ISSN 1827-8817 90205
Anche nel dolore
di e h c a n cro
v’è un certo decoro, e lo deve serbare chi è saggio
9 771827 881004
Lucio Anneo Seneca
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Richiesta l’autorizzazione a procedere per il padre Tonino, arrestato il figlio Giampaolo
Di Pietro attacca ancora Napolitano
Angelucci’s story, il nuovo modello di famiglia in Rete di Marco Palombi
«Il presidente della Repubblica non deve firmare il decreto sulle intercettazioni». L’ex magistrato torna ad attaccare il Colle.
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di Guglielmo Malagodi a pagina 6
Il governo annuncia il piano per le imprese
Ma gli aiuti non bastano senza riforme di Gianfranco Polillo orse alla fine le misure a sostegno dell’industria (automobili, scooter, elettrodomestici e mobili) saranno inevitabili. Troppe le pressioni che si scaricano sul governo nell’imminenza di una tornata elettorale, che potrebbe riservare qualche sorpresa. Ma saranno anche utili, ossia in grado di attenuare la morsa della crisi, questi tanto anelati aiuti? Il solo comparto dell’auto, con il suo indotto, vale qualcosa coma 5 o 6 punti di Pil. Ma questa semplice constatazione può tradursi, senza ulteriori qualificazioni, in una linea di politica industriale? L’Europa guarda all’America e ne scimmiotta le misure. Compresa quella della clausola “buy american”, che i francesi vorrebbero tradurre nella loro lingua. Ma i casi non sono identici. Oltre Atlantico l’aiuto all’industria automobilistica presuppone un grande disegno di riconversione industriale: cambiamento dei modelli, rinuncia al gigantismo che era tipico delle vecchie automobili fino ad oggi costruite, risparmio nei consumi e nelle emissioni. Insomma: il passaggio dal modo di produrre americano a quello europeo. Sotto questo profilo l’accordo Fiat-Crysler ha un significato simbolico, che va anche oltre i confini del semplice business. L’Europa è attestata da sempre su questa seconda sponda. Certo, il parco auto non è nelle migliori condizioni, ma siamo, comunque, in una dimensione ben più ridotta. E allora perché? Una possibile spiegazione si racchiude in una semplice parola: concorrenza. Se la Francia e la Germania interverranno, l’Italia non potrà restare alla finestra. Rimanendo con le mani in mano, accetterebbe supinamente un cambiamento delle regole di mercato a suo sfavore. Molto, quindi, dipenderà dalle decisioni della Commissione europea, che non ha esitato a manifestare le sue perplessità sul tentativo francese di proteggere la propria produzione nazionale. Ma al di fuori di questa prospettiva, le fughe solitarie rischiano di servire a poco. Specie nella situazione italiana.
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onino a Senigallia è di casa. Lo conoscono in parecchi da quando, negli anni Settanta, cominciò ad andarci in vacanza tutte le estati per via di un amico conosciuto sotto le armi.Ti raccontano di quella volta che, arrivato con la moglie e i tre figli sulla sua Fiat 127, finite le ferie se ne tornò a Roma di notte perché non aveva i soldi per pagare l’affitto. Poi, lo sanno tutti, Tonino ha fatto i soldi, un sacco di soldi, ma nella cittadina in provincia di Ancona è rimasto di casa: ha comprato una bella villa, l’ha rimessa a nuovo e quando gli serve qualcosa – il carrozziere, il marmista, qualcuno che ristrutturi una delle sue cliniche – è quasi sempre là che si rivolge.Tonino è Antonio Angelucci, proprietario di un colosso della sanità, editore e, da ultimo, deputato del Pdl.
VIAGGIO NEL MONDO DELLE VITE DIMENTICATE
2500 volte Eluana
se g ue a p ag i na 8
La Santa Sede: «Williamson ritratti tutto»
SPECIALE
È’ il numero delle persone che in Italia vivono in stato vegetativo. Una realtà mai raccontata. Che dimostra, meglio di qualunque filosofia, l’assurdità della tragedia che si sta consumando a Udine
alle pagine 2 e3 da pagina 12
Una nota della Segreteria di Stato chiarisce i dubbi sulle posizioni vaticane sul negazionismo del vescovo lefebvriano: «Ritiri tutto»
di Faccioli Pintozzi a pagina 7
Un saggio sul rapporto uomo-donna
Apologia del matrimonio di Michael Novak l brillante filosofo laico dell’Ebraismo, Dennis Prager, ha scritto un lucido testo sulla distinzione assoluta dell’Ebraismo fra tutti i paesi del suo tempo nella sua comprensione della sessualità umana. Prager scrive: «Potenzialmente gli dei di tutte le civiltà hanno avuto relazioni sessuali. Nel vicino Oriente, il dio babilonese Ishtar sedusse un uomo, Gilgamesh, un eroe babilonese. Nella religione egiziana, il dio Osiride ebbe rapporti sessuali con sua sorella, la dea Iside e da questa unione nacque poi il Dio Horus. A Canaan, El, il dio supremo, ebbe rapporti sessuali con Asherah. Secondo la credenza Indù, il dio Krishna era attivo sessualmente, ebbe infatti molte mogli e andava dietro a Radha; il dio Samba, figlio di Krishna, sedusse uomini e donne mortali».
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se gu e a p ag in a 4
GIOVEDÌ 5 FEBBRAIO 2009 • EURO 1,00 (10,00
s e gu e a pa gi n a 1 2 CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
25 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Casi sommersi. L’avvocato Alfredo Granata dell’associazione “Vi.Ve” ci aiuta a ricostruire un primo elenco di «inabili gravissimi»
Il silenzio degli indifesi
Viaggio nelle vite (finora dimenticate) delle persone in stato vegetativo: sono 2.500 e la loro realtà spiega perché Eluana deve vivere di Gabriella Mecucci uardi che noi siamo arrivati ad Eluana occupandoci delle altre persone che si trovano in stato vegetativo. Sono oltre 2.500, forse 3.000. Il calcolo è difficile anche perché molti di questi, soprattutto al Sud vivono in famiglia. E poi ci sono quelli che non sono in stato vegetativo in senso stretto, ma che sono cerebrolesi gravissimi. Se contiamo anche questi andiamo oltre i 10.000. Dopo il processo Englaro e dopo la sentenza definitiva, ci domandiamo: chi tutela questa gente? Per questo è indispensabile che si faccia subito una legge». L’avvocato Alfredo Granata denuncia così, con accenti drammatici, i rischi che ora corrono migliaia di persone che «non sono dei cavoli, ma individui vivi, non sono malati, sono inabili gravissimi». Alfredo Granata, insieme a Rosaria
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Granata: «Serve una legge che intervenga subito. Dopo la sentenza Englaro, sono migliaia le persone in pericolo» Elefante, rappresenta le associazioni che vanno sotto la sigla Vi.Ve (Vite vegetative).
Chi sono dunque questi sconosciuti senza parola? E perché sono in pericolo? L’avvocato Granada ci aiuta a ricostruire un primo elenco, anche se parziale. Ci sono quelli che stanno in apposite case di cura specializzate, luoghi dove i genitori li vanno trovare, dove vengono nutriti. A Roma c’è la Casa “Iride”, nata per volontà del sindaco Veltroni che ne ospita parecchi. Poi ci sono le persone in stato vegetativo che vivono a casa, assistiti dalla famiglia. Di questi molti stanno al Sud. «Le mamme – racconta Granata – li nutrono frullando i cibi. Per esempio: cuociono la pasta, la frullano e la fanno passare attraverso il sondino. Questa è una cosa impossibile da realizzare in una struttura pubblica, ma che in alcune realtà famigliari accade». Ci sono, conti-
Il relatore della legge in discussione alla Commissione Sanità del Senato
Testamento biologico, vi spiego la mia idea di Raffaele Calabrò ualcuno ha definito il testo di legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita, di cui sono relatore, incaricato dalla Commissione Sanità del Senato, «una buona sintesi che coniuga difesa della vita e libertà della persona»; qualcuno invece l’ha reputato «un passo indietro di quarant’anni»; e qualcun altro ancora l’ha tacciato «inutile, carta straccia» perché contrario all’eutanasia (non riesco a definire diversamente la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale). Divergenza di opinioni, fisiologica e ottimale in un paese democratico costruito sul valore della libertà.
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Ecco, appunto: la libertà. Lo scontro intorno al testamento biologico è tra coloro che si fanno portatori di un concetto di libertà assoluta e coloro che, come me, credono fermamente nei principi morali sui quali la libertà deve fondarsi. Consentire ad una persona di poter scegliere anche della propria morte e favorirne l’esito non vuol dire essere fautori della libertà, ma solo del libero arbitrio. Pensare che la vita non è qualcosa di cui disponiamo è un concetto essenzialmente laico, radicato profondamente nelle coscienze, che appartiene a tutte le culture e a tutte le società. Lo sa bene anche Aldo Schiavone che in un fondo su Repubblica di qualche giorno fa, ha scritto che «la vita è un bene indisponibile da parte dello Stato, della società civile e dello stesso soggetto che la vive e che siffatto concetto non riflette una prospettiva cattolica o cristiana». Fac-
cio fatica invece a concordare con lui che l’inizio della vita e della morte debbano essere stabiliti da una legge che in definitiva negherebbe la condizione di vita a coloro che mancano di progettualità e di speranza. È la scienza a dover indirizzare su che cosa è vita e cosa non lo è più. Mai come in questo campo, il Legislatore non può prescindere dai dati tecnicoscientifici, non può spingersi fino a forzare la natura né avallando l’accanimento terapeutico, né accondiscendendo a qualsiasi forma di eutanasia o di suicidio assistito. È vero che il rapporto uomo e scienza non è sempre pacifico e che la nostra vita biologica è contrassegnata dall’impatto della tecnologia che ha sollevato nuovi interrogativi ed incertezze: ma è proprio nelle situazioni limite che il Legislatore davvero liberale, che sente di doversi fare carico dei deboli, di coloro che non hanno più voce, sceglierà per la vita.
È per questo che nel testo unificato sulle dichiarazioni di fine vita ho lasciato al paziente, in ossequio al dettato costituzionale, la piena autonomia decisionale su quali terapie effettuare e quali no. È sempre ricercando la vera libertà che ho ritenuto che le Dichiarazioni anticipate di trattamento debbano avere una validità triennale: la libertà per essere davvero tale deve essere cosciente, attuale ed informata. Non è così facile decidere ”ora per allora”, fingendo di ignorare che la scienza potrebbe nel frattempo aver compiuto nuovi passi in avanti o rifiutando aprioristicamente che si può sempre cambiare idea e che anche un colloquio con un medico potrebbe aprirmi nuovi scenari. Non ho posto il concetto di alleanza terapeutica, (espressione tecnica, ma intrisa di umanità) ovvero quel rapporto di fiducia tra medico e paziente, che accompagna la vita dell’uomo dalla nascita alla morte, al centro del testo normativo per privare il soggetto di potere decisionale. Ma semplicemente sono convinto che anche in quella condizione estrema - qual è lo stato vegetativo - il medico, in accordo con il fiduciario - figura prevista nel testo normativo chiamato a dar voce al paziente non più cosciente - non possa non sentire il dovere di attualizzare i desideri di chi è impossibilitato ad esprimersi, avendo sempre ben presente che ogni malato porta con sé un valore incondizionato, fondamento di ogni agire medico.
nuando con gli esempi, coloro che sono nella condizione del locked in. La loro è una situazione particolare e terribile: il cervello è lucido, ma riescono a comunicare solo grazie a movimenti impercettibili: è il caso di Salvatore Crisafulli, che da due anni si esprime muovendo gli occhi e così facendo è riuscito a scrivere un libro. Può capitare però che un locked in non venga correttamente diagnosticato. In genere ad accorgersi che comunicano in qualche modo sono i famigliari. Ci sono poi i malati di Alzheimer allo stadio terminale, e i down gravissimi. Insomma una folta e variegata schiera.
Esemplifica Granata: «Ammettiamo che un uomo ricchissimo finisca in uno stato vegetativo o para vegetativo, potrebbero esserci persone cui la sua morte conviene, e molto. Chi lo tutela?». Nel processo Englaro, infatti, la volontà di Eluana è stata ricostruita non grazie ad una sua diretta espressione ma attraverso prove di testimoni. In particolare, tre testimoni che dicono di averla sentita affermare di preferire la morte ad uno stato vegetativo. Ma anche gli avvocati Granata ed Elefante hanno portato i loro testimoni, che sostengono cose nettamente diverse. Il professore di filosofia di Eluana nega di averla mai sentita esprimersi in quel senso. Ci sono poi Laura Magistris e Suor Rina. Quest’ultima ha fornito inoltre biglietti e lettere di Eluana che attestano le sue convinzioni cattoliche. E del resto la ragazza aveva scelto di frequentare proprio una scuola cattolica. L’avvocato Granata chiarisce: «Noi siamo autorizzati a parlare solo di questi tre testimoni, ma ce ne sono altri. Persone che hanno fornito la loro versione ma che preferiscono che il loro nome non venga reso pubblico». La Corte d’Appello non ha fatto, poi, ciò che la Cassazione le aveva chiesto e cioè «ricostruire la personalità di Eluana», ma è andata alla ricerca della «sua volontà», ricostruita peraltro in modo discutibile. Ma anche lo stato vegetativo della ragazza non è provato in modo ineccepibile: «L’ultimo certificato che lo attesta – chiarisce Granata – è del
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Il ministro gioca le ultime carte. Il presidente della Camera isolato nel partito
Sacconi ci prova ancora An polemizza con Fini di Riccardo Paradisi l ministro del Welfare Maurizio Sacconi non si arrende: il governo – annuncia – sta valutando l’idoneità della casa di riposo La Quiete di Udine e le modalità del ricovero di Eluana Englaro: «Abbiamo chiesto alla Regione Friuli informazioni circa il grado di abilitazione di questa casa di riposo perché lo stesso ricovero sembra sia stato realizzato con un fine di accudimento». IlTar del Lazio invece si pronuncerà sull’atto di indirizzo del ministro Maurizio Sacconi che chiede a Regioni e Asl di non permettere la sospensione della nutrizione forzata mercoledì prossimo mentre la Cei, per voce del suo presidente il Cardinale Angelo Bagnasco parla di deriva eutanasica per l’Italia.
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Sopra, il papà di Eluana Beppino Englaro. A sinistra, l’ambulanza che ha trasferito la giovane donna nella clinica “Quiete” di Udine. A destra, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei e, sotto, il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi 2002». Oggi si sanno molte più cose rispetto ad allora. Ad esempio nessuno afferma più a cuor leggero che le persone in stato vegetativo non percepiscono dolore. Eluana potrebbe soffrire nel momento in cui le venisse staccato il sondino e tolto il nutrimento. L’avvocato Granata ricorda inoltre che «la Corte d’Appello, per stabilire lo stato vegetativo, si è basata su una letteratura medica vecchia, datata 1994, e ormai superata, visti gli enormi progressi che la ricerca ha fatto sull’argomento».
Anche da questo punto di vista più strettamente scientifico, il processo viene dunque contestato da chi rappresenta le associazioni Vi.ve. Un insieme di questioni che fanno considerare la conclusione della vicenda Englaro «molto pericolosa» per le persone che si trovano in una condizione analoga. Si contesta infine anche la forma giuridica usata, quella della «volon-
taria giurisdizione», considerata non in grado di «tutelare» pienamente i soggetti a rischio. Un insieme di ragioni che portano a non considerare chiuso il caso Englaro e che soprattutto fanno chiedere «una legge che intervenga subito».
Un intervento del Parlamento è stato invocato anche dal Presidente della Repubblica e l’Udc ha proposto che il governo prepari rapidamente un disegno di legge. Già, ma quale legge? L’avvocato Granata preferisce non rispondere: «Non spetta a me – dice – legiferare. Tocca alla politica e alle aule parlamentari dare una risposta. Quello che io so per certo – avendo a lungo lavorato su questi temi e avendo raccolto una grande documentazione riferita al caso Englaro – è che dopo quella sentenza ci sono migliaia di persone in pericolo. A loro e alle loro famiglie bisogna dare una certezza legislativa».
Sacconi, esponente di Forza Italia di tradizioni socialiste, che sembra supplire al gioco in prima linea di esponenti cattolici del centrodestra, dice di parlare a nome del governo, anche se nella maggioranza le posizioni sul caso Englaro sono diverse. Non a caso il premier Silvio Berlusconi continua a non pronunciarsi su questa vicenda anche se il governo ha rinunciato a impugnare la sentenza della magistratura per non creare un conflitto istituzionale. Intanto il conflitto si sviluppa trasversalmente all’interno dei due poli. Con particolare evidenzia all’interno di An. Per la verità non è più nemmeno una notizia il fatto che sui temi eticamente sensibili le posizioni di An e quelle del suo leader seguano rette divergenti. Il caso Englaro ripropone lo stesso riflesso che avevano prodotto le esternazioni di Fini sul referendum sulla procreazione assistita: un capo solo al comando di un partito che va da un’altra parte e che mostra stupore e imbarazzo per le posizioni del suo leader. «Invidio chi ha certezze sul caso Englaro – ha detto il presidente della Camera – personalmente non ne ho, né religiose né scientifiche. Ho solo dubbi, uno su tutti: qual è e dov’è il confine tra un essere vivente e un vegetale? Penso che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di fornire una risposta. E avverto il dovere di rispettarla». La risposta dei genitori di Eluana è nota: Beppino Englaro ha deciso che è arrivato il momento di interrompere l’alimentazione e l’idratazione della figlia. Sicché è chiara anche la posizione di Fini. Una posizione non condivisa dal partito del presidente della Camera. A partire dal Coordinatore regionale di An del Friuli Venezia Giulia Roberto Menia: «Eluana Englaro è stata portata nella mia regione, a Udine, non per essere curata ma per farla morire. Non credo ci si possa lavare
la coscienza affermando che si tratta di questione etica e non politica. Anche un tale che si chiamava Ponzio Pilato fece così». Il ministro della difesa e reggente di An Ignazio la Russa è meno categorico di Menia ma nel dubbio farebbe prevalere la vita, «anche se sarebbe difficilissimo andare contro la volontà del padre». Non ha dubbi invece l’esponente di An Antonio Mazzocchi che dice di avere ricevuto decine di telefonate di militanti e simpatizzanti di An che chiedono perché il Consiglio dei ministri non si riunisce per varare un decreto che sospenda la procedura autorizzata per Eluana. Mazzocchi si dice stupefatto delle dichiarazioni di Fini: «Sono attonito, perché, a differenza di lui, ho delle convinzioni religiose». A parlare senza reticenze di omicidio è il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri: «Si è ignorato l’appello delle suore di Lecco che si erano offerte per proseguire la loro opera di assistenza. La protervia di alcuni magistrati ha scandito i tempi di una tragedia». Non sente ragioni nemmeno il sindaco di Roma Gianni Alemanno: «Se si è per la vita lo si è e basta, pur comprendendo i drammi. Le istituzioni devono fare una scelta di fondo e ha pienamente ragione il ministro Sacconi: non vedo alternative o dubbi».
E mentre Riccardo Pedrizzi ritiene incomprensibile le ripetute rotture col mondo cattolico e riflette sull’impossibilità di governare un Paese come l’Italia senza tener conto della sua cultura e tradizione cattolica il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano parla di pena capitale per Eluana: «Fra pochi giorni l’Italia eseguirà la prima condanna a morte dopo il 1948: la condanna di una innocente cui, attraverso una lunga agonia, verrà negato il fondamentale diritto all’alimentazione e all’idratazione». E l’area laica di An? Non si pronuncia, anzi alcuni dei suoi esponenti si domandano per quel motivo Fini senta il bisogno di esternare anche quando potrebbe non farlo. Invece il Secolo d’Italia parlava ieri della “lezione di laicità”di Fini: «Un segnale forte dell’autonomia del politico, della politica e dello Stato». Lezione che Francesco Cossiga, perfido, si augura che i cattolici italiani non dimentichino: «Mi auguro che quando dovranno votare sia alle elezioni politiche sia nelle votazioni interne al futuro Pdl, si ricordino di quanto oggi ha dichiarato Gianfranco Fini sul caso Englaro e che si ricordi del suo silenzio sull’argomento anche l’amico Silvio Berlusconi quando chiederà di essere ricevuto dal Papa inginocchiandosi a tappettino».
