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Il potere non corrompe gli uomini; e tuttavia se arrivano al potere gli sciocchi, corrompono il potere

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George Bernard Shaw

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

GLI ESPERTI DEL MEDIORIENTE GIUDICANO BARACK

Non sarà che Obama si sta illudendo sulla pace con l’Islam?

La panchina della stazione di Nettuno dove si è consumata la tragedia: per terra i segni del fuoco che ha gravemente ferito l’immigrato indiano

In Afghanistan un gravissimo attentato uccide 25 persone. In Pakistan rapito un diplomatico americano. Israele minaccia nuove rappresaglie contro Hamas. C’è più di un motivo per chiedersi se la “mano tesa” del nuovo presidente al mondo musulmano sia una politica possibile

NAPOLITANO: «RACCAPRICCIANTE, MA NON ISOLATO»

Uomini e bestie. Cosa brucia assieme a Navte Singh Marzio Barbagli e Umberto Galimberti spiegano come è possibile che qualcuno pensi di “accendere e spegnere” un immigrato alle pagine 2 e 3 I lefebvriani ancora in agitazione

È probabile un nuovo scisma contro Ratzinger di Luigi Accattoli aro direttore, mi chiedi che cosa ci abbiano insegnato i dieci giorni di ribalta mediatica del tradizionalismo lefebvriano seguiti alla “remissione”delle scomuniche da parte del papa e alle affermazioni negazioniste di uno di loro sulla Shoah. Azzardo una risposta secca: si è capito che la “riconciliazione” con Roma, se ci sarà, provocherà una rottura della “Fraternità San Pio X”. In altre parole: o resta l’attuale scisma – cioè la “separazione” da Roma – oppure si produrrà un sotto-scisma che staccherà gli irriducibili dalla Fraternità. Mi chiedi anche perché mai il papa abbia compiuto il suo gesto di perdono con procedura unilaterale e così rapidamente.

C

s eg u e a p a gi n a 7

Berlusconi annuncia: accordo sulla giustizia

da pagina 14 a 19

L’Autority interviene per chiedere «radicali cambiamenti nella governance»

L’Antitrust censura le banche Denuncia al Parlamento: «Non c’è trasparenza, servono regole» di Francesco Pacifico

I dati dell’Istat sulle retribuzioni

ROMA. Ben vengano gli interventi pubblici per consolidare i capitali delle banche e delle assicurazioni. Ma soltanto se «volti a realizzare radicali cambiamenti nella governance». Non sarà il tremontiano «se la banca fallisce, i banchieri vanno a casa o vanno in galera», ma poco ci manca. Perché anche l’Antitrust, monitorando il mondo del credito, mette in relazione i cambiamenti ai vertici delle istituzioni in crisi e le misure per «ripristinare la fiducia nel sistema». Dell’ultima segnalazione inviata ieri dall’autorità al Parlamento, alla Banca d’Italia e alla Consob, è questo il dato che fa più rumore. Anche perché arriva mentre s’inasprisce lo scontro tra il ministro dell’Economia e le banche sulle sottoscrizioni obbligazionarie per recuperare liquidità e aumentare la capitalizzazione degli istituti in crisi. E mentre Giulio Tremonti e Mario Draghi continuano a litigare.

Sorpresa. Stiamo guadagnando di più

di Errico Novi a pagina 8 seg2009 ue a pa•gE inURO a 9 1,00 (10,00 MARTEDÌ 3 FEBBRAIO

s e g u e a pa g i n a 4 CON I QUADERNI)

di Carlo Lottieri certamente un dato sorprendente quello diffuso ieri dall’Istat che, in contrasto con una sensazione diffusa, ha reso noto come l’aumento medio delle retribuzioni nel 2008 sarebbe stato del 3,5%. Insomma, gli italiani avrebbero redditi “reali” (al netto dell’inflazione) superiori a quelli che avevano un anno fa. C’è più di un motivo per essere perplessi. E non soltanto perché qui si sta confrontando un dato ben definito (quello degli aumenti salariali, che è desumibile da contratti che chiunque può consultare) con un altro che è invece al centro di mille (giustificate) polemiche: l’indice generale dei prezzi, che attesterebbe l’inflazione.

È

Antonio Catricalà ha denunciato la scarsa trasparenza delle banche chiedendo al Parlamento e alla Consob di intervenire

• ANNO XIV •

NUMERO

23 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

segue a pagina 5 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Orrori. Ragioniamo con Umberto Galimberti sul crimine contro l’indiano di Nettuno: un mondo apparentemente “incomprensibile”

Perché brucia Navte Singh Automi senz’anima, vittime di un’alluvione di stimolazioni visive Il ritratto psicologico delle aree giovanili ormai contagiate dal nichilismo di Riccardo Paradisi

ercavamo emozioni forti»: hanno detto i tre ragazzi che hanno picchiato e dato fuoco a un clochard indiano di 36 anni che dormiva nella stazione di Nettuno, vicino a Roma. Un episodio che si iscrive in un corona di violenze al centro del fuoco mediatico delle ultime settimane ma che ha una particolarità: non ha movente. Un gesto di crudeltà inutile. «I Ragazzi di Nettuno, come quelli che lanciavano i sassi dal cavalcavia – dice a liberal Umberto Galimberti, filosofo e psicologo – hanno compiuto un gesto privo di motivazioni razionali che in loro non ha lasciato nessuna risonanza emotiva. Questa cosa ha un nome preciso e si è incarnata da almeno due decenni nei comportamenti pratici di moltissimi giovani: si chiama nichilismo». Nichilismo, ovvero L’ospite inquietante, il titolo del saggio che Galimberti ha pubblicato nel 2007 per Feltrinelli sul disagio giovanile. Un disagio la cui intensità e profondità è senza precedenti, perché, dice Galimberti la condizione giovanile di oggi è precipitata in una tendenza di apatia psichica radicale: «Si compiono dei gesti e non si avverte la loro risonanza emotiva. In pratica in questi ragazzi è crollata la percezione emotiva della distinzione tra il bene e il male». Immanuel Kant diceva che non era necessario definire il bene e il male, perché ciascuno li sente naturalmente da sé. Non è più vero. I ragazzi di Nettuno e come loro moltissimi altri, non sentono più nulla.

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Manca il dato dell’empatia, la percezione dolore dell’altro. Galimberti ricorda il caso di Erika, la ragazzina di Novi Ligure che uccise la madre e il fratello. «Non avendo risonanza emotiva agì anche lei con straordinaria lucidità. Dopo il delitto andò a bere della birra. E al processo dimostrò un’intelligenza lineare. Tanto che il giudizio del tribunale stabilì che la ragazza era in grado di intendere e di volere. Un giudizio tutto sommato insufficiente che non valuta se in questi soggetti esista la capacità di sentire». Erika uccide la madre e il fratellino e poi va a bere una birra, Pietro Maso uccide i genitori e poi passa la serata in discoteca, i tre di Nettuno danno fuoco a un uomo e poi si fanno

un giro in macchina. Automi. «Quando andai a trovare in carcere uno dei lanciatori di sassi dal cavalcavia alla domanda perché avesse fatto quel gesto, che era costato una vita umana, mi rispose con un interiezione: “Boh”». Non hanno risposte. Il tragico è ormai senza movente. «Si tratta di soggetti a emotività piatta. In loro non si è formata una psiche. Perché la psiche si forma – spiega Galimberti – mentre in questi ragazzi è come abortita». Sottoposti negli anni della loro formazione primaria a un eccesso di stimoli incontrollati, a un’alluvione di immagini, informazioni televisive e telematiche per sfuggire all’angoscia indotta dall’iperstimolazione questi giovani si sono chiusi a riccio, «hanno interrotto il processo di formazione psichica. Abbassato il livello della sensibilità. Che resta handicappata – dice Galimberti – disponibile a qualsiasi gesto, anche a quelli di inaudita gravità come quello di Nettuno». Eppure la malvagità umana – anche la più inaudita e assurda – non nasce con le gene-

Quando si diceva una volta che le società crollano per la decadenza dei costumi ci si metteva ridere. Credo che stia avvenendo una cosa del genere

razioni videodipendenti. Il massacro del Circeo è degli anni Settanta: che differenza c’è tra atrocità come quella e quelle di oggi? «Che il massacro del Circeo un movente lo aveva: c’era dietro una pulsione sessuale. Qui qual è il piacere di bruciare un uomo, che motivo c’è?». Loro dicono eravamo annoiati: «Appunto – insiste il professore – manca lo scopo, manca il per-

Napolitano: «Non sono fatti isolati» ROMA. «Siamo dinanzi a episodi raccapriccianti che vanno ormai considerati non come fatti isolati, ma come sintomi allarmanti di tendenze diffuse che sono purtroppo venute crescendo». È stato questo, ieri il commento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in margine al terribile episodio dell’immigrato indiano bruciato vivo alla stazione di Nettuno da tre giovanissimi che in questo modo volevano «vincere la noia classica del sabato sera». Il presidente della Repubblica ha poi aggiunto che è necessario che tutti si sentano investiti del problema generale che rigiarda l’intero Paese e ha detto: «Rivolgo un forte appello a quanti hanno responsabilità istituzionali, culturali, educative perché si impegnino fino in fondo per fermare qualsiasi manifestazione e rischio di xenofobia, di razzismo, di violenza».

ché, manca persino la miccia d’accensione. Non c’è niente. Meglio: c’è il nichilismo».

La dimensione in cui tutti i valori si svalutano. «Una volta la società era gerarchica, e la gerarchia, la presunta disuguaglianza qualitativa tra gli uomini era un valore. Dopo la rivoluzione francese la società è diventata egualitaria, almeno nelle intenzioni: è crollato un valore, la gerarchia e ne è nato un altro, l’eguaglianza. Il nichilismo è quando crollano tutti i valori e non ne nascono più. Fino agli anni Settanta i valori della tradizione funzionavano ancora e quei gesti si potevano iscrivere nella trasgressione. Oggi non esiste più nulla da cui trasgredire. Non esiste più il limite. Quale è del resto il limite tra una seduzione sessuale e uno stupro? Tra il rifacimento del proprio corpo e il cambiamento di sesso? Non c’è valore di riferimento. Quindi non c’è direzione, non c’è motivazione, insomma non c’è nulla». E del resto per organizzare dei valori è necessario che sia percepito un futuro, che non c’è più. «Il futuro come promessa retroagisce come motivazione. Quello che è accaduto negli ultimi vent’anni è che la speranza, il progetto del futuro sì è trasformato in paura, in minaccia. Questi ragazzi vivono l’assoluto presente perché hanno il terrore del futuro di cui non vedono i lineamenti». Quando il futuro non retroagisce come motivazione collassa anche l’autorità genitoriale: «I rapporti tra genitori e figli sono costretti a diventare contrattuali, quindi senza esemplarità. La non retroazione del futuro rende impotente l’adulto».

Futuro minaccioso dunque e cortocircuito tra desiderio e realizzazione. «La liberalizzazione sessuale ha mandato in soffitta l’idea che tra il desiderio e la sua realizzazione, come diceva Freud, ci si debba mettere il lavoro, l’elaborazione. Ora, se io dopo che esco tre volte con una ragazza e non la porto a letto sono qualificato dal mio gruppo come un gay è chiaro che tutto quell’intervallo che c’è tra il desiderio e la sua realizzazione è stato bruciato nel senso comune di una quantità enorme di giovani. Che vuol dire – restando nel dominio dell’amore – che manca l’idealizzazione della ragazza l’immaginazione, la scrittura, la costruzione di un linguaggio seduttivo». Quando la meta è a portata di mano invece crollano i tabù. «Una volta il tabù era la sessualità ora il tabù è diventata la droga. A sentire i medici i maggiori fruitori di viagra sono i ragazzi perché funziona il principio di prestazione invece che l’amore, il desiderio». Impulso e azione: una generazione emotivamente epilettica: «Se a un ragazzo che ti dice sto male tu gli chiedi perché lui non te lo sa dire. Non sanno come si chiamano i loro sentimenti e le loro emozioni. Noi abbiamo degli impulsi che se opportunamente educati diventano emozioni che se opportunamente educate diventano sentimenti. Questi ragazzi sono rimasti all’impulso e l’impulso è correlato al gesto, perché ormai manca la parola. L’intervallo tra l’impulso e l’azione è il luogo, oggi cancellato, delle parole e dei sentimenti, lo spazio dove nasce la psiche».

Ma che fare per far uscire di casa l’ospite inquietante? Come mettere a frutto la dolorosa lezione che sta dando alla modernità occidentale? «Forse la salvezza potrebbe venire da questa crisi – risponde Galimberti – Quando si diceva una volta che le società crollano per la decadenza dei costumi ci si metteva ridere. Io credo che stia avvenendo una cosa di questo genere. Non è un caso che gli immigrati lavorino forte rispetto ai nostri. Non è un caso che delle 60 borse di studio bandite da Harvard 48 siano state vinte dai cinesi. Sono società emergenti che hanno voglia di futuro. La crisi può far si che la nostra società possa tornare ad allinearsi


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3 febbraio 2009 • pagina 3

La violenza contro gli immigrati secondo il sociologo Marzio Barbagli

«La furia del branco, tra i 15 e i 20 anni» di Gabriella Mecucci

ROMA. L’agghiacciante episodio di NettuSopra, la stazione di Nettuno dove è stato bruciato l’immigrato indiano. Sotto, la panchina di Rimini sulla quale alcuni ragazzi hanno bruciato un senzatetto nelle scorse settimane. A destra, il sociologo Marzio Barbagli. Nella pagina a fianco, il filosofo Umberto Galimberti

no dove tre giovani italiani hanno picchiato e dato fuoco ad un clochard indiano e le proteste dei lavoratori inglesi contro gli operai italiani configurano un nuovo razzismo? Lo chiediamo a Marzio Barbagli, sociologo e studioso dei fenomeni di xenofobia e intolleranza verso il diverso il quale esclude che i due comportamenti possano stare insieme. Ciò che è accaduto in Gran Bretagna si è quasi sempre verificato nei momenti di crisi. La paura di perdere il lavoro può far esplodere sentimenti e comportamenti xenofobici. E’ quindi un’espressione, una faccia della difficilissima situazione economica che stiamo attraversando. Di questo si tratta e di nulla più. Per quanto riguarda invece Nettuno, lì probabilmente – a leggere almeno il giornali – c’entra poco o niente il razzismo. Siamo in presenza di ben altro. E cioè? È in vistosa crescita l’uso della violenza da parte dei maschi giovani, fra i 15 e i 25 anni. È un fenomeno forte e ormai studiato da tempo. E perché c’è questa esplosione di violenza? Mi permetta di spiegare meglio: è un aumento della violenza che non riguarda le donne, è circoscritto solo alla popolazione maschile. Le risposte che si danno sono molteplici. Fra queste due sono le più comuni: da una parte c’è la volontà di affermare attraverso l’atto spavaldo, pericoloso, violento la propria forza, la propria virilità; dall’altra fra i 15 e i 25 anni si attraversa un periodo della vita in cui diventano sempre più deboli i controlli, i vincoli sociali: in primis quello della famiglia di origine, mentre non si sono ancora formati i nuovi controlli sociali, quelli della nuova famiglia e quelli del lavoro. L’individuo spesso si trattiene dal violare le regole per non dispiacere a qualcuno che ama o per non essere espulso dal lavoro, dal gruppo di lavoratori che frequenta. In questa fase di relativo vuoto del controllo sociale, fra i 15 e i 25 anni, l’attitudine trasgressiva e violenta aumenta e di parecchio. Ma non si traduce necessariamente in razzismo. Eppure il presidente Napolitano ha denunciato proprio l’escalation di xenofobia e di razzismo. Cosa ne pensa? Sono davvero aumentati i comportamenti di questo tipo? Non disponiamo di dati che

lo attestino. Non è stata fatta alcuna ricerca quantitativa sull’andamento di questi crimini negli ultimi venti o trenta anni. E comunque non voglio certo negare che il problema esista e sia molto importante. Anche perchè negli ultimi anni il numero degli immigrati in Italia è aumentato a ritmo vertiginoso. Bisogna sempre fare attenzione alle proposte della Lega che in sè sono spesso bizzarre, ma che sono la traduzione di stati d’animo diffusi nella popolazione. Che cosa occorrerebbe fare dunque per mettere un freno al razzismo e alla xenofobia, visto che esistono le condizioni oggettive perché questi sentimenti aumentino. Occorre agire su due piani. Il primo è quello della repressione. Sia la legge Turco-Napolitano sia la Bossi-Fini hanno reso più semplice l’espulsione di emigrati irregolari che delinquono. Nonostante i parziali miglioramenti, l’Italia non riesce a rimpatriare questi criminali che restano quasi tutti e spesso continuano a trasgredire la legge. L’opinione pubblica non sopporta una tale inefficienza o lassismo. Occorre quindi rendere più efficaci e rapidi i meccanismi di espulsione. Occorre poi predisporre “quote” di ingresso credibili e farle rispettare e non ricorrere di continuo alle sanatorie. Detto questo, c’è però un secondo livello sul quale è indispensabile intervenire. Quale? Quello dell’integrazione. Nel welfare ci deve essere spazio anche per gli immigrati, a partire dalla formazione scolastica. Molti ceti medi o ceti medio-alti si giovano dell’ingresso di nuovi immigrati: i piccoli e medi imprenditori trovano lavoratori a basso costo, e le famiglie possono permettersi badanti che diversamente non avrebbero. A fronte di questo guadagno, bisogna dare qualcosa: fare investimenti per migliorare l’efficienza del welfare nei confronti degli immigrati. Occorre che l’operaio italiano non pensi che suo figlio è danneggiato dalla presenza del figlio degli immigrati e viceversa. Lo dicevo prima, la cosa più importante è la scuola. Gli americani su questo piano hanno fatto molto, ma hanno speso anche molto. Le leve su cui agire sono due dunque: la repressione e l’integrazione. Se vengono usate bene entrambe possono costituire una buona cura contro la xenofobia e il razzismo.

A quell’età ormai sono sempre più deboli i vincoli con la società, mentre non si sono ancora formati i nuovi controlli sociali, quelli della nuova famiglia e quelli del lavoro

alle richieste della famiglia. Negli anni ’60 quando eravamo poveri quello che diceva la famiglia coincideva con quello che diceva la società. Oggi la società invita al consumo, al desiderio immediatamente realizzato, la famiglia tende a contenere questo impulso ma le vie sono assolutamente divaricanti Io non ho nessun dubbio che conoscano meglio i nostri giovani gli operatori di mercato dei genitori e degli insegnanti».

Da ultimo, si chiede il professor Galimberti chi convoca questi ragazzi, chi fa capire loro che sono importanti, essenziali? «Di solito i giovani sono vissuti come un problema o come un target di mercato. Eppure tra i 15 e 30 anni in un uomo si esprime il massimo della forza biologica e intellettuale. La nostra società crede di poter fare a meno di questa energia. Per questo è vecchia,

stanca e morente. Questi giovani lo sentono, per questo vivono di notte, perché di giorno nessuno li convoca». Un muro di gomma di gerontocrati e ex-contestatori sbarra loro ogni strada: l’impressione dei giovani che non arriveranno mai dove si conta, dove si decide, li aliena, fa credere loro che sia inutile progettare un futuro e conquistarlo. Per tutti questi motivi, dice Galimberti, capita che tre ragazzi, in una notte d’inverno, perchè non sanno che fare, danno fuoco a un uomo. «Per vivere 24 su 24 in diretta, con con l’esplosione continua dello psichico contenuto. Il gesto come risposta all’impulso a e antidoto alla noia. Manca il pensiero manca tutto. Non è un oltpepassamento del limite è un essere al di qua del limite umano. Della condizione umana. È un gesto preumano. Immotivato, automatico». Nichilista, anche se loro non sanno cosa vuol dire.


economia

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Sponde. L’Autorità suggerisce di rimuovere i manager che hanno causato i crack «per ripristinare la fiducia nel sistema»

Banche senza regole Denuncia dell’Antitrust al Parlamento «C’è poca trasparenza. Bisogna intervenire» di Francesco Pacifico segue dalla prima Proprio ieri il ministro del Tesoro ha risposto a muso duro a chi – come il presidente di IntesaSanpaolo, Enrico Salza – ha definito troppo oneroso il tasso d’interesse del 7,5 per cento da garantire allo Stato. «Questo livello», ha spiegato, «è stato deciso dal Tesoro seguendo lo schema europeo e quindi non c’è margine di autonomia italiana in questa materia».

