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Se tutti gli economisti
he di c a n o r c
confrontassero le loro teorie, non giungerebbero mai a una conclusione
9 771827 881004
George Bernard Shaw
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Protezionismo Il mondo ci cadrà ancora? Merci contro merci, lavoratori contro lavoratori: dall’America all’Europa riemerge la tentazione nazionalista che tanti danni ha già causato nel XX secolo. Proviamo a organizzare le idee per resistere… Enrico Cisnetto, Ettore Gotti Tedeschi, Douglas Irwin, Carlo Lottieri alle pagine 12, 13, 14 e 15
La maggioranza fa sua la proposta Udc per salvarle la vita Un assurdo emendamento passa al Senato nel dl sicurezza
Un decreto per Eluana La Lega degli spietati Il governo ha pronto il testo. Veltroni: «Inaccettabile» I medici obbligati a denunciare i clandestini: cioè senza “il permesso” non sei un essere umano Ma forse Napolitano non lo firmerà di Francesco Pacifico
ROMA. Continua e si intensifica lo scontro politico intorno alla vita di Eluana Englaro sull’opportunità di un decreto che disciplini la materia riferita al testamento biologico. Un decreto che impedisca in extremis la sospensione di somministrazione di acqua e cibo ad Eluana. Il provvedimento che è stato già preparato dall’esecutivo avrebbe anche ottenuto l’assenso del premier Silvio Berlusconi che, del resto, già da mercoledì scorso aveva annunciato che Palazzo Chigi stava lavorando a un testo sul testamento biologico che poteva contenere indicazioni precise sul divieto di fermare alimentazione e idratazione dei pazienti in stato vegetativo. Il punto è che il Capo dello Stato Giorgio Napolitano non avrebbe alcuna intenzione di firmare il decreto, anzi avrebbe manifestato forti perplessità in merito. Si profila insomma un muro contro muro istituzionale con il quadro politico diviso trasversalmente sulla decisione da prendere in merito alla vita o alla morte di Eluana. s eg u e a p a gi n a 4
di Francesco Pacifico
Le parole e la morale
Il Pdl non c’è, comandano i lumbàrd
utti conosciamo la storia di Eluana: da diciassette anni in stato vegetativo persistente. Siamo ormai abituati a vedere la sua foto, giovane e sorridente, prima dell’incidente. Sappiamo anche degli interminabili dibattiti bioetici e del disagio del diritto di fronte a questa situazione“complessa”. Eluana è viva o morta? Eluana è in coma, in una condizione di vita in assenza di coscienza da lungo tempo. Nessuno scienziato è in grado di dimostrare scientificamente con certezza la irreversibilità di questo stato: non si può “di principio” escludere un ritorno di coscienza, semmai solo indicarne “di fatto”la scarsa probabilità. Quali presidi terapeutici ha ricevuto Eluana in questi anni? Eluana è stata fino ad oggi assistita in una casa di cura: l’assistenza di cui aveva bisogno è considerata assistenza ordinaria, garantita a tutti i soggetti che si trovano in condizioni analoghe.
ROMA. Alla fine, con gli immigrati hanno fatto i cattivi, proprio come voleva il ministro dell’Interno Roberto Maroni. Il ddl sicurezza approvato ieri dal Senato - ma dovrà ancora passare all’esame della Camera - è un concentrato di piccole misure vessatorie nei confronti degli stranieri e del disordine sociale in genere, alcune al limite dell’assurdità, inserite nel provvedimento per accontentare i bisogni propagandistici della Lega (cosa che non ha mancato di creare una certa quantità di malumori nel Pdl). In breve, il disegno di legge introduce il reato di immigrazione clandestina, punito però con un’ammenda da 5 a diecimila euro e l’espulsione, non col carcere come inizialmente previsto. Poi prevede la tassa da 80 a 200 euro per il rinnovo del permesso di soggiorno, che peraltro diventerà a punti come la patente. C’è la possibilità per gli enti locali di avvalersi di “ronde” organizzati dai cittadini per il controllo del territorio. C’è poi il resuscitato reato di oltraggio a pubblico ufficiale e il nuovo Registro per i senza tetto, arricchito da un codicillo di vaga ispirazione kafkiana (e siamo assolutamente in tema, sotto diversi punti di vista).
e è distante anni luce dalla politica – e quindi dalla capacità di governo di un Paese – chi pensa che si possa costruire un sistema bipartitico virtuoso, stabile e funzionante con una pioggia di leggi e leggine volte ad eliminare le piccole formazioni, bisogna cominciare a chiedersi quale possa essere l’epilogo di questa nuova fase della crisi italiana. Parlo di nuova fase perché non può non sorprendere il fatto che una maggioranza di governo così numericamente solida e forte si trovi all’improvviso esposta al logoramento di imprevisti voti parlamentari o a divisioni laceranti su grandi problemi, come le questioni etiche sollevate dal caso Englaro. Così come non può non sorprendere il fatto che questa stessa maggioranza fatichi sempre più a prefigurarsi come un’area coesa.
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Ma questa non è neanche eutanasia: è un’eliminazione di Laura Palazzani
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CON I QUADERNI)
• ANNO XIV •
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Ora soltanto un Grande Centro può fermare Bossi di Renzo Foa
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Intolleranze. Il Senato approva l’inasprimento delle norme contro l’immigrazione, come chiesto da Bossi e Maroni
Spietati, ma anche stupidi Approvato il decreto ”cattivista” sulla sicurezza voluto dalla Lega I medici diventano delatori: i clandestini non potranno ammalarsi di Marco Palombi segue dalla prima Vale la pena leggerlo, questo codicillo kafkiano, per capirne il tono e lo spirito: «La persona che non ha fissa dimora si considera residente nel Comune ove ha il domicilio. Il richiedente l’iscrizione anagrafica senza fissa dimora è tenuto a fornire all’ufficio anagrafe gli elementi necessari allo svolgimento degli opportuni accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio» (espletamento burocratico che risulterà assai difficile trattandosi, giova ricordarlo, di barboni o, come usa, clochard). Il codicillo più sgradevole, e potenzialmente pericoloso, è però quello che abolisce il divieto di denuncia per i medici che prestano cure agli immigrati clandestini: si invita, in buona sostanza, il medico a divenire il pri-
ddl «razzista» e «frutto di bassa propaganda».
L’opposizione a questa norma, però, ha valicato immediatamente i ristretti confini della politica istituzionale: da Medici senza frontiere alla Caritas, da Migrantes all’Associazione medici cattolici, da Legambiente ai sindacati, non c’è pezzo della società civile che non si dichiari scandalizzato e prometta obiezione di coscienza. Lapidario il commento della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, gente che ha qualche competenza in materia: «È una ferita aperta nel sistema dei diritti e delle tutele per ogni individuo e un grave passo indietro per la sanità pubblica». Anche l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, oramai bestia nera della Lega, è voluto intervenire: «La
Non solo le opposizioni si schierano duramente contro il testo (che ora passa alla Camera), ma anche il mondo cattolico, l’associazionismo e molti esponenti della società civile mo presidio anti-clandestinità, infischiandosene della probabile fuga di queste persone dal Servizio sanitario nazionale e dei rischi per la salute pubblica.
Per fare i cattivi, infatti, si rischia di fare invece gli stupidi. Come hanno denunciato nell’aula di palazzo Madama tutte le opposizioni, non solo esiste la possibilità che, ad esempio, una partoriente clandestina non vada in ospedale per paura della denuncia esponendo al pericolo se stessa e il neonato, ma anche che questo sottragga al controllo della sanità pubblica una fascia rilevante delle persone che abitano questo Paese: sarebbero a rischio le vaccinazioni per i bambini e anche la possibilità di intervenire in tempo su malattie infettive che potrebbero diffondersi tra gli adulti. La tubercolosi, d’altronde, non chiede il permesso di soggiorno prima di infettare qualcuno. La reazione delle opposizioni, come detto, è stata compatta: Giampiero D’Alia (Udc) ha parlato di «quintessenza della barbarie», Finocchiaro (Pd) di «spaventoso manifesto ideologico» e di «persecuzione», Italia dei valori di
solidarietà si sviluppa attraverso l’accoglienza, la condivisione e il rispetto della legalità, ma soprattutto attraverso il rifiuto di qualsiasi discriminazione e quindi attraverso l’osservanza di una legge più profonda che è dentro di sé».
Al di là del merito del provvedimento, è la competizione tra Lega e Pdl la vera radice degli emendamenti “cattivi” voluti dal Carroccio: sconfitti su Malpensa, senza soldi per le infrastrutture del Nord, con in tasca un ddl sul federalismo fiscale senza contenuti, Bossi vuole almeno segnare qualche punto sui provvedimenti che si vendono bene nelle osterie padane. Fatto sta che ora, archiviata la maretta di mercoledì sera in Senato (originata, pare, dagli onorevoli casertani del Pdl, che reclamano una Corte d’appello anche nella loro città), il conflitto interno alla maggioranza s’è trasferito sulle questioni di merito. «Per la destra il “cattivismo” è impraticabile», ha scritto la deputata Flavia Perina sul Secolo d’Italia: «Nel nostro dna, grazie al cielo, resiste un estremo freno inibitore verso gli eccessi dell’antipolitica, che ci impedisce di superare certi
La norma creerà una sanità pirata
Barbaro è quel Paese che confonde i dottori con i poliziotti di Giancristiano Desiderio a militarizzazione degli ospedali è utile o dannosa per contrastare l’immigrazione clandestina? Il medico-delatore e l’infermiera-spiona daranno una mano a limitare la clandestinità o incentiveranno un mercato nero e strutture sanitarie clandestine e parallele? La toppa è buona o peggiore del buco? Mettiamo da parte, per ora, l’argomento umanitario e guardiamo l’emendamento approvato in Senato. I clandestini che sapranno di rivolgersi non più ad un ospedale bensì ad un ospedale-caserma si comporteranno di conseguenza ingrossando le fila delle cure illegali, incontrollate, insicure. Il ministro “cattivista” Maroni porta avanti una logica di accerchiamento: l’immigrazione irregolare va combattuta su più fronti, prima dell’ingresso sul territorio nazionale, durante e dopo. Ma l’idea del responsabile del Viminale è soprattutto quella di creare una vasta operazione di dissuasione. Con una battuta si potrebbe dire «prevenire è meglio che curare». Tuttavia, quando la prevenzione dell’immigrazione tocca il tasto sanitario ecco che le cose si complicano ed entrano in gioco fattori che non solo sfuggono alla prevenzione, ma sono creati dalla stessa politica preventiva. La domanda fa sorgere offerte diverse dal sistema sanitario nazionale, la clandestinità conduce nella clandestinità anche le cure. C’è poi l’aspetto umanitario. Il corpo di un uomo sofferente non è mai clandestino. La sofferenza è universale. Il dovere del medico è la cura. Il medico non è un commissario di polizia. Il medico non può sottrarsi al dovere di intervenire facendo ricorso ad un’altra funzione che esula dalla sua professione. Non si possono rifiutare le cure a un immigrato perché clandestino. Anzi, se vogliamo portare fino in fondo il nostro pensiero non possiamo non vedere che è il contrario: il clandestino che si rivolge ad un ospedale e ai medici va soccorso due volte perché per la sua cittadinanza è doppiamente indifeso. L’obbligatorietà del referto, nei casi in cui è necessario, renderà anche possibile la identificazione. Ma non si può invertire la logica ossia passare dalla clandestinità al rifiuto della cura quindi alla spiata e al commissariato. La cura aiuta il clandestino ma non favorisce la clandestinità. Capovolgere la logica, come suggerisce l’emendamento Rizzi, significa, paradossalmente, favorire la clandestinità perché la cura negata condurrà nell’ombra anche l’assistenza medica. Forse, Maroni dovrebbe suggerire ai suoi non tanto la cattiveria, ma la serietà.
L
limiti anche “estetici”. Lasciamo che la Lega faccia il suo lavoro e fronteggiamo lo stress da sorpasso alzando l’asticella qualitativa del dibattito, proponendo agli italiani soluzioni anziché slogan».
L’emendamento che trasforma i medici in delatori è uno di questi slogan. In molti nel Pdl non lo digeriscono, ma prendere posizione pubblica è ancora appannaggio di pochi. Mario Pepe, focoso deputato azzurro e medico di professione, non è però tra quelli che si nasconde: «Invece di risolvere questi problemi, adesso la croce la vogliamo dare addosso ai medici? Gli vogliamo dare il compito di combattere l’immigrazione clandestina quando il sistema fa acqua da tutte le parti, quando il sistema crea clandestini? Così si creerà una sanità clandestina per clandestini, si tornerà alle cliniche illegali per gli aborti». Il segretario del Pri, Francesco Nucara, parla di «errore fondamentale, indegno di un paese civile», mentre Margherita Boniver di «brutto scivolone demagogico». Secondo Leoluca Orlando, portavoce dell’Italia dei valori, «la maggioranza, a scrutinio segreto, in Senato, ha approvato una norma che costituisce una palese violazione in materia di uguaglianza, del diritto alla salute ed al libero esercizio della professione». Per Renata Polverini, segretario generale dell’Ugl, «l’obiettivo di maggiore sicurezza non va perseguito con interventi che alimentano la diffidenza. Ricordiamo che gli immigrati, con il loro lavoro, contribuiscono a produrre ricchezza, peraltro in un contesto di minori tutele e diritti, e danno un sostegno significativo a molte famiglie. In tanti aspettano il rinnovo del permesso di soggiorno, costringendoli ad uno stato di irregolarità. Sarebbe più opportuno agire su questo fronte ed evitare invece misure che finiscono per colpire in modo indiscriminato tutti gli immigrati, senza distinguere tra chi delinque e chi lavora onestamente e dà un contributo al Paese». E Francesco Rutelli, del partito Democratico, punta il dito contro «l’indisponibilità di risorse e l’incentivo a denunciare da parte dei medici le situazioni di clandestinità finirà per tradursi in meno cure, più sofferenze e minore possibilità di affrancarsi, con una decente autonomia e nuovi orizzonti di vita, per molti bambini». Per Walter Veltroni, leader dell’opposizione,
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Il Pdl non esiste: nella maggioranza la linea la dà il Senatùr
Solo un Grande Centro può fermare la Lega di Renzo Foa segue dalla prima
La Chiesa: ma noi non li denuceremo ROMA. «Alla Chiesa competerà sempre di aiutare le persone in pericolo di vita. Le leggi sono votate secondo le regole della democrazia, ma noi continueremo ad aiutare i poveri immigrati non regolari». È quanto ha detto monsignor Domenico Segalini, Segretario della commissione Cei per le migrazioni, a commento del provvedimento approvato dal Senato in base al quale i medici potranno denunciare gli immigrati clandestini che ricorrono alle cure mediche. E tuttavia anche su questa materia, secondo mons. Segalini è possibile «riaprire un dialogo con lo Stato per raggiungere una mediazione». «Il mio cuore di pastore - ha affermato ancora - mi dice di aiutare chi è in difficoltà e non sono obbligato a denunciare nessuno. Le indicazioni che daremo sono quelle del rispetto delle leggi ma al di sopra di tutto c’è il rispetto della salute». In queste pagine, alcune immagini di immigrati clandestini sulle nostre strade, anche a contatto con le nostre strutture mediche. Se dovessero passare le norme spietate approvate dal Senato, la loro vita cambierà radicalmente l’emendamento «è una cosa vergognosa. È un’idea inumana, un’idea sostanzialmente razzista, per me del tutto inaccettabile. L’idea di creare le condizioni per le quali le persone che sono ammalate abbiano paura di farsi curare, meriterebbe una risposta forte e determinata da parte di tutti coloro i quali hanno a cuore la vita». Un inizio di dibattito fra una maggioranza abulica, disabituata al confronto e alla critica degli accordi stretti nelle
stanze del Capo, e un’opposizione in continuo movimento. Grandi assenti, in un paese in cui il cattolicesimo di base rappresenta ormai l’unica riconoscibile opposizione sociale, i molti cattolicissimi parlamentari del Pdl. Forse riflettevano sulle teorie antropologiche del senatore leghista Piergiorgio Stiffoni: «Se un extraterrestre scendesse sulla terra e mi chiedesse qual è la specializzazione dei romeni, gli risponderei: lo stupro».
E mi riferisco soprattutto al Pdl, che, se non ci fosse il suo leader Silvio Berlusconi, non sembrerebbe capace di presentarsi davanti all’opinione pubblica con un minimo di credibilità.
