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I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere
di e h c a n cro
Marco Fabio Quintiliano
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Di fronte alla minaccia di Iran e Corea
CASO ENGLARO: ULTIMO ATTO
Che errore se Obama taglia la Difesa!
Nonostante gli appelli del Papa, entro pochi giorni a Eluana verrà tolta la vita. La maggioranza, divisa, resta immobile. Napolitano chiede la legge sul testamento biologico. Fini si schiera con il padre. In questa confusione uno stato di coma sta diventando una…
di Robert Kagan on vi è alcuna ragione valida, da un punto di vista di politica di bilancio, per tagliare i fondi alla Difesa in un momento in cui sono tutti presi dalla fretta per varare norme che stimolino la ripresa economica. Fonti ufficiali del Pentagono hanno lasciato trapelare che il dicastero del Bilancio della Casa Bianca abbia ordinato - per il prossimo anno - un taglio del dieci per cento nelle spese per la Difesa. Ecco cinque ragioni per cui Obama dovrebbe fare scelte opposte.
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Morte di Stato
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Passa la nuova legge per le Europee
Una sconfitta mascherata da riforma
alle pagine 2 e 3
di Francesco Capozza a Camera ha approvato la nuova legge elettorale per l’elezione dei rappresentanti italiani al Parlamento di Strasburgo. L’emendamento più contestato, quello presentato dal relatore Peppino Calderisi che introduce la soglia di sbarramento al 4%, è stato approvato a larghissima maggioranza: 487 i voti a favore, 29 i contrari e 6 gli astenuti. Si chiude una dura battaglia lanciata dall’Udc, durata mesi e fatta di ripetuti colpi di scena. Una battaglia che vede molti sconfitti.
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Incentivi per gli elettrodomestici
Berlusconi mette la crisi in frigorifero di Francesco Pacifico ilvio Berlusconi non vuole sentire ragioni sul nuovo piano anti-crisi. E se i sondaggi consigliano un’accelerazione, non c’è Tremonti o le ripercussioni sul debito pubblico che tengano. Così ieri ha confermato la distribuzione di «altri 40 miliardi veri» per sconfiggere la paura che attanaglia gli italiani. E impedisce loro di acquistare. Anche se difficilmente riuscirà a fare approvare il pacchetto nel consiglio dei ministri di venerdì.
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L’attivismo del Superministro andrebbe oltre la gestione della crisi economica
Ora Tremonti vuole il Corriere Le Fondazioni bancarie puntano al controllo del quotidiano di Insider
Cambiamenti in vista in Unicredit
embra che tutto taccia. Che nessuno si muova, ma non è così. Lontano dai riflettori e dalle ribalte, i giochi per ricostituire i nuovi equilibri di potere del sistema economico italiano, quando la crisi se non sarà passata, avrà comunque superato il guado, sono in pieno svolgimento. Non è una novità. Da che mondo è mondo le crisi sono state, sempre, elemento di grande cambiamento. Avviene in tutti i paesi occidentali: gli Stati Uniti, in testa. Con una differenza, tuttavia, in Italia: l’opacità dei rapporti. Lo sviluppo di una rete sotterranea, che acquisterà la sua rilevanza pubblica, solo nel momento in cui il ritrovato equilibrio si sarà consolidato.
Intanto ha quasi vinto la guerra a Profumo
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di Giancarlo Galli è nell’aria un Profumo di Passera», è la battuta che in queste ore corre, maliziosa, di bocca in bocca nei semidiroccati santuari della finanza italiana. Mentre in Borsa i ribassisti la fanno da padroni. Vendendo allo scoperto (ma chi fornisce loro i titoli?), nella previsione di un imminente terremoto. Epicentro del sisma, Unicredit.
«C’
Il ministro dell’Economia è attivissimo in queste settimane per assicurarsi il controllo di banche e Fondazioni che gestiscono il credito
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segue a pagina 9 segu2009 e a pag•inEaURO 9 1,00 (10,00 MERCOLEDÌ 4 FEBBRAIO
CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
24 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Emergenza bioetica. Il calvario della ragazza in coma, trasferita in Friuli, scuote il Paese e il Palazzo
Scontro sulla morte di Stato Maggioranza divisa. Napolitano chiede il testamento biologico. Fini con papà Englaro. La confusione della politica condanna Eluana di Marco Palombi
ROMA. In sole due ore, tra le 14.40 e le 16.40 di ieri, la vicenda dello scontro politicogiudiziario intorno a Eluana Englaro sembra essere arrivata alla fine. Il trittico di dichiarazioni inaugurato da Gianfranco Fini, proseguito dal capo dello Stato e concluso da Renato Schifani – arricchito dall’icastica sottolineatura del silenzio infastidito di Silvio Berlusconi – ha spiegato plasticamente qual è la situazione sul campo: nonostante a colpi di dichiarazioni e iniziative spontanee la sorte di Eluana drammatizzi ancora la psiche di parte della nazione, la battaglia tra il governo e Beppino Englaro è arrivata alla fine. Ieri mattina, appresa la notizia del trasferimento della donna a Udine, la cospicua rappresentanza cattolica nel centrodestra invocava un decreto “salva-vita” firmato dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi e, ovviamente, dal presidente del Consiglio: la situazione, però, era parecchio imbarazzante perché il capo dello Stato – va ricordato: anche presidente del Csm – aveva fatto capire a palazzo Chigi che non avrebbe firmato un decreto legge che aveva lo scopo dichiarato di negare attuazione ad una sentenza definitiva della magistratura. «Stiamo valutando», ha detto allora il laico e socialista Sacconi, che su questa vicenda si trova però a subire le forti pressioni dei suoi sottosegretari Ferruccio Fazio e Eugenia Roccella, uno dei volti di riferimento, quest’ultima, del movimento pro life: i cattolici del Pdl, a quel punto, hanno provato ad aggirare l’opposizione del Quirinale tentando di creare un fronte comune parlamentare che dimostrasse al capo dello Stato che erano le Camere a chiedere un intervento e non il governo a prendere l’iniziativa motu proprio. La richiesta del decreto, allora, è diventata anche dell’Udc: «Necessità ed urgenza dovrebbero obbligare il governo ad un decreto che vieti su tutto il territorio nazionale la sospensione della alimentazione e della idratazione. I pur lodevoli atti di indirizzo del ministro Sacco-
Il governo approvi subito una norma generale che eviti la tragedia
C’è ancora tempo per un decreto di Rocco Buttiglione avanti agli ultimi sviluppi del caso di Eluana Englaro è forte la tentazione del silenzio. Silenzio come rispetto per il dolore (il suo e quello di suo padre); silenzio come riconoscimento del proprio limite e del limite umano.
D
Cederemmo volentieri alla tentazione del silenzio se esso non fosse anche rassegnazione davanti all’inevitabile. E invece l’inevitabile forse può ancora essere evitato. Noi chiediamo al Capo del Governo di convocare immediatamente un Consiglio dei ministri straordinario per approvare un disegno di legge che difenda il diritto alla vita dei disabili. Non si tratta di fare una norma ad hoc per contraddire una sentenza. Si tratta di fare una norma giusta, che regola un problema reale a cui sono interessati fra due e tremila cittadini italiani. Certo, questa norma regolerebbe anche il caso di Eluana Englaro e le salverebbe la vita. Il governo sa che esiste in una Parlamento ampia maggioranza e che il suo atto sarebbe pienamente legittimo. Noi chiediamo, anche, al ministro della Giustizia di venire immediatamente in Aula a rispondere all’interrogazione urgente presentata dall’on. Santolini nella quale si mostra come la decisione presa sul caso Englani non sono più sufficienti», ha dichiarato Maurizio Ronconi.
Prima che questo movimento a favore del decreto raggiungesse la massa critica, il Quirinale ha concordato coi presidenti delle Camere una
ro non è conforme ai criteri indicati nella sentenza della Corte di Cassazione. La Cassazione dice che deve essere accertato, pur in assenza di documenti scritti, in modo indubitabile quale fosse la effettiva volontà di Eluana. Sono invece affiorate testimonianze di amici e conoscenti che legittimano quanto meno un dubbio sulla effettiva volontà di Eluana. La Corte di Cassazione chiede che sia sicura la irreversibilità del coma, mentre notizie recenti riportate diffusamente dalla stampa hanno ridato speranza per tutti i malati in condizioni simili a quelle di Eluana. Abbiamo letto, infine, che Eluana sarebbe in grado di deglutire e che l’alimentazione artificiale sarebbe stata adottata semplicemente per comodità al posto del sistema più faticoso e difficile dell’imboccamento. Se questo fosse vero, anche dopo il toglimento del sondino Eluana dovrebbe essere imboccata.
Su
tutti
questi
aspetti non si è fatto luce. Perché il ministro della Giustizia non interviene per fare luce su tali circostanze? Il silenzio sarebbe più comodo, ma non è giusto. Bisogna alzare la voce per Eluana. E per suo padre. Se stai per commettere, in perfetta buona fede, un errore gravissimo che costa la vita a tuo figlio, chi è l’amico vero: chi tace per «rispetto della tua decisione» o chi fa di tutto perché tu possa evitare l’errore?
strategia per bloccare un conflitto istituzionale che rischiava di scrivere un nuovo, inedito capitolo nella pur travagliata storia dei rapporti tra politica e magistratura. Il primo a buttarsi nella mischia è stato Gianfranco Fini. La sua dichiarazione a freddo è sem-
brata ai più un’uscita simile a quella che mandò in fibrillazione Alleanza nazionale ai tempi dei referendum sulla fecondazione assistita: era in realtà la dimostrazione di una linea “costituzionalista” e di un’attenzione alle posizioni del Quirinale che il presiden-
te della Camera ha coltivato con attenzione in questi mesi. «Invidio chi ha certezze sul caso Englaro – ha detto via comunicato Fini – Personalmente non ne ho, né religiose né scientifiche. Ho solo dubbi, uno su tutti: qual è e dov`è il confine tra un essere vivente e un vegetale? Penso che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di fornire una risposta. E avverto il dovere di rispettarla». Spianata la strada è arrivata, da Lussemburgo, la voce di Giorgio Napolitano, chiarissima nel rispetto riservato alla sentenza della Suprema Corte: in Italia «nessuno parla di introdurre l’eutanasia», ma sul caso Englaro «la Cassazione ha colmato un vuoto legislativo, che ora deve essere colmato in modo definitivo dal Parlamento».
Ultimo a intervenire Schifani: «È questo il momento della vicinanza, della riflessione e della responsabilità», ha scritto il presidente del Senato ricordando che «quanto sta avvenendo pone ormai con drammaticità la necessità di un intervento legislativo che sappia prevenire e affrontare situazioni davanti alle quali le famiglie e le persone non possono essere lasciate sole». A suo modo, anche Silvio Berlusconi ha partecipato alla diga costruita dai vertici istituzionali per impedire un intervento a gamba tesa dell’esecutivo: «Su questo non voglio intervenire», ha risposto secco a chi gli chiedeva un commento. Il premier, in realtà, voleva smarcarsi da questa vicenda già da tempo: nella conferenza stampa di fine anno dichiarò che la circolare che di fatto vietava alle cliniche italiane di aiutare Eluana a morire era «un’iniziativa personale del ministro» (ritrattò dopo neanche dieci minuti e un intervento di Gianni Letta che gli prospettò spiacevoli reazioni Oltretevere). Ora però Berlusconi, ad assecondare le sue inclinazioni, ha trovato anche gli amati sondaggi: non c’è rilevazioni che non riporti almeno un 60% della popolazione schierata al fianco di Beppino Englaro. E quando il suo popolo parla, si sa, il Cavaliere presta attento l’orecchio.
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Dalle gerarchie alla politica, la stessa accusa: «È un omicidio»
Il mondo cattolico: «Questa è eutanasia» di Riccardo Paradisi ra occorre tacere e pregare». La posizione della Conferenza episcopale italiana è di quelle che si assumono nei momenti più gravi. Quando finisce il tempo delle parole. E la vigilia della probabile morte di Eluana Englaro è generalmente vissuta dal mondo cattolico in questo stato di attesa e sospensione oltre che di preoccupazione per la rottura di un tabù. I vescovi italiani dicono infatti che togliere l’idratazione e l’alimentazione ad Eluana significa praticarle l’eutanasia, darle la morte. Più esplicita e dura anche nei toni la posizione espressa dall’associazione Scienza e Vita. Dinanzi alla tragedia che si sta consumando a Udine per l’associazione cattolica sarebbe necessaria «una vera e propria ingerenza umanitaria, in nome di un principio di precauzione che solo per Eluana non si vuole applicare». Per questo Scienza e vita annuncia che porrà in essere «ogni tentativo, anche sul territorio friulano, perchè emerga il dissenso popolare rispetto alla scelta della magistratura italiana». Una diecina di esposti intanto sono arrivati alla Procura della Repubblica e alla questura di Udine perchè intervengano per evitare l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione di Eluana Englaro.
«O
della Cassazione non è una sentenza. «È un decreto che dà la facoltà al padre di Eluana di sospendere l’alimentazione della figlia. È diverso – spiega D’Agostino – e poi dal caso Terry Schiavo, di cui Eluana non poteva essere a conoscenza, abbiamo imparato tutti che si può resistere fino a due settimane prima di morire. Siamo sicuri che Eluana avrebbe voluto questo?» Per questo sarebbe più saggio, secondo D’Agostino, usare il principio di precauzione e curare Eluana. Che come protesta l’arcivescovo di Udine Pietro Broll, «ha in atto tutte le dinamiche naturali di
per evitare che si arrivi all’esecuzione di una sentenza di eutanasia che apre una botola nel terreno giuridico e morale del Paese». Un decreto, dice la Binetti, che avrebbe trovato sponda in ampi settori dell’opposizione, dai teodem appunto ai popolari. Da parte sua il sottosegretario all’Interno ed esponente di An, Alfredo Mantovano, è d’accordo sul fatto che il caso Englaro esige come primo immediato freno una legge che ribadisca la tutela della vita. Una legge, «con norme chiare e inequivoche, che non lascino la vita in balia di qualsiasi forma di eutanasia o di testamento biologico».
Paola Binetti: «Se il governo – che ha decretato su tutto – ne avesse fatto uno in tempo utile per salvare la vita a Eluana avrebbe trovato appoggio nel centrosinistra»
Qui sotto, Eluana, con la madre prima dell’incidente di 17 anni fa. Sopra, dall’alto in basso, l’ambulanza che ha portato in Friuli la ragazza; il ministro Maurizio Sacconi che ha tentato di fermare il ricovero; Beppino Englaro e la clinica dove Eluana è ospitata da ieri mattina
Esposti che arrivano da un gruppo di legali lombardi dove si chiede di intervenire «per evitare che si commetta un reato». Secondo questa interpretazione infatti la legge esonera il padre di Eluana a interrompere l’alimentazione e l’idratazione forzata, ma non esonera i medici dall’obbligo di intervenire per evitare la morte della donna. Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione dei giuristi cattolici e membro del Comitato di bioetica, ricorda anche che se da un lato il consenso alla sospensione deve essere personale, certo e attuale dall’altro sottolinea che quella
un organismo vivente e nulla ci è permesso di sapere con certezza sulla sua vita interiore». Anche il mondo politico cattolico è schierato compatto sul caso Englaro. Paola Binetti, esponente teodem del Pd, lamenta addirittura che «il governo, così prodigo di decreti, stavolta sia rimasto immobile, non s’è mosso in tempo utile
Altrimenti, aggiunge Mantovano l’Italia che ha deciso l’abolizione della pena di morte per i colpevoli anche dei più efferati delitti, eseguirà la prima condanna a morte dopo il 1948: la condanna di una innocente cui, attraverso una lunga agonia, verrà negato il fondamentale diritto all’alimentazione e all’idratazione». E se invece il presidente della Camera Gianfranco Fini dice che sta alla famiglia Englaro decidere sul destino di Eluana Maurizio Lupi, vicepresidente Pdl della Camera, si dice sicuro che si troverà il modo di «fermare quella che si configura come una vera e propria eutanasia. la vita e la dignità della persona non possono essere messe in discussione da un tribunale». Mentre il mondo cattolico e il Vaticano sono dunque compatti contro il trasferimento di Eluana Englaro nella clinica di Udine che vedrà gli ultimi istanti della sua vita, un sacerdote siciliano prende una posizione ”controcorrente”. È don Francesco Michele Stabile, parroco a Bagheria, nel palermitano, storico della Chiesa: «Penso – dice il sacerdote – che sia giusto lasciare andare Eluana Englaro con dolcezza. Sono contro l’eutanasia, credo che nessuna autorità possa stabilire cosa è la vita e cosa è la morte per decreto generale. Le valutazioni devono essere fatte caso per caso. In questa storia c’è stato un eccessivo scontro. Però in questo caso siamo davanti ad accanimento terapeutico. Senza certi accorgimenti tecnici, Eluana sarebbe infatti già morta». Il fatto è che è ancora viva.
politica
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Europee. Limite del 4% e mantenimento del voto nominale: così si sono accordati il Pdl e il Pd per le prossime elezioni
La sconfitta camuffata Passa una riformetta di comodo, ma volevano levare le preferenze e uno sbarramento al 5% di Francesco Capozza segue dalla prima Sconfitto è stato, infatti, il premier Silvio Berlusconi, che avrebbe voluto le liste bloccate e uno sbarramento più alto, al 5%. Sconfitto pure Walter Veltroni, che è stato attaccato su tutti i fronti, da sinistra e all’interno del suo stesso partito. Se i “piccoli”di tutti gli schieramenti hanno protestato (sia in aula, dalle tribune, che in piazza Montecitorio e, nella mattinata di ieri, da quella del Quirinale) e denunciato il «Veltrusconi» con volantini gettati nell’emiciclo della Camera durante le operazioni di voto, da sinistra si urla allo scandalo e al mercimonio. «È un miserabile baratto che Veltroni fa con la destra e con Berlusconi. Nel tentativo di salvare la segreteria, Veltroni baratta la democrazia italiana, la Rai, i regolamenti parlamentari, le riforme costituzionali e la giustizia» è l’accusa corale che il Pdci di Oliviero Diliberto, i Verdi di Grazia Francescato e i rifondaroli di Paolo Ferrero muovono al segretario democratico.
«Dire che l’introduzione dello sbarramento al 4% è un attacco
alla democrazia non sta né in cielo né in terra, perché la riforma c’è in Europa. Ma lo sbarramento c’era anche nel “matta-
nione dei parlamentari del Pd nella Sala della Regina a Montecitorio. La soglia di sbarramento, ha fatto osservare Veltroni, «c’è in tutti i paesi in Europa, anche più alta e mi pare che in questi paesi la sinistra riesca a superare la soglia». E poi, ha sottolineato Veltroni, non si può dimenticare che insieme alla soglia sono state salvate le preferenze, «cosa che non era affatto scontata visto che Berlusconi voleva toglierle». Il segretario del Pd ha respinto l’idea che lo sbarramento sia stato voluto per calcolo
Per salvare i ”piccoli” - che anche ieri hanno protestato fino alla fine sarebbe pronta una norma che consente l’accesso al finanziamento pubblico anche a chi non supera lo sbarramento ma ottiene almeno l’1% dei voti rellum” ed è in sintonia con l’opinione pubblica». Così il segretario del Pd Walter Veltroni ha difeso la giustezza della modifica alla legge elettorale per le Europee con uno sbarramento al 4%, frutto, ha detto, di un’intesa nitida e positiva. Parole che Veltroni aveva pronunciato ieri mattina nel suo intervento conclusivo dopo la riu-
elettorale: «Non so se ci converrà o meno, sono altre le cose che influiranno, prima di tutto il nostro impegno davanti alla crisi economica. La nostra convenienza è più di sistema che di interesse elettorale». Nel suo intervento, Veltroni ha fatto anche un esplicito riferimento alle critiche della sinistra radicale, in particola-
Duecento sì alla nuova legge
Tu t t i c on W alt e r: a l l ’ a s se m b l e a dei democr atici D ’A lem a b at t e i n r i ti r at a di Errico Novi
re quelle di Franco Giordano. «Giordano ha definito la riforma una legge “salva Walter”. Si dà il caso che Giordano mi chiese di introdurre la soglia del 4% e poi, dopo la scissione, dice il contrario. Noi invece dobbiamo avere un’idea di sistema che prescinde dal calcolo delle opportunità politiche».
Al netto delle frizioni esterne, il segretario del partito di piazza del Nazareno ha più di una gatta da pelare anche tra i democratici. Pur avendo ottenuto un via libera sostanzialmente “bulgaro” dall’assemblea dei parlamentari del Pd (tre ore di dibattito con interventi di quasi tutti i big del partito), rimane forte il dissenso di Massi-
ROMA. Bastano pochi flash. Il primo, illuminante, lo offre Dario Franceschini: «Abbiamo impedito alla maggioranza di farsi la legge elettorale da sola. Le regole del gioco si cambiano solo con l’accordo tra maggioranza e opposizione. E questa è la prima volta dal ’94».Vero, verissimo, almeno per quel che riguarda i sistemi di voto. Finita la riunione dei due gruppi parlamentari democratici convocata a Montecitorio, Walter Veltroni fa eco al suo vice e spiega ai cronisti: «Lo sbarramento del 4 per cento è un obiettivo che inseguivamo da anni». Perché solo così si riduce la frammentazione, perché persino Rosy Bindi si dice favorevole all’introduzione della soglia per le Europee: «Ribadisco che i nostri interlocutori principali sono a sinistra, ma non c’è dubbio che per ricostruire un campo di centrosinistra non ci servono tanti piccoli partitini». Se è così, se la soddisfazione attraversa in modo così omogeneo il
Pd, perché mai Massimo D’Alema lascia la riunione, andata avanti per oltre tre ore, dopo pochi minuti? «Ho un impegno», è la sua risposta affrettata a chi lo intercetta in transatlantico. Quale impegno superiore può esserci, per l’ex ministro degli Esteri, in un giorno riconosciuto da molti come uno dei più importanti nella giovane storia dei democratici?
Il flash di D’Alema che va via e trattiene a fatica un impeto di disapprovazione è dunque l’altro imperdibile flash della giornata. La sua è una sconfitta, nonostante il candidato ombra alla segreteria del Nazareno, Pierluigi Bersani, voti a favore della legge. Si pronunciano così molti altri dalemiani, con l’eccezione dell’astenuto Gianni Cuperlo, ma danno l’impressione di farlo per non certificare il cappotto. I numeri parlano lo stesso: le critiche all’accordo sul 4 per cento trovano così scarso sostegno che alla fine
politica
4 febbraio 2009 • pagina 5
Un terzo candidato alle primarie per la nuova segreteria?