E dopo aver ricordato che il suo direttore generale, Vittorio Grilli, e il governatore Mario Draghi hanno lavorato sul provvedimento per circa un mese, ha ricordato che «il meccanismo è europeo: non puoi fare un’emissione di bond a tuo piacere, secondo la realtà italiana. C’è un solo schema, un solo binario, e il binario unico è quello europeo». Come dire che, se neppure due Ciampi boys riescono a trovare un’escamotage… È difficile credere che i banchieri italiani – gente che risponde a fatica ai suoi azionisti, figurarsi alla politica – si facciano spaventare dalle dichiarazioni del ministro. Eppu-

ROMA. Non lascia, anzi raddoppia. Mentre in tutta Europa si continua a parlare del rischio che alcuni paesi escano dall’Unione, il commissario europeo alla Politica economica e monetaria, Joaquin Almunia, ha invece detto che «ci sono buone probabilità che il Regno Unito entri nella Zona Euro, insieme a Svezia e Danimarca». Intervenendo di fronte al Congresso spagnolo, Almunia ha rilasciato una serie di dichiarazioni riguardanti la crisi economica, che secondo il commissario durerà «uno o due anni, e non cinque o sei». E si è espresso anche riguardo l’ipotesi di una “bad bank”, dove mettere i crediti in sofferenza come si apprestano a fare gli Stati Uniti sotto la direzione di Barack Obama: «Gli inglesi, gli olandesi e i tedeschi la stanno prendendo in considerazione, probabilmente alla fine lo faremo tutti, certamen-

re a via XX settembre sono ottimisti rispetto ai mesi scorsi. Dicono i suoi funzionari che Tremonti ora punti su tre fattori per vincere la partita ed estendere la sua moral suasion verso quegli istituti che politicamente sono sempre stati distanti dal centrodestra. Intanto c’è l’annuncio di Alessandro Profumo, che ha dichiarato di volersi servire delle sovvenzio-

Catricalà critica i conflitti d’interessi e gli incroci pericolosi tra azionisti, la scarsa informazione e la poca concorrenza sui mutui ni pubbliche. E tanto basta per rompere un tabù.

Tremonti poi si aspetta di ottimizzare le critiche al governo e gli allarmi sul credit crunch che le maggiori categorie stanno lanciando in questi giorni. Prima l’industria dell’auto e della componentistica, poi i costruttori, e tutti concordi nel chiedere al Tesoro un interven-

to più deciso per estendere il monte prestiti delle banche. Soprattutto il ministro può contare su un nuovo alleato che, forse avrebbe reso diverso lo scontro con l’ex governatore Antonio Fazio: le fondazioni bancarie. Non a caso sabato scorso ad Alba, durante la giornata di studi organizzata dalla compagnia di San Paolo, Tremonti è stato accolto da un’ovazione. E non soltanto quando ha sancito: «Il risparmio è nelle vostre mani, fatene buon uso». Il suo ragionamento è semplice: se una grande fondazione azionista di una banca non vuole perdere un briciolo del suo controllo né un centesimo dei suoi dividendi, l’unica strada che ha è spingere il management degli istituti ad attivare i prestiti obbligazionari con garanzia statale. I Tremonti bond. La sempre più sorprendente unità d’intenti tra il titolare dell’Economia e gli enti può avere innumerevoli finalità. Ed essere applicata non soltanto sul versante creditizio tout court. Tremonti e il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, starebbero discutendo su vari fronti: ci sono le infrastrutture da costuire e che si sono sempre di-

Il commissario europeo per l’Economia annuncia la possibile fine dell’era della sterlina

Lo shock di Almunia: Londra nell’Euro di Alessandro D’Amato te a livello della Commissione europea, in modo che non ci siano distorsioni. Il mercato interbancario, ha spiegato Almunia, si è congelato a causa della presenza di asset tossici. La fiducia, ha concluso, tornerà quando questi strumenti illiquidi saranno rimossi».

Ma è la dichiarazione sulla Gran Bretagna a fare maggior rumore; e se ne capisce perfettamente il perché: l’euroscettica per eccellenza, che nonostante l’impegno di Tony Blair aveva deciso di mantenere la propria sovranità monetaria – nel frattempo appannata dal comportamento della Old

Lady, la Banca Centrale d’Inghilterra, che durante la crisi ha perso gran parte della propria proverbiale severità durante i salvataggi degli istituti di credito – arrivando persino a costituire un fronte anti-europeista all’interno del New Labour. L’alfiere, ironia della storia, era proprio quel Gordon Brown che nel 2003 dichiarò alla Camera dei Comuni che i cinque criteri economici per l’ ingresso del Regno Unito nell’ euro non erano state ancora soddisfatte. Nemmeno i tories che odiavano la Thatcher, che avevano formato insieme a Blair il Partito Trasversale Europeo per ade-

rire alla moneta unica nel 1999, con la lobby che si chiamava “Britain in Europe”, erano riusciti a far cambiar idea a molti conservatori. E soprattutto a quell’opinione pubblica il cui polso era fermamente contrario a qualsiasi ipotesi di cambiamento e di abbandono della cara sterlina: per questo a Blair mancò il coraggio di indire il famoso referendum, che probabilmente avrebbe perduto, e anche male.

Oggi i tempi sono cambiati. Il governo inglese è pronto a spendere centinaia di miliardi di sterline e a nazionalizzare la maggioranza del sistema


economia

3 febbraio 2009 • pagina 5

Secondo l’Istat, le retribuzioni reali sono salite del 3,8% in un anno In alto da sinistra, i due maggiori amministratori delle banche italiane, Alessandro Profumo (ceo di Unicredit) e Corrado Passera (Ad di IntesaSanpaolo) Sotto, il presidente dell’autorità Antitrust, Antonio Catricalà. In basso a sinistra, il commissario Ue agli Affari economici, Joaquin Almunia

mostrate un remunerativo investimento; il futuro della Cassa depositi e prestiti e la trasformazione in un ruolo più attivo; gli stipendi dei manager e forse i nuovi equilibri del Corriere della Sera, dove non c’è ancora “un vigile” per decidere chi entra e chi esce. In questo scenario l’uscita dell’Antitrust va letta in un’ottica diversa. Ma a ben guardare la segnalazione dell’organismo guidato da Catricalà – che segue l’indagine conoscitiva sul settore di qualche mese fa e come questa non ha alcun effetto diretto – segnerebbe il trionfo di Tremonti, se soltanto il ministro fosse ancora il Robin Hood indefesso dei risparmia-

bancario. La Banca d’Inghilterra il mese scorso ha tagliato il tasso di riferimento di mezzo punto percentuale, dal 2% all’1,50%, portandolo ai minimi storici. La sterlina, che valeva un euro e quaranta nel 2003 e al tasso praticato ai turisti era spesso cambiata a un euro e mezzo, è ora scambiata alla pari con l’ euro e gli specialisti prevedono che potrebbe scendere ancora più in basso. Il sistema finanziario – fiore all’occhiello di un’economia che aveva accolto con favore i capitali stranieri, in nome del teorema di Wimbledon – ha rischiato il collasso, e non è certo nemmeno lontanamente alla fine di un tunnel che dovrà attraversare con molta attenzione, se non vuole rischiare un crollo rovinoso. Più attaccata ai servizi finanziari rispetto al resto d’Europa, con un’industria manifatturiera ormai scomparsa, l’In-

Crescono gli stipendi. Come l’inflazione di Carlo Lottieri

tori. Quello del 2004, per intenderci.

L’Autorità critica per l’ennesima volta i conflitti d’interessi, gli incroci pericoli tra gli azionisti, la scarsa trasparenza in merito alle informazioni da dare ai risparmiatori. Per non parlare della scarsa concorrenza sui mutui e servizi bancari. Catricalà ha chiesto una reazione di «autoregolamentazione da parte del sistema sia pure a livello di intento». Un punto di partenza potrebbe essere il testo sul risparmio presentato da Tremonti all’indomani dei crack Cirio e Parmalat. Ma oggi lo stesso ministro sembra avere altro a cui pensare. ghilterra appare oggi più esposta alla recessione globale del resto del Vecchio Continente. Il pesante indebitamento deciso da Brown, ora finalmente premier, per uscire dalla crisi, ha contribuito a sua volta al declino della sterlina. E l’esempio dei disastri subiti da altri Paesi europei che sono fuori dall’euro, come l’Islanda o l’ Ungheria, ha fatto risollevare il capo agli europeisti. E allora, che c’è di meglio del rassicurante ombrello europeo, con una valuta che, massicciamente tenuta solida da Germania e Francia, non rischia di essere attaccata da speculatori nei momenti di difficoltà? «Nebbia sulla Manica, il continente isolato», si diceva avrebbe titolato un tempo il Times per ricordare l’assoluta superiorità – perlomeno percepita – degli inglesi rispetto al resto d’Europa. I tempi cambiano.

segue dalla prima Oltre a questo bisogna tenere a mente che ogni volta che ci si trova di fronte a questi dati ci s’imbatte nel “pollo di Trilussa”: e infatti l’Istat stessa sottolinea come, per quanto riguarda il mese di dicembre del 2008, una parte dell’incremento delle retribuzioni è da attribuire al pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale per il biennio 2008-2009 all’insieme dei dipendenti delle amministrazioni centrali (ministeri, scuola, agenzie fiscali e monopoli, attività dei vigili del fuoco, presidenza del consiglio dei ministri).

Per di più, il congiunto aumento delle retribuzioni e dell’inflazione – che sta crescendo a ritmi che da qualche tempo avevamo scordato – rischia di riproporre quella spirale prezzi-salari che ebbe un ruolo significativo nel dissesto delle economie occidentali degli anni Settanta. Una gestione “allegra” della moneta – come è quella attuale, contraddistinta da tassi di interesse sempre più bassi – spinge i prezzi verso l’alto e di conseguenza induce a rivendicare, com’è ovvio, salari nominalmente più consistenti.

mente inflazionistico. Se al netto delle questioni (e perturbazioni) monetarie il dato dell’aumento delle retribuzioni fosse reale, venisse confermato nei mesi a venire, e magari dovesse perfino rafforzarsi, dovremmo prendere atto che l’Italia sta conoscendo una significativa fase di crescita. Retribuzioni crescenti non sono ammissibili in assenza di analoghi profitti per le imprese: ed è per questo che la premessa è assai contestabile.

Vi sono allora due elementi da tenere sotto controllo. In primo luogo, una cosa sono gli aumenti nel privato e altra (diversissima) cosa sono quelli nel pubblico. Mentre i primi sono possibili soltanto quando l’economia tira e si sviluppa, nel settore statale si può avere un aumento delle retribuzioni anche in una fase di recessione, ma in questo caso a scapito dell’equilibrio complessivo. È sufficiente una gestione demagogica e il desiderio di “comprare” consenso, a scapito del Paese nel suo insieme. La dinamica delle retribuzioni è poi di enorme importanza per il Mezzogiorno, dato che una delle difficoltà maggiori del Sud risiede nel fatto che i salari ufficiali (quali sono definiti dai contratti nazionali) sono troppo alti e finiscono per mettere fuori mercato, condannandola alla disoccupazione e al lavoro nero, una parte rilevante di chi vive in queste aree: specie tra i giovani e tra le donne.

L’aumento rischia di riproporre quella spirale prezzi-salari che ebbe un ruolo significativo nel dissesto delle economie degli anni Settanta

La colpa, se vogliamo usare questa espressione, non è certo dei commercianti e neppure dei sindacati, ma di valute fuori controllo che pesano sempre di meno e trasformano quindi il sistema economico in una plaga di sabbie mobili, nelle quali in ogni momento è possibile sprofondare. Come è noto, ogni sistema produttivo ha bisogno di regole quanto più è possibile stabili e di una moneta solida, che non sia troppo soggetta a oscillazioni, così da non introdurre elementi d’incertezza. Ma le monete di Stato e a corso legale sono esposte per loro natura a una costante manipolazione e, in linea di massima, ad un processo tendenzial-

Se oggi più che mai il Sud ha bisogno di poter diversificare i propri contratti, rispetto al Nord, in modo tale da attirare investimenti e far crescere il tasso di occupazione, scoprire che le retribuzioni reali s’innalzano sempre di più non sarebbe – per il Mezzogiorno, ma in realtà per l’Italia intera - una buona notizia.


economia

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Ricette. Mercedes Bresso propone di vincolare gli aiuti alla Fiat alla ricerca e alla tutela dell’ambiente

«Salvate le auto. Quelle verdi» di Francesco Pacifico

ROMA. «Con i tempi che corrono, c’è il rischio che i fondi per la Fiat vengono recuperati dal monte Fas. Ormai è una riserva di caccia di Tremonti…». Sono giorni difficili per il governatore del Piemonte, Mercedes Bresso: la crisi del Lingotto, va sa sé, la vede in prima linea per attutire i colpi; nello scontro con l’esecutivo sulla riprogrammazione dei fondi per le aree sottoutilizzate e di quelli sociali è uno dei protagonisti. Non fosse altro perché sono in gioco circa 10 miliardi di euro per il suo territorio. Il governo deve essere più munifico con l’auto? Intanto vanno trovati i soldi. Il semplice annunciarli ha il solo effetto di bloccare il mercato. Eppoi guardiamo al merito: rottamazione secca o meno, bisogna spingere a comprare veicoli puliti. E incentivare le categorie come i tassisti o i trasportatori che circolano di più e producono maggiore CO2. Così si prendono due piccioni con una fava: aiutare la domanda e migliorare la qualità dell’aria. Altri consigli? Non dimenticare la ricerca. Tra solare, idrogeno o bipower a gas, sono molte le opzioni sulle quali si sta lavorando. Ma per progettare un’auto superecologica e portarla sul mercato servono almeno due miliardi di euro. E sono soldi che vengono spalmati tra vari comparti, in primis la componentistica, per realizzare un prodotto che sarà sempre più richiesto dal mercato americano. Basta per l’indotto? Nel piano per l’automotive non possiamo dimenticare aiuti per le ricapitalizzazioni. Penso a prestiti rotativi, come stanno facendo un po’ in tutto il mondo, destinati alle realtà piccole e medie che hanno difficoltà ad accedere al credito. È ambizioso il suo piano. È chiaro che non bastano 300 o 400 milioni. Tenendo conto che le rottamazioni si ripagano quasi da sole, dovremo impegnare dai 3 ai 5 miliardi. Lo dica a Tremonti. Non mi permetto di sostituirmi a lui, ma nel piccolo del bilancio del Piemonte abbiamo trovato risorse, centinaia di milioni di euro, per il sistema manifatturiero. Il fondo di controgaranzia ai Confidi l’abbiamo supportato noi. Nel passaggio dal centro ricerca della Motorola alla Replay dieci milioni per la ricerca li abbiamo messo noi e altri dieci il governo. Da qualche parte i soldi, se si vuole, si trovano.

Per la crisi dell’auto sono a rischio 60mila posti lavoratori Fiat. In basso, il governatore del Piemonte, Mercedes Bresso Il suo Piemonte è un osservatorio privilegiato per capire la crisi dell’auto. In questi anni l’indotto non è andato male: ha saputo conquistare quote sui mercati stranie-

ri – a Torino produciamo pezzi per la Volkswagen – infatti sarà sostenuto dagli aiuti esteri. Non a caso le situazioni più complesse hanno riguardato Bertone, dove la crisi ha avuto per lo più ragioni familiari, o Pininfarina, che ha visto acuire i suoi problemi per il più generale calo degli ordinativi. La crisi Fiat porterà i costi

sugli ammortizzatori sociali, che il governo vuole trasferirvi. Questa è una delle cose strane di questa trattativa: il governo ci ha dato un documento nel quale si parla di devoluzione alle Regioni delle politiche passive del lavoro, estendendole anche ai precari e agli atipici. A parte che sarebbe necessaria una legge ad hoc, ma non sono ancora chiari i nostri compiti (in quali casi concedere la cassa integrazione) e a quali risorse fare riferimento. Ma ai fondi sociali Ue! Il commissario al Lavoro Vladimir Spidla ha scritto a noi e al governo per ricordare che il Fse non consente interventi sulle politiche passive. Servono per la formazione. E non permetterà un uso improprio. Soluzioni? Dei 2,6 miliardi di euro che ci ha chiesto il governo per gli

Il governatore del Piemonte guarda anche a prestiti rotativi per l’indotto. E sullo scontro sui fondi Fas e Fse avverte Tremonti: «Sta usando risorse che non ha» della cassa integrazione a 150 milioni di euro. Sì, ma non parlerei di “Piemonte Fiat-dipendente”, quanto di “Italia Fiat-dipendente”. Anche perché l’azienda crea il 10 per cento del Pil nazionale: se il cervello è da noi, il corpo, la produzione, è internazionale. Ve le state conquistando sul campo le competenze

Il 2009 si apre con un -32,6 per cento. Berlusconi: subito gli incentivi

Immatricolazioni a picco a gennaio ROMA. Si inizia ad avverare la profezia di Sergio Marchionne sul 2009 come anno nero per l’auto. Ieri il ministero delle Infrastrutture ha comunicato che a gennaio le immatricolazioni di nuovi veicoli sono crollate del 32,6 per cento. La Fiat mantiene però una quota di mercato del quota del 32,07. Come ha spiegato Gian Primo Quagliano, il direttore del centrostudi Promotor, il settore paga anche oltre «alle difficoltà della crisi economica, il blocco della domanda nell’ultima parte del mese determinato dall’attesa di incentivi statali annunciati e a tuttora non ancora concessi».