Dunque una nuova fase in cui, da una parte, emerge con contorni sempre più definiti il protagonismo della Lega di Bossi non più solo sui temi dell’immigrazione e della sicurezza, ma anche su quelli economici e sociali, accanto all’anarchia delle ormai obsolete Alleanza nazionale e Forza Italia, che marciano verso la fusione. Mentre sull’altro versante il Partito democratico sembra ormai avere come principali antagonisti, in vista della conta elettorale di primavera, solo i «piccoli» che una volta si chiamavano «cespugli all’ombra della Quercia» e l’imbarazzante presenza dell’Idv di Antonio Di Pietro. A ben guardare, probabilmente, non è più rintracciabile il panorama di un falso bipartitismo – cioè l’illusione nutrita da un anno a questa parte da Berlusconi e da Veltroni – ma neppure quella di un bipolarismo funzionante, in grado di definire i contorni di un quadro politico virtuoso. Sul tema, come si sa, si è ormai aperta una discussione che ha coinvolto politici e politologi. Ma la domanda è ormai chiara: è quella secondo la quale, a quasi quindici anni dall’inizio della crisi del sistema politico e dall’avvento del bipolarismo, si comincia a intravedere una ridislocazione delle forze in campo. A cui segue un’altra domanda: quella secondo la quale questa riarticolazione non risponde più semplicemente alla definizione di cartelli elettorali, come quasi sempre è avvenuto dal 1994 ad oggi, ma a qualcosa di più profondo, cioè a valori di riferimento e ad interessi sociali e locali rappresentati. Se si comincia a rispondere è già facile trovare le tracce di questa nuova fase della crisi. L’elenco è ben visibile, in
un Paese dove si sta vivendo in modo più profondo che altrove «il nuovo 1929», in cui si stanno ulteriormente acuendo le vecchie e tradizionali divisioni tra Nord e Sud, in cui ogni giorno si è chiamati a misurarsi con difficili e irrisolvibili problemi etici e in cui, oltretutto, il mondo politico stenta a dare risposte convincenti, se si arriva al punto in cui il presidente del Consiglio, per dimostrare la sua forza, decide di scendere direttamente in campo per partecipare (per interposta persona) all’elezione del nuovo governatore della Sardegna.
È questa situazione di caos a porre la domanda su cosa potrebbe seguire al logoramento del bipolarismo e al fallimento del tentativo bipartitico. La domanda non su un duello che non c’è tra Pd e Pdl, ma su chi si contrappone davvero alle manovre di bandiera della Lega o su chi sta cercando di restituire al quadro politico quella dignità democratica che ormai viene quotidianamente lacerata dalle ventate populistiche, a cominciare da quelle volontarie o involontarie che siano di Di Pietro, per finire con l’anarchia del Pdl e la confusione del Pd. Per essere chiari è la domanda sulla necessità del nuovo Centro politico. E quando uso questi termini, non penso al trascinamento del vecchio duello tra l’Udc e Bossi, che ha accompagnato questa stagione. Penso a un conto alla rovescia che può iniziare per prevenire i possibili e devastanti effetti di questa nuova fase della crisi italiana, per non ripetere più gli errori compiuti tra il 1992 e il 1994 o, più recentemente, tra il 2006 e il 2008. Un conto alla rovescia per arrivare a quella nuova riaggregazione centrista – punto d’incontro di valori e di interessi – capace di interpretare le potenzialità liberatesi negli ultimi vent’anni (dopo il 1989) e di dar loro un nuovo senso di fronte al logoramento del Pdl e del Pd e di arginare le spinte egemoniche della Lega.
L’immediato futuro imporrà nuovi conflitti tra Nord e Sud e sul terreno d’etica: su ciò si misureranno le forze politiche liberate dal bipartitismo
eluana
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Caso Englaro. Nella maggioranza (Fini escluso) passa la proposta dell’Udc: già scritta una norma che vieta la possibilità di sospendere la nutrizione
È guerra sul decreto Il governo pronto a intervenire. Veltroni: «Inaccettabile» E adesso in molti si chiedono: Napolitano lo firmerà? di Riccardo Paradisi segue dalla prima La bozza del provvedimento elaborato dal governo – e diffuso da Repubblica on.line – conterrebbe un solo articolo dal titolo: “Disposizioni urgenti in materia di alimentazione ed idratazione“. «In attesa dell’approvazione di una completa e organica disciplina legislativa in materia di fine vita - recita il testo - l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere rifiutate dai soggetti interessati o sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi».
dà la facoltà al Beppino Englaro, il padre di Eluana, di chiedere e ottenere la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione della figlia. Dal Colle d’altra parte si è continuato in questi giorni a sottolineare che «il presiden-
Il Consiglio dei ministri è oggi e la sospensione progressiva dell’alimentazione di Eluana potrebbe partire già questa mattina
Il decreto è dunque pronto resta da vedere se verrà presa la decisione di presentarlo. Su questa possibilità gravano infatti delle pesanti riserve di opportunità politica. La prima riguarda la possibilità, molto concreta come si diceva, che il presidente Giorgio Napolitano non firmerà un decreto che da un lato dividerebbe trasversalmente il quadro politico dall’altro aprirebbe un conflitto con la magistratura che sul caso ha pronunciato la sentenza che segue dalla prima
te ha sempre chiesto una soluzione condivisa», l’estensione di un testo al quale partecipi anche l’opposizione. Un’indicazione generica che in via logica potrebbe essere rispettata visto che ampi settori dell’opposizione – dalle componenti teodem e popolari del Pd all’Udc di Pier Ferdinando Casini – darebbero il loro assenso incondizionato al decreto del governo. Anzi Paola Binetti (Teodem - Pd) ha lamentato un eccesso di attendismo da parte del governo che ha decretato fino ad oggi su tutto ma non si decide a intervenire per salvare la vita di Eluana, mentre Casini, al termine della direzione dell’Udc di ieri, si è detto stupefatto che all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri non sia stato previsto il decreto anti-crisi preannunciato nei giorni scorsi da Berlusconi e dal governo: «Siamo rimasti agli annunci di Scajola e di Berlusconi ora stiamo aspettando fiduciosi queste misure. Se lo hanno annunciato il decreto ci sarà. Non posso credere che abbiano detto delle bugie». Non c’è molto tempo però: il Consiglio dei ministri è oggi e la sospensione progressiva dell’alimentazione di Eluana po-
A sinistra, un’immagine di Eluana Englaro. A fianco, nella foto grande, una manifestazione per la vita di Eluana. Sotto Beppino Englaro che si batte perché la figlia ”sia lasciata andare”. A destra, Gian Luigi Gigli, neurologo dell’Università di Udine
trebbe partire già questa mattina. Per questo nella maggioranza si spinge il tasto dell’urgenza: «Al massimo entro 48 ore dal distacco del sondino il decreto dovrà essere esecutivo altrimenti sarà troppo tardi».
Un intervento della politica “così pesante” sarebbe invece
Farla morire significa eliminare una persona che, se assistita, può continuare a vivere
nell’esecuzione, richiesto non dal soggetto ma da altri (un tutore), autorizzato dal giudice, finalizzato ad anticipare la morte, programmando la cessazione progressiva dell’esistenza di una vita umana attraverso la sospensione del nutrimento e dell’idratazione. Insomma, l’eliminazione di una vita che potrebbe, se assistita, continuare a vivere (come altre vite nelle medesime condizioni). Il fatto che Eluana probabilmente non soffra; il fatto che forse è quello che avrebbe voluto lei stessa; il fatto che non sia attivamente iniettato un veleno (che porterebbe, solo con maggior rapidità, allo stesso risultato), non è sufficiente a rasserenare le coscienze. Le domande etiche laceranti rimangono irrisolte, i tormentosi dibattiti giuridici ancora aperti, e intanto Eluana è in una zona grigia, sospinta verso la morte.
Non sarà certo una “dolce morte”, ma una fredda esecuzione
Eluana non ha dunque subito alcun “accanimento terapeutico”, ossia cure sproporzionate, gravose, onerose al fine di prolungare ad ogni costo la sua vita. Del resto, se così fosse, la sospensione sarebbe stata dovuta deontologicamente e per legge, senza scomodare vivaci dibattiti etici e controversi interventi giurisprudenziali. Dunque? Eluana è viva e potrebbe continuare a vivere, senza sofferenze, se assistita ordinariamente. Eppure nella casa di cura che la ospita - in forza di un decreto della Corte d’Appello di Milano - si stanno programmando una serie di atti medici che le ridurranno progressivamente ciò che sarebbe necessario per il suo sostentamento, dandole sedativi nell’ipotesi che possa soffrire. Si dice che morirà “dolcemente”, lentamente. Ma
di Laura Palazzani era questa la sua volontà? Non lo sappiamo, se non dai generici racconti delle amiche. Certamente è ciò che vuole il padre, che porta avanti questa battaglia da anni. Ma può una volontà sostitutiva decidere sulla vita e sulla morte di altri? Molti i dubbi che sono stati sollevati e rimangono drammaticamente aperti. Ogni coscienza è stata toccata, scossa, segnata da Eluana. Forse stiamo comprendendo fino in fondo, proprio attraverso “il caso” di Eluana, che cosa siano i principi del
consenso informato all’atto medico, dell’autodeterminazione, e quali azioni attive o omissive possano considerarsi eutanasia. Un termine, questo, che risuonava solo nei dibattiti degli “addetti ai lavori” in bioetica e nel biodiritto, un termine che sentivamo lontano, che percepivamo nella sua astrattezza senza comprenderne concretamente il significato. In fondo, l’eutanasia non è una “dolce morte”, ma - in questo caso - un atto freddo e procedurale, che coinvolge i medici
inaccettabile per il segretario del Pd Walter Veltroni: «Questa vicenda non può che essere affidata alla responsabilità e all’amore dei genitori di Eluana e alle sentenze che sono state emanate dai diversi gradi di giudizio». Lo stesso concetto espresso dal presidente della Camera Gianfranco Fini martedì e ribadito
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6 febbraio 2009 • pagina 5
Parla il professor Gian Luigi Gigli, neurologo dell’Università di Udine
«Attenti, da quel letto può ancora svegliarsi» di Gabriella Mecucci
ROMA. Il dibattito sul caso Englaro si svolge in so- getto non debba avere limiti, nel caso di Eluana è stanza intorno a tre temi fondamentali: la condizio- proprio l’accertamento della sua volontà che fa ne di una persona in stato vegetativo, la definizione acqua da tutte le parti. Lo stile di vita di una perdi accanimento terapeutico, e il modo in cui è stata sona, certe sue frasi riferite dal padre o da un’amiricostruita la volontà di Eluana. Ne parliamo col ca, non sono certo sufficienti a identificare ciò che professor Gian Luigi Gigli, neurologo dell’Univer- una giovane donna ancora in formazione voleva davvero. E poi ci sono testimoni che raccontano di sità di Udine. Professore, a proposito di accanimento tera- una Eluana diversa, che diceva cose diverse. Perpeutico si dice: perché è stata esaudita la ri- ché quelle testimonianze non sono state prese nelchiesta di Giovanni Paolo II di staccare il son- la dovuta considerazione? La sentenza della Casdino e non ci si comporta allo stesso modo sazione chiedeva alla Corte d’Appello un accertacon la Englaro? mento rigoroso della volontà di La situazione è completamente Eluana che in realtà non c’è stadiversa. In Italia tutti i giorni si to. Quella sentenza poneva inolstaccano sondini quando una tre un’altra condizione... Quale? persona si trova nella condizione Che fosse impossibile un’uscita in cui si trovava il Papa: si trattadallo stato vegetativo, un qualva infatti di un malato terminale siasi recupero. Le ripeto, è molto e, ad un certo punto, il corpo non probabile che ciò possa avvenire, assimila più né liquidi né cibi, ma ma non è sicuro al cento per cenli rifiuta. In questo caso la nutrito. Conosciamo ancora troppo zione e l’idratazione non solo poco i processi cerebrali per ponon producono più effetti posititerlo dire con assoluta certezza. vi, ma possono fare danni. Si Ma la sentenza della Cassazione tratta di uno stadio molto prossimo alla morte. La situazione di va letta integralmente. Ci sono Eluana è del tutto diversa: il suo delle parti molto interessanti e corpo assorbe il nutrimento; la positive come quando afferma morte è talmente lontana che in che le persone in stato vegetativo queste condizioni ha vissuto 17 sono portatrici di tutti i diritti. Alanni; la donna è in realtà in stato tro che morte! O quando esclude vegetativo e la scienza per definiche la nutrizione e l’idratazione re questa condizione non usa più possano essere ritenute accaninemmeno l’aggettivo permanenmento terapeutico, ma debbano te, proprio perché non esclude essere considerate come un tratche se ne possa uscire. tamento proporzionato. La SuVuol dire che Eluana potrebbe riprendere in prema Corte sottoponeva, in sostanza, il distacco qualche modo la coscienza? del sondino a due condizioni: l’accertamento della Lo considero molto improbabile, ma non è possibi- volontà di Eluana e la sicurezza che non potesse le escluderlo. Ho visto invece che qualcuno afferma uscire dallo stato vegetativo. In realtà nessuna delche Eluana è morta 17 anni fa. Ci troviamo dunque le due è stata soddisfatta. Perché una vicenda individuale così drammanel mezzo di un paradosso kafkiano: a Udine è statica è diventata un fatto pubblico to ingaggiato un primario anedi grandissima rilevanza politistesista per dare sostanze sedatica? C’è qualcuno che ha voluto ve a una persona già morta. Se farle assumere questa portata passasse questa definizione di emblematica? morte per autorizzare l’espianto di organi ci sarebbe da tremare. Credo di sì. Non posso non ricorLa volontà di Eluana Che sia morta 17 anni fa è dare a questo proposito l’attività La Cassazione ne chiedeva del gruppo riunito attorno alla riun’ aberrazione, ma ora per un accertamento rigoroso. In vista milanese Bioetica. Il caso morire soffrirà? realtà si sono usate come A livello scientifico possiamo diEnglaro, secondo uno dei suoi prove le dichiarazioni di tre re socraticamente che siamo ceranimatori, il professor Maurizio testimoni escludendo, per alti solo di non sapere. Forse i paMori, potrebbe dare una spallata tro, altre testimonianze che zienti in stato vegetativo non coalla sacralità della vita. Potrebbe dicevano cose diverse. lorano la sofferenza con le stesse trasformarsi in una sorta di seLo stato vegetativo nostre tonalità affettive. Chi li ha conda breccia di Porta Pia. QueNon è un malattia, né tantovisti sa però che essi possono sta drammatica vicenda poi metmeno uno stadio terminale. reagire con smorfie di disagio se te in gioco il ruolo delle strutture Si tratta di una gravissima vengono manipolati in modo non sanitarie pubbliche che servono inabilità. Nessuno può escluadeguato o quando vanno incona curare, non a dare la morte e lo dere con certezza che sia tro a complicazioni. E non è un stesso fondamento ippocratico possibile uscirne. caso che in tutto il mondo la sodell’agire medico (primum non spensione dell’idratazione e della nocere).Tutto ciò non può non diL’accanimento terapeutico nutrizione venga accompagnata ventare un fatto pubblico. Del reL’idratazione e la nutrizione sto la decisione di far morire alla sedazione del paziente. non sono equiparabili all’acEluana in un ospedale e per maPassiamo alla seconda canimento terapeutico. La no di un medico la dice lunga. grande questione: il modo stessa sentenza della CassaPerché si è esclusa l’eventualità in cui è stata accertata la zione su Eluana Englaro non di portarla a casa? Per fare quanvolontà di Eluana le semle definisce così, ma le consito previsto non è necessaria una bra convincente? dera al contrario cure proAmmesso e non concesso che struttura sanitaria, bastano le porzionate. l’autodeterminazione del sogmura domestiche.
“
C’è chi afferma che è morta 17 anni fa. Perché allora è stato ingaggiato un anestesista per dare sostanze sedative a una persona considerata già deceduta?