Fini non ha certezze sul caso Englaro, Berlusconi tace. La Cei invece parla: «Siamo alla deriva eutanasica»
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economia
Incentivi. Dopo un lungo vertice della maggioranza, il governo annuncia i contenuti del decreto anti-crisi che domani sarà varato dal Consiglio dei ministri
Un Paese da rottamare Decisi gli aiuti: 1000 euro per le auto; 300 per i motorini; sconti sugli elettrodomestici e 8 miliardi per gli ammortizzatori di Francesco Pacifico
ROMA. Tre ore e mezzo in un confortevole salone di Palazzo Grazioli, a casa del premier, per risolvere un dossier aperto da almeno tre mesi. Dopo la Germania, Francia e persino la Russia, anche l’Italia avrà il suo piano di aiuti all’industria dell’auto. E vedrà il ritorno delle famigerate rottamazioni: anche se i numeri non sono definitivi, si parla di mille euro per chi passa a un’Euro 3 o a un’Euro 4, 1.500 per un veicolo verde. Ieri Silvio Berlusconi ha chiamato a raccolta nella sua residenza romana i ministri competenti alla partita (Tremonti, Scajola, Sacconi, Calderoli e Prestigiacomo), ha forzato le ultime resistenze e trovato un accordo di massima per poter presentare al Consiglio dei ministro di domani un piano complessivo di aiuti.
Gli incentivi non saranno destinati soltanto alla filiera dell’auto, ma riguarderanno i consumi di beni per agevolare quei settori in sofferenza (come la componentistica) o in profonda crisi (come l’industria del bianco dopo le chiusure degli stabilimenti San Giorgio e Indesit). Nulla a che vedere, però, con le cifre stanziate da Berlino e Parigi, eppure un piccolo successo per Berlusconi se si pensa che fino alla settimana scorsa sembrava passata la linea sponsorizzata da Giulio Tremonti di non appensantire il già alto debito pubblico. Ma più dei rigoristi hanno potuto i sondaggi e le stime preoccupanti sull’economia italiana. Non a caso ieri lo Svimez e l’Irptet hanno fatto sapere che la crisi dell’automotive potrebbe causare al Paese un calo del Pil e la perdita di 98mila posti di lavoro a livello nazionale, dei quali un quarto in Piemonte. Così, per non perdere oltre 7 miliardi di euro di crescita, il governo è pronto a impegnare un miliardo e mezzo per rilanciare i consumi. A quanto si sa, il titolare dell’Economia, Giulio Tremonti, starebbe ancora ultimando i calcoli e giocando con le pieghe del bilan-
Le nostre decisioni dipendono da quelle dei francesi e dei tedeschi
Gli aiuti non servono senza riforme di Gianfranco Polillo
La sua crisi non è conseguenza di una caduta dei consumi, da sostenere con misure incentivanti. I dati di contabilità nazionale dimostrano che dal 2000 in poi i consumi, sia pubblici che privati, sono aumentati più del Pil. Insomma, all’origine del più lungo malessere dell’Italia è soprattutto una mancata crescita della produttività complessiva. È stato questo l’elemento che ha determinato sia la sua perdita di competitività che una crescita dei consumi, comunque insufficiente. A questo dilemma le famiglie hanno risposto contraendo la quota di risparmio. Hanno cioè intaccato la ricchezza finanziaria accumulata negli anni precedenti, per mantenere inalterato il proprio tenore di vita, nonostante il più debole sviluppo produttivo.
so, nel momento in cui crollano i mercati internazionali e il commercio internazionale si restringe fino a far sorgere il timore di un ritorno del protezionismo, può essere esorcizzato con il semplice ricorso a misure di incentivazioni? Ci sembra una risposta debole. Anche se ci auguriamo che abbia successo. Sullo sfondo è, infatti, il dramma della crescita della disoccupazione. E della necessità di salvaguardare un patrimonio di esperienze che non deve essere disperso. Ma se non avremo misure più incisive, capaci di evocare un disegno di riconversione complessiva del nostro apparato produttivo, dubitiamo che anche questo importante risultato possa essere conseguito. Lo scetticismo ci porta a dire che utilizzeremo risorse, sia pubbliche sia private, nel disperato tentativo di fermare, a mani nude, il treno della crisi. Per ritrovarci alla fine più poveri e disperati di prima.
Una conferma evidente di questa ipotesi è proprio nel crollo repentino delle immatricolazioni, sia di automobili che di veicoli a due ruote. Nelle incertezze della crisi, infatti, le famiglie rinunciano a rinnovare i propri consumi durevoli e preferiscono rimettere fieno in cascina. Ricostituire, cioè, quelle scorte finanziarie, che in passato avevano intaccato nella speranza che il malato – vale a dire l’Italia stessa – potesse imboccare la strada della guarigione. Questo stato d’animo diffu-
Non siamo mai stati a favore della tesi che «i problemi sono altri». Le misure congiunturali sono necessarie, ma vanno inquadrate in un orizzonte più vasto. In un progetto di modernizzazione complessivo da troppi anni fermo al palo: per responsabilità diffuse. In teoria siamo tutti d’accordo nel riconoscere che il periodo delle svalutazioni facili, come meccanismo di riequilibrio nel caso di perdita di competitività, appartiene ad un’epoca che non può ritornare. Ma che cosa abbiamo fatto, in tutti questi anni, per aggredire i nodi strutturali che erano all’origine di quelle piccole tragedie? Ben poco. E oggi siamo chiamati a pagare il conto. Prima ce ne renderemo conto e prima saremo in grado di uscire da questo tunnel micidiale.
segue dalla prima
cio per garantire la copertura alla piattaforma. Soltanto quarantott’ore fa il ministro ripeteva che era necessario più tempo per trovare le risorse, spiegando che non sarebbero bastate tasse sui veicoli di lusso o le future entrate dovute alle nuove immatricolazioni: tra Iva e imposta di registro le rottamazioni si ripagano da sé, ma nel medio termine. Così si ritorna a parlare del monte Fas, di quei 40 e più miliardi di euro che l’Europa de-
stina alle aeree sottoutilizzate. Tremonti aveva promesso alle Regioni di non attingere più da questo tesoretto, come aveva dovuto già fare per recuperare il necessario con cui tagliare l’Ici alle prime case o sistemare i conti in rosso dei comuni di Roma o di Catania. Guardando al provvedimento, la misura principale è il bonus per passare da un’auto Euro O, Euro 1 o Euro 2 a una meno inquinante Euro 4 o Euro 5. Per aiutare i consumi e svecchiare
un parco auto obsoleto, il governo dovrebbe garantire mille euro per ogni veicolo rottamato. In più dovrebbe esserci l’esenzione del bollo di circolazione per tre anni. Rispetto alle misure volute dal governo Prodi, cresce invece l’entità del bonus per chi sceglie di acquistare vetture verdi: dovrebbe passare da mille a duemila euro e sarà applicato al passaggio ai veicoli a metano, a Gpl, elettrici o a idrogeno.
Non mancheranno agevolazioni anche per l’acquisto di moto e motorini, che a gennaio hanno visto un drammatico calo delle immatricolazioni vicino al 40 per cento. Chi rottama il suo mezzo Euro 0 o Euro 1, e ne sceglie uno Euro 3, potrebbe ottenere 300 euro e l’esenzione del bollo per un anno. Sul versante degli aiuti ai consumi la novità è soprattutto l’introduzione di un’ulteriore detrazione Irpef del 20 per cento a chi ristruttura la sua abitazione. Lo sconto, calcolato su un importo massimo di 10mila euro, è legato all’acquisto di mobili come di elettrodomestici bianchi (frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici). Sempre dal Consiglio dei ministri di venerdì si attendono agevolazioni fiscali per le piccole e medie imprese: da un lato torneranno in vigore misure per
economia
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Gli aiuti e le riforme necessarie, secondo Raffaele Bonanni
«Servono investimenti, non trucchi contabili» di Vincenzo Bacarani
ROMA. Stanno arrivando gli aiuti del governo
favorire le aggregazione, dall’altro dovrebbero esserci modifiche alla norma sulla rivalutazione dei beni strumentali. Sembrano slittare gli aiuti al mondo del credito al consumo, così come quei provvedimenti che stanno più a cuore al mondo delle imprese: il nuovo piano sugli ammortizzatori sociali (sul quale manca ancora un’intesa con le Regioni) e il decreto per sbloccare i Tremonti bond, leva con il quale il ministro vuole aumentare il monte prestiti per le aziende. Anche ieri la Fiat non ha voluto fare dichiarazioni sulle intenzioni del governo. Ma è facile prevedere una certa irritazione visto che esperti come esponenti di Confindustria avevano parlato di un bonus non inferiore ai 2mila euro, se non si voleva penalizzare il livello di immatricolazioni. Non a caso il direttore del centro studi Promotor, Gian Primo Quagliano, ha fatto notare: «Mille euro di bonus sono pochi e non tengono conto delle emissioni di Co2 dei veicolo. L’esenzione del bollo, invece, è inutile perché non viene percepita dal pubblico come incentivo». Risposta positiva l’ha data invece Piazza Affari, dove sono saliti tutti i titoli delle aziende interessate dal provvedimento. In una giornata nella quale il Mibtel ha guadagnato l’1,82
Auto al Salone di Ginevra. A destra, Bonanni. Nella pagina a fianco, Marchionne e Tremonti
per cento, la Fiat ha avuto un balzo dell’8,55 per cento, la Piaggio dell’8, mentre Elica, leader nella produzione di cappe per cucina, è cresciuta del 7, il gigante della componentistica Brembo del 5,50, la De Longhi del 3,40.
Se in Italia la palla passa ora al tavolo del ministro Giulio Tremonti, che deve garantire la copertura, a Bruxelles gli aiuti all’anno non creano meno problemi ai commissari competenti. Il responsabile della Concorrenza, Neelie Kroes, si è scagliata contro la Francia e ha bocciato lo schema degli incentivi: «Tutte le disposizioni», ha spiegato il titolare dell’Antitrust, «per cui i beneficiari di aiuti pubblici devono investire solo in Francia o devono acquistare componente da fornitori localizzati in Francia sarebbero contrari alle regole europee». Intanto, a nome dell’Eurogruppo, il vicepremier ceco, Alexandr Vondra, chiede una piattaforma comune per evitare una babele di misure a favore dell’auto.Va da sé che l’obiettivo è non replicare gli errori già fatti in campo bancario.
ai settori industriali in crisi: in primis auto e elettrodomestici. Si parla di una cifra-record di 80 miliardi in tre anni (40 da parte del governo e altrettanti dall’Unione Europea). Ma sono cifre attendibili? Nelle settimane scorse, l’esecutivo era partito da una soglia ben al di sotto delle aspettative di industriali e sindacati (300 milioni, più o meno). Ma poi, vista la forte delusione alimentata anche da notizie su cifre ben più consistenti stanziate da altri governi europei, Berlusconi è tornato sui suoi passi e ha mandato in avanscoperta il ministro alle Attività Produttive, Claudio Scajola, che ha promesso sostegni robusti (soprattutto alla Fiat) che non riguarderebbero soltanto la rottamazione, ma anche aiuti alla ricerca del settore per l’innovazione dei prodotti, in base anche ai dettami sull’inquinamento che fanno riferimento al protocollo di Kyoto. Tutto bene? Non proprio. È ancora poco chiaro il programma di interventi che prevede l’esecutivo. La situazione occupazionale sta assumendo un quadro drammatico, pur considerando l’effetto semi-stabilizzatore degli ammortizzatori sociali (che molti altri Paesi occidentali in crisi non hanno). Come può presentarsi allora lo scenario dell’immediato futuro e questi sostegni economici potrebbero essere un rimedio – almeno temporaneo – alla grave crisi che stiamo vivendo? Gli aiuti economici previsti dal governo potrebbero avere effetti positivi sul mantenimento dei posti di lavoro a rischio? Lo abbiamo chiesto al segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. Segretario, siamo di fronte a una crisi globale del mondo del lavoro. Un crisi che colpisce non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente. Secondo lei, si tratta di un momento congiunturale o hanno ragione quelli che parlano di una crisi strutturale del sistema capitalistico? Sicuramente siamo di fronte al fallimento evidente di un sistema che poggiava sulla finanza speculativa, del tutto svincolata dai parametri dell’economia reale e della responsabilità d’impresa. Per questo, bisogna dare il via a una vera e propria “riforma” dell’economia mondiale. Ci vogliono nuove regole. L’obiettivo deve essere quello di una nuova e aggiornata Bretton Woods, che si confronti attivamente con rappresentanze internazionali dei lavoratori e dei risparmiatori. In Italia ci sono gli ammortizzatori sociali e in altri Paesi no. Pensa che questo aspetto possa rappresentare una sicurezza in più o comunque un’ancora di salvezza per il nostro Paese rispetto ad altre realtà? Sicuramente è un bene avere un sistema di protezione adeguata per i lavoratori. Ma anche nel nostro Paese dobbiamo fare di più. Noi conti-
nuano a sostenere che così come sono state salvate le banche, non dobbiamo lasciare scoperto nessun lavoratore. Ci sono tanti settori che sono ancora esclusi dagli ammortizzatori. E soprattutto dobbiamo sforzarci di utilizzare i periodi di cassa integrazione per una effettiva formazione. In tutto questo potrà aiutarci molto la bilateralità, perché possono essere le imprese ed i lavoratori a costruire autonomamente o con il sostegno dello Stato, sistemi mutualistici di assistenza e di sicurezza sociale. Questo è uno dei grandi obiettivi dell’accordo sul sistema contrattuale che abbiamo firmato qualche settimana fa. Il governo stanzierà 80 miliardi (40 di questi arriverebbero dall’Unione Europea) nei prossimi tre anni. Pensa che siano sufficienti? E, soprattutto, pensa che siano effettivi o che invece possano risultare da operazioni contabili? Nessuno può sapere oggi quale sia l’entità esatta delle risorse necessarie per arginare la crisi. In ogni caso ci vuole un impegno straordinario di tutte le istituzioni. E devono essere risorse effettive, spendibili subito. Niente trucchi contabili, insomma. Questi aiuti come dovrebbero essere utilizzati dalle aziende: per vendere di più, per produrre di più o per dare maggiori garanzie e tutele ai lavoratori? Sarebbe auspicabile un impegno da parte delle imprese - di fronte agli aiuti governativi - per stabilizzare i dipendenti, precari e non precari? Vanno sostenuti i settori industriali portanti della nostra economia, a cominciare dal comparto auto e dal suo indotto. Bisogna aiutare non solo le grandi imprese, ma anche le medie e le piccole, perché costituiscono il nervo forte del nostro sistema produttivo. Le risorse vanno impiegate con lungimiranza e in maniera selettiva, privilegiando gli investimenti delle aziende in innovazione, ricerca di fonti alternative di energia, la tutela dell’ambiente. Insomma: non aiuti a pioggia. Ma un sostegno forte che abbia ricadute sul mantenimento dei posti dei lavori, sui consumi e sulla produzione. Segretario, non ritiene che di fronte a questa grave crisi sia adesso necessaria una maggiore compattezza fra le tre principali organizzazioni sindacali lasciando una volta per tutte fuori dalla porta le firme separate su accordi e contratti? La Cisl ha sempre lavorato per l’unità del sindacato. È stata la Cgil, per sua scelta, a sottrarsi da una linea di responsabilità, imboccando una strada antagonistica che secondo noi non porterà alcun beneficio ai lavoratori ed al Paese. Per questo noi ci auguriamo presto un ravvedimento da parte della Cgil. La gravità di questa crisi esige un sindacato molto unito e responsabile, in grado di gestire con gli accordi le situazioni più difficili.
Nessuno può sapere quale sia l’entità esatta delle risorse necessarie contro la crisi. Ma ci vuole un impegno straordinario di tutti
politica
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Comizi. L’ex-magistrato ancora contro il Quirinale: «Non firmi il decreto sulle intercettazioni»
Di Pietro, l’anti-Napolitano di Guglielmo Malagodi
ROMA. Questa volta, Antonio Di Pietro il presidente Napolitano lo tira proprio per la giacchetta. Se i riferimenti ai silenzi e al mancato arbitrato del Quirinale fatti alla manifestazione di piazza Farnese (che comunque gli sono costati l’iscrizione nel libro degli indagati) potevano pure essere ambigui, le parole dette ieri ai cronisti, a Montecitorio non si prestano a equivoci. L’ex magistrato ha chiesto espressamente al presidente di non firmare il decreto che blocca le intercettazioni. Se e quando sarà approvato dalla Camera. Ma la faccenda comincia da lontano (per quanto sia, da buon ex magistrato Di Pietro è abituato a prenderla da lontano). Nel senso che Di Pietro è intervenuto per commentare un commento di Silvio Berlusconi. Su che cosa? Sulla magistratura, ovviamente. Da qualche giorno, infatti, il premier si è dato a una maratona sulle sue private televisioni per incalzare in prima persona gli italiani. L’obiettivo è convincere tutti gli uomini di buona volontà che Renato Soru (di cui si dichiara nemico giurato in funzione delle elezioni regionali sarde del 15 febbraio) è un fallito, ma incidentalmente ieri mattina Berlusconi è tornato a ripetere che la magistratura fa politica. Come dimostra il fatto che solo ora si è accorta delle malefatte della sinistra, da Napoli all’Abruzzo. Senza contare che le inchieste che (finalmente) ne sono discese hanno dimostrato come non ci sia «mai stata una presunta superiorità morale della sinistra» (il virgolettato è del premier, naturalmente). Il palcoscenico delle esternazioni di ieri era una trasmissione tv dell’ammiraglia di famiglia, Mattina5. Ebbene, evidentemente Di Pietro è mattiniero, perché giunto alla Camera ha radunato i cronisti e ha spiegato con la sua consueta retorica oratoria (stile Vincenzino Talarico in Un giorno in pretura, il celeberrimo film con Alberto Sordi, avete presente?): «Vogliamo ricordare a tutti cittadini che dagli atti processuali risulta che Silvio Berlusconi si è messo a fare
Il presidente Giorgio Napolitano: ieri, ancora una volta, è stato attaccato da Antonio Di PIetro (nella foto in alto)
«Berlusconi si occupa solo di risolvere i suoi problemi giudiziari. Spero che questa volta il Colle se ne renda conto». Piccolo show in Parlamento del leader dell’Italia dei Valori: «La nostra opposizione è diversa da quella del Pd» politica per motivi processuali? Dal primo giorno, dal 16 gennaio 1994, sta perseguendo un unico fine: fare leggi per evitare di essere processato».
Insomma, per Di Pietro «la questione morale sta dentro il Dna di Berlusconi». E di fronte a tutto ciò l’Idv ha bisogno di marcare le distanze dal Pd e dal suo modo di fare opposizione: «Noi dell’Idv siamo chiamati a fare un’opposizione chiara nel linguaggio e determinata nell’azione per dimostrare che il governo Berlusconi è la più grossa truffa politica degli ultimi tempi in tutto il mondo, perché egli grazie al conflitto d’interessi e alle sue televisioni fa credere bianco quando è nero, vende il fumo e si frega l’arrosto». Ed eccoci finalmente al capitolo Quirinale: a proposito della querelle innescata dall’esternazione di Piazza Farnese, «risulto denunciato da uno degli avvocati di Berlusconi per
aver detto che il lodo Alfano umilia le nostre istituzioni, e avrei preferito - e preferirei che il capo dello Stato su questo tema come sulle intercettazioni potesse intervenire». Dopodiché, il nostro entra nel vivo, presentando il tema della sparata in arrivo, ossia il decreto sulle intercettazioni: «In questa sede ribadisco: adesso arriva alla firma del capo dello Stato il provvedimento sulle intercettazioni, perché qui voteranno tutti per alzata mano come soldatini». Pausa oratoria, poi Di Pietro si rivolge direttamente a Napolitano: «Si chieda, signor capo dello Stato, se davvero questo sia costituzionale o no, o se non si umilia ancora una volta la funzione della giustizia, costituzionalmente garantita come legge uguale per tutti». Applausi a scena aperta: l’avvocato si toglie la toga e cerca su di sé l’ammirazione del pubblico. E subito dopo, placata l’euforia oratoria entra
un po’ più nel merito dei fatti: «L’unica cosa da cui difendersi è dalla criminalità e dalla pubblicazione di atti illegittimamente acquisiti perché coperti da segreto istruttorio, non da magistrati che fa proprio dovere. Non si può togliere lo strumento dell’intercettazione a chi combatte la criminalità. Berlusconi vuole intercettazioni limitate a casi in cui c’è già la prova che una persona è colpevole, cioé quando non ce n’è più bisogno. Come a dire che dai la medicina a una persona quando sai che è morta».