Si rafforzano quindi le pressioni per un piano di aiuti all’auto. All’interno del governo non c’è ancora un’intesa tra chi deve scrivere il provvedimento (il responsabile dello Sviluppo economico, Claudio Scajola) e quello che deve trovare le risorse necessarie (il titolare dell’Economia, Giulio Tremonti). Eppure ieri Silvio Berlusconi ieri ha confermato che il pacchetto vedrà la luce in settimana. Intanto Franzo Grande Stevens, storico legale dell’avvocato Agnelli, nota: «Se i concorrenti hanno avuto aiuti, anche Fiat dovrebbe averli per raggiungere una condizione di parità e assicurare il libero mercato».

ammortizzatori sociali, potremo usarne una parte per politiche di riqualificazione: per esempio si potrebbe rimodulare l’orario di lavoro su quattro giorno e dedicare il quinto alla formazione. Bene, questa giornata potremmo pagarla noi. È la base per un accordo? Ma se non è stato neppure aperto un tavolo di trattative. Trattare vuol dire: io voglio A da te, in cambio ti do B. Invece, soltanto annunci. Che non hanno alcun valore se non ci spiegano come usare questi fondi. Di più, ho un sospetto. Prego. Siccome la cassa integrazione la pagano i lavoratori, ho il dubbio che negli 8 milioni per gli ammortizzatori sociali ci siano anche i fondi per la Fiat. La situazione non è migliore sulla riprogrammazione dei Fas. È da dicembre che aspettiamo di discuterne. Ma il problema è un altro: come ha fatto il governo, per quanto riguarda la parte di sua competenza, ad attribuirli se non sono nel bilancio statale? Ci sono questi soldi? Non mi sembra che finora siano stati accantonati. Sui fondi sociali anche Confindustria vi chiede un passo indietro. La Marcegaglia non sa di cosa parla. Forse non si è mai interessata all’argomento. Forse non crede neppure alla formazione. Si può discutere su come impegnare le risorse, decidere quali categorie ne hanno più bisogno, detto questo, non posso mica regalarli a mio zio. Tutti i contrasti tra centro e periferia sono da imputare all’inapplicabile Titolo V della Costituzione? Inapplicabile? Ma se non è mai stato realizzato il federalismo fiscale! Se mai nessun governo ha voluto discutere seriamente di perequazioni il Sud! Ora c’è il testo di Calderoli, che ha avuto un placet di massima anche dal Pd. Se son contenti nel Pd, non è detto che lo debba essere anch’io. Bisognerà vivere a lungo per vedere realizzato questo federalismo fiscale. Addirittura. In Senato è passato un pasticciaccio. Io voglio una legge che mi dica da subito che entrerà nelle casse delle Regioni. Invece si discute su un modello che non chiarisce le attribuzioni e che moltiplicherà i conflitti d’attribuzione. Pensi soltanto ai ricorsi su come stabilire i corsi standard… Non so se il sistema reggerà a lungo a questo scontro sulle risorse.


società

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in breve Caso Fortugno: quattro ergastoli Qui accanto, Benedetto XVI. Sotto, Bernard Tissier De Mallerais, uno dei quattro vescovi lefebvriani appena riammessi da Roma ma che continua a chiedere al Papa prese di posizione contro il Concilio Vaticano II

Chiesa. Ormai appare chiaro che alcuni esponenti del movimento finiranno per staccarsi da Roma

Il “piccolo scisma” degli ultimi lefebvriani di Luigi Accattoli segue dalla prima Insomma mi chiedi se non sia stato troppo generoso e come mai appaia mosso da tanta premura proprio in direzione del tradizionalismo. Qui la risposta è più complessa ma forse si può dire che una spinta importante in quella direzione venga a papa Benedetto dalla considerazione dell’indebolimento numerico, identitario e disciplinare del clero cattolico e dalla constatazione che il movimento lefebvriano ha vocazioni in abbondanza. Il papa teologo non è mosso soltanto dal desiderio di sanare l’unica frattura canonica di tipo scismatico ereditata dal predecessore, ma anche dalla convinzione che le questioni in gioco con i tradizionalisti sono importanti per l’intera comunione cattolica, che rischia di non percepirle perché le ritiene appannaggio di ambienti reazionari. Ratzinger avverte questo errore di percezione e vorrebbe che il recupero di una maggiore correttezza liturgica, di una più viva attenzione alla dottrina, di un amore sostanziale alla grande tradizione cattolica non resti ostaggio di una componente isolata ma possa coinvolgere ambienti più vasti. Egli sdogana i tradizionalisti anche per incoraggiare la maggioranza dei battezzati a professare un genuino amore alla tradizione senza timore di essere iscritti d’ufficio al club dei nostalgici.

vanni Paolo II? Da quanto si è visto negli ultimi giorni credo che si possa prevedere una riuscita a metà. Egli appare motivato: le mosse audaci della liberalizzazione del vecchio messale e della “remissione” delle scomuniche le ha giocate con uno sprezzo del pericolo che non mi aspettavo. Immagino che continuerà a muoversi con determinazione e suppongo che riuscirà a tenere sotto controllo il malumore verso di essa che borbotta sotto traccia nel gran corpo cattolico. Prevedo anche che la sua mano tesa abbia a esercitare una viva attrazione nel campo tradizionalista. Non credo tuttavia che essa

rais, che afferma la necessità – per la “riconciliazione”– che il papa sposi le tesi tradizionaliste: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni».

Lo stesso Tissier De Mallerais in altra occasione aveva affermato la “necessità” che

Oltre al “negazionista” Williamson, anche Bernard Tissier De Mallerais, uno dei quattro vescovi appena riammessi, continua a chiedere al Vaticano di prendere posizioni insostenbili

Riuscirà il papa tedesco nel suo intento? Cioè a riassorbire lo scisma di chi non ha accettato il Vaticano II e a piantare una bandierina su una terra che è restata inviolata ai tentativi di penetrazione di Paolo VI e Gio-

Paolo Guzzanti lascia Forza Italia Paolo Guzzanti lascia Forza Italia e il gruppo del Pdl alla Camera, si iscrive al Gruppo Misto e al Partito liberale. Ad annunciarlo è stato lo stesso giornalista in una lettera a Silvio Berlusconi. «Caro Silvio, - dice il messaggio - ti scrivo per annunciarti che oggi, 2 febbraio, rassegno le mie dimissioni dal gruppo Pdl della Camera per iscrivermi al gruppo misto. Contemporaneamente mi dimetto dal partito e ti annuncio la mia iscrizione al Partito Liberale Italiano in cui intendo candidarmi per responsabilita’ politiche al prossimo congresso di Roma».

EasyJet: pronti a salvare Linate

basti a riportare nella “piena comunione” l’intero movimento lefebvriano.

Ciò che ha ottenuto è sotto gli occhi di tutti. Richard Williamson, il vescovo negazionista, è stato sconfessato dalla dirigenza della Fraternità e si è scusato con Roma. Il superiore generale Fellay è arrivato a chiedere scusa non solo a Benedetto XVI ma anche “agli uomini di buona volontà”: e questo è il linguaggio dei papi conciliari, fino a ieri aborrito dalla Fraternità. È un buon acquisto. E anche migliore è l’altro sul fronte dell’ebraismo: lo stesso Fellay parlando sabato al settimanale francese Famille Chrétienne ha chiamato gli ebrei “nostri fratelli maggiori”come faceva papa Wojtyla. Ma sarà difficile ottenere di più. È di domenica un’intervista di un altro dei quattro vescovi liberati dalla scomunica, Bernard Tissier De Malle-

Sono stati condannati all’ergastolo i mandanti e gli esecutori dell’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno, avvenuto a Locri il 16 ottobre 2005. Le quattro condanne riguardano Alessandro e Giuseppe Marcianò (padre e figlio, considerati i mandanti), Salvatore Ritorto (ritenuto il killer) e Domenico Audino (accusato di aver aiutato Ritorto a raggiungere il luogo del delitto). I giudici della corte di Assise di Locri hanno quindi confermato la richiesta dell’accusa, di fatto sottolineando la matrice mafiosa dell’omicidio. La vedova Fortugno, tra le lacrime, ha detto: «Spero che le ricerche continuino per raggiungere altri livelli».

venga“cancellato”il Vaticano II. Mentre il vescovo negazionista Williamson sette mesi addietro ebbe a dire che il papa dovrebbe «eliminare il messale di Paolo VI», cioè la riforma della liturgia realizzata in applicazione al Concilio. Ovviamente il papa che fu perito conciliare – e che trattò con Lefebvre nel 1988 fino alla vigilia della ribellione e della scomunica – non compirà questi passi. E dunque è verosimile che nella “piena” comunione rientri solo il grosso della Fraternità, senza le zone che hanno come portavoci Williamson e Tissier De Mallerais.

Francois Bacchetta, general manager di easyJet per il Sud Europa, commentando il dibattito sul futuro dell’aeroporto di Milano Linate, ha affermato: «easyJet è pronta a salvare Linate e a investire ulteriormente in Italia. Abbiamo già ridato vita a Malpensa e saremmo onorati di poter fare lo stesso per Linate, poiché crediamo che Cai guardi soprattutto ai propri interessi e non a quelli dei consumatori. Tutto ciò che ci serve è il diritto di poter operare più rotte, infatti abbiamo già provveduto a richiedere 30 slot a Linate e 40 a Fiumicino e siamo pronti a batterci per ottenerli».


politica

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Giustizia e dintorni. Berlusconi annuncia il varo della riforma e lo stop alle trattative col Pd sul ddl intercettazioni. L’Anm: «Così si aiuta il crimine»

Fine delle conversazioni «Presto la separazione delle carriere», dice il premier Per Veltroni la via del dialogo è sempre più stretta di Errico Novi

ROMA. Nessuna attesa. Silvio Berlusconi va dritto per la strada tracciata con An e Lega e ignorerà qualsiasi obiezione provenga dal Pd in merito al ddl sulle intercettazioni. «Mi ero impegnato a combattere la violazione della privacy, messa in pericolo dalls pubblicazione di colloqui anche di persone non indagate. Anche quest’impegno, con molta difficoltà, è stato mantenuto». Lo annuncia in collegamento telefonico con la manifestazione “Governincontra”tenuta ieri ad Avellino. Senza riferirsi mai al partito di Walter Veltroni, il premier

Ferranti sperava di poter condurre una moral suasion. «Chiediamo al governo di prestare ascolto alle tante critiche costruttive che si sono levate in questi giorni e ritirare il ddl». Troppo tardi. Il premier va come un treno e a questo punto solo un rigurgito interno alla sua coalizione potrebbe riaprire i giochi.

Non è finita. Il presidente del Consiglio già calendarizza il via libera in Consiglio dei ministri al primo step della riforma sull’ordinamento giudiziario: «Il testo è pronto e sarà varato

rio intervenire», è il suggello del Cavaliere». Fatto salvo un ripensamento di Bossi (per ora non alle viste: ieri Roberto Maroni ha respinto le accuse di alcuni procuratori, a cominciare da quelle di Armando Spataro, secondo cui il nuovo meccanismo delle intercettazioni avrebbe favorito persino gli aguzzini di Nettuno), la vera partita si gioca in un triangolo così composto: al vertice, cioè nella posizione più comoda, la maggioranza e il premier, che si muovono come se l’accordo per le

Ribaditi i termini delle limitazioni: i colloqui telefonici potranno essere autorizzati per non più di 60 giorni. «Impossibile sventare i sequestri di persona e fermare il narcotraffico», sostiene Cascini chiarisce dunque che «l’accordo nella maggioranza» basterà e avanzerà per ridurre drasticamente l’uso delle conversazioni telefoniche nelle indagini: «Potranno essere autorizzate solo per i reati più gravi e per un tempo massimo di 30 giorni, prorogabile al massimo di 15 giorni più altri 15». Si tratta del punto di equilibrio già individuato all’interno della maggioranza, sul quale ancora ieri il capogruppo del Pd nella commissione Giustizia di Montecitorio Donatella

Europee avesse già fatto maturare loro un credito verso il Pd; alla base si fronteggiano il partito di Veltroni, appunto, e quello dei giudici. Antonio Di Pietro già assapora il dividendo dell’operazione: l’ombra di una sola singola intesa tra Veltroni e il Pdl (già se ne contano due, sulla Rai e appunto sul sistema di voto per Strasburgo) rafforzerà l’Italia dei valori come ultimo baluardo del giustizialismo vecchio stile. Sarà difficile sradicare dalla testa degli elettori di centrosinistra l’idea che il Pd

in una delle prossime riunioni: il punto fermo sarà quello della separazione degli ordini, una separazione tra avvocati dell’accusa e della difesa». Nel provvedimento saranno accolti anche alcune delle novità per snellire il processo civile da mesi allo studio a via Arenula, e implicitamente invocate anche dal primo presidente di Cassazione nella cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario: «I tempi sono inaccettabili per un Paese civile, è necessa-

I dalemiani studiano una modifica delle regole interne per scegliere il leader del nuovo Partito democratico

Bersani in campo contro Walter (e le primarie) di Antonio Funiciello

ROMA. Cosa c’è davvero dietro l’offensiva del candidato alla segreteria del Pd Bersani? È abbastanza chiaro che la battaglia sullo sbarramento al 3%, invece che al 4%, è soltanto la foglietta di fico dietro un disegno di elaborazione di una linea e di una leadership politica alternative a quella di Veltroni. Un disegno che stabilisce nel rapporto con l’arcipelago dei micro-partiti di sinistra l’elemento decisivo della diversa offerta politica. Ovvero, liquidazione della vocazione maggioritaria e baricentro politico fissato nel punto di equilibrio del sistema di alleanze. In tal senso, lo scontro sulla soglia di sbarramento è pretestuoso. A chi si candida a succedere a Veltroni non conviene ereditare un Pd uscito da una debacle alle europee, che farebbe vacillare il progetto stesso del nuovo partito. Bersani, ma soprattutto D’Alema, non sono a questo punto di rottura.

Il vero fronte aperto contro Veltroni è legato alle modalità con cui si svolgerà il congresso previsto per l’autunno. La procedura attuale prevede un’articolazione distinta in due fasi. Nella prima gli iscritti al partito elaborano le vecchie piattaforme programmatiche e scelgono i candidati alla segreteria nazionale, che possono essere massimo tre. È un momento particolarmente importante sul piano dei contenuti politici, poiché nei confronti di questi vincolante, ma assolutamente non decisivo per la vittoria finale. Basta infatti avere il 15% del totale degli iscritti per presentare alla seconda fase un candidato segretario. In questa si procede, come per il 14 ottobre 2007, alle primarie aperte a tutti coloro i quali si dichiarino elettori democratici (modello Usa), che si ritrovano ad essere i veri decisori nella selezione del nuovo segretario. D’Alema ha

più volte sottolineato, in ultimo alla più recente Direzione nazionale prima di Natale, che è contrario al ricorso alle primarie per scegliere i segretari del partito ai vari livelli, mentre sarebbe ancora d’accordo alle primarie per la scelta dei candidati alle cariche monocratiche istituzionali.

Le cronache locali riferiscono di primarie democratiche in cui, puntualmente, il ceto politico dalemiano (quello di diretta discendenza Pci-Pds-Ds) esce sconfitto. La maggior parte delle volte non riesce ad imporre il proprio candidato come quello ufficiale del partito, in primarie magari di coalizione. Altre volte, quando ci riesce, perde la competizione. L’incubo primarie ha cominciato a turbare le notti di quelli di ReD da quando le sconfitte alle primarie hanno cominciato ad


politica comprime fortemente la possibilità di utilizzarle in modo efficace». La pesantezza del quadro descritto si tradurrà in una opposizione dai toni urlati? Per ora l’ambasciatrice del Nazareno sui temi della giustizia denuncia come «gravissima» la proposta della maggioranza: «Si avrà l’unico effetto di bloccare il contrasto alla criminalità, anche quella organizzata, visto che le nuove norme non permetteranno di accertare i cosiddetti reati satelliti che sono, come noto, la prima dimostrazione della presenza nel territorio di reti criminali organizzate».

Di Pietro già pregusta nuove fughe di consensi dai democratici: l’accordo su Rai e sistema di voto per Strasburgo farà apparire il Pd come un complice agli occhi dell’elettorato più giustizialista sia stato troppo debole nell’opporsi a Berlusconi.

Eppure i veltroniani ancora ci provano. Pochi minuti prima che il premier dicesse di non vedere altri ostacoli sul cammino della legge che limita l’uso e la pubblicazione delle telefonate, era ar-

rivata appunto l’estrema raccomandazione della Ferranti: «Il testo che sigilla l’intesa di maggioranza mina gravemente il potere investigativo della polizia giudiziaria e della magistratura inquirente. Nel merito, la richiesta di gravi indizi di colpevolezza per attivare le intercettazioni

avvicinarsi alle storiche roccaforti. Da Bologna alla Romagna, si registrano ormai nette sconfitte quando non brucianti disfatte: proprio in quella Emilia Romagna che dovrebbe esprimere il nuovo segretario Bersani. È evidente, anche sulla scorta di quanto sta avvenendo, che ad una competizione aperta in forma di primarie che veda fronteggiarsi Veltroni e Bersani, quest’ultimo non sarebbe il cavallo vincente.

E allora il vero fronte aperto dalla candidatura Bersani e dall’iniziativa di D’Alema si rivolge direttamente a una sensibile modifica statutaria che espunga la parola primarie dal vocabolario democratico. Se difatti la scelta del segretario nazionale e di quelli regionali e provinciali ritornasse agli iscritti, i nuovi eletti tornerebbero ad essere nominati da Roma e, dunque, capaci di disporre primarie dall’esito scontato e favorevole all’establishment nella selezione di Sindaci, Presidenti di Provincia e di Regione. Le continue sconfitte alle primarie locali stanno, infatti, indebolendo sensibilmente quella schiera di amministratori e consiglieri degli enti che è la spina dorsale della corrente dalemiana. Un trend da interrompere al più presto o, almeno, prima che sia troppo tardi.

Se è per questo l’Anm la vede ancora più nera. Secondo il segretario Giuseppe Cascini «la limitazione all’uso delle intercettazioni ambientali per tutti i reati, ivi compresi quelli di mafia e terrorismo, col divieto di farle nelle autovetture, nelle sale colloqui del carcere, negli uffici, nei locali pubblici, ripeto, anche per mafia e terrorismo, rappresenta un gravissimo danno anche sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata. In questa situazione è come se le intercettazioni venissero semplicemente abolite di fatto». Quindi per l’Associazione magistrati «lo Stato rinuncia all’uso di uno strumento indispensabile di indagine e favorisce la criminalità, danneggiando la sicurezza dei cittadini. Chiedere come presupposto quello della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, cioè lo stesso richiesto per l’adozione di misure cautelari, significa depotenziare drasticamente lo strumento di indagine: pensiamo ad un sequestro di persona, ad una operazione di traffico d’armi o di stupefacenti che non è detto che debba durare solo 60 giorni: molto spesso le intercettazioni si protraggono nel tempo come si protraggono nel tempo le operazioni criminali». Se il Pd non dovesse raccogliere l’allarme dovrà decidersi a rompere in via definitiva con il partito dei giudici. Scelta costosa, tra le tante che angosciano Veltroni.

3 febbraio 2009 • pagina 9

Europee. I piccoli partiti: lasciamo le giunte locali

Ora i “nanetti” si danno ai ricatti di Francesco Capozza

ROMA. «Contro il realizzarsi del vergognoso accordo parlamentare in corso tra maggioranza e opposizione - reso possibile solo grazie al consenso di Pd e Idv - oggi parteciperò, con una folta delegazione del mio partito, ai presìdi di protesta che abbiamo organizzato sotto le sedi della Presidenza della Repubblica e delle Camera». Queste le parole durissime di Paolo Ferrero, segretario del Prc, dopo l’intesa sullo sbarramento al 4% per le elezioni Europee, con cui si punta a «escludere dal Parlamento europeo forze politiche come Rifondazione comunista e, di fatto, tutta la sinistra». La protesta cui si riferisce Ferrero si svolgerà oggi alle 12 sotto il Quirinale «per chiudere l’intervento del presidente Napolitano a tutela del pluralismo democratico» e proseguirà dalle 14 davanti alla Camera in occasione della discussione in Aula del ddl bipartisan. A Ferrero fanno eco il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, e quello dei Verdi, Grazia Francescato, che avvertono: «Contestualmente alla protesta di piazza, tutti i nostri ex parlamentari porteranno la protesta dentro il palazzo di Montecitorio». La segretaria del partito del Sole che ride è ancora più netta, arrivando a minacciare «l’uscita dei Verdi da tutte le amministrazioni locali in cui governa con il centrosinistra» e invitando tutti gli altri “piccoli”a fare lo stesso.

Nel frattempo, all’interno del Pd, si fa sempre più ampio il fronte di coloro (tra cui i dalemiani) che avrebbero preferito evitare questo accordo con la maggioranza e non incrinare ancora di più i rapporti con la sinistra lasciata già fuori dal Parlamento nazionale. A gettare benzina sul fuoco è stato però Beppe Fioroni, coordinatore organizzativo del Pd, che al termine di una riunione con i segretari regionali del partito ha dichiarato che «sarebbe una sorpresa se nel Pd qualcuno ci avesse ripensato rispetto alla decisione di siglare l’intesa con la maggioranza sullo sbarramento al 4% per le Europee». Non è stata da meno la frecciata lanciata da Goffredo Bettini nei confronti dei presunti mal di

pancia al Nazareno: “Nella riunione del direttivo del partito del 14 gennaio scorso, a cui partecipò anche Massimo D’Alema, si decise di soprassedere sul sistema ibrido per le preferenze e si scelse di difendere le preferenze insieme a uno sbarramento al 4%. Dunque, conclude Bettini, l’obiettivo è stato raggiunto anche perché il governo e il centrodestra sono venuti incontro alle nostre posizioni».