Silvio Berlusconi e Roberto Calderoli, i due grandi sconfitti dell’accordo sulle elezioni Europee. A destra, Beppe Fioroni; a sinistra, Pier Ferdinando Casini. Nella pagina a fianco, Walter Veltroni e Massimo D’Alema
dell’assemblea di deputati e senatori si contano 200 voti favorevoli, due astenuti (Barbara Pollastrini e il già citato Cuperlo) e solo quattro contrari. Quest’ultimo manipolo è formato da bolognesi e prodiani più o meno ortodossi: Mario Barbi, Antonio La Forgia, Walter Tocci e Arturo Parisi, pronto a spiegare a fine riunione che in Aula voterà sì per disciplina di partito.
La sconfitta, per D’Alema, è banalmente certificata dall’assenza di parlamentari disposti a seguirlo su certi ragionamenti fatti nei giorni scorsi. Soprattutto, sull’idea che dare ossigeno agli ex alleati della sinistra radicale possa irrobustire le prospettive Pd. Può darsi che il risultato delle Europee di giugno crei i presupposti per un congresso infuocato. Ma quei 200 voti favorevoli a Veltroni fanno pensare a un Partito democratico in cui il dalemismo è sempre meno rappresentato,
mo D’Alema che ha lasciato la riunione in anticipo e che non ha partecipato neppure al voto in aula. Qualche divisione si registra poi anche sulla proposta presentata dall’ex tesoriere del Ds, Ugo Sposetti, che chiede di concedere ugualmente i rimborsi elettorali ai partiti che anche se non hanno sfondato quota 4%, abbiano raggiunto almeno l’1% dei voti. Se questa dovesse essere la linea definitiva dell’accordo tra Pd-Pdl-UdcIdv, i quattro partiti che con tutta probabilità accederanno alla ripartizione dei seggi di Stra-
sburgo, è facile immaginare ulteriori prese di posizione degli esclusi. Sul tema della riforma era intervenuto in mattinata anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il quale, commentando la manifestazione tenuta davanti al Quirinale dai partiti minori aveva precisato che «l’introduzione di una soglia di sbarramento è presente nella legge elettorale nazionale fin dal 1993 e in leggi elettorali europee di molti paesi». Un imprimatur che deve aver pesato molto sul voto finale.
ha sempre minore capacità di aggregare consenso e provocare quindi un futuro ribaltamento degli equilibri interni. Se ne potrebbe dubitare se nel frattempo non arrivassero notizie nefaste per i dalemiani anche dal fronte primarie: persino in Romagna gli aspiranti sindaci vicini all’ex ministro degli Esteri vengono sistematicamente battuti dall’alleanza tra veltroniani e popolari. Nessuno può escludere che la nuova legge approntata per Strasburgo favorisca Berlusconi assai più che Veltroni e il suo partito. Nessuno può escludere nemmeno che l’attuale segreteria democratica esca dal voto di giugno con una crisi ancora più grave di quella attuale. Sembra chiaro però che un’eventuale futura leadership non si ricomporrà attorno agli scetticismi di D’Alema, e che la maggioranza interna è ormai così ampia da poter produrre un’alternativa a Walter persino da sola. Ecco perché la giornata di ieri è
davvero storica, per i democratici. L’imposizione di uno schema elettorale come quello che si genererà con lo sbarramento al 4 per cento corrisponde evidentemente alle aspettative più diffuse nel Pd. L’impulso dalemiano alla resistenza è tanto più sterile quanto più compresso in iniziative estemporanee come quella dell’ex tesoriere ds Ugo Sposetti: il suo emendamento che avrebbe concesso i rimborsi elettorali anche alle liste perdenti in grado di toccare almeno l’1 per cento è stato giudicato inammissibile dalla conferenza dei capigruppo.
Cosa più grave, la proposta di Sposetti non è nata neanche da una decisione compatta dell’area dalemiana. La quale ha provato a consolarsi con un’altra variante, una norma per facilitare l’aggregazione di più partiti sotto un unico simbolo. Davvero poca cosa per sorreggere la bandiera del vecchio centrosinistra.
E Fioroni lancia Rosy Bindi in cima al Pd di Antonio Funiciello
ROMA. Quello che proprio non sopporta Franco Marini è di essere stato trascinato nel bel mezzo di un regolamento di conti della vecchia federazione giovanile comunista. Perché se è vero che i prossimi mesi del Pd, prima del congresso, saranno caratterizzati dallo scontro traVeltroni e D’Alema, sotto le mentite (si fa per dire) spoglie di Bersani, è altrettanto vero che i popolari del Pd rischiano seriamente di finire in un vero e proprio cono d’ombra. Scegliere, infatti, il nuovo segretario con le primarie comporta una focalizzazione del dibattito politico e dell’attenzione mediatica sui due contendenti. A scapito evidentemente delle aree interne del partito che non sono direttamente rappresentate nella competizione. Per una corrente robusta e fiera come quella popolare (e per il suo padre nobile Marini) una condizione disagevole se non molesta. Come uscirne? Fioroni e Franceschini paiono ancora convinti che la collocazione migliore sia quella accanto a Veltroni, che pure ha riconosciuto loro un ruolo di prima linea nella direzione del Pd. Non solo. Li ha anche strenuamente difesi quando dagli ex ds sono arrivate pesanti critiche, soprattutto a Fioroni, più volte accusato di fare poco il responsabile organizzazione del partito e molto il capo corrente. Anzi, di utilizzare la sua importante funzione politica allo scopo di rafforzare la sua componente. Fioroni ha ricambiato in più circostanze il sostegno a Veltroni, convinto com’è che la strategia che persegue D’Alema del rilancio del centro-sinistra col “trattino” punti a scavalcare i popolari e ad affidare il compito di conquistare il voto di centro all’Udc, verso un’alleanza nazionale col Pd. L’uomo forte degli ex Dc di sinistra si ritrova ad essere (suo malgrado) il più convinto sostenitore dell’idea del Pd partito di centrosinistra, con una vocazione blairiana alla conquista del famigerato mainstream della società italiana. Quando si dice l’eterogenesi dei fini! Ma il mondo popolare, costituito da flotte di sindaci e assessori, consiglieri di amministrazione di enti pubblici, segretari di circoli e federazioni Pd, non è convinto. E, difatti, avanza proprio dai territori un’opzione assai diversa da quelle finora contemplate a Roma e molto più battagliera. Si sa che la corsa per le primarie del congresso di autunno è aperta anche a una possibile terza candidatura. Lo statuto del partito prevede un massimo di tre contendenti, a condizione che ogni singola candidatura nazionale sia sostenuta dal 15% degli iscritti. Uno scherzo per una componente come quella popolare. E allora perché non schierare un proprio candidato segretario, ottimizzare il forte voto interno identitario e schierarsi, solo a giochi fatti, con uno dei due vincitori?
Gli ex popolari, da sempre alleati di Veltroni, stanno pensando a una candidatura a sorpresa
Questa vocazione autonomista nasce in Basilicata e in Abruzzo, nelle regioni cioè dove esponenti del Pd ex Margherita hanno avuto problemi con la magistratura e non si sono sentiti difesi dai vertici del partito nazionale.Tuttavia, per quanto da Roma non sia al momento tenuta in grande considerazione, la provocazione sta facendo proseliti, poiché riflette il disagio di una base particolarmente maldisposta a giocare in eterno un ruolo da comprimario. La linea autonomista potrebbe, per altro, incontrare le simpatie della pattuglia parisiana, interessata ad avere le mani libere al congresso e indisponibile a seguire Veltroni o Bersani. Ma chi potrebbe essere il candidato popolare? Rosy Bindi, da par suo, ha già più volte detto che non esclude di partecipare, dopo l’esperienza del 14 ottobre 2007, alle primarie del prossimo autunno. Stavolta potrebbe avere con sé il grosso del suo vecchio partito e puntare così a superare nettamente quel 13% raccolto l’ultima volta.
politica
pagina 6 • 4 febbraio 2009
Il caso. L’iscrizione, dopo la denuncia presentata lo scorso 31 gennaio dall’Unione della camere penali
Offese al Colle,Di Pietro indagato di Guglielmo Malagodi
ROMA. La Procura di Roma ha
nella nota delle camere penali si rivela palesemente strumentale a sostenere la presa di posizione dell’onorevole Di Pietro sui temi della riforma generale della giustizia.
iscritto Antonio Di Pietro nel registro degli indagati per offesa all’onore e al prestigio del capo dello Stato, in base all’articolo 278 del Codice penale. L’iscrizione, dopo la denuncia presentata lo scorso 31 gennaio dall’Unione della camere penali, costituisce un atto dovuto.
Trascinandolo nella mischia del confronto politico, l’aggressione che in questa sede si sottopone al vaglio tenta di mettere in discussione l’adeguatezza del ruolo della suprema istituzione dello Stato nella gestione - quale garante della Costituzione - della futura ed eventuale vicenda parlamentare di riforma della giustizia».
La denuncia - iniziativa del presidente dell’organismo di rappresentanza degli avvocati Oreste Dominioni e del vicepresidente Renato Borzone - sottolinea in particolare una frase pronunciata dall’ex pm nel corso della manifestazione dell’Italia dei valori tenuta mercoledì scorso in piazza Farnese a Roma: «Il silenzio uccide - aveva detto Di Pietro -, il silenzio è un comportamento mafioso». Secondo L’Unpi «la vistosità della portata offensiva - si legge in una nota -, e delegittimante l’altissima funzione istituzionale esercitata dalla suprema carica dello Stato repubblicano, di tali affermazioni ha determinato
Nota degli avvocati Dominioni e Borzone: «Ha oscurato la limpidezza morale» del capo dello Stato. La replica del leader di Idv: «Calunnie, porterò con me come testimoni oltre 200mila persone» unanimi comportamenti di ferma indignazione. Tra questi l’opinione di un ex presidente della Repubblica che vi ha riscontrato un palese carattere di reato. Accusando il presidente del-
la Repubblica di comportamenti non imparziali ed omissivi assimilati a quelli di natura omertosa propri della mafia - nel contesto di una manifestazione riguardante quella piaga puru-
lenta della nostra società che si è venuta aggravando anche in virtù di condotte politico-istituzionali poco trasparenti, indolenti e silenziose - l’onorevole Di Pietro ha oscurato la limpidezza morale e il credito di cui devono essere necessariamente circondate le attribuzioni del capo dello Stato, delegittimandolo nella persona e nella istituzione che rappresenta. L’attacco al capo dello Stato - si legge ancora
Il 25% degli iscritti a Rifondazione comunista lasciano il partito
Bologna, 350 “vendoliani” verso il Pd ROMA. Sono il 25% di circa 1.300 iscritti su base provinciale, vale a dire circa 350 persone, tra cui anche rappresentanti di quartiere e presidenti di circoli. Sono i “vendoliani” bolognesi che hanno deciso di uscire dal Prc e che oggi in conferenza stampa a Palazzo D’Accursio hanno annunciato l’avvio del percorso di costruzione del Movimento per la Sinistra, che partirà sotto forma di associazione. «Riteniamo che il Prc non sia più lo strumento agibile per il nostro progetto politico» ha spiegato Francesca Ruocco a nome dei sostenitori della mozione 2, presentata da Nichi Vendola al congresso del Prc, e uscita dal sconfitta dal voto dell’assemblea. Rispetto all’area che appoggia il segretario Paolo Ferrero, precisa Ruocco, «noi non puntiamo al rilancio di Rifondazione, ma ad una nuova forma di politica e all’obiettivo di riunificare la sinistra». In questo senso, i vendoliani attendono anche il voto amministrativo di giugno sotto le Due Torri e aprono al dialogo con il Pd. «A Bologna il Prc si è troppo spesso schiacciato sull’agenda dettata da Cofferati prosegue Ruocco - senza riuscire a creare un’i-
dea alternativa di governo della città». Eppure, continua, «vogliamo fare un ultimo tentativo di unificazione della sinistra, contro l’assurda frammentazione. Pertanto invitiamo al confronto programmatico il Pd e il suo candidato Flavio Delbono, perché crediamo che la priorità sia porre un argine all’avanzata del centrodestra». Ma al confronto, i vendoliani (che vedono di buon occhio l’iniziativa politica di Guido Fanti e spingono per le candidature di giovani e immigrati), chiamano anche Valerio Monteventi, candidato a sindaco della lista civica “Bologna città libera”. «La sua lista - conclude Ruocco ha elementi interessanti anche se guarda poco ai giovani». Intanto, già entro la fine di febbraio l’Associazione per la Sinistra organizzerà un incontro pubblico aperto a tutta la città, per discutere dei vari temi sul tavolo, dalla crisi al welfare.
«In tale contesto - continua la nota - l’Unione delle camere penali italiane, che da trent’anni si batte per una riforma complessiva ed organica dai tratti liberali e democratici della giustizia, ritiene proprio dovere assumere questa iniziativa di denuncia penale per arrestare una pericolosa deriva del dibattito politico, che non sembra adeguato alla necessità di tutela del ruolo istituzionale del capo dello Stato nel quadro della discussione in atto sulla riforma della giustizia». «Bene ha fatto la Procura di Roma ad iscrivere, come atto dovuto, la denuncia presentata dall’avvocato Dominioni, allo stesso tempo presidente dell’Unione delle camere penali e legale della famiglia Berlusconi - commenta Antonio Di Pietro -. La Procura farà altrettanto bene quando iscriverà il nome di Dominioni e di chi, insieme a lui, mi ha calunniato sulla falsa presupposizione che io abbia offeso il capo dello Stato». «Una persona di tale levatura culturale e preparazione professionale - prosegue il leader di Italia dei valori - dovrebbe sapere che è un grave errore affidarsi a ricostruzioni giornalistiche sommarie, piuttosto che accertare prima quel che è successo realmente. Io porterò con me, come testimoni, oltre 200mila persone che, attraverso la diretta streaming, hanno assistito al mio intervento. L’avvocato Dominioni porterà solo un generico “sentito dire”. Ma, forse, la verità è molto più banale: chi ha fatto quelle denunce non intende perseguire un fine di giustizia, ma soltanto fare un favore ai propri clienti». «Spiace - conclude Di Pietro - che, per fare ciò, abbia coinvolto un’importante istituzione quale quella dell’Unione delle camere penali».
in breve Marchionne: «La Chrysler? È una lotteria» L’alleanza tra Fiat e Chrysler è un «biglietto della lotteria che potrebbe non valere niente se la casa automobilistica americana non si riprende». Lo afferma l’Ad della Fiat, Sergio Marchionne, intervistato dal Wall Street Journal. Tuttavia, precisa Marchionne, Fiat sta ancora studiando l’alleanza con Chrysler, ma punta a chiudere l’accordo entro il 17 febbraio, data in cui l’azienda di Detroit dovrebbe presentare un piano per richiedere ulteriori aiuti al Governo federale, e in questo ambito l’accordo con Fiat sarebbe un elemento chiave. «Dobbiamo arrivare -prosegue l’Ad del Lingotto- a una strutturazione del capitale di Chrysler affinché il biglietto della lotteria dia qualcosa quando tutte queste fluttuazioni saranno finite. Non voglio il 35% di niente per i prossimi cinque anni. Il mio obiettivo finale è guadagnarci qualcosa».
Tiene il 2008 delle azioni Enel Il dividendo Enel dovrebbe essere mantenuto a 49 centesimi di euro per azione nel 2008. Lo ha detto l’amministratore delegato del gruppo Fulvio Conti, commentando i dati 2008. «Gli eccellenti risultati del 2008 - ha spiegato - confermano la validità di un percorso che ha portato il nostro Gruppo a diventare uno dei principali operatori mondiali dell’energia». Inoltre, ha aggiunto, «coerentemente con gli obiettivi prefissati, l’indebitamento è stato ridotto a 50 miliardi di euro, quasi 6 miliardi di euro in meno rispetto al 2007.
Bce: calano i prestiti alle banche Sono in diminuzione i prestiti concessi dalla Banca Centrale Europea alle altre banche. Secondo quanto riferisce l’agenzia Bloomberg l’ammontare dei prestiti è sceso a 748,3 miliardi di euro al 30 gennaio. In flessione anche le riserve valutarie estere della Bce che sono diminuite di 38,1 miliardo di euro toccando quota 315 miliardi.
politica Investiture. Oggi si elegge il successore di Villari. Ma in ballo ci sono il Cda e le poltrone dei Tg
Dopo la Vigilanza Rai comincia il «calciomercato» di Alessandro D’Amato
ROMA. Sarà finalmente il giorno di Sergio Zavoli? Dopo la conclusione della telenovela Villari, oggi pomeriggio si riunisce la Commissione di Vigilanza Rai per eleggere il presidente, i vicepresidenti e i due segretari. Per quanto riguarda la prima poltrona, il nome più gettonato – anzi, l’unico – resta quello di Zavoli, sul quale si era già registrata nelle scorse settimane la convergenza tra Pd e Pdl. Per i vicepresidenti la partita è aperta, ma i nomi sui quali si scommette in Transatlantico sono quelli di Giorgio Lainati per il Pdl e di Giorgio Merlo per il Pd. L’Italia dei Valori ha già comunicato che resta sull’Aventino: non intende partecipare agli accordi per la nomina del Cda della Rai. Per questo Antonio Di Pietro ha fatto sapere che tornerà in Commissione solo dopo che il nuovo Consiglio di Amministrazione sarà stato nominato. «Noi non vogliamo essere coinvolti in nessun modo in questo scempio di democrazia», ha dichiarato il leader dell’Idv, anche se i presidenti di Camera e Senato hanno indicato i capigruppo a Montecitorio Massimo Donadi e a Palazzo Madama Felice Belisario, come segretari. In ogni caso, i giochi sembrano fatti. Anche per i posti nel cda, almeno secondo la versione di Di Pietro: «In qualche cassetto c’è già tutto il cda della Rai deciso, che sarà formalizzato il giorno dopo del passaggio della Vigilanza». E nel frattempo ieri in via del Plebiscito, Silvio Berlusconi ha tenuto una riunione sulla Rai, con particolare attenzione alle nomine dei vertici dell’azienda di viale Mazzini (presidente e direttore generale e componenti del cda), alla quale ha partecipato anche il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani. E nel frattempo è scattato il solito totonomine che sta appassionando (partiti) grandi e piccini, nell’ottica della lottizzazione che da sempre è regola. Ci sono da scegliere il presidente, il consiglio di amministrazione, il direttore generale, i direttori di rete e testate, quelli dei telegiornali e dei giornali radio. Per lo scranno più alto (che in teoria dovrebbe andare all’opposizione), la partita sembra ormai chiusa: Claudio Petruccioli e Fabiano Fabiani dovrebbero essere fuori gioco in favore di Mario Calabrese, ex direttore di Panorama, sponsorizzato da Walter Veltroni. Un nome che metterebbe d’accordo tutti, an-
Sopra, dall’alto: Mario Calabrese, Maurizio Belpietro, Mauro Mazza, David Sassoli e Antonio Caprarica
che Berlusconi; anche se le chance del dalemiano Petruccioli non sembrano essersi del tutto esaurite.
Discorso diverso per il direttore generale: Stefano Parisi, ex Confindustria e oggi a Fastweb è un nome molto gettonato; meno quello di Lorenza Lei, e sarebbe una nomina “interna” favorita dal partitoRai (è stata anche capostruttura di Raiuno e responsabile organizzativa della struttura Rai per il Giubileo).
Dopo la nomina di Sergio Zavoli, per la presidenza di Viale Mazzini si parla di Mario Calabrese. Per le testate, Belpietro al Tg1 (con Mimun a Raiuno), Orfeo al Tg2 (con Mazza a Raidue) e Caprarica al Tg3 (con Ruffini a Raitre) Il nome di Parisi è stato già fatto in altre occasioni, accostandolo a viale Mazzini; di certo il manager accetterebbe una nomina del genere, visto che ha sempre fatto parte delle sue ambizioni. Per la poltrona fondamentale di direttore del personale si fanno invece i nomi di Guido Paglia e Gianfranco Comanducci.
Più “sexy” il discorso riguardante le nomine dei direttori di rete e di testata, sul quale la fantasia dei parlamentari si sbizzarrisce. A Rai1 dovrebbe coronare il sogno della carriera Clemente Mimun (ma i rumor danno pronta anche Giuliana Del Bufalo), mentre il Tg1 potrebbe salutare Gianni Riotta per accogliere Maurizio Belpietro. Per Rai2 si ventila la nomina di Mauro Mazza alla direzione e Mario Orfeo del Mattino al telegiornale. Per la terza rete, appannaggio del Pd, si fanno molti nomi, tra cui quello di Antonio Caprarica e David Sassoli per il Tg3, mentre alla direzione potrebbe rimanere Paolo Ruffini. Per il tg regionale si parla di Bruno Socillo, oggi a Gr Parlamento, dove potrebbe andarsi a sedere Alberto Maccari. Ma per Socillo potrebbe prepararsi anche un futuro come responsabile della divisione Radio. In attesa della spartizione ufficiale della torta, anche il fondamentale totonomine serve a far comprendere l’importanza fondamentale della Rai. Più per i partiti che per chi paga il canone.
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in breve Ucciso consigliere comunale del napoletano Giovanni Tommasino, consigliere comunale della Margherita a Castellammare di Stabia (Napoli), è stato ucciso in un agguato mentre stava viaggiando nella sua automobile: è stato avvicinato da uno scooter con due passeggeri che gli hanno sparato. In auto con la vittima c’era il figlio di 13 anni, rimasto illeso.Tommasino era fratello di un celebre medico nell’ospedale stabiese; in passato era stato anche assessore.
Napolitano: la crisi riabilita il modello europeo Dopo essere stato per anni «bersaglio» della vecchia Europa, oggi il modello sociale europeo è stato «riabilitato» davanti ai guasti provocati dalla crisi economica e finanziaria. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel corso della conferenza stampa svoltasi al termine dell’incontro con il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker che è anche presidente dell’Eurogruppo. Napolitano si è quindi richiamato a quanto emerso dal vertice Forum economico di Davos per sottolineare che la struttura socio-economica su cui si basa l’Unione europea è il modello che al momento appare meglio attrezzato per fronteggiare gli effetti della crisi finanziaria e della recessione.
Il ministro Fitto rinviato a giudizio Il ministro dei Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di concorso in turbativa d’asta e di interesse privato del curatore negli atti del fallimento nella procedura di amministrazione straordinaria della Cedis. Lo ha deciso il gup del tribunale di Bari Marco Guida. I fatti si riferiscono al periodo in cui Fitto era presidente della Regione Puglia. Fitto è accusato, in concorso con altri, di reati compiuti in relazione alla vendita (per sette milioni di euro, a fronte di un valore stimato di 15,5 milioni di euro) della Cedis a un contraente predeterminato: la società Sviluppo Alimentare riconducibile all’imprenditore Brizio Montinari.