È a questo punto che il nostro si ricorda d’essere anche un leader politico e comincia a spaziare. Primo diversivo, la Vigilanza Rai: lo scioglimento della vecchia Vigilanza è avvenuto «perché nei cassetti dei due partiti di maggioranza, Pd e Pdl, c’è già l’accordo su chi deve essere nel Consiglio di amministrazione Rai». Secondo diversivo, i casi Napoli e Campania: «L’Idv ribadisce a prescindere dalle questioni giudiziarie che in Comune e in Regione c’è un’amministrazione che politicamente ha fatto il suo tempo e ha perso il rapporto di fiducia con gli elettori». Terzo diversivo, la questione morale trasversale: «Il problema esiste, ma viene risolto in modo differente. Ogni volta che l’Idv deve affrontare un caso, per prima cosa allontana chi è coinvolto dal partito e lo manda dai giudici. Altri allontanano i giudici e mandano quei politici in Parlamento». Lo spettacolo è finito, restano le macerie di un nuovo, inutile scontro istituzionale.
in breve Vigilanza Rai, eletto Zavoli A quasi un anno dall’inizio della legislatura, ieri si è finalmente risolta la questione della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai. Come ampiamente previsto, dopo l’allontanamento di Riccardo Villani (eletto mesi fa dai soli voti della maggioranza), Sergio Zavoli è stato eletto presidente con 34 voti su 40 commissari. All’elezione, come era stato annunciato, non hanno partecipato i capigruppo Idv, Felice Belisario e Massimo Donadi, nominati d’ufficio.Vicepresidenti sono stati eletti Giorgio Lainati (Pdl) e Giorgio Merlo (Pd). Segretari sono stati eletti Davide Caparini (Lega) e Enzo Carra (Pd). «Finalmente si colma un vuoto vergognoso», ha commentato il neopresidente. Tutte le forze politiche hanno espresso grande soddisfazione per l’elezione.
Privacy e abuso d’ufficio: indagato Genchi Abuso d’ufficio e violazione della privacy in relazione al trattamento illecito dei dati personali: per queste ipotesi di reato Gioacchino Genchi, ex consulente dell’ex pm De Magistris, è stato iscritto nel registro degli indagati della procura di Roma in relazione al presunto archivio da lui raccolto fatto di tabulati telefonici. Nei giorni scorsi, i magistrati romani hanno ricevuto dalla Procura di Catanzaro gli atti relativi alla vicenda Genchi contenuti nei fascicoli dei processi «Why not» e «Poseidone» di cui era titolare nella procura calabrese l’ex pm Luigi De Magistris.
La Camera contro la Iervolino Nonostante parere il negativo del governo, la Camera ha approvato ieri una mozione del Pdl per la rimozione del primo cittadino di Napoli, Rosa Russo Iervolino e lo scioglimento del Consiglio comunale. Al momento della votazione, i rappresentanti del Pd e dell’Idv sono usciti dall’aula. Il sindaco Iervolino ha commentato: «È stato soltanto un brutto pasticcio istituzionale».
politica Vaticano. La Segreteria di Stato chiarisce: non sapevamo del negazionismo, ora vigileremo
La Santa Sede attacca: «Williamson ritratti tutto» di Vincenzo Faccioli Pintozzi l vescovo lefebvriano Richard Williamson «dovrà ritrattare le sue dichiarazioni negazioniste della Shoah, per essere ammesso a funzioni episcopali nella Chiesa». Lo afferma una nota della Segreteria di Stato pubblicata nel pomeriggio di ieri, una risposta e una precisazioni alle critiche di chi definiva troppo morbida la posizione del Papa riguardo alle affermazioni negazioniste del presule. Il religioso, prosegue la nota, «dovrà prendere le distanze in modo assolutamente inequivocabile e pubblico» dalle affermazioni con cui ha negato lo sterminio degli ebrei. Posizioni «non conosciute dal Santo Padre nel momento della remissione della scomunica». Intanto, sempre ieri Williamson si è difeso dalle accuse mosse dai magistrati della regione tedesca della Bavaria, che lo hanno messo sotto inchiesta per il presunto reato di incitamento all’odio: quelle parole, sostiene, «non sono punibili». Se la magistratura civile non può toccare il vescovo negazionista, però, rimane in vigore la proibizione di celebrare una qualunque liturgia nelle chiese tedesche, una proibizione emanata nei giorni scorsi dalla Conferenza episcopale della Germania, i cui vescovi hanno più volte criticato le sue posizioni sulla Shoah.
I
Critiche aspre, ma rivolte al Vaticano, sono giunte anche da Berlino: Angela Merkel ha criticato Benedetto XVI, troppo morbido nel richiamare il lefebrviano perdonato. Da parte sua, la Santa Sede afferma invece che le opinioni di monsignor Williamson «sono assolutamente inaccettabili e fermamente rifiutate» da Benedetto XVI, e interviene nuovamente dopo le polemiche che si sono scatenate e hanno coinvolto le massima autorità del mondo cattolico ed ebraico. La nota ricorda le parole pronunciate dal Papa il 28 gennaio scorso - «La Shoah resta per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo» - e precisa che «lo scioglimento dalla scomunica ha liberato i quattro vescovi da una pena canonica gravissima, ma non ha cambiato la situazione giuridica della Fraternità San Pio X, che, al momento attuale, non gode di alcun riconoscimento canonico nella Chiesa cattolica». Il riferimento è al movimento fondato nel 1970 dal vescovo Marcel Lefebvre in contrasto con il Concilio Vaticano II. Sempre l’organo di governo della Santa Sede sottolinea che la posizione dei quattro vescovi riammessi non è ancora chiarita.
inoltre varie affermazioni sulle “eresie” professate dal teologo Ratzinger e mai “ritrattate” da papa Benedetto XVI: «Per quanto attiene alla libertà religiosa, egli si trova sulla stessa lunghezza d’onda di Giovanni Paolo II. Come questi, è convinto che nessun governo può essere cattolico, né che alcun governo può riconoscere Gesù Cristo come vero Dio. Ciò è contrario all’insegnamento cattolico, e più precisamente all’insegnamento che Pio XI ha espresso nella Quas Primas (…)». E lo stesso Williamson, in un’intervista del 12 gennaio 2007 al giornale francese Rivarol, afferma: «Se un modernista è qualcuno che vuole adattare la Chiesa Cattolica al mondo moderno, certamente Benedetto XVI è un modernista. Egli crede sempre che la Chiesa debba riappropriarsi dei valori della Rivoluzione francese. Forse egli ammira il mondo moderno meno di Paolo VI, ma lo ammira ancora fin troppo. I suoi vecchi scritti sono pieni di errori modernisti. Ora, il modernismo è la sintesi di tutte le eresie. Dunque, come eretico, Ratzinger supera di gran lunga gli errori protestanti di Lutero, come ha detto molto bene monsignor Tissier de Mallerais. Solo un hegeliano come lui è persuaso che i suoi errori siano la vera continuazione della dottrina cattolica, mentre Lutero sapeva e affermava che egli rompeva con la dottrina cattolica».
In una nota durissima, si contesta che il Papa fosse a conoscenza delle posizioni del vescovo lefebvriano. E si annunciano prossimi, approfonditi chiarimenti sulle questioni spinose ancora aperte
Il Papa, infatti, ora si aspetta «che disponibilità venga espressa dai quattro vescovi in totale adesione alla dottrina e alla disciplina della Chiesa. La condizione indispensabile per un futuro riconoscimento della Fraternità San Pio X è il pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI». Un punto profondamente controverso, che aprirà altre po-
lemiche – almeno in seno alla Chiesa – quanto prima. Come ricorda il vaticanista Luigi Accattoli, infatti, non sono poche le occasioni in cui non soltanto Williamson, ma anche gli altri membri della Fraternità, si sono scagliati contro il magistero dell’attuale pontefice e del suo predecessore.
In un’intervista alla rivista The Remnant, datata 30 aprile 2006, il vescovo lefebvriano Bernard Tissier De Mallerais afferma infatti: «Non si può leggere il Vaticano II come un lavoro cattolico. Esso si basa sulla filosofia di Emmanuel Kant (…) Un giorno la Chiesa dovrà cancellare questo Concilio. Non parlarne più. Dovrà dimenticarlo (…) Sì dimenticarlo, tabula rasa». Nella stessa intervista si leggono
Queste posizioni non possono essere state ignorate dalla Santa Sede, quando ha deciso di rimuovere la scomunica. E infatti, nella nota emessa ieri, il Vaticano conclude: «Non mancherà, nei modi giudicati opportuni, di approfondire con gli interessati le questioni ancora aperte».
5 febbraio 2009 • pagina 7
in breve Lite fra Colaninno e la Lega in Senato Dopo mesi di duelli verbali a distanza sul ruolo di Malpensa, il presidente della Nuova Alitalia Roberto Colaninno e la Lega se le sono finalmente dette in faccia. L’occasione è stata l’audizione del manager davanti alle Commissioni Lavori pubblici e Industria del Senato. Rispondendo agli esponenti del Carroccio sul futuro dello scalo lombardo, Colaninno non ha nascosto le sue perplessità. «Guardi, io sono un affezionato di Francoforte e infatti per spostarmi faccio sempre Verona-Francoforte con la Air Dolomiti: da Malpensa non ho mai volato se non una volta sola per andare in Sudamerica, ma la scelta era partire da Malpensa o andare fino a Roma e partire da Fiumicino...», ha rimarcato il presidente Alitalia di scatenando le ire della Lega. «Lei pensa a Parigi», lo hanno incalzato accennando all’accordo di partnership con Air France. «È inconcepibile che il presidente di una compagnia aerea, che vorrebbe essere di bandiera, affermi che l’aeroporto a cui si sente affezionato sia Francoforte e che a Malpensa non ci sia mai andato», ha commentato il vicepresidente dei deputati leghisti Marco Reguzzoni.
Alitalia: voli pieni solo al 43% Nelle prime tre settimane di vita della nuova Alitalia gli aerei hanno viaggiato con «un tasso di riempimento medio intorno al 43%». Lo ha indicato l’amdelegato, ministratore Rocco Sabelli, spiegando (nel corso della stessa audizione in Senato durante la quale Colaninno e la Lega si sono scontrati, come scriviamo qui sopra) che «l’anno scorso nello stesso periodo il tasso di riempimento era di circa il 50% combinando le due compagnie» che sono state integrate nella nuova Alitalia. Pesa anche la crisi economica, dice Sabelli, che ha determinato una flessione del mercato passeggeri che tocca tutto il settore, «anche le low cost».
politica
pagina 8 • 5 febbraio 2009
Ritratto. La Procura ha chiesto l’autorizzazione a procedere contro il deputato del Pdl che guida la Tosinvest
La dinasty bipartisan La famiglia Angelucci: né di destra né di sinistra, ma dalla parte degli affari di Marco Palombi segue dalla prima «Licenza media, imprenditore», si legge sulla sua pagina web nel sito della Camera. Un self made man, diremmo oggi, o forse più propriamente uno degli esponenti più riusciti di quel generone romano (anche se, tecnicamente, è nato in Abruzzo) che Gadda collocò al 219 di via Merulana, dove «nun ce stavano che signori grossi: quarche famija del generone, ma soprattutto signori novi de commercio, quelli che un po’ d’anni avanti li chiamaveno ancora pescicani». Un popolano scaltro, gran lavoratore, col pallino degli affari e un carattere aperto che gli ha consentito di intrecciare amicizie e rapporti trasversali nel mondo dell’imprenditoria e della politica: stranamente nelle foto porta spesso occhiali scuri di foggia un po’ passata, il che gli conferisce quell’aria anni Cinquanta che ne alimenta la leggenda di uomo che s’è fatto da sé.
Classe 1944, arrivato a Roma dopo l’adolescenza da un piccolo paese dell’Appennino
stare ai pm, mai effettuate dalle cliniche di Angelucci. Gli Ottanta, comunque, sono gli anni in cui Tonino si afferma come imprenditore e comincia ad espandere la sua influenza. Lavora infaticabilmente, si fa vedere nelle sue strutture, controlla i cantieri e coltiva i suoi rapporti con la politica, soprattutto con la Regione Lazio, muovendosi attorno ad una felice intuizione: continuare a prendere il controllo di cliniche di lungo degenza trasformandole in assai più remunerative strutture di riabilitazione. Al suo fianco la moglie Silvana Paolini, una donna piccolina che, secondo la voce popolare, è stata la grande artefice della sua fortuna: Silvana gli ha dato tre figli (i due gemelli Andrea e Alessandro e Giampaolo, classe 1971, l’erede designato, da ieri ai domiciliari), ma è morta prematuramente. Di lei resta traccia nel nome della Tosinvest (ovvero Tonino + Silvana), la holding che controlla tutte le attività di famiglia, perno di un impero dai contorni imprecisati con indirizzo lussemburghese: Boulevard Royal, 17. Oggi il
stata sparì per un anno dalle edicole) e il “Bottegone”, la storica sede del Pci in via delle Botteghe oscure. Dopo questa prima, sfortunata avventura, però, la passione dell’editoria tornerà ad agitare con più successo i sogni di Tonino: è lui, infatti, l’editore di Libero e de Il Riformista, quotidiani d’opposto orientamento politico, ma capaci di aperture trasversali tanto quanto il loro proprietario.
È della fine degli anni 90, comunque, anche la fumosa vicenda dell’acquisto dell’ospedale San Raffaele di Roma. Secondo il racconto di Don Verzè, che ne era il proprietario, l’allo-
Sopra, Giampaolo Angelucci, da ieri agli arresti domiciliari. Accanto, Antonio Angelucci, il capostipite e fondatore dell’impero Tosinvest. Nella pagina a fianco, Renato Farina
Tutto cominciò negli anni Settanta grazie ai buoni rapporti con qualche politico e un po’ di farmacisti. Da lì è nato un impero fatto di cliniche e giornali, da ”Libero” al “Riformista” abruzzese, Sante Maria dell’Aquila, fu commesso in una farmacia e poi portantino all’ospedale San Camillo, dove si fece conoscere come delegato sindacale della Cgil (in quota Psi, secondo la leggenda). È la fine degli anni Settanta, la carriera imprenditoriale di Tonino Angelucci nel mondo della sanità comincia da qui: il nostro si mette in società con imprenditori del settore e politici conosciuti grazie al lavoro e al sindacato e prende il controllo di una casa di cura per lungodegenti a Velletri, della quale resterà proprietario unico nel 1984. Curioso che oggi a colpirlo con una richiesta d’arresto alla Camera dei deputati sia proprio la Procura di Velletri per una storia di prestazioni sanitarie da 170 milioni di euro rimborsate dallo Stato ma, a
65enne Tonino ha un nuovo, giovanissimo figlio, da una nuova compagna: rapporto, quest’ultimo, che - a stare a chi conosce la famiglia - ha creato più di una frizione tra il capostipite e i tre figli di primo letto.
Torniamo alla costruzione dell’impero. Il momento cruciale sono gli anni Novanta, quando il futuro deputato del centrodestra trova l’appoggio del grande levatore dell’economia romana di fine secolo, il ragionier Cesare Geronzi. Angelucci entra nel capitale del Banco di Roma, futura Capitalia, e il sor Cesare utilizza il nuovo amico per la delicata partita che gioca con l’allora Pds. L’ex sindacalista socialista Tonino compra allora una grossa quota dell’Unità (la società editrice finì poi in liquidazione e la te-
ra ministro della Salute Rosi Bindi (premier D’Alema) offriva per la struttura 201 miliardi di lire a petto di una valutazione di 330 miliardi: a pochi giorni dalla vendita si fa avanti Angelucci, che di miliardi ne offre 270. Affare fatto e solenne incazzatura per la pasionaria prodiana. Lo Stato però, solo sei mesi dopo, trovò il modo di comprare il San Raffaele, ma pagandolo 320 miliardi: 50 di guadagno netto in pochi mesi. È il Tonino’s touch, secondo i suoi ammiratori. È un favore che gli ha fatto la politica, secondo i detrattori. Don Verzè, che sulla vicenda ha scritto un libro, non lo dice esplicitamen-
te, ma sottolinea come nel 2003 sarà Angelucci - sollecitato da Geronzi - a condurre in porto l’operazione che salvò dai debiti la Quercia. Andò così, stando sempre alla ricostruzione fatta da Don Verzé: Fassino chiese alle banche creditrici (Carisbo, Banca Intesa, Capitalia e Mps) uno sconto del 50% su un debito da 88 milioni di euro, i buffi restanti poi se li prese Tonino comprando il 50,1% di Beta immobiliare, la società su cui i Ds avevano scaricato i debiti ma anche una bella fetta del loro patrimonio immobiliare.
Non si pensi però che Angelucci sia un altro Consorte, un
imprenditore rosso. L’unica sua parte è stare da tutte le parti e quindi Tosinvest Sanità è cresciuta soprattutto nel Lazio di Storace, nella Puglia di Fitto e nell’Abruzzo di Pace (ma continuerà a farlo con Marrazzo, Vendola e Del Turco), per un certo periodo ha schierato tra i suoi consiglieri il fratello del presidente della Camera, Massimo Fini, e ha fatto affari con la moglie di quest’ultimo, Patrizia Pescatori e si dice – lo raccontò il Corriere – attraverso lei anche con Francesco Proietti Cosimi e Daniela Di Sotto, rispettivamente ex segretario particolare ed ex moglie di Gianfranco Fini. E questo senza
politica
5 febbraio 2009 • pagina 9
La redazione di piazza Barberini trema. I colleghi di “Libero” dormono sonni (quasi) tranquilli
Brutta aria al “Riformista” «Non se ne parla, è calato il gelo» di Francesco Capozza
ROMA. Giampaolo Angelucci, 38 anni, ha ereditato il suo impero di cliniche e strutture per la riabilitazione, concentrate soprattutto nel Lazio e in Puglia, dal padre Antonio (attualmente deputato del Popolo della libertà), fondatore della Finanziaria Tosinvest spa. Quest’ultima dispone di strutture sanitarie accreditate presso il Servizio sanitario nazionale che garantiscono in totale 3.000 posti letto. La società gestisce inoltre il presidio ospedaliero di Ceglie Messapica, cinque residenze sanitarie assistenziali nel Lazio e 11 in Puglia. Da Giampaolo Angelucci dipende anche il San Raffaele di Roma, divenuto istituto di ricovero e cura a carattere scientifico.
contare che Tonino oggi è deputato proprio del centrodestra.
Intanto, ai vertici delle proprietà di famiglia è arrivato Giampaolo, il più piccolo dei tre figli di Silvana Paolini (i due gemelli hanno incarichi in azienda, ma defilati): nato nel 1971, una laurea in filosofia alla Augustinian Academy di New York, è lui – formalmente – ad aver guidato la famiglia, attraverso la lussemburghese Th S. A., nell’acquisto di circa il 7% del capitale azionario della nuova Alitalia. Non si può dire che sia fortunato: da quando è in sella, la Tosinvest è finita in inchieste in Puglia (dove Giampaolo è accusato insieme all’ex governatore Fitto), nella Sanitopoli abruzzese, in un’inchiesta per presunti abusi edilizi riguardante la vecchia scuola quadri del Pci alle Frattocchie e una villa a sempre a Velletri. Da ieri è ai domiciliari: i maligni dicono che una grande famiglia senza un serio incidente giudiziario non è una grande famiglia. Se non altro perché è proprio nel tirar fuori i propri adepti dai guai che si vede la solidità di una grande famiglia. Infatti, gli avvocati di Giampaolo e di Tonino sostengono che la magistratura sta prendendo un granchio. I legali, a proposito, sono Franco Coppi e Guido Calvi: l’uomo che ha salvato Andreotti e l’avvocato dei Ds.