Bettini ha infine ribadito che «questa è la posizione del partito e che i segretari regionali hanno unanimemente condiviso». Nulla da fare, sembrerebbe, per inversioni di rotta dell’ultim’ora. Tranne sorprese (poco probabili), entro la settimana o al più tardi all’inizio della prossima, lo sbarramento sarà legge dello Stato e a Strasburgo siederanno solo i rappresentanti di

Il negoziato adesso si sposta sul fronte del rimborso elettorale, cui potrebbe accedere solo chi ottenesse un seggio al Parlamento europeo quei partiti che avranno ottenuto più del 4% di preferenze. La trattativa, piuttosto, sembra adesso spostarsi sul lato economico della questione. I rimborsi elettorali, infatti, sono disciplinati con una legge a parte: essa prevede che possano usufruire del rimborso solo quei partiti che abbiano ottenuto un seggio al Parlamento europeo. Quindi, stando così le cose, si aggiudicano i soldi solo coloro che ottengono almeno il 4%. I “nanetti” starebbero trattando su un eventuale abbassamento di quella soglia al 2%, per garantirsi almeno «la sopravvivenza». Non sarebbero cifre astronomiche quelle di cui disporrebbero i partiti oltre il 2%, si parla di circa 500mila euro l’anno: sufficienti, però, per “tirare a campare”. Quella che è nata come una giustissima battaglia «per la democrazia» starebbe pertanto diventando una venale «guerra per la pagnotta».


panorama

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Provocazioni. La Lega ostacola il Gp di Roma e “invita” il sindaco a «riorganizzare una corsa di bighe»

La rivolta brianzola anti-Alemanno di Marco Palombi l Qaeda e la corsa delle bighe, un’ardita tesi storiografia sulla civiltà romana e il colonialismo contro il Nord, l’inizio di una guerra toponomastica e l’orgoglio brianzolo. Tutto questo, e altro ancora, anima il - chiamiamolo così - dibattito intorno al ventilato Gran Premio di Formula 1 di Roma, ennesimo uso colposo di simbolismi da parte della Lega.

A

Ric apitoliamo i fat ti: circa una settimana fa il sindaco della capitale Gianni Alemanno ha confermato di aver ricevuto da una società che organizza eventi sportivi la proposta di organizzare una gara automobilistica a Roma e di aver dato mandato al senatore di An Andrea Augello di verificare la fattibilità della cosa. Sembra che Bernie Ecclestone, patron della Formula 1, abbia espresso il suo gradimento e il progetto potrebbe partire dal 2011, l’anno in cui scadrà la convenzione tra il campionato

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

automobilistico e il circuito di Monza. Da qui, la valanga.

Il sindaco di Monza, il leghista Marco Mariani, è di gran lunga il protagonista di questa storia. Le sue dichiarazioni sono già un cult: spaziano dall’istigazione al terrorismo all’aforisma storiografico, alla

deve smettere di pensare di avere il diritto divino di rubare al Nord». Massimo Zanello, assessore regionale: «La capitale pensi a pagare i propri debiti, magari iniziando a farli pagare ai romani e non a tutto il resto del Paese». Il senatore (ed ex pilota) Cesarino Monti, dopo aver definito il Gp di Monza

Il leghista Mariani: «Gli tiro giù l’Altare della Patria». E tra le altre proteste, il cambio di nome di Piazza Roma a Monza, ribattezzata Piazza Brianza sentenza tacitiana: «E’ la volta buona che mi convenziono con al Qaeda e gli faccio tirar giù l’Altare della Patria», ha buttato lì a caldo. «Roma è dall’antichità che fa danni, è al mondo per romperci le palle», ha spiegato il giorno dopo. «C’è il tentativo di rubarci il Gran Premio. Anzi non è un tentativo, è una porcheria», ha concluso. Il buon Mariani non è rimasto solo. Citando fior da fiore. Paolo Grimoldi, deputato del Carroccio e capo dei giovani padani: «Roma, città che sembra aver perso qualsiasi dignità, la

«icona brianzola nel mondo», s’è chiesto se «la richiesta di Roma di sforare il patto di stabilità serve per pagare il Gran Premio».

Il deputato Claudio D’Amico: «Dopo aver cercato di rubare le passerelle della moda a Milano, con Veltroni hanno cercato di rubarci anche il Festival del Cinema di Venezia e ora, ciliegina finale, la nuova folle idea di scipparci anche lo storico Gran Premio di Monza. Il Nord ha dimostrato, anche con la grande idea di ospi-

tare l’Expo, di aver sempre nuove idee, quindi, visto che a Roma di nuove idee non ne hanno, ne suggerisco una: ricostruite il Circo Massimo e organizzateci una grande corsa di bighe».

Ieri, infine, grande happening monzese. Grimoldi e un assessore comunale hanno cambiato il nome a Piazza Roma, ribattezzandola Piazza Brianza. La Giunta ha annunciato che chiederà ufficialmente il cambio di nome e invitato «tutti i Comuni della Brianza a fare altrettanto». Per sottolineare l’inventiva settentrionale, i leghisti hanno pure inviato una biga giocattolo ad Alemanno «per invitarlo a colmare il calo di turisti con eventi di tipo storico piuttosto che derubare il Nord delle sue manifestazioni». Appare appena il caso di spiegare che il progetto di Gran Premio a Roma riguarda l’ingresso di nuovi circuiti cittadini in Formula 1 e non è destinato a sostituire quello di Monza, Gran Premio d’Italia ma anche icona brianzola nel mondo.

Un saggio di Christopher Duggan analizza il destino mancato della nostra Unità

Breve storia dell’incompiutezza italiana o storico inglese Christopher Duggan ha scritto il libro La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi (Laterza). A parte che c’è sempre uno storico inglese che si interessa alle cose di casa nostra, la tesi di Duggan, ben suffragata dai fatti, è questa: siamo una nazione senza Stato. La scorsa settimana, sul Corriere della Sera c’era un intervento di Duggan che riassumeva il senso della sua ricerca. La cosa mi è sembrata curiosa solo perché sto scrivendo un saggio - Il paese semiserio - sul medesimo argomento. Ve ne propongo qualche passo a voi provinciali e a Duggan.

L

I tre pilastri della vita pubblica moderna - lo Stato, l’individuo, la nazione non hanno una seria cittadinanza italiana. Pur avendo fatto la loro prima comparsa al mondo proprio in Italia, qui da noi non hanno trovato terreno fertile. Il primo ostacolo che hanno incontrato è stato un altro e più universale Stato: il Papato. Gli italiani sono nati e cresciuti sotto la Chiesa cattolica e con questo fatto e questa cultura hanno dovuto fare i conti. Nel bene e nel male, si capisce. Ma sempre e comunque sotto la Chiesa dalla quale non si è stati per tanto tempo indipendenti culturalmente. Per tanto, troppo tempo la

Chiesa e lo Stato sono stati indivisi e indistinti nella coscienza degli italiani e la secolare indistinzione non poteva non avere ripercussioni negative quando lo Stato si è distinto per forza di cose contro la Chiesa e non grazie alla Chiesa. Il secondo ostacolo è stato la divisione territoriale in stati e staterelli, regni, città, ducati. Come unire sotto un unico Stato tutti gli altri? Nel Cinquecento tutti si uniscono e consolidano la propria unità territoriale ed economica e diventano nazioni Stati-nazione mentre l’Italia si divide e per restare ben divisa chiama a raccolta gli stranieri: «Franza o Spagna, basta che se magna». E lo straniero, chiamato dai divisi e rivali piccoli Stati italiani e dal grande Stato universale della Chiesa, è il terzo ostacolo per l’affermazione in Italia dei tre pilastri dell’Europa moderna. Machiavelli aveva visto tutto bene, ma niente andò per il verso giusto: né lo Stato, né la coscienza individuale,

né l’unità nazionale. E quando fu presa Roma, giustamente Francesco De Sanctis che stava scrivendo la Storia della letteratura italiana volle rendergli omaggio perché vide realizzarsi ciò che Machiavelli aveva intravisto: «Sia gloria al Machiavelli». Il gesto di De Sanctis porta alla mente l’Hegel della Fenomenologia: mentre il filosofo scriveva a Jena, in città entrò l’esercito napoleonico al seguito del Generale e il filosofo ebbe a scrivere: «Oggi ho visto lo spirito del mondo a cavallo». Lo spirito del nuovo mondo entra in Italia in ritardo sulla Storia per poter fare un paese serio. Ne verrà fuori un paese semiserio.

Uno Stato che non nasce nelle coscienze, per il quale non si è lottato, che è lontano dalla stragrande maggioranza delle popolazioni, che è addirittura avvertito come un intruso è destinato ad essere uno Stato incerto e, peggio che andar di notte, uno Stato incredibile

cioè non credibile e non creduto. E delle coscienze che non avvertono e affermano in sé il momento ideale dello Stato sono destinate a essere incoscienti, irresponsabili, illiberali. E un territorio che non si riconosce in una comune storia nazionale è destinato a essere unito formalmente e diviso sostanzialmente con “questioni”meridionali e settentrionali e Stati criminali reali dentro lo Stato nazionale legale. La frase di Massimo D’Azeglio, «L’Italia è fatta» si può tradurre con lo Stato è fatto, anzi, ancor meglio, con l’Unità è raggiunta, gli Austriaci non ci sono più. L’altra metà della frase, «ora bisogna fare gli italiani», sta a significare l’esigenza di un nuovo incontro a Teano: la sintesi tra lo Stato e la nazione. Ma lo Stato voleva dire il Piemonte e la nazione tutto il resto o quasi. Lo Stato etico, formula di chiara ascendenza hegeliana, fu una necessità per far incontrare élite e popolo. Ma la storia da farsi non è come la storia già fatta. La filosofia hegeliana, fedele alla nottola di Minerva che svolazza sul far del crepuscolo, funziona a meraviglia quando i giochi sono fatti, ma annaspa e gira a vuoto quando i giochi sono tutti ancora da fare. È così che lo Stato etico ha messo al mondo in Italia l’individualismo statalista la cui formula suona «ognun per sé e lo Stato per tutti».


panorama

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Polemiche. L’accordo Pdl-Pd sulla legge elettorale per le Europee contraddice tutta la storia politica del nostro Paese

Il diktat delle “nuove oligarchie” di Gerardo Bianco uasi senza dibattito pubblico preliminare, con un accordo, che si direbbe “consociativo”, tra Pdl e Pd, si va profilando un cambiamento della legge elettorale europea che introduce la soglia di sbarramento del 4% per la rappresentanza nell’Assemblea di Strasburgo. Non v’era modo peggiore per affrontare la questione, che andava riesaminata soprattutto sotto il profilo della dimensione territoriale delle circoscrizioni. La salvaguardia delle preferenze, che, in un primo momento, sembrava dovessero essere cancellate, rafforzando ancor più il sistema oligarchico che si va instaurando in Italia, non riscatta da una brutta riforma. Essa può liberare da listarelle improvvisate, personali o anche folcloristiche, ma rischia anche di cancellare dalla rappresentanza in Europa formazioni presenti da decenni nella vita politica italiana .

Q

Non convincenti sono gli argomenti addotti per la fissazione del quorum al 4%. In de-

finitiva, si riducono al ritornello della semplificazione del sistema politico. Ciò potrebbe avere senso se fosse in gioco un problema interno di governabilità, non quando è, invece,

corta valutazione dei sistemi elettorali, da parte dei riformatori nostrani, sarebbe auspicabile una rilettura del robusto dibattito che, nella seconda metà dell’Ottocento, si svolse, in Europa e in Italia, sul problema della rappresentanza. Appariva già chiaro, in quell’epoca, che per lo sviluppo democratico di un paese una legge elettorale deve combinare, con la governabilità, il massimo di rappresentatività

della Repubblica italiana che si avviò con estremizzazioni, sia a sinistra, sia a destra, semileali e perfino antisistema. La “democrazia compiuta”, con la legittimazione di tutte le forze politiche a governare il paese, non si sarebbe realizzata senza il sistema inclusivo della “proporzionale”che ha ricondotto nel Parlamento e nelle istituzioni la dialettica politica. Anche con la riforma post-referendaria del 1993, (l’in-

La tutela dei piccoli partiti è sempre stata indispensabile per controbilanciare la naturale tentazione dispotica o oligarchica del potere

preminente il tema della rappresentatività, come nel caso del Parlamento europeo che non ha il compito di dare vita ad un governo. Per una più ac-

per le minoranze come essenziale correttivo della permanente tentazione dispotica o oligarchica del potere politico. Una legge elettorale di ispirazione pienamente democratica contribuisce a svolgere una funzione coesiva della cittadinanza che è fattore decisivo per la stabilità del sistema istituzionale. È stato, appunto, questo l’effetto della “proporzionale” nelle vicende storiche

giustamente denigrato Mattarellum), si tentò di evitare, preservando la quota proporzionale del 25% con l’aggiunta dello scorporo, la scomparsa di forze minoritarie, ma significative dalla vita parlamentare. In quelle coerenti scelte, che cercarono, come nel 1953, di coniugare anche governabilità e rappresentatività, si rifletteva una cultura democratica che mirava a ricomporre

nell’unità statuale ed istituzionale le fratture sociali, culturali e partitiche, senza forzature e schematizzazioni politologiche. È stata questa la linea costante del popolarismo e della Democrazia Cristiana.

Oggi si rischia, con leggi come quella che si sta ventilando per le europee (dove basterebbe un 2% per dissuadere dall’avventurismo elettorale), di escludere dalle Assemblee di Strasburgo e di Bruxelles partiti con storie e posizioni non certo inventate. Sorprende che uno scrupoloso difensore di metodo democratico, come Eugenio Scalari, si schieri, su Repubblica di domenica, per il patto tra Pdl e Pd sulla legge elettorale europea, sottovalutandone i possibili effetti di esclusione per forze particolarmente rappresentative di ceti marginali e deboli. Senza più tutela e rappresentanza, cancellati dal Parlamento nazionale, esclusi anche dal Parlamento europeo, non resta che la piazza; ma così la nostra democrazia non avrà fatto certo un passo avanti!

Gaffe. Il ministro dell’Economia, a Davos, ha evitato le domande di un cronista americano

Tremonti in fuga davanti a Unicredit di Alessandro D’Amato

ROMA. Finora non è che sulla stampa italiana abbia avuto molta rilevanza, quanto accaduto soltanto il 30 gennaio a Davos tra il ministro dell’Economia italiano, Giulio Tremonti, e Geoff Cutmore, un giornalista della rete Cnbc. E pensare che il tutto è stato notato - al contrario - dal Financial Times. I fatti: Tremonti, durante un’intervista alla tv americana sta discutendo dei massimi sistemi e di economia internazionale quando riceve dal giornalista una domanda sulla possibilità che Unicredit riceva aiuti di Stato. E il superministro se ne va dallo studio, piantando in asso l’intervistatore. «Don’t Mention the Italian Economy», “Non parlate di economia italiana”, titola sarcasticamente la Cnbc nel video che mostra l’intervento. «You can tell by the way I use my walk…», “Parli di me attraverso le mie camminate”dice invece l’FT citando un verso di Staying Alive dei Bee Gees, e in un articolo nel quale parla anche del nervosismo con cui Trichet smentisce l’ipotesi che alcuni paesi (Grecia e Italia) siano costretti a uscire dall’euro, così descrive l’accaduto: «When asked about the prospects of a Unicredit bailout in an interview with CNBC’s Geoff Cutmore, Tremonti just, error, walked out. Lovely», “quando Geoff Cutmore della Cnbc gli ha

chiesto di Unicredit, Tremonti, sbagliando, ha saputo solo andarsene”. E perché, secondo il giornale? «…I’m a euro financier, no time to talk» “Sono un esperto di economia europea, non ho tempo per parlare d’altro...”.

Era forse a disagio, il ministro? O, più probabilmente, aveva preso accordi con il giornalista per non rispondere a domande su singole aziende bancarie o sulla solu-

Nessun giornale italiano ha notato l’incidente ma il “Financial Times” ha sottolineato la reticenza del superministro sulle banche zione italiana e poi, dopo la domanda a sorpresa, se n’è giustamente andato? Di certo c’è l’equivoco: finora Unicredit non ha chiesto aiuti di Stato all’Italia, ma ha anzi detto di essere pronto a chiederli all’Austria per la controllata Bank of Austria. Di certo c’è chi pensa che sia questione di giorni o di settimane, e poi tanto piazza Cordusio quanto Monte dei Paschi di Siena andranno a battere cassa. Nel frattempo però Giulio un alleato fondamentale se l’è assicurato: è l’ex nemico Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, l’associazione che raccoglie le fondazioni bancarie.

«Le Fondazioni - ha detto il ministro dell’Economia durante l’ultimo convegno dell’Acri - sono economicamente e religiosamente virtuose. Il risparmio diretto e anche indiretto è nella vostre mani. Fatene buon uso». E Guzzetti ha subito risposto: «Siamo pronti a fare la nostra parte». Soprattutto, sembra di capire, come azionisti al 30% della Cassa depositi e prestiti, custode di circa 100 miliardi di risparmio postale. «Ci aveva molto interessato il disegno di fare della Cdp uno strumento molto importante per la gestione del nostro territorio - ha infatti ricordato il presidente Acri -. Finalmente abbiamo rimosso quegli elementi che l’avevano impedito. Abbiamo la forte consapevolezza - ha aggiunto ancora - che la nostra missione sia nel sociale ma anche nella dotazione di questo Paese di mezzi e infrastrutture».

Insomma, il patto sembrerebbe chiaro: le grandi opere in cambio di mantenere intatto (o magari aumentare, come nel caso di Unicredit) il potere negli istituti di credito. E quando i patti sono chiari, l’amicizia rimane sempre lunga.


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nche all’inizio del Cinquecento gli inglesi ce l’avevano con gli italiani. E per gli stessi mortivi delle proteste di questi giorni alla Lindsey Oil della Total nel Lincolnshire: «British jobs for british workers». Nel Cinquecento, magari, c’era anche qualche aggravante, agli occhi dei «british woerkers»: ci rubano il lavoro, magari tra poco ci ruberanno le case. E la tranquillità. E le donne, magari, chissà. Insomma, all’epoca protagonista della faccenda fu niente meno che Tommaso Moro, primo ministro – cattolico – di Enrico VIII subito prima dello scisma anglicano. Ma se ne sappiamo qualcosa, di quella sommossa anti-italiana, lo dobbiamo a Shakespeare il quale, per colpa di noi altri italiani, dovette pure combattere la censura. Anzi, per colpa dei lombard, nome oggi usurpato da una minoranza politica piuttosto ignorante di storia (come dimostra anche la vicenda che stiamo per raccontare) ma molto rumorosa.

A

Ma vediamo per bene come andarono le cose e cerchiamo di approfondire questo singolare, attualissimo caso di censura politica. Era il 1594 e Shakespeare aveva avuto l’incarico – ben pagato – di parlar bene di un cattolico in una società che vedeva nei cattolici i suoi nemici peggiori. A mandare a monte la cosa non fu una congiura di senzadio né una lobby europea del diavolo: fu un tale Edmund Tinley, «Master of the Revels», in pratica censore di Stato, prima di Elisabetta Tudor e poi di Giacomo Stuart. Un funzionario scrupoloso cui toccò in sorte di vigilare il rispetto dei buoni costumi, della bella società e della religione di Stato. Che, come è noto, era la religione anglicana: mentre quel poveraccio di Shakespeare, nell’occasione, doveva giustificare con la sua poesia il fatto che a fare da prota-

gonista di una splendida tragedia a più mani fosse stato scelto un politico cattolico. Di più: un grande statista che aveva sacrificato la testa e la carriera per non rinunciare ai principi della sua fede. Tommaso Moro, insomma: ex sindaco di Londra, ex cancelliere di Enrico VIII, ex gentiluomo decapitato dal suo ex datore di lavoro, il re Tudor. Il tutto – ad aggravare le cose – sarebbe dovuto andare in scena mentre sovrana era proprio Elisabetta, figliola del monarca che aveva mandato Tommaso Moro al ceppo, nonché ella stessa autrice della normalizzazione finale della religione anglicana inventata dal proprio padre.