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Tre nodi su cui fare chiarezza
ieri con una posizione contraria al decreto. Invece il governo oltre alla presentazione di un provvedimento sta valutando anche la possibilità di compiere ispezioni nella clinica di Udine dove è ricoverata Eluana. Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella infatti si dice convinta che la clinica, un ricovero per anziani, non abbia i requisiti per i trattamenti che dovranno essere riservati a Eluana. Misure forti, ma per Roccella «è importante prendere una posizione inattenuata, anche perchè non esiste una posi-
zione neutrale in una vicenda come questa». La sospensione della nutrizione artificiale ad Eluana inizierà dunque da oggi ma se dovesse esserci un decreto del governo la meccanica che porterebbe alla sua morte si fermerebbe. «Se il decreto impedisse chiaramente la sospensione della nutrizione artificiale – dice il neurologo Carlo Alberto Defanti – lo rispetteremmo». Ma verrà presentato il decreto? E verrà firmato dal presidente della Repubblica? La vita di Eluana Englaro è appesa a questi interrogativi.
politica
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Udc. Alla direzione nazionale del partito, Casini disegna la road map in vista delle elezioni di giugno
«Non ci facciamo intimidire dalla Lega» di Francesco Capozza
ROMA. «La Lega punta ad intimidirci con ricatti a cui non ci piegheremo: “o votate il federalismo fiscale” ci dicono “o con voi non ci alleiamo nè noi nè il Pdl”». Con questa denuncia il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha aperto ieri pomeriggio la Direzione nazionale del partito. «Ma noi non ci facciamo intimidire, perchè guardiamo agli interessi del Paese e non votiamo un provvedimento che lo stesso ministro dell’Economia ha dichiarato essere difficilmente gestibile economicamente. Il messaggio intimidatorio leghista palesa la realtà delle cose nel centrodestra: da quelle parti comanda la Lega ed io, francamente, di farmi comandare da Calderoli me ne guardo bene!». D’altronde, ha incoraggiato Casini «stiamo andando avanti bene, ci siamo sacrificati e continueremo a farlo, ma i frutti già si vedono: tutti i sondaggi ci dicono che andare da soli ha premiato. Continuiamo così, senza dare per scontato nulla da nessuna parte del Paese». I temi all’ordine del giorno dell’assise centrista sono stati: la relazione del segretario nazionale Lorenzo Cesa, la votazione sulla mozione che chiede al governo di emanare un decreto legge sul “diritto alla vita”, con chiaro riferimento al caso di Eluana Englaro (come da nostro servizio a pagg 3-4), approvata all’unanimità, e la definizione della linea che il partito intende tenere in vista delle elezioni Europee ed ammiistrative del prossimo giugno. Per Casini «il governo e Berlusconi sono vittime delle continue richieste della Lega. Al Nord assistiamo ad uno scontro tribale tra Pdl e Lega, al centro tra Forza Italia e An. Per noi è fondamentale rimanere fuori da questo gioco al massacro». Per il leader dell’Udc è doveroso che si stringano i tempi per la «definizione delle condidature nei 100 comuni e nelle quasi 60 provincie che saranno chiamati al voto» nella prossima tornata elettorale. Un discorso a parte quello fatto da Casini (ma prima di lui anche Lorenzo Cesa nella sua relazione
in breve Pomigliano: incidenti fra polizia e operai Fiat Ieri a Pomigliano d’Arco, davanti agli stabilimenti della Fiat, ci sono stati momenti di forte tensione. In particolare, ci sono stati scontri tra polizia e lavoratori della Fiat che chiedevano garanzie per oltre 5.000 operai dello stabilimento. Gli agenti hanno cercato di impedire l’ingresso dei manifestanti sull’autostrada A1. Intanto, è stato annunciato che oggi sarà presentata, durante la seduta del Consiglio dei ministri, la bozza degli aiuti per contrastare la crisi del settore auto. Secondo il Centro studi Fleet&Mobility con gli interventi del governo potranno essere salvati 40mila posti di lavoro.
Scuola, la carica dei neo-assunti cinquantenni
Pier Ferdinando Casini insieme al segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. Sotto, Rocco Buttiglione. Ieri si è riunita a Roma la direzione del partito centrista introduttiva) sulle elezioni Europee che si svolgeranno contestualmente alle Amministrative. «Il mantenimento delle preferenze è una nostra grande vittoria e adesso continueremo a batterci per la reintroduzione anche
nel sistema elettorale nazionale». Non è mancata, sul tema dell’accordo bipartisan per la riforma del sistema elettorale europeo sancito lo scorso martedì con un ampio voto parlamentare, una stilettata di Pier Ferdinando Casini al premier Silvio
partito Lorenzo Cesa a fissare i paletti sulle alleanze e sul comportamento da tenere a livello locale. «Dovunque potremo, andremo da soli» ha precisato Cesa, «le esperienze di Trento e dell’Abruzzo ci siano da esempio per capire come operare».
Durante l’incontro, il leader centrista ha confermato che l’Udc non voterà il federalismo fiscale finché Tremonti non avrà dato conto esatto del costo e della copertura finanziaria. E alle Europee punta al colpaccio Berlusconi: «intendiamoci -ha infatti affermato Casini- questa legge e il conseguente mantenimento delle preferenze- la dobbiamo al Pd. Fosse stato per Berlusconi adesso avremmo le liste bloccate e lo sbarramento al 6%» daltronde, ha proseguito il leader centrista «i voti per farsi la riforma ce li hanno e l’obiettivo era quello di spazzarci via pure a noi».
Poi la preghiera a tutto il gruppo dirigente del partito: «è evidente che è necessario un altro sforzo: dovete candidarvi, solo se la classe dirigente si candida riusciamo a trainare voti». Prima ancora dell’intervento di Casini era stato quello del segretario politico del
Sull’atteggiamento del partito a livello nazionale, invece, il segretario del partito ha detto che «stiamo facendo un ottimo lavoro, anche sul federalismo fiscale abbiamo preso una posizione che ci ripagherà positivamente in termini di consenso». Sul tema del federalismo fiscale anche Casini ha voluto precisare la linea da seguire: «è impossibile per noi votare una legge che lo stesso ministro dell’Economia ha definito “economicamente ingestibile”. Se non ci saranno delle modifiche sostanziali alla Camera e dei dati certi dal governo sui costi dell’operazione, confermeremo il voto contrario che abbiamo dato al Senato». Un partito forte, quindi, e sicuro di avere margine di crescita quello che si prepara ad una nuova campagna elettorale “in solitaria”.
Nel mondo della scuola si sta vivendo una situazione assolutamente paradossale: un piccolo esercito di ultraquarantenni ha appena conquistato la cattedra con l’ultima infornata di 50 mila assunzioni avvenuta proprio nei mesi scorsi. Il dato è contenuto in uno studio della Fondazione Agnelli secondo il quale, tra i professori neoassunti ben il 13,7% ha tra i 50 e i 60 anni. L’assurdo si raggiunge con un 1,2% che è addirittura over 60 e quindi rischia di andare in pensione dopo essere entrato in ruolo.
Caso Battisti, da Ue un sostegno all’Italia Importante pronunciamento sul Caso Battisti del Parlamento europeo, riunito ieri a Strasburgo, su pressione dell’Italia. Il Parlamento europeo, dice il pronunciamento «confida che il riesame della decisione sull’estradizione di Cesare Battisti terrà conto della sentenza emessa in Italia nel pieno rispetto dei principi di legalità». Rileva poi che «l’attribuzione dello status di rifugiato deve basarsi sui principi internazionali e che il rifiuto dell’estradizione, motivata da insufficienti garanzie dei detenuti in Italia, manifesta sfiducia nei confronti dell’Ue che, con i suoi Stati membri, è invece fondata sul rispetto dei diritti fondamentali».
politica Diplomazia. Cerimonia d’addio con molta amarezza (e qualche polemica) per Ronald Spogli
L’ambasciatore di Bush: il vostro Paese è alla corda di Pierre Chiartano
ROMA. «Mi sono chiesto come mai gli italiani non reagiscano nel vedere, costantemente, il proprio Paese agli ultimi posti delle classifiche sulla competitività mondiale»: è l’amara constatazione dell’ambasciatore Usa a Roma, Ronald Spogli, mentre prepara le valigie, al termine del suo mandato. Lascia l’Italia più o meno come l’aveva trovata, «malato d’Europa», per i suoi ritmi di sviluppo al rallentatore. «Ritengo che questo problema di fondo, di una lenta crescita nel lungo periodo, sia molto più serio della recessione in atto», è l’allarme lanciato dal diplomatico al pranzo d’addio a Villa Taverna, ieri pomeriggio. Quarantuno mesi passati nell’ufficio che fu anche di Clare Boothe Luce, sono stati per il rappresentante della diplomazia di George W. Bush, un osservatorio interessante sul nostro Paese. Ama l’Italia e lo si percepisce in ogni parola che pronuncia, facendo riferimento ad un Paese che non è ciò che potrebbe essere. La «bassa crescita economica», che ci farebbe scivolare sempre di più nelle basse classifiche del ranking mondiale, si può curare con un lavoro costante, che Spogli pragmaticamente sintetizza così: «Ci dobbiamo accontentare di cambiare una testa alla volta». È questo il compito e l’intenzione dei tanti programmi di partnership avviati dall’ambasciata, per promuovere le collaborazioni fra imprese e università italiane e la business comunity statunitense. Tra questi ricordiamo la collaborazione fra il politecnico di Torino e General Motors e il Fullbright Best dedicato agli studenti universitari. «Perché l’economia italiana cresce così poco?», si domanda l’ambasciatore, che come lui stesso afferma, in questo caso, «porta pena». Si fa carico del problema. «Penso che il cuore del problema risieda nelle politiche e nel clima economico. L’Italia si colloca ripetutamente molto in basso nelle classifiche internazionali sulle condizioni per fare business ed investire. Tutti conosciamo i problemi: burocrazia pesante, un mercato del lavoro rigido, la criminalità organizzata, la corruzione, la lentezza della giustizia, la mancanza di meritocrazia e un sistema d’istruzione che non risponde ai bisogni del Ventunesimo secolo». È sempre stato così, Spogli: diretto e sincero, anche quando sembrava fosse diventato editorialista del Corriere della Sera. Sottolineando ciò che, chiunque frequenti il mondo dell’economia, tra le due sponde atlantiche, percepisce subito. Un problema di approccio culturale differente al mondo degli affari. Più etica e meno cinismo, con meno controlli - che in frangenti come questo può essere anche un difetto - da un lato e troppa presunzione, con poca ambizione dall’altro. Il talento italiano non ha una pista ottimale dove correre e va in cerca di terreni nuovi, per poter dare prova della propria abilità, altrimenti sprecata in casa. Potremo sintetizzare così la formula magica: qualità italiana e metodo stelle e striscie. Perché in econo-
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in breve Inflazione in calo Nel paniere entra internet Prosegue anche a gennaio il calo dell’inflazione, mentre l’Istat rinnova il paniere sul quale calcola i prezzi al consumo. Chiave usb, film in dvd, pasta-base per pizze, rustici e dolci e mais in confezione sono le new entry del paniere dell’Istat nel 2009. Secondo la stima preliminare dell’Istituto di statistica a gennaio si è registrata una brusca frenata dell’indice del costo della vita, che ha registrato un incremento tendenziale dell’1,6% contro il 2,2% di dicembre, mentre il dato congiunturale è risultato in calo dello 0,1%.
Di Pietro: Berlusconi come i nazisti
mia non si inventa niente, si può sbagliare però. E il diplomatico americano, laureato in storia alla Standford University e imprenditore, non si tira indietro neanche quando gli chiedono conto delle responsabilità Usa sulla grande crisi economica in corso. «Gli eccessi vanno sicuramente corretti e servono nuove regole» ma l’economia di mercato può essere ancora il paradigma giusto per questo secolo. Entra in campo anche Vitaliano Brancati, citato dal giornalista Rai, Antonio Caprarica: «Gli italiani sono pronti a tutto, a qualsiasi sacrificio, per rimanere un Paese arretrato». Un modo per sottolineare la cultura disincanta e autolesionista che non si indigna più per nulla. Qui la formula di «una testa alla volta», unico strumento per il cambiamento, dimostra la spiccata italianità di
ricani tengono in modo particolare, «l’Italia ha già visto troppe grandi opere rimaste incompiute e la priorità della sicurezza energetica è troppo importante per risentire dei capricci della politica». Insomma non è più possibile veder un Paese, già in grande difficoltà, sprecare risorse importanti solo perché un governo che succeda ad un altro ha voglia di cancellare i meriti e i progetti del precedente. «Capricci» della politica che nello stivale posso moltiplicarsi a cascata e che dovrebbero spingere gli italiani alla strenua ricerca di un «percorso consensuale».
«Non avreste piacere nel vedere l’Italia risalire le classifiche internazionali e ottenere ogni anno risultati migliori? Non sarebbe una ragione di orgoglio per i rappresentanti di tutti i partiti, di tutti i gruppi sociali e di tutte le generazioni?» la domanda espressa dal diplomatico, si affianca all’esortazione a porre un freno al declino delle università. «Perché non si scelgono tre università, una del Sud, una del Nord e una del Centro e gli si concedono uno status speciale e incentivi mirati?». Bella domanda, cui qualcuno dei giornalisti presenti rispondeva, evocando con ironia l’orgoglio del campanile che attraversa sempre il Paese in certi frangenti: dieci, cento, mille Reggio Calabria. Sempre cinismo made in Italy. A una sola richiesta, Spogli non ha voluto rispondere, ma è come se l’avesse fatto. «In Italia c’è la stessa libertà di stampa che troviamo in America? Il giornalismo in Italia è diverso… qual è la prossima domanda?».
«L’Italia non può mantenere lo status di potenza economica se i suoi risultati rimangono così bassi. E poi la sicurezza energetica è troppo importante per risentire dei capricci della politica» Spogli, che cerca di mediare, badando al sodo. Piedi per terra, ma con determinazione. «Oggi molti italiani stanno lavorando ha spiegato l’ambasciatore - per rafforzare il legame tra ricerca, capitali e imprese. Ed è particolarmente gratificante scoprire che tanti giovani italiani si stanno avviando verso una carriera da imprenditori».
Comunque, «l’Italia non può mantenere lo status di potenza economica se i suoi risultati rimangono così bassi». Nel settore dell’indipendenza energetica, cui gli ame-
Bufera su Antonio Di Pietro dopo le pesanti accuse al governo contenute in una lettera aperta inviata al presidente Napolitano. «Il governo Berlusconi - secondo l’ex pm - sta per porre in essere un altro strappo alla Costituzione» facendo «un ricorso massiccio ai decreti legge e al voto di fiducia obbligato». L’esecutivo avrebbe «occupato l’informazione pubblica e privata in totale conflitto di interessi». Da qui la pesante accusa al governo di «ricalcare più le orme del partito nazionalsocialista tedesco degli anni ’30 che quelle di una democrazia fondata sul diritto».
Intercettazioni: nuovo stop Forti tensioni nel Pdl si sono registrate, ieri, sulla questione della regolamentazione delle intercettazioni. Il Partito delle liberatà si è spaccato sull’esame del ddl in Commissione Giustizia a Montecitorio che slitta quindi alla prossima settimana. Il Partito democratico, da parte sua, ha chiesto di ritirare subito il ddl ammazza-indagini. In margine, Luigi De Magistris, l’ex pm di Catanzaro, in un colloquio con l’Ansa ha sostenuto che «le intercettazioni, così come sono configurate dalle nuove norme, saranno inutili; e limitarne l’uso temporale in modo cosi’ forte potrebbe penalizzare gli stessi intercettati».
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Crisi. I sindacati inglesi tornano ai fasti dell’800 e siglano alleanze con tedeschi e americani. Contro l’euro e le multinazionali
“I rossi” puntano Londra Le Trade Unions vincono la sfida Lindsey e puntano a minare il governo Brown di Vincenzo Bacarani l vincitore alla fine sembra essere lui: Derek Simpson, 65 anni, leader dell’organizzazione Amicus (il più forte sindacato delle imprese private del Regno Unito) facente parte delle Trade Unions inglesi, il primo fronte dei lavoratori europeo nato nel 1824, che può vantare una gloriosa storia alle spalle. Un’organizzazione che tuttavia non può nascondere una lunga serie di sconfitte e umiliazioni dai governi di Margaret Tatcher in poi, quello di Tony Blair incluso ancorché quest’ultimo laburista e pure debitore di voti e di sostegni economici nei confronti dei lavoratori inglesi e delle Trade Unions. Appartenente - almeno a livello ideologico - alla sinistra radicale del Labour Party, Simpson non ha mai nascosto il suo “odio” politico per il capitalismo britannico e americano, e comunque occidentale. Due anni fa il sindacato da lui guidato ha stretto un’alleanza politica - e non soltanto - con l’Ig Metall tedesco (la storica e potente organizzazione dei metalmeccanici della Germania) e con i Machinists e l’United Steel Workers statunitensi per combattere su tutti i terreni quello che ha definito lo “strapotere delle multinazionali”, causa principale - a suo avviso - di povertà e disoccupazione in tutto il mondo.
