dalla clandestinità e inseriti nella comunità, i nuovi militanti del terrore si muovono più agilmente su di una rete
Secondo Otello Lupacchini, una saldatura delle nuove br con il terrorismo islamico «non è da escludere»
Il delicatissimo momento attraversato dalla società occidentale potrebbe costituire una spinta di reclutazione nelle aree emarginate per «ravvivare la fiamma che cova sotto la cenere»
biato nulla. «L’anno terribilis per il terrorismo fu il 1989. Alcune realtà terroristiche sembravano quasi sparite. Basti vedere che esponenti della Seconda posizione, sono stati individuati, guarda caso, a Milano. Quando nel 2007, prima che emergessero le indagini su Sp che hanno portato agli arresti milanesi - si parlava d’improvvisa o apparente scomparsa di questi gruppi.
orizzontale di rapporti. Alfredo Davanzo, leader di Sp, era stato a Parigi, fino al suo rientro in Italia nel 2006. E proprio un’inchiesta francese aveva lanciato l’allarme sulle strategie europee del nuovo terrorismo anarco-insurrezionalista. Dove la crisi economica «può fare da volano a una crisi sociale inne-
Non si andava lontano dalla realtà, pensando che qualche residuo fosse rimasto». Il magistrato parla dei sindacalisti, operai, studenti universitari che si alternavano fra gli studi e i centri sociali. Figure insospettabili, accusati di essere militanti del Partito comunista politico-militare. Gente comu-
segue dalla prima Tutti siamo convinti che il Brasile si stia rendendo responsabile di comportamenti gravemente lesivi del diritto internazionale e della dignità dell’Italia.Tanto che, diciamo la verità, stiamo soffrendo questa vicenda misurando “l’impotenza della politica”. Non riusciamo, infatti, a capire come venirne a capo; come assicurare alla giustizia questo Cesare Battisti (che nome usurpato, per altro!), uno spietato killer terrorista pluriomicida. Da noi c’è chi immagina di ritirare l’ambasciatore in via definitiva e c’è chi lamenta che Silvio Berlusconi non abbia ancora speso la sua autorevolezza di premier telefonando direttamente a Lula e che non l’abbia ancora fatto neanche D’Alema, che del leader brasiliano ha più volte vantato l’amicizia. Insomma, non potendo certo dichiarare guerra al Brasile, la politica e la diplomazia italiana bal-
scando le spinte» che Lupacchini definisce giustamente «irragionevoli». Nel 2007 il magistrato che è stato sia giudice istruttore, col vecchio ordinamento, che Gip, aveva invitato a non sottovalutare il fenomeno Br: «Si sa ancora poco o niente delle colonne di Milano e Napoli». Pare non sai ancora cam-
La Russa vuole disertare la partita. Battisti: «Aiutato dai francesi»
Italia-Brasile, meglio giocare e vincere di Nicola Fano bettano. E la stessa Unione europea ha detto di non poter nulla, in materia. Del resto la vicenda si complica ogni giorno di più: è di ieri la chiacchierata di Battisti con un giornale brasiliano nel quale racconta di essere stato aiutato dai servizi segreti francesi per lasciare Parigi e raggiungere il Brasile.
Ecco il punto allora: non vorremmo che la politica cercasse, come ogni tanto fa, di scaricare la sua impotenza in tema di diritti, sullo sport. In questo caso il calcio: usato come paravento. Che senso ha, non potendo far altro, chiedere alla nostra nazionale di rinunciare a giocare? Fi-
gurarsi che sembra più ragionevole (ed è quasi un paradosso), Maurizio Gasparri il quale ha proposto di trasmettere un documentario sulle vittime del terrorismo prima della telecronaca della eventuale - amichevole di Londra. La verità è che se il governo volesse “usare” positivamente la partita con il Brasile un’altra indicazione, Berlusconi in testa, dovrebbe dare a Lippi, ed è un imperativo che dovrebbe suonargli familiare: vincere! Cioè: si giochi l’amichevole, ma a condizione che, in caso di sconfitta, Lippi e tutti i convocati saranno licenziati in tronco. Nessuna ritorsione, per carità, solo la consapevolezza del fatto che nel calcio i brasiliani sono più francesi dei francesi. Sarebbe a dire antipa-
ne che, accanto a una vita “modello”, ne viveva un’altra e dal loro processo che sono partiti gli attacchi «rabbiosi» a Ichino. Ora c’è da chiedersi quanto sia ipotizzabile un ritorno ad una scelta “militare” in Italia. Le tensioni sociali in Grecia aprono scenari nuovi, anche se è bene non confondere le diverse condizioni. «Nel 1999, prima dell’omicidio Biagi, segnali se ne registravano da anni. Indicazioni su di una guerra a bassa intensità. L’omicidio del professor D’Antona lasciò tutti perplessi, perché sembrava che il fenomeno terroristico fosse stato sepolto dieci anni prima. Probabilmente i sintomi che si registrano ora sul teatro interno e su quello internazionale dovrebbero indurre ad una particolare attenzione. Visto il passaggio delicato che sta attraversando, non solo l’economia, ma tutta la società occidentale - ci spiega Lupacchini - le tensioni mediorientali, la questione palestinese, tutte tematiche cavalcate dal terrorismo, possono costituire quella spinta verso l’irragionevole». Spinta che potrebbe facilmente reclutare nelle aree di «emarginazione sociale, dove ravvivare la fiamma che cova sotto la cenere». Il tema di questi anni è trovare prove di una saldatura col terrorismo islamico, spesso evocato nei documenti delle nuove Br. «Non è da escludere. A livello di proposizioni strategiche è stato spesso invocato dalle stesse Br. Le rivendicazioni degli omicidi D’Antona e Biagi e le loro elaborazioni ideologiche, subito dopo gli arresti della Lioce. Si parlò di un rapporto con quelle che erano definite forze islamiche impegnate nelle guerre di liberazione», spiega il magistrato che suggerisce che «occorre scoprire fino a che punto si sia concretizzato o possa farlo in futuro» questo progetto d’alleanza tra le due mezzelune.
tici. Perché se noi altri non s’andasse lì a Wembley a giocare, loro - i brasiliani fra sé e sé direbbero sicuramente che in fondo abbiamo colto una buona occasione per avere paura.
Tic toc, tic toc: lo sapete come giocano i brasiliani, no? In gergo si chiama ragnatela. E loro, come i ragni, dànno per scontato che le vittime non possono che restare impigliate, in quella ragnatela. E infatti il Brasile di calcio ha vinto parecchio. Ma non tutto. Ed ecco perché a Londra ci si dovrebbe andare, eccome: per tagliare i fili di quella ragnatela e impedire agli amici brasiliani di far finta di niente, di dire il caso è chiuso, siamo i migliori e non vogliamo nemmeno discuterne. E invece no, discutiamone. Di calcio e d’altro. Di musica e di tutto quello che si vuole. Anche di terrorismo, perché no? Anche di diritti e di persecuzioni. Anche di politica, di omicidi e di reati contro le persone. Perché di questo si tratta, quando si parla di Cesare Battisti.
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Riemersioni. «Senza Claudio via dell’Umiltà è succube di An», dicono gli uomini vicini al ministro
La carica degli scajoliani (i dorotei “in sonno”) di Errico Novi
ROMA. C’è un fiume carsico che scorre dentro Forza Italia e riaffiora quando meno te lo aspetti. È la corrente scajoliana. Una specie di setta segreta, unita da una fede inconfessabile, almeno a via dell’Umiltà: la fede nei prodigi dell’organizzazione. Le origini del culto risalgono a dieci anni fa. Dopo sono venute persecuzioni, proscrizioni, messe al bando. Eppure la componente non si è mai sciolta davvero. Resiste, e nelle scorse settimane ha ritrovato una ragione di sopravvivenza nel fattore nostalgia. In incontri fugaci, in scambi d’opinione al volo, si è concluso che il colpevole è proprio lui, il ministro: «Claudio Scajola ha scelto di eclissarsi completamente dal dibattito interno al partito. Ed è anche per questo che in Forza Italia si è persa qualsiasi spinta a conservare un modello di organizzazione», dice uno scajoliano “deluso”, «qualsiasi ambizione a confrontarsi ad armi pari con An».
La corrente c’è ma non si vede. Chi ne ha fatto parte ha conservato un’irreversibile fiducia nel “partito pesante”. Quello che Silvio Berlusconi accettò di lasciar crescere dopo la sconfitta del 1996, generata dal mancato accordo con una forza ben radicata sul territorio, la Lega. Scajola ha fatto il coordinatore per meno di cinque anni, finché è stato scelto come ministro dell’Interno nel 2001. Nel suo interregno sono cresciuti a via dell’Umiltà alcuni giovani dirigenti. Da Salvatore Cicu a Gregorio Fontana, da Maria Teresa Armosino a Enrico Nan. Nel corso anni la struttura ha perso alcune parti: la Armosino è stata eletta presidente della Provincia di Asti, il campano Paolo Russo è oggi alla guida della commissione Agricoltura. Altri però continuano a fare i soldati semplici in Parlamento, e si tengono pronti per tempi migliori. «Vedremo intanto come saranno formate le liste per le Europee», prosegue la fonte “vicina” al ministro dello Sviluppo economico, «ci è stato detto di smobilitare Forza Italia, ma alcune aree continuano a muoversi con una certa compattezza: i ciellini, per esempio». Gli scajoliani sanno di avere un know-how comunque raro, tra le schiere azzurre: conoscono i meccanismi di funzionamento delle organizzazioni politiche. E quando la fusione con An avrà almeno parzialmente azzerato le attuali gerarchie forziste, contano di farsi valere in campo aperto. Una forza del genere non può che fare paura anche a Giulio Tremonti, l’unico, nella galassia berlusconiana, a poter coltivare l’ambizione di succedere al Cavaliere come leader del Pdl. Oggi il ministro dell’Economia tiene a stecchetto Scajola sugli aiuti alla Fiat e su molte altre partite. Domani rischia di trovarsi a fare i conti con le insidie di una organizzazione disgregata (quella ex forzista, appunto) in cui gli
in breve Intercettazioni: allarme dell’Anm «Allarme» viene espresso dall’Associazione nazionale magistrati per le proposte di modifica nella disciplina delle intercettazioni predisposta dal Guardasigilli Angelino Alfano. L’Anm lo sottolinea all’interno di un documento preparato per l’idell’anno naugurazione giudiziario, dove si evidenzia come tali modifiche «indebolirebbero uno strumento investigativo indispensabile per individuare i responsabili di gravi delitti, e rafforzerebbero forme di illegalità sempre più diffuse nel paese». Il sindacato delle toghe inoltre ribadisce la sua contrarietà alle riforme costituzionali sulla magistratura e il Csm».
Pdl: Di Girolamo resta senatore
Diversi scajoliani di FI hanno assunto cariche di rilievo ma esterne all’organizzazione del partito, dal presidente della commissione Agricoltura Paolo Russo (a sinistra) al segretario della Camera Gregorio Fontana (a destra). In basso, Salvatore Cicu scajoliani potrebbero ricostituire la componente. O meglio, ricominciare a farla vivere alla luce del sole, e non più nelle catacombe di via dell’Umiltà. Ai piani alti della sede azzurra, peraltro, ha ben lavorato uno scajoliano come Gregorio Fontana, responsabile adesioni che ha gestito poco più di un anno fa l’ultimo tesseramento record del partito, con 400mila iscritti. Con il gruppo dirigente che nel 2001 subentrò a Scajola e che ancora oggi si trova sulla tol-
Rimasti lontani dalla macchina del partito, i fautori del modello “pesante” si riorganizzano per giocare in campo aperto la sfida con An da di comando, quello formato da Sandro Bondi, Fabrizio Cicchitto e dall’attuale coordinatore Denis Verdini, Fontana ha sviluppato un rapporto proficuo. Non gli è stato facile: a fine luglio 2004 Bondi gli intimò di dimettersi. Il deputato bergamasco, oggi segretario della Camera, fu tra i firmatari di una lettera con cui de-
cine di ribelli azzurri chiesero a Berlusconi di ripristinare la democrazia interna al partito. «L’organizzazione è evanescente, incapace di selezionare il ceto politico e nello stesso tempo pervasa da un correntismo deteriore».
Ce l’avevano con Bondi e Cicchitto. A scatenare il malcontento era stata la sconfitta alle Europee, primo vero campanello d’allarme sullo stato di salute dell’allora Casa delle libertà. Seguirono regolamenti di conti spietati, e in ogni caso i firmatari di quel documento considerati vicini a Scajola (che formalmente si tenne fuori dalla disputa) furono incasellati nell’elenco dei cattivi: con Fontana, la Armosino, Cicu, anche Massimo Berruti, Andrea Orsini, Roberto Tortoli. Proprio quest’ultimo fu sostituito al coordinamento del partito in Toscana da Verdini. Ma alla macchina del tesseramento serviva uno che il mestiere lo conosceva, che di organizzazione e di struttura aveva imparato qualcosa nell’era scajoliana: così almeno Gregorio Fontana rimase al suo posto. Adesso la corrente deve fare i conti con la sostanziale dismissione dell’identità post-democristiana all’interno del Pdl: si tratta però di uno svantaggio relativo. Di democristiano gli scajoliani hanno sempre coltivato, più che la battaglia in difesa dell’identità cattolica, la cultura dorotea della gestione del potere. Di fronte all’avanzata di An a colpi di statuto, i neo-dorotei potrebbero tornare utili.
Il Senato ha votato a maggioranza la restituzione alla giunta per le autorizzazioni degli atti relativi al senatore Nicola Di Girolamo. Insomma, nel termina migliore dei modi la battaglia di Di Girolamo, 49 anni, romano, residente a Bruxelles, eletto senatore in Belgio, avvocato ed imprenditore che in un colpo solo salva lo scranno senatoriale e, soprattutto, non finisce agli arresti domiciliari. Infatti perdendo l’immunità parlamentare con la perdita del seggio sarebbe stato arrestato per ordine della Procura di Roma che accusa il senatore di aver fornito falsi dati sulla residenza all’estero al momento della candidatura per le politiche 2008.
Roma-Milano, ricorso Lufthansa all’antitrust? Lufthansa sta valutando l’opportunità di presentare un ricorso all’Antitrust europeo nel tentativo di ottenere i diritti di volo sulla rotta Milano-Roma. La conferma è arrivata da Karl Ulrich Garnadt, membro del Cda di Lufthansa, durante la cerimonia di presentazione dei due nuovi aeromobili di Lufthansa Italia che, a partire dal prossimo 2 febbraio, opereranno sullo scalo milanese di Malpensa. «Penso sia chiaro a tutti - ha spiegato Garnadt che questa è una rotta sotto monopolio protetto, e i passeggeri italiani dovranno rendersene conto».
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Polemiche. L’invito rivolto dal direttore del Rabbinato di Israele a liberal: «Da Benedetto XVI parole importanti contro la Shoah»
Papa, vieni in Israele Intanto a Treviso un ex scissionista: «Camere a gas? Usate per disinfettare» di Vincenzo Faccioli Pintozzi segue dalla prima Penso che quelle parole, riprende Wiener, «siano state fondamentali, non soltanto per gli ebrei ma per il mondo intero: hanno affermato una volta di più che i negazionisti sono un’offesa per l’umanità, e che
sacerdote della Fraternità, voglio ricordare che non è accettabile che un leader religioso faccia sue affermazioni di questo tipo». Ma questo, nonostante le speculazioni della stampa, non distrugge quanto è stato creato negli ultimi 60 anni fra lo Stato di Israele e la Santa Sede: «Le no-
Israele getta acqua sul fuoco, e ricorda l’impegno condiviso con la Chiesa cattolica nel contrastare ogni recrudescenza di nazismo. I lefebvriani condannati dai vertici cattolici e politici questi devono essere condannati nella maniera più ferma possibile. In molti posti, infatti, i negazionisti sono l’avanguardia dei neo-nazisti». Sulle nuove affermazioni che sminuiscono il dramma dell’Olocausto, pronunciate dal prete lefebvriano don Floriano Abrahamowicz, aggiunge: «Per quanto riguarda il caso del vescovo e del
stre relazioni con il Vaticano sono molto speciali e dobbiamo fare del nostro meglio per mantenerle ai massimi livelli. Il nostro è un impegno comune: ho scritto al cardinale Kasper, che mi ha risposto oggi: due lettere rispettose e molto importanti. Ora dobbiamo decidere i passi complementari per mantenere al meglio questo nostro rappor-
to: la nostra Commissione incaricata della questione si riunirà all’inizio della prossima settimana per decidere cosa fare a livello pratico. Ma non ci sono interruzioni di sorta».