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economia
Indiscrezioni. L’attivismo del superministro nella politica di gestione degli Istituti di credito va ben oltre i confini delle emergenze per la crisi economica
Il Corriere messo in banca Le Fondazioni, ”guidate” da Giulio Tremonti, puntano al controllo del quotidiano di Via Solferino di Insider segue dalla prima Nel frattempo i protagonisti – un gruppo inevitabilmente ristretto – tessono i loro rapporti. E il primo a farlo, e non solo per la posizione istituzionale che ricopre, è Giulio Tremonti. Uomo forte – troppo forte, come sostiene qualcuno – del Governo, e quindi in grado di collocarsi in quel crocevia in cui la politica si sposa con l’economia determinando quel connubio che condizionerà il futuro prossimo venturo. La sua intelligenza tattica, esaltata dall’assenza di qualsiasi concorrente, lo ha condotto al centro di una rosa dei venti, dove intercettare le principali correnti che si muovono al di sotto dell’apparente tram tram della vita politica italiana. A metà strada tra la Lega e Forza Italia – ma più prossimo alla prima –, anche se osteggiato da An ed una parte consistente degli azzurri, ha cercato una sponda negli uomini di Prodi, che alla fine è riuscito ad intercettare. Valga per tutti l’esempio del consiglio d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti: da sempre una sua creatura alla quale dedicare cure premurose, fin dai tempi della riforma bancaria contro Fazio. La presiede Franco Bassanini. Amministratore delegato è Massimo Varrazani, suo vecchio amico. Ma quello che più colpisce sono gli altri membri del Consiglio d’amministrazione. A parte le figure istituzionali, vi compaiono, come consiglieri, Luisa Torchia e Gianfranco Viestri la cui osservanza nei confronti del vecchio leader dell’Unione è fuori discussione. Se poi non bastasse vi sono le ostilità manifestate contro Alessandro Profumo.
Indizi. Solo indizi: ma troppi e convergenti per non suscitare sospetti sussurrati a mezza bocca e che, ogni tanto, fanno capolino nei vari retroscena pubblicati. Poi capita, com’è avvenuto ad Alba solo qualche giorno fa, qualche segnale meno criptico. Dopo un lungo gelo è ripreso il dialogo pubblico con le Fondazioni bancarie. Pubblico, perché in privato gli accordi si erano conclusi da tempo, con la loro partecipazione, dopo una lunga guerra, al capitale della stessa Cassa. E ora che la pace è conclamata lo stes-
Ormai il titolare dell’economia ha sconfitto Alessandro Profumo
Unicredit, arriva Passera? di Giancarlo Galli segue dalla prima Il colosso s’è rivelato coi piedi d’argilla, generando ansia tra gli azionisti. I piccoli (erano 381 mila all’assemblea del maggio 2008) e i grossi calibri: la Fondazione Cassa di Verona, la torinese Crt, Carimonte; nonché figure di peso quale gli industriali privati Maramotti e Pesenti; e da poco anche i libici. Non è solo la quotazione a preoccupare, col crollo in venti mesi da oltre 7 euro a 1 e qualche manciata di centesimi. Sono andate zoppe le varie manovre per il rafforzamento del capitale, e Mediobanca dovrà intervenire a raccogliere quel che il mercato rifiuta. In attesa di tempi migliori.
Qual è il male oscuro e chi ne risponderà? Unicredit è stata ed è la più internazionalizzata delle nostre banche. Con l’acquisto della tedesca Hvb, quarta in Germania che a sua volta controlla Bank Austria e la polacca Phb, segue un’aggressiva espansione nell’Est europeo. Per quelle imprese, il cinquantenne amministratore delegato Alessandro Profumo (genovese classe 1957), svezzato alla Mckinsey, pouponnière di manager, è definito dal Financial Times e dalla Frankfurter Allgemeine, «Alessandro il Grande». Era l’estate del 2005. Ora il trono di Profumo scricchiola. Molteplici gli addebiti: ha corso troppo, puntando su uno sviluppo accelerato rivelatosi una trappola. Ma chi gli stava attorno, non applaudiva? Altro appunto: perché ha subito le pressioni per inglobare in Unicredit la Capitalia di Cesare Geronzi che si è poi trasferito armi e bagagli in Mediobanca? Per quale ragione, infine, per mesi e mesi ha negato difficoltà, aumenti di capitale, dovendo poi rimangiarsi gli impegni? Certo, l’intero sistema bancario nazionale gode di salute precaria. Però Profumo, dal carattere rude, per taluni con venature di arroganza, si pretendeva il primo della classe. Finché la politica ci ha messo lo zampino. Profumo mai ha nascosto simpatie per Romano Prodi, nonché andando a firmare il manifesto del Partito democratico. Un dettaglio, forse; ma che ha acuito le dissonanze col ministro Giulio Tremonti.Vi è il mal di pancia delle Fondazioni bancarie socie di Unicredit: orbate del dividendo (sostituito dalla distribuzioni di azioni gratuite), come riusciranno ad assolvere ai compiti istituzionali? Che in prossimità dell’assemblea di metà febbraio spiri aria di ribaltoni ai vertici di Unicredit, è evidente. Inizialmente, s’era ventilato di giubilare il teutonico presidente Dieter Rampl.
Salvo accorgersi che i patti con Hvb gli garantiscono un secondo mandato. Che tutto resti come prima sembra tuttavia escluso. E a fare le spese potrebbe essere (chi altro se no?) il Consigliere delegato. La carica di Profumo scotta. Ma se in altre stagioni sarebbero stati in molti a guatarla, ora la musica è diversa. Il vice presidente vicario Gianfranco Gutty, banchiere di lungo corso, s’è defilato. Quindi va prendendo corpo un’ipotesi di “rivoluzione totale”. Nel senso che per dare un nuovo e solido affetto a Unicredit, vengano escogitate operazioni a livello di compagine azionaria di controllo. Voci: fusione Unicredit-Mediobanca (naturalmente smentita); fusione triangolare Unicredit-MediobancaAssicurazioni Generali. Supersmentita, ovvio. C’è però da credere, dopo quel che abbiamo visto, alle reazioni spesso irritate dei banchieri?
Nelle ultimissime ore, si sono moltiplicati i boatos su una candidatura eccellente per il dopo-Profumo: Corrado Passera. Comasco classe 1954, regista del Gruppo Intesa Sanpaolo, dispone di un eccezionale curriculum professionale di “salvatore d’aziende” (ha rivoltato come un guanto, ad esempio, le Poste), e di ottime relazioni: da Carlo De Benedetti a Giovanni Bazoli a Montezemolo. Nonostante abbia palesato simpatie per Prodi, Berlusconi e Tremonti lo portano in palmo di mano: è stato l’artefice del salvataggio di Alitalia e s’è subito fatto avanti per sostenere la Fiat. Il potentissimo Geronzi, che si autodefinisce “banchiere di sistema”, lo apprezza. Ecco dunque il senso dell’incipit: Profumo di Passera. E Profumo? Anche se in pochissimi l’hanno notato, da gennaio è stato nominato presidente della Federazione bancaria europea. D’altra parte, lo stesso interessato, persona di estrema intelligenza e correttezza, non pare intenzionato a una difesa ad oltranza. Al summit internazionale di Davos, s’è sbilanciato: «Ricordate che avevo detto che sarei andato in pensione a sessant’anni? Magari potrei andare anche prima». Lunedì, il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, in una nota a Parlamento, Banca d’Italia e Consob, ha sottolineato l’urgenza di «inevitabili interventi sulla governance di banche ed assicurazioni». Parole davvero puntuali. Tornando alle vicende cui abbiamo fatto cenno, non è dunque eccessivo chiedere, anzi pretendere, che i “cambi della guardia” che si profilano in campo bancario avvengano non già dietro le quinte in giochi a rimpiattino autoreferenziali e di complicità castale, bensì alla luce del sole. Altrimenti saremmo di fronte solo ad un «profumo di cambiamento».
so Guzzetti può rivendicare, con malcelato orgoglio, che se il sistema bancario italiano è più solido di quello di altri paesi, questo si deve anche alla presenza delle Fondazioni bancarie nel capitale delle banche. Perché questo è oggi uno dei punti ancora controversi. Negli anni passati, qualche capitano temerario, più che coraggioso, ne aveva messo in discussione la presenza. Il futuro doveva essere – secondo questa versione modernizzante – la pubblic company. Banche direttamente gestite dal management, grazie ad una diffusione dell’azionariato presso il grande pubblico. Secondo questo disegno, in parte concretizzatosi in disposizioni legislative, le Fondazioni dovevano progressivamente dismettere le loro partecipazioni, per dedicarsi ad altro. Come se le loro entrate non derivassero, in misura preponderante, dagli utili guadagnati dalle banche controllate. Sappiamo com’è finita questa teoria, nel grande cataclisma finanziario: originato anche dall’avidità dei manager. Di quegli stessi manager su cui si appuntano gli strali de Il sole 24ore di ieri: colpevoli di non voler sacrificare, nei magri bilanci che presenteranno a fine anno, i bonus che si sono attribuiti.Tremonti ha colto, con intelligenza, questa contraddizione. Forte di una vena populista – il popolo delle partite Iva – aveva cercato in tutti i modi di condizionare il rifinanziamento dei diversi istituti ad un repulisti etico, che ponesse un alt a retribuzioni non più giustificabili. Lo aveva fatto forte di un legame internazionale – le stesse cose vengono dette e fatte negli Usa, in Inghilterra o in Germania – che ha saputo progressivamente consolidare. Aveva cercato, senza successo, di spingere lo stesso Mario Draghi a intervenire, facendo ricorso ad una modifica del Tier 1 – il coefficiente patrimoniale – per costringerli a chiedere finanziamenti al Mini-
economia
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Berlusconi conferma un piano da 80 miliardi
Non solo auto, aiuti ai consumi di Francesco Pacifico segue dalla prima
stero dell’economia. L’operazione non è andata in porto, ma il legame con gli azionisti, vale a dire le Fondazioni – e non più con i manager – si è ulteriormente consolidato. Ed ora Tremonti è di nuovo solo al centro di quel quadrilatero.
Finora Silvio Berlusconi si è limitato a qualche rimbrotto a mezza bocca al suo ministro, ma se dovessero cambiare le cose a Via Solferino, i rapporti fra i due sono destinati a peggiorare
Paolo Mieli, direttore (a tempo?) del «Corriere». Sopra, Alessandro Profumo, amministratore delegato (a tempo?) di Unicredit. I loro destini dipendono da Giulio Tremonti
Se si collegano tutti i tasselli di questo grande puzzle qualcosa appare, in controluce. Le banche italiane restano, pur nella crisi, le strutture meno colpite. Gestiscono un risparmio, che è la vera risorsa del Paese. Avranno, come tutti del resto, bisogno di trovare un nuovo punto di equilibrio. E Tremonti vuole essere della partita. Ci riuscirà? Dipenderà da quel che succederà nei prossimi mesi. In primavera scade il patto di sindacato che regge Rcs, la società editrice del Corriere della sera. La società si trova in cattive condizioni. Le sue azioni valgono appena il 20 per cento di quanto quotavano ai tempi di Ricucci. Unicredit ha dismesso la sua partecipazione. Altri, pressati dai debiti e dalle perdite, lo faranno. Sarà necessario trovare un nuovo equilibrio e forse un nuovo direttore. Ed allora la partita delle banche – Mediobanca è sempre il primo azionista – diventerà più difficile da gestire. Finora Silvio Berlusconi si è limitato a qualche rimbrotto a mezza bocca, lasciato trasparire sulla stampa. Il gossip parla di una costante irritazione nei confronti di chi non lo segue lungo la strada dell’ottimismo. Il poliziotto buono (Berlusconi) e quello cattivo (Tremonti) secondo uno dei tanti retroscena. Il primo padre comprensivo, nei confronti dei propri connazionali scapestrati; il secondo giudice severo di un lassismo, che si deve abbandonare. Diversità di carattere e di culture. Ma se entrerà nel gioco il destino del Corriere della sera, allora, quelle semplici diversità di veduta potrebbero divenire un’altra cosa.
Se non ci sono certezze sui tempi, il premier fa sapere che non soltanto saranno 80 miliardi di soldi veri, ma che gli aiuti interesseranno le case automobilistiche come la filiera del bianco. Settore che, come dimostra la scomparsa di un marchio come Sangiorgio o la chiusura di uno degli stabilimenti Indesit, subisce ancora di più gli effetti della congiuntura. A Palazzo Chigi si lavora contro il tempo per realizzare un piano anti crisi che vada ben oltre le rottamazioni. L’obiettivo, infatti, è aggredire il calo di domanda interna, l’unica leva per limitare il gap sugli ordinativi dall’estero atteso per il 2009. Silvio Berlusconi ieri ha ripetuto che «l’estensione temporale di questa crisi, la sua profondità dipendono in grandissima parte dal comportamento dei cittadini». Come dire che la crisi è soprattutto psicologica. Sarà, intanto ogni giorno arrivano indicatori che paventano un rallentamento più grave di quanto previsto. Confindustria, per esempio, ha comunicato che il divario tra il Pil pro-capite del Sud è quello del Centro-Nord ha ormai superato i 42 punti percentuali. Mentre il divario infrastrutturale resta fermo a 25 punti. Il tutto in uno scenario dove aumenta l’emigrazione e calano gli investimenti e che ha valori economici quasi simili a quelli di un decennio fa.
ra». A quanto pare, dopo le auto ecologiche, Berlusconi vorrebbe estendere il bonus per la rottamazione da 1500 euro a frigoriferi e a lavatrici più performanti. Si starebbero anche studiando incentivi alla ricerca per spalmare i contributi su tutta la componentistica, mentre dovrebbero essere approvati finanziamenti agevolati per le realtà del credito al consumo. Soldi che, va da sé, questo settore userà per aumentare il monte prestiti, ampliando così la base e il livello dei consumi.
Queste le prime misure finiranno in un pacchetto, nel quale rientreranno anche gli interventi sugli ammortizzatori sociali, con l’estensione della cassa integrazione anche ai lavoratori delle piccole e medie aziende. Il premier si è detto convinto che in chiave anticiclica il suo esecutivo metterà a disposizione «cifre non da poco. In totale, anche con i fondi europei e regionali, si potrà arrivare a 80 miliardi di euro, dopo i 40 di soldi veri». In verità un quadro sulla coper-
Nonostante l’ottimismo del premier, ci sono dubbi sulla copertura delle misure. Così si guarda ai fondi europei destinati alle Regioni
Così diventa sempre più stringente la realizzazione di un pacchetto di aiuti. Soprattutto se il governo – come ha spiegato il premier in un’intervista a Studio Aperto – intende fare la sua parte per evitare che «la paura faccia cambiare i modelli di consumo e gli stili di vita degli italiani. Altrimenti questa crisi sarà molto grave». Ecco, quindi, in rampa di lancio un piano «con altri provvedimenti per sostenere i settori strategici della nostra economia, come quello delle auto, la componentistica, gli elettrodomestici e altri anco-
tura – e di conseguenza un’intesa con Tremonti – non c’è ancora. Ma il riferimento del presidente del Consiglio ai fondi sociali europei e ai Fas, fa pensare che da queste risorse, destinate per legge a formazione professionale e al Sud, si recupererà quanto necessario. Secondo il segretario confederale della Cisl, Gianni Baratta, «Berlusconi vuole dare un messaggio di ottimismo perché sa che la filiera dell’auto non è legata soltanto all’auto. Eppure, più delle promesse, deve ottenere dalle aziende l’impegno a non delocalizzare in cambio di aiuti». Gian Primo Quagliano, direttore del centro studi Promotor, invece si chiede perché «si traccheggi sugli incentivi: così facendo si blocca soltanto il mercato».
panorama
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Polemiche. Perché sbaglia chi considera definitivamente chiusa la stagione del terrorismo
Anni di piombo, ricordi di gomma di Riccardo Paradisi Italia ha chiuso «nei tribunali e con la legge» gli anni di piombo. Così il ministro degli Esteri Franco Frattini ha risposto al ministro brasiliano della Giustizia Tarso Genro che, dopo aver concesso l’asilo politico a Battisti, Cesare aveva accusato l’Italia di non aver saputo chiudere la stagione del terrorismo politico.
L’
Fa bene Frattini a rispondere con fermezza alle provocazioni del Brasile, un Paese che per la sua storia anche recente e per l’atteggiamento equivoco del governo Lula verso i terroristi di sinistra che hanno trovato riparo sotto la sua ala protettrice non è
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
qualificato a dare lezioni a nessuno in termini di civiltà giuridica. Però dire come fa Frattini che l’Italia ha chiuso la pagina degli anni di piombo e sia uscita dalla notte della Repubblica è un’affermazione francamente ardita. Perché gli anni Settanta restano per questo Paese il periodo
caso di attacchi del colonnello. L’accordo fu firmato e Gheddafi fece la ritorsione».
Una versione questa ancora ufficialmente inedita di quell’episodio attribuito all’eversione neofascista. Episodio su cui già il presidente emerito Francesco Cossiga si era
Molti commentatori respingono le «lezioni brasiliane» sull’affaire Battisti. Ma davvero i tribunali hanno fatto luce sui misteri d’Italia? dei misteri, dei segreti, degli scheletri negli armadi, delle trame oscure. E basterebbe leggersi le dichiarazioni della scorsa settimana dell’ex consulente del Sismi Francesco Pazienza rilasciate a Repubblica per rendersi conto di quanto sia ancora fitta la nebbia che avvolge i fatti nodali di quella stagione. Pazienza dice che dietro la strage del 2 agosto 1980 c’era la Libia di Gheddafi: «L’Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato e quindi doveva fare un accordo con Malta per proteggerla in
espresso indicando invece in un incidente palestinese la causa del massacro. Ma non ci sono solo i segreti sullo stragismo. Anche sulle Brigate rosse sui loro legami internazionali, sulle loro origini, sulla loro organizzazione la quantità di omissis è inquietante. E sul caso Moro? Che ci faceva un ufficiale del Sismi in via Fani il 16 marzo 1978, alle ore 9 quando fu rapito il presidente della Dc? Chi erano i due personaggi che a bordo di una moto Honda sparano alcuni
colpi di mitra contro due testimoni li presenti? Irriducibili, pentiti o dissociati br non hanno mai detto nulla a proposito: perché? Davvero l’indicazione del covo di via Gradoli emerse da una seduta spiritica? Che fine hanno fatto gli stralci assenti delle lettere originali scritte da Aldo Moro nella cosiddetta “prigione del popolo” ritrovate dodici anni dopo il delitto, nel 1990, nel covo di via Montenevoso? Ecco, sarebbe bello se quello che il nostro ministro degli Esteri dice sugli anni del terrorismo rispondendo alle provocazioni degli amici brasiliani di Cesare Battisti fosse vero.
Non è così purtroppo. A tre decenni dalla fine della lotta armata troppi misteri continuano a interrogarci. E non ne usciremo da quella stagione, non riemergeremo da quel pozzo collettivo, fino a quando chi sa – terroristi e uomini di Stato – non si decida finalmente a parlare. Senza più reticenze, senza più timori. Dopo trent’anni sarebbe arrivato il momento.
Le confessioni erotiche dei personaggi pubblici: quando la matematica è un’opinione
Cassano, Simenon e i maschi immaginari vvertenza per le lettrici: quello che segue è un articolo maschilista (almeno apparentemente) quindi se non volete leggerlo non leggetelo, se lo volete leggere sapete cosa state leggendo, ma niente polemiche perché tutta la storia è da ridere.
A
Il noto calciatore Cassano ha dichiarato - e lo ha scritto nel libro Dico tutto (Rizzoli) - che è andato con circa 6-700 donne. Già sul numero così incerto perché tra 600 e 700 ci passano ben 100 donne di differenza - ci sarebbe molto da dire. Tralasciamo. Ogni uomo che ha sentito la cifra sparata da Cassano ha fatto due rapidi calcoli: ha detto «ma questo spara solo minchiate», poi ha cominciato ad approssimare per difetto il numero e ha sentenziato: «Comunque saranno sempre molto di più delle mie quattro storie». Aldo Cazzullo - il giornalista del Corriere della Sera il cui cognome è una garanzia - si è impressionato e prima ha ripreso quanto scritto da Luca Bottura sul Corriere facendo parlare Cristiano Ronaldo («Io invece ne ho avute 7-800 e ho tutte le 7-800 ricevute») e poi l’ha buttata sulla differenza tra i colti e gli ignoranti e gli ignoranti sono naturalmente i calciatori che in vita loro non hanno mai letto un libro, anche se magari ne hanno scritto
più di uno. Perché - è ovvio - di queste minchiate nei libri non si leggono. Anche se non è detto. Prendete l’ultimo libro del buon Francesco Piccolo: La separazione del maschio (Einaudi). Un romanzo che è una lunga confessione o un soliloquio: il protagonista, di cui si ignora il nome, è un quarantenne, meridionale, che lavora a Roma, è sposato, ha una figlia piccola e una infinita serie di storie extraconiugali. Il suo vero lavoro è proprio il sesso extraconiugale (ma anche quello coniugale che, anzi, a suo dire è quello migliore di tutti). La sua vita è l’ossessione delle sue relazioni e la relativa ossessione di essere scoperto dalla moglie. Tanto che tutto il libro è costruito su questa attesa della scoperta da parte della moglie con la conseguente separazione, solo che la separazione arriva - anzi, arriva subito all’inizio del romanzo - ma a causarla non sarà il tradimento del maschio ma della femmina, della moglie. Ma questo è quasi un particolare di po-
ca importanza per noi qui e ora. Ciò che conta, invece, è l’ossessione erotica del maschio di cui si racconta la vita intima e sentimentale. La confessione posta anche in quarta di copertina dice: «Così, posso ammettere in via definitiva, grazie all’ultima e più eclatante (ma non necessaria) prova, che il mio immaginario erotico è elementare, di primo grado - una specie di modello base: l’immaginario erotico del maschio meridionale, il punto più basso della scala evolutiva della contemporaneità, probabilmente». Di dov’è Cassano? Di Bari. Se non fosse per l’età e la diversa filmografia, l’immaginario potrebbe coincidere. Ho l’impressione, però, che La separazione del maschio si presti a una lettura ironica. Il protagonista tiene insieme matrimonio, famiglia, lavoro e un numero spropositato di relazioni - non avventure, relazioni stabili - extraconiugali. Una vita infernale. Perché si può avere una relazione extra, magari due, ma averne tre, quattro, cinque è pratica-
mente impossibile. Dunque, Piccolo spara cazzate, proprio come Cassano o ha voluto scrivere un romanzo proprio per mostrare come i maschi millantino l’impossibile. La prova è data dal lavoro professionale del protagonista: montatore cinematografico. Una parodia. Raffinata, ma parodia. Il romanzo di Piccolo non riguarda la vita erotica pratica del maschio meridionale, bensì la vita erotica immaginaria.