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Ieri l’ultimo (i suoi detrattori dicono però unico) successo: i lavoratori della raffineria Lindsey, come richiesto proprio dai sindacati, hanno votato per la fine dello sciopero e il ritorno al lavoro. Da una settimana erano in agitazione contro l’esclusione di operai inglesi dai lavori per una nuova unità dell’impianto, affidati a un’azienda italiana, la Irem di Siracusa. L’accordo, negoziato con la Total, proprietaria di Lindsey, prevede ora la creazione di 102 posti per lavoratori inglesi, in aggiunta ai dipendenti della Irem, che sono italiani e portoghesi. Simpson è riuscito così a far tacere la sua personalità massimalista ed è sceso a patti per risolvere così una situazione di forte tensione sociale che appariva bloccata. Lo slogan del premier Gordon Brown coniato
L’esecutivo italiano deve sostenere gli indotti, non soltanto la Fiat
Un mercato aperto è il futuro di tutti di Giuliano Cazzola io stramaledica gli italiani!»: è il grido di battaglia che risuona in una desolata landa dell’Inghilterra dove, da settimane, il lavoratori del posto protestano contro un centinaio di nostri connazionali, che hanno il solo torto di essere occupati in un’azienda siciliana che, conformemente alle regole della Ue, ha vinto l’appalto per la costruzione di una raffineria della Total. Persino il premier inglese Gordon Brown e alcuni suoi ministri sono stati costretti a riconoscere che quegli scioperi sono inammissibili e indifendibili.
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Uno dei principi fondamentali su cui si base l’Unione europea è appunto quello della libera circolazione dei capitali, delle persone, delle merci e del lavoro. Tanto più che le regole europee stabiliscono – a nostro avviso purtroppo – che i lavoratori trasferisti all’estero devono vedersi applicare il trattamento in vigore nel Paese dove andranno a lavorare e non quello riconosciuto nel loro. Il fatto di cui si parla, in sé, è molto grave, anche perché non si tratta di un episodio isolato e circoscritto, di carattere spontaneo. I sindacati inglesi appoggiano questa protesta e sono pronti (succede sempre così da quelle parti) ad appoggiarla con iniziative di solidarietà (come avvenne ai tempi eroici della Lady di ferro con le lotte dei minatori). Come è stato detto da un autorevole membro del Gabinetto Brown, se alla recessione si aggiungesse il protezionismo l’esito sarebbe ancor più deleterio. Per inciso, corre l’obbligo di far notare che la vicenda del Lincolnshire
mette in evidenza un dato su cui riflettere: il sindacalismo italiano – pur con tutti i suoi difetti – non si sarebbe mai infilato in una vertenza tanto discutibile. Da noi, infatti, solo qualche veterosindacalista come Giorgio Cremaschi si è permesso – dal suo punto di vista coerentemente – di dare ragione agli operai inglesi e di attribuire la colpa alla «maledetta globalizzazione» che determinerebbe, a suo avviso, una guerra tra poveri. Purtroppo anche alcuni esponenti della Lega non sono stati da meno. Gollisti post litteram, i padani sono per l’Europa delle Patrie. E quindi non si smentiscono mai, soprattutto quando i lavoratori nei guai sono siciliani.
Eppure, se la risposta alla crisi fosse una deriva protezionista, veramente i Paesi del Vecchio Continente compirebbero non solo un passo indietro di portata storica sul piano politico, ma anche un clamoroso errore su quello economico. Un grande mercato aperto è sicuramente più ricco di opportunità di piccoli mercati a dimensione nazionale. Ciò vale sia quando le cose vanno bene, ma soprattutto nelle fasi di difficoltà. La triste storia degli scioperanti d’Oltremanica deve farci riflettere proprio nel momento in cui il Governo italiano – finalmente – smette di piangersi addosso e di raschiare il fondo del barile per finanziare gli ammortizzatori sociali e decide di tutelare il lavoro attraverso la ripresa dell’attività produttiva, a partire proprio dai settori di beni durevoli. Gli incentivi devono essere rivolti al sostegno della filiera dell’indotto e non solo alla Fiat o alle altri grandi aziende.
Disoccupazione, crollo della finanza, calo della produzione. Il Regno di Elisabetta II crolla sotto i colpi del crack internazionale, e assiste impotente alla rinascita del sindacato (ucciso dalla Tatcher) nel congresso Labour di due anni fa - British jobs for british workers - sta assumendo una valenza che lo stesso Brown (giunto in questi mesi ai minimi della popolarità in Gran Bretagna) non avrebbe voluto e si sta
rivelando per lui un vero e proprio boomerang. Sì, perché l’attuale primo ministro britannico non fa che seguire la linea dei suoi predecessori (da Tatcher a Major a Blair): emarginare i sindacati e proseguire nella politica di de-industrializzazione di un Paese che è sopravvissuto grazie anche a un’accettazione quasi acritica della globalizzazione finanziaria.
Il dramma è che ora il Regno Unito si ritrova a dover pagare i conti di una strategia politico-economica che l’ha man mano depauperata di quella che era una delle sue principali risorse storiche: la fabbrica, intesa come centro pulsante dell’economia reale, soprattutto in quelle zone del Paese considerate depresse. Al suo posto è stato dato un grande impulso ai servizi al capitale internazionale e al commercio, favorendo soprattutto gli affari della City londinese. La crisi congiunturale di questo periodo, dovuta proprio al privilegio dato ai servizi finanziari, e la rinuncia a entrare in un sistema monetario comunitario come quello dell’euro hanno fatto il resto: una situazione occupazionale difficilmente gestibile e l’elevata probabilità di un conflitto sociale difficile da gestire.
economia
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Il costo della moneta britannica scende all’1 per cento
La Bank of England taglia la sterlina di Alessandro D’Amato siamo al minimo storico. La Banca d’Inghilterra taglia il costo del denaro, questa volta di mezzo punto percentuale, dall’1,50 per cento all’1. La decisione era ampiamente prevista dal mercato. Da ottobre scorso, l’Istituto centrale britannico ha abbassato di quattro punti percentuali il costo del denaro. Il nuovo taglio è stato motivato con il peggioramento delle condizioni del mercato del credito e dell’economia, sottolineando che ci sono «rischi considerevoli» che l’inflazione scenda troppo rapidamente sotto l’obiettivo del 2 per cento. Per la Banca centrale britannica la pressione su salari e prezzi si sta allentando e ora prevede un tasso di inflazione in discesa sotto il 2 per cento nella seconda parte dell’anno. E la decisione ha aiutato la moneta inglese: la divisa di Sua Maestà è salita fino a 1,46581 dollari e ora è indicata a 1,4629 (1,4498 prima del taglio). Contro l’euro, d’altra parte, la sterlina ha raggiunto il massimo da due mesi, a 0,8781 per un euro, e ora passa di mano a 0,8792 per un euro (0,8868 prima della BoE). La decisione arriva forse nel momento in cui la crisi economica britannica è al suo culmine: il Pil del Regno si ridurrà quest’anno del 2,8 per cento almeno (nell’eurozona si dovrebbe scendere dell’1,9 per cento), il risultato peggiore dal 1946. Per aiutare l’economia il governo Brown ha previsto di portare il debito pubblico dal 40 al 47 per cento. I miliardi di sterline sborsati dalla linea d’emergenza della Banca centrale per salvare gli istituti di credito dovevano essere 50. Sono in realtà 185. Il deficit di bilancio per l’anno in corso dovrebbe arrivare a 120 miliardi di sterline, oltre l’8 per cento del Pil. La liquidità serve ad evitare che alle imprese e alle famiglie non arrivi più credito dalle banche paralizzate, ma intanto il tasso di disoccupazione è salito al 6,1 per cento: due milioni di ex lavoratori.
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Lo sciopero degli operai della Lindsey, proprietà di Total, che hanno costretto la multinazionale a garantire occupazione senza dover licenziare gli operai italiani. A destra, Gordon Brown. Nella pagina a fianco, Margaret Tatcher
Il risultato politico? Il leader conservatore David Cameron è paradossalmente più vicino al “rosso”Derek Simpson di quanto non lo sia il laburista Gordon Brown, la disoccupazione aumenta e il disagio sociale sul suolo britannico sta raggiungendo livelli allarmanti. La marcia dei sindacati su Londra ci sarà comunque, nonostante l’accordo raggiunto sulla questione della Lindsey e dei lavoratori italiani. «Non abbiamo nulla contro gli italiani in quanto italiani», tengono a precisare i rappresentanti dei lavoratori inglesi che adesso temo-
no di essere accusati di xenofobia, ma intanto stanno serrando le fila per una grande manifestazione di protesta contro Gordon Brown e la sua politica di apertura nei confronti della manodopera straniera. A fine febbraio probabilmente Simpson verrà rieletto co-segretario delle Trade Unions (il successo di questi giorni è un buon volantino elettorale), per il 28 marzo è programmato uno sciopero generale in tutto il Paese e i sindacati, dopo decenni di isolamento e di umiliazioni (basti pensare alla ultima, cocente sconfitta per lo sciopero dei minatori del 1990) potrebbero prendersi una storica rivincita.
«Non c’è da stupirsi di quello che sta accadendo in Inghilterra - sottolinea Giorgio Cremaschi, leader della sinistra radicale della Cgil - perché il conflitto sociale esploderà presto in tutta Europa. Da noi, in Italia, soltanto i leader di Cisl e Uil non se ne sono ancora accorti. Quello che è sotto accusa in Gran Bretagna con i migranti italiani e in Italia con i migranti dall’estero è la messa in discussione della parità dei diritti sindacali e sociali».
rittura dall’Italia. E per il 2010 le previsioni sono di una stagnazione: zero crescita del Pil, niente ripresa nonostante le promesse di Brown. Nel frattempo, si rincorrono voci sul rischio di declassamento del debito pubblico, con le agenzie di rating pronte a seguire il vento della crisi. Mentre la Bank of England si è detta disposta a comprare asset tossici delle banche per rimettere in circolazione liquidità.
E ieri è arrivato l’ennesimo segnale negativo dall’economia: il 2009 è iniziato con una nuova pesante caduta delle immatricolazioni, -30,9 per cento a gennaio, rispetto allo stesso mese di un anno prima. Si salvano solo le mi-
In quattro mesi, l’Istituto centrale inglese ha abbassato di quattro punti il costo del denaro. Il nuovo taglio è stato motivato con il rischio del crollo delle condizioni del mercato internazionale del credito e dell’economia
Tanto che l’Independent on Sunday ha scritto la settimana scorsa che il governo inglese sta valutando la possibilità di incentivare le aziende affinchè riducano la settimana lavorativa a tre giorni. Il potere d’acquisto dei sudditi della Regina è crollato del 20 per cento negli ultimi sei mesi e probabilmente scenderà ancora. Nelle classifiche internazionali, poi, il Regno Unito perde posizioni a causa della debolezza della moneta. Con il risultato che in termini di valore per quanto riguarda il Pil, la Gran Bretagna è scivolata al settimo posto (era quinta nel 2007), superata di slancio dalla Francia, storico Paese rivale, dalla Cina e addi-
ni car, che anzi registrano un vero boom. Intanto Ford annuncia nuovi tagli all’organico: salteranno 850 posti, il 7 per cento dei 12.900 addetti che conta nel Regno Unito. In una situazione del genere, si comprende benissimo che dietro le “guerre” intraprese dagli operai nei confronti dei lavoratori stranieri c’è un elemento di “depressione” psicologica da caduta dell’Impero. Che sembra non avere soluzioni di continuità, perlomeno in questo momento. Il taglio del costo del denaro è l’ultima spiaggia, e farlo con l’inflazione al 2 per cento significa giocarsi l’ultima carta. Dopo, c’è solo da aspettare e sperare. Nel frattempo, ieri la Banca Centrale Europea ha deciso invece di lasciare invariato il costo del denaro. Il taglio è rimandato a marzo, ha dichiarato Jean Paul Trichet.
panorama
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Retroscena. Hanno visitato l’esposizione del pittore Gregorio Guglielmi all’Avvocatura dello Stato
Letta e Draghi in mostra insieme di Rossella Fabiani
ROMA. Il vernissage era previsto per le 18, ma già due ore prima – alle 16 in punto – una prestigiosa pattuglia formata da Mario Draghi, Gianni Letta, Sandro Bondi e Gianni Alemanno entrava in modo discreto da via dei Portoghesi nel saloni dell’ex convento di Sant’Agostino, sede dell’Avvocatura Generale dello Stato, per visitare in forma privata la mostra che si è inaugurata ieri e che resterà aperta fino al 15 marzo dedicata a Gregorio Gugliemi, pittore romano protagonista del Settecento italiano ed europeo. Si può pensare che la visita di Draghi fosse mossa anche per un coinvolgimento personale, visto che sua sorella Andreina ha realizzato il restauro di diverse tele del pittore, ma a voler essere maliziosi, in questa uscita pubblica si potrebbe leggere anche un segnale politico: Mario Draghi e Gianni Letta a brac-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
cetto, uniti non soltanto da interessi culturali, ma forse da una stessa visione politica che spingerebbe il sottosegretario alla presidenza del Consiglio a sentirsi molto più vicino al governatore di Bankitalia piuttosto che all’attuale ministro dell’economia, Giulio Tremonti. Che con Draghi ha avuto più di un
certa differenza di vedute tra Berlusconi e Tremonti sono sempre più frequenti. Quello che è certo, in tutto questo feuilleton politico, è la stima e il rispetto che da sempre Gianni Letta manifesta per Mario Draghi. Ad unire i due personaggi c’è un modus vivendi da gentiluomini d’altri tempi impronta-
Ancora un segnale di una maggiore sintonia del sottosegretario alla presidenza del Consiglio con il Governatore che non con il ministro Tremonti dissidio, ultimamente. Tutti ancora ricordano che era proprio quello di Mario Draghi, ex direttore del Tesoro ai tempi di Ciampi, il nome lanciato da Gianni Letta durante le trattative per la successione ad Antonio Fazio che aveva lasciato Palazzo Koch. Ed è cronaca di questi giorni, e probabilmente anche di quelli futuri, la voce che vorrebbe il ministro Giulio Tremonti navigare in acque non molto tranquille proprio nel suo stesso mare (Forza Italia, a cui si aggiungono le onde di An). E poi, i segnali di una
to alla sobrietà, alla discrezione, alla disciplina e alla serietà nel lavoro. Entrambi molto lenti e cauti nel prendere decisioni o fare dichiarazioni pubbliche, ma velocissimi poi nell’attuazione delle loro scelte. Gianna Letta, che ha dodici anni in più, forse rivede in Mario Draghi se stesso giovane, così serio, rispettoso e appassionato nel suo lavoro. E, certo, il governatore della Banca d’Italia non avrebbe potuto essere diverso, visti anche i suoi trascorsi scolastici. Soprattutto quelli della scuola secondaria che Draghi ha fre-
quentato all’Istituto Massimiliano Massimo: la scuola romana dei padri gesuiti erede del Collegio romano fondato da Sant’Ignazio di Loyla nel 1550. Al Massimo, il governatore di Bankitalia ha fatto il liceo sotto la supervisione di padre Franco Rozzi, storico preside del liceo classico, docente di storia e filosofia, per vent’anni assistente spirituale degli ex alunni.
Padre Rozzi ha formato un’imponente fetta della classe dirigente italiana: oltre a Mario Draghi (maturità 1965), hanno seguito le sue lezioni anche Luca di Montezemolo, Francesco Rutelli, il principe-imprenditore Domenico Bonaccorsi di Reburdone, l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e Luigi Abete. Tutti formati dal metodo Rozzi che consiste nel rispetto della persona”, dicono gli exalunni “senza alcun obbligo di baciamano”. Forse per questo Montezemolo (compagno di classe fino alla V ginnasio) ammette di avere con Draghi una “identità culturale di fondo”. La stessa che sembra unire Gianni Letta al Governatore.