A dimostrazione di questa posizione,Wieder – che aveva scritto due giorni fa una lettera in cui chiedeva le scuse pubbliche di Williamson per le sue dichiarazioni – aggiunge: «La visita di Benedetto XVI in maggio è molto importante per noi, un viaggio che aspettiamo. Alcuni apprezzano il vescovo Williamson, altri la pensano come lui: purtroppo, il messaggio di tutta questa vicenda ha colpito negativamente la Chiesa. Che però combatte con noi per sconfiggere le recrudescenze del nazismo: dobbiamo fare il massimo, insieme, per dimostrare al mondo che persone del genere non sono accettabili, mai più». Non si fermano però le polemiche sui membri
della Fraternità che continuano a difendere il vescovo Williamson. In un’intervista alla Tribuna di Treviso, Floriano Abrahamowicz - capo della comunità lefebvriana del Nordest che celebrò una messa in latino per il leader della Lega Bossi - si dice convinto che l’unica cosa sicura sulle camere a gas è che sono state usate per disinfettare. Inoltre, i numeri del genocidio nazista sono un «problema secondario», accreditati dai capi delle comunità israeliane subito dopo la liberazione da parte delle truppe alleate «sull’onda dell’emotività». Le nuove affermazioni
Il cardinale Kasper smentisce le voci: Santa sede e Rabbinato si incontreranno ROMA. Ci risiamo. Le tesi negazioniste del vescovo Richard Williamson, condannate dal Papa, sono state rilanciate dal sacerdote della Fraternità San Pio X, don Floriano Abrahamowicz, che dopo aver minimizzato sui numeri dell’Olocausto ha anche dichiarato che «le camere a gas venivano usate per disinfettare». Sul tavolo ci sono molti aspetti, alcuni non ancora risolti, uniti a una situazione di tensione internazionale. Ma al contrario di quanto paventato negli ultimi giorni, il cardinale Walter Kasper, presidente della commissione vaticana incaricata delle relazioni con la comunità ebraica, conferma a liberal l’incontro fissato dal
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«Il summit di marzo è confermato» di Rossella Fabiani Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani, il cardinale Kasper non esita a definire «inaccettabili» e «stolte» le posizioni negazioniste e aggiunge che «negare l’Olocausto sarebbe una nuova ingiustizia nei confronti delle vittime e non è assolutamente la posizione della Chiesa cattolica, che si distanzia totalmente da qualsiasi negazione della Shoah. Bisogna fare tutto il possibile per evitare che qualcosa di simile accada ancora». Ma cosa si nasconde dietro le esternazioni di una parte dei lefebvriani? Ci sono alcune questioni fondamentali da affrontare: la struttura giu-
Inaccettabili e stolte le dichiarazioni di Williamson e Abrahamowicz. La Chiesa si distanzia totalmente da qualsiasi negazione della Shoah
2 al 4 marzo 2009 tra cinque rappresentanti del Grande rabbinato di Gerusalemme e cinque funzionari della Santa Sede, tra cui lo stesso Kasper. «Perché proprio nei momenti di difficoltà - ci dice - è necessario proseguire la difficile via del dialogo».
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ridica della Fraternità di San Pio X nella Chiesa, l’accordo sulle questioni dogmatiche ed ecclesiologiche, la modifica del Papa della Preghiera agli Ebrei, la dichiarazione “Nostra Aetate”, ma soprattutto la questione del testo stesso del Concilio Vaticano II come documento del Magistero di primaria importanza.
«È la questione fondamentale, lo stesso Papa ha chiesto ai vescovi lefebvriani, ai quali ha revocato la scomunica, l’impegno a compiere i passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, prima di tutto riconoscendo il Concilio Vaticano II - continua il cardinale - come sono importanti pure gli altri aspetti. Dopo la dichiarazione “Nostra Aetate” i rapporti tra cattolici ed ebrei sono cambiati irreversibilmente per il bene di tutta l’umanità, superando pregiudizi e inimi-
cizie e instaurando una migliore comprensione reciproca». E in questa direzione si è epresso anche il rabbino David Rosen, presidente del JewishCatholic Liaison Committee che ha definito l’incontro di Bupest dello scorso novembre «storico», avendo riunito ebrei e cattolici nella commemorazione della “Notte dei cristalli”, che dimostra che entrambi si sono impegnati «per cercare di trasformare - dice ancora Kasper - la tragedia del passato in una memoria condivisa, per ricordare e imparare». Anche difficoltà di tipo culturale e politico, di cui le ultime esternazioni del prete lefebvriano sono un esempio, rendono difficile la strada del dialogo, «ma è l’unica strada percorribile per tornare nella piena comunione - insiste il cardinale - è una strada lunga da percorrere e siamo soltanto all’inizio».
Le dichiarazioni lefebvriane arrivano in un momento molto caldo nello scenario internazionale, che vede una crescita dell’antisemitismo a cui sta contribuendo anche la vicenda di Gaza. E’evidente che ormai la questione non è più tra Israele e Palestina, ma con gli Ebrei tout court. «Non posso escludere questa ipotesi e, per questo, dichiaro con forza che l’antisemitismo è un peccato», conclude il cardinale Walter Kasper.
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I membri della Fraternità scordano che anche il loro fondatore firmò la Nostra Aetate
Eppure papà Lefebvre è morto in un lager segue dalla prima
hanno scatenato pronte reazioni dalla società.
Il vescovo di Treviso, monsignor Mazzolato, ha dichiarato nel pomeriggio: «È infondata ed estranea al sentire cristiano l’affermazione di don Floriano Abrahamowicz. Ogni posizione che prende le distanze dal pensiero del Papa è da considerarsi storicamente infondata». Mentre il segretario del Pd, Veltroni, ha detto che «il negazionismo è tanto più insopportabile se pronunciato da persone che dovrebbero avere una cura particolare dell’umanità».
Il primo ingresso del campo di concentramento di Auschwitz Birkenau. Nel campo trovarono la morte un numero compreso tra 1,1 e 1,5 milioni di persone. In basso, il regista Carlo Lizzani. Nella pagina a fianco, don Floriano Abrahamowicz e il cardinale Walter Kasper
E riconoscendoli protagonisti della “prima Alleanza”con Dio: il cardinale Joseph Ratzinger, ora papa Benedetto XVI. Che sia lui l’ispiratore dei gesti significativi e straordinari di Papa Giovanni Paolo II verso l’ebraismo è innegabile, come non è contestabile il rapporto intenso e fecondo intessuto con molti autorevoli rabbini nella faticosa ricerca di riconoscere un destino comune con i figli di Abramo. E il leale, ripetuto e costante richiamo (come dentro i cancelli di Auschwitz) a riconoscere la tragedia indicibile della Shoah come “male assoluto”contro Dio e contro l’uomo, un male collocato dentro la vicenda drammatica della Storia e monito perenne per tutte le generazioni dell’oggi e del domani, sembra non bastare mai: perché da parti talvolta impreviste e per alimentare comunque una polemica e un tentativo di suscitare divisioni e ostilità, si amplificano a forza voci estemporanee di un “negazionismo”, privo di basi documentarie e di prove storiche convincenti. Forse è il caso di rimuovere completamente ogni dignità di tribuna e di ascolto a chi si ostina a negare l’innegabile: sull’Olocausto parlano i documenti, parlano le testimonianze, parlano le migliaia di ricerche storico-scientifiche autorevoli e credibili: parlano (anche per chi non è mai stato in visita ad Auschwitz o negli altri campi di sterminio) le povere “cose”rimaste.
ganni avvengano proprio quando sta trovando una via faticosa di soluzione lo scisma lefevbriano che tanto ha segnato la Chiesa negli ultimi decenni.
La revoca della scomunica alla Fraternità S. Pio X che lo stesso papa Benedetto interpreta solo come un“atto paterno di misericordia” propedeutico alla piena riammissione nella comunità cristiana, una volta soddisfatte condizioni non certamente compiacenti, è stata subito “sporcata”dal polverone sulle deliranti tesi negazioniste di uno dei vescovi scismatici. Non è un caso che dei quattro presuli lefebvriani l’attenzione si sia concentrata esclusivamente su Williamson, strano prete transitato direttamente dallo scisma anglicano allo scisma tradizionalista, e sulle sue stravaganti tesi anti-Olocausto. Segno che in tutti i modi i difficili percorsi di dialogo e di riconciliazione per l’onor del mondo non s’hanno da fare. E tutto (compreso il rapporto complesso tra ebrei e cristiani)“deve”restare nel distacco, nel conflitto e nel risentimento. Non è nemmeno un caso che si sia improvvisamente fatto vivo don Floriano Abrahamowicz, prete lefebvriano e celebre per aver detto qualche anno fa messa in latino col vecchio rito per la Lega e il suo leader. In quel gioco ambiguo e un po’torbido di un reciproco utilizzo delle divisioni a fini politici, elettorali e di scandalo ecclesiale. Non lo fa nessuno, ma da qualche parte sarebbe bene che si dicesse alto e forte che proprio il vescovo Marcel Lefebvre aveva firmato di suo pugno, da padre conciliare del Vaticano II, la dichiarazione Nostra Aetate sul nuovo rapporto della Chiesa con l’ebraismo e che, di suo, aveva perduto il padre, sterminato proprio nei lager nazisti di cui i suoi “ignoranti”discepoli si affannano tutt’ora a negare la terribile esistenza.
Serve chiedersi perché la polemica nasce proprio quando si sta trovando una via faticosa di soluzione all’antico scisma
Gli ammassi di scarpe, di protesi di disabili, il mucchio arruffato di capelli e di chiome, testimoni muti eppure eloquenti di un’umanità cancellata e incenerita in un numero spaventosamente alto. Semmai non è inutile interrogarsi sul perché la polemica, le insinuazioni e gli in-
Per il regista Carlo Lizzani, chi nega l’Olocausto vuole la distruzione dello Stato di Israele. Ecco perché è un bene ricordare la Shoah
«Attenti, la storia è sempre contemporanea» di Gabriella Mecucci
ROMA. Bernard-Henri Lévy lancia la provocazione dalla prima pagina del Corriere della Sera. Il film Operazione Valchiria narra - secondo lui - «il finto antinazismo». Da una parte non dà spessore infatti alla figura dell’attentatore di Hitler: Claus von Stauffenberg diventa così un supereroe di cui però non si raccontato i percorsi di vita e intellettuali oscuri e contorti: dalla sua adesione al nazismo nel 1933, alla sua idea assai discutibile di democrazia. Dall’altra nel raccontare quella storia, la si esalta finendo col dimenticare o col declassare la composita galassia antinazista che pure si mosse in Germania correndo i più terribili rischi. Carlo Lizzani è un regista che più volte - e forse più di ogni altro - si è cimentato con le grandi ricostruzioni storiche (dal Processo di Verona alla Maria Josè televisiva), è particolarmente competente dunque per discutere le obiezioni di Bernard-Henri Lévy. Dunque Lizzani, che cosa ne pensa? Il cinema deve
rappresentare la storia così come è? Nei miei film storici mi sono sempre posto il problema. E ho cercato di rifuggire dalle semplificazioni, dalla ricostruzione legata solo alle gesta dell’eroe, del protagonista. Ho preferito cogliere le ombre, le contraddizioni che pure esistono in una determinata situazione. Preferisco quindi narrazioni più articolate. Sia chiaro però che questa è un’affermazione generale. Sul film Operazione Valchiria in particolare non posso dire nulla perché non l’ho visto. Credo però che il regista non può rivendicare di avere le mani libere rispetto ai fatti storici che vuol raccontare. Le sembra fondata l’obiezione secondo la quale scompare nella ricostruzione di Operazione Valchiria tutta la complessità dell’antinazismo tedesco? Capisco l’obiezione, ma il regista potrebbe rispondere che lui ha
voluto raccontare quella storia e non tutta la storia della resistenza ad Hitler. Penso che avrebbe ragione. Una cosa è scrivere un libro sull’antinazismo in Germania e un’altra è fare un film sull’“Operazione Valchiria”. E’ una ricostruzione solo di una parte? Certo, ma il regista quello voleva fare e non è una scelta illegittima. Più fondata mi sembra invece l’obiezione di Lévy su una certa semplificazione che verrebbe fatta del personaggio Von Stauffenberg...
Verrebbe “eroizzato” senza però ricostruire per intero la sua personalità... Se il film ha davvero questa carenza, una simile critica mi sembrerebbe giusta. Se non viene raccontata la sua adesione al nazismo nel 1933, quello che pensava allora e quello che aveva in mente nel momento in cui decise di fare l’attentato, allora non c’è dubbio che siamo di fronte a una banalizzazione, a una linearizzazione di un personaggio che non gli restituisce tutto il suo spessore. Questo sarebbe un errore anche perché la storia di un uomo che cambia idea è particolarmente interessante dal punto di vista drammaturgico. I questi giorni, a causa delle posizioni negazioniste di alcuni prelati seguaci di Lefebvre, si è tornati a parlare della Shoah. Perché quel passato non passa mai? Questa è una risposta molto difficile. Penso che avesse ragione Benedetto Croce: la storia è
sempre contemporanea. Nella fattispecie esistono ancora molte posizioni anti-israeliane, molte volontà di cancellare quello Stato e proprio in questi giorni questi temi sono tornati di scottante attualità. Chi odia gli ebrei e vuole la distruzione dello Stato di Israele può giudicare utile alla sua terribile causa anche la negazione dell’Olocausto. Il presente è determinato dal passato e c’è chi vuol negare quel passato per avere le mani più libere nel presente.
panorama
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Polemiche. Di sussidiarietà e sgravi fiscali sembra non esserci traccia nel testo del ministro Calderoli
Questo non è il mio federalismo di Giorgio Stracquadanio a scorsa settimana il Senato ha approvato in prima lettura la legge delega sul federalismo fiscale, con il voto favorevole della maggioranza, l’astensione del Partito Democratico e il voto contrario dell’Udc. Per la Lega Nord si è trattato di una data storica, di un risultato necessario su cui costruire la prossima campagna elettorale per le Europee e di una verifica positiva dell’alleanza di governo con il Popolo della Libertà. Il Pd, invece, con la sua astensione, ha tentato di insinuarsi tra i partiti della maggio-
L
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
ranza, strizzando l’occhio alle pulsioni stataliste (intendendo con questo termine il prevalere del potere pubblico sull’autonomia della società e dei suoi attori) che emergono da tempo tra le fila del Carroccio.
Detto questo, tutti i nodi politici che erano emersi già la
esso le tasse su famiglie e imprese. La stessa ricerca del consenso del Partito Democratico e di tutto il mondo che ruota intorno all’asse della conservazione istituzionale degli enti locali (Anci, Province, Regioni) sembra spingere verso una soluzione in cui si ha più preponderante il ruolo della mano
La Lega ha fatto una scelta conservatrice e Tremonti, non fornendo i dati sull’impatto sui conti pubblici, ha manifestato le sue perplessità scorsa estate sono rimasti irrisolti. Il Federalismo fiscale nella versione in cui è stato approvato, la Calderoli’s version, offre più di un motivo di insoddisfazione tra chi ha fatto del federalismo, della sussidiarietà e della libertà le proprie bandiere. Nonostante gli sforzi, esso appare ancora una strategia volta a spostare le risorse pubbliche da Sud a Nord, lasciando inalterato il volume del prelievo fiscale, piuttosto che una strada per abbattere progressivamente la spesa pubblica improduttiva e parassitaria e con
pubblica rispetto all’autonomia dei soggetti privati, in aperta contraddizione con quel principio di sussidiarietà che sta alla base della scelta federalista del centrodestra. Il fatto che da parte della Lega, e del ministro Calderoli in particolare, si sia rifiutato anche solo di discutere l’abolizione delle Provincie e delle relative tasse – tra cui il bollo auto che il premier ha promesso di abolire seppure in modo progressivo e graduale – rivela una natura del progetto profondamente diversa dal disegno originario tracciato nel
1994 dal massimo teorico del Federalismo fiscale, l’attuale ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
Tremonti, d’altra parte, scegliendo di non dare i dati sull’impatto del federalismo sui conti pubblici, ha in qualche modo manifestato le sue perplessità sul progetto. La Lega Nord ha fatto una scelta per così dire conservatrice nel timore di fare il bis della riforma costituzionale della legislatura 2001-2006 quando cinque anni di un tortuoso percorso parlamentare sono stati cancellati nella domenica in cui il referendum confermativo ha detto no. È chiaro che tutti i nodi verranno al pettine al passaggio alla Camera ma è certo che se il Federalismo fiscale non diventa la leva per la riduzione delle spese dello Stato e quindi della pressione fiscale, e alla maggiore responsabilizzazione di tutti i livelli di governo del territorio, anche questa riforma è destinata a fallire trascinando per sempre il Federalismo nelle occasioni mancate della storia del Paese.