Il nostro tema è praticamente infinito. Si possono citare molti maschi esagerati. Quello di Franco Califano è famoso. Anche il Califfo ebbe a sparare una cifra: se non sbaglio avrebbe conosciuto biblicamente qualche migliaio di donne. Ora, voi tutti vi rendete facilmente conto che quando le cifre sono a due zeri sono già grandi, ma quando diventano addirittura a tre zeri allora si sconfina nella metafisica. Quando poi si passa ai quattro zeri non si sa più bene di cosa si stia parlando. Georges Simenon, ancora uno scrittore, ebbe a dire a Federico Fellini di essere stato con più di 10.000 donne. Era solito pagarle, e la cosa facilita molto. Ma pur pagando, 10.000 è un numero altino. Tuttavia, Simenon forse è più credibile di altri: scrisse più di 400 romanzi, infiniti racconti e sceneggiature. E memorie. Ne aveva di cose da ricordare.
panorama
pagina 10 • 4 febbraio 2009
Polemiche. Perché sbaglia chi considera definitivamente chiusa la stagione del terrorismo
Anni di piombo, ricordi di gomma di Riccardo Paradisi Italia ha chiuso «nei tribunali e con la legge» gli anni di piombo. Così il ministro degli Esteri Franco Frattini ha risposto al ministro brasiliano della Giustizia Tarso Genro che, dopo aver concesso l’asilo politico a Battisti, Cesare aveva accusato l’Italia di non aver saputo chiudere la stagione del terrorismo politico.
L’
Fa bene Frattini a rispondere con fermezza alle provocazioni del Brasile, un Paese che per la sua storia anche recente e per l’atteggiamento equivoco del governo Lula verso i terroristi di sinistra che hanno trovato riparo sotto la sua ala protettrice non è
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
qualificato a dare lezioni a nessuno in termini di civiltà giuridica. Però dire come fa Frattini che l’Italia ha chiuso la pagina degli anni di piombo e sia uscita dalla notte della Repubblica è un’affermazione francamente ardita. Perché gli anni Settanta restano per questo Paese il periodo
caso di attacchi del colonnello. L’accordo fu firmato e Gheddafi fece la ritorsione».
Una versione questa ancora ufficialmente inedita di quell’episodio attribuito all’eversione neofascista. Episodio su cui già il presidente emerito Francesco Cossiga si era
Molti commentatori respingono le «lezioni brasiliane» sull’affaire Battisti. Ma davvero i tribunali hanno fatto luce sui misteri d’Italia? dei misteri, dei segreti, degli scheletri negli armadi, delle trame oscure. E basterebbe leggersi le dichiarazioni della scorsa settimana dell’ex consulente del Sismi Francesco Pazienza rilasciate a Repubblica per rendersi conto di quanto sia ancora fitta la nebbia che avvolge i fatti nodali di quella stagione. Pazienza dice che dietro la strage del 2 agosto 1980 c’era la Libia di Gheddafi: «L’Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato e quindi doveva fare un accordo con Malta per proteggerla in
espresso indicando invece in un incidente palestinese la causa del massacro. Ma non ci sono solo i segreti sullo stragismo. Anche sulle Brigate rosse sui loro legami internazionali, sulle loro origini, sulla loro organizzazione la quantità di omissis è inquietante. E sul caso Moro? Che ci faceva un ufficiale del Sismi in via Fani il 16 marzo 1978, alle ore 9 quando fu rapito il presidente della Dc? Chi erano i due personaggi che a bordo di una moto Honda sparano alcuni
colpi di mitra contro due testimoni li presenti? Irriducibili, pentiti o dissociati br non hanno mai detto nulla a proposito: perché? Davvero l’indicazione del covo di via Gradoli emerse da una seduta spiritica? Che fine hanno fatto gli stralci assenti delle lettere originali scritte da Aldo Moro nella cosiddetta “prigione del popolo” ritrovate dodici anni dopo il delitto, nel 1990, nel covo di via Montenevoso? Ecco, sarebbe bello se quello che il nostro ministro degli Esteri dice sugli anni del terrorismo rispondendo alle provocazioni degli amici brasiliani di Cesare Battisti fosse vero.
Non è così purtroppo. A tre decenni dalla fine della lotta armata troppi misteri continuano a interrogarci. E non ne usciremo da quella stagione, non riemergeremo da quel pozzo collettivo, fino a quando chi sa – terroristi e uomini di Stato – non si decida finalmente a parlare. Senza più reticenze, senza più timori. Dopo trent’anni sarebbe arrivato il momento.
Le confessioni erotiche dei personaggi pubblici: quando la matematica è un’opinione
Cassano, Simenon e i maschi immaginari vvertenza per le lettrici: quello che segue è un articolo maschilista (almeno apparentemente) quindi se non volete leggerlo non leggetelo, se lo volete leggere sapete cosa state leggendo, ma niente polemiche perché tutta la storia è da ridere.
A
Il noto calciatore Cassano ha dichiarato - e lo ha scritto nel libro Dico tutto (Rizzoli) - che è andato con circa 6-700 donne. Già sul numero così incerto perché tra 600 e 700 ci passano ben 100 donne di differenza - ci sarebbe molto da dire. Tralasciamo. Ogni uomo che ha sentito la cifra sparata da Cassano ha fatto due rapidi calcoli: ha detto «ma questo spara solo minchiate», poi ha cominciato ad approssimare per difetto il numero e ha sentenziato: «Comunque saranno sempre molto di più delle mie quattro storie». Aldo Cazzullo - il giornalista del Corriere della Sera il cui cognome è una garanzia - si è impressionato e prima ha ripreso quanto scritto da Luca Bottura sul Corriere facendo parlare Cristiano Ronaldo («Io invece ne ho avute 7-800 e ho tutte le 7-800 ricevute») e poi l’ha buttata sulla differenza tra i colti e gli ignoranti e gli ignoranti sono naturalmente i calciatori che in vita loro non hanno mai letto un libro, anche se magari ne hanno scritto
più di uno. Perché - è ovvio - di queste minchiate nei libri non si leggono. Anche se non è detto. Prendete l’ultimo libro del buon Francesco Piccolo: La separazione del maschio (Einaudi). Un romanzo che è una lunga confessione o un soliloquio: il protagonista, di cui si ignora il nome, è un quarantenne, meridionale, che lavora a Roma, è sposato, ha una figlia piccola e una infinita serie di storie extraconiugali. Il suo vero lavoro è proprio il sesso extraconiugale (ma anche quello coniugale che, anzi, a suo dire è quello migliore di tutti). La sua vita è l’ossessione delle sue relazioni e la relativa ossessione di essere scoperto dalla moglie. Tanto che tutto il libro è costruito su questa attesa della scoperta da parte della moglie con la conseguente separazione, solo che la separazione arriva - anzi, arriva subito all’inizio del romanzo - ma a causarla non sarà il tradimento del maschio ma della femmina, della moglie. Ma questo è quasi un particolare di po-
ca importanza per noi qui e ora. Ciò che conta, invece, è l’ossessione erotica del maschio di cui si racconta la vita intima e sentimentale. La confessione posta anche in quarta di copertina dice: «Così, posso ammettere in via definitiva, grazie all’ultima e più eclatante (ma non necessaria) prova, che il mio immaginario erotico è elementare, di primo grado - una specie di modello base: l’immaginario erotico del maschio meridionale, il punto più basso della scala evolutiva della contemporaneità, probabilmente». Di dov’è Cassano? Di Bari. Se non fosse per l’età e la diversa filmografia, l’immaginario potrebbe coincidere. Ho l’impressione, però, che La separazione del maschio si presti a una lettura ironica. Il protagonista tiene insieme matrimonio, famiglia, lavoro e un numero spropositato di relazioni - non avventure, relazioni stabili - extraconiugali. Una vita infernale. Perché si può avere una relazione extra, magari due, ma averne tre, quattro, cinque è pratica-
mente impossibile. Dunque, Piccolo spara cazzate, proprio come Cassano o ha voluto scrivere un romanzo proprio per mostrare come i maschi millantino l’impossibile. La prova è data dal lavoro professionale del protagonista: montatore cinematografico. Una parodia. Raffinata, ma parodia. Il romanzo di Piccolo non riguarda la vita erotica pratica del maschio meridionale, bensì la vita erotica immaginaria.
Il nostro tema è praticamente infinito. Si possono citare molti maschi esagerati. Quello di Franco Califano è famoso. Anche il Califfo ebbe a sparare una cifra: se non sbaglio avrebbe conosciuto biblicamente qualche migliaio di donne. Ora, voi tutti vi rendete facilmente conto che quando le cifre sono a due zeri sono già grandi, ma quando diventano addirittura a tre zeri allora si sconfina nella metafisica. Quando poi si passa ai quattro zeri non si sa più bene di cosa si stia parlando. Georges Simenon, ancora uno scrittore, ebbe a dire a Federico Fellini di essere stato con più di 10.000 donne. Era solito pagarle, e la cosa facilita molto. Ma pur pagando, 10.000 è un numero altino. Tuttavia, Simenon forse è più credibile di altri: scrisse più di 400 romanzi, infiniti racconti e sceneggiature. E memorie. Ne aveva di cose da ricordare.
panorama
4 febbraio 2009 • pagina 11
Crisi. Nato nel 1976, il laboratorio di Orbassano fornisce tecnologie a tutto il mondo: ecco a chi potrebbero andare gli aiuti...
L’eccellenza esiste.Al centro ricerche Fiat di Vincenzo Bacarani
TORINO. La crisi del settore auto sta esplodendo in tutta la sua drammaticità: le vendite viaggiano verso il 60 per cento in meno dell’anno scorso. I governi cercano di correre ai ripari con incentivi e sostegni e a fare le spese di una crisi, annunciata da tempo, saranno non soltanto le officine e le fabbriche, ma anche i centri di ricerca delle varie aziende automobilistiche. L’aiuto all’innovazione appare l’orientamento della maggioranza dei governi europei che intendono muoversi sulla stessa lunghezza d’onda. Corre infatti seri rischi anche uno dei centri di eccellenza non solo in Italia, ma nel mondo: il Centro ricerche Fiat che ha la sua sede principale a Orbassano, cittadina a vocazione industriale alle porte di Torino.
Il Centro, nato nel 1976, ha costituito una sorta di spina dorsale per l’aggiornamento tecnologico e per varie sperimentazioni che hanno poi trovato applicazione in campo industriale. Basti pensare al motore Multijet, al motore bicilindrico a benzina, alla Fiat Panda Na-
Duemila brevetti negli ultimi dieci anni: questi i numeri di una realtà che collabora da tempo anche con i giganti stranieri: Mercedes, Bmw, Ford tural Power, al motore Fire Multiair nonché ai mini-radar antinebbia, ai sistemi di sicurezza passiva (sperimentazioni di air-bag e sistemi anti-crash). Tanto che il centro studi ha offerto in passato e offre tutt’ora prodotti e soluzioni anche a colossi stranieri come Mercedes,
Bmw, Ford. Dal 1976, il Centro Studi ha compiuto passi da gigante e ora conta collaborazioni con 150 università e istituti di ricerca (Politecnico di Torino, Politecnico di Milano, Università di Pisa, Università La Sapienza di Roma e Cnr, tanto per fare qualche nome), può vanta-
re 750 partner dislocati in varie parti del mondo, conta su oltre mille ricercatori e – oltre alla sede di Orbassano – ha altre quattro sedi distaccate ad Amaro (provincia di Udine), a Trento, a Valenzano (Bari) e a Foggia. Da settimane si parla degli eventuali incentivi al settore, ma di sicuro gli aiuti al comparto della ricerca potrebbero essere la chiave di volta di una crisi al momento senza vie d’uscita. E in effetti un’indagine di Unioncamere conferma questa analisi: ST Microelectronics, Centro Ricerche Fiat, G.D. Spa, Pirelli Pneumatici, Pirelli Cavi e Sistemi, Telecom Italia, Fiat Auto, Ausimont, Sigma Tau, Danieli &C. Officine Meccaniche sono le aziende italiane che nel periodo 1999-2006 hanno depositato il maggior numero di brevetti europei.
Queste imprese hanno depositato oltre tremila domande di brevetto all’European Patent Office (l’11,4% del totale). Delle 846.955 domande di brevetto pubblicate dall’Epo (European Patent Office, l’organismo di registrazione dei brevetti euro-
peo) tra il 1999 ed il 2006, 27.616 sono quelle italiane, cresciute in media annua del 4,9 per cento. Nell’ambito di questa ricerca, il Nord Italia in generale e il Nord-Ovest in particolare la fanno da padrone nella brevettazione italiana a livello comunitario. Nei sette anni considerati, l’82% del totale dei brevetti proviene delle regioni settentrionali. Il Nord-Ovest addirittura ne concentra il 50,1 per cento, grazie all’apporto fornito dal Piemonte e dalla Lombardia. Veneto ed EmiliaRomagna sono a loro volta in gran parte tributarie della performance raggiunta dal Nord-Est (31,9 per cento). La quota rimanente delle domande si deve invece al Centro per il 13,4 per cento e al Sud e Isole per il 3,2 per cento. E fino al 2007, ultimo dato disponibile, soltanto il Centro Ricerche Fiat ha depositato 760 invenzioni tutelate da circa duemila brevetti, svolgendo un ruolo dominante. L’orientamento di incentivare la ricerca potrebbe alla fine rivelarsi una sorta di volano per il rilancio dell’intero settore dell’auto.
Stili. Aveva annunciato il fidanzamento con un comunicato stampa. Ma è bastato un messaggino per l’addio
L’amore di Frattini, finito con un sms di Roselina Salemi hanno vista sola alla festa di compleanno di Stefania Scarampi, felice compagna dello chef Filippo la Mantia. E adesso sappiamo perché. Chantal Sciuto, quarantenne di successo, dermatologa della Roma-bene con tanto di studio a due passi dal Parlamento, è stata piantata dal fidanzato, il volubile ministro degli Esteri Franco Frattini, nel più brusco dei modi: un bel sms e ciao. Almeno così si mormora, anche se lui fa sapere agli amici che un addio del genere non è nel proprio stile. Dopo nove mesi, vari servizi fotografici e una vacanza romantica alle Maldive durante la crisi in Georgia, sulla quale l’opposizione aveva avuto da ridire (sulla vacanza, non sulla crisi).
L’
tal aveva fatto outing anche per mettere fine ai pettegolezzi: essendo single, (divorziato, una figlia diciottenne) Franco Frattini era (e si suppone sarà ancora), oggetto di illazioni e congetture. Per esempio, la vox populi lo voleva affascinato dalla rossa chioma di Michela Vittoria Brambilla. «Sono io la fidanzata del ministro Frattini», ha dovuto spiegare Chantal, «ci siamo ritrovati tête-à-tête tra tanta gente e da quel momento non ci siamo più lasciati». Di Frattini
Una storia esemplare che unisce gossip e politica, iniziata con una criticata vacanza alle Maldive proprio mentre si consumava la crisi georgiana
Sembrava una sceneggiatura sentimentale degna della più astuta fiction, per la capacità di mettere assieme, come oggi va molto, gossip e politica, pubblico e privato, Montecitorio e Novella 2000, tutto con reciproca soddisfazione. Poteva durare un’infinità da puntate e invece è stata una miniserie. Chantal aveva fatto outing lo scorso settembre, con un comunicato stampa ufficiale dai toni lialeschi: «Tra loro è scoccata la scintilla d’amore e tutto fa supporre che sia una di quelle rare love story che si contano sulla punta delle dita e che fanno sognare». Chan-
l’avevano colpita «la dolcezza e la semplicità», il suo essere «rispettoso e tradizionalista, con dei valori importanti, come la famiglia e l’amicizia, cose che apprezzo e ricerco come donna del sud» (è di Catania). L’avevano ribattezzata subito “Lady Farnesina” ed era cominciata la caccia. Quando si diventa paparazzabili, si sa, si corrono rischi. E duole che una seria vita professionale (il «Villa Borghese Institute», gli stage a Los Angeles, Porto Alegre e Buenos Aires) alla fine si riduca al successo di uno scatto imbarazzante: lei che sistema i sacchetti della spesa nel bagaglio dell’auto, mostrando il perizoma di pizzo nero ben disegnato sul lato B. Lei che fuma il sigaro e beve whisky. Lei evocata da
un ex, l’attore Paolo Calissano, sulle pagine di Chi: «Chantal è fantastica, è una persona speciale. Una delle donne più solari, dinamiche e intelligenti che abbia mai conosciuto. Forse non avevo capito la fortuna che mi era capitata».
Un grande investimento sentimentale per finire nel club, ormai variegato, degli ex lasciati via Sms. È successo alla showgirl Terry Schiavo, mollata da dj Prezioso. È successo al tennista Boris Becker, liquidato dalla fidanzata Sandy Meyer-Wolden con un messaggino veloce. È successo a Kevin Federline: mentre era in uno studio televisivo è arrivato l’sms di Britney Spears che gli annunciava: divorzio. Gli psicologi sostengono che non è la mancanza di tempo a produrre comportamenti così sbrigativi, ma l’immaturità, tipica dei giovani: preferiscono affrontare la rottura in maniera indiretta. Frattini ha cinquant’anni suonati ed era, almeno fino all’anno scorso “rispettoso e tradizionalista”. Forse quello del sms è solo un pettegolezzo. Dall’ex Lady Farnesina, per il momento, nessun comunicato.
il paginone
pagina 12 • 4 febbraio 2009
Anticipiamo queste pagine un ampio stralcio del saggio “Ispirazione ideale e sensibilità religiosa fra esponenti del liberalismo italiano del XX secolo”, tratto dal I volume “I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica” a cura di Fabio Grassi Orsini e Gerardo Nicolosi edito per i tipi di Rubbettino. ella storia del liberalismo italiano del XX secolo è possibile rintracciare un cospicuo gruppo di liberali, che ritenevano del tutto compatibili con la fede religiosa l’appartenenza al movimento liberale o addirittura la militanza nel Partito liberale; liberali i quali facevano anzi discendere dalla religiosità che li ispirava - seppure intesa non necessariamente come una specifica professione di fede confessionale cattolica, anzi talora legata ad un cattolicesimo non conformista, talvolta ad una religiosità evangelica, a correnti di misticismo: tovanskiano o tolstoiano che fosse - anche una forte motivazione nella partecipazione pratica alla vita politica, intellettuale, sociale del Paese; liberali che erano preoccupati di un corretto rapporto politica religione per cui da un lato rifiutavano ogni uso strumentale della religione da parte della politica, dall’altro esigevano che l’influenza della religione e delle chiese sulle coscienze, e indirettamente anche sulla società attraverso il patrimonio ideale dei princìpi morali di cui esse sono portatrici, non si trasformasse da influenza etico religiosa in azione politica. Per avere un’idea della varietà e della larghezza di questa categoria di liberali - non riconducibile dunque ad una esclusiva tipologia o ad un unico modello, se non per la radice religiosa del loro pensiero e della loro pratica - basta fare una serie di nomi che coprono il lungo periodo che va dall’inizio sino agli ultimi decenni del secolo: Tancredi Canonico, Luigi Luzzatti, Giovanni Amendola, Novello Papafava, Tommaso Gallarati Scotti, Francesco Ruffini, Giustino Fortunato, Umberto Zanotti Bianco, Alessandro Passerin d’Entrèves, Bortolo Belotti, Giustino Arpesani, Filippo Jacini, Luigi Rusca, Giovani Malvezzi, Arturo Carlo Jemolo, ai quali si potrebbero aggiungere, con qualche precisazione e distinzione Alessandro Casati e lo stesso Luigi Einaudi.
N
Si tratta per lo più di intellettuali e uomini politici non legati al liberalismo dottrinario classico, ma piuttosto a quel modello di liberalismo inglese dal fondo religioso (come quello del Gladstone) che esercitò una larga influenza nell’età del Risorgimento e nei decenni immediatamente successivi; sen-
sibili al principio dell’efficacia del sentimento religioso nella società civile desunto dal Tocqueville; legati taluni a figure di riformatori religiosi dell’Ottocento europeo, in modo particolare Andrei Towianski - da cui attinsero largamente Tancredi Canonico e Giovanni Amendola - e Leone Tolstoi, cui attinse ad esempio Umberto Zanotti Bianco negli anni giovanili, prima di una più precisa e profonda adesione alla fede cattolica. Uomini come Tancredi Canonico, che sosteneva sulla scia del pensatore lituano la necessità di una rinascita dello spirito religioso in simbiosi con un vero spirito nazionale, che vedeva nel “temporalismo” l’impedimento a un vero progresso religioso e civile della nazione, che non giudicava in modo negativo la rivoluzione moderna, ebbero una notevole influenza nell’orientamento di non pochi intellettuali liberali del Novecento.