«Ho fatto una cazzata», ha detto il presidente Usa. Da noi non succederebbe mai
Chiedere scusa come Obama? In Italia non si usa uesta storia di Barack Obama che chiede scusa perché «ho fatto una cazzata» mi sembra interessante e istruttiva. Non ho mai sentito nessun politico di casa nostra chiedere scusa. Nessuno. E non mi riferisco solo a presidenti, ministri e parlamentari, ma anche a sindaci, assessori, consiglieri. Che non abbiano mai fatto cazzate? Il catalogo è infinito e di ottima qualità: fisco, tangenti, abusi. Ma nessuno ha mai avvertito il bisogno di dire «scusate, ho fatto una cazzata». Niente. Perché?
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La scelta dell’ex senatore democratico Tom Daschle per la guida della Sanità americana si è rivelata infelice perché lo “zar” è incappato in un problema fiscale: ha pagato sì le tasse, ma in ritardo. Forse, per un altro presidente non sarebbe stato neanche un grande problema, ma per la nuova amministrazione Obama il problema c’era eccome, dato che Barack Obama ha insistito non poco sulla qualità morale del suo governo. Così ha pensato di fare l’unica cosa che poteva fare: davanti alle telecamere ha chiesto scusa agli americani: «Ho fatto una cazzata. In campagna elettorale ho promesso di cambiare Washington, in nome di una politica che parta dal basso. E non voglio ora mandare agli americani il messaggio
che esistano due standard, uno per i potenti e uno per la gente comune, che lavora ogni giorno e paga le tasse». Così, tutto molto semplice, lineare, ragionevole. Se fai un errore è giusto chiedere scusa. Se c’è una palese differenza tra le tue parole e le tue azioni, tra ciò che hai detto che farai e ciò che stai facendo puoi spiegare il perché, puoi dire che cosa è cambiato, puoi chiedere scusa. È quasi normale. In fondo, a chi deve rendere conto un capo di Stato oltre che a Dio e alla sua coscienza, se non hai suoi connazionali? Tuttavia, in Italia una cosa del genere non accade. Il motivo è abbastanza semplice: la differenza tra le parole e le azioni non è avvertita come una anomalia, bensì come la normalità. È una questione di fiducia e di credibilità, non un problema personale. La verità non è affare della politica ed è giusto che sia così, tuttavia neanche la politica può fare
sempre e comunque a meno della verità. Il rapporto di fiducia tra governo e governati, istituzioni e cittadini deve anzi poggiare su solide basi perché quello che noi tutti chiamiamo Stato o che chiamiamo istituzione altro non è che un rapporto di reciproco riconoscimento. L’autorità è tale perché è riconosciuta nella sua funzione e quindi è legittimata nel suo lavoro di governo e amministrazione. La forza di un’istituzione statale dipende da questo esercizio di riconoscimento grazie al quale la politica può anche dire il falso perché ne è legittimata da una - diciamo così - riserva aurea di verità che la sorregge e giustifica. Questa è la forza di una nazione. In Italia questa forza è una finzione.
La politica italiana non prevede la possibilità delle pubbliche scuse perché il suo grado di legittimazione è debole.
La tipica differenza italiana tra “paese legale” e “paese reale”, la differenza tra le “ragioni dei vincitori” e le “ragioni dei vinti”ci fanno facilmente capire come la nostra vita civile abbia un doppio fondo in cui la verità ufficiale - e già il concetto di verità ufficiale è bizzarro - è diversa da come andarono i fatti e da come vanno i fatti. Il politico italiano che parla agli italiani si può permettere di utilizzare alte e nobili parole perché sa che sta recitando e perché sa che chi lo ascolta finge di ascoltarlo perché queste sono le regole della messa in scena nazionale (come diceva bene Luigi Barzini jr. nel suo libro Gli italiani). I problemi veri arrivano quando la recita è presa sul serio. In quel caso il politico è spiazzato perché non si aspettava di essere preso in parola. Barack Obama sa di “esser preso in parola” - a volte anche troppo - e quindi ha avvertito il bisogno di chiedere scusa parlando alla nazione, ma in Italia la regola non vale. Anzi, qui da noi c’è l’uso della smentita: «Sono stato frainteso», «Non volevo dire ciò che ho detto», «Mi riferivo ad un altro caso». I fatti smentiscono quasi sempre le parole, ma in questo caso basta cambiare le parole e il gioco è fatto. In Italia vige la morale della “doppia verità”. Ecco perché qui mai nessuno chiederà pubblicamente scusa.
panorama
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Scorciatoie. Sul tavolo, una riforma dei regolamenti parlamentari con un limite di 60 giorni per approvare i disegni di legge
L’ultima tentazione di Veltrusconi di Errico Novi
ROMA. Chissà se nella sua furia da moralista apocalittico Antonio Di Pietro si accorge di arrecare, lui sì, un danno alla democrazia. La lettera con cui ieri il leader dell’Idv ha intimato a Giorgio Napolitano di rompere il silenzio per evitare una deriva nazi-peronista rischia in realtà di occultare un allarme forse meno inquietante ma più fondato: quello che riguarda la riforma dei regolamenti parlamentari. Da qualche giorno Pdl e Pd hanno aperto un confronto anche su questo importante capitolo della legislatura, destinato a pesare persino più del balbettante federalismo. Gaetano Quagliariello da una parte e il democratico Luigi Zanda dall’altra – vicepresidenti dei rispettivi gruppi al Senato – ragionano tra l’altro su una sorta di corsia preferenziale per i disegni di legge governativa: la loro approvazione dovrebbe avvenire entro un tempo massimo di 60 giorni, lo stesso previsto dalla Costituzione per convertire i decreti legge. A compensazione di una modifica così radicale si prevede un maggiore spa-
«È un modo per cambiare la Costituzione con legge ordinaria», protesta l’Idv. Il negoziatore Quagliariello a giorni incontrerà anche Lega e Udc zio per il cosiddetto “gruppo maggioritario dell’opposizione”, che sulla carta non deve per forza coincidere con la delegazione di partito più folta tra quelle estranee alla maggioranza, ma che nella sostanza rischia di ridurre a due sole voci il dibattito parlamentare.
È proprio l’Idv a segnalare questo pericolo, che Di Pietro ieri si è limitato a confondere in un profluvio di anatemi. «Non sappiamo se davvero c’è già un accordo tra Berlusconi e Veltroni», dice il capogruppo dipietrista al Senato Felice Belisario, «ma le proposte in cam-
po sembrano contraddire del tutto la centralità del Parlamento prevista dalla Costituzione: l’idea di imporre il termine dei 60 giorni per i ddl governativi è palesemente incostituzionale, ed è soprattutto un vero e proprio attacco alla democrazia perché svilisce il ruolo delle forze di opposizione». Il gruppo presieduto da Belisario ha presentato una proposta alternativa per modificare il regolamento di Palazzo Madama: «Puntiamo a velocizzare l’iter di tutti i ddl, non solo di quelli che provengono dall’esecutivo, attraverso un recupero di efficienza organizzativa e produttività: riteniamo per esempio che il numero delle commissioni permanenti debba diminuire, che si debba limitare l’uso meramente ostruzionistico degli emendamenti e aumentare i giorni lavorativi dei parlamentari».
Proposte sensate, avanzate forse con un difetto di valutazione: quando l’Idv si preoccupa per lo svilimento delle opposizioni, trascura di ricordare che le corsie preferenziali per
Europee. Il presidente della Camera convince Alemanno a scendere in campo per il partito
Fini vuole la “conta” nel Pdl di Francesco Capozza
ROMA. «Adesso facciamo vedere chi è che veramente ha i voti dal Po in giù!». Questo l’invito categorico a serrare le fila lanciato dal presidente della Camera - Gianfranco Fini - ai suoi, in vista delle elezioni Europee del prossimo giugno. In una riunione ristrettissima svoltasi mercoledì mattina nello studio presidenziale al primo piano di palazzo Montecitorio, Fini si sarebbe rallegrato dell’esito del voto bipartisan della sera prima che aveva introdotto lo sbarramento al 4% e mantenuto le preferenze per volare a Strasburgo. Per una volta, tuttavia, il motivo del gaudio non c’entra nulla con il suo ruolo istituzionale, anzi, in quest’occasione Fini avrebbe momentaneamente infilato sopra il completo grigio di rappresentanza la maglia del giocatore e leader di partito.
li di Forza Italia e far vedere all’amico Silvio che nelle regioni centrali siamo noi a tirare avanti il partito». Il ragionamento fatto dal presidente della Camera, in effetti, non è campato in aria. Con le liste bloccate fortissimamente volute da Berlusconi, infatti, viene azzerata, o quasi, la possibilità di conteggiare quante preferenze sono andate a Forza Italia e quante invece ad Alleanza Nazionale. Di fatto, la lista bloccata è targata Pdl e l’elettore non nota più di
Una prima mossa strategica e, bisogna dargliene atto, intelligente, è stata quella di progettare un vero e proprio “panzer” elettorale per le prossime Europee in programma tra quattro mesi. Raccontano che Fini, poco prima di ricevere i suoi, abbia fatto una telefonata significativa. Numero digitato: quello di Gianni Alemanno, primo cittadino della capitale e alfiere della rivincita destrorsa a Roma. Al termine della telefonata il presidente della Camera avrebbe annunciato erga omnes la sua strategia: suonarle di santa ragione, almeno nella circoscrizione elettorale centrale, a Forza Italia. E per riuscirci ha già pronta la formazione: tutti i ministri candidati ed un triumvirato d’eccezione a guidare la macchina elettorale formato da Gianni Alemanno, Fabio Rampelli e Andrea Augello. Un terzetto che consentirebbe a Fini di tornare ad aspirare a quel tanto agognato “soglio” su cui oggi siede beato Silvio IV.
Il mantenimento delle preferenze ha reso strategiche le elezioni Europee: il sindaco di Roma, Augello e Rampelli guideranno la campagna di An
Secondo l’inquilino del piano nobile di Montecitorio, infatti, la riforma approvata a stragrande maggioranza dall’aula da lui stesso presieduta segnerebbe un dato politico di non poco rilievo: la sconfitta su tutta la linea del progetto berlusconiano di portare in Europa il porcellum. «Stando così le cose - avrebbe detto Fini ai suoi colonnelli e tenenti maggiori - possiamo evitare che i voti di An siano confusi con quel-
tanto se questo o quel candidato provengono da via della Scrofa o dal retrobottega di Arcore. Con il mantenimento delle preferenze, invece, l’elettore esprime il suo voto segnando con una bella croce il nome del candidato cui vuole regalare un bel biglietto in business class per Bruxelles.Va da sé, dunque, che con le preferenze il bilancino è molto più semplice da usare e la “conta”è estremamente più agevole. Fini non deve aver preso sonno nella notte tra martedì e mercoledì e deve aver ragionato su come non farsi sfuggire di mano la leadership del partito in un futuro più o meno lontano.
il governo ridicolizzano anche il peso dei parlamentari di maggioranza. Se un ddl condiviso, nell’insieme, dai partiti vicini all’Esecutivo deve per forza passare entro due mesi, pena la sua decadenza, quale deputato o senatore di maggioranza potrà permettersi il lusso di proporre emendamenti, magari sensati, senza passare per un sabotatore? Di certo ha qualche ragione, Belisario, quando sostiene che «in questo modo il Pdl vuole imporre una modifica costituzionale surretizia». La modifica dei regolamenti può agire infatti di più (con un meccanismo di sottrazione a danno delle Camere) persino rispetto a un rafforzamento dei poteri del premier. Quagliariello ha avuto il buonsenso di fissare appuntamenti per la prossima settimana anche con i capigruppo di Lega, Udc e dalla stessa Idv. Alcune proposte difficilmente potranno essere digerite. A meno che il governo non imponga uno strappo forse più traumatico rispetto a quelli evocati ieri da Di Pietro nella lettera a Napolitano.
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Protezionismo
Il mondo ci cadrà ancora? Barack Obama ripete che «non vuole scatenere una guerra commerciale», ma è toccato ieri al Senato intervenire per ammorbidire la contestata clausola “buy american”. Se passerà il più generale piano di aiuti da 837 miliardi, la regola che impone l’autarchia sull’acquisto dell’acciaio nelle commesse pubbliche, verrà «attuata rispettando gli accordi internazionali sul commercio» internazionali esistenti. E riconosciuti dagli Stati Uniti. Prima delle presidenziali del 4 novembre il mondo dava per scontato un accordo commerciale tra la nuova America di Obama e la Cina. E dava per scontato la fine di un unilateralismo, che sul versante economico aveva visto il suo massimo nella progressiva svalutazione del dollaro e nel tentativo di scaricare all’estero il gap di domanda interna degli Usa. Da allora ci sono stati il crollo dei consumi americani (Oltreoceano ormai è di moda il risparmi) e il tentativo di Obama, nell’American Recovery and Investment
Act, di salvaguardare l’acciaio di casa. Non c’è spazio per la concorrenza. Per creare rapporti commerciali più fruttuosi e paritari verso le economie emergenti. Dietro le intollerabili lezioni di liberismo fatte a Davos da Vladimir Putin e Wen Jibao, c’è soltanto il timore che l’America si chiuda. C’è la consapevolezza che il dibattito sullo spettro del protezionismo – iniziato dopo le prime richieste di dazi verso la Cina e i primi salvataggi bancari – ha preso sostanza nelle prime mosse di Obama. Il nuovo presidente non può riprendere le file del Doha Round e riscrivere le regole del commercio internazionale (e i rapporti di forza) con gli emergenti, perché non può permettersi concessioni. Ma così si sancisce una stasi che blocca il lancio di un’automobile, la fusione tra due corporation come i trasferimenti tra gli istituti bancari. Una stasi che colpisce le economie più mature come la nostra.
«Ma io finora il libero merca colloquio con Ettore Gotti Tedeschi di Francesco Pacifico
ROMA. La premessa da sola basta a rimodulare tutto il dibattito sul fallimento del libero mercato e sul revanchismo protezionista portato dalla crisi congiunturale. «Io il liberalismo non l’ho mai visto attuare». In questa fase Ettore Gotti Tedeschi, banchiere e docente di etica della finanza all’università Cattolica di Milano, «liberista e non liberale», non ha di che di disperarsi. E infatti preferisce spostare lo sguardo dalle grandi economie a quelle emergenti, «sulle quali si vuole scaricare la crisi. Perché di libero mercato si è sempre parlato molto, ma si è fatto veramente poco. Persino negli Stati uniti, in fin dei conti uno
Stato statalista più di quello che si possa pensare». Rispetto alla campagna elettorale, Obama si sta scoprendo protezionista? A parole sì, anche se non abbiamo visto niente di concreto da parte della nuova amministrazione. Il problema è proprio questo: eccetto la proposta di stanziare 837 milioni di dollari, di indirizzi veri ancora non c’è traccia. C’è stato però il pacchetto di aiuti all’auto. Vero, ma non è stata lanciata una politica che dice comprate macchine americane e chiudiamo le frontiere. Si è detto soltanto: aiutiamo l’aiuto. Il problema è che non sì è ancora capito a chi darli e come. Prima delle elezioni si dava per scontato un’intesa tra gli Usa di Obama e la Cina. Non so cosa sia successo. Ma se quest’accordo non è più fattibile, non escluderei l’intervento di alcune lobbies. Forse l’intesa prevedeva scambi che penalizzavano determinati fronti. E mi pare evidente che qualcuno abbia prote-
stato. Ma ripeto, la mia è mia deduzione. A Davos, Brown ha chiesto di riprendere le discussioni sul Doha Round. Ho il dubbio che d’ora in poi il commercio internazionale sarà scandito da intese bilaterali, più che da un accordo in seno al Wto. E la cosa può soltanto dare la stura a nuovi protezionismi. Ma l’organizzazione
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chiudano per risanarsi. E sarebbero guai per il mondo, non soltanto per l’Europa. Ma si illudono gli americani se pensano di rifarsi alle politiche di Roosevelt. Di risolvere la situazione con forme di dirigismo economico, svalutando il dollaro e imponendo i livelli produttivi per evitare licenziamenti e disinvestimenti. Perché Roosevelt fallì.