È una storia strana, piena di colpi di scena. Comincia nel 1593, un anno prima di una grande epidemia di peste che chiuse per molti mesi i teatri di Londra: uno scrittore di buon successo, Anthony Munday, chissà perché decise di scrivere una biografia drammatica niente meno che di Tommaso Moro. Fatte le proporzioni, è come decidere oggi di scrivere un musical in onore di Palmiro Togliatti: imbarazzante. Perché? Semplice: perché Tommaso Moro era un personaggio che prometteva emozioni forti, quelle tanto apprezzate dagli spettatori paganti del teatro elisabettiano. Spettatori politicamente scorretti – per altro – e sia detto a loro lode perché per ridere e piangere la correttezza non è il primo ingrediente. Ebbene, questo Anthony Munday giudicò la propria penna un po’ troppo incerta e quindi chiese aiuto a due drammaturghi amici, Henry Chettle e Thomas Dekker: era prassi comune, del resto, scrivere copioni a più mani. Così il terzetto compilò un dramma biografico

e lo consegnò alla compagnia guidata dal grande attore Edward Alleyn. Il copione fu giudicato pieno di molte buone intuizioni ma teatralmente non parve granché: senza contare che si prestava a troppi rischi politici. Il tema era spettacolarmente forte, ma chi avrebbe autorizzato la rappresentazione epica del sacrificio di un cattolico ammazzato dal papà della regina in carica con l’accusa di alto tradimento? Ci sarebbe voluto almeno l’avallo di qualche teatrante politicamente equilibrato e ben introdotto a corte... William Shakespeare, per esempio, e magari anche Thomas Heywood, altro commediante assai stimato, all’epoca. Detto fatto: dopo un primo, scontato parere negativo ottenuto dal censore di stato, il copione arrivò nelle mani dei due autori che ebbero il compito di aggiustare le cose in modo da renderle politicamente accettabili.

La vicenda raccontata dal copione è piuttosto articolata: il primo e il secondo atto narrano le meraviglie di Tommaso Moro sindaco di Londra; il terzo e il quarto atto indugiano sui suoi successi come capo di governo di Enrico VIII, il quinto dignitosamente racconta la sua decisione di non abiurare le fede cattolica malgrado il volere del re. Con conseguente taglio della testa al termine di uno strepitoso dialogo con il boia, che è pur sempre un gran bel finale di tragedia. Come si intuisce, per gli autori sopraggiunti i nodi politici da sciogliere erano due. Il primo, quello religioso: come si fa, in un epoca in cui la religione di stato è anti-cattolica, a parlar bene di un cattolico che di-

Non è la prima volta che gli operai inglesi se la prendono c

Quando Shakespear

di Nicol fende la sua fede? Ricordiamo che siamo nel 1593: l’avventura di Tommaso Moro è lontana tre quarti di secolo. La religione anglicana è più forte che mai e la resistenza cattolica – spenta nel sangue l’illusione rappresentata da Maria Stuarda e sconfitta l’Armada spagnola – non è più all’ordine del giorno: quindi non vale neanche la pena spendersi troppo per risollevare una questione che la regina Elisabetta ha affrontato e risolto anni prima. Seconda questione: il primo e il secondo atto della tragedia ruotano intorno ai fatti di questi giorni alla Lindsey Oil della Total nel Lincolnshire... No, non proprio, ma quasi. Ossia: si riferiscono a una rivolta dei londinesi contro gli immigrati che rubano loro donne, casa e lavoro. Nell’origi-

All’inizio del Cinquecento a Londra ci fu una grande manifestazione contro gli immigrati del nostro Paese che «rubavano il lavoro e le donne» agli inglesi: fu Tommaso Moro a sedare la rivolta nale si chiamano “lombard” e sono propriamente quei commercianti e artigiani italiani che, per sfuggire la povertà, nel primo Cinquecento se ne scappavano in Inghilterra, terra invero non particolarmente ricca, ma piena di buone prospettive. Bene: il vero scoglio politico, per gli autori, era proprio questo, perché il 1593 era fresco di nuove rivolte “anti-lombard”. Londra s’era appena sollevata contro gli immigrati irregolari italiani, troppo scaltri nel commercio e troppo approssima-

tivi nei costumi sociali. Ricordate l’imprecazione finale dello shakespeariano Riccardo III – per inciso composto proprio nel 1592 – prima della battaglia finale? «Voi dormite tranquilli, ed eccoli, loro, a interrompervi i sonni. Volete che vengano qui a rubarvi le vostre terre, a violentare le vostre donne? Ricacciamoli in mare, questi sbandati, a frustate sul muso. Via da qui! Fuori! Questi straccioni, questi pezzenti allampanati, questi stanchi di vivere che ne non avessero pensato a


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nello specifico. Ai londinesi che inneggiano volgarmente contro gli immigrati clandestini a Londra (i “lombard”),Tommaso Moro risponde: «Voi volete schiacciare gli stranieri, ucciderli, scannarli, impadronirvi delle loro case, e portare al vostro guinzaglio l’autorità della legge per aizzarla poi come un cane da caccia… Supponiamo che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, si limitasse, nel giudicare il vostro grave reato, a punirvi solo con l’esilio. Dove andreste, allora? Quale paese, conosciuta la natura della vostra colpa, vorrebbe darvi asilo? Dovunque voi andiate, è inevitabile che lì diventiate stranieri. Vi farebbe piacere trovare una nazionale dall’indole così barbara che, in un’esplosione odiosa di violenza, non volesse concedervi dimora sulla terra, affilasse i suoi detestabili coltelli sulle vostre gole? Che cosa pensereste, se foste trattati così?». L’autorità del re anglicano (capo della Chiesa oltre che dello Stato, e per sua stessa decisione) è salva nell’ossequio dei princìpi cristiani della tolleranza e del rispetto dell’altro: non c’è contrapposizione fra legge e peccato perché le leggi possono più del peccato, né vale fare appello al peccato per far sì che le leggi siano osservate. Un discorso non dissimile da quello che oggi fa Gordon Brown. Cioè: bandito ogni riferimento ai credo religiosi, che siano cattolici o anglicani, la società diventa una struttura laica da preservare e rispettare laicamente: «Ammettiamo che costoro siano allontanati ed ammettiamo che questo abbia messo a tacere tutta la maestà dell’Inghilterra. Immaginatevi di veder arrancare verso i porti e le coste per

con gli italiani: l’autore di “Amleto” ci scrisse un testo. E fu censurato

re salvò i “lombard”

la Fano venir qui da noi, con quella fame che si ritrovano, si sarebbero impiccati! Se dobbiamo essere vinti, e sia: ma da uomini, non da questi bastardi!»

Bene, sono loro, nell’immaginario collettivo, i “lombard” in questione. Ma siccome la regina Elisabetta politicamente traeva un sano giovamento strategico dalla possibilità di dare ospitalità agli avversari del Papa (l’emigrazione italiana, ovviamente, aveva anche colorazioni religiose: se ne andavano soprattutto i protestanti aggrediti dalla Controriforma mentre gli altri disperati qualunque, per essere accolti in Inghilterra si professavano comunque anti-papisti), guai a prendersela con questi immigrati clandestini: servivano a un disegno politico

Nel 1593 il grande poeta collaborò a una biografia teatrale dell’ex primo ministro di Enrico VIII. Ma il copione era troppo “filo-italiano” e le autorità ne vietarono la rappresentazione internazionale più grande delle manifestazioni di piazza. Il Regno d’Inghilterra voleva essere considerato in Europa il protettore di tutti gli avversari religiosi del papa e dei suoi alleati; e in buona misura lo fu. Ebbene, Munday e soci trovarono questa soluzione: Thomas Heywood sarebbe intervenuto ad attutire l’eccessiva rettitudine cattolica di Tommaso Moro mentre Shakespeare avrebbe messo le mani sulla sommossa “anti-lombard” del primo Cinquecento che pro-

prio da Tommaso Moro era stata risolta. E come trovò la soluzione al suo ingrato compito, Shakespeare? Facendo ricorso alla sua idea della fede: che conciliava, nei limiti del possibile tradizione familiare cattolica (almeno in parte) e potere anglicano.

Nel senso che Shakespeare scelse di dipingere le scelte di Tommaso Moro come portatrici di valori in sé, a prescindere dalla loro derivazione da un qualunque dettato religioso; cattolico,

reimbarcarsi gli sventurati immigrati, coi bambini in collo e il loro misero bagaglio, e che voi v’insediate come sovrani nei vostri desideri. Che cosa avrete ottenuto, con l’autorità ammutolita per il vostro berciare, e con voi impettiti nella gorgiera della vostra presunzione? Ve lo dirò io: avrete mostrato come l’insolenza e la prepotenza possono prevalere, come l’ordine può essere distrutto e, in base a questo precedente e modello, non uno di voi giungerebbe alla vecchiaia, perché altri furfanti come voi, spinti dai loro capricci, con identiche mani e identiche ragioni e identico diritto vi deprederebbero e gli uomini, come squali voraci, si divorerebbero l’un l’altro», dice ancora Moro ai rivoltosi londinesi. Pensate un po’: Shakespeare che difende i lumbard.

Restano alcune notizie da riportare: le modifiche shakespeariane al Tommaso Moro sono scritte di pungo dal poeta, unica testimonianza certa della sua grafia, oltre alle famose sei firme poste in calce ad altrettanti documenti burocratici. Malgrado l’intervento di Shakespeare e Heywood, il Tommaso Moro fu censurato definitivamente da Edmund Tinley: non andò mai in scena e la peste del 1594 ne impedì ulteriori modifiche a aggiustamenti. Sicché il testo fu dimenticato e ritrovato nel 1844 nel British Museum dallo studioso Alexander Dyce: da allora la storia di questo copione è stata lentamente ricostruita da due studiosi italiani, Francesco Gabrielli e Giorgio Melchiori. L’originale è conservato presso la British Library e, benché esso sia stato pubblicato in margine alle opere shakespeariane, non è mai andato in scena. È un vero peccato, perché si tratta di un grande pezzo di teatro elisabettiano. Un ritratto di Tommaso Moro. Nella pagina a fianco, William Shakespeare. In alto, le proteste degli operai inglesi contro gli italiani davanti alla Lindsey Oil della Total nel Lincolnshire


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OBAMA 2009 Medioriente. La “mano tesa” all’islam è una politica possibile o un’illusione? Parla Olivier Roy, uno dei massimi islamologi

Processo a Obama Non si può dialogare nello stesso tempo con l’Iran e con tutto il mondo arabo di Nicola Accardo una rottura apparente», quella di Obama rispetto a Bush, nei rapporti con il mondo musulmano e con il Medio Oriente. Olivier Roy, l’islamologo di riferimento per le università europee e statunitensi, quest’anno “prestato”dal Centro di Ricerca Nazionale francese all’università di Berkeley in California, resta scettico: «Cambia il discorso, non la strategia». Abbandonata l’idea di redimere le terre arabe liberandole dai dittatori e quella di guerra globale al terrore, resta il nodo israelopalestiniano e l’alleanza con i paesi arabi conservatori. Professor Roy, che significato ha l’intervista concessa da Obama alla televisione Al Arabiya? Obama ha commesso subito un primo errore: rivolgersi al “mondo musulmano”, che va dalla banlieue parigina all’Indonesia. Evocando la contrapposizione Occidente-Islam fa il gioco di Bin Laden e non abbandona l’atteggiamento huntigtoniano (Samuel Huntington, all’origine del concetto dello scontro di civiltà, ndr) della politica americana. Bisogna riconoscergli lo sforzo di parlare all’opinione pubblica musulmana, ma quest’opinione pubblica non esiste laddove non c’è la democrazia: c’è un abisso tra i sovrani, i capi di stato e le popolazioni arabe. Proverà a farlo da una capitale del mondo arabo? Nel mondo arabo, non penso proprio. Anche in quel caso, ha parlato di una capitale musulmana: qua negli Stati Uniti si evoca Jakarta, perché potrebbe fare il suo discorso in indonesiano. Ripeto, in certi Paesi non c’è un’opinione pubblica e Obama non potrebbe rivolgersi alla popolazione marocchina, egiziana o saudita. Se i dirigenti politici locali non parlano direttamente alla loro gente, di certo non lo lasceranno fare a un leader straniero! Ovunque poi l’America non è vista di buon occhio dalle popolazioni arabe, anche se Obama è più popolare. Concretamente, cosa potrà cambiare rispetto alla strategia di Bush? La rottura è apparente. Il vero

«È

problema non è il mondo musulmano, ma il Medio Oriente, è la strategia resta esattamente la stessa, mentre cambia il discorso, l’approccio culturale. Come George W. Bush, Barack Obama spera di riconciliare Israele e i regimi conservatori arabi, il che non è possibile finché non si regola il conflitto israelo-palestinese. E Obama non ha le chiavi per risolverlo? Nessun Paese se non Israele ha le chiavi per risolverlo. Obama stesso lo ha ammesso, l’America può aiutare e alimentare il dialogo con delle proposte, ma è agli attori interni che spetta l’ultima decisione. E l’Iran? L’apertura al dialogo con l’Iran è l’unica vera differenza strategica, ma è anche molto rischiosa. Se Bush cercava di creare un’alleanza con i regimi arabi contro il rivoluzionario Iran, ora Obama rischia di perdere la fiducia degli alleati. Gli arabi sono furiosi di questo riavvicinamento! Per l’Arabia Saudita, la Giordania e i paesi del Golfo, l’Iran è più ostile di Israele: Israele non li minac-

Un funzionario Onu rapito in Pakistan, 25 poliziotti uccisi in Afghanistan

La nuova offensiva talebana di Vincenzo Faccioli Pintozzi l dubbio è sempre lo stesso: chi ordina i rapimenti di funzionari internazionali nelle aree tribali del Pakistan, e cosa cerca di ottenere. Dietro al sequestro di John Solecki, alto funzionario dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, non c’è infatti ancora alcun nome. Banditi comuni, talebani in cerca di gesti eclatanti, membri della guerriglia pakistana: queste sono le piste al momento indicate dalla polizia del Balucistan, una delle cinque province che compongono il Paese, da tempo in mano agli estremisti islamici. L’Onu ha confermato l’accaduto, e ha precisato che l’autista del funzionario – pakistano – è stato ucciso durante l’operazione, avvenuta ieri a Quetta, capitale provinciale che confina con l’Afghanistan. Una dichiarazione del Palazzo di Vetro definisce l’accaduto “sconcertante” e dichiara di essere «in piena attività per garantire il prima possibile il rilascio del funzionario». Eppure, la mancanza di indicazioni sui possibili mandanti riporta in prima fila la questione dell’ingovernabilità del Paese. L’Agenzia Onu per i rifugiati,

I

ad esempio, non ha mai subito minacce dirette per il suo operato, rivolto esclusivamente alla popolazione. Gli anziani delle jirga – i concili tribali – del Pakistan hanno più volte espresso il loro apprezzamento per il lavoro sociale del gruppo, che non cerca in alcun modo di interferire nella questione religiosa. Persino alcuni leader talebani della provincia del Balucistan hanno garantito, nel corso dell’ultimo anno, la sicurezza degli operatori internazionali non militari. Un fattore che getta la questione del rapimento di Solecki nella piena incertezza.

Nel frattempo, sempre ieri, in Afghanistan un attentatore suicida in uniforme da poliziotto si è fatto esplodere all’interno di una stazione di reclutamento, uccidendo 25 “colleghi”. Moltissimi i feriti, in quello che è divenuto il peggior attentato avvenuto a Tirin Kot, capitale della provincia meridionale di Uruzgan. In questo caso, però, i mandanti si sono rivelati subito: un portavoce della “resistenza talebana”ha confermato il coinvolgimento dei fondamentalisti


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L’autore. Dirige il Centro francese per la ricerca scientifica e insegna scienze sociali

Dall’Onu a Berkeley, una carriera di studi A sessant’anni Olivier Roy è uno degli orientalisti più affermati al mondo, il suo Echec de l’Islam politique (“Il fallimento dell’Islam politico”, 1992) è un testo di riferimento per gli studenti di islamistica. I suoi saggi e i suoi editoriali vengono pubblicati dai più prestigiosi quotidiani americani (tra cui il New York Times) ed europei (El Pais). Ha pubblicato in Italia Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam (Feltrinelli, 2003), L’impero assente. L’illusione americana e il dibattito strategico sul terrorismo (Carocci, 2004), e più recentemente Islam alla sfida della laicità. Dalla Francia una guida magistrale contro le isterie

xenofobe (Marsilio, 2008). In attesa di traduzione anche il suo ultimo lavoro Sainte Ignorance. Temps de la réligion sans culture (“Santa ignoranza. Il tempo della religione senza cultura”, pubblicato in Francia a ottobre). In Francia Olivier Roy è direttore di ricerca al Centre nazionale della ricerca scientifica (Cnrs) e professore alla Scuola per gli Alti Studi in Scienze Sociali (Ehess). È stato consulente delle Nazioni Unite per i soccorsi in Afghanistan nel 1988, rappresentante e poi capo missione dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) in Tajikistan tra il 1993 e il 1994.

Se Bush cercava di creare un’alleanza con i regimi regionali contro il rivoluzionario Iran, ora Obama rischia di perdere la fiducia degli alleati. Gli arabi sono furiosi per questa mossa!

cia, l’Iran lo fa continuamente. La strategia resta quasi la stessa, allora perché cambia il discorso? Perché Obama scollega finalmente i conflitti, rinuncia alla sistematica associazione tra Bin Laden, Iran, Hezbollah, Hamas, e al concetto di guerra globale al terrorismo che è all’origine del fallimento di Bush. Questo potrà rendere efficace, più flessibile e pragmatica la sua politica. In un recente articolo sulla Saudi Gazette ho ribadito le differenze In alto, l’islamologo Olivier Roy. A sinistra, Barack Obama. Foto grande: un attentato in Afghanistan. In basso, un soldato in missione a Kabul

islamici nella strage, avvenuta proprio in casa del mullah Omar. Il capo della polizia provinciale, Juma Gul Himat, ha detto che il kamikaze si è lanciato a piedi contro la stazione di polizia facendosi esplodere subito dopo. A quanto si è appreso, inoltre, l’attentatore indossava una uniforme della polizia che nascondeva il corpetto esplosivo. I feriti, alcuni dei quali in modo molto grave, dicono di non ricordare il momento dell’esplosione, che ha danneggiato persino i palazzi adiacenti alla stazione di polizia. Il ministero dell’Interno di Kabul ha definito le vittime “martiri della pace” e ha rilanciato l’invito alla popolazione di cooperare con le forze di sicurezza – “perlomeno quelle nazionali”– per evitare nuovi attentati suicidi. Il rappresentante speciale dell’Onu per il Paese, Kai Eide, ha commentato: «Questo attacco dimostra il disprezzo per la vita umana dei nostri nemici. Ma la comunità locale vuole un Afghanistan diverso, e lo dimostra».

Tuttavia, la parte meridionale del Paese è sempre di più la vera linea di fuoco dove si affrontato talebani e soldati, sia locali che della coalizione internazionale. Per quanto Uruzgan non sia violenta come Kandahar, cresce il numero degli scontri violenti: secondo diversi analisti, è la risposta alla nuova amministrazione statunitense guidata dal presidente Obama, che ha dichiarato di voler inviare altre truppe

nella regione. Una presa di posizione che non è giunta inaspettata, dato che il democratico ha più volte detto – nel corso della lunghissima campagna elettorale americana – che la questione della lotta al terrorismo non sarebbe stata presa sotto gamba.