La parabola dei due assassini, stretti fra la colpa, la solitudine e la misericordia
Il bene e il male con gli occhi di Olindo lindo e Rosa separati in carcere non sono più quelli di una volta. Fino a quando stavano insieme o si vedevano almeno una volta a settimana i due coniugi della raggelante strage di Erba stavano bene con la testa. Adesso che sono separati, Olindo dà segni di nervosismo, come ha detto proprio lui per giustificare l’aggressione ai danni di una guardia carceraria. Gli manca la sua Rosa e passa i giorni e le notti a scrivere lettere al giudice per il ricongiungimento con la sua metà. Senza di lei sta male e facilmente mostra di perdere la pazienza e l’equilibrio. Anche per piccole cose.
O
L’altro giorno - riferiscono le cronache - nel carcere delle Novate, a Piacenza, Olindo Romano, aveva messo il lenzuolo davanti alla finestra della cella. Il regolamento lo vieta. Il lenzuolo andava tolto. Il secondino lo ha fatto presente: «Guarda che lì il lenzuolo non può stare: toglilo». Olindo pare abbia risposto con sofferenza: «Allora viene a toglierlo tu». L’agente a quel punto non ha potuto fare altro che entrare per togliere il lenzuolo dalle sbarre della finestra. Quando ha messo piede nella cella, Olindo gli si è avventato contro, ferendolo e costringendolo, poi, a farsi medicare in ospedale. Questa - sembra di capire dalle cronache
e dal rapporto dell’istituto di pena piacentino - è il comportamento di Olindo in galera: “Intrattabile”. La versione dell’ergastolano è un po’ diversa, ma la differenza è roba da poco. Resta l’aggressione e la ribellione di Olindo, il suo “nervosismo” e la “intrattabilità”. Dopotutto, c’è forse qualcuno che vuole trattare con l’assassino di Erba? Ci sono esistenze che aprono la porta dell’inferno. Il girone infernale nel quale sono precipitati Olindo e Rosa non è quello del carcere, ma quello della loro coscienza. Avranno anche loro una “voce” che gli parlerà del male e del bene? Avranno davanti agli occhi le scene di sangue e terrore di quella notte, le grida, la difesa, i volti senza vita, il fuoco? Tutto l’inferno nel quale con odio banale si sono infilati quella tragica sera di due anni. I due assassini non meritano pietà e l’ergastolo, ancor più della pena capitale, è per loro
la pena maggiore, resa ancora più pesante dalla separazione. Forse, non tutti gli italiani - perché tutti gli italiani conoscono Olindo e Rosa - sono disposti a credere o pensare che nel fondo della coscienza dei due assassini ci sia una “voce” che li richiami alla conoscenza del male e li faccia soffrire nell’intimità delle loro notti. Tuttavia, non c’è forma di esistenza umana che ignori la differenza tra il bene e il male, la gioia e il dolore, ciò che si può fare e ciò che non si deve fare. Si può odiare con la stessa forza e intensità con cui si può amare e si può perfino gioire anche nell’odio. Ma la gioia dell’odio procura malessere perché la sofferenza e il dolore altrui lasciano, anche nel più spietato degli assassini, una traccia di compassione, ossia di patimento: la sofferenza umana è forse ancor più universale del bene (se fosse possibile scrivere un concetto di tal fatta). Olindo
e Rosa insieme riuscirebbero meglio a sopportare le fiamme dell’inferno delle loro coscienze. Soli diventano nervosi.
Olindo si comporta male, è nervoso, intrattabile e alla fine esplode, aggredisce l’agente. La sua coscienza si ribella, prima che il suo corpo. Non reclama neanche la libertà. Dove potrebbe andare per sfuggire a se stesso? Il mondo intero è diventato la sua prigione. Dio - perché questa parolina di tre lettere conserva il suo significato soprattutto in carcere - è diventato il suo giudice e il suo carceriere. La misericordia di Dio perdona chi sente in sé la colpa. Olindo si ribella, forse, perché non regge più il rimorso della coscienza, il peso della colpa. Aggredisce l’agente perché percepisce nella sua voce e nei suoi occhi il disprezzo dell’altro uomo, di un’altra coscienza che si lega alla sua. Direte: «E’ una lettura troppo nobile, questi sono due assassini e basta». Ma il “laborioso regno delle madri” agisce anche negli assassini, anche nella notte più buia c’è un piccolissima luce, anche nella coscienza più intesa al male e abituata a praticarlo esiste un senso del bene che nasce dall’esperienza del male. La pena più grave per Olindo e Rosa è questa: la loro “malattia mortale” con cui contano le ore della morte viva della loro coscienza.
panorama
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Alleanza nazionale. Il dibattito aperto da liberal su An continua con l’intervento del direttore de “La Destra”
Parlano di valori ma pensano alle poltrone di Fabio Torriero gio della corruzione e della vecchia politica..
l referendum “Pdl-sì, Pdl-no”, così come si evince da alcune dichiarazioni di politici o intellettuali (magari prima entusiasti e ora prudenti, se non pessimisti), è mal posto, perché collega argomenti diversi che dovrebbero essere affrontati separatamente. E cioè, l’organizzazione e le idee.
I
Questione organizzativa. È del tutto naturale e scontato che i soggetti fondativi (Fi e An in primis) pretendano nell’attuale fase preparatoria una sorta di par condicio (il doppio coordinatore etc). Qui in ballo non c’è la struttura futura del partito che sarà varata il prossimo 27 marzo, ma la preparazione tecnica al congresso. Dopo di che, naturalmente, si potrà discutere delle famose quote (70-30 a favore degli azzurri), quote che, comunque, penalizzano l’ex partito di Gianfranco Fini, specialmente nel centrosud. E il presidente della Camera, dal canto suo, ha fatto bene a pretendere una sorta di patto consultivo settimanale, teso a mettere nero su bianco le regole del Pdl, e anche un’eventuale avvicendamento dei vertici, nella
Quando sento le parole dei “professionisti dell’identità”, basate sulla “dote da portare” nel Pdl capisco che si parla di posizioni di potere persona del presidente, tra un uomo di Fi e, dopo, tre o quattro anni, un uomo di An. Sarebbe il modo migliore per sanare in partenza eventuali duelli e polemiche circa la successione. Altro tema organizzativo: i territori da mesi stanno riflettendo sulla effettiva rappresentanza dal basso, sui criteri di partecipazione.
A scanso di equivoci, va detto che la classe dirigente di adesso deve essere per forza blindata per garantire il passaggio da una forma-partito all’altra, nella prospettiva anche di un Pdl-leggero e non pesante. Immaginiamoci cosa succederebbe se entrassero ora clientele e apparati locali: sarebbe un Pdl già ostag-
Questione valoriale. Il dibattito che ruota intorno alla griglia culturale del Pdl sembra ignorare un dato essenziale: il nuovo soggetto politico sarà un “partitoprogetto”e non un“partito ideologico”. E su ciò bisogna intendersi, perché su tale binario passerà il bipolarismo del domani. I partiti ideologici hanno diviso gli italiani in opposte tifoserie, hanno ritardato la modernizzazione e hanno dell’identità un’idea statica, museale, coincidente esclusivamente con la rappresentanza-testimonianza. I partiti-progetto, invece, non negano le idee, ma le mettono al servizio di nuove sintesi, non anacronistiche dell’Ottocento o del Novecento (liberali-sociali, cattolicilaici, liberisti-statalisti), ma sintesi nuove. Un’identità dinamica e legata alla rappresentanza-governabilità. Quando sento parole o vedo iniziative dei “professionisti dell’identità”, basate sulla “dote da portare” nel Pdl, capisco l’inganno. Si tratta unicamente della “sindrome della poltrona”, di colonnelli nei rispettivi partiti
Paradossi. Il ministro Tremonti vuole utilizzare i fondi per le aree sottoutilizzate contro la crisi
Regioni, il bancomat del governo di Luca Bianchi uando, come quest’anno, non vi è alcun surplus dell’economia ma anzi è l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza di pressione e di lotta in difesa degli interessi tende naturalmente a prevalere. Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più rilevante delle risorse da destinare alla ristrutturazione del settore industriale italiano. Non sarebbe certo sorprendente che il grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate dalla congiuntura».
«Q
ti dal Fas 17,4 miliardi di euro e molti altri sono stati utilizzati per far fronte spesso a spese ordinarie (pensiamo ai 640 milioni di euro per ripianare i bilanci di Roma e Catania). Il decreto anti-crisi taglia inoltre il Fas di 2,6 miliardi di euro, e altri restrizioni stanno per essere definite. Ci si sta inoltre orientando anche a usare i Fondi Strutturali in chiave congiunturale, un paradosso linguistico ed economico. Le Regioni, come dimostra l’incontro di
Le risorse europee saranno utilizzate solo per il Ponte e per la Salerno-Reggio Calabria. Il resto finirà per finanziare aziende del Nord
Forse fa un po’ scalpore pensare che questa citazione non è proprio fresca di stampa: il pensiero è di Pasquale Saraceno ed è stato estratto dall’introduzione al Rapporto Svimez 1975. Oggi le cose non sono molto diverse: la degenerazione dell’intervento iniziata in quegli anni continua. L’idea secondo cui gli enti locali spendono male i soldi pubblici ha portato a considerare il Fas come un salvadanaio da utilizzare per ogni evenienza. Ultimamente sono stati taglia-
ieri, sono ancora critiche verso l’atteggiamento del governo, a cui chiedono maggiore trasparenza nella definizione e destinazione delle risorse. Il decreto anti-crisi prevede di dividere il Fas in un Fondo per le infrastrutture strategiche e un altro per l’occupazione e la formazione. Sembra però secondo alcuni che in campo infrastrutturale il Sud debba contare solo sul Fas e sui Fondi Comunitari. Basta vedere le opere prioritarie previste dall’allegato al Dpef. Sono solo due quelle rilevanti nel Sud: la Salerno-Reggio Calabria e il Ponte sullo stretto, le cui diffi-
coltà progettuali non comporteranno impegni di spesa nei prossimi 4-5 anni.
Dunque il ragionamento è semplice: il Sud utilizzi le risorse aggiuntive e tutto il resto (gli investimenti ordinari) va al Nord. Il principio dell’aggiuntività delle risorse va a farsi benedire! Inoltre sarà difficile nel futuro mantenere al Sud le risorse comunitarie per l’occupazione. Se saranno destinate ad ammortizzatori sociali a favore di lavoratori espulsi dal sistema produttivo, chi potrà contrapporsi al Centro-Nord, dove la domanda di prestazioni sarà più elevate? In un simile quadro o si riuscirà a ricostruire su solidi base scientifiche un progetto Paese, basato sulla “convenienza economica”dell’investimento pubblico nelle aree deboli, oppure il Sud, anche e soprattutto per responsabilità delle sue classi dirigenti, scomparirà sempre di più dall’agenda di governo. Una prospettiva che le Regioni sembrano pronte a voler decisamente combattere.
che temono di diventare caporali nel partito più grande. Insomma, è la strategia personale di qualche leader che vorrebbe gestire la transumanza dei propri fan, per reiterare schemi da libanizzazione partitica.
Il Pdl sarà soprattutto un partito di elettori e non soltanto di eletti o iscritti-militanti. Prendiamo il caso di An: in molte riunioni interne qualcuno ancora pretende di portare nel Pdl la triade “Diopatria-famiglia”(basta con i “proprietari privati” delle idee). Ciò che va portato come dote, da parte dei partiti che comporranno il Pdl, è la declinazione governativa e legislativa dei valori, non i valori stessi. Ossia, leggi sulla famiglia, sulla sicurezza, sull’identità, leggi sulla moralità pubblica, la legalità, la meritocrazia. Leggi che esprimano un messaggio alternativo ai messaggi della cultura di sinistra. E da questo punto di vista, circa l’attualizzazione della cultura di destra, stanno facendo molto di più i ministri Gelmini e Brunetta (le loro battaglie contro bulli, assistiti, bamboccioni, nullafacenti) che mille parole al vento su Rsi e nostalgie varie.
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dalla prima «In un periodo di disonestà universale, dire la verità è un atto rivoluzionario». Cercare la vera realtà mentre tutti attorno a noi plaudono quello che molti sanno essere falso significa agire da uomini e donne maturi. Significa mostrare una mentalità che distingue la realtà dai prevalenti pregiudizi attuali. Infatti una mente impegnata a trovare la realtà - nonostante l’irrealtà circostante - è l’unica mente libera. Questo suggeriva Thomas Jefferson nel suo classico discorso sullo Statuto della libertà religiosa in Virginia: «Ben consapevoli che le opinioni e le convinzioni degli uomini dipendono non dalla loro volontà, ma seguono involontariamente l’evidenza che è proposta alla loro menti, che Dio Onnipotente ha creato la mente libera, e manifestato la sua volontà suprema che questa rimanga libera, rendendola non suscettibile a restrizioni; ben consapevoli che tutti i tentativi di influenzare la mente con punizioni temporali o fardelli rappresentano un allontanamento dal piano dell’autore sacro della nostra religione, il quale in quanto Signore sia del corpo che della mente tuttavia sceglie di non propagarla con coercizioni, come era in suo potere fare, ma di estenderla attraverso la sua influenza solo sulla ragione». Il creatore ci ha fatti così che solo una cosa ci può obbligare a piegarci sulle ginocchia: l’evidenza colta dalle nostre menti. Questo è quello che Jefferson (e altri padri fondatori) intendeva dire per verità: quello che l’evidenza delle nostre menti ci permette di abbracciare.
John Adams, il nostro secondo presidente, ha aggiunto un secondo punto in una lettera ad un amico: «Vorrei insistere che gli Ebrei hanno fatto più di qualsiasi altro popolo per civilizzare gli uomini. Se fossi un ateo e credessi nel cieco destino eterno, crederei ancora che il destino ha ordinato agli ebrei di essere lo strumento essenziale per civilizzare i paesi. Se fossi un ateo di un’altra setta che crede o fa finta di credere che tutto sia ordinato per caso, dovrei credere che il caso ha ordinato agli ebrei di preservare e propagare a tutta l’umanità la dottrina del sovrano supremo, intelligente, saggio e onnipotente dell’universo, che io credo che sia il grande principio essenziale di tutta la moralità e, di conseguenza, di tutte le civiltà». Perché questo? Perché se non esiste verità, nessun discorso è possibile nella luce dell’evidenza. In un regime che genera bugie, non serve a niente
La lezione dei Padri Fondatori (ma anche di Abraham Lincoln, Lord Acton e George Or
Solo la verità ci rend di Michael Novak protestare nel nome della verità. Là dove la verità non conta, la conversazione è vuota. Là dove la verità non conta, la persuasione può valere più della seduzione o dell’intimidazione. Il potere governa. Mettiamola in un altro modo, quando il potere, il benessere e la posizione minacciano di tiranneggiare, le persone devono essere capaci di rivolgersi alla verità.
Solo quando la verità è desi-
derata come un imperativo, la civiltà diventa possibile. Solo allora gli esseri umani entre-
ranneggiano, le persone civili convincono. Un altro punto. Essere gover-
La riflessione e il giudizio sono capacità connaturate all’uomo. Gli esseri umani sono i soli animali che possono scegliere di riflettere su quello che devono fare e poi scegliere di farlo ranno in conversazione razionale gli uni con gli altri. Perché la civiltà è costituita dalla conversazione. I barbari ti-
nati dall’evidenza richiede tutte quelle abitudini e disposizioni necessarie per agire con auto-maestria.
Essere liberi non significa per tutti gli umani lo stesso che significa per altri animali. I gatti che saltellano, corrono, si azzuffano, rotolano e corrono ancora possono sembrare liberi, ma in realtà stanno solo seguendo i loro istinti. I gatti fanno quello che dice loro l’istinto, quando dice loro qualcosa. Fanno quello che vogliono, quando lo vogliono.
Il problema è che gli umani hanno un sistema di istinti
George Washington: il padre della nazione
John Adams: il secondo presidente
George Washington nasce a Bridges Creek (Wisconsin) il 22 febbraio 1732 e muore a MountVernon (Virginia) il 14 dicembre 1799.Washington fu il comandante più celebre dell’esercito statunitense nella Guerra di indipendenza americana (1775-1783), partecipando tra l’altro alla battaglia di Monongahela (dove nonostante la sconfitta dimostrò sangue freddo e notevoli capacità di coordinamento) ed ebbe un ruolo centrale nella cattura del forte francese Duquesne, nei pressi dell’odierna Pittsburgh. In seguito Washington diventò il primo Presidente degli Stati Uniti d’America (dal 1789 al 1797) ed è considerato uno dei grandi Padri Fondatori della nazione e il suo volto è ritratto sul Monte Rushmore, insieme a quello di Abraham Lincoln, Thomas Jefferson e Theodore Roosevelt. Nel 1787 è stato anche il presidente della Convenzione per la Costituzione. Washington non ebbe mai la fortuna di vedere la nuova capitale della nazione appena fondata, che avrebbe portato il suo nome, perché Washington D.C. fu fondata nel 1801, due anni dopo la sua morte.