La crisi mette in discussione la governance di un sistema di istituzioni finanziarie che altro non sono se non l’espressione di pericolose lobby, le vere responsabili della congiuntura mondiale del commercio ha mai funzionato? È facile immaginare quello che pensa. La congiuntura metterà in discussione tutta la governance di queste strutture, che non hanno mai saputo dare risposte. Iniziando dagli Stati Uniti, dove albergano questi organismi internazionali, che, essendo centri di potere, lobbies, hanno creato la crisi. C’è il timore che gli Usa guardino soltanto alla domanda interna, che si
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Un parallelo pericoloso. L’allora presidente poteva provarci, perché l’economia globale era scandita dai rapporti tra Stati Uniti e Europa. E infatti i guai peggiori si riversarono sul Vecchio Continente. Ma a risolvere la situazione non fu Roosevelt, quanto – e purtroppo – la guerra, con i suoi investimenti bellici e i suoi piani d’indebitamento. Se proprio dobbiamo guardare al passato, partiamo dall’indebitamento. Qual è la sua proposta? Quella che ripeto da mesi e che
ho lanciato dall’Osservatore romano: anziché affidarsi al protezionismo, sarebbe più utile realizzare un grande piano Marshall contro la povertà. Sintetizzando, un piano per la ricostruzione? Per uscire dalla crisi si deve coinvolgere nel processo di domanda e di sostegno alla capacità produttiva quel miliardo e mezzo di persone che è stato escluso dalla globalizzazione. La strada potrebbe essere lanciare un prestito obbligazionario da fare sottoscrivere a quei Paesi come la Cina che hanno sia la liquidità sia un alto livello produttivo. Prima, però, il mondo si aspetta una depurazione da tutti i titoli tossici ancora in circolazione. Ma soltanto così si creerebbe quella good bank necessaria per dare copertura alla bad bank. Questa garantirà anche di congelare le situazioni più scabrose, ma soltanto un prestito obbligazionario può essere quello strumento per portare verso il benessere tutti quei Paesi, che ne sono stati esclusi. Invece ognuno guarda al proprio cortile. Il protezionismo non avrebbe effetti drammatici soltanto per l’Europa: metterebbe a rischio
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Gli effetti mondiali dell’illusione nazionalista A sinistra, Lunch a top a Skyscraper, la famosa fotografia scattata nel 1932 da Charles C. Ebbets durante la costruzione dell’Edificio GE del Rockefeller Center. In basso, nella pagina a fianco, Ettore Gotti Tedeschi
ato non l’ho visto» lo sviluppo dei Paesi asiatici, che sono ancora immaturi nel gestire il mercato. Invece di sfruttare le potenzialità monetarie e produttive degli “emergenti”, si vuole scaricare su di loro la crisi. Risultato? Se il Pil crescerà nel 2009 dello 0,5 per cento nonostante l’arretramento di Usa e della Ue, è perché continuano a muoversi le economie della Cina, dell’India, dell’America Latina o dell’Europa dell’Est in termini di
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co con le loro maestranze. Mi ha abbastanza meravigliato vedere che quest’impresa non abbia assunto nessuno sul posto. Quindi, la vicenda non è un paradigma del Regno Unito stritolato dalla crisi? Siccome nelle aste vince il migliore, dico soltanto che guarderei prima a un altro aspetto: il costo del lavoro. E gli stipendi italiani costano meno rispetto a quelli inglesi. La sua soluzione? Se il problema è assumere ma-
Gli Stati Uniti sbagliano se pensano di chiudere le loro frontiere. E i grandi non pensino di scaricare i problemi sulle economie emergenti. Serve invece un grande piano Marshall contro la povertà
produzione come di domanda. Ci conviene? Intanto nella mercatista Gran Bretagna i sindacati chiedono di cacciare i lavoratori italiani… Non ho riflettuto abbastanza sulla vicenda della commessa alla Irm da parte della Total per dare un giudizio. Non so però a livello europeo quante siano le compagnie che vincono aste all’estero e si trasferiscono in lo-
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no d’opera locale, allora si può garantire che una parte sia presa nel posto dove si è vinta la commessa. Mentre nel mondo aumenta il virus protezionista, l’Italia non sembra da meno e rilancia le rottamazioni per salvare ancora una volta la Fiat. Preferisco essere un po’ caustico: il difficile non è non darglieli i soldi, ma toglierli.
Marchionne respingerebbe quest’assunto. Fino al 2000 la Fiat ha vissuto in un mercato protetto. L’industria dell’auto era quella che trainava il Paese. Diceva Enrico Cuccia che «era privata quando guadagnava e pubblica quando perdeva». Ci sono decenni di connivenza tra lo Stato e Torino. Le sembra una giustificazione adeguata per sovvenzionare per l’ennesima volta il Lingotto? Certamente no. Resta il fatto che l’automotive è ancora un settore determinante per la crescita economica italiana. Prioritario, quindi, è decidere con che cosa lo si sostituisce. Resta il fatto che oggi in Italia c’è massimo consenso sulle rottamazioni e non sulle privatizzazioni. Permettetemi di affidarmi all’ironia: ma che cosa mai è stato privatizzato in Italia. Il governo dice l’Alitalia Personalmente, non l’ho ancora vista privatizzata… Ci sarebbero anche le liberalizzazioni. Ma è ormai è troppo tardi. Mi si dica quale impresa dei servizi è pronta alla concorrenza. Eppoi chi se le prende? Poche storie, stiamo parlando dell’Italia.
Buy American? Allora nessuno ci comprerà più di Douglas A. Irwin l commercio mondiale è al collasso. Il disavanzo commerciale degli Usa è diminuito da quando si è registrata una caduta verticale delle importazioni dal resto del mondo in risposta alla crisi finanziaria ed alla recessione mondiale. Le importazioni degli Stati Uniti da Cina, Giappone e dagli altri Paesi sono diminuite con tassi a due cifre. L’ultima cosa di cui ha bisogno oggi l’economia mondiale è che i governi assestino un ulteriore colpo al commercio. E invece pare proprio che ciò stia già accadendo. La lobby dell’industria siderurgica sembra aver persuaso la Camera dei Rappresentanti Usa a inserire nel piano volto a stimolare l’economia, approvato la scorsa settimana, una clausola “Buy American” per incentivare l’utilizzo della produzione nazionale. Questa disposizione esige che vengano privilegiate le imprese siderurgiche nazionali nei contratti del settore edilizio ed in altri capitoli di spesa. Nonché che le uniformi, le divise e gli altri accessori utilizzati dalla Transportation Security Administration siano prodotti negli Stati Uniti ed il Senato potrebbe ampliare la portata di queste disposizioni al fine di ricomprendervi molti altri prodotti. Sembrerebbe ragionevole, ma la storia ha dimostrato che le clausole del tipo “Buy American” possono portare ad un aumento dei costi e ad una diminuzione degli effetti che un pacchetto di misure di spesa dovrebbe avere.
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Nel ricostruire il San Francisco-Oakland Bay Bridge negli anni Novanta del secolo scorso, l’autorità competente - la California Transit Authority si conformò alla norma che obbligava all’utilizzo di acciaio nazionale a meno che il suo costo non fosse di almeno il 25% più elevato rispetto a quello importato. In quello specifico caso, l’offerta nazionale fu di un 23% più elevata rispetto a quella estera e pertanto si fu costretti ad utilizza-
re l’acciaio americano. Considerata la gran quantità d’acciaio utilizzata in quel progetto, i contribuenti californiani pagarono la colossale cifra di 400 milioni di dollari in più per quel ponte. Se da un lato questa cifra si rivela essere una vera e propria manna per la fortunata industria siderurgica, dall’altro lato bisogna considerare che la produzione d’acciaio è ad alta intensità di capitale ed è pertanto evidente che si hanno a disposizione meno fondi da utilizzare in altri progetti edilizi che possono impiegare più lavoratori.
I produttori Usa hanno ampia capacità di soddisfare gli ordinativi che si materializzeranno a seguito del piano di stimolo fiscale. Inoltre, gli altri Paesi stanno all’erta per valutare appieno se, in generale, la crisi possa diventare per gli Stati Uniti un pretesto che consenta di bloccare le importazioni e favorire le imprese nazionali. La General Electric e la Caterpillar si sono opposte alla clausola “Buy American” perché temono che possa intaccare la loro capacità di aggiudicarsi contratti ed appalti all’estero. E hanno ragione. Una volta superata l’attuale fase di caos e crisi, è probabile che la Cina, l’India e gli altri Paesi continuino ad investire massicciamente nei progetti edilizi. Nel caso in cui anche questi Paesi adottino clausole volte a privilegiare i produttori nazionali, l’America si troverà a registrare uno svantaggio competitivo nell’aggiudicarsi quei contratti e quegli appalti. Bisogna sempre tenere a mente la regola aurea, altrimenti si potrebbero verificare gravi conseguenze. Da sempre, quando si è cercato di limitare le importazioni, l’effetto combinato che ne è risultato è stato una maggiore crisi economica in tutto il mondo. Ci sono voluti decenni per sbarazzarci di tutte le restrizioni al commercio accumulate in quel periodo. Cerchiamo di non ripetere oggi lo stesso errore.
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Alla base c’è lo scontro fra economie giovani e vecchie
La malattia senile del capitalismo di Enrico Cisnetto rotezionismo? Malattia senile del capitalismo. Credevamo di averle viste veramente tutte in questi mesi da cardiopalma: dalla scomparsa di Lehman, alla nazionalizzazione delle banche e delle auto Usa, a una Casa Bianca che ormai parla con accenti comunisti contro top manager e finanzieri. Mancavano solo le tentazioni autarchiche: et voilà.
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Il caso più eclatante arriva proprio dagli Usa con il piano Obama, che non passerà tanto alla storia per le sue dimensioni (che comunque crescono ogni giorno) quanto per aver riportato ufficialmente in auge accenti nazionalistici ottocenteschi che credevamo dimenticati per sempre, con la ormai celebre clausola “buy american”. Una clausola che prevede non solo che per le colossali opere pubbliche dovrà essere utilizzato solo acciaio prodotto in America, ma anche, per esempio, che tutte le uniformi degli enti pubblici dovranno essere prodotte sul territorio nazionale. Ed ha già scatenato la protesta dell’Unione europea e dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto), le quali hanno già ottenuto una prima vittoria. Ieri, infatti, Obama ha fatto marcia indietro, facendo votare un emendamento che la renderà inapplicabile se in contrasto con gli obblighi internazionali degli Usa. Tradotto, significa che non potrà contrastare né con gli accordi bilaterali con gli altri Paesi (in primo luogo la Cina) né tantomeno con i patti multilaterali su cui veglia la stessa Wto. Un dietrofront che segnala un ulteriore passo falso della nuova Amministrazione. Dopo il mancato raggiungimento di
un’intesa bipartisan sullo stesso piano di “stimulus”, dopo il clamoroso autogol sulla nomina (poi ritirata) del ministro della Sanità Daschle inguaiato in una vicenda di frode fiscale, dopo le sparate del Segretario al Commercio Geithner sulla Cina, adesso arriva un altro svarione, in soli quindici giorni.
Ma a parte i seri problemi politici di una presidenza su cui forse si sono proiettate troppe aspettative, la vicenda del “buy american” ha generato un paradosso che la dice lunga sullo “stato di salute” della globalizzazione, e cioè la reazione dei gruppi siderurgici americani. I quali, invece che festeggiare, come ci si sarebbe aspettato, sono in prima fila a fare lobbying per abolire questa legge. Infatti, dopo aver ampiamente delocalizzato la
a parlare un linguaggio “liberal”, mentre i top manager e gli statisti occidentali mancava poco, quest’anno, che si presentassero in eskimo e col libretto rosso di Mao sottobraccio.
Da qui si può tentare una riflessione più ampia: a chiedere il protezionismo, oggi, sono i paesi maturi. Sono quelli che nel Novecento hanno più guadagnato dalla globalizzazione. I “giovani”, invece, i cosiddetti Bric – cioè Brasile, Russia, India e Cina – non si sognano nemmeno di mettere in atto misure del genere (se si esclude qualche scaramuccia tra Cina e India sui giocattoli tossici). E, non a caso, sono i paesi che crescono di più: basta pensare che nel 2007 questo gruppo, che rappresenta solo l’11,5% del pil mondiale, ha raggiunto un ritmo di crescita
Sono le economie che arrancano, quelle oggi più impegnate nella messa in atto di misure autarchiche. Non c’è solo il “buy american”: la voglia di protezionismo circola per tutto l’Occidente produzione e dopo aver differenziato negli anni le fonti di approvvigionamento importando ormai il 90% di minerali ferrosi dall’estero per abbattere i costi e difendersi dalle fluttuazioni valutarie, oggi, se fosse applicata la norma nazionalista, rischierebbero semplicemente di chiudere bottega. Altro paradosso interessante è quello di una Cina che, con il “comunismo al potere”, almeno formalmente, è rimasta l’unica paladina del libero mercato. Lo si è visto a Davos, con il premier Wen Jabao che nel tempio del capitalismo mondiale è stato l’unico
del 22% (con l’Asia in particolare che rappresenta il 19,1% di pil globale ma cresce del 24,7%). Al contrario. i paesi “maturi” (Usa, Giappone, Germania, Francia, Spagna, Uk, Italia, Canada e Paesi Bassi) hanno rappresentato il 62% del pil mondiale ma hanno contribuito solo per il 38% alla crescita della ricchezza. Sono le economie che
New York, 1929: è allarme nelle strade fra i protagonisti del mercato finanziario, mentre si leggono con apprensione le notizie sulla grande crisi arrancano, quelle oggi più impegnate nella messa in atto di misure autarchiche. Non c’è solo il “buy american”: la voglia di protezionismo circola indisturbata per tutto l’Occidente. Dagli scioperi in Gran Bretagna contro i lavoratori stranieri (nella patria del libero mercato) alla Francia schierata più che mai a difesa dei propri campioni nazionali, alla stessa Italia in cui ancora si sta celebrando il mito delle banche nostrane che ci hanno salvato perché “non parlano in-
glese”. L’Occidente, insomma, tenta di difendersi dalla crisi cercando di rimuovere il fatto che la globalizzazione, e il commercio internazionale, sono alla base della sua prosperità. Ci si scorda, in particolare, che
si è parte di organismi come la Wto e la stessa Unione Europea, che hanno nella libera circolazione dei capitali e delle merci la loro pietra angolare. Ma, soprattutto, ci si illude di poter abolire la globalizzazione. Senza pensare che la dimensione internazionale dei mercati è ormai una condizione data del sistema economico e che l’opzione nazionale non è semplicemente più praticabile. Il problema vero, se si mettessero da parte per una volta il populismo e la paura del futuro, sarebbe semmai quello di arrivare a gestirla con strumenti nuovi, con un’architettura globale fatta di regole e strumenti più moderni ed efficaci.
Per il momento, comunque, a farla da padrone è la paura del futuro. L’Occidente è schierato a difesa delle sue rendite di posizione, contro le invasioni barbariche in arrivo dall’esterno. Contro i giovani che scalpitano ai suoi confini è diventato, ormai, il “pensionato globale”. (www.enricocisnetto.it)
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L’anticamera della guerra di Carlo Lottieri e tensioni scatenatesi nel Regno Unito a seguito del fatto che un‘azienda siciliana, la Irem, ha ottenuto dalla Total un’importante commessa nel Lincolnshire potrebbero segnare un momento di svolta importante, il cui significato valica di gran lunga l’episodio in questione. Quello che di nuovo oggi aleggia sull’Europa è il fantasma del protezionismo, dato che da più parti si vorrebbe rispondere alla crisi riducendo l’integrazione economica tra Paesi diversi e
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conquistare in modo demagogico le folle, ma che al tempo stesso può essere foriera di problemi gravissimi per un Paese che voglia crescere. Chi abbia anche solo qualche rudimento di teoria economica sa bene che, ancor prima e più del lavoro in senso stretto, è lo scambio che permette ad una società di svilupparsi. Questo perché solo grazie al mercato è possibile la divisione del lavoro e quindi la specializzazione, e anche perché in ogni transazione si assiste ad un aumento del benesse-
Gli storici più avvertiti non si stancano di rilevare come i periodi durante i quali le società abbracciano il nazionalismo economico sono spesso periodi che conducono a conflitti sanguinosi alzando barriere protettive. I lavoratori britannici, così come quelli di molti altri realtà, paiono sempre più persuasi dall’idea che ogni volta che si delocalizza, si importa o si affidano incarichi ad aziende straniere, si sta facendo il male della propria economia.