Liberali come Luzzatti che aveva allargato l’originaria fede ebraica sino ad una forma di ecumenismo “religioso” per cui protestanti, cattolici, ebrei liberali potevano solidariamente concorrere a garantirsi a vicenda la libertà, sulla base della libertà religiosa e della libertà di coscienza, in una libera convivenza tra le chiese e i raggruppamenti religiosi; Luzzatti per il quale il rifiuto dello Stato confessionale non doveva condurre ad uno Stato giacobino, ateo o ad una separazione conflittuale come quella attuata in Francia nel 1905, ma a uno Stato che accetta da un lato il contributo di energie morali provenienti dalle chiese e da una religione ricondotta alla purezza originaria, e dall’altro non esita attraverso le sue istituzioni scientifiche ad offrire la possibilità del ritorno agli studi religiosi e storico-religiosi e ad una rigorosa indagine delle discipline e del fenomeno religioso; liberali come Francesco Ruffini, il più lucido e tenace teorizzatore del principio della libertà religiosa. La radice risorgimentale, gli ideali risorgimentali in cui affondavano i sentimenti e le idee di quasi tutti questi uomini, era particolarmente evidente in personalità come quelle di Zanotti Bianco, di Bortolo Belotti, di Alessandro Casati. Casati dopo una prima fase rivolta ad un riformismo religioso che aveva avuto la sua massima espressione nella rivista modernista Il Rinnovamento, s’era accostato al pensiero di Croce, senza però che questo lo conducesse ad accettarne per intero lo storicismo; aveva attraversato un periodo di transizione «fra aspirazioni religiosomistiche ed interessi filosoficospeculativi»; si potrebbe insomma dire che egli sia stato mosso
Gli esponenti del liberalismo che, nel XX secolo, riten
Catto-liberali, di Nicola Raponi da una duplice esigenza: una storico-speculativa che lo avvicinava a Croce e una più intimamente spirituale e religiosa che ve lo distanziava e che sarebbe riemersa nel secondo dopoguerra, anche a seguito del duro sacrificio del figlio caduto nella battaglia per la Liberazione. Ma la sua radice prima erano in ogni caso gli ideali della tradizione risorgimentale. E non è detto che questi uomini vedessero un Risorgimento rappresentato solo da quegli esponenti della Destra storica: Minghetti, Ricasoli, Stefano Jacini, che avevano più a fondo affrontato il problema religioso del Risorgimento, legando questo anche alla necessità di una riforma religiosa della chiesa; altrettanta attrattiva esercitava in molti di loro la figura di Mazzini, con il suo idealismo, con la sua religiosità aconfessionale ma densa di luce morale, con il suo appello alle coscienze invitate a combattere il materialismo, i nazionalismi, la violenza: Gallarati Scotti aveva sin dal 1904 pubblicato una conferenza su Mazzini mettendone in evidenza la radice religiosa, ancorché non legata ad alcuna chiesa, e più tardi, nel 1924, anche Zanotti Bianco pubblicherà un vo-
lumetto, Mazzini, commento ad alcune Pagine tratte dall’epistolario, come un richiamo morale alle coscienze di fronte all’avanzare del fascismo.
Zanotti Bianco, Gallarati Scotti, Giovanni Malvezzi s’erano trovati insieme sin dal 1909 nell’attività dell’Associazione per il Mezzogiorno d’Italia, tutt’e tre legati al cattolicesimo non conformista, o meglio all’esigenza di un rinnovamento cattolico propria del gruppo raccolto intorno al Fogazzaro, animati da impulsi quasi misti-
trale, ma di una neutralità positiva: lo Stato che garantisce la libertà religiosa senza essere né a favore di fedi religiose né a una politica antireligiosa, per cui si ritrova in essi una indiscutibile ripulsa dello “scetticismo laico” di gran parte degli intellettuali e dei politici del tempo. Per questi liberali animati da una fede religiosa restava fondamentale la distinzione fra politica e religione ma anche la convinzione che la fede religiosa dovesse avere una funzione ispiratrice di un concreto operare politico impron-
Da Amendola a Casati, passando (in parte) per Einaudi: parliamo di un gruppo cospicuo di politici e intellettuali non riconducibile a una esclusiva tipologia o a un unico modello ci e mossi da una profonda coscienza morale che trovava continuità in una esigenza di azione sociale e li spingeva a porre il riscatto del Mezzogiorno fra le condizioni per una elevazione della coscienza nazionale e un effettivo progresso del Paese. V’era in questi liberali sopra ricordati una propensione ai princìpi separatisti e alla visione di uno Stato laico e neu-
tato a «sincerità, correttezza, bontà»; era questa la convinzione di molti liberali come Umberto Zanotti Bianco, la cui intransigenza morale lo indusse a cogliere subito il carattere nefasto del fascismo, da lui definito subito come «un tumore maligno nel corpo della nazione»; come Giovanni Amendola, che lascerà in eredità a molti esponenti del liberalismo italiano un
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nevano compatibili le loro idee con la fede religiosa Molti di questi liberali, pur accettando la soluzione conciliativa, pensavano che il Concordato non fosse un punto d’arrivo ideale, ma che si dovesse pensare a equilibri più elevati basati sul principio della libertà religiosa e su una società dove Chiesa e Stato - una Chiesa purificata e senza tentazioni clericali, uno Stato laico senza tentazioni anticlericali cooperassero ad una elevazione degli individui e della società
, la via italiana profondo insegnamento: l‘esigenza di una forte tensione morale e religiosa, come condizione per quella educazione alla responsabilità che avrebbe dovuto portare a un più serio impegno per la difesa della libertà e della democrazia. Anche Gallarati Scotti, non per nulla ancora una volta vicino a Zanotti Bianco nella rivista La Voce dei Popoli, esprimeva la convinzione che non ci si poteva opporre «al progresso fatale di una civiltà liberale e democratica»; ammoniva contro i pericoli derivanti dall’esasperazione delle correnti nazionalistiche e le grettezze delle vecchie forze liberali propense a nuovi trasformismi.
Come Zanotti Bianco, come Amendola, neanch’egli ebbe tentennamenti nei confronti del fascismo e non pensò mai di concedergli prove di appello come avvenne invece, sia pure temporaneamente – e con suo vivo rammarico – per l’amico Casati. (...) Come per Zanotti Bianco e per Borgese, anche per Gallarati Scotti il rifiuto del fascismo era innanzitutto un fatto morale e non solo politico. Nel ricordato discorso per l’inaugurazione del Club liberale egli affermava che l’opposizio-
ne al fascismo sua e degli amici che si richiamavano ai valori della libertà e al rispetto del metodo liberale aveva sorgenti più profonde della politica stessa. Nasce piuttosto dalla nostra coscienza di uomini e di italiani. Nasce da una persuasione intima, religiosa per alcuni, che le supreme leggi morali non possono essere toccate e manomesse mai, a nessun costo, nemmeno per una così detta ragion di stato, senza vederle operare contro i loro violentatori, inesorabilmente. Un concetto analogo esprimeva Bortolo Be-
saminando più tardi le vicende che avevano portato il fascismo al potere e poi al suo crollo nella seconda guerra mondiale: «quando si tradisce la libertà, la libertà si vendica». Superfluo ricordare come molti degli uomini ricordati abbiano pagato in un modo o in un altro, qualcuno con la vita, come Amendola, la loro ferma opposizione al fascismo: Zanotti Bianco esule in patria dopo aver restituito ai ministeri competenti le medaglie di benemerenza e i brevetti di guerra per protesta contro il delitto Matteotti; Borgese
Si trattava di uomini consapevoli della presenza di valori di libertà nel cattolicesimo, che non si sarebbero rassegnati ad un uso strumentale della Chiesa e del cristianesimo lotti, altro solitario credente nella restaurazione della libertà, in un discorso tenuto a Firenze, imperante già il fascismo: «la libertà non si distrugge perché essa non è corpo ma spirito. La libertà è un’idea. La libertà per nostra ventura è inafferrabile, è fuori di noi e sopra di noi. Attaccata si vendica, repressa si risolleva […]»; concetto ripetuto con parole quasi identiche da Gallarati Scotti rie-
indotto più tardi a lasciare l’Italia per l’America, Rusca confinato in uno sperduto paesino della Calabria, Gallarati Scotti e Belotti sottoposti alla vigilanza permanente della polizia fascista e costretti alla fine all’esilio in Svizzera, dove quest’ultimo sarebbe morto senza rivedere la Patria. Naturalmente ci si potrebbe chiedere quale sia stato l’atteggiamento di questi uomini (specialmente se rima-
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sti, almeno in un primo tempo, in patria) ad esempio nei confronti della politica ecclesiastica del fascismo e dell’atteggiamento della Chiesa verso il regime; quali siano stati i contributi alla elaborazione dei programmi di ricostruzione della democrazia liberale nel corso della guerra, della liberazione e del dopoguerra. Trattandosi per lo più di intellettuali, militanti nel movimento liberale e almeno per qualche tempo anche iscritti al partito come Gallarati Scotti e Rusca, ma restatine talora ai margini, è difficile darne un quadro preciso. Gallarati Scotti, e con lui l’amico Stefano Jacini junior pur accettando la Conciliazione del ’29 come il definitivo superamento della frattura risorgimentale, non si mostrarono per nulla entusiasti della soluzione concordataria e si adoperarono presso Pio XI, loro guida spirituale negli anni giovanili, a raccomandare fermezza e intransigenza verso le dittature del tempo. Durante la resistenza e la lotta per la liberazione si mostrarono preoccupati che la resistenza non fosse appannaggio esclusivo dei comunisti incoraggiando le formazioni liberali, indipendenti e cattoliche: Gallarati Scotti ottenne personalmente dal governo inglese che fosse affidato a Raffaele Cadorna il comando di tutte le forze partigiane e più tardi prenderà le difese di Enrico Mattei perché con le sue formazioni di cattolici aveva impedito che la resistenza «si tingesse tutta di rosso».
Durante l’esilio svizzero Gallarati Scotti collaborò al supplemento della «Gazzetta Ticinese» intitolato “L’Italia e il secondo risorgimento”, il giornale di Einaudi, anche se non organo del Partito liberale e cooperò alla stesura del programma liberale, dandovi il suo contributo in particolare su due punti. Il primo riguardava la questione istituzionale: in contatto con la Principessa di Piemonte Gallarati Scotti l’aveva esortata a rientrare in patria a fianco delle forze di liberazione se voleva che vi fosse ancora qualche chance per la salvezza in Italia della monarchia, che doveva assumere il carattere liberaldemocratico delle monarchie nordiche; in ogni caso la forma definitiva dello Stato doveva essere rimessa alla decisione del popolo italiano. Il secondo riguardava l’atteggiamento del Partito liberale di fronte alla Chiesa nel dopoguerra e a questo proposito ci soccorre un interessante documento. Rispondendo ad Einaudi che gli aveva inviato, nella primavera del 1944, la bozza di uno scritto intitolato Principi di un programma liberale che doveva servire di base per l’orientamento e l’azione del Partito liberale a guer-
ra finita, Gallarati Scotti gli rispondeva in questi termini: «Caro Einaudi, ho letto e meditato a lungo quelli che si potrebbero chiamare Lineamenti informatori di un programma liberale e come tali da pubblicare, aprendo così una discussione assai utile e appassionata […]. Già che però ella ha per le mani lo scritto devo esporle alcune mie osservazioni condivise anche da altri. Nel campo giuridico politico è appena accennato il problema di politica ecclesiastica e la Chiesa è messa in seconda linea tra la magistratura, l’università e la stampa. Non vorrei che ciò sembrasse o superficiale o ambiguo. Io sarei del parere di affrontare più decisamente il problema affermando i due principi liberali su cui poggia la civiltà moderna: quello cavouriano […] “libera Chiesa in libero Stato”e quello della libertà di coscienza. Metterei però in luce che il principio cavouriano deve essere applicato tenendo conto delle posizioni storiche della Chiesa in Italia e della soluzione di un secolare conflitto già superato (il Trattato) onde non si pensi che si voglia riaprire un conflitto anziché procedere verso una separazione non dettata da spirito settario ma da un severo spirito liberale […]. Noi dobbiamo insomma evitare, da un lato, il clericalismo e, dall’altro, l’anticlericalismo, tenendo anche conto delle forze religiose e cattoliche con le quali dobbiamo collaborare e delle posizioni assunte da gran parte del clero in quest’ultimo periodo sia contro i tedeschi per la liberazione della patria, sia verso gli ebrei con senso altamente cristiano in loro difesa».
In questo modo egli riassumeva il pensiero di molti di questi liberali, come Zanotti Bianco, come Luigi Rusca, come Filippo Jacini, che pur accettando la soluzione conciliativa a proposito dei rapporti Stato italiano-Chiesa cattolica, pensavano che il Concordato non fosse un punto d’arrivo ideale, ma che si dovesse pensare, secondo il principio separatista proprio di molti di questi liberali di fede cattolica, a equilibri più elevati basati sul principio della libertà religiosa e su una società dove Chiesa e Stato una Chiesa purificata e senza tentazioni clericali, uno Stato laico senza tentazioni anticlericali - cooperassero ad una elevazione degli individui e della società. Uomini consapevoli della presenza di valori di libertà nel cattolicesimo, che non si sarebbero rassegnati ad un uso strumentale e conservatore della Chiesa e del cristianesimo, ma piuttosto indicavano questo come fonte di ispirazione etica e religiosa per la vita civile e la democrazia.
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Cina-Vaticano. L’Associazione patriottica, che da 50 anni cerca di staccarsi dalla Santa Sede, prepara nuove ordinazioni illecite
Lo schiaffo di Li Shan Fedeli sconvolti per le nuove posizioni del vescovo di Pechino, che attacca il Papa di Bernardo Cervellera poco più di un anno dall’ordinazione del loro vescovo, i cattolici di Pechino sono divisi sulla stima nei suoi confronti. E crescono sempre più coloro che lo accusano di essere un traditore della Santa Sede. Monsignor Giuseppe Li Shan, 44 anni, è stato ordinato il 21 settembre del 2007 con l’approvazione del Papa. Ma dopo poco più di un anno al potere, il suo atteggiamento verso il Vaticano sembra essere cambiato. I cattolici dicono che colui che era giunto per sostituire il vescovo patriottico Michele Fu Tieshan, morto un anno prima, cammina a grandi passi verso una ripresa del patriottismo e dell’autonomia dalla Santa Sede. I fedeli sono infatti sbalorditi dal suo modo di fare e dai suoi discorsi
A
che sembrano sempre più scivolare in un servilismo totale verso l’Associazione Patriottica, il cui scopo è edificare e controllare una Chiesa cattolica indipendente da Roma. Alcuni suoi discorsi, in particolare, sono rivelatori. Il primo è stato dato il 25 novembre scorso durante un corso di formazione per sacerdoti e fedeli. Il vescovo ha parlato dei progressi vissuti dalla Chiesa grazie ai 30 anni dalle riforme di Deng Xiaoping. I fedeli sottolineano che già utilizzare un corso di formazione alla fede per fare un’analisi delle riforme di Deng Xiaoping e delle sue modernizzazioni è una «tassa pagata al potere politico». Il contenuto è ancora più sconcertante. In esso, infatti, monsignor Li Shan difende l’operato del suo predecessore, che «ha iniziato la gloriosa tradizione di amare la patria e amare la Chiesa» e l’ha diffusa nella diocesi di Pechino. Lo slogan “amare la patria, amare la
Li Shan dice che «l’opera di amare la patria, amare la Chiesa ha subito gravi interferenze da parte del potere politico straniero e della Chiesa clandestina in Cina». Qui l’accusa al Vaticano è evidente: nei discorsi di Partito è proprio la Santa Sede ad essere considerata «uno Stato straniero, che vuole interferire negli affari interni della Cina sotto il manto della religione». Per il futuro, il vescovo afferma che è necessario «mantenere l’idea di amare la patria, amare la Chiesa e continuare a camminare sulla via dell’autogestione della Chiesa [...]. Questi due principi sono i frutti che abbiamo imparato dalla storia semi-coloniale [perché asservita al Vaticano, tipico slogan maoista ndr] della Chiesa cinese del passato, sono anche l’esperienza preziosa della nuova vita e sviluppo della Chiesa cinese nella società socialista». Naturalmente, per tutta questa opera egli rivendica la necessità dell’Ap e quella della “democrazia” nella Chiesa, secondo cui elezioni di vescovi, pa-
Tong Genzhu, vice Ministro del Dipartimento centrale del Fronte Unito; e tanti altri.
Anche qui i fedeli sono rabbrividiti. Monsignor Li Shan – che sembrava dover finalmente concludere l’epoca di Fu Tieshan – ha ringraziato il governo di Pechino per l’aiuto e il sostegno su ogni aspetto della vita della Chiesa, assicurando che essa continua a tenere alta la bandiera “dell’amare la patria, amare la Chiesa”, e a seguire la
dal suo modo di pensare. Secondo informazioni ricevute dall’agenzia AsiaNews, l’autore del discorso non è il vescovo, ma il segretario generale dell’Associazione patriottica di Pechino, Shi Hongxi. Altri dicono che il discorso è stato messo in mano al vescovo all’ultimo momento, senza potersi rendere conto di quanto vi era scritto. Ma la ripetizione in tre diverse situazioni degli stessi slogan fa temere che il vescovo, se non d’accordo con quanto letto, sia
Secondo Joseph Zen, il compromesso può essere solo una strategia provvisoria, ma non può durare per sempre. Essere uniti al pontefice in segreto e allo stesso tempo essere parte fondante di una chiesa autonoma è contraddittorio Chiesa”è proprio lo slogan dell’Ap, che vuole sottomettere la vita della Chiesa all’obbedienza al Partito comunista. Inoltre monsignor
storale, teologia, scelte sono affidate alle votazioni di un’assemblea di vescovi, sacerdoti e laici sempre dominata dall’Ap, svilendo il carattere sacramentale della Chiesa stessa. Un discorso con toni molto simili è stato tenuto dal presule alla vigilia di Natale 2008. Alle 7 di sera egli ha ricevuto la visita di Ye Xiaowen, direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi; Zhou Ning, direttore della seconda sezione del Fronte Unito; Il vescovo di Hong Kong, cardinale Joseph Zen Ze-kiun, campione della libertà religiosa. In alto, il presule di Pechino Li Shan celebra una messa nella capitale. Nella pagina a fianco, una messa ufficiale a Xian
strada di “indipendenza e di autogestione della Chiesa” [dalla Santa Sede ndr], cercando di rendere la Chiesa Cattolica un modello nella costruzione della società armoniosa. In tutti questi discorsi e pronunciamenti, il tono e gli slogan usati sono caratteristici proprio del linguaggio del Partito e del periodo più radicale del comunismo in Cina, quello della Rivoluzione culturale. I fedeli si stupiscono e si domandano come mai, in poco tempo, il loro pastore «si è trasformato in una Guardia Rossa», mostrando un servilismo verso l’Ap e il potere ancora più spinto di quello del suo predecessore. Li Shan era conosciuto come un bravo sacerdote, semplice, di non vasti orizzonti ma fedele al Papa, capace di entusiasmare i giovani e soprattutto aperto alla Chiesa sotterranea. I suoi discorsi contro “gli Stati stranieri”e la Chiesa sotterranea rappresentano un cambiamento a 180 gradi
perlomeno succube dell’Associazione patriottica.
E qui si apre un altro problema. L’Ap, fondata nel 1958, da 50 anni tenta in tutti i modi di dividere la Chiesa, ordinando vescovi senza il permesso del Papa. Negli ultimi decenni, molti vescovi della Chiesa patriottica hanno domandato perdono per la loro situazione di distacco e grazie alla magnanimità di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI, si sono riconciliati con la Santa Sede. Nel gennaio 2007, lo stesso Vaticano aveva annunciato che la “quasi totalità”dei vescovi ufficiali (riconosciuti dal governo) «sono ormai in comunione piena con la Santa Sede». La Lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi (30 giugno 2007) riaffermava questa forte comunione e soprattutto metteva in luce che l’Ap è una struttura contraria alla fede cattolica, precisando proprio che «attuare i principi di indipen-
mondo cattolica della Chiesa e cercando di ottenere maggiore libertà di attività dalle autorità civili attraverso un dialogo diretto e rispettoso.
Il cardinale spinge i vescovi ad «agire insieme», richiedendo il diritto di incontrarsi come gruppo e di poter discutere in libertà dei loro problemi, senza interventi esterni. E infine suggerisce ai pastori di trovare «una posizione corretta da adottare riguardo a quei corpi a cui si riferisce la sezione n. 7 del documento papale». Il riferimento è proprio all’Ap e all’idea della Chiesa indipendente e auto-gestita. L’importanza del documento sta nel fatto di suggerire per la prima volta la possibilità che vescovi ufficiali e sotterranei si incontrino insieme; esso però evita di suggerire un atteggiamento comune da tenere verso l’Ap e i comitati dei rappresentati dei cattolici. La Lettera del Papa afferma che essi sono contrari alla dottrina cattolica, ma non domanda ai vescovi ufficiali di uscirne. Fino ad ora i vescovi ufficiali hanno cercato di ignorare le pressioni dell’Ap, ma con poco frutto; allo stesso tempo alcuni
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anni delle auto-elezioni e autoordinazioni dei vescovi cinesi promosse dal Fronte Unito e dall’Ap, sono una preparazione a piegare ogni ostacolo da parte dei vescovi ufficiali e a sottometterli alle tradizionali strutture di controllo.
Il timore di molti cattolici, ufficiali e sotterranei, è che mancando indicazioni più precise ed incisive da parte della Santa Sede, i vescovi ufficiali si lascino trasportare dagli eventi e da interpretazioni personali sulla Lettera del Papa, giungendo a compromessi. Nel mesi scorsi, a oltre un anno dalla Lettera del pontefice ai cattolici cinesi, AsiaNews ha svolto un’inchiesta fra i vescovi in Cina su come vengono recepite le indicazioni di Benedetto XVI. Alcune risposte sono stupefacenti. Da una parte diversi vescovi hanno elogiato il valore della Lettera e dell’insegnamento del pontefice, che spinge all’unità con lui e fra di loro; dall’altra sembrano non essere toccati per nulla dal fatto che il documento definisca gli ideali e la politica dell’Ap come “inconciliabili” con la dottrina cattolica. Così, nelle risposte, diversi vescovi
episcopali illecite del 2006 quando – egli dice “con dispiacere” – una decina di vescovi, approvati dal Vaticano, vi hanno preso parte per paura, timore e talvolta perché ingannati. Egli ricorda poi il raggio “di speranza”apertosi nel 2007 con un incontro in Vaticano sulla Chiesa in Cina e soprattutto con la diffusione della Lettera di Benedetto XVI ai cinesi.