John Adams, nato a Braintree il 30 ottobre 1735 e morto a a Quincy il 4 luglio 1826, è stato il secondo presidente degli Stati Uniti d’America, dal 1797 al 1801. Avvocato, negli anni che precedettero la Guerra d’Indipendenza americana si avvicinò alla politica. Nel 1774 e nel 1775 fu il delegato del Massachusetts al primo e al secondo Congresso continentale e fece parte del comitato di redazione che preparò la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America. Nel 1778 Adams raggiunse Benjamin Franklin in Europa, come rappresentante diplomatico. Nel 1785 Adams fu nominato ambasciatore in Gran Bretagna e nel 1789, rientrato negli Stati Uniti, venne eletto come primo vicepresidente del paese, a fianco George Washington. Nel 1796 successe a Washington nella carica di presidente e in quella di uomo politico federalista più in vista. La minaccia di un’imminente guerra con la Francia dominò gli anni della sua amministrazione. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò all’educazione del figlio John Quincy Adams, che divenne nel 1825 il sesto presidente degli Usa.
il paginone
rwell) per portare moralità nella Res Publica
Qui a fianco: la Dichiarazione d’Indipendenza americana in un celebre quadro di John Trumbull. A destra, Thomas Jefferson. Qui sotto, John Adams. Nell’altra pagina, George Washington
molto più complicato. Uno di questi istinti spinge gli umani a riflettere sulle loro azioni passate e sulle situazioni future per giudicarne il realismo e il valore etico. La riflessione e il giudizio so-
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cizione eccetto una: la coercizione esercitata sulla mente dall’evidenza. La mente che non è costretta da niente se non dall’evidenza è libera. La mente costretta da niente se non dalla verità non è libera. Il fondamento per difendere la libertà è di avvicinarsi alla verità. Il fondamento per difendere la verità sta nella sua luce che ci mostra la strada per la libertà.
Senza un diffuso impegno alle abitudini morali che rendono la libertà e la verità più
Secondo Thomas Jefferson le nostre menti devono essere libere da ogni coercizione eccetto una: quella esercitata sulla mente dall’evidenza dei fatti
derà liberi
Thomas Jefferson: l’inventore dell’Indipendenza Thomas Jefferson - nato Shadwell (Virginia) il 13 aprile 1743 e morto a Charlottesville (sempre in Virginia) il 4 luglio 1826) è stato un politico e scienziato statunitense. È stato il terzo presidente degli Stati Uniti d’America ed anche lui considerato uno dei Padri Fondatori della nazione (anche il suo volto è scolpito sul Monte Rushmore accanto a quelli di Washington, Lincoln e Theodore Roosevelt). Jefferson fu il principale autore della dichiarazione d’indipendenza[ del 4 luglio 1776 ed uno dei fondatori del Partito Democratico-Repubblicano degli Stati Uniti. Fortemente segnato dal pensiero illuminista fu un fautore di uno Stato liberale. Intellettuale di grande spessore e fondatore della Università della Virginia, ebbe un ruolo centrale nello sviluppo e nella costruzione di questa istituzione. Fu infine anche un architetto. Suoi sono ad esempio i progetti per il Campidoglio di Richmond, il campus dell’Università della Virginia e la sua casa di Monticello, che fanno fanno parte del patrimonio dell’Unesco dal 1987.
no capacità che permettono agli umani di discernere cosa devono fare. Gli esseri umani sono i soli animali che possono scegliere di riflettere su quello che devono fare e poi scegliere di farlo. Questo è quello che affermava il grande storico della libertà, Lord Acton, quando definiva la libertà come la capacità di non fare quello che si vuole, ma quello che si dovrebbe.
Permettetemi di offrirvi alcuni esempi concreti. George Washington rappresentò un modello di questo tipo di libertà, come lo furono molti altri padri fondatori: Franklin, Madison, Jefferson e, quattro generazioni dopo, Abraham Lincoln. Questi furono uomini che affrontarono molte lotte e che ne uscirono come uomini la cui parola meritava fiducia, i cui giudizi sull’umanità e sugli affari erano sagaci e spesso (per la semplicità delle loro affermazioni) sorprendentemente appropriati. Le loro deliberazioni furono la prova del lavoro della ragione in un ampio repertorio di movimenti e in una grande portata di umori e osservazioni, e le loro decisioni aprirono la strada verso le verità durature sulla persona umana. Così la nostra discussione ha compiuto il cerchio. Una cosa che una persona libera non è libera di fare - tranne che nel tradimento è cambiare volto davanti all’evidenza. L’evidenza ci vincola ma ci rende anche liberi da tutto il resto. Così almeno è come interpreto Jefferson, il quale implica che le nostre menti devono essere libere da ogni coer-
valide di parole su carta, è difficile vedere come una repubblica possa durare a lungo. I nostri diritti non sono protetti da parole su carta. Sono protetti dalle abitudini che mostrano rispetto per la verità e amore per l’auto-maestria. Mi permetto di parafrasare ancora George Orwell. In un’era di disonestà, cercare la verità è un atto liberatorio. Mantenere chiaro e pulito il significato di libertà e di verità, come sassi bianchi in un vivace ruscello delle Colorado Rockies, è il compito di ogni generazione. Questa è la parte più importante dell’ecologia morale. La legge finale della moralità - scrisse Pascal - è cercare la verità.
mondo
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Iraq. Domani 15 milioni di persone per le amministrative volute da Bush. In 14mila per 440 seggi. E c’è la quota rosa
Il voto della verità Sciiti e sunniti si candidano in 14 delle 18 province. Risultati solo il 3 febbraio Molto più di un test popolare
Tutte le speranze di al-Maliki (e degli Usa) di Stranamore erché sono così importanti le elezioni provinciali irachene? Intanto perché sono le prime consultazioni a livello locale da sempre (Saddam non ne aveva bisogno…) e rappresentano un’occasione per la popolazione irachena di 14 delle 18 province di esprimersi su un livello intermedio di governo. Le province in Iraq hanno una rilevanza pari o superiore a quella delle regioni in Italia e hanno equilibri politici, etnici, religiosi del tutto peculiari. Per gli iracheni il governo di Bagdad è una realtà importante, ma lontana, anche solo geograficamente, i governi provinciali invece sono i “loro” governi. E per la prima volta possono scegliere i propri rappresentanti. Cosa altrettanto importante: i candidati sono ben 14mila per 440 posti, quindi le elezioni coinvolgono una larga fetta dalla nuova classe dirigente. L’elezione, inoltre, significa una ripresa della attività amministrativa civile locale, i cui effetti saranno vissuti quotidianamente. Non ci sarà più l’alibi di scaricare sugli ingombranti “amici” americani la responsabilità di inefficienze e incapacità gestionali. Altro elemento cruciale è rappresentato dalla presenza dei candidati sunniti che questa volta potranno eleggere i propri rappresentanti a livello locale, contribuendo ad un “rasserenamento”dei rapporti. Per loro questo è un test importante in vista delle elezioni generali di fine anno. Naturalmente anche Al Maliki ed il governo di Bagdad vedono in questa consultazione una verifica fondamentale, soprattutto per tarare il peso effettivo dei partiti sciiti. Al Maliki spera di ottenere un significativo riconoscimento, incassando il “dividendo”rappresentato dalla conclusione dell’accordo con gli Usa per il ritiro delle truppe dal Paese entro il 2011. E punta ad aumentare il suo consenso nel Paese. Infine le elezioni metteranno alla prova la capacità delle forze di sicurezza e delle forze armate irachene, con il “concorso”Usa, di assicurare il regolare svolgimento di un momento importante nella vita di un paese “normale”. Ecco perché lo spiegamento di forze sarà massiccio e capillare e servirà a modulare modi e tempi del ritiro delle truppe Usa.
P
di Antonio Picasso atteso treno delle elezioni provinciali in Iraq è partito. Mercoledì, gli oltre 600mila elettori, tra responsabili della sicurezza, pazienti ospedalieri e carcerati, hanno aperto anticipatamente le urne. Ma sarà domani, 31 gennaio, la data fatidica che gli osservatori aspettano ormai da mesi. In un Iraq ancora carico di problemi - primo fra tutti la mancanza di un’effettiva sicurezza - 15 milioni di elettori saranno chiamati a rinnovare 14 dei 18 Consigli provinciali. Alla corsa al voto prenderanno parte circa 400 realtà politiche, dai partiti religiosi ai movimenti in rappresentanza delle singole minoranze. Il numero totale di candidati, per i 440 seggi complessivi, supera le 14mila unità. Inoltre la nuova legge elettorale prevede una “quota rosa” pari circa al 25% degli aspiranti. Sono state quasi 4mila, quindi, le
L’
Foto grande, un’immagine delle elezioni tenutesi nel 2005. Per la consultazione di domani è stata prevista - prima volta - una “quota rosa” del 25%. Incoraggiate dal miglioramento della sicurezza, in migliaia si sono proposte nella propria sezione per una poltrona nell’assemblea pubblica. Su 14.431 candidati, di questi 3.921 sono donne. In basso, Al Maliki, che punta a consolidare il suo consenso donne che hanno preso parte alla campagna elettorale. Quella del 31 gennaio è una data che ha subìto una lunga serie di rinvii. In ottobre, era addirittura circolato il timore che l’appuntamento slittasse sine die. Se così fosse avvenuto, il 2008 decantato come l’anno della svolta in Iraq - si sarebbe chiuso con un inatteso bilancio negativo. Merito della concertazione tra le parti in causa Stati Uniti, governo sciita e opposizione sunnita rientrata nell’arco parlamentare - il fatto che si sia evitato un insuccesso. Certo, il Paese resta in uno stato di profonda insicurezza. I risultati ottenuti sono fragili come la carta velina. Lo conferma il fatto che da questa tornata elettorale siano state escluse quattro province: le tre che costituiscono la Regione autonoma del Kurdistan (Duhok, Erbil e Sulaymaniah) e Kirkuk, da sempre contesa. Ma grava ancor di più, in senso negativo, il costante verificarsi di attentati nei principali centri urbani del Paese, seppur diminuiti nel corso di que-
Da questa tornata sono escluse quattro province: le tre della Regione autonoma del Kurdistan (Duhok, Sulaymaniah ed Erbil) e Kirkuk sti ultimi mesi. Non a caso, il voto di domani sarà incorniciato in un elevatissimo sistema di protezione. La surge ha indiscutibilmente dato una marcia in più all’Iraq. Tuttavia, da qui alla completa pacificazione, la strada è ancora molto lunga. Cosa ci si aspetta dal voto? Con queste premesse, è lecito chiedersi il significato di questo voto. Sia in merito alle speranze che esso offre alla popolazione, sia per i punti che lascia ancora in sospeso. Il fatto che l’Iraq torni a votare nell’arco di quattro anni esatti - nel 2005 venne eletto il primo Parlamento - fa pensare che il processo di normalizzazione politica stia progredendo. Il nuovo apparato istituzionale, creato dopo la caduta di Saddam Hussein e sotto l’occhio vigile degli Usa, si sta lentamente affermando. Inoltre, mentre nel 2005 si era votato per un governo centrale, oggi l’attenzione ricade sulle istituzioni locali, vale a dire su quelle che hanno un maggior contatto con le singole realtà e che quindi sono potenzialmen-
mondo
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che Washington stia cominciando ad avere davvero fiducia nel nuovo Iraq. Del resto, l’accordo raggiunto sullo “Status of Forces Agreement” (Sofa), che prevede il totale ritiro dei Gi entro il 2011 è significativo. Il Pentagono nutre la speranza che dalla applicazione della surge si sia innescata una catena di risultati positivi che permetterà a Baghdad di riprendere la piena gestione della sicurezza interna. Le incognite Passiamo ai punti deboli. Sebbene gli slogan emersi da questa campagna elettorale tendano a concentrarsi sulle riforme sociali ed economiche necessarie per la normalizzazione politica del Paese, la popolazione continua a essere costantemente vittima di attentati. Gli sciiti si sentono ancora bersaglio di “al Qaeda in Iraq”. Del resto, quest’ultima è stata sensibilmente indebolita, ma non ancora vinta del tutto. Di conseguenza, nei suoi rigurgiti di violenza, si dimostra ancora più aggressiva. L’attentato della Ashura è solo l’ultimo caso in
parte delle rappresentanze islamiche più consistenti con cui cercano difficilmente di convivere, kurdi a nord e arabi nella fascia lungo il confine iraniano. Un clima di violenza che si associa alla loro progressiva emarginazione dal panorama politico. L’attuale legge elettorale ha riconosciuto loro solo sei seggi complessivi, in rappresentanza di una popolazione di tre milioni di unità.Tre di questi sono stati assegnati ai cristiani rispettivamente nei Consigli provinciali di Baghdad, Ninive e Bassora - mentre uno ciascuno, in queste stesse province ai Sabei, agli Yazidi e agli Shabak. In questo processo di semplificazione delle differenziazioni politiche, è evidente come le tre comunità più importanti del Paese - sciiti, kurdi e sunniti abbiano fatto una scelta di campo, preferendo alleanze magari più care nella costruzione, ma certamente più solide e che elidono qualsiasi spreco di risorse. Un accordo fra loro risulta essere un’effettiva garanzia per la sicurezza, mentre una ramificazione più articolata e che preveda il coinvolgimento delle mi-
I cristiani caldei, gli assiri, gli yazidi e gli shabak sono ancora perseguitati dalle frange islamiche. La legge elettorale gli ha riconosciuto solo 6 seggi, a fronte di un seguito di 3 milioni di persone te vittime o più semplicemente restano più suscettibili alle criticità di area. In questo senso, sia sciiti che sunniti sembrano aver accettato di confrontarsi nell’agone politico. Questo, va detto, non significa che i contrasti di piazza - che troppo spesso sfociano in scontri a fuoco - saranno debellati al più presto. Tutt’altro, la sequenza di attentati all’inizio del mese, in occasione dell’Ashura, la festività sciita più importante, conferma che il confronto armato fra le due confessioni resta un problema aperto. Ciononostante, volendo seguire la distinzione canonica fra governo e opposizione, appaiono evidenti anche le evoluzioni di entrambi. Le elezioni di domani, infatti, sono una cartina di tornasole per il governo sciita di al-Maliki, per il suo operato, ma soprattutto per la sua sopravvivenza. La sua coalizione e nel suo interno il partito che fa direttamente riferimento al Premier, il Dawa, si sono rafforzati. Le ombre di Muqtada al-Sadr e dell’Esercito del Mahdi si sono diradate. Lo Scii, riposta da un lato l’accezione rivoluzionaria che lo faceva troppo vicino all’Iran, dimostra di accettare la spartizione territoriale per cui al Dawa spetta la leadership del governo nazionale, mentre esso controlla le province meridionali del Paese. Da un lato, si tratta di una distribuzione delle aree che somiglia molto - sebbene in modo informale - a
quella del Kurdistan, dove il Pdk dei Barzani guida il Governo Provinciale mentre l’Upk vede il suo leader Talabani Presidente della Repubblica a Baghdad. Dall’altra, resta in sospeso il dubbio sulla effettiva forza di al-Maliki nei meandri capillari delle realtà provinciali. Ed è per questo che le elezioni serviranno al governo per capire il consenso a sua disposizione, in proiezione del rinnovo del Parlamento, previsto alla fine di questo stesso anno. Nell’ambito dell’opposizione sunnita, una cosa è certa: la partecipazione dei Consigli del Risveglio nasce dalla legittimazione che il movimento ha accordato in favore delle istituzioni governative. Nel 2005, il
boicottaggio dei sunniti alle elezioni parlamentari fece da formale campanello d’allarme per lo scontro interconfessionale che si sarebbe sviluppato nel biennio successivo. Snobbando le urne, i sunniti non riconobbero la legittimità delle istituzioni volute dagli Usa e guidate dai loro nemici di sempre. Oggi sta accadendo l’esatto contrario. Sintomo, questo, che la strategia innovativa della surge, di aprire un contatto con le tribù sunnite non più vicine ad al Qaeda e disponibili al confronto, funziona. A sua volta, il nulla osta accordato dagli Stati Uniti al voto di domani - un “ok” che resta indiscusso retaggio dell’Amministrazione Bush - fa pensare
termini di tempo. Non è ancora sufficiente, infatti, che il controllo della sicurezza della provincia di al-Anbar sia passato ormai da mesi nelle mani degli iracheni e che la bonifica di Diyala sia in uno stadio positivamente avanzato. La violenza resta per l’Iraq un fenomeno quotidiano, che si manifesta non più soltanto in attentati suicidi, ma anche in episodi più individuali, in cui vittime e carnefici sono singoli cittadini. Il “regolamento dei conti”, insomma, è diventato una pratica usuale per il Paese. Un caso ancora più delicato è quello delle minoranze. I cristiani caldei, gli assiri, gli yazidi e l’ancor più ridotta comunità degli shabak sono oggi vittime della persecuzione religiosa da
Coprifuoco, chiusi valichi e aeroporti, stop alle auto. Gli Usa “cacciano” Blackwater
Paese blindato per 48 ore Domani, quando circa 15 milioni di iracheni saranno chiamati alle urne, in Iraq sarà festa nazionale, e anche domenica. Nel week end, inoltre, alle 22 sarà imposto il coprifuoco fino alle 5 del giorno successivo. Si tratta di misure che fanno parte di un piano disposto dal comitato per la sicurezza delle elezioni, che prevede anche la chiusura dei valichi di frontiera del Paese, degli aeroporti e dei passaggi tra le varie province dalle 22 di venerdì 30 gennaio alle 5 di lunedì primo febbraio, nonché la sospensione del porto d’armi per i privati.Nei due giorni saranno inoltre limitati i movimenti dei veicoli privati, tranne quelli che avranno
uno speciale lasciapassare, soprattutto in prossimità dei seggi, che saranno protetti da migliaia di uomini delle forze di sicurezza (intanto ieri gli Usa non hanno rinnovato la licenza alla società di sicurezza Blackwater nel Paese dal 2003 - su esplicita richiesta di Al Maliki, dopo che nel 2007 avevano aperto il fuoco contro la folla uccidendo 17 civili). Gli elettori saranno chiamati a scegliere tra oltre 14.400 candidati per 440 seggi dei consigli provinciali di 14 delle 18 province irachene. Rimangono fuori dalla consultazione le tre province autonome curde e quella della contesa città di Kirkuk.