Gli Angelucci sono presenti anche nel mercato dell’editoria grazie alla proprietà dei quotidiani Libero e Il Riformista e in passato avevano una partecipazione anche ne l’Unità. Come dire, editori bipartisan. Proprio su questo punto, sul loro legame con la comunicazione giornalistica, liberal ha voluto sentire l’aria che tira all’interno delle redazioni guidate da Vittorio Feltri e Antonio Polito. «Ho sentito Antonio Angelucci - che tra l’altro adesso è un mio collega in Parlamento - e si è detto fiducioso nella magistratura. Io, invece, non lo sono affatto, ma ho piena fiducia in lui e in suo figlio Giampaolo» ci dice Renato Farina, deputato del Pdl, firma di punta di Libero ed ex vice direttore dello stesso quotidiano. «Non è la prima volta che il giornale o l’editore sono oggetto di accuse da parte della magistratura inquirente. Capitò già nel 2006 e quella volta, tra l’altro, fui indagato anche io: per favoreggiamento» prosegue Farina, che a nostra domanda risponde: «Se questo nuovo caso di manette turberà la redazione del giornale e l’andamento delle vendite? Non ho certo la palla di vetro, ma sulla base dell’esperienza che le ho appena citato posso dirle che nel 2006 ci fu grande coesione all’interno di Libero ed un netto incremento delle vendite». Ma Renato Farina ci tiene anche a far sapere di aver «sentito diversi colleghi in Parlamento che fanno parte della giunta per le Autorizzazioni a procedere a cui le carte inquisitorie sono giunte in queste ore. Mi dicono, ma è ancora presto perché sia interpretato come il responso della giunta, che il materiale probatorio sembrerebbe davvero poco convincente». E Feltri come l’ha presa, chiediamo. «Vittorio è molto tranquillo. Anche lui è sicuro dell’onestà di Antonio e di suo figlio Giampaolo. Piuttosto è rammaricato, per non dire incazzato, delle speculazioni che si stanno facendo». Quali? «Di quella lettura stupida e maliziosa fatta da un sito di gossip tra i più conosciuti. Secondo loro gli attacchi di Feltri e di Libero al ministro Sacconi sarebbero legati a delle inchieste poste in essere dal suo
Renato Farina, ex vicedirettore di “Libero” e oggi deputato del Pdl: «In Parlamento ho sentito dei colleghi della giunta per le Autorizzazioni a procedere a cui le carte sono arrivate in queste ore. Hanno detto che il materiale probatorio sarebbe poco convincente» dicastero nei confronti delle cliniche degli Angelucci». E invece? «E invece non c’è nessun collegamento. Feltri ha voluto fare una battaglia su un punto: una delega importante come quella della Sanità non può essere accorpata ad un super ministero com’è quello guidato da Sacconi». A Libero, e in questo Farina ha ragione, si dormono sonni tranquilli. Facendo un giro di telefonate tra i colleghi della redazione milanese e di quella romana, traspare serenità e una quasi estraneità alla faccenda. «Siamo certi che la cosa non toccherà minimamente l’entità delle vendite, anzi, con molta probabilità ci sarà un breve incremento» ci dice uno dei capi redattori del giornale diretto da Feltri. Non è certo sciacallaggio, ci mancherebbe, piuttosto una reale convinzione di non colpevolezza dell’editore.
Se Farina e i colleghi di Libero non hanno alcun problema a parlarci della vicenda, meno disponibili sembrano gli amici de Il Riformista. Antonio Polito, direttore-ex senatore margheritino, si trincera dietro un «no comment» quasi cucciano. I colleghi di piazza Barberini nicchiano ma poi, dopo la garanzia dell’a-
nonimato, qualcuno decide di fare due chiacchere con noi sull’atmosfera che si percepisce al primo piano del palazzetto che affaccia sulla fontana berniniana del Tritone. «Qui da noi stamane è calato quasi il gelo», ci dice un insider, «sulla faccenda c’è quasi un velo di omertà autoimposto dalla redazione».
«Non se ne parla punto e basta» ci dice un altro collega del quotidiano dell’omino col canocchiale, «non è un problema del direttore e neppure, figuriamoci, di noi redattori. La Giustizia farà il suo corso e noi qui siamo tutti fiduciosi che la vicenda possa ben presto essere derubricata a semplice incidente giudiziario». Non molto, certo, ma sicuramente qualcosa di più rispetto ad altri colleghi (qualcuno da noi contattato ci è sembrato palesemente scocciato). Tutto sommato è vero, la situazione giudiziaria dell’editore di un giornale non riguarda certo la linea editoriale e, ancora meno, il lavoro dei redattori. Tuttavia questa piccola inchiesta si è rivelata particolarmente interessante per capire gli umori e gli stati d’animo dei nostri colleghi. Una sorta di autotutela corporativa. Nulla di più, nulla di meno.
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Equilibri. Slitta l’incontro che avrebbe dovuto segnare la pace tra il ministro Matteoli e i costruttori
Le grandi opere? Possono attendere di Francesco Pacifico a un governo che – per citare Giulio Tremonti – vuole riscoprire «un po’ di sano keynesismo», ci si aspettava qualche cantiere in più. E non a caso il sempre pacato Paolo Buzzetti ripete a nome della categoria, e appena può, che «urge un piano straordinario per le infrastrutture». Che «è sconcertante il taglio di risulle sorse» grande opere. Questa mattina il fronte dei costruttori e l’esecutivo avrebbero dovuto stringere un armistizio sulle risorse
D
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
per far ripartire i cantieri. Su quei 16,6 miliardi di euro che Berlusconi non perde l’occasione di ricordare come fiore all’occhiello delle piattaforme anti crisi, ma che il Cipe non ha ancora sbloccato. E non lo farà nel breve termine, se il vertice tra l’Ance e il ministro Altero Matteoli è stato rinviato alla
tivo. Quindi, la parte non ancora impegnata è di soli 3,7 miliardi, provenienti dalla riprogrammazione dei Fas.
A quanto si sa il ministro spera di recuperare da questa voce risorse per lotti della 106 Jonica, della Salerno Reggio Calabria o della Tirrenica. Ancora
Il governo guarda a maxi lavori, che hanno tempi più lunghi di cantierizzazione. Le aziende premono per piccoli contratti, per fare subito cassa prossima settimana. Soprattutto non sono ancora chiare le priorità per il governo – che pure promette di costruire il Ponte sullo Stretto – o le risorse a disposizione.
Facendo la radiografia al famigerato tesoretto da 16,6 miliardi di euro, l’Ance ha scoperto che 3,7 sono destinati alle Ferrovie o alla Tirrenia, altri 7 che arrivano da concessioni autostradali sono dirette verso grandi opere come la CecinaCivitavecchia, e ancora altri 2,3 sono vincolate alla legge obiet-
per grandi opere. Ed è proprio questo il problema. Su questo fronte i cantieri aprono in media dopo due o tre anni dall’assegnazione dei lavori. E prima di quella data non vengono trasferite le risorse. Ai costruttori – che devono fare gli interessi anche delle realtà più piccole, di solito subappaltatori in queste operazioni – interessa invece ottenere denaro subito. Anche perché mentre cresce il credit crunch, il numero degli esuberi potrebbe superare le 200mila unità. Nel breve termine, meglio opere più piccole ma
immediatamente cantierabili. E ne chiede almeno per un miliardo di euro. Il timore dell’Ance è che il governo continui sulla strada delle grandi opere soltanto per spalmare nel tempo le risorse da stanziare, in modo da non peggiorare il debito pubblico. Problema non da poco se si pensa che nel 2009 si sforerà il deficit/Pil fino al 3,8 per cento.
Vista la sua valenza anticiclica, quella delle grandi opere è un’arma che il governo non può lasciarsi scappare. Ne sa qualcosa il ministro Matteoli che ieri, inaugurando la nuova stazione torinese di Porta Nuova, prima ha sottolineato che «l’esecutivo è determinato a chiudere sulla Torino-Lione», quindi è andato a testimoniare tutta la sua stima al commissario Mario Virano, da sempre nel mirino dei no Tav. Eppure è difficile dire se il ministro, dopo aver mediato con le Regioni sulle competenze del piano casa o con il Tesoro per ottenere una maggiore disponibilità, sia in grado di convincere anche i costruttori.
Berlusconi farebbe meglio a mandare in onda lo spot a termovalorizzatori realizzati
Elena Russo, la Bellanapoli ripulita (a metà) apoli. Bella ieri, bella oggi, bella domani”. E’ lo slogan finale della pubblicità televisiva - Pubblicità Progresso - che le tv nazionali si apprestano a mandare in onda. La spazzatura a Napoli non c’è più e il governo Berlusconi lo vuole sottolineare proprio perché invece lo scorso anno, di questi tempi, Napoli era sommersa dai rifiuti. Il premier ha mantenuto la promessa e vuole che si sappia. Il motivo dello spot è questo: il governo Berlusconi è riuscito là dove il governo Prodi ha fallito. Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino sono al loro posto ma sono i veri responsabili del disastro napoletano, mentre il governo del Pdl si segnala per concretezza, decisione e soluzione di problemi. Mettetela come volete, ma il significato ultimo dello spot napoletano è questo.
“N
La ragazza della pubblicità - prima sommersa dai rifiuti, poi ripulita e splendente - è Elena Russo: l’attrice partenopea di fiction che guadagnò notorietà qualche mese fa perché segnalata in una conversazione telefonica tra Berlusconi e Saccà, ex direttore generale della Rai. Doveva lavorare e ha trovato lavoro. Ma, purché il problema rifiuti sia risolto, va bene così. Il punto è proprio questo: il problema rifiuti è risolto
in modo definitivo? Lo spot è stato pensato e realizzato per mandarlo in onda insieme con l’inaugurazione e l’entrata in funzione del termovalorizzatore di Acerra. Invece, ad Acerra si continua a lavorare, ma quella moderna, tecnologica e gigantesca macchina mangia rifiuti non entrerà in funzione a febbraio come era stato detto e sottolineato più volte. C’è un primo rinvio. Slitta l’inaugurazione, slitta l’entrata in funzione, slitta la posa della prima pietra per la costruzione del ciclo di smaltimento dei rifiuti in Campania. Il governo ha fatto bene le cose, ma le ha fatte a metà e fare le cose a metà significa non farle bene. Forse, Berlusconi farebbe meglio a bloccare l’uscita della pubblicità auto-elogiativa. Sarebbe meglio se fosse rinviata a quando ad Acerra la macchina mangia rifiuti sarà effettivamente pronta. Berlusconi - si sa - è uno che di tele-
visione e comunicazione ne mastica, quindi dovrebbe facilmente intuire che mandare in onda quella pubblicità senza aver realmente risolto alla radice il grave problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti a Napoli e dintorni rischia di diventare un boomerang. Lo spot senza almeno il primo dei cinque termovalorizzatori annunciati è un’operazione di propaganda e non di Pubblicità Progresso. Perché a Napoli non ci sono più i rifiuti in strada e ovunque? Perché la spazzatura è raccolta e scaricata nelle discariche. Una riapertura necessaria, ma insufficiente. A metà febbraio dovrebbe aprire anche la contestata discarica di Chiaiano (e il condizionale è obbligatorio). Discariche sono disseminate un po’ su tutto il territorio della regione, nelle aree interne del Sannio e dell’Irpinia. Ma non si può trasformare la Campania in un’enorme di-
scarica: i termovalorizzatori sono indispensabili. Ma ancora non ci sono. Mettiamola così: al momento sono una promessa ancora non realizzata. Ci saranno. Ora non ci sono.
Lo slogan declamato dalla bella Elena Russo come una poesia è un auspicio ma non la verità: “Napoli. Bella ieri, bella oggi, bella domani”. Bella domani non lo possiamo dire con certezza. E’ meglio che il governo lo dica quando potrà parlare direttamente con i fatti interamente realizzati. Questo è stato l’errore commesso da Bassolino e che su Bassolino è ricaduto con la forza della nemesi storica che è propria dei fatti volutamente ignorati e manipolati (anche se don Antonio è ancora sulla sua poltrona, semplicemente perché non sa bene dove andare). Meglio, molto meglio, signor presidente del Consiglio, dire la verità. Meglio, molto meglio, signor presidente del Consiglio, far coincidere pubblicità e realtà, immagini e fatti, Napoli e verità. Meglio, molto meglio, presidente Berlusconi, ritirare lo spot e tornare personalmente a Napoli e dire le cose come stanno. Perché il più grande errore che è stato fatto in questi tristi anni di storia napoletana e italiana è stato proprio l’autoinganno della politica usato ai danni della “Bellanapoli”.
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Interventi. C’è bisogno di una ricetta etica - prima ancora che economica - per la grave situazione internazionale
La globalizzazione responsabile di Luca Volontè er riflettere sulla gravissima crisi economica di questi mesi, è bene tornare a ciò che diceva Luigi Sturzo, dal suo esilio londinese 80 anni fa: «Bisogna tornare al popolo che è l’intera cittadinanza, perché tutti devono godere della libertà»; di rimando, Lord Francis Acton aggiungeva anni prima che gli «ostacoli alla libertà sono non solo le oppressioni politiche e sociali, ma anche la povertà e l’ignoranza». Dunque la povertà ci priva di libertà. Alle origini della nostra storia politica c’è l’idea che solo la persona pensa, agisce, soffre e sceglie, mentre i concetti collettivi quali “stato”, “società”, “classe” sono strumenti semantici.
P
Per questo dobbiamo opporci al nuovo “paternalismo di Stato”, dobbiamo valorizzare quelle attività poste in essere da persone libere e responsabili che danno vita ad organizzazioni sociali per rispondere alle domande provenienti dalla società civile. C’è bisogno di più sussidiarietà proprio in questo momento di crisi economica.
Il problema del futuro non è un nuovo welfare ma un modo diverso di intendere gli interessi di tutti i “singoli” che compongono la società Questa è la sostanza della «nuova giustizia e responsabilità globale» proposta 12 mesi orsono tra gli applausi generali da Benedetto XVI all’Assemblea dell’Onu, ma a questa «Età della Reponsabilità» stanno guardando anche il Presidente
Obama, i leader del G20, il Presidente della Banca Mondiale Zoellek e tantissimi altri Capi di Stati e Governi. L’esperienza storica di molti popoli dimostra l’illusione delle sole politiche redistributive, il Welfare State deve evolversi in “Welfare So-
ciety”. È urgente e necessaria una nuova consapevolezza che il motore dello sviluppo è un habitat civile (capitale sociale) adeguato ad accogliere l’innesto del capitale umano. Noi popolari riteniamo che l’economia sociale di mercato in questo momento sia ancor più attuale. Essa chiede allo Stato di far rispettare le regole del gioco; di promuovere la formazione di associazioni; di intervenire, conformemente al mercato, in maniera sussidiaria e temporanea, per rispondere alla domanda di assistenza proveniente dalla società civile, quando gli organismi che sono più prossimi al bisogno abbiano fallito, ovvero non siano più nelle condizioni di porgere il proprio aiuto. Non è stato il mercato, non è stata la finanza, e non è stata la globalizzazione a produrre questa crisi. Se si sbaglia la diagnosi, non si arriverà a una buona prognosi. La causa della crisi attuale è il cattivo uso degli strumenti di mercato da parte di Governi che hanno camuffato, e non controllato, una crescita del Pil egoistica, artificiale e non sostenibile. A volte
Ristrutturazioni. Il gruppo di Vittorio Merloni smantella uno stabilimento torinese
Chiude l’Indesit.Va in Polonia di Vincenzo Bacarani
ROMA. Proprio nel momento in cui il governo Berlusconi annuncia di voler andare in soccorso non solo del settore auto in forte crisi, ma anche di quello degli elettrodomestici, la Indesit Company di Vittorio Merloni annuncia la chiusura dello stabilimento di None (nel Torinese) con il trasferimento della produzione a Radomsko, in Polonia. Sono seicentocinquanta i possibili nuovi disoccupati, tutti peraltro giovani e a monoreddito. Nello stabilimento piemontese, che aveva già conosciuto una drammatica crisi negli Anni ’70, vengono prodotte lavastoviglie di ultima generazione con importanti meccanismi ecologici e di risparmio energetico innovativi e con una crescita produttiva non di poco conto: 779 mila pezzi nel 2007, 850 mila nel 2008, oltre 900 mila le previsioni del 2009 con un trend il cui aumento costante è stimato intorno al 5 per cento almeno fino al 2010. Insomma la decisione del gruppo Merloni, comunicata due giorni fa ai sindacati, appare come un fulmine a ciel sereno. Il timore è che a fare le spese di questa strategia di contenimento dei costi della Indesit Company non sarà soltanto lo stabilimento di None. Altri 12 sedi italiane potrebbe-
ro, in diversa misura, essere interessate da una “ristrutturazione” a favore di maggiori investimenti dell’azienda nell’Est europeo, dove il costo del lavoro è appetibile. Il caso piemontese suscita comunque apprensione e perplessità, anche perché soltanto sei mesi fa l’azienda aveva confermato ben 53 nuovi contratti di lavoro a termine. Per Giorgio Airaudo, segretario della FiomCgil del Piemonte, quella della Indesit è «un’operazione suicida». Secondo il sindacalista, l’ipotesi formulata dall’azienda per
l’azienda ci ha assicurato che in quella sede non prenderà provvedimenti e non li prenderà in seguito almeno fino al 24 febbraio quando avremo il prossimo incontro».
Al di là dell’episodio a carattere locale, stupisce comunque il fatto che la Indesit tagli i costi a una produzione – quella delle lavastoviglie – che si conferma in forte e costante crescita. A differenza dei frigoriferi e delle lavatrici che sono prodotti affermati da decenni su un mercato sostanzialmente saturo e che si basa ormai sulla rottamazione, le lavastoviglie hanno ancora la possibilità di conquistare fette di mercato nuove. «L’Indesit è il primo gruppo italiano che tenta di chiudere nella nostra provincia – conclude Airaudo – Non so quanto il nostro territorio riuscirà a sopportare la chiusura di uno stabilimento che peraltro è all’avanguardia nell’innovazione». Ieri c’è stata la prima giornata di sciopero.
Gli aiuti promessi da Berlusconi non basteranno: l’azienda si trasferisce a Rodomsko dove continuerà a produrre lavastoviglie ecologiche ammortizzare l’effetto crisi sarebbe poco credibile. «La Indesit – spiega Airaudo – dice che sarebbe disposta a dare una sorta di dote ai lavoratori licenziati affinché possano essere ricollocati in diverse aziende della zona». Soldi insomma a quelle aziende che fossero disposte ad assumerli. «Ma dove si trovano queste aziende? – si domanda il rappresentante della Fiom – In questa parte del Piemonte tutti mandano i propri operai in cassa integrazione». L’undici febbraio si terrà il Consiglio d’Amministrazione dell’Indesit, «ma – afferma Airaudo –
c’è stato fin troppo Stato, ma molto inefficiente.
In fondo, quella che stiamo vivendo è una crisi di valori morali, che non può essere certo curata solo con nuovi organismi sovranazionali e con altrettanti poteri sopranazionali. Se non ripartiamo dalla libertà e responsabilità di ciascuno, da quella «vita di verità» di cui scriveva Vaclav Havel in Charta 77 e da quell’esperienza di popolo che è stata rappresentata per esempio da Solidarnosc, sarà difficile entrare nell’«Età della responsabilità». Responsabilià dev’essere una parola che rivela il concetto di libertà individuale ed integrale. «La terribile responsabilità dell’Occidente è che la decadenza di costumi ha portato gli uomini a sentirsi completamente appagati della loro abbondanza materiale», questo giudizio di Alexander Solzenicyn, deve farci riflettere anche in queste ore. Perché quel che occorre è una nuova globalizzazione responsabile che parta dalle persone, dalle famiglie e dalla libertà sociale e un nuovo impegno degli Stati a far meglio ciò che loro compete.