Il vescovo di Hong Kong sottolinea che, nella Lettera, il Papa afferma che l’Associazione patriottica cinese ha dei fini contrari alla fede cattolica e aggiunge che è proprio l’Ap la “causa maggiore di tutti i problemi della Chiesa in Cina”. Davanti a una situazione che rischia il forte compromesso, l’esperienza della Chiesa sotterranea viene ad avere ancora più valore. Per il vescovo di Hong Kong, non c’è nulla da celebrare perché il metodo delle “auto-elezioni” e delle “auto-ordinazioni”è stato voluto da forze radicali dell’estrema sinistra negli anni ’50, che guardavano il Papa come un rappresentante dell’imperialismo. Ma questa visione è ormai sorpassata, in un periodo in cui la Cina celebra i suoi 30 anni di riforme
I cattolici della capitale non capiscono cosa sia successo al loro pastore, sempre più succube del Partito comunista e del governo centrale. Che vogliono una chiesa indipendente da Roma
denza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della Chiesa è inconciliabile con la dottrina cattolica». Che il vescovo di Pechino, approvato dal Vaticano, si metta a difendere ciò che è “inconciliabile” con la Chiesa cattolica è davvero uno smacco per il Vaticano. Secondo informazioni di AsiaNews, Li Shan è pentito di quanto ha fatto e giustifica il suo comportamento con le pressioni che è costretto a sopportare. In effetti, proprio a causa della Lettera del Papa e della ritrovata unità fra i vescovi cinesi, il Fronte Unito e le Associazioni patriottiche hanno lanciato da più di un anno una serie di iniziative per ricondurre all’obbedienza i vescovi ufficiali cinesi. Continuano a convocarli, obbligandoli a partecipare a convegni e sessioni politiche, tanto da rendere molto
precario il loro lavoro pastorale. I vescovi non hanno possibilità nemmeno di potersi incontrare fra loro da soli, e passano da una vita in solitudine, alla mercé dei segretari dell’Ap. Per rafforzare i vescovi nell’unità e frenare l’influenza dell’Ap, il 22 aprile scorso il Vaticano ha inviato una lettera a tutti i vescovi cinesi in comunione con Roma. La lettera, a firma del Segretario di Stato Tarcisio Bertone, è diretta a circa 90 vescovi della Chiesa ufficiale e sotterranea ed ha impiegato mesi per essere recapitata a tutti. Il cardinal Bertone sottolinea «i principi fondamentali della fede cattolica» e ricorda il valore della comunione dei vescovi col Papa e fra di loro. Per questo egli, a nome del pontefice, domanda a tutti i prelati di «esprimere con coraggio il vostro ufficio di pastori», promuovendo la natura
vescovi sotterranei hanno tentato di farsi riconoscere dal governo senza iscriversi all’Ap, ma nessun governo locale ha accettato, riaffermando la centralità dell’Ap nella politica governativa verso le religioni.
Il problema diviene ancora più urgente perché sono in preparazione degli incontri a livello nazionale per votare il nuovo presidente dell’Associazione patriottica e il presidente del Consiglio dei vescovi cinesi [una specie di conferenza episcopale, che raduna solo i vescovi ufficiali, non riconosciuta dalla Santa Sede ndr]. L’elezione delle due cariche dovrebbe tenersi nel Congresso nazionale dei rappresentanti cattolici. La campagna di controllo sui vescovi, il costringerli a tutta la serie di convegni e sessioni politiche, le celebrazioni per i 50
ufficiali si sono sciolti in elogi sperticati dell’Associazione, mentre altri vescovi della Cina centrale giungono perfino ad affermare che l’Ap «è un’unica cosa con la Chiesa». Il timore di vescovi e fedeli è che di fronte a questa situazione di debolezza, nel 2009 si apra un nuovo capitolo di ordinazioni illecite senza il permesso della Santa Sede, ricostruendo un nucleo “patriottico” di prelati, perfettamente obbedienti al Partito. La cosa potrebbe portare al blocco delle tante conversioni al cristianesimo, che avvengono nel mondo della società civile e fra gli intellettuali, che stanno riscoprendo l’insegnamento della Chiesa come il fondamento alle loro richieste di libertà e di rispetto dell’individuo.
Davanti a questa situazione ambigua e ingarbugliata, è emersa la voce chiarificatrice e netta del cardinale Joseph Zen di Hong Kong, che ha domandato a vescovi e preti della Chiesa ufficiale di essere più coraggiosi e di non scivolare nei compromessi con il regime. Egli esorta vescovi e sacerdoti cinesi di avere le virtù di santo Stefano, il primo martire, e a non sottostare sempre alle indicazioni dello Stato contrarie alla fede. In un articolo dal titolo Ispirazione dal martirio di santo Stefano, Zen fa un’analisi sugli sviluppi della Chiesa cattolica in Cina negli ultimi 2 anni, ricordando le ordinazioni
economiche, attuate in opposizione a quella mentalità radicale. Per il porporato è chiaro che tutta l’enfasi delle celebrazioni sui 50 anni dell’Ap e delle “autoelezioni” e “auto-ordinazioni” è una preparazione a degli incontri per votare il nuovo presidente dell’Associazione patriottica e il presidente del Consiglio dei vescovi cinesi. E suggerisce di boicottarla.
Il cardinal Zen racconta anche che alcuni nella Chiesa cinese vanno facendo l’elogio del compromesso e dell’ambiguità: «Qualcuno, parlando ai fratelli della comunità non ufficiale [sotterranea] pare aver detto: Noi siamo molto intelligenti nell’accettare il compromesso! Siamo in comunione col Santo Padre e [allo stesso tempo] siamo riconosciuti dal governo. Essi ci danno soldi. Noi possiamo prenderci cura dei fedeli, ma voi preferite andare in prigione; preferite morire. E poi… i vostri fedeli rimangono abbandonati, senza nessuno che si prenda cura di loro». Il porporato conclude: «Dunque il martirio sarebbe divenuto una stupidaggine? È assurdo! Questa è una visione miope! Il compromesso può essere una strategia provvisoria, ma non può durare per sempre. Essere uniti al Santo Padre in segreto e allo stesso tempo essere parte di una chiesa che si dichiara autonoma è contraddittorio». Direttore AsiaNews
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Pentagono. Per l’esperto americano, é disastrosa la possibilità di un taglio al bilancio della Difesa
Credibilità Usa a rischio di Robert Kagan segue dalla prima Già con l’attuale bilancio del Pentagono, le aziende appaltatrici della difesa, cominceranno a chiudere dei settori produttivi nel prossimo biennio, licenziando. Piuttosto che tagliare, l’amministrazione Obama dovrebbe aumentare le spese militari. Soprattutto alla luce delle recenti minacce di Iran e Corea del Nord. Recentemente sul Washington Post, l’economista di Harvard, Martin Feldstein, sottolineava come proprio gli investimenti pubblici nel settore della Difesa, siano esattamente il tipo di spesa che ha un impatto immediato sull’economia.
Una riduzione del budget del Pentagono quest’anno potrebbe scoraggiare i nostri alleati e vanificare gli sforzi per una maggior cooperazione. Si respira già in tutto il mondo un’atmosfera, alimentata qui in America da esperti irresponsabili, che vedrebbe gli Usa in una fase di declino definitivo. Molti temono che la crisi economica potrebbe far recedere gli Usa dagli impegni internazionali. L’annuncio dei tagli potrebbe essere interpretato come la prova che il declino americano abbia avuto inizio. Renderebbe più difficile convincere gli alleati ad un maggiore impegno. L’attuale amministrazione, giustamente, vuole incoraggiare gli europei a migliorare il proprio apparato militare, in maniera che possano condividere più equamente il peso degli impegni internazionali. Un compito molto difficile nel caso i tagli vadano in porto. In Afghanistan si teme già che gli Usa si possano trovare col “fiato corto”. I militari pakistani potrebbero assumere una posizione attendista, rispetto agli sbandierati impegni americani per la regione. Una riduzione della spesa del Pentagono potrebbe alimentare queste impressioni e renderebbe più difficile, per il nuovo inviato speciale di Obama, Richard Holbrooke, spingere verso i necessari cambiamenti entrambi i Paesi. Ciò che preoccupa gli alleati gratifica e incoraggia i potenziali avversari. Fa bene la Casa Bianca ad avviare un dialogo diretto con la leadership di Tehe-
Lefebvriani, la Merkel attacca: «Il Papa chiarisca» Il caso non è chiuso. La Germania non ci sta e per bocca del suo Cancelliere Angela Merkel dichiara che le chiarificazioni del Vaticano sulla reintegrazione del vescovo lefebvriano Williamson che nega l’Olocausto, sono «insufficienti». «Si tratta di chiarire in modo netto, da parte del Papa e del Vaticano, che non può esserci nessuna negazione dell’Olocausto e che deve esserci un rapporto positivo col mondo ebraico», ha detto ieri la cancelliera in una conferenza stampa a Berlino. «Se una decisione del Vaticano fa emergere l’impressione che l’Olocausto possa essere negato - ha sottolineato ancora il capo del governo tedesco - questa deve essere chiarita».
Iran, in orbita il primo satellite sistemi d’arma - in modo particolare dallo scudo antimissile - si regolerebbero di conseguenza. Anzi potrebbero chiedersi se non convenga proprio fare un accordo. La riduzione del bilancio del Pentagono avrebbe delle conseguenze anche in altri settori della spesa pubblica, in particolare sugli aiuti internazionali. Molti repubblicani hanno già cominciato a lamentarsi per la politica di sostegno e sviluppo all’estero. Sarebbe molto difficile convincere i repubblicani ad approvare la politica estera allo sviluppo, se la Casa Bianca dovesse decidere per i tagli ai militari. Infine è noto a tutti che l’esercito americano sia al limite delle sue capacità operative. Alcuni sperano che Obama possa cominciare un ritiro cospicuo dall’Iraq già quest’anno. Non c’è dubbio che, in una certa misura, questo sia possibile. Ma il 2009 è un anno particolarmente critico per l’Iraq. La più recente tornata elettorale è solo la prima dei tre appuntamenti previsti per il voto: in giugno si svolgeranno le elezioni distrettuali e il più importante voto politico sarà in dicembre. Il generale Petraeus, difficilmente suggerirebbe un ritiro consistente, con tutto quello che c’è in ballo. Di più, ogni riduzione dei militari in Iraq andrebbe accoppiata con un aumento della presenza in Afghanistan. L’usura delle forze di terra americane, anche con un ritiro dall’Iraq, non avrebbe effetto, prima dell’inizio dell’anno prossimo. Dando per scontato che la situazione irachena si manten-
Molti temono che la crisi economica potrebbe far recedere gli Usa dagli impegni internazionali. L’annuncio dei tagli potrebbe essere letto come la prova che il declino americano abbia avuto inizio ran. Ma le già deboli chance di successo, potrebbero assottigliarsi, se gli iraniani fossero convinti che gli Usa si ritirassero da quella parte del mondo. Il portavoce di Ahmadinejad, ha già dichiarato che gli Usa hanno perso il loro tradizionale potere, solo a causa del tentativo d’approccio di Obama. Possiamo immaginare come questa impressione possa essere rafforzata se Washington dovesse tagliare i fondi, già insufficienti, alle forze armate. Allo stesso modo, Obama ha diritto di intavolare un negoziato con la Russia, sulla difesa missilistica e sul controllo degli armamenti. Ma è veramente un pessimo inizio annunciare, ancor prima dei negoziati, una riduzione delle spese militari. Se i russi dovessero convincersi che questa sia una via d’uscita per interrompere gli investimenti sui nuovi
in breve
Sopra, una portaerei statunitense. A fianco, il ministro Usa della Difesa Robert Gates. Piuttosto che tagliare, l’amministrazione Obama dovrebbe aumentare le spese militari. Anche alla luce delle minacce di Iran e Corea ga stabile, che ci siano dei miglioramenti in quella afghana, che il Pakistan non esploda e che non ci siano altri eventi imprevedibili, che richiedano l’intervento statunitense. In un momento in cui si parla dello stimulus package da tremila miliardi di dollari, tagliare le spese del Pentagono del dieci per cento è una vera miseria, specialmente se si pensa a ciò che costerà all’America, in termini di credibilità mondiale. Gli Usa spendono circa il 4 per cento del Pil nella Difesa. Nel 1962, era il 9 per cento. Alcuni irriducibili nostalgici degli anni Ottanta, anti-guerra fredda, potrebbero interpretare la rivoluzione di Obama, come un ritorno ai vecchi tempi delle battaglie contro la politica reganiana sulle spese militari. Ma non è questo il modo nel quale la presidenza di Barack Obama potrà funzionare. Non ha promesso tagli alla Difesa. Al contrario, ha chiesto più effettivi per l’Esercito e i Marines. Ha insistito sulla necessità che l’apparato militare statunitense rimanga il più forte e il meglio equipaggiato al mondo. Nel suo discorso inaugurale ha ricordato agli americani che il Paese è ancora in guerra. Stando così le cose non è proprio il momento adatto per cominciare a indebolirne la potenza militare. © Washington Post
Nel trentesimo anniversario della rivoluzione khomeinista, l’Iran ha messo in orbita il suo primo satellite per telecomunicazioni. Il satellite ”Omid” (speranza) è stato lanciato lunedì sera sera dal vettore ”Safir-2” (l’ambasciatore). Il presidente Ahmadinejad, che ha dato personalmente l’ordine di lancio ripetendo tre volte la formula “Allah Akbar”, Dio è grande, ha assicurato che il satellite non ha finalità militari. Come invece sospetta l’Occidente. Per la Francia la tecnologia usata per la costruzione del vettore spaziale è una versione aggiornata del Safir-1 - sperimentato ad agosto - che potrà essere adoperata anche per la realizzazione di missili balistici a lungo raggio, capaci di trasportare testate atomiche.
Usa, Hill nuovo ambasciatore a Baghdad Christopher Hill, dal 2005 a capo della delegazione degli Stati Uniti per i negoziati con la Corea del Nord (è già negoziatore di Dayton), sarà il nuovo ambasciatore americano a Baghdad. La notizia, diffusa dal Washington Post, arriva a sorpresa: instancabile negoziatore, è esperto soprattutto di Europa e di Asia e, a differenza del suo predecessore, Ryan Crocker, non parla l’arabo.
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Foto grande, uno scatto di Fabrizio Giraldi, che ha dedicato un intero reportage all’odissea dei dimenticati di Lubiana (www.fabrizio giraldi.com). In basso, il premier sloveno Borut Pahor e il ministro degli Interni, nonché leader demo-liberale Katarina Kresal, che ha annunciato di voler risolvere entro l’anno la pagina dei “cancellati”
Lubiana. Sono 25.671 le persone che, all’indomani dell’indipendenza del 1992, non sono state registrate
Le identità perdute dei “cancellati” sloveni di Stefano Lusa
LUBIANA. I cancellati in Slovenia sono 25.671. Questo il dato comunicato dal ministero degli Interni. È la prima volta che ci sono dei dati ufficiali e la cifra supera di molto le 18.305 persone di cui si era parlato sino ad ora. Sempre secondo il ministero, 24.369 persone sono ancora in vita e oltre 17mila sono cittadini stranieri. 7.313 persone, negli anni successivi alla cancellazione, hanno ottenuto la cittadinanza slovena, mentre altre
denza. Coloro che erano iscritti come cittadini sloveni non ebbero bisogno di far nulla, gli altri, invece, dovettero presentare domanda.
In Slovenia vivevano circa 200mila persone provenienti dalle altre repubbliche della federazione. La maggioranza presentò regolare richiesta. Qualcuno se ne andò, altri non riuscirono a raccogliere i documenti necessari ed altri ancora, magari essen-
I più si accorsero della loro“sparizione” al rinnovo dei documenti. Arrivati allo sportello, gli impiegati, con qualche scusa, li mandavano a prenderne altri per poi annullarglieli tutti 3.630 si sono invece assicurate il permesso di soggiorno. Sono, così, 13.426 gli individui che al momento attuale non hanno ancora “regolarizzato” il loro status. La cancellazione è avvenuta il 26 febbraio 1992. Proprio in quella data scadeva il termine per presentare domanda di cittadinanza slovena. Al momento della proclamazione dell’indipendenza Lubiana si era impegnata a concedere la cittadinanza a tutti i residenti, visto che nella federazione esisteva, oltre che una comune cittadinanza jugoslava, anche una repubblicana. Una categoria, quest’ultima, considerata fino ad allora del tutto insignificante, ma che risultò maledettamente importante al momento dell’indipen-
do nati in Slovenia, ritennero di non aver nessun motivo per inoltrare formale richiesta di cittadinanza. Ad onor del vero in pochi si videro negare la cittadinanza. A conti fatti la ottennero in 170mila, ma gli altri vennero cancellati dal registro dei residenti. Nessuno poteva supporre che le due cose fossero correlate. In tal modo, chi non ottenne la cittadinanza, perse tutti i diritti che aveva: lavoro, sanità, possibilità di aprire un conto in banca e di votare. Il tutto accadde in silenzio, in un clima di altissimo consenso. L’idea era che i cancellati se la fossero voluta. Nel 1992 la Slovenia era appena stata riconosciuta internazionalmente. Il Paese si era tolto con successo dalle guerre jugo-
slave e stava cominciando a sognare di entrare nell’Unione europea. Lubiana, rispetto al resto nel calderone regionale, sembrava un’oasi felice e presto sparì anche dai rapporti sulla tutela dei diritti dell’uomo. A nessuno, o quasi, interessava la sorte dei cancellati. I più si accorsero della loro effettiva “sparizione” quando provarono a rinnovare i documenti. Arrivati allo sportello, accadeva che gli impiegati, con qualche
scusa, li mandassero a prenderne degli altri per poi annullarglieli tutti. La corte costituzionale, già nel 1999, constatò che la cancellazione era illegale e nel 2003 ingiunse di regolare la questione retroattivamente. All’epoca il governo di centrosinistra tentò di risolvere la cosa con due leggi, ma l’opposizione, capeggiata dai democratici di Jansa, promosse un referendum.
A guidare il parlamento, allora, c’era l’attuale premier Borut Pahor. Probabilmente la questione si sarebbe risolta se avesse chiesto alla corte costituzionale di giudicare l’ammissibilità del referendum, ma Pahor dimenticò di richiedere il parere dei giudici in tempo utile. Quando lo fece gli dissero che il termine era scaduto il giorno prima. Alle urne si recò poco più del 30% degli aventi diritto ed il 94% si espresse contro quella legge. In Slovenia non esiste quorum per considerare valido un referendum e così la questione si arenò. Dopo le politiche del 2004, per il governo di centrodestra, capeggiato da coloro che avevano voluto quel referendum, risolvere il problema non era una delle priorità. Il ministro degli Interni, nonché leader demo liberale, Katarina Kresal ora sembra intenzionata a voltar pagina. Ha annunciato, infatti, che intende agire seguendo quanto stabilito dalla Corte costituzionale e questo mese dovrebbero essere spedite
le delibere che riconoscono l’ininterrotta residenza in Slovenia a quei cancellati che hanno ottenuto successivamente la cittadinanza slovena. La sola ipotesi ha fatto andare su tutte le furie l’opposizione. Il premier Pahor, però, non sembra essere tanto categorico. Da una parte ha dichiarato che il governo è intenzionato a risolvere la questione, ma dall’altra ha precisato che a causa dei molti pregiudizi che ci sono in materia vuole prima informare dettagliatamente l’opinione pubblica. Qualcuno sospetta, così, che potrebbe essere lui l’ostacolo più duro da superare, soprattutto per la sua propensione a volere cercare larghe intese con l’opposizione. Oltretutto, si dice che ai cancellati andranno sostanziosi indennizzi e che tra coloro che li percepiranno ci saranno anche quelli che stavano sulle torrette dei carri armati dell’esercito jugoslavo, che tentavano di bloccare l’indipendenza della Slovenia. L’idea è di presentare questo gruppo di persone come dei profittatori che ora si accingono a svuotare le tasche dei contribuenti. La vicenda è molto complessa. Da un lato si tratta di fare i conti con una macchia sul processo d’indipendenza slovena e dall’altra con l’azione di quei funzionari che, seguendo le direttive, misero in atto la cancellazione. Inviato di www.osservatoriobalcani.org
cultura
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Autori rimossi. Un protagonista emblematico del Novecento: prima ignorato dalle grandi case editrici e poi riscoperto dopo il suicidio del 1973
Lo scrittore rifiutato Guido Morselli, il narratore delle sconfitte, dalla Chiesa post-conciliare fino al Comunismo di Mario Bernardi Guardi ove va la Chiesa? Se lo chiedeva, a metà degli anni Sessanta, in Roma senza Papa, Guido Morselli, scrittore senza editori. Ed era una domanda giustificata perché sembrava che per i sacri palazzi corressero profani venticelli. Secolarizzazione, modernizzazione, teologia della “morte di Dio”, apertura senza freni ad un “dialogo” in cui era possibile avvertire, per usare un’espressione di Plinio Correa de Oliveira, il “trasbordo ideologico” operato dall’avversario; insofferenza per la Tradizione, le sue liturgie, la sua etica, il suo “stile”; enfasi posta sulla vocazione “umanitaria” piuttosto che sulla tensione spirituale e trascendentale: si trattava, per molti, di preoccupanti “segni dei tempi”, di sintomi di una decadenza che pareva inarrestabile, di manifestazioni sin troppo evidenti di una perdita di identità contro cui ogni reazione appariva destinata al fallimento.
D
Colpa del Concilio? In una lunga intervista a Vittorio Messori (Rapporto sulla fede, Edizioni Paoline, 1986), l’allora cardinale Joseph Ratzinger lo negò, precisando: «Siamo chiamati a ricostruire la Chiesa non “malgrado” ma “grazie” al Concilio vero. A questo (…) già durante le sedute e poi via via sempre più nel periodo successivo, si contrappose un sedicente “spirito del Concilio”che in realtà ne è un vero “anti-spirito”. Secondo questo pernicioso anti-spirito – Konzils-ungeist, per dirla in tedesco – tutto ciò che è “nuovo” (o presunto tale: quante antiche eresie sono riapparse in questi anni, presentate come novità!) sarebbe sempre e comunque migliore di ciò che c’è stato o c’è. E’ l’anti-spirito secondo il quale la storia della Chiesa sarebbe da far cominciare dal Vaticano II, visto come una specie di punto zero (…). Bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un
“prima”e di un “dopo”nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II, che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo. Non c’è una Chiesa “pre” o “post” conciliare: c’è una sola e unica Chiesa, che cammina verso il Signore, approfondendo sempre più e capendo sempre meglio il bagaglio di fede che Egli stesso le ha affidato». A rileggerle oggi, ci accorgiamo che le affermazioni di Ratzinger - forti del presupposto che «l’identità ferma è condizione dell’apertura» appaiono in piena sintonia con
vocazioni sincretistiche, flirt con ideologie progressiste e materialiste, scatenata «libido renovandi» sembrano cose lontane, rispetto ad altre minacce che attentano alla pallida identità geopolitica dell’Occidente a guida yankee. E tuttavia i problemi dell’«inquinamento» modernista sono tutt’altro che risolti: ragion per cui un romanzo di fantastoria e di fantareligione come Roma senza papa può aiutarci a non abbassare la guardia. Oltre che introdurci alla conoscenza di uno scrittore grande, originale, inquieto.