noranze rischia di smembrarsi in seguito ai troppi interessi in gioco. Chiudiamo con le incognite. Una su tutte il Kurdistan, le cui ambizioni centrifughe sono alla luce del sole. La Regione autonoma curda, con le sue tre province che volutamente non partecipano alla corsa elettorale, sta guadagnando un livello di sviluppo economico e autonomia politica irraggiungibili, al momento, per il resto del Paese. Resta da sciogliere, poi, il nodo di Kirkuk, dove anche qui la popolazione domani non andrà a votare. Baghdad insiste nell’escludere questa provincia e i suoi sterminati giacimenti di petrolio dalla giurisdizione curda. Quest’ultima, invece, vorrebbe annettersela e così incrementare i già cospicui proventi della sua industria di idrocarburi. Infine il contesto internazionale. L’Amministrazione Obama si è detta disponibile per una politica di concertazione con tutti i governi mediorientali, Teheran incluso. L’iniziativa, giudicata positivamente, conferma il ritiro degli Usa dal Paese, fissato per il 2011. Questo però sarà possibile se il corso degli eventi non subirà stop improvvisi. Il 3 febbraio verranno resi pubblici i risultati del voto. Con essi, al-Maliki dovrà valutare se l’Iraq sia effettivamente sulla strada giusta per la sua pacificazione interna e per tornare a svolgere un ruolo di equilibrio nella regione. *Analista Ce.S.I.
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pagina 16 • 30 gennaio 2009
Strategie. Gli Usa lanciano l’allarme: si moltiplicano gli accordi fra Teheran e i leader del continente
L’Iran punta sul Sud America di Maurizio Stefanini Hugo Chàvez incontra Mahmoud Ahmadinejad durante una visita ufficiale in Iran. I due, che si conoscono da anni, si definiscono amici e in più occasioni hanno visitato l’uno il Paese dell’altro. Secondo il Pentagono, aumenta in questi giorni l’influenza iraniana nell’America meridionale, dove al governo ci sono leader sempre meno favorevoli a Washington. Il rischio, ha detto Robert Gates, è che si crei un fronte unico legato dal traffico di armi on è la Russia la vera minaccia per gli Stati Uniti nel cortile di casa latino-americano, ma l’Iran. Alla sua prima apparizione davanti al Senato nella nuova veste di segretario alla Difesa dell’amministrazione Obama, Robert Gates ha spiegato di essere «preoccupato per il livello di attività sovversiva che gli iraniani stanno portano avanti in una serie di località dell’America Latina, e specialmente in America del Sud e in America centrale». Negli ultimi anni si sono moltiplicati i contatti, gli accordi e gli scambi di visita tra Ahmadinejad e vari governanti radicali della regione: dal venezuelano Hugo Chávez al nicaraguense Daniel Ortega, all’ecuadoriano Rafael Correa e al boliviano Evo Morales. Come ha segnalato sempre Gates, «l’Iran sta aprendo una gran quantità di uffici e una gran quantità di fronti, dietro i quali sta interferendo in ciò che sta succedendo in alcuni di questi Paesi». In Argentina otto ex-funzionari della locale ambasciata sono stati accusati per l’attentato del 1994 contro la sede dell’associazione Mutualistica Israelita Argentina, che provocò 85 morti. Col Venezuela di Chávez c’è ormai un vero e proprio accordo di alleanza militare. In Bolivia l’Iran sta per installare una televisione con la benedizione del governo. Con Cuba c’è stata cooperazione a sabotare le emissioni radio-tv Usa. Secondo Gates, invece, la Russia non è così pericolosa. È vero: ha “alcune capacità” belliche che potrebbero suscitare allarme, e per mandare la prima volta navi a fare manovre fuori dal Paese dopo un decennio ha scelto proprio il mar dei Caraibi e due partner inquietanti come il Venezuela di Chávez e la Cuba dei fratelli Castro. Però la piccola flotta è arrivata senza copertura aerea, quasi a voler far capire che la mossa era puramente simbolica. E Gates ha detto addirittura
N
che se non ci fosse stata di mezzo la ruggine provocata dall’intervento russo in Georgia, a quelle navi sarebbe stato offerto di fare una sosta pure a Miami. Insomma, con Mosca la parola d’ordine è “smussare gli angoli”.
Tutt’altra cosa con l’Iran, il cui programma nucleare e i cui tentativi di accerchiare Israele attraverso Hezbollah e Hamas lo rendono un pericolo numero uno. In più, l’asse con Chávez crea un blocco pericoloso in sede Opec: tale da decidere infine George W. Bush e Obama la storica fuoriuscita degli Usa dall’era del greggio. E c’è pure il particolare che il Venezuela ha nella sua porzione di Amazzonia abbondanti riserve di uranio. Ma il Venezuela tramite la Citgo, controllata della società petrolifera di stato Pdv-
migrazione né di passaporti, e a Caracas l’entrata e uscita del velivolo sono sorvegliate direttamente dalla polizia segreta di Chávez. La lista dei passeggeri costituisce segreto di Stato, e sembra che per sei volte nei mesi recenti sia stato negato a giornalisti indipendenti la possibilità di viaggiare con quel volo, malgrado si fossero detti disposti a pagare qualsiasi prezzo fosse stato richiesto. In questo momento i servizi Usa starebbero investigando su un presunto complotto di Pasdaran e Hezbollah per sequestrare ebrei latino-americani e portarli in Libano.
Un’altra pista è il supposto traffico di armi russe, siriane e iraniane in favore della guerriglia colombiana delle Farc, malgrado le sanzioni stabilite in sede Onu sia contro le Nazioni Unite che contro le stesse Farc. Come è noto, proprio con l’accusa di operare in scambi droga-armi in favore delle Farc fu arrestato in Thailandia lo scorso marzo il noto mercante d’armi e ex-maggiore del Kgb Viktor Bout, prototipo del personaggio interpretato da Nicholas Cage nel film Lord of war. Furono proprio agenti della Dea a prenderlo, fingendosi uomini delle Farc, e spiegandogli di aver bisogno di «armi antiaeree per abbattere aerei statunitensi». Secondo il Dipartimento del tesoro Usa, ci sarebbe poi un diplomatico venezuelano di origine libanese di nome Ghazi Nasr al Din che sarebbe collegato a Hezbollah, e che starebbe utilizzando le ambasciate venezuelane in Medio Oriente apposta per lavare i soldi del “Partito di Dio”. Mentre Fawzi Kanan, anche lui cittadino venezuelano di origine libanese e proprietario di un’agenda a Caracas che organizza viaggi per il governo di Chávez, sarebbe l’incaricato di fornire agli uomini di Hezbollah documenti venezuelani, per potersi così più facilmente infiltrare negli Stati Uniti.
Uranio, petrolio, soldi riciclati, nucleare. E una nuova linea aerea che unisce Caracas e Teheran. È il giro di affari che unisce i nemici degli Stati Uniti, sotto la guida di Ahmadinejad sa, possiede inoltre negli Stati Uniti 14mila pompe di benzina, che consentono un’allarmante possibilità di infiltrazione in territorio Usa. E i timori su ciò che per questi canali potrebbe passare si manifestano di continuo. Solo la settimana scorsa, fu la Turchia a bloccare 22 contanier iraniani diretti in Venezuela che ufficialmente contenevano ricambi per trattori. Secondo alcuni esperti, però, quel materiale avrebbe potuto anche permettere di montare un laboratorio di esplosivi. Nel gioco entra anche la comunità libanese presente in Venezuela, nella quale è forte Hezbollah. Nel 2007 Chávez e Ahmadinejad si sono accordati per istituire un volo settimanale diretto tra Caracas e Teheran, via Damasco. Non c’è in nessuno dei due Paesi alcun controllo né di im-
in breve Ue, summit a maggio su gas La presidenza ceca (Vaclav Klaus) dell’Ue sta organizzando un summit all’inizio di maggio a Praga tra i leader dei Ventisette e i Paesi chiave per la realizzazione del “corridoio meridionale” tramite i gasdotti Nabucco e Itgi. Lo riferiscono fonti diplomatiche, indicando Georgia, Turchia, Azerbaigian e Kazakistan tra i Paesi presenti e spiegando che l’incontro avverrebbe a ridosso o all’indomani del vertice sul Partenariato per l’Est in agenda nella capitale ceca il 7 maggio. Il “corridoio meridionale” del gas tra l’Ue e il Caspio servirebbe a ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, evidenziata dall’ultima crisi tra Mosca e Kiev.
Nato, fuoco su narcotrafficanti in Afghanistan Uccidere i narcotrafficanti dell’Afghanistan anche se non si è in possesso di prove certe su un loro legame con i combattenti talebani. La proposta di uno dei più importanti comandanti della Nato, il generale americano John Craddock, spacca l’Alleanza e divide i vertici militari: molti generali, riferisce infatti il settimanale Spiegel, sarebbero contrari a un ordine che considerano illegittimo. La disputa è nata a proposito delle condizioni che consentono ai militari della coalizione internazionale di usare la forza contro coloro che sono identificati come “rivoltosi”. Con un documento classificato, di cui lo Spiegel ha ottenuto una copia, il generale Craddock ha trasmesso “una direttiva” alle truppe dell’Alleanza, che di fatto autorizza “ad attacchi diretti contro i produttori di droga e le loro strutture in Afghanistan”.
Parigi bloccata dallo sciopero La manifestazione di Parigi, organizzata da tutte le sigle sindacali tra la piazza della Bastiglia e quella dell’Opera, contro la politica del governo, ha riunito 65mila persone, secondo quanto riferito dalla prefettura della capitale francese. Da parte sua la Cgt ha stimato in un milione e mezzo il numero dei manifestanti dicendo che si tratta di una delle più grandi proteste di piazza degli ultimi venti anni.
mondo
30 gennaio 2009 • pagina 17
Ulster. La Commissione per la riconciliazione chiede di risarcire anche famiglie dell’Ira
Non c’è pace per l’Irlanda
isarcire anche le vittime paramilitari? Proposta indecente. In Irlanda del Nord si riaprono le ferite degli anni bui dei Troubles, quando i repubblicani dell’Ira si opponevano a suon di bombe ed omicidi alle forze dell’ordine britanniche provocando migliaia di morti. In realtà, l’obiettivo della commissione mista (cattolici-protestanti) per la riconciliazione era quello di rimarginare tali ferite una volta per tutte, ma l’effetto è stato esattamente l’opposto. Non piace a nessuno, infatti, la proposta di chiudere definitivamente i contrasti mettendo sullo stesso piano le vittime di entrambe le parti tramite il riconoscimento dell’indennizzo a tutti coloro che sono morti: sia i civili inglesi che i paramilitari repubblicani. Un’equiparazione che non va giù ai famigliari di chi ha perso la vita per mano dell’Ira, e così l’Ulster si ritrova di nuovo spaccata in due tra proteste, manifestazioni e un clima teso che potrebbe degenerare in ulteriori tensioni.
R
La commissione Consultative Group on the Past (Cgpi) ha stabilito che tutti i familiari degli oltre 3.700 morti, sia civili che appartenenti a gruppi paramilitari, del decennale conflitto nordirlandese “debbano essere risarciti”. Il rimborso per ogni vittima sarebbe di 12mila sterline (circa 13mila euro), una cifra che ovviamente, al di là del limitato importo quantitativo, viene vista come un affronto alla memoria e alla dignità di chi è morto sotto il fuoco dei paramilitari. Ancora una volta, il dilemma di fondo che viene riacceso con questa decisione è il seguente: chi sono i vinti e i vincitori degli anni dei Troubles, chi ha ragione e torto, chi sono le vere vittime? Se la commissione ha voluto da una parte equiparare tutti morti, dall’altra ha agitato le acque ponendo degli interrogativi sulla “natura”morale delle uccisioni di quelli anni. Insomma, chi sono i veri terroristi e le vere vittime? Da che parte stanno i carnefici della storia? L’indennizzo “pacificatore” non piace a nessuno degli schieramenti. I cattolici del Sinn Fein guidati da Gerry Adams puntano il dito contro il governo di Londra, affermando che Gordon Brown starebbe cercando in questo modo di nascondere il ruolo inglese nel conflitto per “ingraziarsi” così i parenti delle vittime. Il premier inglese, al momento, si limita a dire che analizzerà il rapporto con molta attenzione. Anche gli unionisti la pensano allo stesso modo. I familiari del blocco radicale
di Silvia Marchetti
tanto a titolo “simbolico”, ossia da considerare come un’azione verso chi ha sofferto. Durante i Troubles in Irlanda del Nord morirono oltre 3.500 persone, tra il 1966 e il 1988 i nazionalisti irlandesi si opposero all’esercito britannico per l’egemonia della regione. Infine, dopo una lungo periodo di sangue arrivò l’accordo del “Venerdì Santo” che sancì la fine delle ostilità e la rinuncia per l’Ira all’utilizzo delle armi per rivendicare l’unità dello Stato irlandese. Sta di fatto che ciononostante gli atti terroristici continuarono, l’ultimo risale al 2006.
Ieri per le strade di Belfast sono sfilati cortei con cartelloni che riportavano la scritta: «Il prezzo di un omicidio è di 12mila sterline». Guidati da Gerry Adams, i familiari delle vittime unioniste reclamavano che le ferite inflitte 40 anni fa sono ancora aperte. Insomma, i risultati ai quali è giunta la commissione per la pacificazione non piacciono a nessuno. La pubblicazione delle 190 pagine del rapporto era attesa da più di 18 mesi, durante i quali sono state condotte indagini e sono stati ricostruite le tappe principali di quegli anni terribili. L’obiettivo degli esperti presieduti dal’ex primate della Chiesa irlandese Lord Eames - è di arrivare a una giustizia universale per entrambe le parti interessate e di promuovere il recupero di informazioni mancanti per tappare i buchi della storia. Il recupero della memoria, appunto, sì ma di quale memoria? Quella dell’Ira o quella dei civili inglesi uccisi? Oltre agli indennizzi , è prevista anche la creazione di una comitato della durata di cinque anni che continui nell’opera di ricostruzione storiUna donna passeggia sotto un manifesto retaggio degli antichi scontri nell’Ulster, nella cittadina di Belfast. In basso, Gerry Adams, leader storico del cattolico Sinn Fein, che ha accusato il premier inglese Gordon Brown di cercare di nascondere il ruolo inglese nel conflitto per ingraziarsi i parenti delle vittime
Il rapporto stabilisce che tutti i familiari dei 3700 morti, sia civili che paramilitari, del decennale conflitto nordirlandese, ricevano un indennizzo di 13mila euro. Cori di proteste nel Paese contestano il fatto che donando a tutti la stessa cifra si equiparino vittime e carnefici. «Stanno per dare dei soldi a gente colpevole, se questo sia giusto o sbagliato? Io dico che è sbagliato! - dice un familiare. «Non appoggeremo mai una proposta che mira a confondere le differenze», ha dichiarato Peter Robinson, capo del Democratic Unionist Party e primo ministro dell’Irlanda del Nord.