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il paginone
Perché la complementarietà tra uomini e donne è d
Apologia del matrimonio di Michael Novak segue dalla prima Nei templi dei suoi vicini prossimi e remoti, Israele assistette alla manifestazione regolare di atti rituali di prostituzione e di accoppiamenti sacrali tra capi religiosi e donne (o uomini). Le attività sessuali furono poste al centro delle cerimonie di adorazione virtualmente in tutte le culture, ivi inclusa l’Israele premosaica. Solo in Israele i profeti si opposero a queste attività, scacciandole ripetutamente fuori dal tempio. Il mondo antico considerava che la normalità sessuale si potesse raggiungere con una sessualità sfrenata degli uomini, per i quali le donne fungevano da mero strumento. In molte culture attorno ad Israele, agli atti sessuali tra uomini veniva conferito un valore pari o superiore a quelli tra uomini e donne. In queste culture, poca differenziazione era fatta tra omosessualità e eterosessualità. La differenza importante per la gente quindi stava in chi praticava la penetrazione e chi veniva penetrato, non in quale genere giocava quale ruolo. Contro questa visione comune di normalità sessuale si stagliò Mosé. Egli insegnò ad Israele, potenzialmente da solo, ad adottare un nuovo standard di vita sessuale. Questo standard dava la sua benedizione solo ad atti sessuali tra un uomo e una donna all’interno del legame pattuito di matrimoni monogami. Che elevata concentrazione di energie ha portato al mondo. Che grande dignità ha dato alle donne, non considerandole più come strumento. Molte élites in altre culture hanno continuato a sprecare le loro energie nel sesso polimorfo, passando intere giornate immersi nelle arti del piacere – gli odori, i profumi, la musica, i languidi corpi di danzatrici. In questo mondo saturo di sesso, le donne rimanevano meri strumenti. Come scrisse Norman Sussman “La donna era vista come una domestica con due
ruoli: come moglie che doveva grandi conseguenze sociali. Primandare avanti la casa, come ma, la donna ha raggiunto l’ucortigiana che doveva soddisfa- guaglianza con l’uomo attraverre i desideri sessuali dell’uomo”. so l’unione sacra del matrimoQuando si considerano i piaceri nio. «E Dio creò l’uomo a sua dei sensi come lo scopo più alto immagine; lo creò a immagine nella vita – non serve uno studio, ne’ un’indagine, ne’virtù civica – lo sviluppo culturale ed economico subisce un forte ritardo. Osiride era il dio egiziano degli inferi, oltre che L’attività sessuale rapdella fertilità e del’agricoltura. È una delle divinità presenta lo scopo più dell’Enneade ed il suo culto fu uno dei maggiori alto della vita? Per Modell’Egitto, dove le sue statue decoravano moltissimi cortili dei templi. Originario della città sé e la gente di Israele, di Busiris, fu sepolto nella città di Abydos, centro sicuramente non lo era. del suo culto. Fu proprio lui, assieme ad Iside, a Certamente era qualcocivilizzare l’umanità insegnandole l’agricoltura. Il sa di buono e di essensuo culto della fertilità, inizialmente diffuso nel ziale alla procreazione. delta, in seguito si espanse in tutto il resto del paese. Nel Duat, l’oltretomba, Osiride pesava i Non si aveva alcuna incuori dei morti su un piatto della bilancia, mentre tenzione di reprimere sull’altro vi era una piuma. Le anime che la sessualità, si intendepesavano di più a causa dei peccati venivano date va piuttosto correre – e in pasto ad Ammit, mentre quelle che erano abbastanza leggere venivano mandate da Aaru. correre a fondo – solo Figlio di Nut e Geb, Osiride ebbe da sua sorella in una direzione. Iside il figlio Horo. Beb fu il suo primo figlio. Da questa sublimazione si sono sollevate due
Osiride, il dio egiziano degli inferi
Gli dei di tutte le civiltà hanno avuto relazioni sessuali. Ishtar sedusse Gilgamesh, Osiride ebbe rapporti con Iside, Krishna ebbe molte mogli, Samba si accoppiò con uomini e donne
Ihstar, la dea mesopotamica che seduceva gli uomini (e gli animali) Ishtar era, nella mitologia mesopotamica, la dea dell’amore e della guerra. A lei era dedicata una delle otto porte di Babilonia e aveva contemporaneamente l’aspetto di dea benefica (amore, pietà, vegetazione, maternità) e di demone terrificante (guerra e tempeste). I principali centri del suo culto erano Uruk, Assur, Babilonia e Ninive. Come spesso accade, i numerosi miti riguardanti Ishtar sono spesso in contrasto tra loro. In alcuni racconti è figlia di Sin, dio della luna, e sorella di Shamash, dio del sole mentre in altri è descritta come figlia di Anu, dio del cielo. In tutti i racconti, comunque, si mantiene l’associazione della dea con il pianeta Venere (da cui l’appellativo di “Signora della Luce Risplendente”) e l’iconografia della dea è associata alla stella ad otto punte (lo stesso correlato, nell’iconografia cristiana, alla Vergine Maria). Nell’Epopea di Gilgamesh, Ishtar rappresenta l’amore sensuale e viene descritta come innamorata prima del pastore Tammuz, poi di un uccello, di un leone, di un cavallo, di un giardiniere ed in ultimo di Gilgamesh stesso, che la rifiuta a causa della crudeltà della dea che aveva condannato ad un triste destino tutti i suoi precedenti amanti. In un’epoca successiva Ishtar divenne anche la protettrice delle prostitute e dell’amore sessuale, oltre che la dea delle tempeste, dei sogni e dei presagi, che distribuiva agli uomini potere e conoscenza.
il paginone
destinata ad accrescere la felicità degli esseri umani
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se, nemmeno il bene come lei identico, all’altro. In questa difvorrebbe che fosse, ma il bene di ferenza sta la complementarietà lei oggettivo come lo identifica dinamica. (Il grande giornalista la ragione. Così anche il sesso è G. K. Chesterton una volta si amore realistico. Non si tratta di meravigliò nel corso della sua auto-indulgenza re- prima lunga visita in America, «Il legame ciproca, ma della che gli americani ricorressero al tra uomo maturità e del vivere divorzio «per ragioni di income donna virtuosamente che patibilità». «Io avrei pensato,» nel matrimonio crescere una fami- commentò seccamente, «che è destinata glia comporta (Non l’incompatibilità fosse una raad aumentare avrebbe senso spo- gione per il matrimonio»). il meglio sarsi se non si è didi tutte le forme sposti a sentire la Quindi, la complementarietà di felicità verità su se stesso – tra uomo e donna nel legame del tra gli esseri specialmente tutte matrimonio – un’immagine priumani: quelle verità che vilegiata di Dio – è destinata ad la crescita non si vuol sentire – aumentare il meglio di tutte le in nobili dal proprio coniuge forme di felicità tra gli esseri abitudini e dai propri figli). umani: la crescita in nobili abidel cuore, in virtù, in onestà e nel prendersi cura l’uno dell’altra, “fino a che morte Nella religione induista, Krishna è una delle rappresentazioni della divinità più popolari e venerate, nonché il supremo aspetto di Dio non li separi”. per i vaisnava (una delle tre principali correnti devozionali di questa E questo genera religione). Ottava incarnazione di Vishnu, Krishna è l’avatar per società eccellenza. Viene spesso raffigurato mentre suona il flauto di nome produttive, Murali, generalmente in compagnia delle Gopi (pastorelle) e di Radha, la più devota di esse. Il suo nome è spesso preceduto dal creative titolo di rispetto induista “Shri”. e sempre In sanscrito, il termine Krishna ha il significato letterale di “nero” o in evoluzione, “scuro”, ed identifica qualcuno con la pelle scura. Il Brahma Samhita guidate descrive il colorito della pelle di Krishna come simile al colore delle dai desideri nuvole cariche di pioggia, ed è per questo che egli è spesso rappresentato nei quadri col volto e la pelle blu, blu scuro se non di perfezione addirittura nera. Da questo deriva uno dei suoi epiteti, Ganashyama, che deve ancora che letteralmente significa appunto “dalla pelle del colore delle nubi venire cariche di pioggia”. La tradizione Gaudiya afferma che il significato (e che non primario di Krishna sia comunque “l’infinitamente affascinante”, giustificato da un’interpretazione di un verso nel Mahabharata. sarà mai Krishna è inoltre il cinquantasettesimo nome di Vishnu e significa completamente “esistenza di conoscenza e beatitudine”. realizzata)»
Krishna, il dio induista della conoscenza
Mosè insegnò a Israele ad adottare un nuovo standard che dava la sua benedizione solo agli atti sessuali tra un uomo e una donna all’interno del legame di un matrimonio monogamo di Dio; li creò maschio e femmina» (Genesi 1:27). Questo testo dice chiaramente che la radiosità divina nella vita umana splende attraverso l’unione matrimoniale di uomo e donna. Qui ogni persona trova completezza. Solo insieme, in un insieme unico e completo, la coppia sposata porta l’immagine del Creatore.
La seconda grande conseguenza sta nell’indirizzare l’immensa
energia nella società attraverso la sua unità fondamentale, la famiglia – e non soltanto l’energia ma anche la continuità della consapevolezza ed il desiderio di un futuro più perfetto. Da qui l’ebraismo ha dato vita all’idea di progresso. L’ebraismo ha introdotto il mondo antico alla realtà del progresso. L’ebraismo vede se stesso sempre come qualcosa di non finito, sempre insoddisfatto. «Il prossimo anno
a Gerusalemme,» quando «il leone giacerà con l’agnello» e il Messia infine apparirà. Ogni famiglia, nel momento della condivisione del pasto, porta queste speranze verso il futuro. Fare progresso è, nel tempo, sempre un affare non finito.
Vale la pena notare che l’energia fondamentale della famiglia, in questa visione, è l’amore coniugale. Questo amore non è un sentimento o un desiderio appassionato, ma un deciso impegno al bene dell’altro. Non “il bene di lei” come vorreste che fos-
Coloro che vivono strettamente insieme arrivano a spargere le illusioni dell’uno verso l’altra e viceversa e ad amare nell’altro il lato migliore che ognuno vorrebbe avere. Questo è amore realistico. Inoltre, l’uomo e la donna, benché siano sicuramente eguali nel matrimonio, non sono identici. Un sesso è opposto, non
tudini del cuore, in virtù, in onestà e nel prendersi cura l’uno dell’altra,“fino a che morte non li separi”. Anche questa complementarietà è intesa a generare società produttive, creative e sempre in evoluzione, guidate dai desideri di perfezione che deve ancora venire (e che non sarà mai completamente realizzata).
mondo
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Missili e dialogo. L’obiettivo è recuperare Mosca come alleato per fermare i piani atomici di Iran e Corea del Nord. A costo di rinunciare allo scudo
La mossa di Obama Il Times rivela la nuova strategia del presidente: proporre a Putin la riduzione delle testate nucleari di Enrico Singer hiudere un nuovo accordo con Mosca sulla riduzione dei missili strategici a testata nucleare entro quest’anno e recuperare la Russia come alleato per fermare la corsa alle armi atomiche di Corea del Nord e Iran. La strategia del dialogo di Barack Obama con il Cremlino si precisa. E come era prevedibile - oltre che annunciato in campagna elettorale - rappresentra un taglio netto con la dottrina Bush. Lo scudo antimissile in Polonia e Repubblica ceca è ormai accantonato dalla Casa Bianca, i segnali di distensione tra Hillary Clinton, neosegretario di Stato, e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, si moltiplicano e il primo incontro bilaterale tra Obama e Medvedev, che si terrà il 2 aprile a Londra in margine al vertice del G20, potrebbe già sugellare la svolta. È stato proprio il britannico Times ad anticipare il piano della nuova Amministrazione citando «un alto funzionario americano» che Washington non ha smentito e che Mosca ha subito accolto «con favore», come ha detto il vicepremier Sergei Ivanov.
C
In che cosa consiste il piano di Obama? Alla fine di quest’anno scade l’accordo Start (Strategic Arms Reduction Treaty) che gli Usa e l’allora Urss conclusero nel 1991 a Helsinki con la storica firma di George Bush senior e di Mikhail Gorbaciov. Quel trattato prevedeva la riduzione delle armi offensive nuclerai da 10mila a 6mila per parte: obiettivo che è stato raggiunto, ma che ha lasciato ai rispettivi arsenali una potenza distruttiva colossale e che, tra l’altro, richiede una spesa altrettanto colossale per l’aggiornamento degli ordigni e dei vettori che li trasportano: dai grandi missili intercontinentali a quelli imbarcati sui sottomarini. Barack Obama, adesso, punta a un taglio ancora più drastico: vuole ridurre a mille le testate nucleari degli arsenali americano e russo. Per arrivare a questo obiettivo riprenderanno al più presto i negoziati con Mosca che saranno condotti da Hillary in persona e che «procederanno a tappe forzate», secondo le
anticipazioni del Times, in modo da chiudere la partita in dicembre. Per accelerare i tempi, Obama ha anche l’intenzione di creare alla Casa Bianca uno speciale “ufficio per la non-proliferazione nucleare”che avrà il compito di seguire passo passo tutte le discussioni e che dovrebbe essere guidato da Gary Samore, un esperto di armamenti nucleari che ha seguito tutti i negoziati per la non-proliferazione durante la presidenza di Bill Clinton e che, come tanti altri
clintoniani è stato imbarcato nella nuova squadra di Barack Obama.
L’alto funzionario americano citato dal Times non fa riferimento al futuro dello scudo anti-missile che aveva progettato George W. Bush, ma c’è una frase nelle sue dichiarazioni che suona come un’allusione abbastanza chiara: «Vogliamo riportare la Russia in un tradizionale processo di riduzione degli armamenti e siamo pronti a impegnarci in un dialogo più ampio sulle questioni che preoccupano Mosca». E quello che preoccupa di più i russi, si sa, è proprio lo scudo
Barack Obama nello Studio ovale della Casa Bianca e, sotto, missili nucleari russi sfilano sulla piazza Rossa a Mosca. A destra, Putin visita una fabbrica d’armi, e il lancio di un razzo americano. In basso, il dimissionario ministro Usa, Tom Daschle
Dimissioni. In sole due settimane, la nuova amministrazione Usa ha registrato tre false partenze
Ma il dream team è diventato un circo di Peter Wehner e dimissioni di Daschle, e tutto ciò che le circonda, sono una seria batosta per Obama. Questo è forse il peggior inizio di un mandato presidenziale che io possa ricordare; peggiore, addirittura, dei primi giorni passati a sbucciare banane di Bill Clinton (che in ogni caso ha rimesso le cose a posto dopo una pessima partenza e una bastonata alle elezioni di metà mandato). Il
L
problema per Obama, credo, è che buona parte del suo fascino è stato estetico, teatrale e tonale, basato sulla volontà di creare sentimenti e impressioni particolari. L’appello di Obama non è, e non è mai stato, basato su qualcosa di solido, filosofico o permanente. Noi non dovremmo reagire in maniera eccessiva ai guai di Obama. Due settimane fa, il sentire comune lo poneva sul tetto del mondo;
oggi, il team Obama sembra essere in difficoltà, fuori posto e - per citare il cronista della Espn Chris Barman «barcollante e tremolante».
Il pericolo in politica è quello di dare a un momento particolare più importanza di quanta ne meriti. In politica il pendolo oscilla velocemente, e in entrambe le direzioni. Obama ha perso molta altitudine in una manciata di gior-
mondo anti-missile che Bush voleva realizzare per contrastare eventuali attacchi nucleari da parte di “Paesi canaglia” - l’Iran in particolare - ma che il Cremlino ha sempre considerato come una mossa-chiave della politica dell’accerchiamento alla quale aveva deciso di reagire minacciando d’installare missili a testata nucleare a Kaliningrad, l’enclave russa tra Lituania e Polonia. Obama non ha ancora preso una decisione finale sullo scudo: per ora ha soltanto rinviato la costruzione della stazione radar nella Repubblica ceca e il dispiegamento dei missili anti-missile in Polonia. Ma è evidente che il futuro del progetto di Bush è legato agli sviluppi della nuova politica di dialogo lanciata dalla Casa Bianca e le prime reazioni russe sono molto positive. «Anche noi siamo pronti a negoziare un nuovo accordo per la riduzione degli arsenali nucleari», ha detto il vicepremier, Sergei Ivanov, confermando che tra Mosca e Washington il clima è davvero cambiato. Hillary Clinton ha anche telefonato al ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, per parlare sia di disarmo, sia delle altre questioni critiche dello scacchiere internazionale - dall’Afghanistan, all’Iran, alla Corea del Nord - sulle quali Russia e
ni. Ci sono le due dimissioni all’ordine del giorno (Daschle e la “zarina della performance” Nancy Killefer) che superano il ritiro di Bill Richardson; il danno che questo crea alla strategia presidenziale di “avere a cuore la salute”.
La realtà scomoda è che lo stesso Segretario del Tesoro Tim Geithner - secondo ogni corretta lettura dei dati - è uno che mente sulle tasse; è che si verifica una ripetuta violazione delle stesse leggi etiche e di lobby di Obama; e che, infine, esiste un perfettamente orribile pacchetto “stimulus”, che non è stato scritto dal presidente o dal suo team, ma dai democratici li-
berali di Washington. E che ha provocato la fine delle speranze che guardavano a un decreto legge ampiamente accettato e bi-partisan. Secondo Marc McKinnon, «questo decreto è come un corpo in putrefazione. Ogni giorno che passa, è seduto alla luce del giorno. E inizia a puzzare sempre di più. Il sostegno pubblico nei suoi confronti è già calato del 50 per cento». Ovviamente, in tutto questo c’è una sorta di ruvida giustizia. L’arroganza del team Obama era palpabile a chiunque la osservasse.
Avevano presentato loro stessi, con una mossa senza precedenti, come i più puri, i
migliori e i più intelligenti mai arrivati al ruolo che ora ricoprono. Loro avrebbero “voltato pagina”, scaldato a terra e ribaltato le maree.
La politica sarebbe stata ripulita, e la ragione avrebbe prevalso su tutto. Era pronta a partire una macchina in grado di operare come nessun’altra. E ora, a sole due settimane dall’ingresso nella presidenza, abbiamo davanti quello che Matt Drudge ha definito “un circo”. Ora hanno capito che governare è più difficile che fare campagne elettorali, e che mantenere le proprie promesse è molto più difficile che farle. Chi lo sapeva?
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Stati Uniti «hanno convenuto di mantenere intensi contatti», come afferma il comunicato del ministero degli Esteri di Mosca che ha dato notizia del colloquio telefonico tra Hillary e Lavrov.
Il riferimento ai temi più caldi che sono sul tavolo del nuovo presidente americano conferma che nella strategia del dialogo con la Russia non ci sono soltanto concessioni alla coppia Putin-Medvedev. Obama si augura che alla sua mano tesa corrispondano passi altrettanto collaborativi da parte del Cremlino: sia sul fronte iraniano che su quello nordcoreano. Ieri c’è stato in Germania, a Wiesbaden, il primo incontro del sotto-
segretario di Stato americano, William Burns, con il gruppo “5+1” (Germania, Russia, Gran Bretagna, Cina e Francia) che tratta con Teheran sulla questione nucleare. E il rappresentante dell’Amministrazione Obama ha espresso la profonda preoccupazione americana per il lancio del primo satellite per telecomunicazioni iraniano che ha dimostrato la capacità di Teheran di mettere in orbita uno strumento spaziale che, oggi, è civile, ma che domani potrebbe anche essere militare. La linea della mano tesa che Obama vuole inaugurare nei confronti dell’Iran resta, ma a patto che anche il pugno di Teheran si allenti. La stessa situazione si ripete con la Corea del Nord che, ufficialmente, ha rinunciato al suo piano nucleare in cambio degli aiuti occidentali, ma che starebbe preparando il lancio di un nuovo missile intercontinentale capace di raggiungere l’Alaska e le coste occidentali degli Usa. Nella fase più dura del confronto tra Washington e Mosca, a metà 2008, quando si parlò del ritorno della Guerra Fredda, la Russia aveva assunto una posizione molto ambigua tanto sull’Iran che sulla Corea del Nord, Paesi ai quali ha sempre fornito attrezzature e materiali per sviluppare i rispettivi programmi nucleari. La nuova strategia che la Casa Bianca sta mettendo a punto nei confronti di Mosca dovrebbe ottenere una virata della coppia Putin-Medvedev. Almeno questa sembra essere la scommessa di Obama.
reportage
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Crisi d’Oriente. Estonia, Lettonia e Lituania sono in Europa e hanno puntato tutto sulla finanza. Ma oggi non vale più nulla
Il Mal Baltico di Franz Gustincich
ono tre nazioni distinte, ma la loro storia e i loro guai li farebbero pensare come un solo Paese. I presidenti di Lituania, Lettonia ed Estonia combattono contro problemi identici, provengono da una dominazione zarista, un’occupazione nazista ed una colonizzazione sovietica ma, soprattutto, soffrono dello stesso male. Quando, nel 2004, entrarono nell’Unione Europea, e la Lituania aprì la frontiera meridionale, i tre Paesi apparivano sulla cartina come una di quelle torri fatte sgocciolando dal pugno acqua e sabbia, impilate l’una sull’altra. Ad oriente l’orso russo e la Bielorussia, a sud la Polonia: cosicché viaggiare via terra per Tallinn significa dover attraversare tutti questi Paesi verticalmente. Qualcuno ci scherza su chiamandoli Qui, Quo e Qua come i nipoti di Paperino ma, a differenza di questi personaggi, i Paesi baltici non hanno il por-
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cellino salvadanaio di loro proprietà. La crisi globale ha aggredito con maggior virulenza le nazioni che, per entrare in Europa rapidamente, si sono affidate alla strada più breve e insidiosa. Invece di ricostruire gradualmente un tessuto industriale obsoleto ed improduttivo, i tre si sono affidati alla finanza, ottenendo grandiosi risultati fintanto che la bolla speculativa ha sorretto il peso di se stessa, per poi precipitare più vorticosamente degli altri. Il benessere era stato raggiunto grazie all’indebitamento e alla privatizzazione di molti servizi essenziali, sanità in primis. Quando i flussi finanziari e gli investimenti dall’estero sono venuti a mancare, la gente ha cominciato a chiedersi se l’Europa è stato un buon investimento. Esatto: anche qui, nelle ex Repubbliche Sovietiche Baltiche, l’Unione Europea è vissuta come una mera associazione d’imprese.