Già, Guido Morselli, scrittore postumo. Quando Adelphi, nel 1974, proprio con Roma senza
In «Roma senza Papa» raccontò, con toni tra paradossale e divertito, il travaglio del Vaticano assediato dalla modernità papa, iniziò la pubblicazione delle sue opere, era già morto da un anno. Si era ucciso a Vaun pontificato come quello di rese, il 31 luglio 1973, nella caGiovanni Paolo II che ha rilan- setta che si era fatto costruire ciato la Chiesa delle certezze e davanti alla grande villa paterdei fondamenti e con il percor- na, una splendida costruzione so che lui stesso, come Bene- liberty in via Limido. Suicida. detto XVI, traccia quotidiana- Un colpo di pistola (una Browmente con serena determina- ning militare, la celebre «razione. Per molti versi, dunque, gazza dall’occhio nero» nominata nei suoi romanzi), sparato di notte, nel bagno, seduto su una sedia Guido Morselli rappresenta la coscienza a sdraio di sporca della cultura letteraria italiana. tela. Perché Nato a Bologna nel 1912 da una famiglia si era ambenestante, inizia a scrivere negli anni mazzato? Trenta, dopo una serie di traversie familiaCerto c’erari. Di carattere schivo e introverso, gli anni no l’amarezdella guerra ne acuiscono la propensione za, l’esaspesolitaria. Le cose non migliorano quando i razione, la frustrasuoi libri comincia ad essere rifiutati da molti editori. zione devastante In particolare, Morselli patisce il diniego della casa provocate in lui editrice Einaudi che non gli pubblica il suo romanzo dai tanti “no” che più importante e impegnativo «Il comunista». Tutti gli gli erano stati opeditor continuano a rispondegli che i suoi libri sono inposti dagli editori: teressanti ma non hanno mercato. Quando, dopo il suii suoi romanzi eracidio nel 1973, Bompiani e Adelphi cominciano a pubno interessanti, gli blicare i suoi romanzi («Roma senza Papa», «Controper dicevano passato prossimo», «Divertimeno 1889», «Un dramma confortarlo, ricchi borghese»), l’attenzione critica è notevole. di estro e provocazione, ma “non an-
l’autore
Guido Morselli, nella foto piccola qui sotto, è stato uno dei casi più emblematici del mondo letterario italiano: prima rifuitato da molte case editrici, poi riscoperto dopo la tragica morte nel 1973. I disegni sono di Michelangelo Pace
davano”, pubblico e critica non li avrebbero capiti, non avrebbero avuto un mercato. Ora, “sentirsi”, “sapersi” scrittore, con convinzione e passione, e vedersi rifiutato era tragicamente paradossale e avrebbe spezzato i nervi anche a uno che li avesse avuti meno fragili di Guido. Lui era davvero una tormentata corda di violino. Pensava, creava ed era attratto dalla prospettiva della morte “liberatrice”. Da sempre. Ad esempio, nel suo Diario, in data 14 dicembre 1943, troviamo scritto: «C’è una specie di irregolarità illogica, o di logica assurda, nella mia vita, sul cui fondamento mi è dato fare previsioni sul mio futuro. Per esempio, so che la morte mi coglierà in un periodo di intensa attività spirituale». Ancora: «Tutto nella vita è inutile, se la morte è invincibile» (28 luglio 1967). Infine, «humane vivere necesse, vivere non necesse» (3 settembre 1967). E tuttavia quanta “attenzione”alla vita nel nostro disperato Guido! E alla storia, all’attualità, a quel che era stato, era o avrebbe potuto essere, nell’uomo e nella società. Uno sguardo acuto, curioso, implacabile. Scovava/ scavava: tutto alla luce, impietosamente, e più che mai ciò
che latitava sotterraneo, e che magari, da un momento all’altro, sarebbe esploso, dirompente. Una Roma senza papa: perché no?
Morselli scrisse la sua storia nel 1966, ma lo “scenario” è collocato alle soglie del 2000. Beh, che cosa è successo all’ombra del Cupolone? E cosa sta per succedere? Il romanzo è una cronaca stilata, diciamo così, dall’interno. Morselli, infatti, la fa redigere da un sensibile e diligente sacerdote svizzero, don Walter, venuto nell’Urbe per essere ricevuto in udienza dal Papa. Che si chiama Giovanni XXIV, è irlandese (il secondo straniero dopo il turco Libero I) e a Roma non abita più, visto che ha trasferito la sede apostolica dai palazzi del Vaticano a una sorta di complesso residenziale in quel di Zagarolo, a trenta chilometri dalla Capitale. Lasciando così orfani i romani che ne hanno perso sia in prestigio, sia in afflusso turistico, tanto da sfogarsi con le ritrovate pasquinate: «Ero quirite, ed or son congolese/ in omaggio all’usanza che ci impose/ chi da Roman passò Zagarolese». O, se sono più colti e meno passionalmente risentiti, descrivendo la dimora papale come un am-
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per la propria; è ribelle, scontroso e stravagante; alterna soprassalti di cordialità e socievolezza a ruinose cadute nella tetraggine. Non è bello, non è alto, ma è vigoroso, asciutto e tutto muscoli, veste con eleganza da dandy (quindi nessun esibizionismo pacchiano), e intriga le donne con quello sguardo un po’ così, mezzo scanzonato e mezzo inquietante. Inutile dire che con un tipo del genere, che ora sembra implorare una «corrispondenza d’amorosi sensi» e ora sembra chiudersi in invalicabili lontananze, non puoi crearci un rapporto stabile. Ma ti resta dentro tutta la vita. Da parte sua, Guido distilla sul Diario i suoi malesseri: «Innamorarsi di una donna non è difficile. Difficile è amarla» (29 dicembre 1943) e «Una donna può esserci necessaria, e non esserci sufficiente» (2 gennaio 1944).
biente asettico, dove ci sono più telescriventi che inginocchiatoi. I progressisti, però, sostengono che è bene così e che gli ostinati “quiriti” debbono abituarsi: finché era romano, il Papa non poteva essere cattolico nella pienezza del termine e bene ha fatto Giovanni a “slocalizzare”la sede pontificia, a disancorarla. Ma non è questo il solo disancoraggio da una Roma sempre più involgarita e svuotata di sacralità, anche se (o anche perché) percorsa in lungo e largo da schiere di teologi queruli, cicaleggianti, irriverenti, che di tutto discutono, su ogni cosa litigano, inalberando i più vistosi vessilli rivoluzionari. Del resto, di rivoluzioni ne sono già stata fatte tante: la Chiesa da tempo ha dato il placet alla pillola e al matrimonio dei preti, e lo stesso don Walter è sposato. Dunque, che cosa dobbiamo aspettarci ancora da un Papa, non solo “sfuggente” ma “fuggito”?
Morselli, vaticinante, scruta nel futuro, come del resto farà nel suo ultimo romanzo Dissipatio H.G. (ovvero «humani generis»), scritto nel 1972-73, e pubblicato nel 1977. Una storia, ironica e feroce, tessuta di sapienti metafore e intrecciata
con esperienze private e ricorrenti ossessioni , in cui un aspirante suicida si trova in un mondo dove l’uomo e scomparso. Anche qui, interrogativi a raffica: che cosa è diventata la Vita ritornata sotto il dominio della Natura? che ci fa un essere che pensa e che parla in quelle allucinate distese di silenzio? ha ancora un destino? e quale? Variazioni sul Tutto e sul Nulla su cui Morselli lavora con una intelligenza scintillante e disincantata, giocando con gli ammicchi e i sorrisi, così come con una intenerita, dilemmatica pietas. Che, ovviamente, ha a che fare con gli eterni «da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo», declinati attraverso il paradosso e lo sperpero allucinatorio. E che quindi sollecitano il lettore in maniera tutta speciale, facendogli crescere dentro uno sgomento da “non comunicabilità” esistenziale e metafisica, che largamente spiega come Morselli, ormai da anni scoperto e apprezzato dalla critica, resti uno scrittore difficile. Sempre, e al di là della piacevolezza e della fruibilità dei suoi intrecci nar-
rativi: difficili infatti sono le domande che ci pone, quelle stesse che lui si poneva. Fin da ragazzo. Di ottima famiglia: papà è un imprenditore farmaceutico; la mamma è figlia di un illustre avvocato, è affettuosa, gli vuole un gran bene. Ma muore nel 1924, quando lui ha solo dodici anni: uno strappo doloroso, di quelli che ti segnano. E il babbo non riempie il vuoto: è un tipo autoritario, che vorrebbe un figlio diligente e pratico, capace di costruirsi una solida, rispettata immagine alto-borghese. Ma Guido non ci pensa proprio. È intelligente, ma svoglia-
Finita la guerra (Guido è stato prima ufficiale degli Alpini e poi in fanteria, in Calabria, dall’aprile del 1943 al giugno del 1945, senza poter comunicare con la famiglia), gran ritorno a casa. Gli affetti - la sorella Maria, il fratello Mario, i nipoti - ci sono, e per Guido, a cui il padre, disperando di tirarne fuori un professionista, ha assegnato un vitalizio, costituiscono un bel punto d’appoggio. Anche perché non ha moglie, anzi è uno scapolo impenitente. Uno che non vuole vincoli e che, da orso, diserta le ricorrenze familiari e i cenoni natalizi quando tutti si ritrovano a festeggiare. Magari si fa sentire con una lettera affettuosa che attesta la sua partecipazione. Da lontano. Poi, appare all’improvviso ed è cordiale, scherza, ride, gioca con i nipoti. Sempre, però, con quell’ aria svagata e lontana. Anche quando fa chiasso come e più degli altri. «È un originale», dicono un po’ tutti. Originale da sempre. Eccentrico. Ama andare a cavallo, passeggiare in solitudine. Detesta viaggiare, ma è affascinato dalle carrozze ferroviarie in disuso. Gli piacciono la terra e i lavori manuali, coltiva alberi, fiori, frutta e verdura. Ed è fiero del vino che produce. «Non sono un filosofo» - si legge in una sua lettera a Calvino del 10 febbraio 1963 - «Sono agricoltore: vivo della campagna e in cam-
Nel «Comunista» analizzò un’altra «fede», stretta tra la burocrazia e le doppie verità, ormai lontana dalle utopie to; legge tanto ma a scuola si applica poco, e all’Università prenderà, sì, la sua bella laurea, in giurisprudenza, ma più per la soddisfazione di papà che
pagna (365 giorni l’anno, e tutt’al più mi spingo a Varese, a bordo della mia vecchia Ardea: una quattro-marce, si figuri!, che però va ancora benissimo e con cui non corro il pericolo di alienarmi). Il vino di mia pro-
duzione ha riscosso gli elogi della Scuola enologica di Alba». Di amici e amiche ne ha: ma chi può liberarlo dalla solitudine che si porta addosso? O forse è solo interiore differenza di rango, sentimento, anche lancinante, di non-appartenenza. Una scritta, appesa alla sua libreria, recita «Etiam omnes, ego non» (Tutti sì, io no): la frase-epitaffio, leggermente diversa («Etsi omnes, non ego»), è incisa, nel cimitero genovese di Staglieno, sulla tomba di Giuseppe Rensi, filosofo del pessimismo radicale, vissuto esule in Ticino e molto amato da Morselli. Pessimista perché incompreso e rifiutato dal mondo editoriale? Nella vita di ciascuno, come è noto, si mescolano umanissime motivazioni contingenti e ragioni che attingono al fondo più profondo. Valeva per Leopardi, recluso e poi escluso, vale per tanti altri, Morselli compreso. Restano intatte le suggestioni alte della sua fantasia, con i vorticosi balzi nel tempo che, ad esempio, afferrano la storia e la capovolgono costringendola a domande cruciali.
Ad esempio, cosa sarebbe avvenuto se gli Imperi Centrali, grazie alla folgorante Edelweiss Expedition, condotta dall’esercito absburgico nell’Italia settentrionale, e ad altre brillanti e rapide operazioni militari, fossero usciti vittoriosi dalla Prima guerra mondiale (Contro-passato prossimo, Adelphi, 1975)? Fantastiche ipotesi di lavoro che colpiscono e invitano alla riflessione. Analogamente, colpisce la capacità di anticipare il dibattito, allora tutto a venire, sul comunismo come slancio utopistico e macchina burocratico-oppressiva, dunque sui dogmi e le mistificazioni, i compromessi e le doppie e triple verità, le attese e le disillusioni, insomma su tutto ciò che coinvolgerà e travolgerà (o trasformerà) generazioni di militanti (Il comunista, del 1976 resta forse il suo romanzo più importante, sicuramente il più famoso, ancora oggi). E colpisce anche la straordinaria capacità di sondare nell’animo umano, nelle zone più segrete e delicate, dove sentimenti e sensi si aggrovigliano, fino a pericolose derive: è il caso di Un dramma borghese (1978) dove, nello scenario di due camere comunicanti in un albergo svizzero, padre e figlia, costretti entrambi a letto dalla malattia, vivono una contiguità morbosa, un rischioso, contorto viluppo affettivo, che solo un evento traumatico, forse, potrà risolvere. Grande scrittore da rileggere e da «soffrire» Morselli, con quel carico amaro che gli gravò addosso per la vita, con quel tremendo «Tutto è ugualmente inutile», con cui, il 6 novembre del 1959, sigillò una pagina (una giornata) del suo Diario.
cultura
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Mostre. Fino al 1 marzo, Torino celebra le opere d’arte del noto collezionista nell’esposizione “Dalla preistoria al futuro”
L’arte secondo Bischofberger di Stefano Bianchi
Alcune immagini delle opere collezionate da Bischofberger ed esposte, fino al 1 marzo, alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino. La mostra “Dalla preistoria al futuro”, propone 164 pezzi tra cui un dipinto dell’ottocentesco Bartholomäus Lämmler e un’ascia preistorica, da lui considerata la più antica forma estetica esistente
TORINO. Mucche svizzere pascolano in compagnia dei monti, bucolicamente delineati sullo sfondo. In fila indiana, riempiono l’Alpe con corteo alpestre, il dipinto dell’ottocentesco Bartholomäus Lämmler, padre della pittura dell’Appenzell. È il quadro preferito di Bruno Bischofberger, gallerista col fiuto per il “masterpiece”che la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino omaggia fino all’1 marzo con la mostra Dalla preistoria al futuro. Capolavori dalla collezione Bischofberger (catalogo Electa, 45 euro). Dal grande elvetico, classe 1940, che nel ’63 (ancora studente) inaugura la galleria d’arte a Zurigo presentando la sua collezione di Art Nouveau; nell’83 espone i Children’s Paintings di Andy Warhol appendendoli strategicamente ad altezza bimbo e l’anno successivo s’inventa le Collaborations fra Warhol, il graffitista Jean-Michel Basquiat e il transavanguardista Francesco Clemente (a proposito: ammirate la fondamentale Alba’s Breakfast), ci saremmo aspettati lodi per ben altri pezzi da novanta. Ad esempio, per quella ceramica dipinta da Lucio Fontana alla fine degli anni Cinquanta che da sola giustificherebbe qualunque collezione
coi fiocchi. Oppure, piacciano o meno, per i piccoli squali immersi nella formaldeide di Two Similar Swimming Forms in Endless Motion di Damien Hirst. E invece, scegliendo proprio quel dipinto “naïf”, Bischofberger ha voluto ribadire l’orgoglio delle proprie radici e ricordare suo padre, nato nell’Appenzell, scrupoloso collezionista d’arte sacra medievale.
gno. E poi, via via, esplorando antiquari sempre più prestigiosi. In realtà, il gusto proibito del “tarlo collezionistico” l’aveva sperimentato ben prima, a tre anni, raccogliendo francobolli postali, biglietti della linea tramviaria e piantine del collegio. Il tutto, pressato e ordinato in una serie di album. Scopriamo, allora, che il “talent scout”di Julian Schnabel, Fran-
Tra i 164 pezzi esposti, un dipinto dell’ottocentesco Bartholomäus Lämmler e un’ascia preistorica, da lui considerata la più antica forma estetica esistente Quelle mucche, quei contadini e quelle vette (con l’aggiunta delle pitture su vetro di Sandl, in Austria, che ispirarono Vasilij Kandinskij e Franz Marc) sono il sorprendente filo conduttore delle 164 opere d’arte popolare, moderna e contemporanea, nonché del design, della fotografia e dell’archeologia, raccolte in più di quarant’anni d’appassionate ricerche e ora proposte da Magnus Bischofberger, il più giovane dei suoi quattro figli.
Una piccola ma significativa parte del patrimonio che il mercante e storico dell’arte comincia ad assemblare quindicenne, girovagando da una baita all’altra, dove scova piccoli tesori folk come una mucca-giocattolo intagliata nel le-
cesco Clemente, Miquel Barcelò, Damien Hirst ed Enzo Cucchi ha un debole per l’archeologia (in mostra c’è un’ascia preistorica, da lui considerata la più antica forma estetica esistente). Che ama circondarsi dall’interior design maiuscolo: quello, per intenderci, che va dal mobile Correalist progettato nel ’42 da Friedrich Kiesler per la galleria newyorkese Art of this Century di Peggy Guggenheim, all’armadio di Giò Ponti e Piero
Fornasetti (’51); dall’accoppiata poltrona + tavolino firmati Jean Prouvé & Jacques André (’37), all’armadio primi Novecento di Adolf Loos. Che predilige i colpi d’occhio fotografici di Man Ray, Irving Penn e Richard Avedon, con particolare predilezione per gli scatti che “raccontano” l’evolversi della moda: vedi La donna con di cappello Dior e Martini (Irving Penn, ’52) e Charneaux Caslis (Man Ray, ’30), che accosta con audacia la Venere di Milo a un busto col reggiseno. Questo tripudio di preistorico e moderno, dimostra che collezionisti si nasce e non si diventa: «Il mio sguardo è capace di posarsi tanto sulla pittura dei valligiani dell’Ottocento, o sulle forme minimali delle asce preistoriche, quanto sul dipingere pop o postmoderno di un artista della metropoli contemporanea. O ancora, sul linguaggio provocatorio che regredisce ai
segni dell’infanzia. Nato, però, in un contesto evolutivo per lingua e tecnica».
Parola dell’instancabile Bruno, che nel ’65 organizza in galleria la prima collettiva d’arte Pop americana mettendo uno accanto all’altro Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg, Jim Dine, Tom Wesselman e Claes Oldenburg («Riuscii a vendere solo una serigrafia di Lichtenstein. Ad acquistarla per una cifra irrisoria fu Max Bill, animatore dell’astrattismo concreto. All’epoca, si pensava che la Pop Art fosse una faccenda da night club»); nel ’66 presenta la prima personale di Gerhard Richter al di fuori della Germania; poi dà lustro all’arte concettuale di Sol Lewitt, Dan Flavin, Joseph Kosuth e Bruce Nauman; sottolinea il genio creativo di Jean Tinguely, Daniel Spoerri, Yves Klein… Fra una mostra e l’altra, Bruno Bischofberger ha avuto tempo e modo di raccogliere tutto ciò che è bello (e materico, e artigianale) con l’aiuto della moglie Christina Clifton. Che è stata (ed è) complice d’incontri con artisti eccentrici, innumerevoli visite ai musei e (naturalmente) di questa sbalorditiva Wunderkammer.
spettacoli
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il nuovo fenomeno della scena soul-jazz londinese. Nata e cresciuta nella stessa atmosfera di Amy Whinehouse e Lily Allen. Con i suoi singoli Chaving Pavements e Hometown glory (2008) si è conquistata il titolo di prima artista femminile inglese del 2008, conferitole dalla stampa britannica e dalla Bbc. Grazie a un mix perfetto di doti canore capacità di songwriter e l’utilizzo di internet come principale mezzo di diffusione della sua musica, la diciannovenne Adele conquista le classifiche pop inglesi prima ancora dell’uscita del suo disco. Il 2009 è un anno pieno di sorprese per la giovanissima cantante, che dopo l’uscita di 19, il suo album d’esordio, parte per un tour intensissimo che le fa piantare bandiera in territorio americano e per la prima volta la porterà in Italia, a Milano per un concerto imperdibile il 7 Marzo del 2009.
È
Dopo il successo planetario di Back to black di Amy Whinehouse (a cui Adele è ripetutamente paragonata) 19 colloca Adele nei quartieri alti delle classifiche. Ma a differenza della moretta ribelle, dalla chioma folta e disordinata, piena di tatuaggi e voglia di trasgredire, Adele ha un aspetto genuino, pulito. Frangetta bionda e viso da brava ragazza. Una cantante egocentrica, compiaciuta ma anche estremamente semplice, non costruita e perfettamente a suo agio nella sua abbondante taglia 46. La sua voce flautata, morbida e calda intesse racconti che potrebbero trovarsi in un diario segreto di una diciottenne qualsiasi. Racconti di amori non corrisposti, gelosie o sentimenti tormentati. Incorniciati da un pop orchestrato, melodico e riflessivo. Abbandonati i ritmi energici rap-black della vulcanica Amy, Adele si veste di un pop più soft, suadente, melodico, a tratti malinconico. E tra gli ingredienti del disco non manca un pizzico di sofferenza espressa da un pianoforte e dei violini mai troppo ingombranti. I singoli Chasing Pavements (che racconta della rottura con un vecchio amore) e Hometown glory (un recital soul per piano e violino) rappresentano perfettamente lo spirito dell’intero disco. Non stupisce il fatto che Mark Ronson (nome di grido della scena inglese e già produttore di Amy Winehouse, nonché compagno di Adele al momento) si sia lasciato incuriosire dalla giovane ragazza tanto da collaborare con lei nella canzone Cold shoulder, che è infatti il brano più vicino al genere funky di tut-
Musica. Il fenomeno soul del momento approda a Milano e presenta “19”
Si chiama Adele la nuova Winehouse di Valentina Gerace to il disco, con un arrangiamento molto simile a Back to black della Winehouse. Mentre in Crazy for you i ritmi si fanno più lenti e avvolgenti, in canzo-
ni come My same l’orientamento è più pop, ma il filo rosso che unisce ogni brano è quello del lento riflettere, dell’introspezione, della calma.
Anche i testi, tutti firmati dalla Adkins (eccetto le tre cover di Bob Dylan, Sam Cooke e Etta James) sembrano essere frutto di un lungo pensare. Daydrea-
Il disco incanta per l’interpretazione di racconti di amori non corrisposti, gelosie o sentimenti tormentati. Incorniciati, come fossero scritti in un diario segreto di un’adolescente, da un pop dolce, orchestrato, melodico e riflessivo La Bbc l’ha già incoronata neoreginetta del jazz e del soul londinese, paragonandola al fenomeno contemporaneo Amy Winehouse. In vetta alle classifiche col nuovo album “19”, Adele approderà a Milano il prossimo 7 marzo per un concerto che sa già di “tutto esaurito”
mer parla di un amico alle prese con la sua bisessualità e First love torna a trattare dell’amore e di tutte le sensazioni che gravitano intorno all’essere innamorati. Mentre Tired è un upbeat su fondali lounge guarnito dal tappeto strumentale dei violini. La sua voce soul si veste di acustico e folk grazie ai preziosi e ricchi arrangiamenti del chitarrista Ben Thomas, il bassista Tom Driessler, il batterista Donavan Hepburn e il tastierista Miles Robertson che la aiutano a rendere ogni brano una perla del pop. Tutti i brani sono permeati da una scrittura fresca e diretta, segno evidente come Adele abbia nelle sue corde un songwriting di tutto rispetto votato non solo al pop ma anche alla comunicatività. L’ascesa di Adele Adkins comincia per caso su internet. Come tanti suoi coetanei, la giovane appassionata di canto crea un suo blog su Myspace e inserisce due canzoni scritte da lei, Hometown Glory e Chasing Pavements. I due singoli vengono subito notati e apprezzati dai talent scout della casa discografica XL Recording che mettono sotto contratto la star londinese. Ma non è solo il tam tam “internauta”che le regala la fama. Adele si dedica totalmente alla musica da quando ha soli dieci anni. Inizia ad apprezzare la musica black e R&B diventando fan accanita delle Destiny’s Child e Faith Evans. Ma quello che la fa veramente sognare sono le voci straordinarie di vocalist come Eva Cassidy, Etta James, Ella Fitzgerald, Carole King, Roberta Flack, Cyndi Lauper. A soli tredici anni Adele accede alla famosissima e prestigiosa Brits School of Performing Arts di Croydon, frequentando le stesse aule di altre studentesse in odore di successo, tra cui Amy Winehouse e Kate Nash.