Affermazione confermata dal primo incontro in agenda del nuovo presidente: quello con i vertici militari degli Stati Uniti, a cui ha chiesto di studiare una soluzione per Afghanistan e Iraq. In ogni caso, è presumibile che la regione asiatica sarà teatro di nuovi, sanguinosi attacco nel corso delle prossime settimane. I talebani, che hanno annunciato di desiderare soltanto la cacciata dal Paese del contingente militare internazionale, non hanno intenzione di cedere il primato sociale che hanno conquistato anche per colpa della corruzione del governo di Kabul. Il loro comportamento parastatale nelle aree tribali ricalca da vicino quello di Hamas a Gaza, che ha in effetti contribuito a spingere la popolazione dalla parte degli estremisti. Un copione che ora gli “studiosi del Corano” vorrebbero riproporre in Afghanistan, ma che porterebbe soltanto a una recrudescenza del regime teocratico e repressivo che li caratterizza. E che non esita davanti alla morte di civili innocenti.

fondamentali tra i nemici che hanno ambizioni globali, come Al Qaeda, e quelli che hanno obbiettivi locali, come Hamas, i Talebani e i ribelli iracheni, con cui si può quindi tentare una negoziazione. Sono movimenti che non hanno a che fare con il terrorismo globale? Hamas non è altro che la degenerazione del tradizionale nazionalismo palestinese, I Talebani esprimono più l’identità pashtu che un’ambizione globale, le fazioni irachene combattono per la suddivisione e la conquista del potere in Iraq. Il professor Fouad Ajami critica un ritorno alla “realpolitik”. C’è certamente un ritorno alla realpolitik, che non ha niente a che fare con le questioni economiche evocate da Ajami, visto che nei rapporti con il petrolio non cambia assolutamente nulla. Si tratta di un ritorno al pragmatismo e al business inteso come abitudini, che io invece apprezzo e penso possa portare benefici. Ajami e i neoconservatori reputano un successo la politica di Bush e hanno esaltato la guerra in Iraq come una missione di civilizzazione in americana. Io le giudico una catastrofe. Lei spera in una diplomazia clintoniana? Gli anni di Clinton hanno dato dei buoni frutti, su tutti gli Accordi di Oslo. Ovviamente vorrei sperare che la politica di Obama somigli di più a quella di Clinton che a quella di Bush. E infatti il nuovo Presidente ha scelto Hillary Clinton come Segretario di Stato.


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OBAMA 2009 ei confronti del mondo musulmano, cerchiamo di trovare una via per progredire, basata sul rispetto reciproco e sugli interessi reciproci», ha affermato il presidente, Barack Obama, nel suo discorso d’insediamento, in occasione della cerimonia di giuramento. Ma la verità è che questa nuova via per progredire altro non è che il ritorno alla realpolitik ed al «business as usual» nei rapporti dell’America con il Grande Medio Oriente. Come il presidente ha affermato, lunedì scorso, alla televisione Al-Arabiya, auspica un ritorno «allo stesso rispetto ed allo stesso partenariato che l’America aveva con il mondo musulmano fino a 20- 30 anni fa».

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Indipendentemente da ciò che si può pensare e dire sullo stile – e sulla pratica – dell’amministrazione Bush, va rilevato che le autocrazie sono state sulla corda per i primi 5-6 anni della presidenza di George. W. Bush. L’America aveva rovesciato il regime dei Talebani e messo fine alla tirannia di Saddam Hussein; aveva intimorito il dittatore libico, lasciandogli intendere che un destino analogo era in serbo per lui. Non fu certo una dolce persuasione quella che spinse la Siria al ritiro dal Libano nel 2005. Quel dominio fatto di saccheggi e terrore fu abbandonato, con la forza della coercizione. È vero che negli ultimi due anni della sua presidenza, la diplomazia della libertà di Bush fallì e che le autocrazie del Grande Medio Oriente giunsero alla conclusione che la tempesta era ormai passata e che li aveva risparmiati. Eppure questa è storia ancora troppo recente per poter valutare in che modo e fino a che punto l’effetto dimostrativo si sia fatto largo e si sia radicato nella cultura politica araba. L’argomentazione in base alla quale la libertà sia il prodotto di una ricerca interna dell’individuo e che non possa essere imposta a popoli di Paesi lontani è molto più sbagliata di quanto possa apparire a prima vista. Nel rapido fluire della storia

moderna, le fortune della libertà sono dipese dalla volontà della potenza dominante – o delle potenze dominanti – di mettere ordine nei vari Stati. Le analisi più recenti di Samuel P. Huntington lo sostengono con una ricca argomentazione. In 15 dei 29 Paesi democratici del 1970, le democrazie erano nate con il governo d’occupazione o lo erano diventate dopo aver conseguito l’indipendenza. Nelle alterne vicende che hanno caratterizzato il prevalere o meno della libertà, il potere è sempre stato un fattore di grande importanza e la libertà ha avuto bisogno della tutela e protezione delle grandi potenze. L’appello dei pamphlet di Mill, Locke e Paine si fondava e faceva affidamento sulle armi della pax britannica, e sulla potenza dell’America quando il potere britannico cedette il passo. Da questo stesso punto di vista, la diplomazia assertiva di George W. Bush aveva ridato coraggio ai musulmani, da lungo tempo vittime della morsa delle tirannie.

Basti pensare all’immagine di Saddam Hussein, scovato e stanato dal suo nascondiglio, circa 5 anni fa. Anche se gli americani potrebbero aver già dimenticato quell’immagine, rimarrà a lungo impressa nella memoria e nella coscienza dei popoli arabi. I tiranni possono essere rovesciati, messi di fronte alle loro responsabilità e chiamati a risponderne. Non c’è da meravigliarsi del fatto che alle dittature dei Paesi vicini non piaccia la vista di quella cattura e l’esecuzione di Saddam, tre anni dopo. L’ironia è oggi più che ovvia: George W. Bush visto come elemento trainante per l’emancipazione nelle terre musulmane e Barack Hussein Obama visto come il mentore dei vecchi metodi e delle abitudini radicate ed inveterate. Pertanto il provincialismo politico di Bush veicola all’estero il messaggio in base al quale arabi e musulmani non hanno la tirannia nel loro dna, mentre l’uomo dalla identità composita, musulmana, keniana e indone-

L’autore Fouad Ajami è uno degli islamisti più conosciuti internazionalmente. È professore di Studi medio-orientali presso la School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University. Ha pubblicato numerosi articoli su testate come il New York Times, Wall Street Journal, New Republic, Foreign Affairs e una nutrita serie di libri sull’islam e il panarabismo. Fra questi “The Dream Palace of the Arabs” (1998) e “Beirut: City of Regrets” (1988). È anche adjunct research fellow presso l’Istituto Hoover della Stanford University. È nato nel 1945 nel Libano meridionale da una famigla di origine sciita, giunta lì a metà dell’Ottocento dall’Iran. Con la maggiore età si trasferisce in America, dove compie un lungo percorso accademico che lo porta dall’Oregon University a Princeton. È stato consigliere del segretario di Stato Condoleeza Rice e amico e collega di Paul Wolfowitz.

Sfide. La diplomazia dell’ex presidente è stata rivoluzionaria. Washington potrebbe ancora dargli il giusto riconoscimento

L’illusione di Barack: il Nemico non è sparito assieme a George W. Bush di Fouad Ajami


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Un’operazione condotta da militari statunitensi in Iraq. In basso, da sinistra: l’ex presidente degli Stati Uniti, il repubblicano George W. Bush junior; il suo predecessore, il democratico Bill Clinton; lo “sceicco del terrore” e leader di al Qaeda, Osama bin Laden; Sa’id Ali Jabir al Shihri, uno dei primi detenuti di Guantanamo. Appena liberato dal carcere speciale, ha organizzato un attentato in Yemen

elegiaci, bensì soltanto la promessa di voler plasmare una «pace guadagnata con fatica».

Gli Stati Uniti che hanno votato per il cambiamento, per un nuovo corso, si sono ritrovati con la politica estera di Brent Scowcroft. Mentre Bush aveva compreso il legame esistente fra i modelli autocratici di esercizio del potere nei Paesi musulmani e la cultura del terrorismo che infetta le giovani milizie del radicalismo, Obama sembra disposto a giungere ad un compromesso equo, con chi governa in quei Paesi. Il suo sostegno al «processo di pace» segna il ritorno alla sterile diplomazia degli anni dell’amministrazione Clinton; ferma nella sua convinzione che il terrorismo sia radicato nel rancore, nel risentimento e nelle rivendicazioni dei palestinesi.

siana, sta mostrando una sorta di accettazione dell’ordine costituito. Obama potrebbe ancora prendere atto e dare il giusto riconoscimento all’impatto rivoluzionario che ha sortito la diplomazia del suo predecessore, ma finora ha scelto di non farlo. Il breve riferimento all’Iraq nel suo discorso d’insediamento, in occasione della cerimonia di giuramento non avrebbe potuto essere più freddo o sfumato. «Inizieremo con responsabilità a fare in modo che l’Iraq torni nelle mani del suo popolo», ha affermato il presidente Obama.

Dando per scontato che l’Iraq non sia stato un suo progetto,

Finora il genio politico di Obama è stato quello di aver intuito il sentimento prevalente nel Paese. Ha scommesso sul fatto che gli Stati Uniti fossero pronti per la sua politica post-razziale comunque un’iniziativa che ha richiesto un prezzo molto alto agli americani, in termini di sofferenze e sacrifici, e che ha gettato le basi per uno stato multietnico (arabo e curdo). Proprio nel cuore di un mondo arabo, altrimenti condannato ad una tradizione politica di tipo dispotico. Un fatto che avrebbe potuto suscitare un minimo di apprezzamento nelle parole di Obama. Nella sua

smania di apparire come «l’anti-Bush», il nuovo presidente è ricaduto in una ammuffita visione delle possibilità offerte dalla libertà.

Il resto del mondo è stato mantenuto ad una certa distanza sia emotiva che culturale. Anche l’Afghanistan – la giusta guerra di cui la nuova amministrazione ha accettato di farsi carico – non ha evocato accenti

Obama ed i suoi consiglieri si sono ben guardati dall’affermare che il terrorismo è ormai scomparso dalla scena, ma veicolano un messaggio inequivocabile sul fatto che si possa tornare a pensare ai propri affari e che Wall Street sia più micidiale e pericolosa della millantata Arab-Muslim Street. Finora il genio politico di Obama è stato quello di essere riuscito ad intuire il sentimento prevalente nel Paese. Ha scommesso su fatto che gli Stati Uniti fossero pronti per la sua politica post-razziale. I fatti gli hanno dato ragione. Anime più umili e caute gli consigliavano di aspettare il momento opportuno, ma l’elettorato ha risposto al suo appello e lo ha premiato. Credo proprio che sia stato abile nell’intercettare quel senso di stanchezza, disaffezione e disincanto degli americani nei confronti delle cause e delle missioni all’estero. Ecco perché il recente appello di Osama bin Laden a favore di una «jihad finanziaria» nei confronti dell’America è apparso così tardivo e fuori luogo; l’opera di distruzione la hanno già portata avanti i nostri stessi maghi della Borsa e dei mercati finanziari ed i nostri politici. Ma i nostri rivali stranieri e gli «stati canaglia» non hanno alcun obbligo di adattarsi ai nostri sentimenti ed alle nostre esigenze. Non pendono dalle labbra sugli sviluppi della nostra crisi finanziaria, non sono incantati ed ipnotizzati dalle fluttuazioni dell’indice Dow Jones. So che potrebbe sembrare un cliché, ma prima o poi sentiremo ancora parlare di loro. Ci strapperanno

le nostre illusioni ed il nostro (nuovo) “provincialismo”. Una notizia che arriva dalla Penisola araba conferma questa mia convinzione. Si è appreso - proprio nel bel mezzo dell’annuncio del presidente Obama che la chiusura della prigione di Guantanamo sarebbe avvenuta nel giro di un anno - che un saudita di nome Said Ali al-Shihri (rilasciato da quella prigione, nel 2007, per far ritorno nel suo Paese a finire di scontare la sua pena) sia riuscito a raggiungere lo Yemen, dove è andato ad ingrossare le fila del terrorismo di quel Paese in preda all’anarchia. Il detenuto n° 372 della prigione di Guantanamo ha fatto solo una breve sosta in Arabia Saudita: giusto il tempo di completare un programma di “riabilitazione”, per poi superare clandestinamente il confine e giungere nello Yemen. Dove si presume possa anche essere stato implicato nell’attacco terroristico dello scorso settembre, contro l’ambasciata americana nella capitale Sanah.

Questa guerra non è mai stata una guerra americana unilaterale. Non può essere revocata e neanche cancellata dal calendario della storia con un tratto di penna. Anche il nemico avrà voce in capitolo nel determinare la piega che nel prossimo futuro potrà prendere questa lotta fra la potenza americana ed il radicalismo islamico e nel deciderne il relativo esito. In altri tempi, nella leggendaria era della pace e della prosperità di Bill Clinton, eravamo incantati ed ipnotizzati dal Nasdaq. Nei bar e nei pub di Davos, fra le vette alpine, guru fiduciosi e convinti dell’avvento di una «nuova era» del commercio, decretavano la fine dell’ideologia e della politica. Ma sulle impervie ed inaccessibili montagne della frontiera afghano-pakistana, una nuova generazione di jihadisti, che non prestava alcun ascolto alle fanfare del trionfalismo economico, stava tramando contro di noi un futuro del tutto diverso. E ci ritroviamo ancora una volta a questo punto, stavolta trascinati dalle nostre difficoltà economiche, a pretendere che il mondo si conformi alla nostra visione ed interpretazione delle sfide della storia. Non abbiamo ancora scoperto quel “dolce angolo” di mondo in cui le nostre fortune economiche si intersecano con le richieste e le sfide di un mondo incerto.


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OBAMA 2009 L’opinione. Georges Corm, ex ministro delle finanze libanese e consulente della World Bank, non fa distinguo. Gli Usa non cambiano mai

Perché dovremmo credergli? Per gli arabi non è attendibile chi non promette uno Stato palestinese, il ritiro dei coloni e la fine della minaccia nucleare di Sergio Cantone

forse troppo presto per dare dei giudizi definitivi. Per il momento posso dire solo che intravedo un piccolo accento demagogico: Obama usa le sue origini musulmane, l’immagine di un padre musulmano, per fare dimenticare tutto quello che l’America ha rappresentato finora in Medioriente. Ma non basta. Probabilmente non sarà in grado di distinguersi molto dai suoi predecessori. La realtà è che lo spazio per uno stato palestinese non esiste, basta guardare una carta geografica della regione per rendersene conto». Georges Corm, economista e storico libanese, cattolico maronita, e autore di numerosi saggi sul Medioriente (tradotti anche in italiano) così commenta i primi passi nell’arena del Great Middle-East del neo presidente americano Barack Hussein Obama. Per lui Gaza e Cisgiordania anche se pacificate non possono fare uno stato palestinese: «E chi fa andare via tutti i coloni? Un piano di pace come Oslo non è bastato. In realtà gli Stati Uniti credono nella presenza israeliana estesa all’area perchè fa parte dell’escatologia di un certo protestantesimo. Fin dall’inizio, fin dalla dichiarazione Balfour, lord Balfour era un protestante così come l’allora primo ministro britannico Lloyd George, i protestanti hanno creduto nella dimensione religiosa della creazione di uno stato ebraico. Per loro ha a che vedere con il ritorno del messia».

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Eppure secondo Corm la soluzione sarebbe a portata di mano: «Basterebbe che gli Stati uniti e l’Unione europea applicassero il diritto internazionale nella sua integralità e alla lettera. Le risoluzioni Onu prevedono il ritiro di Tsahal e dei coloni, punto e basta…». Insomma Obama ha poco spazio di manovra: «Sono poco sensibile alle speranze che genera, è un bel tipo, parla benissimo, un discorso di Obama si potrebbe ascoltare per delle ore, ma gli Usa restano gli Usa. Vivono in un mondo a parte, così come gli europei. L’indulgenza verso Israele è totale perchè in fondo hanno tutti la coscienza sporca per l’olocau-

sto, commesso da occidentali e maturato nella cultura occidentale». E per quanto riguarda il diritto a difendersi di Israele: «Hezbollah e Hamas oggi, l’Olp ieri, sono delle minacce relative. Lo sapete che i bombardamenti israeliani di Beirut, al tempo dell’invasione israeliana del 1982, hanno provocato 25 mila morti?

Il neo-presidente usa le sue origini e l’immagine di un padre musulmano per far dimenticare quello che gli Usa hanno fatto finora. Ma non basta La percezione del conflitto è totalmente diversa da queste parti. Perchè nonostante qualche differenza nel linguaggio Stati uniti ed Europa non vogliono riconoscere chi sia l’oppressore. In passato c’era una differenza tra Usa ed Europa, almeno fino agli anni Novanta. Quando è finita la guerra fredda le posizioni

dei due lembi di Occidente sono divenute convergenti. L’Europa, ad esempio, non potrà mai esprimere un politica estera comune e indipendente, data la sua complessità di fondo».

Georges Corm pensa che ci sia un’incomprensione di fondo: «Americani ed Europei esportano i loro equivoci, un mondo musulmano non esiste, così come non esiste un’Europa sola, con una sola identità. È un momento favorevole alla radicalizzazione religiosa ovunque, non solo nell’Islam. E ci sono personaggi che usano la religione per influenzare le masse, per interessi geopolitici ed economici che nulla hanno a che vedere con la salvezza delle anime. Più che nuovà religiosità parlerei di strumentalizzazione. Quelle poche volte in cui il Vaticano parla a favore dei palestinesi è perchè in fondo la fede cattolica impone una certa sensibilità umana nei confronti del-

la vittima». Un’altra grande aperture che vorrebbe fare Obama è verso l’Iran: «Non so quanto gli americani siano sinceri, ma è necessario che gli Usa parlino con l’Iran. Di certo un Iran nucleare non mi scandalizza, almeno finchè esisteranno un Israele nucleare, un’India nucleare, un Pakistan nucleare. E cosa volete che sia una semplice ipotesi (Teheran con un’arma nucleare) per qualcuno che come me è abituato a convivere con i bombardamenti Israeliani. Ma voi siete mai stati sotto un bombardamento israeliano?».

A destra, un impianto nucleare nella città di Busheher, 1200 km a sud di Teheran. Qui sotto, il leader palestinese Abu Mazen e, in basso a sinistra, il soldato israeliano Shalit, da due anni e mezzo nelle mani di Hamas. La sua liberazione è una conditio sine qua non per arrivare alla tregua. Nella pagina a fianco, il presidente Ahmadinejad

Abu Mazen vola in Europa, il leader di Hamas incontra Ahmadinejad

La tregua si discute a Parigi e Teheran di Antonio Picasso essuna novità da Gaza. A due settimane dall’inizio della fragilissima tregua, le parti stentano a raggiungere un accordo che decreti effettivamente la fine della guerra nella Striscia. In questo senso, l’impegno della comunità internazionale si dimostra inefficace nell’effettuare quella pressione necessaria per un accordo. Le divisioni interne alla Lega Araba, gli unilateralismi contrastanti fra loro – è il caso delle iniziative parallele ma non concordanti di Arabia Saudita ed Egitto – ma anche l’inattività dell’Unione Europea stanno incidendo sensibilmente su questo cessate il fuoco che si dimostra ogni giorno di più un “fermo immagine” piuttosto che una condizione duratura. Lo confermano gli sporadici scontri lungo il confine tra Gaza e Israele. Ieri, l’aviazione israeliana si è alzata in volo per rispondere ai colpi di mortaio sparati dai miliziani del Comitato di resistenza popolare. Bilancio del raid: un morto tra i palestinesi. Così, mentre ci si avvicina all’appunta-

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mento delle elezioni in Israele, si assiste a uno scambio di colpi che non permette di parlare di tregua a tutti gli effetti, ma che non è più nemmeno quella guerra vera e propria combattuta nei primi giorni dell’anno. In questo quadro di incertezza, il protagonista della giornata di ieri è stato il presidente palestinese Abu Mazen.