Tallinn, patria di alcol ed ecologia el centro storico di Tallinn l’era sovietica non sembra aver lasciato alcuna traccia di sé. I turisti passeggiano a gruppetti sulle pietre arrotondate del pavé, che costringe le ragazze estoni ad arditi equilibrismi sui tacchi a spillo. Ai margini della città vecchia sono parcheggiati numerosi Suv. La crisi economica sembra lontana da qui, ma basta entrare in un fast food ed incontrare un signore vestito dignitosamente e con la barba curata, che osserva la gente mangiare. A un tratto si alza e, pochi passi dopo, raccoglie una polpettina caduta dal pasto di un bimbo, ingoiandola rapidamente pensando di non essere stato notato da nessuno. Le auto di grossa cilindrata parcheggiate fuori si rivelano la facciata di una ricchezza evanescente, poiché sono tutte in vendita per prezzi ridicoli: il boom economico basato sui servizi finanziari, sul terziario avanzato e soprattutto sugli investimenti
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stranieri attratti dalla basse tasse sui profitti è cessato di colpo, lasciando tonnellate di ingiunzioni di pagamento per rate che non possono più essere onorate. In Estonia la miseria non colpisce del tutto indiscriminatamente: coloro che più degli altri faticano a mettere insieme il pranzo con la cena, parlano russo. Sono i figli e i nipoti di chi ha vissuto sulla propria pelle i trasferimenti coatti, strategicamente organizzati da Stalin per “russificare i Paesi Baltici”. I russi post sovieti-
ogni Paese della Ue e in Russia. Tra i russi venuti prima della Rivoluzione d’ottobre e quelli arrivati dopo il 1940, in seguito alla cessione dei Paesi Baltici all’Unione sovietica da parte degli occupanti nazisti, si raggiunge il 26 per cento della popolazione, che conta in totale 1.300.000 anime.
Un sondaggio della radiotelevisione di stato estone ci dice che i russi d’Estonia sono molto più preoccupati per il futuro rispetto ai loro“concittadini”estoni: ben il
I russi giunti qui dopo la cessione dei Paesi baltici all’Unione Sovietica sono il 26 per cento della popolazione. Che subisce discriminazioni e rischia di perdere il lavoro molto più degli altri ci non godono di una piena cittadinanza: hanno un passaporto grigio che non consente loro di viaggiare del tutto liberamente. Poco di più di una carta d’identità che permette l’ingresso in
50 per cento dei primi paventano la disoccupazione, contro il 23 per cento dei secondi. Se lo spettro della disoccupazione spaventa, l’incremento dei prezzi al dettaglio nell’ultimo trimestre pro-
pone un quadro addirittura terrificante: l’aumento generale è stato dell’8,3 per cento. Questo dato, tuttavia, tiene conto anche dell’aumento dell’aliquota fiscale sugli alcolici, senza la quale la media dei prezzi sarebbe cresciuta“solo”del 6,7 per cento. Ma in Estonia, come in molti Paesi del nord Europa, è opportuno mantenere all’interno delle statistiche anche l’alcol, poiché spesso rappresenta una voce consistente nel bilancio delle famiglie. E se lo stipendio costringe a scegliere tra liquori o pasto di mezzogiorno, ecco che ci si ingegna con il samagon. Facciamo un salto in uno dei numerosi villaggi di dieci o venti case con il tetto spiovente, dove il samagon parola russa che significa pressappoco “autofuoco” - è molto diffuso: una fila di uomini di fronte alla porta di una casa significa che quel giorno il proprietario sta vendendo la terribile bevanda alcolica ottenuta distillando il prodotto della fermentazione di zucchero, lievito e qualche vegetale, come le bucce delle patate. L’alcol è una vera piaga sociale,
in Estonia, al punto che le donne ritengono che un uomo sia abile solo fino a quarant’anni e poi non serva più a nulla perché ormai completamente alcolizzato. Certamente un’esagerazione, ma utile per capire la tendenza. E poi basta andare in un supermercato con il reparto alcolici per capire la quantità di alcol che scorre nelle vene dei cittadini. Nel supermercato Rimi i carrelli sono sempre semivuoti, a parte le bottiglie incartate. Due guardie private, spalle alla vetrina e braccia conserte , vigilano ostentando un addestramento da spetznaz, le forze speciali russe. Il supermercato sembra essere più protetto della residenza del presidente della Repubblica Toomas Ilves, a Kadriorg, il quartiere che ospita anche il “palazzo d’estate” dello zar Pietro I. Il Presidente non ha guardie visibili, ed è possibile avvicinarsi fino a poggiare i piedi sullo zerbino di fronte alla sua porta, senza che nessuno se ne avveda.
Problemi di ordine pubblico e di sicurezza sembrano non essercene, almeno fin dal 27 aprile
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del 2007, quando il governo decise di spostare nel cimitero militare, fuori città, la statua dedicata ai caduti russi della seconda guerra mondiale provocando le ire della comunità russofona. Furono tre giorni di sconquassi più che di combattimenti cittadini e ad avere la peggio furono, manco a dirlo, i negozi di liquori, che vennero saccheggiati. L’infausta decisione di spostare Alyosha venne presa perché ogni 20 agosto – anniversario dell’indipendenza dalla Russia avvenuto nel 1991 – le cerimonie erano due: una degli estoni e l’altra dei russi che, non avendo nulla da festeggiare, andavano a deporre fiori alla base della statua del “soldato invasore”.
Per le “giornate di Tallinn”, da più parti sono piovute accuse al Cremlino, indicato come il vero responsabile dei disordini. Il Cremlino, com’è ovvio, ha negato qualsiasi responsabilità. L’Estonia è probabilmente il Paese europeo con il più alto livello tecnologico nelle comunicazioni. I luoghi da cui è possibile collegarsi a internet con la tecnologia wireless sono presenti fin nel più remoto dei villaggi e il Parlamento ha già varato una legge che permetterà ai cittadini estoni di votare alle elezioni del 2011 con il proprio cellulare. La tecnologia, però, non è stata in grado di difendersi da quella che è diventata nota come Estonian cyberwar: dal 27 aprile al 4 maggio del 2007 l’intero Paese è precipitato nel caos informatico. Gli hacker sono riusciti a bloccare praticamente tutte le attività che richiedono un computer: linee telefoniche, transazioni bancarie, siti web, trasmissioni radiofoniche, e-mail ecc. Sebbene
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Sopra, la rappresentazione del Natale da parte di una famiglia neo-catecumenale di Tallinn. I cattolici nel Paese sono circa seimila, che convivono con due chiese ortodosse distinte. A sinistra, una veduta della capitale. Nella pagina a fianco, in basso: il quartiere di Kopli, un treno che porta petrolio e uno stabilimento della Sekto
sia stato stabilito che l’attacco proveniva dalla Russia, non è mai stato provato un coinvolgimento governativo di Mosca. Le liti tra Estonia e Russia solo raramente coinvolgono la chiesa ortodossa di Mosca che, naturalmente, parteggia per la comunità russa.
Nel Paese che ha dato i natali al patriarca Alessio II, recentemente scomparso, ci sono infatti due chiese ortodosse, e tra le due non corre buon sangue. Le questioni sembrano essere più materiali e politiche che non semplicemente di supremazia morale: proprietà, antichi diritti e il rifiuto da parte estone di seguire la messa in russo e viceversa. La religione però è l’ultima delle preoccupazioni della gente. Gli anni sovietici hanno probabilmente indebolito la spiritualità. Si assiste, però, alla rina-
gnolo, francese, italiano. È normale sentire padre Alfonso celebrare in due di queste lingue contemporaneamente.
Della parrocchia fanno parte alcune numerose famiglie italiane di neocatecumenali, in missione di evangelizzazione. Hanno imparato l’estone e un po’ di russo, e nei cinque anni spesi a Tallinn, sono entrati in confidenza con la gente, ma con difficoltà. Gli estoni sono schivi, riservati, talvolta timidi, e non hanno ancora superato la pressione sovie-
Le tensioni con il patriarcato di Mosca si sentono molto, nonostante il comunismo abbia allontanato la gente dalla religione e dalle chiese. Rinasce invece una sorta di “paganesimo” naturale scita delle religioni pagane tradizionali, dove si adorano fenomeni naturali quali tracimazioni di acqua dalle cavità carsiche e forme vegetali antropomorfe. Il paganesimo preoccupa un po’le autorità religiose, e l’evangelizzazione è uno degli strumenti della chiesa cattolica per «riavvicinare la gente a Dio», dice padre Alfonso di Giovanni, parroco di San Pietro e Paolo a Tallinn e di almeno metà dei cattolici estoni. «Seimila secondo il censimento, solo la metà i praticanti», dice. La chiesa, vecchia di due secoli, offre i servizi sacri in una miriade di lingue: estone, russo, inglese, spa-
tica che rendeva tutti diffidenti. La presenza dei cattolici italiani ha permesso ad alcune persone di risorgere, soprattutto se provenienti dalle fasce della popolazione gravate da pesanti problemi sociali. Se Tartu è famosa per la sua Università e per le terribili celle del Kgb, trasformate oggi in un museo dell’orrore, Tallinn è considerata la Bangkok dell’Europa, con prostituzione a prezzi di saldi fuori stagione e un tasso di Hiv tra i più alti in Europa (1,5 per cento). La gente ha un modo diverso di vivere e manifestare il pudore: basti pensare che, come ha testimoniato un residente ita-
liano, «nella scuola di mio figlio non sono state previste le porte dei gabinetti né ambienti divisi per maschi e femmine». D’estate la città si riempie soprattutto di finlandesi e di italiani. La prostituzione per stranieri si svolge nel centro della città, ma la periferia non è indenne dal fenomeno che, anzi, assume connotati più torbidi. Nel quartiere di Kopli, per citare una delle zone di emarginazione, si parla soltanto russo. I problemi sociali sarebbero determinati dalla disoccupazione, dall’avvento della criminalità russa di basso rango, dallo spaccio, dalla prostituzione e dall’immancabile alcolismo. Un quartiere di questo tipo lo si immagina circondato da una cintura di collinette di rifiuti e macerie, e invece l’efficienza estone nella gestione del ciclo dei rifiuti ha reso il quartiere di condomini sovietici praticamente immacolato.
Le aziende che provvedono alla raccolta ed allo smaltimento sono tutte private. Una in particolare, fondata in epoca sovietica, si chiama Sekto e si occupa soltanto della carta e delle bottiglie di plastica. Il lavoro è in buona parte manuale, le misure di sicurezza un’opinione, ma l’impianto, che con 35 dipendenti vende carta da macero anche alla Cina, gode di ottima salute, crisi globale permettendo. Secondo il direttore, gli stipendi sono in linea con la media na-
zionale: circa 750 euro. I capannoni, malamente illuminati da tubi al neon, sono aperti, e la temperatura interna è uguale a quella esterna: - 8 gradi. La velocità con la quale gli operai lavorano è forse la sola difesa contro il congelamento. La Sekto raccoglie carta in Estonia, e si intuisce lo sviluppo incredibile che il Paese ha sostenuto dalla quantità di materiale pubblicitario che entra in una delle presse tedesche per uscire imballata e pronta per la spedizione. Il piazzale che divide i capannoni è una lastra di ghiaccio che rende pericoloso il camminare. Un infortunio sarebbe un guaio serio, perché in Estonia la sanità è stata quasi completamente privatizzata.
L’ospedale di Voru, nel sud del Paese, ne è un esempio. All’interno è tutto nuovo, riverniciato, ricostruito. L’ospedale è fuori città, in mezzo ad un bosco, a due passi da un lago affollato di pescatori che hanno praticato fori nel ghiaccio per calare le lenze. Ma il bilancio delle aziende private è teso al risparmio, quindi le medicine quasi non vengono fornite, e si tende ad evitare persino le degenze, minimizzando l’entità delle malattie. Chi non può pagare cerca soluzioni alternative come l’erboristeria. E si torna così alla natura, chiudendo il cerchio con la spiritualità ed il paganesimo silvestre.
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Sopra, una veduta della capitale lettone Riga: l’architettura della parte vecchia ricorda quella descritta nelle favole dei fratelli Grimm. Il centro storico è estremamente vario, con edifici dagli stili differenti (l’art nouveau predomina) e riccamente decorati. A sinistra, un bar all’aperto in piazza Dom. Nella pagina a fianco, Vilnius: la strada principale Ostrobramska e il castello dell’isola di Trakal
Riga e la sfida di Mosca tra spie e turisti di lusso Paesi dell’ex Patto di Varsavia, un tempo collocati all’interno della cortina di ferro, hanno molte cose in comune.Tra queste, una in particolare colpisce immediatamente il viaggiatore: strade strette e sconnesse. La Lettonia non fa eccezione. Gli spostamenti sono difficili ed è impossibile fare previsioni sui tempi di percorrenza. Arrivare a Riga in automobile, soprattutto in inverno, significa avere gomme da neve. Sebbene le strade principali siano costantemente monitorate ed il sale sparso a palate, ogni altra strada è ricoperta da una spessa lastra di ghiaccio, così come le piazzole dei distributori di benzina. Il carburante non costa poco, se confrontato con il prezzo degli altri Paesi baltici: 85 centesimi al litro. Un benzinaio dipendente guadagna circa 450 euro al mese, ancora meno di uno degli agricoltori che, insieme ai piccoli proprietari terrieri, hanno recentemente invaso le strade con i loro trattori.
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La bancarotta sarebbe dietro l’angolo, secondo il Centro russo per le Ricerche Strategiche: tra due anni il crollo della Lettonia sarà totale. Ma le tensioni tra Lettonia e Russia potrebbero esagerare le analisi che i rispettivi Paesi diffondono nei confronti del vicino. Estonia, Lettonia e Lituania hanno una storia comune, che racconta di dominazioni zariste, naziste e sovietiche. Riga è considerata, tra le tre capitali, luogo di intrighi e spionaggio. Non solo
lo scrittore svedese Henning Mankell vi ha ambientato uno dei suoi più noti romanzi, I cani di Riga, ma anche nella realtà troviamo Mithrokin, con il suo famoso e pesante dossier, bussare alla porta dell’ambasciatore britannico in Lettonia il 24 marzo del 1992, prima di venir portato in una località segreta dell’Inghilterra dal controspionaggio della regina.
Gli stranieri, oggi, non sono più spie ma turisti. Riga è una città i cui palazzi potrebbero essere stati progettati dallo stesso architetto della casa di marzapane di Hansel e Gretel. Il centro storico è estremamente vario, con edifici dagli stili differenti - l’art nouveau predomina- e riccamente decorati. Stranieri, però, sono considerati anche i russi che vivono qui da molte generazioni, che fanno parte di una comunità in crescita però abbastanza impermeabile persino alla lingua ufficiale del Paese, il lettone. Tra i Paesi dell’Unione Europea, la Lettonia è quello con la percentuale più alta di immigrati, ormai quasi il 20 per cento, dei quali la gran parte provenienti dalla Russia. I lettoni, invece, tendono ad emigrare: la popolazione è passata da 2,7 milioni nel 1989 ai 2,2 del 2007. Partono soprattutto i giovani, in cerca di lavoro, innalzando l’età media del Peese, che rimane comunque la più bassa nell’Ue: 40 anni. Il miscuglio esplosivo che si è generato dall’incontro tra l’impermeabilità della comunità russa all’inte-
Stipendi decurtati, emarginazione totale della cultura russa e rilancio del turismo di alto livello: le chiavi per superare la crisi non salvano il Paese dal rischio fallimento, previsto in due anni grazione, i flussi migratori, il rancore mai sopito dei lettoni per gli ex occupanti e dalla crisi economica, ha spinto il ministro della Giustizia, Gaidis Berzins, a elaborare una proposta di legge per limitare l’accesso al lavoro agli stranieri.
La lingua sarà la discriminante: chi offre lavoro deve indicare anche il livello di conoscenza del lettone necessario per espletare le mansioni, ed un esame di Stato fornirà la valutazione. Persino il presidente, Valdis Zlaters, si rifiuta di parlare in russo – lingua che padroneggia – e recentemente si è rifiutato di farlo durante una conferenza stampa a cui hanno
preso parte solo giornalisti russi. I russi di Lettonia percepiscono la proposta come un atto ostile. Quattrocentomila di loro non hanno la cittadinanza, e gli altri, come in Estonia, sono cittadini con meno diritti: la televisione in lingua russa, ad esempio, non può trasmettere null’altro che intrattenimento, essendo proibita qualsiasi trasmissione d’informazione in lingue straniere.
Le tv satellitari che trasmettono da Mosca superano il problema, ma l’aria che tira, nonostante le prese di posizione della Commissione europea per i Diritti umani, è chiara per tutti. A fare la parte del leone nella
situazione etnica e sociale è la congiuntura economica: se prima erano i russi a lamentarsi delle difficoltà per accedere al pubblico impiego anche nei periodi prosperi, le recenti misure anti-crisi proposte dal governo scontentano anche i lettoni. La manifestazione piuttosto violenta del gennaio 2009, cui hanno partecipato 10mila persone, si è trascinata per tre giorni e ha provocato scompiglio nella vita politica del Paese.
Già nel 2007 la piazza costrinse l’allora premier alle dimissioni, ma la maggioranza che lo sosteneva è rimasta al potere. I manifestanti hanno protestato soprattutto contro la decisione di decurtare i salari del 10 per cento. I salari, d’altra parte, sono già stati decurtati dall’inflazione che è al di sopra del 10 per cento, percentuale che tiene l’adesione alla moneta unica europea ancora lonta-
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Vilnius è ottimista ma aumentano i suicidi ra i Paesi baltici, la Lituania è l’unico che confina con il corpo centrale dell’Unione Europea. Stretta tra l’enclave russa di Kaliningrad e la Bielorussia, gode di una posizione geografica strategica, e ciò costituisce una risorsa strategica. Vilnius ha intrattenuto sempre buoni rapporti diplomatici con Mosca, sebbene la storia l’abbia vista martoriata prima dai nazisti e poi dai sovietici. A Vilnius, nella piazza Katedros Aikste, c’era la fine della catena umana che nel 1989, partendo da Tallinn, univa le tre capitali in segno di protesta contro l’occupazione sovietica. Caduta la cortina di ferro, per l’Ue la frontiera con la Bielorussia è diventata più importante, per ragioni di sicurezza, di quella con la Russia: è attraverso la prima che passano gli immigrati clandestini provenienti dall’est. Nonostante il flusso di immigrazione, la Lituania ha il record nell’Unione per la crescita negativa. Che deriva dall’emigrazione: 2,6 persone ogni 1000 se ne vanno. Eppure a Vilnius si avverte meno che negli altri due paesi del Baltico l’incombenza della crisi globale. Il turismo ha subito un calo inferiore rispetto alle altre due capitali, la città è più allegra e spensierata ed attende il ritorno delle cicogne, segno della primavera. Le cicogne sembrano aver sostituito anche i simboli del comunismo, che i lituani (nonostante la repressione), hanno preferito conservare per inserirle nel Gruto Parkas, una sorta di parco-museo frequentato soprattutto dai turisti. Poco lontano da Vilnius, la fantasia imprenditoriale e un po’ macabra dei lituani ha creato una struttura che ricostruisce fedelmente un gulag e offre l’emozione di essere deportati e sottoposti a tutte le vessazioni come un vero prigioniero politico. Naturalmente la questione è ironica e dissacrante, ma qualcuno non riesce a ridere.Vilnius è anche l’unica città del mondo ad aver dedicato un busto in bronzo a Frank Zappa, già ministro della Cultura nella Cecoslovacchia post comunista. L’ottimismo della popolazione è dovuto alla consapevolezza che alcuni parametri macroeconomici, ben propagandati dal governo, fanno della Lituania il Paese meno esposto tra i tre baltici. L’Inflazione media dell’ultimo quinquennio è solo al 2,4 per cento e, sebbene i consumi e gli investimenti siano crollati nel corso del 2008, le esportazioni sembrano riprendere. Eurostat, l’agenzia di statistica dell’Unione, ha calcolato che la Lituania è stato il Paese dell’Ue che ha registrato la maggior crescita delle esporta-
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C’è chi è pronto a giurare che questa sia la cassaforte della mafia moscovita, e in quanto tale viene protetta proprio dalle oligarchie. I capitali illeciti però non possono evitare la recessione
fatto culturale o meramente economico. Se è vero il secondo caso, si rispondono, le piccole culture come quella lettone, rischiano di essere fagocitate nel calderone del liberismo.
na. Gli economisti sorridono per l’ingenuità del premier, sostenendo che un miglior effetto sull’opinione pubblica sarebbe stata la proposta di congelare i salari. Il taglio dei salari nel resto d’Europa sarebbe controproducente, data la necessità invocata dai politici e dagli economisti di mantenere elevato il livello dei consumi.