A poco sono valse le rassicurazioni del gruppo consultivo, secondo cui la somma a risarcimento delle vittime è sol-
ca - fiancheggiato dall’unità speciale di polizia che si è sempre occupata di questo - e che sia guidata da una figura di respiro internazionale. Al momento non si parla della possibilità di concedere l’amnistia a chi dovesse confessare crimini passati. Forse in futuro ci potrebbe essere qualche forma di immunità e l’istituzione di una giornata delle memoria “collettiva”. Ma per ora l’indennizzo alle vittime paramilitari è più che sufficiente ad infiammare nuovamente l’Ulster riportando in superficie i fantasmi del passato.
cultura
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Bugie. Un convegno e (forse) una strada a Roma per ricordare l’uomo che nel 1927 fu accusato ingiustamente di pedofilia dalla polizia di Mussolini
Il Mostro del regime Gino Girolimoni, storia di una vittima predestinata da sacrificare nel nome della paura e della sicurezza di Pier Mario Fasanotti er gli abitanti di Roma era “er mostro”. Di mezz’età, inafferrabile, violentatore e uccisore di bambine. Un incubo, che però fece comodo al regime fascista. Mussolini colse al volo l’occasione per dimostrare che il problema della sicurezza pubblica era prioritario, altro che libertà di stampa e altre panzanate democratiche! La polizia mostrò i muscoli, in perfetta sintonia col mito della virilità dei Fasci di Combattimento. Ma sintonia fu completa, visto che di muscoli si trattava e di poco cervello: indagini sbagliate, furiosamente sbagliate, tutte tese a mettere in gattabuia qualcuno, poco importa se innocente o no. Correva l’anno 1924. Il deputato socialista Giacomo Matteotti fu sequestrato, poi trovato ucciso, guardacaso in giorni di vacanza piena, tanto per non far troppo chiasso. Ed ecco che l’uomo di Palazzo Venezia, «quer gallinaccio co la faccia fanatica a Palazzo Chiggi», per dirla con Carlo Emilio Gadda, se la prese con tutti coloro che erano in odore di sospetto: per non essere fieramente virili, perché facevano smorfiette al regime, perché criticavano gli uomini in divisa e in orbace, perché osavano, addirittura, dar consigli investigativi mettendo alla berlina lo scompigliato agitarsi dei manipoli freschi di governo. Un’occasione d’oro per il «mascellone»: ci penso io alla vostra tranquillità, però in cambio firmate la cambiale (politica) in bianco. E la città che s’apprestava a far da fondale all’Anno Santo del 1925 tremava «de paura», a tal punto che - cito sempre Gadda - «pe le strade de Roma non se vedeva più in giro na mignotta, de quelle co la patente».
P
Strano ed emblematico caso, quello del mostro. Oggi a Roma si tiene, all’aula Wolf della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza, un convegno (con la novità di un premio giornalistico) sui pericoli insiti nell’additare frettolosamente un colpevole, con stampa e opinione pubblica interamente asserviti alla paura certamente, ma soprattutto a chi namipola ad arte la paura e
tappa le bocche tenendo alto il vessillo del totalitarismo. Per i dissidenti cronici era pronta la patente di pazzo, o un’esemplare fucilazione. Come in Unione Sovietica. Al convegno di oggi parleranno giornalisti ed esperti. Ma che si poteva fare a quei tempi? Qualcosa i giornali fecero, rimarcando, per esempio, che le indagini poliziesche avevano preso la strada sbagliata e s’accanivano contro i poveracci
ti del mondo, in Cina e in alcuni paesi dell’Islam, per esempio: siccome di soprusi e di violenze non se ne parla, questi non esistono, semplicemente.
Torniamo al mostro. «In un pomeriggio qualunque della primavera…», così si leggeva in un quotidiano. Era il 31 marzo del ’24, il sole non era ancora del tutto calato, a Roma. La signora Caterina Farroni, proprietaria di un orto ai piedi del Monte Mario, avverte un suono strambo provenire da dietro una siepe. S’avvicina e vede una bambinetta disperata che barcolla tenendo in mano le sue mutandine. Al collo ha un fazzoletto, legato come se qualcuno abbia voluto strangolarla. Si chiama Emma Giacomini, ha sette anni. Poco prima giocava ai giardinetti di piazza Cavour. Proprio davanti al Palazzo di Giustizia. Testimonianze: «Un signore, di più di 50 anni, d’aspetto distinto, dal viso scarno, snello, alto circa 1,70, vestito di un paletot scuro e con cappello nero» l’ha condotta verso la siepe. Lì la polizia trova una “cara-
Qui accanto, una manifestazione fascista a Roma negli anni Venti. Qui a sinistra, Gino Girolimoni da vecchio. Sotto, Giacomo Matteotti e Benito Mussolini. Nella pagina accanto, la locandina del film sul mostro di Roma interpretato da Nino Manfredi
È Bianca Carlieri, non ancora quattro anni. Sì, certo, era proprio “la Bocchetta”, nominata così perché buona e docile. Con un solo sandaletto al piede procedeva tenendo per mani un “signore” vestito di grigio, mai visto prima nel quartiere.Varie te-
Tutto cominciò nel 1924 in concomitanza con l’omicidio di Matteotti: il Duce aveva appena messo il bavaglio alla stampa, ma voleva anche distrarre l’opinione pubblica: che cosa c’era, di meglio, di un caso di cronaca nera? dei quartieri poveri. Poi basta, tutti zitti perché venne varata la normativa che aboliva la libertà di stampa. Mussolini, davanti ai direttori delle principali testate italiane, parlò chiarissimamente: «La stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime; in un regime unitario, la stampa non può essere stranea a questa unità. Ecco perché tutta la stampa italiana è fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio». Risultato: via dai giornali tutti i fatti e fatterelli di cronaca nera, il paese doveva trasformarsi in un giardino dell’Eden. Via pure dalle colonne di piombo gli scioperi, gli attentati, le disgrazie e tutto ciò che poteva fornire spunto per essere inquieti e per domandarsi se davvero gli obiettivi erano raggiunti. Un teorema semplice, valido ancora oggi in varie par-
mella di Torino”acquistata poco prima in una drogheria delle vicinanze, e un bottone d’osso bianco che appartiene a un paio di mutandoni maschili. Ricovero all’ospedale San Giacomo. Emma presenta contusioni ed escoriazioni ai genitali e al collo. Si viene a sapere che la bimba s’è messa a gridare, salvandosi così.
Due mesi dopo in piazza Cesarini Sforza (centro di Roma), due donne strappano una bambina di due anni dalle braccia di un “bruto”. Descrizioni: «signore quarantenne, vestito bene, di grigio scuro, con cappello floscio, piuttosto alto, snello, portava piccoli baffi». A giugno, la tragedia.Valeria, una dodicenne sveglia di mente, vede la bimba che tutti, in via del Gonfalone, conoscono come la “Bianchina”.
stimonianze al commissariato, non tutte coincidenti salvo che per il cappello floscio. La notizia della scomparsa la dà solo il Nuovo Paese, foglio d’opposizione e di modesta tiratura. Il giorno dopo un altro giornale
strillava: «Orrendo delitto di una belva umana!». E poi un titolo che gronda inchiostro e sdegno:«Rapisce una bimba di quattro anni e la strangola dopo averne fatto scempio». Su Epoca si legge: «Sentiamo di non essere né difesi né garantiti… forse l’assassino di Bianca Carlieri ci sfiora nella ressa o è seduto davanti a noi in trattoria o al cinematografo… questo ci fa impazzire di sgomento e di terrore». Era successo questo: nei pressi della Basilica di San Paolo fuori le Mura, lungo una scarpata erbosa, una donna che raccoglieva cicoria si trovò davanti il corpo nudo di una bambina, lacera e sanguinante. Ci sono tracce di soffocamento. I periti medici diranno che fu violentata e che la morte era sopravvenuta per choc traumatico.
Funerali sotto una pioggia fitta. Scriveva Il Messaggero: «Nell’immensa onda di pietà si sentiva pulsare tra la folla l’istinto di vendetta». Molti gridano “morte all’infame”, mentre il corteo sta per arrivare al Verano. Si scatenano le forze dell’ordine, dando colpi di qui e di là, ma tutti all’aria. Il signor Pellegrini, ex carabiniere poi passato a fare l’investigatore privato (specializzato in tradimenti coniugali), punta il dito contro un malato di mente, Francesco Imbardelli. Il po-
cultura
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l’auto e afferrarono il deputato Matteotti, caricandolo a forza in macchina. Il regime assume il volto della giustizia equa, avvia indagini. Anche se sa benissimo che a rapirlo era stato il manipolo capeggiato da Amerigo Dumini, squadrista stipendiato dalla Presidenza del Consiglio. La magistratura deciderà di non incriminare il Duce. Il togato Mauro Del Giudice e il suo collaboratore furono poi “promossi” e spediti nella tranquilla Corte d’Assise di Chieti. Dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti, re Vittorio Emanuele III non smentisce il “coraggio” dei Savoia affermando: «Sono cieco e sordo. I miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato». Si defilò, come lo farà poi nelle ore più drammatiche dell’Italia. I sovrani provenienti da Torino sono sempre stati abili nell’indietreggiare.
Alla ricerca di un colpevole, fu accusato un uomo poi ritenuto innocente. Lui finì la vita in povertà e il poliziotto che ne dimostrò l’estraneità fu prima rimosso e poi chiuso in manicomio veretto si addossa la colpa.Trovato “er mostro”? Manco per idea: il direttore del dormitorio di via Flaminia giura che Francesco dormiva alla grossa, quella sera del 4 giugno. I giornali insistono su «febbrili indagini» per rendere giustizia al «grande cuore di Roma». Intanto la Camera vota la fiducia al governo Mussolini, malgrado Matteotti continui a sbraitare su irregolarità nelle elezioni che hanno portato i fascisti alla plancia di comando. Sul Popolo d’Italia, giornale del Duce, s’era già letta (nel ’23) la condanna del socialista: «Quanto al Matteotti, volgare mistificatore, notissimo vigliacco e pregevolissimo ruffiano, sarà bene che egli si guardi! Che se dovesse capitargli di trovarsi, un giorno o l’altro, con la testa rotta (ma proprio rotta!)… non sarà certo in diritto di dolersi, dopo tanta ignobiltà scritta e sottoscritta». E Matteotti, dopo il discorso del 30
maggio 1924, a coloro che si complimentarono per il suo coraggio politico, rispose: «Grazie, ma ora preparate la mia commemorazione».
A rileggere le parole del quotidiano ducesco viene naturale richiamare alla memoria una ugualissima condanna a morte a mezzo stampa, quella di Lotta Continua degli anni Settanta. Vittima: il commissario Luigi Calabresi. Ci vorranno più di trent’anni prima che qualcuno, coccolato come intellettuale e leader di raffinata (sic) ideologia, vergognosamente sublime nei vari distinguo, dicesse mah, sì, forse abbiamo esagerato, insomma… non si doveva… Ci siamo capiti.
Il 10 giugno 1924, verso le 16, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia cinque uomini scesero dal-
E il mostro “de Roma”? All’inizio, come ho già accennato, la stampa striglia i segugi in divisa e grida a un «errore di tattica». Troppo facile indagare tra vagabondi e miserabili, visto che le testimonianze avevano indicato con precisione «una persona d’aspetto civile». A seminare terrore era sempre «un signore attempato, dall’apparente età di 50 anni» che gettava occhiate nervose nel quartiere della Balduina. Un muratore raccontò di aver visto «un signore» che trascinava una bambina (era Rosina Pelli, trovata poi senza vita), la quale piagnucolava: «Porteme a casa… nun ce vojo sta più…». Mussolini intanto tuonava: «L’Italia vuole pace e tranquillità e le avrà, con la forza se necessario». Assicurazioni vane: il mostro continuerà a colpire. L’ultima preda (di sette, in tutto) fu trovata in uno scantinato in via delle Vacche, quartiere Ponte. Alcuni esclamarono: «C’è una bambola, laggiù». In un lago di sangue c’era invece Armanda di cinque anni, seminuda, con graffi e ferite in tutto il corpo. Era la sera del 12 marzo 1927. L’autopsia confermò che era stata violentata. Il questore Angelucci ebbe sulla scrivania «una buona descrizione» dello stupratore. E la mattina del 9 maggio 1927 arrivò la tanto attesa notizia: “er mostro”era stato catturato, «dopo una lunga serie di appostamenti e osservazioni». Si chiamava Gino Girolimoni, nato a Roma il primo ottobre del 1889, commerciante in vari settori, proprietario di appartamenti nei quartieri di Borgo e di Ponte, luoghi di delitti. Gino era di padre ignoto e di madre che abi-
tava a Ginevra assieme a un giovanotto di 38 anni, decorato in Libia.Viveva in una camera ammobiliata a Prati di Castello, sceglieva abiti un po’provinciali e apparentemente ricercati, scorazzava al volante di una Peugeot verde. Lo conoscevano come “il sor Gino”. Pochi e confusi indizi contro di lui, ma bastevoli a far contento il regime alla ricerca di un capro espiatorio. I giornali intanto titolavano «Vendetta!».
Finita l’epoca degli arresti facili e sbagliati, tra cui un sacrestano con fama di pedofilo. Uno degli accusati, un vetturino di piazza, s’ammazzò per la vergogna. Non fu semplice, come si avrebbe voluto, incastrare il Girolimoni: il giorno della morte della piccola Armanda lui non era nemmeno a Roma. La sua colpa era l’aver corteggiato alcune giovani donne, tra cui una tredicenne. Ma un apparato intero si scagliò contro di lui. Anche il lombrosiano Samuele Ottolenghi, criminologo, che ravvisò nel volto di Gino «i segni caratteristici del criminale». Ma ci fu l’onesto e scomodissimo commissario di Pubblica Sicurezza Giuseppe Dosi che smontò pazientemente e con una tenacia ammirevole le cosiddette prove, che poi prove non erano per niente. Girolimoni venne prosciolto «per non aver commesso i fatti». La notizia passò sotto silenzio. Un giornale romano, La Tribuna, gli dedicò un trafiletto a pagina quattro. In ogni caso l’esistenza di Girolimoni fu sconvolta. Non ebbe alcun indennizzo per l’ingiusta accusa. Il suo nome diventò nel Lazio addirittura un modo di dire, a indicare «stupratore e uccisore di bambine». Gino, uscito di galera, perse a poco a poco il suo discreto patrimonio. Cercò di tirare a campare riparando biciclette o facendo il ciabattino nei quartieri popolari di San Lorenzo e Testaccio. Morì poverissimo nel 1961. Il commissario Dosi venne, subito dopo la sentenza, allontanato dalla polizia e addirittura internato in manicomio in quanto colpevole di aver privato il regime del“mostro”. Fu reintegrato nella Pubblica Sicurezza solo dopo la caduta del fascismo. Poi la promozione, poi operazioni brillanti. La colpa grave di Dosi era la sua lucida onestà di investigatore, assieme al sospetto che nutriva, ossia che il vero mostro fosse un anglicano inglese, già accusato per pedofilia. Troppo sconveniente quella pista per un Mussolini che s’apprestava a firmare i Patti Lateranensi. S’è formato da pochi mesi un comitato che si batte perché a Girolimoni sia intestata una via di Roma. Nobile e candido intento, ma non bastano le vie di dieci quartieri della Capitale a testimoniare l’asservimento di polizia, giornali e magistratura al regime fascista.
pagina 20 • 30 gennaio 2009
cultura
Ritratti. Un documentario riabilita la figura enigmatica di Gustavo Rol, il “mago” che conquistò Fellini, Einstein e De Gaulle
Il “gentiluomo dei misteri” di Marino Parodi A fianco, il misterioso Gustavo Rol in un’immagine tratta dal sito “gustavorol.it”. In basso, tre dei suoi più famosi estimatori: Charles De Gaulle, Albert Einstein e Federico Fellini
n bel film documentario, Un mondo dietro al mondo del regista Nicolò Bongiorno, disponibile anche in dvd, ripropone all’attenzione la grande e discussa figura di Gustavo Rol, universalmente percepita come misteriosa, da molti pure come inquietante. In realtà, se proviamo a considerare la vita e l’opera del personaggio alla luce di tante (e ancora ben poco note al grande pubblico) e fondamentali scoperte scientifiche dell’ultimo secolo, l’inquietudine sparisce per lasciar posto a una grande fiducia nelle potenzialità umane. Assurdo e patetico - per lo più dettato dalla paura di dover buttare all’aria comodi schemi pseudoscientifici, su cui non di rado poggiano posizioni di potere ben consolidate - il tentativo dei suoi detrattori di farlo passare per un astuto millantatore.