Sullo sfondo c’è un’idea tanto semplice quanto sciocca: che è sicuramente efficace se si vuole
re. Quanti comprano e quanti vendono accettano quel negozio perché ritengono di trarne un beneficio. Quando una barriera o un dazio impediscono o anche solo ostacolano tali contratti, si finisce allora per inaridire una sorgente formidabile della civiltà. Anche sul piano logico, il protezionismo è indifendibile, perché se fosse adottato con rigore da quanti lo propongono dovrebbe spingerci verso
l’autarchia più rigorosa: e a livelli territoriali perfino molto ristretti. Se chiudere le frontiere fosse un affare, perché mai tale politica dovrebbe essere limitata al livello nazionale? Se l’Italia ritiene che sia suo interesse “salvare”i propri posti di lavoro di fronte alla concorrenza straniera, perché mai i lombardi dovrebbero accettare la concorrenza veneta? Le imprese venete che producono macchine utensili o vestiti che vendono a Milano, non tolgono forse occupazione – negli schemi del nazionalismo economico – ai lavoratori lombardi? E stessa cosa si potrebbe ripetere per i lavoratori milanesi dinanzi a quelli comaschi, e via dicendo.
Con ogni probabilità, la mancanza di rigore intellettuale e l’esistenza di vincoli giuridici a livello europeo riusciranno ad evitare – almeno in parte – una deriva tanto delirante, che pure i fautori del protezionismo dovrebbero proporre se fosse coerenti con la loro ispirazione. Ma certo non sarà facile contenere l’ondata di sciovinismo economico che sta prendendo pure la forma degli “aiuti di Stato”. Sul piano strettamente analitico, infatti, un finanziamento pubbli-
co alla Fiat o una barriera all’ingresso di autovetture straniere sono iniziative molto simili: l’azienda nazionale ci guadagna, quella non italiana fa fatica a competere e tutto ciò viene fatto scaricando gli oneri (tasse o prezzo maggiorato) sul cittadino qualunque, consumatore e contribuente. D’altra parte, la nuova moda anti-liberale oggi ha il proprio epicentro negli Stati Uniti. È il nuovo osannatissimo presidente Barack Obama, in effetti, che ha rilanciato a livello economico-politico la logica del “noi” contro quella del “loro”. Una delle chiavi del successo politico di questo uomo politico è da rinvenire nel suo impegno a proteggere il lavoro degli americani, che a giudizio del nuovo inquilino della Casa Bianca hanno subìto troppo a lungo la concorrenza sleale degli asiatici e il dumping sociale dei Paesi in via di sviluppo. E non a caso oggi gli Stati Uniti vanno predisponendo un gigantesco piano di aiuti a Denver, con l’obiettivo di sostenere i colossi dell’auto. I lavoratori britannici sono stati accusati di essere razzisti, mentre nessuno ha mosso questa accusa ad Obama, ma sul piano economico è difficile non co-
gliere le notevoli somiglianze tra l’iniziativa delle trade union britanniche e l’assistenzialismo progettato dalla nuova amministrazione americana.
Ma c’è perfino di peggio. Gli storici più avvertiti non si stancano di rilevare come i periodi durante i quali le società abbracciano il nazionalismo economico sono spesso periodi che conducono a guerre sanguinose. La ragione fondamentale è che mentre è molto difficile che due Paesi ampiamente integrati arrivino a dar vita a un conflitto, ogni volta che un certo isolamento finisce per prevalere non bisogna poi stupirsi se le logiche della guerra alla fine prevalgono su quelle del dialogo. Già a metà Ottocento un grande economista liberale, Frédéric Bastiat, sottolineò come se una frontiera non costantemente attraversata dalle merci, prima o poi sarà attraversata dagli eserciti. Per di più, un generalizzato trionfo del protezionismo e dell’Obanomics assesterebbe un colpo molto duro ai redditi di tanta parte del pianeta. E anche questo non aiuterebbe certo a preservare la pace e la possibilità di rapporti fecondi tra le diverse società.
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Una manifestazione a favore del pacchetto clima che si è svolta nei giorni scorsi a Bruxelles. L’Europa sta cercando un accordo per trovare una risposta sulla questione ambientale compatibile con il piano proposto da Obama. Sotto, l’eurodeputato della Cdu Karl-Heinz Florenz, relatore del rapporto approvato dal Parlamento
Europa. Il partito della Merkel si spacca sul pacchetto ambientale: la crisi ha la precedenza su tutto
Clima, Cdu all’attacco di Sergio Cantone
BRUXELLES. La crisi economica non frena la lunga marcia dei combattenti anti-cambio climatico. Ma la delegazione tedesca al parlamento europeo mostra più divisioni che certezze. Sono proprio gli eurodeputati popolari Cdu di Angela Merkel infatti a spaccarsi a metà su un voto soltanto all’apparenza irrilevante. Si tratta del rapporto della Commissione temporanea sul cambio climatico. Pur non essendo vincolante, è un documento con una grande importanza politica. Prima di tutto perchè getta le basi per ulteriori misure sul cambio climatico per la prossima legislatura dell’eurocamera e per la nuova Commissione europea, tra il 2009 e il 2014. E in secondo luogo perchè è una specie di test di popolarità per la questione clima. Il risultato a favore del rapporto è schiacciante, 570 voti a favore, 78 contrari e 24 astenuti. Ma, analizzando i no, si scopre che ben ventuno vengono da eurodeputati tedeschi, di cui venti sono della Cdu. Mentre tra i 24 astenuti spiccano sei membri della Cdu. Considerando che i deputati popolari tedeschi sono in tutto quarantanove il calcolo è presto fatto: più della metà del grande Partito moderato della Cancelliera crede che il clima non sia più una priorità. Il risultato è ancora più grave se si pensa che il relatore del rapporto era uno dei loro, Karl-Heinz Florenz. Un funzionario del Partito popolare europea dice: «La crisi economica e l’inverno rigido fanno pensare a molti, soprattutto in Germania che il cambio climatico possa attendere». E lo si sapeva già da tempo che la Germania è divisa sui costi della lotta contro il cambio climatico. L’economia tedesca è essenzialmente manifatturiera e ad alto consumo energetico, esattamente come quella italiana e polacca. La Merkel riuscì a imporre il suo punto di vista sul pacchetto energia clima al Consiglio europeo dello scorso dicembre. Non poteva pugnalare Sarkozy proprio alla fine della presidenza francese e non poteva voltare le spalle ai suoi alleati socialdemocratici nella grande coalizione. Molti colonnelli della Merkel tacquero per disciplina di partito, ma ora che le elezioni si avvici-
tempi di crisi finanziaria preferirebbero avere più soldi da promettere a un elettorato spaventato, piuttosto che spenderli in investimenti futuri alla cui fondatezza non tutti credono. Gli italiani hanno votato in grande maggioranza a favore.
Un assistente parlamentare italiano dice: «Si tratta semplicemente di un rapporto non vincolante, e le decisioni importanti sono state adottate con il pacchetto energia e clima di dicembre, quello del 20/20/20. Chi ha votato contro sapeva che se anche l’avesse spuntata non avrebbe cambiato le cose più di tanto». Insomma, il rapporto non è rilevante sul piano pratico ma ha un grosso significato politico perchè getta le basi per i futuri impegni dell’Ue. È un documento, aggiunge l’italiano, «che diventa importante quando sottolinea ad esempio che i trasporti fluviali sono sei volte meno inquinanti di quelli su strada e la metà di quelli ferroviari. Quello mandato da metà della delegazione Cdu è un importante messaggio politico in vista delle elezioni europee». E (aggiungiamo noi) di quelle federali dell’ottobre 2009. Per l’eurodeputato dei Ds Guido Sacconi, presidente della Commissione temporanea sul cambio climatico, «il rapporto fornisce all’Ue una strategia complementare a quella Usa lanciata da Obama». La ragione è essenzialmente economica ed è una di quelle che fanno arrabbiare gli eurodeputati Cdu, vale a dire: il rapporto delinea chiaramente un progetto per l’esportazione di tecnologia verde europea ai Paesi terzi, come la Cina e gli Usa. Un esempio concreto è l’accordo Fiat/Chrisler. Ma c’è dell’altro: il fatto che la maggioranza della delegazione popolare tedesca abbia ostentato disinteresse nei confronti del cambio climatico è uno schiaffo anche ai tentativi dell’attuale presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, di ottenere un secondo mandato. Il portoghese ha infatti puntato tutto il suo successo europeo sulla lotta contro il cambio climatico, e se il vento dovesse cambiare il suo destino politico potrebbe non essere dei più rosei.
Il voto contrario dei tedeschi, pur espresso su una norma irrilevante, è un importante segnale politico in vista delle elezioni in Germania. E uno schiaffo a Barroso, che cerca un secondo mandato nano gli eurodeputati fanno la conta dei voti e scoprono una maggioranza silenziosa spaventata dalla crisi economica. Non tutti sono pronti a sostenere i costi della rivoluziuone verde. «Non mi spiego questa decisione - dice affranta un’assistente di Karl-Heinz Florenz - nella riunione del gruppo di ieri sera avevano tutti detto che avrebbero votato a favore e oggi hanno fatto un voltafaccia».
Ma cosa c’è nel rapporto che non piace ai congiurati? Ad esempio, si dice che la lotta contro il cambio climatico dovrà essere la priorità numero uno per le spese dell’Unione europea nel prossimo quinquennio finanziario. Altro aspetto che non raccoglie molti consensi è la creazione di un fondo europeo per il clima. I cristiano democratici tedeschi, fin dai tempi di Helmut Khöl, lottano per contenere il contributo finaziario tedesco al budget comunitario. Pensano che Berlino (contribuente netto numero uno) spenda troppo per l’Ue e in
in breve Merkel-Sarkozy, ecco la nostra proposta anticrisi Nel mondo d’oggi, segnato dalle sfide nuove di crisi economiche internazionali e guerre, nessun Paese può più farcela da solo ad affrontare e risolvere i problemi del mondo. Quindi le alleanze e le grandi intese diverranno sempre più importanti: bisogna ripensare adeguandoli al mondo globale sia la Nato, sia il rapporto Usa-Europa in generale, sia il rapporto con la Russia e l’Iran (ma il nucleare non verrà tollerato). È quanto scrivono la cancelliera federale, Angela Merkel, e il presidente francese, Nicolas Sarkozy, in un inusuale appello comune. Lanciato con un articolo a doppia firma apparso ieri sia sull’autorevole quotidiano liberal tedesco Sueddeutsche Zeitung che su Le Monde. In cui rispondono alla crisi tentando di rilanciare in modo significativo la leadership e l’intesa francotedesche in Europa per rafforzarne il suo ruolo nel mondo.
Russia, ucciso ex vicesindaco Grozny Era già sfuggito ai sicari e per questo aveva deciso di lasciare Grozny, di cui era stato vicesindaco, per rifugiarsi a Mosca. Ma i killer lo hanno stanato anche lì, nella periferia della capitale, dove Gilani Shepiyev è stato ucciso a colpi di arma da fuoco all’una di notte di mercoledì mentre tornava a casa. Shepiyev è il terzo esponente di spicco della diaspora cecena a essere ucciso da settembre, dopo Ruslan Yamadayev, ex parlamentare strenuo oppositore del presidente ceceno Ramzan Kadyrov, e una ex guardia del corpo dello stesso Kadyrov che aveva accusato l’uomo forte di Grozny di torture.
Svezia, sì al nucleare Il governo della Svezia, che aveva adottato una moratoria sull’energia nucleare, spegnendo gradualmente di qui a 30 anni tutte le sue centrali, ha deciso di rivedere la sua decisione, «autorizzando che i reattori esistenti siano rimpiazzati quando avranno raggiunto il loro limite di sfruttamento economico». Il Paese ricava metà della propria energia dal nucleare.
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Crisi. Il presidente rassicura in diretta radio e tv i francesi. E sceglie un pool di fidatissimi PARIGI. Era impossibile evitare la lezione di economia del professor Nicolas Sarkozy, ieri sera, andata in onda a reti televisive unificate (una pubblica, France 2 e due private, Tf1 e M6), e perfino alla radio (Rtl). Attorniato dai suoi giornalisti preferiti, o per meglio dire i meno irriverenti, il Presidente della Repubblica è stato l’artefice di una nuova mediatizzazione del fenomeno “crisi”, che da ormai 25 anni ritorna prepotentemente nelle trasmissioni tv francesi. Lo speciale Face à la crise (Di fronte alla crisi), è stato trasmesso in diretta dall’Eliseo per tranquillizzare i francesi che giovedì scorso sono scesi in piazza, chiedendo allo Stato un piano che rilanci i salari e non solo le banche. All’annuncio delle quattro emittenti invitate al gran ballo economico dell’Eliseo, le polemiche sulla maniera in cui Sarkozy sceglie i suoi intervistatori si è accesa di nuovo. Perché Rtl e non una radio pubblica? Perché France 2 e non France 3? Perché M6 che non ha mai partecipato a uno speciale dall’Eliseo? La ragione principale è una sola: con David Pujadas, che presenta il telegiornale delle 20 di France 2, Laurence Ferrari (tg delle 20 a Tf1), Guy Lagache (presentatore del magazine economico Capital su M6) e Alain Duhamel di Rtl, la lezione del Capo dello Stato non rischiava di esser contraddetta. Tutti e quattro sono stati scelti con strategia avveduta. «Non mi dica lei è un royalista, e che vota per Segolene Royal, perché io sono un pujadiano, sono da sempre un vostro estimatore!», aveva scherzato Sarkozy con David Pujadas, durante la campagna elettorale nel 2007. L’anchorman di France 2, la principale emittente pubblica, è da sempre una garanzia d’imparzialità, ma non ha mai messo i bastoni tra le ruote a Sarkozy. Quando a giugno France Télévision ha manifestato contro la soppressione della pubblicità nella tv di Stato, secondo lui era «meglio aspettare, giudicare più tardi gli effetti della riforma». Di tutto un altro avviso era stata Audrey Pulvar, presentatrice di successo del tg dell’altra grande tv pubblica, France 3, che era alla guida della protesta. La Pulvar, originaria della Martinica, è stata l’unica capace di far balbettare Sarkozy nel suo tg, e per ben due volte, su temi come gli effetti della colonizzazione e l’espulsione dei clandestini. Ieri, naturalmente, era fuori gioco. Non poteva mancare Laurence Ferrari, che i giornali inglesi avevano poco più di un anno fa indicato come la fiamma del Presidente, causa del divorzio con Cécilia e al centro delle manovre televisive di Sarkozy quest’estate. Prima che sostituisse l’inossidabile PPDA (Patrick Poivre d’Avoir, in sella al tg da
I fantastici quattro intervistatori di Sarkozy di Nicola Accardo
in breve Pakistan, attentato contro sciiti: venticinque morti Sono almeno 25 i morti e trenta i feriti di un attentato contro una processione di fedeli sciiti a Dera Ghazi Khan, nella provincia orientale pachistana del Punjab. Lo hanno riferito fonti locali, secondo cui l’esplosione - avvenuta nel quarto giorno delle celebrazioni per il martirio dell’Imam Hussein si è verificata all’esterno della moschea Imam Bargha, situata nei pressi di una stazione degli autobus nel centro della città.
Pirati liberano la “Faina” per 2,5 milioni di euro
I quattro giornalisti che ieri sera hanno intervistato il presidente Sarkozy, da sinistra: David Pujadas (France 2), Laurence Ferrari (Tf1), Guy Lagache (M6) e Alain Duhamel (Rtl radio)
vent’anni) alla presentazione del vingt heures più visto d’Europa, quello di Tf1, era stata avvistata all’Eliseo dove probabilmente definiva i termini dell’accordo.Tf1, privatizzata da Mitterand nell’87, non è di certo sotto il controllo dell’Eliseo, ma di Martin Bouygues, amico del cuore, vecchio testimone di nozze di Sarkozy, e secondo il setti-
lotti politici, Duhamel è tornato sugli scudi con il suo libro La Marche Consulaire (vedi liberal del 15/1, ndr) in cui tenta un paragone tra Sarkozy e Napoleone. Per questa“nomina”, è scattato l’attacco di Nicolas Demorand, cronista politico di France Inter (paragonabile a Radio Uno in Italia): «Perché Duhamel e non Michel Aphatie, che presen-
Con David Pujadas, che presenta il tg di France 2, Laurence Ferrari (tg delle 20 a Tf1), Guy Lagache (presentatore di un magazine economico su M6) e Alain Duhamel di Rtl, l’Eliseo si è mostrato avveduto e imparziale manale L’Express l’ideatore della riforma dell’audiovisivo proposta dal Presidente. Chiudono il cerchio Guy Lagache, a cui la tv M6, del gruppo Lagardère - da sempre autodefinitosi «fratello» di Nicolas - vuole affidare il ruolo di presentatore del nuovo telegiornale, e Alain Duhamel. Quest’ultimo, è stato scelto da Rtl al posto di Jean-Michel Aphatie, intervistatore politico di punta. Da oltre quarant’anni frequentatore dei sa-
tano come il migliore intervistatore politico in circolazione?», ha detto mercoledì al Parisien. Pronta la replica di Aphatie: «Non sono contento della scelta, ma la rispetto. Perché l’ha fatta Rtl e perché nessuno ha le competenze politiche ed economiche di Alain Duhamel».