Ciò che stupisce in Lettonia è la rapidità con la quale il Paese è passato da un economia socialista al liberismo, senza ottenerne in cambio traumi particolarmente forti. C’è chi è pronto a giurare che Riga sia la cassaforte della mafia russa, e in quanto tale è stata protetta proprio dalle oligarchie. I capitali della mafia, però (ammesso che siano davvero qui almeno in parte) non sono in grado di proteggere il Paese dalla recessione e dalla disoccupazione, né dall’aumento del costo della vita. Gli analisti delle banche straniere presenti in Lettonia non sembrano eccessivamente preoccupati, sebbene le banche più piccole si confrontino con il rischio di fallimento più degli istituti internazionali. Invocano però una svalutazione della valuta locale, incontrando l’opposizione dei sindacati preoccupati per il potere d’acquisto sempre più ridotto. «È il momento di investire in immobili ed imprese» titola un blog lettone riferendosi alla probabile svendita in arrivo nei prossimi mesi. Il messaggio non arriva nelle tasche dei lavoratori, ma solo in quelle dei clienti di Palazzo Italia. Che però sono sempre meno.
La Lettonia rappresenta invece un’eccezione, poiché importa quasi tutto e produce poco. Dei grafici esposti in un ufficio cambi mostra le oscillazioni del cambio euro-rublo e l’andamento delle esportazioni. L’intento è dimostrare la parte di responsabilità che ha la moneta europea nella crisi lettone: i diagrammi sono inversamente proporzionali: più si apprezza l’euro, meno la Lettonia esporta. Il Pil è costituito soprattutto dalla speculazione finanziaria, che di questi tempi non gode di buona salute. «Escludendo il Lussemburgo, con quasi una banca ogni mille abitanti, siamo noi ad avere il maggior numero di banche pro capite in Europa» racconta un impiegato della Latvjias Krajibanka. Non servono cifre per riscontrare questa affermazio-
ne. È sufficiente fermarsi e contare il numero di bancomat in vista. Ben 14 in Barona Iela. Non sono poi un’esagerazione se considera che è qui che i nouveau riches russi vengono a fare shopping e a depositare denaro. È sempre qui che è il boom edilizio ha cambiato volto alla città, grazie anche ai costruttori italiani. E l’Italia è ben rappresentata, oltre che dall’ambasciata, anche da Palazzo Italiano, un centro commerciale dedicato prevalentemente ai prodotti italiani griffati e di qualità. È nel Palazzo Italiano che si affollano i russi con le loro Mercedes, per comprare abiti di Valentino o mozzarella di bufala, mostrando un forte contrasto con i loro ex concittadini ora residenti in Lettonia, che indossano scarpe comprate al mercato e si muovono soltanto con i mezzi pubblici.
Un russo ricco qui è considerato prima ricco e poi russo. Quello povero resta solo un russo. Per aiutare la Lettonia a superare il guado della crisi, il Fondo monetario internazionale ha stanziato 7,5 miliardi di dollari, e i giovani più impegnati ed europeisti si chiedono se l’integrazione europea sia un
zioni tra il 2000 ed il 2007, e ciò ha costituito un bastione per offrire resistenza al tracollo economico che avnza. Buona parte delle esportazioni sono il prodotto della raffineria di Mazeikiu. Il fatto che maggiormente scuoterà l’economia del Paese, però, deve ancora arrivare: è quasi autosufficiente dal punto di vista energetico grazie alla centrale nucleare di Ignalina. Gli accordi presi con l’Unione, però, ne prevedono la chiusura entro la fine di quest’anno, poiché si tratta di un impianto tipo Chernobyl che ha già esaurito il suo ciclo vitale. Il costo dell’energia che il Paese sarà costretto ad importare metterà in discussione le strategie sulla sua tenuta. Il centro di Vilnius, oggi riccamente illuminato, potrebbe diventare il simbolo della crisi.
Lituana è anche la più prestigiosa università dei Paesi baltici, afflitta però da gravi problemi che richiederebbero una profonda riforma, a partire dagli stipendi dei docenti: i più bassi d’Europa. I salari del settore educativo non sono soltanto una questione economica, ma soprattutto di prestigio ed autorevolezza: se la segretaria di una qualsiasi azienda guadagna più di un professore, la voglia di elevare il proprio status economico e sociale finisce per non passare attraverso l’istruzione. Il dibattito sulla riforma del sistema educativo è aperto, sebbene la minor disponibilità finanziaria del governo rischia di protrarla di alcuni anni. Nel frattempo Vilnius ha ottenuto un riconoscimento molto importante con la nomina a capitale europea della cultura 2009. L’Unione Sovietica aveva destinato la Lettonia all’eccellenza nel campo delle scienze tecnologiche, ma ora la maggior parte degli scienziati lavora in altri campi, come il commercio o i servizi. La fuga di cervelli è enorme, ma il fenomeno coinvolge soprattutto gli studenti più brillanti che conquistano borse di studio per le università straniere. I giovani sono anche al centro di un fenomeno che il professor Puras, psichiatra, ha definito «un’epidemia infettiva»: l’altissimo numero di suicidi. Nel 2004 hanno raggiunto la cifra record di 30 a settimana: in un Paese che ha meno abitanti di Roma, costituisce un record assoluto. Oggi si teme che la crisi economica possa portare portare ad una recrudescenza del fenomeno. La depressione, psicologicamente intesa, è un male che affligge oltre il settanta percento della popolazione dei paesi Baltici, secondo eminenti psichiatri. Questo, unita alla depressione economica, è il vero “mal Baltico”.
cultura
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Libri. In “Gli ultimi giorni dell’Europa” Walter Laqueur racconta come e perché la cultura occidentale verrà distrutta dall’assalto migratorio
Integrazione, esperimento fallito? di Renato Cristin A fianco, un gruppo di immigrati all’uscita del Colosseo a Roma. In basso, Walter Laqueur e, qui sotto, la copertina del suo libro “Gli ultimi giorni dell’Europa”
mpiamente segnalato sulla stampa italiana un anno fa al momento della sua pubblicazione, il libro di Walter Laqueur merita ulteriore e particolare attenzione oggi, in occasione dell’uscita della traduzione italiana (Gli ultimi giorni dell’Europa, Marsilio, 223 pagg., 19,50 euro). La sua tesi principale, che cioè l’assalto migratorio sgretolerà l’Europa, sembra infatti trovare conferma. I demografi dicono che nel 2050 nel cuore geografico dell’Europa la maggioranza sarà di religione musulmana. A partire da questo dato, dovremmo chiederci, come fa appunto Laqueur: era inevitabile giungere a questo esito e perché ci siamo arrivati? Quali conseguenze avrà il mutamento demografico?
A
La lucidità analitica e l’acribia metodologica di Laqueur è non solo garanzia della qualità scientifica di questo lavoro ma anche testimonianza dell’allarme culturale che da esso deve scaturire. Per fare un paragone: se a dire che nel 2200 il pianeta Terra sarà semidistrutto dall’urto di un asteroide è un astrofisico unanimemente rico-
nosciuto e non un imitatore di Nostradamus, tutti noi gli prestiamo la dovuta attenzione, e lo stesso dovrebbe valere per il monito di Laqueur: bisogna preoccuparsi, e molto, di ciò che egli dice. Interpretando il
suno in Europa potrebbe dire senza attirarsi gli strali di intellettuali e media di sinistra, che lo accuserebbero di xenofobia e razzismo. Laqueur infatti contraddice il dogma della crescita demogra-
Paese milioni di nuovi vicini» e che su questo problema «i governi e le imprese hanno deciso tutto da soli» senza prevedere «le conseguenze», che «la tolleranza unilaterale non funziona» e che bisognava «imporre
Secondo l’autore, «il multiculturalismo ha generato società parallele». Inoltre, «nessuno ha chiesto ai cittadini europei se volevano avere milioni di nuovi vicini»: «i governi hanno deciso da soli» senza prevedere le conseguenze declino dell’Europa e l’ascesa musulmana da una prospettiva che unisce sociologia e storiografia, con pacatezza quasi asettica egli dice cose che nes-
fica a tutti i costi («la diminuzione della popolazione è necessariamente un processo non desiderabile?»), sostiene che l’immigrazione doveva essere limitata per legge e non subita come una naturale “migrazione”, traccia l’equazione immigrazione=criminalità, spiegando che la delle maggioranza bande di strada giovanili è composta da immigrati e figli di immigrati e che «la percentuale di giovani musulmani nelle prigioni europee è di gran lunga più alta della loro percentuale sulla popolazione», afferma che «l’integrazione è fallita», che «il multiculturalismo ha generato società parallele», che «nessuno ha chiesto ai cittadini europei se volevano avere nel loro
agli immigrati di rispettare le leggi, i valori e le norme prevalenti», che l’immigrazione va ridimensionata, a partire dall’espulsione dei clandestini (che andrebbero «rispediti indietro entro pochi giorni, se non poche ore») e dei «predicatori e agitatori» che attaccano lo stile di vita occidentale. È possibile che l’Europa si trasformi in modo radicale, ma è davvero ineluttabile che lo spirito europeo si inabissi nell’islamismo? Cosa possiamo e dobbiamo fare? Anzitutto eliminare «il relativismo culturale e morale», grazie ai quali «gli immigrati si sono fatti l’idea che leggi e norme si potessero tranquillamente ignorare». In secondo luogo limitare e controllare in modo rigoroso l’immigrazione. Infine, al di là della stantia retorica dell’alterità, di quell’inclusione dell’altro ormai svelatasi come una subdola violenza che i funesti ideologi della sinistra più o meno lar-
vatamente antioccidentale e i tristi teorici del pensiero sempre più debole perpetrano ai danni della nostra tradizione, al di là dunque di questi vaneggiamenti politico-filosofici bisogna capire davvero questi “estranei” che da alcuni decenni stanno invadendo il continente europeo: capire quali sono i veri fondamenti che li ispirano, scoprire chi realmente li guida e che cosa concretamente li spinge, capire cosa pensano, quali sono le loro intenzioni, che cosa vogliono e come intendono procurarsela, capire insomma come difenderci.
Ma propedeutica a questa operazione di smascheramento è una presa di posizione culturale e politica: l’Europa va tutelata in quanto tale e quindi protetta per mezzo delle istituzioni e delle leggi. Il messaggio di Laqueur è chiaro: non lasciamoci ingannare né dagli scienziati che con faciloneria positivistica preconizzano un’Europa pacificamente multiculturale e multireligiosa, né dai vari Tariq Ramadan che si aggirano per l’Europa tentando di raggirarne le coscienze, ma ragioniamo con freddezza e «guardiamo finalmente in faccia la realtà»: l’islam sta invadendo e disgregando l’Europa, ma se ne siamo consapevoli forse potremo arrestare questo incipiente declino prima che diventi un crollo definitivo.
spettacoli erché tu sei sopravvissuto e altri no?», gli chiede impertinente l’amico, fan e giornalista John Hillarby nelle note di copertina che accompagnano Ain’t No Saint, cofanetto retrospettivo in quattro cd pubblicato l’anno scorso dalla Island/Universal. E lui: «E’ che sono uno difficile da uccidere». Invece se n’è andato a sessant’anni appena, il 29 gennaio, Iain David McGeachy in arte John Martyn. Un grande, inafferrabile, scorbutico artista confinato per sua natura a un devoto seguito di culto. Una contraddizione in termini anche nella biografia, lui inglese di nascita cresciuto a Glasgow e più scozzese di un purosangue in kilt. E’ spirato in pace nella sua casa irlandese di Kilkenny, mentre lavorava da anni a un nuovo disco che nel titolo, Will To Work, suggeriva la sua infaticabile voglia di lavorare rimasta intatta anche dopo la brutale operazione chirurgica che nel 2003, per scongiurare l’infezione provocata da una cisti, lo aveva costretto su una sedia a rotelle con la gamba destra amputata sotto il ginocchio. Aveva continuato a suonare e a ruggire (perché questo faceva Martyn, più che cantare), e solo due anni fa aveva fatto una fugace apparizione estiva in Italia, in una bella villa di Sarnico, provincia bergamasca, affacciata sul Lago d’Iseo.
5 febbraio 2009 • pagina 21
ness. «Non è mai stato il tipo che potesse pensare a una carriera», spiegava Blackwell. «A lui interessava soltanto vivere la vita e suonare la sua musica». «Con lui non c’erano compromessi, per questo finiva spesso per infuriarsi con chi gli stava attorno» ha ricordato nel giorno della morte Phil Collins, che con Clapton e David Gilmour apparteneva alla cerchia dei suoi amici altolocati e miliardari. Con l’aiuto di Collins, divorziato di fresco come lui, incise nel 1980 Grace And Danger, straziante resoconto della separazione dalla moglie (ed ex cantante) Beverley, da imputare ancora una volta ai suoi eccessi e alle sfuriate alcoliche.
«P
Stregando ancora una volta aficionados e curiosi con quel suo magico intruglio musicale che non era folk, non era jazz, non era ambient né trip hop ma un po’ tutte queste cose insieme. L’antologia della Island aveva un titolo azzeccato: Martyn non era mai stato un santo, sul palco viveva ogni giorno la sua redenzione. Era stato folgorato negli anni Sessanta sulla via del folk revival, approdando nei club di Londra per suonare la chitarra e vivere la vita da bohémien, pochi soldi in tasca (si arrangiava vincendo partite a poker e a freccette), tanta libertà e sbornie colossali. Con il contrabbassista Danny Thompson, fuoriuscito dai Pentangle, formò per anni
Musica. Si è spento pochi giorni fa l’inafferrabile scorbutico John Martyn
Il bisbetico (in)domato del folk revival di Alfredo Marziano
Spirato nella sua casa di Kilkenny, lavorava da anni a un disco che nel titolo, “Will To Work”, suggeriva l’infaticabile voglia di suonare una coppia straordinaria, scapestrata e cameratesca. «Ci prendevano tutti per fratelli», ricordava lui anni dopo, «e ci siamo divertiti un sacco». Anche con scherzi atroci, come quando Danny lo inchiodò sul pavimento di una stanza d’albergo coprendolo con un tappeto: roba da Rolling Stones e
Led Zeppelin al culmine della Rock’n’Roll Babylonia. La sua voce liquorosa, densa e scura come la torba scozzese affascinò Chris Blackwell, giovane discografico innamorato del reggae, di Bob Marley e della Giamaica che nel 1967 gli fece incidere in un pomeriggio l’album di debutto (budget: 300 sterline) facendolo diventare il primo artista bianco della Island Records. Alla corte del mecenate Chris e del manager/produttore americano Joe Boyd Martyn conobbe Nick Drake, elusivo e misterioso cantautore facile alla depressione e morto suicida nel 1974: diventarono amici, una strana coppia davvero, e fu John a dedicargli dopo la morte la can-
zone più bella e più toccante, Solid Air. Poi continuò a vivere sulla lama del rasoio, frequentando amicizie pericolose per procurarsi la “roba” da cui era diventato dipendente («Mi hanno anche sparato, qualche volta. E me la sono cavata fingendo di essere morto», raccontava spesso con malcelato orgoglio). Ma restava gran musicista, eccellente chitarrista e sperimentatore.
Tra i primissimi a usare l’echoplex, una scatola analogica di effetti che gli permetteva di inseguire i voli pindarici del suo idolo, il sassofonista Pharoah Sanders, diventando sul palco un uomo orchestra circondato da loop, echi e suoni concentrici: in tanti, The Edge degli U2 per primo, avrebbero poi preso nota. May You Never (incisa anche da Eric Clapton) e Sweet Litlle Mistery lo portarono sul bordo del mainstream, ma John era un orco irsuto troppo selvatico per le regole del busi-
Tre anni prima, con One World concepito in Giamaica e registrato in campagna a bordo di un lago, aveva praticamente inventato quello che oggi tutti chiamano “chill out”. L’incontro a Kingston con il vulcanico produttore Lee “Scratch” Perry aveva prodotto straordinari risultati artistici, ancora una volta a scapito della incolumità di John e di chi gli ronzava attorno. «Metterli in contatto è stata una delle cose più irresponsabili che abbia mai fatto», aveva l’anno scorso ammesso Blackwell in un’intervista rilasciata al settimanale Music Week, confessando divertito che il nome di Martyn e il ricordo delle sue gesta continuarono per anni a incutere timore in chi lo aveva incontrato in studio di registrazione o in giro per la capitale giamaicana. Negli ultimi anni di vita si era giocoforza dato una calmata, ed erano arrivati riconoscimenti prestigiosi: un Radio Two Folk Award alla carriera conferitogli dalla Bbc e consegnatogli da Collins, mentre la Regina Elisabetta lo aveva addirittura insignito per meriti artistici dell’Ordine dell’Impero Britannico. Ai Folk Awards, il 6 febbraio del 2008, suonò i suoi «quasi hit» May You Never e Over The Hill, quest’ultima (documentata sul box Ain’t No Saint) con lo Zeppelin John Paul Jones al mandolino. «Beh, non le ho scelte io, mi hanno chiesto di suonarle», si affrettò a precisare. «Non fraintendetemi, quelle canzoni mi piacciono ma non sono proprio la cosa più rivoluzionaria del mio catalogo», spiegava John con la sua solita aria maliziosa. «E’ che a volte, lo so, sono stato un ragazzo carino e simpatico. Forse anche troppo». Il suo modo di proclamarsi ribelle e diverso, in quella serata celebrativa e cerimoniosa che pure lo riempiva d’orgoglio.
A fianco e in alto, l’artista John Martyn, scomparso lo scorso 29 gennaio nella sua casa irlandese di Kilkenny. A sinistra, uno dei suoi più grandi amici, il collega Phil Collins
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
dal ”New York Times” del 04/02/2009
Puzzle palestinese per Hillary di Thomas Friedman ecentemente molti hanno messo in dubbio la scelta del nuovo segretario di Stato, Hillary Clinton, di aver nominato troppi inviati speciali, come George Mitchell, per gestire i problemi sugli scenari chiave del mondo, come il conflitto israelo-palestinese. Penso che abbiano ragione nel criticare la Clinton per la pletora di inviati nominati. Ma non credo che il problema sia che ne abbia troppi, ma che non ne abbia ancora abbastanza. Nella vicenda del conflitto fra Israele e palestinesi, potrebbe avere bisogno di almeno una mezza dozzina di uomini. La crisi si è ridotta in tanti piccoli pezzi, servirebbe l’intero dipartimento di Stato per risolvere solo quel problema. In aggiunta a Mitchell Hillary potrebbe volere anche Bill e Chelsea per risolver d’un colpo il problema, e sicuramente anche Jim Baker e Jimmy Carter. Perché diamine, non prendere anche tutti gli stranieri che incontra nelle stanze di Foggy Bottom (sede del dipartimento di Stato, ndr): «Hey, vi piacerebbe un viaggio gratis in Medio Oriente?». Sicuramente, conoscere la storia aiuta, ma un po’di biologia potrebbe essere più utile, ad esempio per sapere come faccia l’ameba a riprodursi per partenogenesi.
R
Da dove cominciare? I palestinesi sono ora divisi tra Gaza e il West Bank, con l’Autorità palestinese, laica, con base a Ramallah in Cisgiordania e il governo fondamentalista di Hamas a Gaza. Ma Hamas è, a sua volta, diviso in un ala militare e una politica. L’ala politica si compone di due leadership, una che vive a Gaza e un’altra che si è rifugiata a Damasco, quest’ultima prende ordini sia dalla Siria che dall’Iran. Mi seguite ancora? Per esser chiari, i palestinesi di Gaza stanno negoziando un cessate-il-fuoco con
Israele al Cairo, e contemporaneamente, in Europa, cercano di far mettere sotto processo Israele per crimini di guerra, continuano a scavare nuovi tunnel nel Sinai, per rifornirsi di missili per colpire Tel Aviv e cercano anche di raccogliere fondi per la ricostruzione di Gaza dall’Iran. I leader palestinesi del West Bank, mentre organizzano raccolte pubbliche di aiuti umanitari per quei palestinesi brutalizzati dall’intervento armato a Gaza, privatamente esigono spiegazioni dalla diplomazia di Gerusalemme sul perchè sia stata data solo una spazzolata ad Hamas invece di scrostarla definitivamente dalla faccia della terra – senza badare troppo al numero delle vittime.