U
Risulta a dir poco improbabile che personaggi, pur diversissimi tra loro come Dino Buzzati, Charles De Gaulle, Federico Fellini, Giuseppe Romiti, o addirittura Albert Einstein - per non citare che una manciata tra le innumerevoli figure di spicco della scienza, della cultura e della politica internazionale, le quali, dopo aver conosciuto a fondo Rol, testimoniarono pubblicamente a favore dell’autenticità dei carismi del gentiluomo torinese, dei quali si erano abbondantemente avvalsi - si siano lasciati turlupinare come poveri allocchi. Ancor più improbabile che tutti questi protagonisti dello scenario mondiale abbiano ordito una gigantesca congiura per accreditare l’immagine di «uomo dai poteri misteriosi e straordinari», di questo gentiluomo vecchio stampo, cattolico fervente, nato e vissuto a Torino ma di famiglia norvegese, aristocratica al punto da vantare tra gli antenati qualche testa coronata, pittore, coltissimo, plurilaureato, poliglotta, ricco al punto da poter vivere agiatamente di rendita e di aiutare largamente i bisognosi, al li dà della propria attività di pittore, passato a miglior vita novantaduenne nel 1994 dopo aver dedicato l’esistenza alla propria missione. «Bisogna viverlo quel momento in cui, assente ogni forma di energia, qualcosa di veramente sublime si manifesta. Che cos’è allora che l’uomo percepisce? Che cosa gli viene rivelato in quell’attimo di profonda intuizione che sembra non avere fine, ove s’accorge di non essere più la creatura terrena legata a scelte che lo condizionano, ma un Essere della cui immortalità è divenuto improvvisamente cosciente?». Queste parole, scritte dal “Vecchio” (così lo chiamavano gli amici intimi), racchiudono forse, a un tempo, il “segreto di Rol” nonché il significato profondo della sua missione: lo straordinario potere della mente e l’energia che sta alla base dell’intero cosmo. La fisica di indirizzo quantistico è arrivata a constatare che ciò che chiamiamo “materia” altro non che è la dimensione più volubile e inconsistente di un universo enormemente più ricco e complesso - non a caso
La mente “dai poteri straordinari” era un cattolico fervente, nato e vissuto a Torino ma di famiglia norvegese aristocratica, pittore, coltissimo, plurilaureato, poliglotta questi scienziati parlano di “mondi paralleli”- del quale i nostri sensi non percepiscono che una piccolissima parte. Alla base dell’intero cosmo non vi è affatto la materia, bensì “energia”, della quale il pensiero costituisce una espressione particolarmente potente. Non a caso, è stata ancora una volta la fisica quantistica a dimostrare come, in sostanza, il fenomeno rigorosamente “oggettivo” non esista, giacché questo si trasforma a seconda della posizione assunta dall’osservatore, le aspettative del quale giocano un ruolo non trascurabile.
Il che equivale a dire che il pensiero influenza in maniera determinante la realtà: fenomeno ben noto alla psicologia moderna, la quale parla appunto del “potere di attrazione della mente”, in base al quale, più noi siamo convinti del verificarsi di un determinato evento, più diventa probabile che questo effettivamente si realizzi. Alcuni scienziati si spingono sino al punto di affermare che, in realtà, “impossibile” è soltanto ciò che, stando a quanto al momento all’osservatore è dato sapere, non risulta che l’evento si sia ancora verificato (da ciò a dire che “il pensiero crea la realtà”, come giungono a sostenere ormai non pochi ricercatori, il passo è breve). David Bohm, fisico quantistico docente alla “University of London” e Karl Pribram,
neurofisiologo della Standford University, si esprimono ad una voce in questi termini: «Si pensava che la materia, concepita per secoli come una massa grezza o bruta, fosse uno spaventoso, oceanico agglomerato di sostanze inerti e inanimate, invece scopriamo che l’Universo è tutto Pensiero e che la Realtà esiste solo in ciò che pensiamo». La realtà è in sostanza fondamentalmente coscienza, insomma, la quale non ha sede nel nostro cervello, ma «in una dimensione onnicomprensiva e addirittura istantanea, non temporale», per dirla col fisico Vittorio Marchi. Un immenso continuum, dove esiste solo l’eterno presente.
Ora, Rol non si stancava mai di esortare a studiare il significato e le ragioni profonde dei fenomeni prodigiosi che si verificavano attraverso di lui, considerando inutile fermarsi all’aspetto eclatante. «Se ci abituiamo a considerare tutto ciò di cui siamo autori o spettatori sotto un’angolazione spirituale», dichiarò il “gentiluomo dei misteri” in una intervista a Renzo Allegri, una delle pochissime da lui concesse, «scopriamo in noi e in quanto ci circonda, la nostra vera natura, quella divina; per questa via possiamo e dobbiamo identificare tutte le infinità possibilità offerte dalla creazione». Se il pensiero crea la realtà, ça va sans dire che tali possibilità sono smisurate. Non pare nemmeno troppo azzardato ipotizzare, in tale contesto, come alcuni suoi conoscitori sostengono, che Rol a tal punto si sia spinto nella penetrazione della possibilità offerte dalla coscienza da scoprire nientemeno che la “chiave d’accesso alla materia”. Stando ad alcune testimonianze, addirittura il citato Einstein avrebbe assistito a un esperimento del genere, ad opera di Rol e avrebbe poi applaudito come un bambino, emozionato e felice. Se poi identifichiamo - come per lo più fanno gli scienziati di questo nuovo orientamento - Dio col continuum di cui sopra, o quanto meno riconduciamo a lui quest’ultimo, ecco che il discorso di Rol, secondo cui tutti possiamo avere accesso a questa dimensione eterna e infinita, quasi si trattasse di un libro aperto o di un viaggio, diventa coerente con la fisica quantistica e con altre branchie della nuova scienza. Non a caso Rol considerava quei doni “straordinari”- chiaroveggenza, profezia, la“bilocazione”, il“viaggio astrale”, i “viaggi nel tempo”, la guarigione ed altro ancora - alla ricerca dei quali migliaia e migliaia di uomini e donne, conosciuti e sconosciuti, vennero per decenni ricevuti dal Vecchio nel corso della sua lunghissima esistenza, potenzialmente accessibili a tutti. A quanto pare era in ottima compagnia, giacché fior non soltanto di fisici, ma anche di psicologi, biologi e di scienziati di svariate discipline nel mondo intero sono da tempo, nella sostanza, d’accordo con lui.
spettacoli
29 gennaio 2009 • pagina 21
ROMA. Se siete degli inguari-
dagnare come fosse il testimone che da diritto alla parola.
bili romantici, se la parola teatro è per voi sinonimo di drappi rossi e pesanti velluti, se la rarefazione di alcuni allestimenti vi rende insofferenti e vi lascia insoddisfatti, se non vi siete ancora ripresi dalla perdita dei grandi mattatori della scena, l’appuntamento da non perdere è con il Don Chisciotte di Franco Branciaroli. Lo spettacolo ha debuttato in prima nazionale il 27 gennaio al Teatro Argentina della capitale dove resterà in scena fino a domenica 8 febbraio, a seguire sarà in tournée in varie città italiane.
Il testo narra le mirabolanti avventure del nobile cavaliere della Mancia don Chisciotte innamorato della dolce Dulcinea e del suo fedele scudiero Sancho Panza. Di per sé immenso e irrappresentabile nella sua superba interezza (parliamo di quasi mille episodi contenuti in mille pagine) viene qui utilizzato come un ipotetico involucro ideale, una sorta di cappello magico da cui estrarre o solamente far baluginare schegge del capolavoro di Cervantes. Un evento sui generis in cui il titolo viene preso in prestito per contenere un materiale umano e letterario ben più vasto, oltre che teatrale. Quello a cui assistiamo è un sogno, un formidabile incantesimo, un irriverente, grandioso gioco d’azzardo in cui tutto e il contrario di tutto è permesso. Un ring su cui possano scendere in campo, ben inteso godendo di ogni possibile conforto, due titani della scena italiana del Novecento: Vittorio Gassman e Carmelo Bene. Il primo nominato dall’onnipotente Branciaroli fresco cavaliere, il secondo nel ruolo dello scudiero che tutti conosciamo. In pratica Branciaroli ipotizza, e la scenografa Margherita Palli con bella inventiva concretizza, un luogo non luogo, un territorio neutrale, un al-
Da questa postazione ci giungeranno i versi del quinto canto della Divina Commedia scelta di comune accordo per la sfida delle sfide. Da qui risuoneranno le maestose sonorità di Gassman contrapposte alla voluttuosa dizione barocca di Bene. Quando il gioco si fa duro fa la sua comparsa in scena sua maestà il microfono, il mitico asenauer, l’oggetto feticcio inseparabile complice di Bene.
Teatro. Franco Branciaroli rilegge Cervantes imitando i due grandi istrioni
Sembra Don Chisciotte sono Gassman e Bene di Enrica Rosso dilà terribilmente umano, una stanza dei giochi per adulti compressa tra due immensi drappeggi in cui troneggia la sagoma stilizzata e sghemba di un mulino a vento che al posto delle pale esibisce ai due lati un tavolo-bar, paradiso degli alcolisti, che fa pensare al luciferino privèe di un lussuoso night club a cui dissetare la propria ansia rispetto a quesiti cruciali dei sempre autoreferenziali artisti (tipo chi è più bravo di chi) rimasti insoluti causa passaggio a miglior vita. Avvalendosi quindi dei van-
I due eroi evocati a turno prendono il sopravvento in una scenografia che richiama la Mancia del passato e il privè di un bar di lusso
taggi maturati con il decesso, con la complicità liquorosa “del biondo amico della notte” l’uno e di quel certo whisky l’ altro, «tanto in paradiso i trigliceridi rimangono uguali anche se trinchi un po’ di più» i due istrioni a turno prendono il sopravvento. Li accoglie e sostiene un’unica rossa poltrona-pulpito da gua-
Un’immagine di Franco Branciaroli durante la rappresentazione del suo Don Chisciotte. Un omaggio non retorico a Vittorio Gassman e Carmelo Bene
Incalzano le scelte musicali di Daniele D’angelo a contrappuntarne i ritmi e le cadenze, le luci di Gigi Saccomandi investono il palcoscenico da ogni possibile angolazione giocando cromatismi sofisticati che sembrano citare Andy Warhol piuttosto che Mark Rothko e che regalano vita propria all’impianto scenico. Sfalsandone le profondità e mettendolo continuamente in discussione creano un senso di gravità alterata molto suggestivo. E il grande teatro rivive attraverso il talento immortale dei due eccellenti cavalieri della scena filtrati dalla sensibilità dell’interprete che li partorisce. Inutile negare, l’operazione è ardita. Branciaroli, elegantissimo, vi si dedica con fervore e cognizione di causa forte del suo carisma personale e delle straordinarie qualità vocali che lo rendono duttile strumento al servizio di ogni suo capriccio d’interprete (nel 2006 si era divertito a mettere in scena una versione molto apprezzata del Beckettiano Finale di partita in cui il suo Hamm indossava la veste vocale del doppiatore italiano dell’ispettore Clouseau). «Si imita per dichiarare ciò che si è preso in prestito» ci rammenta il regista suggerendoci una riflessione su questa epoca cosi travagliata e poco vivace in cui ogni sforzo è per dare un nuovo abito al déjà vu. Lui, da parte sua, fa atto di umiltà e si inchina con affetto di fronte a questi due giganti che hanno dato vita a interpretazioni più o meno riuscite, comunque sempre spettacolari, dandosi anima e corpo, prendendosi il rischio di andare oltre per esplorare nuove dinamiche e finendo forse per incistarsi nei loro propri microcosmi rimanendone isolati, irraggiungibili. Indiscussi astri del firmamento teatrale.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
al Hayat del 25 gennaio
La finta vittoria di Hamas di Mohammad Salah itigare, nel mondo arabo, è quanto di più facile possa esistere. Lo scontro tra l’Autorità palestinese e Hamas, su come dovranno essere gestiti i fondi della ricostruzione di Gaza, non è il primo e non sarà l’ultimo. Fino a che le due parti avranno interessi divergenti, le divisioni fra palestinesi rimarranno immutate. Ciò è ancora più vero alla luce del fatto che Hamas stia cercando di contrabbandare come una vittoria l’ultimo conflitto nella Striscia, mentre l’Autorità palestinese voglia sottolineare come, invece, Hamas ne sia stata la causa, non dunque una vittima.
L
Tanto è vero che la riconciliazione, ottenuta sul filo di lana dell’inizio del Forum economico dei Paesi arabi in Kuwait (che si è svolto a metà gennaio, ndr) non ha avuto alcuna influenza sulle dinamiche interpalestinesi. L’approccio di molti Paesi sulle questioni regionali, segnatamente quella palestinese, e soprattutto le loro rivalità, non sembrano cambiate. Durante la riunione dei ministri degli Esteri - in seno al Forum - il giorno dopo, e poi nella fase finale delle dichiarazioni conclusive, sono affiorate divergenze e contrasti su numerosi argomenti. Le dimensioni dei contrasti fra gli stati arabi danno la misura di come i diversi interessi, le alleanze e le divisioni incidano ancora i rapporti nel mondo arabo. Infatti a conclusione del summit non si è riusciti a stilare un documento comune che potesse essere sintesi politica. Un binario su cui poter instradare il dialogo per la ricostruzione di Gaza. Alla base delle preoccupazioni e degli equilibri interni al mondo arabo, le modalità della ricostruzione nella Striscia e anche del suo governo futuro, non sono così importanti, come invece sono quelle legate ad altre issue regionali. Come l’impatto che potrà avere il tribu-
nale internazionale che si occupa dell’uccisione del leader libanese Rafik Hariri, sugli equilibri mediorientali. La vicende sul nucleare iraniano e le condizioni politiche che si determineranno in Iraq, sono altri argomenti di preoccupazione per il mondo arabo, così come il conflitto in Sudan e anche la pirateria lungo le coste della Somalia, rivestono una maggiore importanza rispetto al futuro di Gaza: su come possa essere amministrata e da chi. I retroscena mediorientali sono più influenzati dai rapporti che Teheran può instaurare con un Paese piuttosto che un altro e dalle invidie che queste relazioni creano, di conseguenza, anche fra gli altri Stati del Meshraq. Ora Hamas sta tentando di convincere alcuni suoi sodali di aver conseguito una vittoria contro Israele, perché sembra che non tutti i suoi alleati ne siano coscienti. Per non dire dei suoi oppositori interni. Nella gestione del dopo-conflitto a Gaza, Hamas sta andando sopra le righe, per cercare di cementare il consenso, dimenticando che ci sarebbero ben altri argomenti da poter utilizzare, sia nei rapporti interpalestinesi che in quelli col mondo arabo. Uno di questi punti è la pervicacia con cui il movimento vuole riportare e mantenere a un livello minimo le capacità militari dell’organizzazione. Per tenere, anche in futuro, Israele sotto la minaccia dei missili e degli attacchi suicidi. Il movimento di resistenza islamica che sta intanto negoziando la tregua con i rappresentanti dell’intelligence egiziana, farebbe meglio a dismettere i panni di combattente e difensore della causa palestinese. Un ruolo che svolge senza curarsi troppo delle
conseguenze delle proprie azioni. E’ chiaro che ogni dialogo futuro sull’assetto, non solo di Gaza, ma di tutti i territori palestinesi, vedrebbe i partecipanti tenere conto della forza o della debolezza di un attore come il movimento islamico.
Allo stesso modo l’Autorità palestinese, che continua a lanciare accuse contro Hamas, non riuscirà per questo a frenare il costante declino del movimento di Fatah. Si può quindi affermare che lo scenario arabo sia un riflesso delle dispute palestinesi e che il conflitto palestinese rifletta le rivalità interne ai Paesi arabi. Mano a mano che le dispute su Gaza crescono, così il mondo arabo prende posizione su ciò che non condivide, in una maniera che fa crescere i problemi a valanga. Così il prossimo vertice di Doha rischia di trasformarsi nel summit delle “rivalità”, dopo il mezzo fallimento del Kuwait che avrebbe dovuto essere la conferenza della “riconciliazione”.
L’IMMAGINE
Antonio Di Pietro finirà sicuramente col “giustiziare” anche se stesso Antonio Di Pietro ha esagerato. Ma non per il motivo che dicono un po’ tutti: ossia perché non si critica il Capo dello Stato, bensì perché le critiche al Presidente della Repubblica sono in sostanza la stessa contraddizione del dipietrismo. Che cos’è il dipietrismo? È la politica del giustizialismo. Il Capo dello Stato è il primo magistrato d’Italia. Come è possibile allora che l’ex pubblico ministero Tonino di Di Pietro diventi il nemico del primo magistrato d’Italia? Sono questi i limiti vistosi dell’ideologia dipietrista, che dovendo criticare e sospettare sempre tutto e tutti, alla fine non può che scagliarsi contro se stesso. Non ci meraviglieremmo infatti se il prossimo bersaglio del leader dell’Italia dei valori diventasse il suo stesso partito. Anzi in alcuni casi è già avvenuto: con le critiche al figlio Cristiano e con la presa di distanza da alcuni suoi deputati e senatori. Alla fine il giustizialismo mangia i suoi stessi figli.