Dopo il summit del Cairo, durante il quale si è confrontato con Mubarak – colloquio avvenuto in contemporanea con quello tra i Ministri degli Esteri egiziano Gheit e quello saudita al-Faisal – Abu Mazen è volato a Parigi. Da qui è iniziato un giro perlustrativo presso tutte le cancellerie d’Europa. Tuttavia, è nella capitale francese che il presidente palestinese si è incontrato con i rappresentanti di maggior rilievo del’Occidente in merito alla crisi. Qui, infatti, si è tenuto il colloquio con Sarkozy, ma anche con l’inviato Usa per il Medio Oriente, George Mitchell. Va detto, però, che né dal Cairo né da Parigi sono emerse


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Per Younis Tawfik è un ritorno al passato

Sulle orme di Clinton di Luisa Arezzo bama non si fa illusioni e tantomeno vuole essere classificato come un illuso. È perfettamente consapevole di aver recuperato la precedente politica dei democrats. Insomma nulla di nuovo. Casomai siamo noi che abbiamo dimenticato presto la politica di Jimmy Carter e Bill Clinton». Younis Tawfik, scrittore iracheno naturalizzato italiano, professore di Lingua e Letteratura araba all’Università di Genova, non è sorpreso dalla «mano tesa» lanciata al mondo islamico dal neo-presidente Usa. Ma la considera un gesto di «umiltà» volto a recuperare la politica mediorientale dei suoi predecessori. «Obama, su suggerimento dei due Clinton (o quanto meno su suggerimento di Hillary, suo Segretario di Stato) ha scelto di parlare al mondo arabo e islamico in generale per lanciare un suo messaggio di cambiamento politico. Tutti hanno compreso che Bush non andava verso una distensione, d’altronde mai, nemmeno una volta, aveva parlato in termini di dialogo e rispetto a quell’uditorio, ma piuttosto aveva utilizzato il vocabolario del più forte con una missione da compiere. Mentre Obama ha esordito con un gesto di umiltà, cercando di rivolgersi a un miliardo di persone.

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conclusioni risolutive e concrete. In Egitto, infatti, è stata sottolineata l’urgenza di riaprire il dialogo tra Fatah e Hamas, per la riconciliazione palestinese. In Francia, invece, Abu Mazen è andato a perorare la sua causa, come presidente dell’Anp, ma anche come leader sempre più debole del suo movimento. All’inconsistenza di questi colloqui fa da contraltare la ritrovata energia politica di Hamas. Nelle stesse ore in cui Abu Mazen volava a Parigi, Khaled Meshal atterrava a Teheran. Una visita tutt’altro che di cortesia, questa. Ricevuto dalla Guida suprema Khamenei e dal presidente Ahmadinejad, il segretario di Hamas a Damasco ha voluto spazzare via le nubi in merito a un ipotetico attrito fra l’Iran e il suo movimento. Nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra, era circolato il sospetto che Teheran fosse molto delusa della conduzione delle operazioni nella Striscia. In realtà, più i cannoni tacciono e più il bilancio delle ostilità diventa nitido. L’obiettivo di “Piombo fuso” di spazzar via leadership politica e militare di Hamas non ha funzionato come lo Stato Maggiore di Tsahal aveva auspicato. Il fatto di domandare una tregua di un anno – richiesta che plausibilmente verrà accordata – è per Hamas fondamentale. In dodici mesi, potrebbe ricostruire il proprio apparato, ma soprattutto rinserrare i ranghi per presentarsi alle elezioni della Presidenza e del Consi-

glio Legislativo palestinesi previste per l’inizio del 2010. Del resto anche altri due elementi fanno pensare che Meshal, Haniyeh e la dirigenza del movimento si stiano riprendendo dallo scontro più in fretta del previsto. E soprattutto in termini politici. Prima di tutto l’affermazione, da parte di Israele, che il lancio dei razzi di questi ultimi giorni è attribuibile non ad Hamas, bensì a gruppi minori.

Segno, questo, che Hamas sta effettivamente rispettando gli accordi di cessate il fuoco. Proprio nel tardo pomeriggio di ieri, è arrivata la rivendicazione del lancio, operato da parte delle Brigate al-Nasser Salah al-Din. Dopo il confronto sul campo, il movimento è più interessato a riprendere il ruolo di leadership in seno alla popolazione della Striscia, aiutando quest’ultima nella ricostruzione post-bellica. Ad Hamas torna utile un nuovo Welfare piuttosto che l’ennesimo scontro con Israele. Il secondo elemento si concretizzerà questa mattina. Sempre al Cairo, infatti, è attesa la rappresentanza del movimento islamico. È evidente che, anche in termini di diplomazia mediorientale, Hamas abbia interesse a non restare fuori dai negoziati, lasciando troppa autonomia ad Abu Mazen. *Analista Ce.S.I.

Attenzione però, nel farlo ha operato un distinguo importante: ha sì affermato di voler cambiare la politica, ma ha lasciato aperte due possibilità: il dialogo e il rispetto oppure la linea dura. Sta al mondo musulmano scegliere. Non essendo un illuso, sapeva già che l’Iran non avrebbe scelto la prima opzione, perché Ahmadinejad cerca soltanto lo scontro per mantenere la sua egemonia sulla regione e perché tale linea gli procura un sostegno nel mondo islamico. D’altronde, se il regime iraniano non avesse un nemico esterno, crollerebbe subito». Messa così, è da escludere un “avvicinamento” fra i due... «Un futuro dialogo fra gli Usa e il presidente ira-

niano non rientra nell’agenda politica iraniana e infatti il regime si ripara dietro alla richiesta assurda di ottenere dagli americani delle scuse per dei presunti crimini commessi negli ultimi decenni. Scuse ingiustificate visto che gli Usa non hanno commesso alcuna atrocità tale da giustificarle. Dunque, è presumibile che se Ahmadinejad terrà “il pugno chiuso”, riceverà altrettanto. Resta il fatto che un Iran che persegue la corsa al nucleare continuando a minacciare Israele, non aiuta certamente alcuna forma di dialogo. Il discorso è diverso per gli altri “attori” regionali. Non a caso molti Paesi arabi hanno avute reazioni sospese

Hezbollah, Hamas e l’Iran non parleranno mai con Obama. Aprire agli Usa li condannerebbe a morte certa fra il prudente e l’entusiasta. Il ministro degli Esteri saudita non ha nascosto le sue speranze. E stessa apertura l’hanno mostrata l’Egitto, la Giordania, il Marocco e la Tunisia, ovvero tutti quei Paesi dell’area che non hanno bisogno di un nemico esterno per garantirsi una sopravvivenza politica e la conservazione della poltrona. È solo l’Iran che ha questa necessità. Assieme ad Hamas ed Hezbollah. Che non scenderanno mai a patti con Obama».


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cultura

In libreria. Una monumentale opera di Donald Sassoon ci racconta la storia dell’istruzione in Europa dal XIX secolo a oggi

La cultura? Una lotta di “classi” di Filippo Maria Battaglia

A fianco, un primo piano del volto della “Gioconda” di Leonardo. In basso, Donald Sassoon e la copertina del suo volume “La cultura degli europei dal 1800 a oggi”, edito da Rizzoli

emocrazia uguale cultura diffusa? Nulla di più falso. A dare un’occhiata a certi dati si corre il rischio di dover sostenere l’esatto opposto. Parola di Donald Sassoon, contemporaneista al Queen May College di Londra, nonché allievo prediletto di Eric J. Hobsbawm: «Si crede che la storia dell’istruzione sia caratterizzata da una crescita costante, anche se irregolare, fino all’arrivo dell’obbligatorietà, ma questa ipotesi è ben poco fondata. A Firenze andavano a scuola più bambini nel 1338 che nel 1911: nel Medioevo il tasso di alfabetizzazione del nord Italia era tra i più alti d’Europa, ma in seguito ci fu un’inversione di tendenza». E non è affatto detto che la stessa scolarizzazione si traduca in un maggiore desiderio di leggere libri: «Non fu per questo - prosegue lo storico inglese - che i genitori facevano istruire i loro figli o che gli Stati resero obbligatorie le scuole. Nel corso del XIX secolo crebbe la necessità di avere a disposizione un proletariato istruito e un ceto medio più ampio. Prima di allora saper leggere era irrilevante per la maggior parte degli impieghi; in seguito, invece, divenne evidente che imparare a leggere offriva al futuro dei propri figli maggiori possibilità».

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Una consapevolezza, questa, che non era poi così diffusa nel nostro Continente. Nel 1723 Bernard Manville sosteneva ad esempio che «per creare una società felice è necessario che un gran numero dei cittadini sia ignorante e povero» perché andare a scuola «è una perdita di tempo e di lavoro». E un secolo dopo, la perfida Albione era ancora dello stesso avviso: tanto che nel 1807 la Camera dei Lord respingeva un disegno di legge che prevedeva l’istituzione delle scuole elementari in quanto «dannoso per la moralità e la felicità». Forse - sospira ironico Sassoon - non aveva tutti i torti. Del resto, tutti i principali promotori delle più note rivoluzioni eu-

ropee (nell’ordine: inglese, francese e russa) erano tutt’altro che degli analfabeti. Su questo punto, però, il Vecchio Continente non la pensava così uniformemente. A fine Seicento, il re di Svezia Carlo XI lanciò insieme con la Chiesa luterana promosse infatti una campagna di scolarizzazione che ebbe uno straordinario successo: nel 1740, più del

con l’obiettivo, neanche tanto velato, di una diffusione più radicale di testi religiosi. Questa è solo una parte delle notizie, dei dati e degli approfondimenti sui livelli di istruzione del nostro continente raccolte ora nella Cultura degli europei dal 1800 ad oggi (Rizzoli, pp. 1596, euro 45), un monumentale studio a firma dello storico inglese. Il volume

Nel 1800 crebbe la necessità di avere a disposizione un proletariato istruito e un ceto medio più ampio. Prima di allora saper leggere era irrilevante per la maggior parte degli impieghi novanta per cento della popolazione era in grado di superare una elementare prova di lettura. Una lunga «catena di montaggio culturale» (prete-genitore-adulto) con tanto di interrogazioni annuali sui progressi della comunità e

di Sassoon sfata molti dei miti e dei pregiudizi che nel corso dei secoli si sono stratificati attorno alle nostre abitudini. Prima tra tutti, la differenza tra la cosiddetta «cultura alta» e «cultura bassa»: «L’intero dibattito spesso viene sintetizzato in una domanda: Jane Austen è meglio di Barbara Catland? Poiché è probabile che i lettori di Jane Austen non conoscano la Cartland, e viceversa, la do-

manda in realtà cela un interrogativo di carattere più politico: chi decide quale sia la risposta giusta? È una questione di potere» conclude lo storico, anche perché i margini sono molto meno netti di quanto si possa immaginare, specie col trascorrere dei secoli.

Un esempio? «La Gioconda di Leonardo, un capolavoro del Rinascimento e quindi, per convenzione, un prodotto di “alta cultura”, oggi è una delle immagini più popolari del mondo». E la dinamica può anche condurre nella direzione opposta. È questo il caso delle fiabe popolari dei fratelli Grimm, poi utilizzate nell’istruzione dei nobili, oppure del jazz, destinato a diventare in pochi decenni un genere d’élite apprezzato dall’alta borghesia occidentale. Appare poi arduo definire la cultura popolare come cultura di consumo: «È infatti molto più probabile che scrittori come Flaubert e Tolstoj abbiano venduto, nel complesso, molto più dei loro contemporanei». Ricostruire le vicende culturali europee significa tracciare uno sterminato panorama di un intero continente, soffermarsi sulla nascita del libro, sulla circolazione dei primi quotidiani a grande diffusione, seguire il debutto di generi che diventeranno popolarissimi (vedi alla voce: fumetto e giallo), tastare il polso al rapporto tra Stato e cultura ed arrivare fino alla nascita della televisione e dei nuovi media. Con un’inossidabile convinzione: «Nel corso degli ultimi duecento anni l’Occidente ha fornito al resto del mondo una quantità di prodotti culturali sproporzionata alla sua popolazione. Se tutto ciò abbia rappresentato un vantaggio, lascio deciderlo a chi fa professione di moralismo. Tutto quello che so è che un mondo senza cultura, alta o bassa che sia, che si tratti di Tolstoj o di Grand Theft Auto, sarebbe un mondo ancora più selvaggio di quello in cui ci troviamo oggi». E così sia.


sport unque: il campionato di calcio più bello del mondo, ma è vero solo per noi italiani, è già oltre il giro di boa e si trascina nel solito contorno di moviole miste e polemiche tartufate un po’ stantie; basket, pallavolo e rugby sono più o meno incamminati verso la fase dei playoff per assegnare il titolo; il MotoGp mondiale, quello di Valentino Rossi per intendersi, dopo una lunga campagna acquisti e cessioni di piloti tra le varie scuderie ha inaugurato la stagione 2009 alzando i veli sulle nuove due ruote per centauri dandosi poi appuntamento ad aprile nelle favolose notti d’oriente del Qatar, in una prima uscita a fari accesi nella notte: potenza degli sceicchi e degli sponsor! Anche la Formula 1 ormai pigia sull’acceleratore e i media iniziano a interessarsi di kers, piloti e paddock e delle varie novità del circuito prima di ritrovarsi alla prima bandiera a scacchi della stagione a fine marzo a Melbourne, Australia.

3 febbraio 2009 • pagina 21

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E a proposito di Melbourne, ecco che l’annata del tennis ha preso l’avvio proprio nella terra dei canguri, dei gloriosi aussie di un tempo (a memoria: Laver, Newcombe, Rosewall e Stolle, ma più vicino a noi un Pat Cash che vincendo nel 1987 Wimbledon osò sfidare il rigidissimo protocollo inglese scalando la tribuna per baciare la fidanzata), smagriti e senza più alcun giocatore degno di questi nomi, con gli Australian Open. La cronaca ci ha consegnato un vincitore, Rafa Nadal, numero uno al mondo, imperturbabile e spietato caimano della pallina, capace ormai di dominare su ogni superficie con l’imponenza e l’eleganza di un bronzo di Riace; un finalista uscito in lacrime, il freddo Roger Federer, svizzero fino a qualche anno fa senza buchi ma ormai in liquefazione come la cioccolata al sole ogni qual volta ha dall’altra parte della rete quel Nadal che da tempo gli ha soffiato il primato nel ranking mondiale; e un vincitore morale, Fernando Verdasco, anche lui della prolifica terra di Spagna, definito il sosia di Cristiano Ronaldo essendone invero solo una lontanissima imitazione iconografica, capace di portare in semifinale alle soglie dell’inopinata sconfitta il compaesano Nadal prima di perdere nel più triste e sconsolante dei modi: cedendogli il passo con un doppio fallo, l’errore del princi-

Gli antieroi della domenica. Parabola discendente del professionismo tricolore

C’era una volta il tennis italiano... di Francesco Napoli piante al circolo del tennis più sfigato. Crudeltà assoluta, «un finale troppo veloce per una partita così lunga» ha sentenziato Rod “Red”Laver dopo l’incontro degli Australian Open più duraturo di tutti i tempi: 5 ore e 14 minuti. Il fatto è anche che questi due spagnoli ci hanno tolto l’unica pallida vestigia

rimasta del tennis italiano in queste terre: un Boris Becker contro Omar Camporese durato appena 3 minuti in meno e perso, manco a dirlo, dal nostro racchettista tricolore. Ma, a proposito, il tennis italiano dov’è finito? Vive di memoria e di residui archeologici: Pietrangeli, Sirola e Gardini naturalmente, ma anche Panatta, Barazzutti e Bertolucci sono nomi più noti di quelli oggi in circolazione, e poi? Guardare la classifica Atp per piangere: primo degli italiani al posto 35 Andreas Seppi, ad Australian Open da disputare e dove dopo la prima settimana di gioco nessuno più parlava la nostra lingua sui campi di gioco. Tristissimo, e il pianto scende a dirotto senza intravedere alcun anticiclone all’orizzonte. I nostri di proclami a inizio anno ne fanno, eccome. A parole son sempre pronti e vogliosi di entrare nella top ten. Mi accontenterei dei primi 30. Vista la scelleratissima situazione, si potrebbe proporre a Federica

Sopra, il campione italiano Adriano Panatta. In alto, Flavia Pennetta (prima italiana al posto numero 13) e, a fianco, Andreas Seppi (primo degli italiani al posto 35)

Panatta, Barazzutti e Bertolucci sono nomi più noti di quelli in circolazione oggi: Seppi (35° in classifica), Bolelli (39°), Fognini (88°) Sciarelli dal suo osservatorio di Chi l’ha visto di aprire un’inchiesta e, casomai, per favorire il recupero di questo sport alle nostre latitudini, anche di un telefono verde, non si sa mai, dovrebbe essere una questione di soldi. Eppure di svanziche ne circolano con gli sponsor, solo che i ragazzotti italioti in braghe e maglietta un tempo solo bianche appena ne mettono qualcuno in più in tasca si siedono spossati. Le colleghe del tennis femminile, meglio messe senza dubbio, con Flavia Pennetta prima italiana nel ranking al posto numero 13 e altre 2 nei primi 40 della graduatoria, giustamente criticano i colleghi definendoli “mammoni”. La rivalità uomo-donna batte sempre sugli stessi tasti, anche nello sport.

Qualcuno potrebbe consolarsi con altre nazioni che stanno peggio di noi. La gloriosa Svezia di un tempo, quella dei Borg, Wilander e compagnia cantante, non ha alcun gioca-

tore nei primi 100, mentre noi oltre il succitato Seppi annoveriamo anche un Bolelli (39), Starace (73) e Fognini (88), tutto grasso che cola come si suol dire. Così tra infortuni e difficoltà gli scandinavi hanno perfino pensato di richiamare alle armi il riservista Stefan Edberg, classe 1966, ma classe pura come non ce n’è più tanta in giro, per farlo giocare in doppio nell’imminente primo turno di Coppa Davis. Per fortuna non ci tocca incontrarli. Credo che il vecchio Edberg non sfigurerebbe affatto con tanti dei nostri moschettieri, amarcord per amarcord, meglio giocargli contro le carte Panatta o Bertolucci.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Asharq Al-Awsat” del 30/01/2009

I guai di Hezbollah di Tariq Alhomayed ayyed Hassan Nasrallah è in cerca di una “ripartenza”. Il conflitto di Gaza lo ha visto attivo nella «guerra verbale», che si è ben guardato dal trasformare in qualcosa di più concreto. Ora cerca un via d’uscita per ricompattare il consenso su Hezbollah.