Israele intanto ha un governo dove il primo Ministro, il ministro degli Esteri e quello della Difesa hanno in mente cose differenti sui piani di pace, sulle strategie di guerra e sulle condizioni per un cessate-il-fuoco a Gaza, tenendo conto che i due ministri, degli Esteri e della Difesa, corrono da avversari nelle elezioni politiche di martedì prossimo. Sempre a proposito di urne elettorali, un partito tutto nuovo, l’Yisrael Beiteinu, guidato da Avigdor Lieberman che è stato accusato di avere delle tendenze fascistoidi e antiarabe, ha buone chanche di guadagnare voti e di esser il king maker del prossimo governo. L’altro giorno il leader del Partito laburista, Ehud Barak, citato dal quotidiano Hareetz per aver criticato Lieberman di essere un agnello travestito da falco: «Quando avrebbe mai sparato a qualcuno?». Come ha fatto questo conflitto a polverizzare così la situazione? Primo, è andato avanti per troppo tempo. La Cisgiordania è cosi solcata da
strade e divisa da check point e muri di cinta per separare i folli insediamenti israeliani dai villaggi palestinesi, che per un palestinese sarebbe più breve volare da Gerusalemme a Parigi, piuttosto che andare da Jenin, nel nord del West Bank, a Hebron nel sud. Un’altra ragione è che tutte le soluzioni provate hanno fallito. Per i palestinesi il panarabismo, il comunismo e l’islamismo sono andati via, come sono arrivati, non lasciando né uno Stato e neanche delle proprietà. Così pian piano ci si è ritirati facendo affidamento alla lealtà delle famiglie, dei clan, dei centri urbani e dei legami tribali. Il progetto dei due Stati è scomparso col fallimento di Oslo e ogni fallimento ha portato a un ritorno all’ortodossia religiosa, anche in Israele. Chi vorrebbe metter mano in un simile caos? Meglio diventare presidente di una delle bad bank proposte da Obama. Ma se gente come Mitchell ne ha ancora l’intenzione, siamo qui pronti a raccontarlo.
L’IMMAGINE
Ancora un omicidio politico nella Campania di Bassolino Ancora un morto politico, ancora al Sud, ancora in Campania. Luigi Tommasino, ucciso in pieno centro a Castellammare di Stabia davanti agli occhi di suo figlio tredicenne, era un consigliere comunale del Partito democratico. Si dice che l’omicidio sia un mistero perché Tommasino era un politico estraneo ai luoghi di potere. Tuttavia, a Castellammare di Stabia l’omicidio politico non è una novità. Diciassette anni fa in via Virgilio fu assassinato Sebastiano Corrado, anche lui consigliere comunale, del Pds. Quindi, c’è quantomeno una continuità, mentre sappiamo che la camorra allunga le mani su tutto ciò che è soldi. In Campania è un dato di fatto che negli ultimi quindici anni c’è stato un aumento della criminalità e della capacità della camorra di controllare territorio e amministrazioni. L’omicidio di Castellammare difficilmente non rientrerà in questo circolo. Il centrosinistra ne è terribilmente coinvolto. Bisogna prendere sul serio le parole di Roberto Saviano che già da tempo ha denunciato la collusione.
Mario Coppola
ACCANIMENTO MORTIFERO In merito alla sentenza del Tar vorremmo ribadire che l’alimentazione e l’idratazione verso Eluana non sono da ritenersi cure e quindi non sussiste il diritto costituzionale di rifiutarle (le “cure”). Si persevera in un accanimento mortifero e sarebbe ora che il Parlamento dicesse la sua, ponendo rimedio alla dilagante intromissione giudiziaria.
Lucia e Gianni
MENDUNI REPLICA A MORMORIO Gentile direttore, su liberal del 3 gennaio scorso Diego Mormorio, recensendo il mio libro La fotografia edito dal Mulino, mi attribuisce addirittura «un inquietante campionario di inesattezze», e ne cita tre; poiché non le ritengo tali,
vorrei replicare. Confermo con vigore l’opinione che il fotografo americano Alfred Stieglitz e il suo gruppo di “Camera Work” contesti il pittorialismo, cioè l’imitazione e la subalternità della fotografia alla pittura. Stieglitz ritiene piuttosto la fotografia una forma artistica in sé, che non ha alcun bisogno di imitare la pittura perché non è registrazione della realtà (magari curvata su interessi commerciali), ma un modo per interpretarla. Anzi la fotografia è la forma artistica moderna di una società sempre più visuale e immersa nella riproducibilità tecnica delle immagini. In secondo luogo rivendico puntualmente l’importanza di Richard Maddox, inventore nel 1871 della prima lastra fotografica secca efficiente, praticabile e rapida.
Ascensore per alianti Siamo in Nuova Zelanda sui monti Tararua e questo non è un tornado ma una nuvola. O meglio una “nube lenticolare”, che si forma talvolta in cima ai rilievi quando soffia il vento. Questa nuvola è molto apprezzata dai piloti d’aliante perché indica la presenza di correnti ascensionali capaci di sollevare i loro velivoli - leggeri e privi di motore - a diverse migliaia di metri d’altezza L’opinione non è solo mia: si veda ad esempio il recentissimo Dizionario di fotografia Einaudi, alle pp. 661 e 887. Infine,Tazio Secchiaroli e il Paparazzo de La dolce vita, ispirato dal suo modello di fotografia d’assalto. Confermo decisamente tutto quello che ho scritto. A parte l’assonanza dei due nomi (Fellini aveva una certa pratica dell’inconscio), e il fatto che si trat-
ti di un’opinione largamente diffusa (vedi ancora il Dizionario Einaudi, p. 834), Flaiano e Fellini intendono descrivere un regime (non solo politico ma anche visuale) segnato da un intreccio inestricabile fra pubblico e privato, in cui la popolarità dei divi è connessa alla visibilità della loro vita privata, serializzata in eccessi e avventure. Qui la sceneggiatura de La
dolce vita si incontra fatalmente con Secchiaroli e i suoi sodali, e questo mi pare assolutamente incontestabile. È il voyerismo, fotografico e cinematografico, di cui parlo in quella stessa pagina. Mormorio non l’ha notato, ma forse quando si contesta così radicalmente un testo bisognerebbe anche leggerlo con attenzione.
Enrico Menduni
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Se mi vuoi quale sono, prendimi! È inutile che tu ti affanni per l’amore d’una volta: non ho più energia: se mi vuoi quale sono, prendimi: se no, lasciami: perché amareggiare e mortificare te e me co’ rimpianti continui? Può darsi che questa atonia dolorosa cessi: per ora nessuna forza può scuoterla. Forse sarà stata la solitudine e il turbinoso e fisso rivolgersi del pensiero sempre in se stesso e intorno a se stesso che mi avrà ridotto così; ma ora sono così. Non vedi, non senti, che né meno so più esprimermi? non ti accorgi della fatica che mi ci vuole per allacciarmi solamente un poco fuori di me? Dunque compatiscimi e non rimproverarmi. Non invidiarmi la mia solitudine. E ora ti prego ancora una volta. Non prenderti a male di tutto questo. Compassionami invece, e credimi: credimi che non affetto tutta questa atonia, che non infingo questa mala disposizione, per scusare coon te il mio disamore o altro. Io son fatto così. Non posso simulare né meno per gentilezza, ora sono bestia, bestia, bestia; fammi la grazia di lasciarmi essere bestia finché succede un’altra metamorfosi o io crepi. So che ti affliggo, e me ne dispiace; ma del resto non sono reo d’altro verso di te. Addio. Scrivimi, ma non rimproveri. Giosuè Carducci a Lidia (Carolina Cristofori Piva)
ACCADDE OGGI
DOV’È FINITO L’AMORE PER IL PROSSIMO E PER LA VITA? Voglio esprimere la mia ferma e cristiana opposizione all’ultimo viaggio verso la fine dell’esistenza terrena di Eluana Englaro, a causa di un innominabile decreto dei giudici milanesi - i quali evidentemente non sanno dove stia di casa la pietas e l’amore per il prossimo e per la vita - e della pervicace, ottusa e inescusabile volontà eutanasiaca del padre Beppino. Al padre di Eluana, che ha detto: «La voglio portare a morire a Udine», vorrei ricordare che Eluana è sì in stato vegetativo, ma, per grazia di Dio, non è ancora morta. Ho un’unica figlia e se dovesse succedere - Dio non lo voglia lo stesso incidente capitato a Eluana, mi guarderei bene non solo dal volere ma anche solo dal pensare, di farle fare la tragica, indescrivibile, inumana fine di Eluana.
Angelo Simonazzi
“CARTA 08”: ACCENDIAMO I RIFLETTORI «Sono passati 100 anni dalla stesura della prima Costituzione cinese. Il 2008 ha segnato anche i 60 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, i 30 anni dall’apparizione del Muro della democrazia a Pechino, i 10 anni dalla firma, da parte della Cina, della Convenzione internazionale dei diritti civili e politici. Ci avviciniamo anche ai 20 anni dal massacro di Tiananmen del 1989 contro le proteste degli studenti pro-democrazia». È l’incipit di “Carta 08”redatta da 303 tra intellettuali, imprenditori, con-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
5 febbraio 1961 Il Sunday Telegraph pubblica il suo primo numero 1962 Il presidente francese Charles De Gaulle richiede che all’Algeria venga permesso di diventare una nazione indipendente 1971 La navetta Apollo 14 sbarca sulla Luna 1988 Manuel Noriega viene indiziato per traffico di droga e riciclaggio di denaro sporco 1994 Byron De La Beckwith viene condannato per l’omicidio del 1963 del leader dei diritti civili Medgar Evers 1997 Le cosiddette “Tre Grandi” banche della Svizzera annunciano la creazione di un fondo di 71 milioni di dollari per aiutare i sopravvissuti dell’Olocausto e le loro famiglie 1999 Mike Tyson viene condannato a un anno di carcere per aver aggredito due persone il 31 agosto 1998 2000 La nazionale italiana di rugby esordisce nel Sei Nazioni 2001 Tom Cruise e Nicole Kidman annunciano la loro separazione
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
tadini e cittadini cinesi per chiedere al governo vera democrazia e rispetto di tutti i diritti umani. Si richiama a “Carta 77”, il documento firmato da intellettuali e attivisti cechi e slovacchi nel 1977, che premeva sul governo per il rispetto dei diritti umani. Da un mese e mezzo proseguono le adesioni al documento, ma anche censura, persecuzioni e arresti contro autori e firmatari. Ogni mass media in Occidente dovrebbe accendere i riflettori su tale eroico anelito a libertà, democrazia e diritti umani del popolo cinese!
Matteo Maria Martinoli
LE FONDAZIONI BANCARIE? POLITICIZZATE, OF COURSE Sarebbe inutile negarla, tanto è evidente, la spesso nefasta influenza dei poteri locali rappresentati negli organi decisionali delle Fondazioni o, per usare le parole del liberale professor Nicola Matteucci, in un libro del 1998, la «municipalizzazione delle casse di risparmio, con le loro fondazioni, che ha sottoposto entrambe alle logiche partitiche». Ma qualcuno ancora ci prova: par di vederli i nostri monsieur intenti all’opera di diniego. Altro che pluralismo, ambiente condiviso, bene comune e superiore interesse della Nazione. Lì le cose sono chiare: i partiti - quelli del centrosinistra, come prevede la tradizione - tendono a imporre il proprio interesse e il proprio volere, e dagli stanziamenti e investimenti che fanno, ci pare ci riescano proprio bene.
Pierpaolo Vezzani
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
I GIUDICI NON HANNO DIRITTO DI VITA E DI MORTE Mi vergogno di essere cittadino di uno Stato dove un Tribunale può ordinare l’esecuzione di una sentenza di morte. Perché tale è l’ordinanza che voleva obbligare la Regione Lombardia a far eseguire la condanna a morte di Eluana Englaro. Tuttavia gli ultimi giorni di Eluana non si consumeranno in Lombardia ma ad Udine. Dopo un viaggio semi-clandestino, una fuga nel cuore della notte dall’Istituto dove è stata amorevolmente accudita per 15 anni. Dopo una lunga e penosa agonia, seguita alla progressiva riduzione fino all’eliminazione totale dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale. Questi infatti sono gli unici trattamenti cui è sottoposta Eluana. Altro che accanimento terapeutico! In Italia siamo quasi tutti contrari alla pena di morte, perché il diritto naturale non prevede che lo Stato abbia il diritto di decidere la vita e la morte dei suoi cittadini. Quando l’uomo ha preteso di ergersi a Signore della Vita, ha spesso causato orrende carneficine (nazismo, comunismo). Come dunque può un Tribunale decidere quale vita è degna di essere vissuta? Come si può decidere in una fredda aula di giustizia che una persona viva possa essere lasciata morire di fame e di sete? A quale punto di aberrazione siamo arrivati? Quale sarà il prossimo passo? L’eliminazione delle cosiddette “vite senza valore”, già sperimentata in Germania a partire dalla fine degli anni ’30? O faremo come in Olanda, dove i genitori possono decidere l’eutanasia dei bambini minori di 12 anni qualora gravemente ammalati? O quale altra mostruosità? Non possiamo accettare che lo Stato autorizzi un omicidio, oltretutto con modalità peggiori della soppressione degli animali; infatti, nel caso di Eluana, non c’è alcuna sicurezza che non senta e non provi dolore. Anche i medici sono divisi. Nessuno può cavarsela dicendo: si faccia infine silenzio, le sentenze dei Tribunali vanno rispettate! No, perché le nostre coscienze disperatamente urlano che le sentenze non vanno rispettate quando calpestano il diritto naturale. A nessuno è permesso di porsi al di fuori dei principi del diritto naturale e della civile convivenza, o al di sopra di Dio per chi crede. Se si lascia prevalere una fredda interpretazione di positivismo giudiziario, per cui è giusto tutto ciò che viene deciso con procedura formalmente corretta da un Tribunale, la nostra grande civiltà occidentale perirà per putrefazione interna, a causa della perdita dei suoi valori. Giorgio Masina R E S P O N S A B I L E LI B E R A L TO S C A N A
APPUNTAMENTI 20 - 21 FEBBRAIO 2009 TODI Hotel Bramante via Orvietana VII Seminario di Cultura e Politica
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PAGINAVENTIQUATTRO Il personaggio. A tu per tu con il campione mezzofondista Antibo
Il Salvatore (a riposo) dell’atletica di Paolo Ferretti
on corre più per professione, né per vincere. Lo fa per diletto, perché la corsa rimane sempre la sua grande passione. Corre tre, quattro volte alla settimana. In compagnia. Da solo, non potrebbe farlo. Troppo rischioso, perché una crisi potrebbe colpirlo in qualsiasi momento. Salvatore Antibo convive con una leggera forma di epilessia, da quando era ragazzo. Per alcuni anni, anche quando gareggiava, era riuscito a tenerla nascosta, prima di doverla dichiarare pubblicamente. Accadde nel 1991, ai Campionati del mondo di atletica leggera a Tokyo. Dovette farlo, perché in quella occasione, per la prima volta, una crisi lo colpì in corsa, durante la finale dei 10.000 metri. Non è una forma grave, la sua. Un «piccolo male», che l’ha costretto, comunque, a cambiare vita. Soprattutto, l’ha obbligato ad abbandonare l’attività nel pieno della maturità agonistica. Avrebbe avuto, senz’altro, ancora qualche anno davanti a sé per continuare a esprimersi ad alti livelli. Quella sera, a Tokyo, Antibo puntava al titolo. Era uno dei favoriti, insieme con i keniani. «Ero partito forte. Alcuni giri in testa, con i primi. Si correva su ritmi da primato del mondo. A metà gara, improvvisamente, la crisi. Da quel momento in poi non ricordo nulla». Salvatore perde il passo, rallenta. Scivola nelle retrovie. Rimane staccato. Riesce comunque a portare a termine i 25 giri, arrivando ultimo. Frastornato, assente. La gara che avrebbe dovuto consacrarlo, segna invece la sua fine. Antibo era il campione europeo in carica dei 5.000 e dei 10.000 metri, grazie alla favolosa doppietta di Spalato nel 1990. Aveva vinto una medaglia d’argento alle Olimpiadi di Seul del 1988, ancora sui 10.000, oltre ai successi in Coppa Europa e in Coppa del Mondo. Aveva contribuito anche alla storica tripletta azzurra, agli Europei di Stoccarda del 1986, conquistando la medaglia di bronzo sui 10.000, dietro Stefano Mei e Alberto Cova, in una delle più belle serate dell’atletica italiana degli ultimi venticinque anni. Era arrivato quarto, alla sua prima Olimpiade, a Los Angeles nel 1984, sui 10.000 vinti da Cova. E se non fosse stato per un paio di scarpet-
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te che gli massacrarono i piedi in batteria, sarebbe finito senz’altro sul podio. Proprio da Cova, Antibo prese il testimone a conferma della grande scuola del mezzofondo azzurro di quegli anni. Meno elegante del lombardo, agile e nervoso al tempo stesso, volontà e determinazione gli hanno consentito di essere uno degli ultimi atleti bianchi in grado di contrastare il crescente dominio degli africani, sui 5.000 come sui 10.000. Sicuramente è stato l’ultimo
anno fa avevo sette, otto crisi al mese. Oggi, solo due. Che cosa ha scatenato la sua forma di epilessia? A tre anni venni investito da una macchina. Rimasi quindici giorni in coma. Fortunatamente mi ripresi. I medici spiegarono che durante
ITALIANA
grande mezzofondista italiano. Non è un caso, infatti, che dopo vent’anni , i primati nazionali delle due distanze, ancora gli appartengano. Antibo, dopo Tokyo cosa è successo? Ovviamente è cambiato tutto. Ho fatto esami e ho continuato con le cure. Sono riuscito anco-
l’età dello sviluppo si sarebbero potuti manifestare dei problemi. All’inizio degli anni Novanta, ebbi un secondo incidente in auto. Probabilmente questo ha risvegliato qualcosa che ha accentuato le crisi. Lei è stato uno tra i più grandi atleti bianchi, prima dell’avvento e del dominio degli africani. Eppure l’atletica italiana, sembra essersi dimenticata di Antibo... Non lo so. Indubbiamente ho passato momenti difficili per dieci anni. Ci sono rimasto anche male. Poi nel 2005, mi hanno assegnato il vitalizio previsto dalla legge Onesti. Quel giorno, a Roma, ero l’unico rappresentante dell’atletica leggera. Dentro di me ho pensato che forse quel riconoscimento lo meritavo davvero, per quello che avevo dato al movimento. Cova, Mei, Panetta, Antibo. Poi il nulla. Il mezzofondo italiano sembra essere sparito. Come mai? Mi auguro che prima o poi un altro Antibo possa venire fuori. Paradossalmente mi dispiace che, dopo più di vent’anni, i record italiani dei 5.000 e dei 10.000 siano ancora miei. Significa che non c’è ancora nessuno all’orizzonte. Credo anche che oggi uno dei problemi siano le troppe società militari.Ti garantiscono uno stipendio e una pensione, a prescindere dall’impegno e dai risultati. Quando correvo io, non c’era nulla di scontato. Per ottenere qualcosa, dovevi sudartela. E a quarantasette anni, Antibo sta ancora sudando per portare avanti la realizzazione di un impianto per l’atletica leggera ad Altofonte, il paese della provincia palermitana, dove è nato e dove continua a vivere... Un’idea che ho in testa da venticinque anni. Ma per un motivo o per un altro, non si è mai realizzato. Mi piacerebbe riuscirci. E mi piacerebbe che portasse il mio nome.
Convive con una leggera forma di epilessia da quando era ragazzo. Per alcuni anni, anche quando gareggiava, era riuscito a tenerla nascosta, prima di doverla dichiarare pubblicamente. Ancora oggi è il detentore dei record dei 5 e dei 10mila metri
ra a correre e a partecipare alle Olimpiadi di Barcellona, arrivando quarto. Poi mi sono fermato. Ma non mi sono mai pentito di aver dichiarato pubblicamente la malattia. Anzi, ne vado fiero. Certo mi è dispiaciuto dover lasciare l’atletica. Non è stato facile. Avrei potuto dare ancora qualcosa. Prima di quella sera, in gara non le era mai accaduto una cosa del genere? Avevo avuto un paio di crisi durante gli allenamenti in vista del mondiale. Crisi leggere, a cui ero abituato. Da quando ha lasciato l’atletica come vive? La mia vita è stata stravolta. Purtroppo non ho mai lavorato da quando ho lasciato l’agonismo. Mi Abbiamo incontrato hanno tolto la patente e l’atleta Salvatore Antibo, non posso più guidare. l’azzurro ex Quando vado a correre, somezzofondista, no sempre in compagnia. oggi “a riposo” per via Non posso essere lasciato dell’epilessia ma ancora solo. Ma nonostante tutto, detentore ufficiale mi ritengo comunque fordel record italiano tunato. Tutto sommato, sodei 5mila e dei 10mila no contento. Grazie alle metri. In alto, cure, le cose sono anche Antibo alle Olimpiadi migliorate. Fino a qualche di Seul del 1988. A fianco, all’Olimpico di Roma nel 1990