Nel 2006, dopo il diploma, quasi per gioco Adele mette online i suoi due singoli. Viene invitata a vari spettacoli televisivi e radiofonici, e definita la nuova struggente Janis Joplin del momento. Raggiungendo la fama ancor prima di aver inciso il suo disco ufficiale. In qualche intervista Adele ha accennato tra il serio e l’ironico di voler formare una band unendo le più grandi voci femminili del momento: Amy Winehouse, Lily Allen, Kate Nash, Remi Nicole e Laura Marlin. Pur ammettendo di sentirsi lontana dal rock ribelle della “sorella” Amy e di preferire un pop più soft e delicato. Non è detto che questo non avvenga. E sarebbe certamente un successo da non perdere.
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dal ”New York Times” del 03/02/2009
Le urne irachene battono Teheran di John Bolton a vittoria delle elezioni amministrative in Iraq, è una sconfitta per l’Iran. Il turno elettorale che si è svolto in maniera pacifica, la scorsa settimana, è stato un grande successo per l’Iraq e per gli Stati Uniti, anche se non c’è stata una grande copertura mediatica sull’evento. Questo appuntamento con le urne servirà anche per ridefinire il ruolo di Teheran a livello regionale. I critici della guerra irachena affermano che la caduta di Saddam Hussein, nel 2003, abbia rafforzato la posizione iraniana. Se avessimo lasciato Saddam al potere, sostiene questa corrente di pensiero, l’Iran oggi non sarebbe una minaccia globale. È una tesi assolutamente sbagliata. Ben prima che l’America cacciasse Saddam, Teheran sosteneva le organizzazioni terroristiche come Hezbollah in Libano e Hamas, a Gaza e nel West Bank. Cercando di conquistare l’egemonia politica in Paesi come Siria e Libano ed era da lungo tempo nei suoi piani segreti la costruzione di testate nucleari che avrebbero armato i missili strategici. Dopo l’arresto del dittatore iracheno e la sua condanna a morte, l’Iran ha certamente aumentato la presa e gli sforzi per metter il proprio marchio sulla comunità sciita in Iraq.
L
Il successo di queste elezioni creerà sicuramente dei problemi, ritardando il progetto iraniano. Hussein giustificava il suo regime – e la politica di acquisizione di armi di distruzione di massa - in nome della guerra contro l’Iran per proteggere il mondo arabo. Le critiche che vengono da Occidente, sulla defenestrazione di Saddam, non fanno che ripetere a pappagallo le tesi di un tiranno.
Sicuramente un altro governo iracheno avrebbe sostenuto la causa araba, senza invadere il Kuwait e neppure usando armi chimiche contro propri cittadini. Le elezioni provinciali irachene stanno realmente indebolendo l’azione dell’Iran. Primo, perché non sono state interamente dominate dal voto degli sciiti. Dopo aver sostanzialmente boicottato le elezioni politiche del 2005, i sunniti hanno votato in gran numero, sabato scorso. Molti di loro hanno capito quanto la loro assenza elettorale sia stato un errore.
Se dovessero dar seguito a questa tendenza, anche durante la tornata politica in programma a fine anno, allora il quadro politico, nel futuro Parlamento iracheno, ne uscirebbe sostanzialmente cambiato. Inoltre è improbabile pensare che l’Iran regga la “mala parata”tra gli sciiti iracheni. Come vorrebbe invece una visione che da troppo credito alla propaganda iraniana e troppo poco al buon senso degli sciiti. Ora dovranno decidere se sia meglio prendere ordini dai mullah di Teheran o eleggere direttamente i propri rappresentanti a Baghdad. A dispetto del successo di questo ricorso al voto amministrativo, non necessariamente la violenza di origine religiosa ed etnica avrà termine. Le elezioni non porranno fine neanche alle ambizioni dell’Iran. L’impressione è che a Teheran siano convinti che la loro influenza nella regione stia crescendo e che, sia gli Stati vicini che l’America abbiano fallito nel perseguire la loro politica di conte-
nimento. Una convinzione che non sorprende, visto l’approccio dialogante che ha assunto la nuova amministrazione di Obama. Tuttavia, le elezioni potrebbero impressionare profondamente l’opinione pubblica iraniana e quella del suo Paese vassallo, la Siria. I giovani iraniani, ben educati e dall’approccio sofisticato, stanchi dell’ortodossia religiosa e dei fallimenti in campo economico della rivoluzione khomeinista del 1979, potrebbero trarre delle conclusioni, di fronte al processo pacifico e democratico avvenuto in Iraq.
Ci sarà sicuramente del disagio, da parte di alcuni appartenenti alla sinistra americana, nell’ammettere che il «surge» (la politica militare Usa del gen. Petraeus in Iraq, ndr) continui a funzionare, da un punto di vista sia politico che militare. Per l’amministrazione di Barack Obama sembra sia giunto il momento di ammettere ciò che veramente significano quelle dita intinte nell’inchiostro viola (è il modo in cui si attesta l’avvenuta votazione, ndr): un trionfo per la democrazia.
L’IMMAGINE
Sarebbe bello avere una lista unica per tutte le componenti del Ppe Capisco male la “giustezza”di uno sbarramento per il Parlamento europeo. Lo vedo anzi come un impoverimento e una limitazione al dibattito, utile solo ad un assediato Veltroni che, pur di evitare una possibile figuraccia a giugno, di patti Faustiani ne farebbe non so quanti. Anche il Cavaliere ci spizzicherebbe un po’, ma è talmente in vantaggio... Io ho, però, da uomo “liberal-popolare”, un’aspirazione: riuscire ad avere una lista unica per tutte le componenti del Ppe. Non credo ragionevole andare divisi cercando motivazioni da “spacco il capello in quattro”e ho letto con piacere quanto scritto da Irene Trentin nell’intervista a Mario Mauro del 31 gennaio.Viene da pensare che eventuali ostacoli potrebbero essere più di natura personale che altro, a meno che non ci siano sotterranee guerre di potere disonorevoli per chi aspiri al governo del Paese. Oggi vorrei essere un mattone per ricostruire un’amicizia che prescinda dal Premier; questi, si sa, vanno e vengono, le affinità culturali e storiche che portano a sognare le stesse cose restano.
Dino Mazzoleni
NON OCCORRE ESSERE ADAM SMITH
DI PIETRO NON È UNO SPROVVEDUTO
Se guardiamo il Tg3 Rai dovremmo decidere tutti di tagliare ogni spesa superflua come sigarette, caffè al bar, cinema, teatro, perché spaventati da una crisi economica che le tv di sinistra cercano di accreditare come sconvolgente, tragica e inarrestabile. Non occorre essere un Adam Smith per sapere che se chi può mantenere le stesse abitudini di spesa, contribuisce a sostenere l’economia e quindi anche l’occupazione. Al contrario, spaventando tutti i consumatori, altro non si fa che aggravare la crisi. Quando metteranno giudizio i lavoratori che votano ancora per questa sinistra affamata di potere per il potere?
Di Di Pietro si può pensare tutto fuorché sia uno sprovveduto. Egli ha modificato la politica italiana da magistrato, pensa di avere un destino per guidarla. A danno soprattutto del Pd e di Veltroni, che ha commesso l’imprudenza di introdurre la volpe nel pollaio concedendo all’Italia dei Valori l’apparentamento a sinistra.
R. Alibeni
Lettera firmata
AMBIENTALISMO E PORTAFOGLIO Auto ecologiche ce ne sono già in vendita. Ma chi le compra? Ho parenti e amici verdi fin sopra i capelli ma seguitano a scorazzare su e giù a bordo di automobili col motore a scoppio, non elettrico o ad altra energia alternativa.
Cameriere, ho una larva nel piatto! C’è chi guardando questa larva d’ortottero si lecca i baffi. E la pregusta bollita, ripiena o intinta nel cioccolato. Non stiamo parlando di un cuoco cinese o africano ma di un insospettabile chef belga, che alla cucina di questi e altri animaletti ha dedicato anche un libro di ricette. Prelibatezze come bignè di grilli e cavallette fritte spopolano già sui tavoli di feste e pranzi di nozze
E questa perché l’ambientalismo è una gran bella cosa ma lo è anche il portafogli e le automobili ecologicamente corrette costano un occhio della testa.
Nicoletta Parini
L’ANNO (GIUDIZIARIO) CHE VERRÀ Non solo i processi in Italia sono troppo lenti, ma una volta giunti
al verdetto, dopo svariati anni, rendere esecutivo l’atto non è sempre una cosa diretta e rapida. Ogni volta che si apre l’anno giudiziario la cosa viene ripetuta dagli addetti ai lavori, e poi viene puntualmente disattesa, insieme a tutti i problemi che vertono la giustizia. A questo punto, e con stretto riferimento alla questione
delle intercettazioni, le parole del ministro Angelino Alfano: «smetterla con gogne mediatiche», sono opportune, perché anche un buon provvedimento nella sua esagerazione può portare all’oppressione del cittadino ed alla confusione nella certezza del discernere.
Bruno Russo
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Ti chiamo Idea, perché sei un ideale Il tuo ultimo ritratto è un assurdo. Io lo guardo e mi pari un’altra; è scomparsa quella luce di verità che illumina la tua fronte di scuola mistica; i tuoi occhi dicono al rovescio di quel che tu dici; la tua bocca mente, la tua posa è comica; il fotografo fu un ladro, t’ha rubato il morale. Se tu non ti fai rifare, io questo non lo guardo più, lo suggello e chi s’è visto s’è visto. Io ti guarderò dentro la camera oscura della mia immaginazione. Là troverò la mia I..., anzi la mia Idea, buona, semplice, schietta; ora lieta, ora mesta secondo la nuvola che passa; intelligente, fina che sa più di quel che non sa di sapere; artista nell’anima, fanciulla e donna a un tempo; ti troverò là e mi basta. Sfido tutti i ritrattisti della terra, da Tiziano a Rembrandt, a farmiti uguale.A Recoaro ti dissi Ida; dacché fosti a Firenze ti chiamo Idea, perché sei un ideale. E i poveri poeti se ne intendono, sai, d’ideale. Guai se non ne avessero uno, il loro canto somiglierebbe allora a quello della raganella! Io pover’uomo non canto più: sfando nella prosa; ma nell’intimo del mio cuore, in un luogo recondito che niuno conosce, tengo questa fiammella dell’ideale, e, come posso, l’alimento, perché senza esso la mia anima sarebbe spenta; e finché lo serberò, so che vivrò di non ignobil vita. Aleardo Aleardi a Ida F.
ACCADDE OGGI
TRE PASSI NEL DELIRIO Se consideriamo le due principali vie storiche che da Lucca si addentrano nella Valle del Serchio, possiamo parafrasare il titolo del celebre film Tre passi nel delirio. E non solo per l’infinita serie di lavori in corso di durata biblica che ricordano il famoso galeone di Dylan Dog ma per tutta una serie di eventi che vado a illustrare. Partiamo da Lucca e subito a San Pietro a Vico troviamo quello che era il più grande molino d’Europa: fermo da decenni e inizia pure a perdere pezzi che cadono nei piazzali sottostanti. Ancora pochi chilometri e notiamo nella cartellonistica la sparizione di Ponte a Moriano, sostituito da indicazioni del tutto sballate delle frazioni vicine. Lungo le due strade si snoda anche la storica ferrovia, mai elettrificata e ad un solo binario. Molte sono le stazioni definitivamente chiuse, e perché poi? Da Lucca a Castelnuovo ci si metteva lo stesso tempo 30 anni fa e le carrozze erano più pulite. Stazioni abbandonate, lasciate al degrado e oggi in parte restaurate, ma alcune senza che il treno si fermi e le altre senza biglietteria e capostazione. E dopo Ponte a Moriano troviamo la famosa strettoia ove tutti i pendolari s’incolonnano. Una chicca la scopriamo al Piaggione con un semaforo assurdo, kafkiano, piovuto lì o per caso o per un salto dimensionale, del quale non si capisce il motivo della sua esistenza. E arriviamo ai fantasiosi limiti di velocità, sui quali voglio spendere due parole: il codice della strada non viene utilizzato dalle amministra-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
4 febbraio ,1969 Yasser Arafat assume la presidenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina 1970 Inizia la costruzione della città di Pripyat, in Ucraina, che 16 anni dopo verrà evacuata per il disastro di Chernobyl 1974 L’esercito di liberazione simbionese rapisce Patricia Hearst a Berkeley 1976 Guatemala e Honduras sconvolti da un terremoto: 22 mila morti 1980 L’ayatollah Khomeini nomina Abolhassan Banisadr presidente dell’Iran 1985 Gli U2 tengono il loro primo concerto in Italia 1991 I Queen rilasciano Innuendo, l’ultimo album prima della morte di Freddie Mercury 1997 O. J. Simpson viene trovato perseguibile civilmente per la morte di Nicole Brown Simpson e Ronald Goldman 1988 Un terremoto di magnitudo 6,1 della Scala Richter nell’Afghanistan settentrionale uccide più di 5.000 persone 1999 Hugo Chávez viene eletto presidente del Venezuela
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
zioni per prevenire gli incidenti e razionalizzare il traffico, ma per rimpinguare le casse comunali con tasse improprie e illegittime ricavate da multe per divieti di sosta e dagli autovelox. Tagliasacchi, anni addietro, tirò fuori un’idea semplice ma geniale: finirla coi limiti di velocità fantasiosi e mettere sull’intero percorso delle due strade il limite di 70 km l’ora. Ma questa era una proposta intelligente, pertanto come costume delle nostre amministrazioni, è stata accantonata. Proseguendo sulle due vie troviamo i cartelli che “l’inceneritore per i fanghi di cartiera proprio lì non si vuole”: il puzzo comunque c’è attorno all’Alce di Fornoli e alla Cartiera Ania, e non all’impianto di bricchettaggio a Zinepri che secondo gli ambientalisti doveva far scappare tutti turandosi il naso. Così si arriva a Diecimo e a Borgo a Mozzano, ove geniali amministratori hanno scambiato le due circonvallazioni per lo scorrimento veloce, per assi di sviluppo urbanistico, così adesso occorrerebbero altre due circonvallazioni. E arriviamo al ponte Al Chitarrino che non si capisce a chi e a che cosa serva e poi alla località Al Frascone, che era bellissima e oggi ferve di lavori per trasformarla in un contenitore di capannoni industriali. Ma il meglio deve ancora venire, parlo della variante di San Donnino, che in piena follia il Partito democratico ha adottato in proprio, con manifesti e inserti pubblicitari sui giornali che reclamavano questa opera, come se fosse cosa loro. Roba da matti!
Vittorio Baccelli – Lucca
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
LA VERA NATURA DELL’ATTUALE CRISI ECONOMICA (2) Che farebbe l’Ue se la Russia occupasse i paesi dell’Est ancora non Nato?Se si aprisse lo scenario della “soluzione finale” nel Medio Oriente, e quindi uno scontro tra paesi moderati e non, che farebbe l’Ue? Se il Venezuela fosse dotato dai Russi di missili a lunga gittata e armi nucleari, che succederebbe nelle Americhe? Gli Usa non starebbero a guardare. Di fronte a questi scenari, che cosa si poteva fare in termini preventivi? Pensiamo alle elezioni americane. L’alternativa ad Obama, sarebbe stato comunque un eroe del Vietnam. L’esercito americano è fondamentalmente composto da ispanici e neri e comunque dalle classi sociali più basse. Di fronte a queste sfide militari solo un americano di colore o un eroe di guerra possono essere in grado di guidare un popolo verso i sacrifici necessari, anche purtroppo in termini di vite umane. Non basta un Colin Powell di colore di turno. Andatevi a rileggere il discorso della First Lady il giorno prima dell’insediamento. Era un intervento che poteva benissimo essere letto da una First Lady nel 1942. Ha concluso invitando i bambini americani a scrivere lettere ai soldati... Il tentativo quindi ora è quello di evitare il peggio, dando segnali sia di determinazione che di dialogo, destabilizzando l’economia e di conseguenza la politica di quei Paesi, affinché cambi. Infatti il loro principale sostegno è l’energia e sotto i 70/75 $ al barile, causa una violenta frenata economica globale, avendo investito in morte e non in vita, le precedenti risorse sono in crisi. La crisi finanziaria può avere allora forti motivazioni geopolitiche, e dall’evolversi di queste avremo l’evolversi della congiuntura economica. In questi giorni la Russia ha riattivato la forma del baratto per l’approvvigionamento alimentare e ha sospeso il dispiegamento di missili Iskander a Kaliningrad a causa del cambiamento nella politica missilistica Usa in Europa. «L’implementazione di questi piani è stata bloccata visto che la nuova amministrazione Usa non ha intenzione di affrettarsi a portare avanti i progetti di dispiegamento» dello scudo spaziale in Europa dell’Est, si legge su Interfax. Un modo per salvarsi la faccia, che significa tuttavia una diminuzione delle spese militari. Ma senza un cambio di chi comanda e dello loro idee sarebbe solo temporanea. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
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PAGINAVENTIQUATTRO Mode. Dall’Iraq alla Cina, si diffonde in tutto il mondo una forma di protesta inedita. Inaugurata da Krusciov
Fenomenologia della di Angelo Crespi difficile tentare una fenomenologia della scarpa in politica, benché oggi il rito del lancio della scarpa sostituisca ben più rodati e antichi mezzi di protesta. Heidegger aveva provato a lavorare filosoficamente su un paio di scarpe nel tentativo di spiegare l’arte sua contemporanea. Nel mitico saggio L’origine dell’opera d’arte, compreso nel citatissimo volume degli Holzwege (I sentieri interrotti), buona parte della sua riflessione era mossa da un quadro di Van Gogh in cui erano raffigurate appunto un paio di scalcinate calzature contadine. Heidegger, nel suo oscuro linguaggio, traeva l’idea che attraverso l’opera d’arte l’essere delle scarpe ci si mostra per la prima volta come neppure le scarpe stesse sapevano d’essere, essendo il quadro di van Gogh «l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è in verità. Questo ente si presenta nel non-nascondimento del suo essere. Il non-esser-nascosto dell’ente è ciò che i Greci chiamano» verità.
Saddam Hussein; in Thailandia, i dipendenti della compagnia statale di telefonia Tot hanno fatto lo stesso bersagliando il premier Somchai Wongsawat; infine a Budapest estremisti di destra durante una manifestazione hanno colpito con le scarpe, immaginiamo non possedendo lacrimogeni o altri prodotti urticanti, gli agenti che li scortavano.
È
E qui ci fermiamo, anche perché non siamo sicuri che lo studente di Cambridge, pur essendo allievo di rinomato ateneo, intendesse riproporre l’heideggeriana questione dello svelamento dell’essere, quando l’altrieri ha tirato una scarpa al primo ministro di cinese, Wen Jiabao, in visita ufficiale in Gran Bretagna, al grido di «è uno scandalo, come
può questa università prostrarsi di fronte a questo dittatore?». E crediamo che neppure il giornalista iracheno che in dicembre scagliò uguale giavellotto contro l’allora presidente statunitense George W. Bush in visita a Baghdad fosse un seguace di Avicenna alle prese col parricidio platonico dell’ente. Più interessante cercare di capire perché la scarpa sia entrata di prepotenza sulla scena politica. L’Italia dei Valori poco dopo Natale aveva infatti promosso lo Scarpaday nella persona, omen-nomen, del senatore Pedica, deponendo simbolicamente un mocassino usato, con fiocco natalizio, dinanzi a Palazzo Chigi, per dimostrare contro il governo, reo di non aver difeso gli italiani dalla crisi. Nel gesto, forse memori di quanto rumore fece nell’ottobre del 1960, l’allora leader comunista Leonida Krusciov che si sfilò il mocassino e lo battè rumorosamente sul tavolo durante l’Assemblea generale dell’Onu conquistandosi fama imperitura. Krusciov raccontò si era ispirato dal modo in cui esponenti so-
È pur vero che nel mondo musulmano la scarpa è un oggetto impuro, che mostrare le suole è un insulto, che nelle moschee c’è l’obbligo di togliersi i calzari, e che anche da noi l’estrema ratio quando si insegue qualcuno, tipo nelle comiche, è lanciargli dietro una scarpa. Ma questo non basta a spiegare questa nouvelle vaugue. La scarpa da sempre è un feticcio in Occidente. Forse perché separa l’uomo dalla terra e lo fa simile a Dio. Forse perché è uno strumento di potere; e ha ragione lo scrittore Massimiliano Parente quando arguisce che i tacchi sono l’estremo simbolo del feticismo, traslato ora al mondo femminile, proprio perché nel Settecento solo gli ari-
SCARPA
cialisti avevano contestato il rappresentante spagnolo nel corso di una discussione sulla dittatura franchista. In Italia, si parva licet, ci riprovò nel 2007 Maurizio Sacconi, oggi ministro, che a Palazzo Madama usò la scarpa per protestare contro il presidente del Senato, Franco Marini, che non dava spazio agli interventi di Forza Italia.
Ma tanto per citare, gli iracheni, una volta liberati, presero a scarpate le statue di
stocratici potevano permetterseli e in bilico su di essi dominavano le classi povere, pronte ad innamorarsi nella più classica sindrome di Stoccolma del proprio carnefice. Chissà. Ma come ben sintetizza Karl Krauss: «Sotto il sole non c’è essere più infelice del feticista che brama una scarpa da donna e deve contentarsi di una femmina intera». Così in politica: qualcuno ha il potere, quelli logorati che non l’hanno si difendono con le scarpe.