S

Prima di tutto propalando le menzogne sull’appoggio di Hezbollah ad Hamas durante l’operazione Cast Lead, tanto per tenere occupata l’opinione pubblica libenese con una nuova causa. Poi spostando l’attenzione dal perché il movimento islamico libanese non abbia usato le sue armi per aiutare i “fratelli”palestinesi nella Striscia. Proprio lui che ha tanto promosso il concetto di «resistenza dal cielo» (i missili, ndr). Così Nasrallah ha rilanciato le accuse nei confronti dell’«infido» Egitto, utilizzando un linguaggio che è antitetico a qualunque idea di perseguimento dell’unità araba. Ha criticato la dichiarazione finale del vertice del Kuwait (che in realtà non c’è stata, ndr) con un’agenda meno interessante e vincolante di quella emersa alla conferenza di Doha (sulla crisi libanese, del maggio 2008, ndr) o la più recente iniziativa saudita per la riconciliazione su Gaza. Naturalmente non ci sarebbe nulla di strano nelle dichiarazioni di Nasrallah sul summit di Doha, cui ha partecipato anche il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Ma quale è il collegamento fra il leader di Hezbollah e i vertici arabi o la Lega araba, visto che in passato ha espresso, con orgoglio, la sua appartenenza al partito iraniano Waliyat-e-Faqih? In un suo intervento pubblico, durante l’ultimo conflitto di Gaza, aveva dichiarato il fallimento dei regimi ara-

bi e dei loro eserciti. Quel giorno aveva sottolineato come la «resistenza» fosse l’unica opzione possibile; chiaramente faceva riferimento ai movimenti guidati dagli «eserciti della libertà» tanto cari agli iraniani. La verità è che noi ci siamo resi conto della reale forza di queste formazioni militari, d’ispirazione e addestramento iraniano, solo quando sono comparse sulla scena con i blitz a Beirut e a Gaza. Il problema sulla natura dei rapporti fra Nasrallah, il mondo arabo e gli arabi più in generale, è qualcosa che merita una domanda. Cioè se il leader del movimento islamico in Libano e gli organi di stampa e televisivi che lo appoggiano, considerino gli arabi solo dei traditori e dei cospiratori. In un’altro intervento, più recente, il leader del Partito islamista libanese ha affrontato l’argomento della scomparsa di alcuni diplomatici iraniani nel Paese dei cedri. Addirittura accusando il governo libanese per il loro presunto rapimento!

Il capo del movimento sciita ci dovrebbe allora dire chi si dovrebbe assumere le responsabilità per i morti, durante il colpo del 7 maggio a Beirut, portato a termine da Nasrallah e dai suoi alleati. Naturalmente qualcuno, sia tra alcune fazioni nel mondo arabo che tra i loro alleati iraniani, potrebbe affermare che Hezbollah e le sue azioni sono una questione interna libanese e che l’organizzazione islamica sia da considerare libanese e agisca in linea con le regole di quella democrazia. Questa è una menzogna che viene ripetuta quotidianamen-

te, perché Nasrallah ha ottenuto con la forza lo stallo parlamentare per bloccare il Paese, contro una maggioranza regolarmente eletta. Chi ci garantisce che se un’altra maggioranza dovesse in futuro vincere una tornata elettorale, gli islamisti, seguendo la loro interpretazione su cosa sia una democrazia, non agiscano allo stesso modo, anche usando la minaccia delle armi? Questo è ciò che è avvenuto durante il colpo di Stato del 7 maggio (contro il governo di Fouad Siniora, ndr) che ha poi portato al summit di Doha.

Ora, la trappola in cui il leader degli sciiti libanesi è caduto è stata costruita dai suoi stessi discorsi e interventi, rilasciati a ruota libera, senza che ci fossero delle occasioni determinanti, un po’ come fa il rappresentate di al Qaida, Ayman al Zawairi. Il risultato è stato una specie di cortocircuito che l’ispiratore del movimento islamista ha innescato, smentendo se stesso, con la sicurezza che ciò passi sotto silenzio. Questo è ciò che non dovrà assolutamente accadere!

L’IMMAGINE

I balordi, o meglio, i barbari di Nettuno abbiano una punizione esemplare È successo ancora. Ancora una volta dei balordi hanno dato fuoco ad un uomo indifeso per noia, o forse divertimento, gioco, barbarie. Sì, questa è la parola giusta: barbari. Altro non ci sarebbe da dire. Non bisogna stare a sottilizzare o analizzare un fenomeno che altro non è che barbarie. Bisogna solo severamente sanzionarlo. I barbari vanno puniti, non certamente compresi. La giustizia sia ferma, decisa, giusta. Anche le dichiarazioni dei politici hanno francamente stufato, e non poco. Non se ne può più del sindaco o del deputato di turno che ci ricordano che simili cose non si fanno. Anche in questo caso è tempo di finirla, a ognuno il suo lavoro. È solo ed esclusivamente materia di ordine pubblico e applicazione delle leggi. La forza della giustizia darà sicuramente i suoi frutti: chi sarà punito e pagherà la sua balordaggine, sarà un evidente e chiaro deterrente per altri giovinastri che pensano di imitarli.

Carolina Carli

LE MINORANZE, IL LIEVITO DEL PROGRESSO È un antico vezzo quello di cambiare la legge elettorale ad ogni elezione. Mai che le regole del gioco fossero stabili. L’intenzione di porre la soglia del 4% per poter avere l’assegnazione dei seggi nelle elezioni del Parlamento europeo, nel quale non vi è il problema della governabilità, appare come la chiara volontà di eliminare le minoranze di pensiero in modo da stroncare qualsiasi loro futura intenzione di tentare, in sede nazionale, ad una riorganizzazione per concorrere a riottenere la rappresentanza. Non si tiene conto che in tutte le epoche sono state le minoranze a scrivere la storia ed a costituire, molto spesso, il lievito del progresso. Alla legge per le elezioni del Parlamento europeo è ne-

cessaria invece la modifica delle circoscrizioni elettorali. E infatti la circoscrizione Sardegna-Sicilia non è omogenea perché le due isole hanno pochi e rari contatti. La Sardegna ha più contatti con il Lazio, la Toscana e la Liguria. La Sicilia, invece, ha maggiori contatti con la Calabria, la Basilicata e la Campania. Le modificazioni in tale materia, molto delicata, non dovrebbero avvenire alla vigilia elettorale ma molto tempo prima e dovrebbero ottenere la massima condivisione. In mancanza rischiano di accrescere la sfiducia, aumentando la distanza fra il popolo ed il Palazzo.

Luigi Celebre

LA SPAGNA REGALA IL RIMPATRIO In Spagna vi sono 160.000 extracomunitari disoccupati in regola

Trappola per piedi Andrete a ballare questo week end? Speriamo che indossiate qualcosa di più sobrio di questo “trampolo” anni ’70 esposto in una mostra di scarpe a Herne, in Germania. Anche perché ammesso che riusciate a calzarlo, il problema è camminarci: persino alle modelle più esperte capita di vacillare e su tacchi ben più bassi (20 centimetri al massimo)

con il permesso di soggiorno. Perciò il governo socialista di Zapatero pagherà le spese di viaggio a tutti quegli extracomunitari regolari che faranno ritorno nel loro Paese d’origine, e che s’impegneranno a non tornare in Spagna nei prossimi tre anni. Una soluzione?

Lucio

AIUTIAMO LE FAMIGLIE, CAMBIAMO LA 180 L’onorevole Carlo Ciccioli ha preparato una proposta di legge che sta per essere depositata in Parlamento, considerando necessaria e urgente la revisione della legge 180 dopo trent’annni. In Italia, infatti, trent’anni fa vennero chiusi i manicomi senza però

debellare la malattia mentale. La proposta di legge, in breve, si ripropone di non abbandonare i pazienti che non hanno più una famiglia in strada né caricarli solo ed esclusivamente alle famiglie, determinando dei veri e propri manicomi domestici con i familiari in ostaggio.

Anna Savagna


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Amatemi e credetemi! Mia cara Contessa, finalmente un libro che mi vien da voi, mi dimostra che voi vi siete ricordata di me, una volta almeno, dopo la mia partenza: e una soprascritta di vostro carattere mi assicura che il libro non è un’opera postuma, e che mi viene per dono, e non per testamento o per codicillo. Le molte lettere che voi mi volevate scrivere, e mi avete promesso più volte, si son ridotte ad una soprascritta. Se mai aveste intenzione di cominciare adesso, cioè dopo cinque mesi, sappiate che non siete più in tempo, perch’io parto per Bologna questa settimana, o, al più tardi, in principio dell’altra. Perciò non vi dirò nulla del vostro libro, dove io ammiro la sobrietà e il buon giudizio della prefazione, la purità della lingua e dello stile, e le tante difficoltà superate. Né anche vi domanderò nuove di voi: perché spero che presto potrò dirvi a voce tutto quel che vorrete sapere, e domandarvi tutto quello che vorrò sapere io. Intanto amatemi, come fate certamente, e credetemi, your most faithful friend, or servant, or both, or what you like. Giacomo Leopardi a Teresa Carniani Malvezzi

ACCADDE OGGI

ART. 81: PARADOSSO E PAZZIA Il paradosso è questo: abbiamo su tutta la produzione mille controlli e regolamenti che non servono a nulla ma, quando qualche malandrino viene scovato, non è che gli cambi la vita più di tanto… un po’ di rumore, denuncia a piede libero, una condanna con la condizionale e poi più nulla. In Cina i controlli sono pochi ma quando qualcuno si sogna di adulterare il latte, viene impiccato e indubbiamente questo esempio distoglierà altri dall’idea di imitarli. Secondo voi che cos’è più efficace? Viviamo di teoria e di poca pratica, di chiacchiere più che di fatti. Anche l’argomento più scemo crea tanto dibattito tra le parti politiche, ecco in che cosa siamo bravissimi in questo ambiente di pettegolume. Il nostro sistema sociale, economico e politico con la sua attuale impostazione di rigidità farraginosa, non sarebbe mai in grado, ad esempio, di una spietata politica di eliminazione degli enormi sprechi dal bilancio statale o degli enti locali, di una drastica riduzione delle tasse e delle poltrone, di un abbassamento del fastidioso livello di regolamenti burocratici, spesso penalizzanti rispetto a quanto avviene dall’altra parte del mondo con cui si deve combattere. Ora, invece, con la scusa della tanto sbandierata crisi, tutti vogliono sostegno economico dallo Stato. Gli utili degli anni scorsi chissà dove sono finiti. Hanno pretese l’industria dell’auto, le banche, altri settori e poi ci sono proposte per dare lo stipendio alle casalinghe, ai disoccupati ma io credo che in qualche modo serpeggi

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

3 febbraio 1957 Prende avvio sulla Rai il Carosello, che negli anni diverrà indice di cambiamento delle abitudini degli italiani a causa (o grazie) alla televisione 1959 In un incidente aereo perdono la vita Buddy Holly, Richie Valens e The Big Bopper. La data divenne nota come “Il giorno in cui morì la musica” 1966 La navetta sovietica Luna 9 effettua il primo allunaggio 1969 Al Cairo,Yasser Arafat viene nominato capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina 1985 Desmond Tutu diventa il primo vescovo anglicano nero di Johannesburg 1989 Un commando di militari mette fine in Paraguay alla dittatura di Alfredo Stroessner 1990 Dal museo di Ercolano (NA) vengono rubati più di 200 preziosi reperti di arte antica 1991 Viene sciolto il Partito comunista italiano, dividendosi in Partito democratico della sinistra e Partito della rifondazione comunista

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

una vena di esuberante pazzia. Chi paga tutto ciò? Non resta che il lavoratore il quale vive nella minaccia del licenziamento e, quando va bene, della cassa integrazione. Basta vedere il gettito fiscale annuo e si nota con assoluta chiarezza che la parte più rilevante deriva dal lavoro dipendente. Visto che i padri e i nonni sono già malmessi, non resta che far pagare i nostri nipoti. Il mio ultimo nipotino ha solo due mesi ed ha già un debito spaventoso sulla sua testa, grazie agli sperperi del passato. Emettiamo montagne di bot e cct, cediamoli ai fondi cinesi che sono stracolmi di liquidità e poi per secoli paghiamo gli interessi, oltre alle quote di rimborso. Lo stanno facendo in parte anche gli americani, ossia si stanno mettendo il cappio cinese al collo. Sento dire: ci sono luci e ombre, però occorre un po’ di fiducia… sì, ma in chi? L’Italia è stracolma di problemi, ma l’argomento più discusso dalla politica sono le dimissioni di Villari o l’alternanza Veltroni-D’Alema. Accidenti, questo sì che è importante e risolutivo! Se giungesse un serio divieto per lo Stato di indebitarsi e di rispettare nel bilancio l’art. 81 della Costituzione nella sua corretta interpretazione, allora si potrebbe intravedere uno spiraglio di risanamento mentale. Si spenda quanto si incassa, non un euro di più. Lo diceva anche Einaudi. I suoi successori, invece, hanno preferito applicare la filosofia di due comici quando affermano: siamo partiti dal nulla, ora, finalmente, siamo pieni di debiti.

Angelo Rossi

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

LA VERA NATURA DELL’ATTUALE CRISI ECONOMICA L’attuale crisi economica non ha natura finanziaria ma geopolitica. Credo sia strabismo storico ritenere che la politica non prevalga sulle ragioni dell’economia. Il caso evidente è il nostro Paese, la cui economia è stata rovinata dalle ragioni dalla politica, ossia dall’impossibilità dell’alternativa di governo. Per mantenere il consenso si doveva per forza vivere al di sopra delle nostre possibilità e ciò ha significato statalismo, assistenzialismo, clientelismo, corruzione. Ufficialmente la crisi economica è stata causata dalla bolla dei mutui Usa e dalla crisi nel sistema finanziario mondiale, che si è sovrapposta a una fase ciclica congiunturale dell’economia dopo anni di sviluppo. Ma ciò coincide con un periodo in cui l’atteggiamento multilateralista europeo nei confronti dell’involuzione democratica in Russia e dell’atomica in Iran, abbia fomentato una convergenza del mondo globale contro gli Usa. Al punto da confidare nella rovina degli States per la perdita del ruolo del dollaro, della loro leadership militare e addirittura nello scenario di un dissolvimento dell’unità federale politica. Ma all’America alcune idee, diversamente dalla Ue, sono ben chiare: 1. L’incapacità della Russia di evolversi come società liberaldemocratica e il malessere del popolo ha significato che chi comanda ha scelto la facile soluzione della rivalsa nei confronti del mondo. L’imperativo è riaffermare il ruolo di potenza militare mondiale. Ciò ha comportato più spese militari e più giornalisti ammazzati. L’evoluzione della situazione non può che essere quella di uno spirito di rioccupazione dei territori limitrofi, anche per ragioni di approvvigionamento alimentare oltre che di vie dell’energia, come l’Ucraina. 2. L’Iran è determinato, con il supporto tecnico russo, a diventare una potenza nucleare. Le idee distruttive dello Stato di Israele sono reali intendimenti e i motivi razziali e religiosi nascondono la volontà di potenza iraniana che, spazzato via Israele, può influenzare tutta l’area del sud mediterraneo musulmana fino allo stretto di Gibilterra e mettere sotto scacco i Paesi monarchici sauditi. 3. Il Venezuela ha ipotecato anni di incassi petroliferi per acquistare armi dalla Russia, che ha il 25% del mercato mondiale di armi. L’ambizione è quella di essere il rovescio di Israele e cioè essere non solo una nuova Cuba, ma anche di poter influenzare nel futuro tutta l’area sudamericana.Tutti e tre questi punti non possono che significare in futuro conflitti, anche nucleari, su larga scala nelle rispettive aree. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

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PAGINAVENTIQUATTRO Cinema. Qualche precisazione al film “Operazione Valchiria”

Von Stauffenberg: l’eroe buono di una storia mai di Pietro Salvatori

na volta che il capo ha preso il suo posto, l’intera organizzazione si identifica con lui in modo così completo che un’ammissione di errore o una destituzione romperebbe l’incanto dell’infallibilità che circonda la sua carica, e segnerebbe la rovina di tutti quelli che sono legati al movimento. Non la veridicità delle parole del capo, ma l’infallibilità delle sue azioni è alla base della struttura». La filosofa Hannah Arendt, a pochi anni dal crollo del regime nazista e mentre ancora l’Unione Sovietica era il paese nel quale Stalin incuteva terrore con un semplice sguardo, così inquadrava nel suo Le origini del totalitarismo, datato 1951, la centralità della figura di Hitler nella Germania nazionalsocialista. Ma qualcun altro prima di lei era già arrivato, indirettamente, alla stessa conclusione.

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Occorre spostarsi solo di qualche anno indietro, al 1944, e fare ritorno in quella Germania che la Arendt aveva dovuto abbandonare a causa delle sue origini ebraiche. Il rosso drappo della svastica copriva ogni cosa nella Germania del Terzo Reich, nonostante la guerra fosse ad un passo dal tramutarsi in catastrofe. Nulla sembrava però scalfire il granitico potere di Hitler, che dalla tolda della Tana del Lupo continuava ad impartire ordini suicidi ad un esercito che cercava di non trasformare una lenta ritirata in una rotta disastrosa. Proprio nel quartier generale dell’intoccabile Fuhrer, nel bel mezzo della sala riunioni, il mattino del 20 luglio del 1944 brillò un ordigno, destinato a sopprimere l’uomo che stava trascinando con sé nella rovina tutto il popolo tedesco. A portarla materialmente furono le tre dita della mano destra del colonnello Claus von Stauffenberg, le uniche rimastegli, dopo aver perso sul fronte africano l’anno prima le restanti sette e l’occhio sinistro. Proprio da qui prende il via la pellicola di Bryan Singer, quell’enfant prodige che a soli ventinove anni aveva incantato e tenuto sulle

spine il mondo intero con I soliti sospetti, diventato nel giro di pochissimi anni un vero e proprio cult, e che ha passato una vita dietro al sogno dei fumetti, dai vari X-men all’ultimo Superman. Forse, dimostrata tanta bravura, era arrivato il momento di crescere. E così un tema più complesso ed articolato, quello della lotta per la libertà di un popolo, ed un periodo spinoso da affrontare, quello della Germania della svastica. Tanto più se si considera che la religione ebraica professata da Sin-

luglio credevano di avere in mano. Il tonfo finale diventa così estremamente drammatico e appassionante. Ma il buco della ciambella riesce solo per metà.

Qual è il problema? Tom Cruise dà il volto (orbo) ad un colonnello von Stauffenberg che si

ESISTITA ger rendeva la patata in mano al regista ancora più bollente. A livello puramente cinematografico non si vede perché un simile talento non avrebbe dovuto rendere appetibile anche una storia più sfaccettata e difficile, dalle in-

In realtà il Conte non era il paladino di una Germania libera e desiderosa di pace. Ma piuttosto un conservatore che mirava alla deposizione di Hitler perché incapace di riportare il grande Reich ai fasti dell’epoca guglielmina finite implicazioni di ordine politico, sociale, culturale e morale. Operazione Valchiria, dal nome in codice che assunse involontariamente il piano per l’uccisione di Hitler, è un thriller solido, dall’impianto classico, che mette in mostra tutta l’abilità del regista nella gestione dei tempi narrativi. Un thriller con l’ostacolo di una fine annunciata.

Anche il più disinformato degli spettatori, avrà una vaga idea di come la guerra sia finita di lì ad un anno, alle porte di Berlino, con un Fuhrer suicida. Singer, con la collaborazione del suo sceneggiatore di fiducia, Christopher McQuarrie, aggira l’ostacolo, enfatizzando enormemente l’apparente, effimera, vittoria che i complottisti del 20

pone nel nulla morale della palude nazionalsocialista come integerrimo amante della propria patria, paladino di una Germania libera e desiderosa di pace, alla guida di forze che nel rovesciamento del Fuhrer e nell’instaurazione di una nuova democrazia facevano la propria ragione di vita. In realtà buona parte della storiografia accredita il conte von Stauffenberg come uno dei tanti membri dell’aristocrazia militare di matrice prussiana, che miravano alla deposizione del “piccolo caporale austriaco” in quanto incapace di riportare il grande Reich tedesco ai fasti dell’epoca guglielmina. Un conservatore, probabilmente un reazionario, diviso da coloro che avversava non da divergenze etiche o morali - al punto da esser tacciato anch’egli di antisemitismo - ma da una differente idea del dominio che la Germania avrebbe dovuto esercitare sul resto del Continente. Tutto questo non c’è nel visino pulito e nell’occhio eternamente accigliato del bel Cruise, che assolve per l’ennesima volta al compito di eroe della storia di turno. Le polemiche nel Paese della Grosse Koalition sono divampate e hanno infuocato gli animi di gran parte della stampa e degli storici, mentre il cast tecnico e artistico continua a difendersi con pochi e deboli argomenti, dietro «il fantastico rapporto» instaurato con la parte tedesca della troupe che ha lavorato alla pellicola. In mezzo un ottimo film, che forse, però, racconta una storia che non è mai esistita.


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