Marco Sebastiani
UN UNICO CAPPELLO DA INDOSSARE, IL LORO Ogni testa vuole il suo cappello, diceva Elsa Schiaparelli. Proprio quello che pensano da sempre i nostri intellettuali di sinistra e i loro reggiborse cattocomunisti in cattedra nelle scuole e università pubbliche. La cultura italiana non va plasmata ed egemonizzata. Non è bello che tutti indossino e sfoggino lo stesso cappello. «I cappelli siano tanti e diversi. A ciascuno il suo cappello, e viva la differenza».
Pierpaolo Vezzani
IN ATTESA DI UN ANNO MIGLIORE Dopo le preghiere islamiche sui sagrati delle chiese cattoliche, le sconcertanti prediche di alcuni preti italiani, le lezioni di storia a senso unico nelle scuole e nelle
università pubbliche, i cortei e le sfilate pro Palestina libera e contro gli ebrei, gli americani e Israele a Roma. Ma l’indirizzo più cool resta la Rai, con la trasmissione Annozero, dove si esibiscono il gotha dei sinistrorsi con la kefiah che rivendicano ed esibiscono, con forza rituale, il loro antico lignaggio, i cattocomunisti del Pd, umili depositari della politica mediterranea e antiamericana, e gli spregiudicati grilli parlanti filo terroristi arabi. Lì il relativismo, l’antiatlantismo, l’accoglienza dei violenti e la sottomissione agli estremisti vanno per la maggiore. E si balla fino all’alba, con passione, alla conquista di consapevolezze più profonde, aperte e nuove, con l’appoggio dei centri sociali, della sinistra extraparlamentare, di alcuni banchieri e imprenditori e di Massimo D’A-
Souvenir pericolosi Se andate alle Hawaii, non esagerate con i souvenir. È meglio lasciare dove sono, per evitare la iella, sabbia, conghiglie e lapilli di lava. Pele, la dea locale dei vulcani, è un tipo un po’ permaloso e si arrabbia se qualche turista si porta a casa dei “pezzi” di isole. Tanto da far piombiare sul malcapitato una serie di sventure che termina solo quando il ladruncolo restituisce il maltolto
lema. Non sarà, di certo, un anno migliore.
Lettera firmata
RENATO SORU E IL CONFLITTO DI INTERESSI Nei giorni scorsi Lilli Gruber ha intervistato Soru su La 7. È stato affrontato il nodo del conflitto di interessi. Il governatore della Sar-
degna ha spiegato che Guido Rossi, un grande giurista, gli ha preparato una legge - entrata in vigore sull’isola - che risolve ogni problema. Ha aggiunto anche che questa legge gli impedisce di contattare i dirigenti dell’Unità e delle sue società (Tiscali, soprattutto,), che lui rispetta tale legge e che, di conseguenza, non rileva
ulteriori criticità. Così, dopo aver scritto trattati enciclopedici sulla vexata quaestio (vero, Passigli?), il Partito democratico ritiene di aver finalmente trovato la soluzione al primo vero problema italiano.Temo, però, che in pochi, e tanto meno i sardi, crederanno a questa favola suggestiva.
Enrico Pagano - Milano
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Gli impercettibili nienti del linguaggio dell’affetto Il linguaggio dell’affetto, Teresa, è involontario, non è possibile ad essere imitato che goffamente da quelli che lo prendono in prestito. Questo linguaggio non è nelle parole, ma nel colore del volto, nella movenza degli occhi, ne’ gesti, in mille impercettibili nienti che non si possono tradurre con parole. E tu ti sei mostrata fredda con me? O Teresa, io sono partito questa volta con una gioia infinita, e durante il viaggio mi ha fatto dolcissima compagnia una cara voce, che mi sussurrava all’orecchio: ella ti ama! Quando ci siamo incontrati a Pallanza, non ho sorpreso io un celeste riso ne’ tuoi occhi? E come sfavillavano. quando s’incontrarono per caso ne’ miei, nel punto che ci separammo.Quante volte il tuo lungo e fisso sguardo osservato da me alla sfuggita mi ha fatto tremare da capo a piedi! Vi sono tre o quattro Terese, secondo le diverse attitudini, in cui ti ho veduta, che mi perseguitano in sogno. Se fossi pittore, potrei fissarle sulla tela; tanto mi stanno vive innanzi. Rassicurati dunque; io so che per ora mi ami. Fra un altro anno, quando il mondo ti apparirà di un’altra maniera, quando avrai acquistato maggiore esperienza della vita, continuerai ad amarmi? So che mi risponderai di sì con la miglior buona fede; ma io attenderò. Francesco De Sanctis a Teresa De Amicis
ACCADDE OGGI
OBAMA E L’IDEOLOGIA VERDE Secondo alcune stime, produrre automobili compatibili con i parametri di “chilometri per gallone di benzina”che Obama vorrebbe imporre, costerebbe circa 5000 dollari ad autovettura. Visto che tanta stampa arruffona non spiega chiaramente (o non spiega affatto) quanto ingenti siano i sacrifici che una mossa del genere comporterebbe, spiattellare una cifra del genere forse può aiutare. In pratica stiamo parlando di un Presidente degli Stati Uniti che, non sorretto da alcuna prova scientifica rocciosa, ma anzi andando contro una nuova e più sana consapevolezza scientifica, vuole imporre ai cittadini americani un esborso di 5000 dollari in più ad automobile, con l’unico vero risultato di favorire le industrie che producono tecnologia di un certo tipo. In pratica compie un’operazione di redistribuzione economica di matrice politica. Per intenderci, con i 5000 dollari che un consumatore americano dovrà spendere in più (direttamente o indirettamente tramite prelievo fiscale) per comprarsi una macchina, lo stesso potrebbe fare una quantità di cose notevoli, altruismo compreso. Sorretto da un ideologismo “su misura”, Obama ci propina un boccone indigeribile.
Massimo Bassetti
CONTRASTO FRA PADOVA CENTRO E PADOVA PERIFERIA Le attenzioni dell’amministrazione locale padovana si concentrano prevalentemente sul centro cittadino - pedonalizzato - che richiama soavi e bei ter-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
30 gennaio 1948 Gandhi viene ucciso da un estremista indù 1964 La sonda spaziale Ranger 6 viene lanciata dalla Nasa. La sua missione è di trasportare delle telecamere e schiantarsi sulla superficie lunare 1966 Viene siglato il Compromesso di Lussemburgo per l’utilizzo del metodo maggioritario nella Cee 1969 Londra: ultima esibizione pubblica dei Beatles sul tetto della Apple Records. Il concerto improvvisato viene interrotto dalla polizia 1972 Il Pakistan esce dal Commonwealth 1989 L’ambasciata statunitense di Kabul viene chiusa 1994 Péter Lékó diventa il più giovane grande maestro di scacchi 1996 Il presunto capo della Irish National Liberation Army, Gino Gallagher, viene ucciso mentre ritira il sussidio di disoccupazione 1998 Usa: emissione del francobollo commemorativo di Jim Thorpe 2002 Delitto di Cogne: viene assassinato Samuele Lorenzi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
mini: bellezza, conoscenza, patrimonio, risorsa, attrazione, cultura, divertimento, umanesimo, civiltà, benessere e pubblica felicità. Fra centro e periferie esiste un abisso di vivibilità, che viene accresciuto dall’amministrazione locale: così si nega e vilipende il progresso, la cui essenza perequa e riduce divari e dislivelli. Il traffico, i distributori di carburanti e l’inquinamento molteplice tendono a essere spostati dal centro alle periferie; ulteriormente penalizzate da grave insufficienza di ciclabili, strade, marciapiedi, nettezza, polizia, fognature e prevenzione d’allagamenti. I periferici – che costituiscono la maggioranza della popolazione comunale – si aspettano che la giunta municipale si occupi maggiormente dei loro bisogni; non solo di stranieri, extracomunitari, esterofilia, internazionalismo, ideologismo, effimero, infiorettature centrali, opere dispendiose e/o megalomani.
Gianfranco Nìbale
PAROLE SAGGE Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha trovato le parole più adatte, per commentare in occasione della giornata del ricordo, la questione degli adepti del Cardinale Lefebre all’interno della Chiesa. Chi è riferimento per il mondo intero, può commettere errori umani, può anche perdonare chi giustifica la negazione del ricordo al suo interno come fatto spirituale, ma non deve accettare che esso resti come componente attiva del messaggio pastorale che ogni ecclesiastico è portato a condurre nel suo lavoro.
B.R.
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
IL PPI A NAPOLI Nel 90esimo anniversario della fondazione del Partito popolare italiano vogliamo ricordare la nascita del partito a Napoli in quel tempo. Dopo l’appello “ai liberi e forti”lanciato da Sturzo e dai suoi amici il 18 gennaio 1919, a Roma, prende forma anche a Napoli il Ppi L’entusiasmo per la nascita del nuovo partito si diffuse ben presto tra i cattolici napoletani, soprattutto tra chi ormai riteneva maturo il tempo per un impegno diretto degli stessi in politica. Il ceto medio, gli operai, i contadini individuarono nel “popolarismo” un momento di riscatto e un canale di comunicazione politica atteso da tempo. Erano coloro che contrastavano la lotta violenta delle “falangi rosse”, e che mal sopportavano il centralismo liberale, sorretto dalle stampelle del Patto Gentiloni. Il giornale cattolico napoletano La libertà, presentando il programma del Ppi, sottolineò la peculiarità degli ideali del “popolarismo”, che nasceva per combattere battaglie di democrazia; per evitare derive verso il massimalismo socialista; per sconfiggere il liberalismo di tipo agnostico e massonico. A Napoli l’appello “ai liberi e forti” venne raccolto dai rappresentanti del “Circolo Cattolico per gli interessi di Napoli”, che si riunirono il 30 gennaio 1919 in assemblea straordinaria, presieduta dal duca Vincenzo de’ Giovanni di Santaseverina, per ufficializzare l’adesione al Ppi. Il dibattito non fu semplice. Emersero differenze e timori tra gli iscritti perché c’era chi riteneva che non vi fosse continuità tra la natura del Circolo Cattolico e quella del partito. L’avvocato Degni, stimato rappresentante dei cattolici napoletani, con un convincente intervento tentò di fugare dubbi e perplessità. L’impegno politico dei soci del Circolo si sviluppava tutto sui principi religiosi, mentre il partito di don Sturzo non era disponibile a compromettere l’autorità della Chiesa e la religione nell’azione politica. L’aconfessionalità doveva rappresentare l’originalità del partito. La stampa amica e i dirigenti napoletani più aperti verso il nuovo corso insistevano sulle peculiarità del “popolarismo”. Degni, il 5 febbraio, in un’intervista a Il Giorno rimarcò i principi ispiratori, sostenendo che il Ppi non poteva essere considerato il continuatore del moderatismo clericale, ma una formazione politica moderna, con un chiaro programma democratico e popolare. La riforma del sistema elettorale su base proporzionale, fu la prima battaglia combattuta e vinta dai popolari, anche a Napoli. Raffaele Reina C I R C O L I LI B E R A L PR O V I N C I A D I NA P O L I
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PAGINAVENTIQUATTRO Tv. I reality di casa Savoia, tra “Grande Fratello” e “Ballando sotto le stelle”
Buonasera, va ora in onda il... di Angelo Crespi
on c’è l’ha fatta a passare il primo turno ed è stato subito eliminato. Peccato perché ne avremmo potuto trarre interessanti spunti etologici. Finisce dunque prima di iniziare l’avventura al Grande Fratello di Fabrizio Cimmino, maggiordomo di Casa Savoia. Peccato davvero. Per fortuna che nei pochi giorni di notorietà ha perlomeno potuto dichiarare la propria bisessualità, farci sapere che vorrebbe fare un provino con Maria De Filippi per diventare il postino di C’è Posta per Te, e aprire uno spaccato sulla Casa. Non quella del Grande Fratello, bensì quella più blasonata dei Savoia che ha avuto tra gli avi figure mitiche come Eugenio eroe della battaglia di Vienna contro i Turchi. Fabrizio Cimmino è infatti non solo il maggiordomo, ma anche, a sua detta, «una specie di factotum, l’uomo di fiducia, quello che si occupa della casa e quello che risolve i problemi». Sempre, sintetizzando le parole di Fabrizio, veniamo a sapere che «quando ha deciso di partecipare al reality, i suoi datori di lavoro, dopo un momento di spaesamento perché perdevano una figura importante della casa, l’hanno presa bene e si sono commossi quando li ha salutati» e che lui avrebbe investito l’eventuale premio per «comprare una casa alla madre», essendo di umili origini.
N
Crediamo che la stessa commozione, sia stata riservata al principe Emanuele Filiberto che negli stessi giorni partiva per cimentarsi a Ballando sotto le stelle, il programma di successo della Carlucci mezzo gara di ballo e mezzo reality. In tv Emanuele ha già partecipato come opinionista a Il Ballo delle debuttanti, che non ha avuto felice esito, ed è stato testimoniale della pubblicità delle olive e dei sottaceti. Il principe, classe 1972 ed esperto di alta finanza, ha più volte dichiarato che partecipa a cose del genere per soldi: «So che molti monarchici mi criticheranno, ma ho famiglia e due figlie da mantenere». Sventolando il vessillo del “tengo famiglia”, il maggiordomo e il principe di Casa Savoia sono dunque partiti per la campagna televisiva. E tutti noi che ancora guardiamo alle monarchie europee con simpatia e malcelata invidia, sventoliamo la bandiera con l’iscrizione “Fert”, che per chi non lo sapesse era, prima del “tengo famiglia”, il motto dei nostri re. Nessuno ha mai ben capito cosa significasse, ma nella sua icastica brevità, Fert induceva al rispetto. Credendo poi che semplicemente si trattasse della terza persona singolare del presente indicativo del verbo irregolare latino fero, fers, tuli, latum, ferre, nella sua accezione meno usata di “sopportare”, Fert esaltava lo spirito di sopportazione che necessariamente deve possedere un monarca. E che ora dobbiamo possedere noi, davanti a prove di tal fatta. È ovvio che il “regality”nuova forma di reality (dicono fonti ben informate che anche La Fattoria sia interessata al principe) apre spiragli nuovi per l’araldica. Nessuno ovviamente, mutati i tempi, se la sente di paragonare gli aspi-
ranti al trono con i loro predecessori. Il confronto sarebbe impietoso, perché la dinastia dei Savoia, è bene ricordarlo, annovera figure di altissimo spessore culturale e morale, determinanti nei vari frangenti della storia del nostro Paese. E capiamo anche che in un mondo diverso è difficile chiedere ai re di essere meglio dei propri sudditi. Certo che rileggendo il discorso agli italiani fatto dal principe
REGALITY Il caso di Fabrizio Cimmino, «l’uomo di fiducia che risolve i problemi» dei reali; e quello del principie Emanuele, a caccia di talkshow in nome del «tengo famiglia»
in occasione del Santo Natale 2008, e conoscendo le sue ispirazioni politiche con l’associazione Valori e Futuro, di poter un domani regalare nuovi fasti alla sua famiglia in questo campo, viene da sorridere con tenerezza: «Cari Italiani! Nell’imminenza del Santo Natale mi preme rivolgere a tutti Voi un messaggio di ringraziamento per la forza che dimostrate ogni giorno nel combattere le avversità di questa congiuntura economica che sta gravemente minando la serenità delle Vostre famiglie. La nostra amata Patria è scossa da una crisi che giunge da lontano, tuttavia è nostro dovere mantenere l’ottimismo e lo spirito costruttivo che da sempre anima gli italiani di ogni regione. Forti della nostra cultura, delle nostre tradizioni e dei nostri Valori potremo, se uniti, superare le avversità e tornare alla serenità degli anni passati. Ci sia d’aiuto il senso di solidarietà umana che da sempre anima la nostra società. In modo particolare faccio riferimento all’importanza della famiglia: in momento di tale difficoltà essa non è solo un punto di riferimento, ma un rifugio che ci consente di ritrovare forza e serenità per affrontare il futuro».
Una sorta di inno alla famiglia teorico che poi si riduce nella prassi al “tengo famiglia”di Ballando sotto le stelle. Quando Vittorio Emanuele partecipò suo malgrado ad un regality, cioè quando rimase invischiato in un brutta storia di intercettazioni, poi conclusasi abbastanza bene, la cosa che stupì più di tutti era il mercanteggiamento al ribasso del guiderdone che il nostro Savoia aveva messo in atto con una “signorina”. Insomma un re che si rispetti almeno non deve dimostrare problemi di vil denaro. D’altronde secondo un’antica pasquinata, l’acromino Fert potrebbe significare anche Fœmina Erit Ruina Tua (La donna sarà la tua rovina). Oppure, aggiornato all’oggi, Fieri Esperti Reality Tv.