Venticinque anni fa, il 22 febbraio ’84, una storica giornalista francese annunciava alla fine del suo tg su Antenne 2: «Per
frenare il deficit lo Stato adotterà misure urgenti.Verranno rivisti i rimborsi medici, le pensioni, le allocazioni per le famiglie, le indennità per i disoccupati». Poi un altro colpo di scena: «Ammettete che avete avuto paura!», esordiva Yves Montand, nella prima puntata di Vive la crise, uno show “liberal-pedagogico”, secondo la rivista Telearma, in cui il famoso attore di origine italiana (il suo vero nome era Ivo Livi) cercava di convincere i francesi «che bisogna smettere di contare sullo Stato per realizzare ciò che solo il mercato e i cittadini hanno il dovere di compiere». Da quel momento le trasmissioni per spiegare l’economia al popolo tornano nella tv francese in tempi di crisi economica. È il caso di La France est en fallite?, fiction-documentario in onda su France 5, in cui si immagina che nel 2017 la Francia andrà in bancarotta per le eccessive spese dello Stato e si scatenerà la guerra civile. Ma è anche il caso di Face à la crise, del professor Sarkozy. Bisogna ora scoprire se i francesi si comporteranno da allievi diligenti o se torneranno in piazza come giovedì scorso.
Si è concluso dopo oltre quattro mesi, con il pagamento di un riscatto di 2,5 milioni di euro chiusi in una valigetta lanciata col paracadute e con la liberazione dei 20 membri dell’equipaggio, il sequestro del cargo ucraino “Faina” da parte di pirati somali, una delle prese di ostaggi più lunghe e spettacolari nella storia della pirateria locale, anche per il suo carico militare.L’annuncio è stato dato dalla presidenza ucraina e confermato dal portavoce dei pirati, con l’assicurazione che i marinai (17 ucraini, due russi e un lettone) sono «sani e salvi».
Iraq, elezioni vinte da Nouri al Maliki con il 38 % dei voti Le elezioni provinciali irachene, che si sono svolte lo scorso 31 gennaio, sono state vinte dall’Alleanza per lo Stato di Diritto, lista dal guidata premier Nouri al Maliki, che ha ottenuto nella capitale Baghdad il 38% dei voti. L’annuncio è stato dato dal presidente della commissione elettorale irachena, Farj al-Jaafari, in una conferenza stampa nella capitale. In base ai dati forniti dalla commissione, nello scrutinio di Baghdad, al secondo posto si sono piazzati la Corrente dei liberali indipendenti, sostenuta dai seguaci dell’Imam sciita Moqtada alSadr, e il Fronte per la concordia sunnita, entrambi con il 9% delle preferenze. Alle loro spalle, la Lista nazionale irachena, guidata dall’ex premier Iyyad Allawi, con il 6,8%.
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Libri. La Biblioteca apostolica presenta il catalogo dei codici ebraici conservati dall’archivio papale. Gli scritti coprono tutti i campi della tradizione giudaica: Bibbia, Midrash, Talmud, astronomia, matematica e medicina
I manoscritti della pace Dopo le polemiche sul negazionismo, il Vaticano tende la mano a Israele presentando gli antichi testi dei “Fratelli maggiori” di Rossella Fabiani L’appuntamento era in programma da tempo, ma l’attualità politica lo ha caricato di significati che vanno oltre la sua naturale dimensione culturale. Il Vaticano ha presentato il Catalogo dei manoscritti ebraici conservati nella sua Biblioteca Apostolica proprio mentre si sta faticosamente lavorando per riallacciare i rapporti tra la Santa Sede e il Gran Rabbinato di Israele resi fragili dalle polemiche scatenate dalle affermazioni negazioniste di alcuni sacerdoti lefebvriani ai quali il Papa ha revocato la scomunica. La pubblicazione dei manoscritti segna una “pietra miliare nella collaborazione culturale tra Santa Sede e Israele”, ha detto Mordechay Lewy, ambasciatore israeliano in Vaticano, che ha anche ricordato che “le relazioni diplomatiche tra i nostri due Stati hanno soltanto 15 anni, ma entrambi possiamo guardare indietro per alcune migliaia d’anni e ci auguriamo, ora, che la collaborazione si rafforzi”.
L’
Il volume Hebrew Manuscripts in the Vatican Library: Catalogue riproduce tutti i manoscritti vaticani in scrittura ebraica - circa 800 segnature, distribuite in 11 fondi che vanno dall’IX secolo ai giorni nostri corredati da un corposo apparato di note e da descrizioni paleografiche e codicologiche di Malachi Beit-Arié in collaborazione con Nurit Pasternak, entrambi docenti alla Hebrew University. Mentre il catalogo andava in stampa, tra l’altro, la Biblioteca ha acquisito altri 120 manoscritti ebraici comprandoli da un antiquario olandese. Le collezioni vaticane in scrittura ebraica coprono tutti i campi della tradizione giudaica: Bibbia e commentari biblici (all’incirca 100 manoscritti), Midrash (circa 30 manoscritti, tra cui il più antico esemplare noto di Sifra, del IX secolo),Talmud e suoi commentari (la collezione più ricca del mondo con 25 testimoni e 40
manoscritti latori di commentari talmudici), filosofia, astronomia, matematica, medicina, letteratura, poesia, filologia e liturgia. “I manoscritti ebraici – dice il professor Malachi Beit-Arié – ci restituiscono le molteplici sfaccettature della letteratura ebraica e giudaica di ambito biblico, giuridico, liturgico e filosofico, accanto all’ambito
studio e la storia del manoscritto in tutta l’area mediterranea”. La Biblioteca apostolica vaticana conserva anche il più antico codice ebraico datato prodotto in Europa, scritto nel 1072-3, probabilmente a Otranto. Il progetto di un Catalogo completo di questi manoscritti è stato lanciato dalla Biblioteca nazionale di Gerusalemme e accolto con favore dal cardina-
L’ambasciatore Mordechay Lewy definisce questa pubblicazione una pietra miliare nella collaborazione tra Santa Sede e Gerusalemme scientifico, specialmente medico, matematico e astronomico, consentendo l’introduzione di nuove idee e ispirando cambiamenti culturali e sociali. Ma sono anche dei manufatti culturali prodotti da una minoranza religiosa, etnica
e culturale che ha vissuto il fenomeno della dispersione lungo le coste del Mediterraneo e poi verso Est, Nord e Ovest mescolandosi e trapiantandosi con altre civiltà, religioni e culture, rendendo i manoscritti significativi e importanti per lo
le Raffale Farina che ha seguito la realizzazione di questo volume fin da quando era prefetto della Biblioteca.
Una parte rilevante del lavoro è stata fatta a Gerusalemme utilizzando i microfilm realizzati attraverso un progetto pionieristico dalla Biblioteca nazionale israeliana che ha microfilmato tutti i manoscritti in caratteri ebraici esistenti al mondo. Oggi questo archivio è consultabile in rete. Il Vaticano, 60 anni fa, fu la prima istituzione ad autorizzare la microfilmatura completa della sua collezione giudaica. Compilato dunque dall’Institute of Microfilmed Hebrew Manuscripts, il volume è stato editato nell’aprile del 2008 dalla Biblioteca apostolica vaticana nella prestigiosa collana “Studi e testi”, a cura di Benjamin Richler, ex direttore dell’Institute of Microfilmed Hebrew Manuscripts della Jewish National and University Library, dopo un lavoro pluriennale di collaborazione tra Roma e Gerusalemme. “Parte del lavoro, ad esempio l’identificazione dei testi e dei copisti, si è potuta svolgere a
Gerusalemme, dove si trova la copia microfilmata di tutti i manoscritti ebraici della Vaticana – dice monsignor Cesare Pasini, prefetto della Biblioteca apostolica – ma la parte decisiva e determinante per sciogliere dubbi, chiarire particolari, descrivere con accuratezza gli aspetti paleografici e codicologici, si è dovuta svolgere, come è corretto e richiesto dal mondo scientifico, studiando direttamente gli originali. Per molte settimane ogni anno e per molti anni, gli studiosi di Gerusalemme, il professore Malachi Beit-Ariè e la professoressa Nurit Pasternak, hanno frequentato le sale della Biblioteca realizzando alla fine questo importantissimo contributo di conoscenza”. Un contributo di conoscenza che arriva dopo oltre mezzo secolo dall’inventario analitico di Umberto Cassuto (Moshe David Cassuto, 1883-1951). Un lavoro che si inserisce a pieno titolo nel solco della tradizione vaticana, che sin dai tempi di Domenico Gerosolimitano, Federico Carlo Borromeo, Elia b. Menahem di Nola e Giovanni Battista Giona Galileo (secoli XVI-XVII), e fino ai giorni nostri, con Cassuto, Anna Maria Enriques, Aaron Freiman e Giorgio Levi della Vida, si è valsa della collaborazione di eminenti studiosi ebrei per censire e coltivare le sue collezioni ebraiche. Il catalogo è il primo dall’ormai remota epoca del settecentesco Catalogus di Giuseppe Simonio Assemani (1687-1768), “Primo Custode” della Biblioteca Vaticana, di madrelingua araba: in quel volume in folio, pubblicato nel 1756, erano descritti 453 codici Vaticani ebraici. Certo un numero considerevole, che si era progressivamente arricchito a partire dai primi quattro codici ebraici (fra i quali un Pentateuco pergamenaceo trilingue) segnalati nell’indice della Vaticana redatto nel 1533 dai “Custodi” Fausto Sabeo e Niccolò Maiorano. Ma è del 1549 l’ingresso dei primi volumi ebraici sicuramente identificabili con codici attuali: fra di essi era l’odierno Vat. ebr. 177, donato alla
In basso la riproduzione da un Salterio datato Roma 4 giugno 1294 della pagina iniziale del quarto libro dei salmi. Nella pagina accanto in alto il magnifico codice di Jakob b. Asher, Mantova, 24 novembre 1435 e in basso una Bibbia italiana, completata il 14 agosto 1286 e firmata da Jekuthiel
Biblioteca, sotto il pontificato di Paolo III Farnese, dal cardinale di Santa Croce, Marcello Cervini (1501-1555) che l’aveva ricevuto dal domenicano Juan Alvárez de Toledo (1488-1557) a quell’epoca cardinale e vescovo di Burgos.
E dunque questo catalogo è “una straordinaria collezione frutto di un’esemplare collaborazione tra istituzioni culturali della Santa Sede e di Israele”, sottolinea il cardinale Raffaele Farina, archivista e bibliotecario, già prefetto della Biblioteca: “I rapporti culturali hanno una strada più facile, più semplice. Il culto della bellezza contribuisce molto. Noi siamo molto soddisfatti di questo lavoro decennale. Il risultato è quello che ci aspettavamo. E’ una premessa ad altre collaborazioni”. Una collaborazione – aggiunge il porporato – che aiuta, attraverso la conoscenza reciproca, a supe-
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della Santa Sede e di Israele che non si deve considerare un unicum.“E’ abituale – dice il porporato – che nella Biblioteca apostolica vaticana vengano studiosi di ogni provenienza, quindi anche studiosi ebrei dallo Stato d’Israele: questo è avvenuto già tante volte, anche contatti con istituzioni d’Israele sono già avvenute. Il primo grande contatto – una mostra con manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana – c’è stato nel settembre del 2005: per l’occasione furono mandati a Gerusalemme quattro importantissimi manoscritti e subito fu evidente che davvero la cultura aiutava a collaborare e a collaborare bene. Ciascuno mise la sua parte di competenza, di specifica capacità – anche organizzativa, anche di ricerca e di conoscenza delle nozioni da presentare riguardo a quei manoscritti – e, in questi anni, noi abbiamo sperimentato una fattiva, operosa e complessivamente molto serena partecipazione reciproca”.
rare anche possibili incomprensioni:“In genere, quando si lavora bene insieme, nascono amicizie. Tutto questo crea un clima di comprensione che aiuta a stare bene insieme, ognuno con la propria identità. E l’istituzione, contrariamente a quello che si possa pensare comunemente, offre un buon supporto. Vogliamo creare un clima tale per cui anche il dialogo religioso abbia un ambiente adatto a svilupparsi nel modo migliore”. La grande via della comunicazione tra le religioni è prima di tutto quella culturale, come ricorda monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio Consiglio della cultura: “Prima ancora di essere credente, ogni persona è anche una persona umana, appartiene a quello che la Bibbia chiama “Adamo”, che letteralmente significa “l’uomo”, “l’umanità”. Ed è per questo che ogni impegno per la cultura è anche un modo per riusci-
re a costruire piano piano un grande dialogo non soltanto umano, ma anche religioso e spirituale. E’ anche l’occasione, da una parte, di cancellare le tensioni, perché attraverso la cultura si ritrovano molti elementi comuni, e dall’altra, è un’occasione di trasformare la “tensione” da negativa in positiva, cioè di tendere verso un ideale ulteriore perché di solito la cultura – quando è autentica – è il tentativo di interpretare il mistero dell’essere, cioè la possibilità di approdare verso l’eterno, verso l’infinito, verso la grandezza che ci trascende continuamente. E’ significativo poi che il mondo cattolico, nel passato, abbia sentito la necessità non soltanto di custodire ovviamente il testo ebraico della Bibbia, ma anche di avere testi alti dal punto di vista della cultura ebraica, testi della tradizione giudaica, testi cioè di tutto questo orizzonte
che è quello dei cosiddetti nostri fratelli maggiori”.
Anche l’ambasciatore Mordechay Lewy ribadisce l’importanza della collaborazione tra Santa Sede e Israele: “Credo che questo lavoro sia stato un’occasione utile per dimostrare quanto sia apprezzabile la collaborazione culturale tra Israele e la Santa Sede. Penso che saremmo più poveri se restringessimo le nostre relazioni soltanto alla dimensione politica e religiosa. La dimensione culturale è molto importante e con questo Catalogo abbiamo avuto la dimostrazione di quanto possa essere realizzato in uno spirito positivo e di collaborazione, anche in futuro. Non ho dubbi: credo che ci sia stato un arricchimento delle relazioni tra Israele e la Santa Sede”. Questo catalogo corposo che ha alle spalle un grandissimo lavoro di ricerca, fatto da più persone per quasi una decina d’anni, nasce – ci tiene a precisare mons. Pasini – da una cooperazione tra istituzioni culturali
Alcuni pezzi, presenti nel Catalogo dei manoscritti ebraici, sono particolarmente degni di nota.“C’è un Urbinate ebraico – il numero uno di quella serie – che è un codice bilingue ebraico-aramaico che contiene l’intera Bibbia in questa speciale fattura, sia ebraica che aramaica, ed è datato 1294 – spiega monsignor Pasini – e c’è anche un manoscritto della serie dei cosiddetti neofiti, il numero 1: è l’unico esemplare noto di Targum palestinesi. Per esempio, il più antico manoscritto ebraico che possediamo è del IX secolo, è – fra l’altro – anche il più antico Sifra noto. C’è anche una serie di manoscritti – con questi siamo nell’XI secolo – molto importanti, perché contengono il Midrash, quindi sono codici midrashici: per esempio il Vaticano ebraico 30, il 31, il 32, ma anche il 60. Però, vorrei ricordare anche altri manoscritti così importanti da essere stati esposti nella mostra che si tenne a Gerusalemme nel 2005. Sono manoscritti biblici o di altri testi ebraici, ma che hanno questa originalissima connotazione: sono stati fatti in Italia – XIII, XV secolo – e nascono dalla collaborazione di ebrei italiani magari chi ha ordinato il manoscritto era un ebreo facoltoso ma chi ha poi vergato il manoscritto, quindi il copista, o chi ne ha fatto l’ornamentazione era un italiano cristiano e ci si accorge così che questi manoscritti portano, nella loro carne, il segno di una vicinanza e di una collaborazione, di un dialogo che forse non ci aspetteremmo. Fra l’altro sono anche di una bellezza straordinaria. Il frutto di questa collaborazione è strepitoso: chi guarda i manoscritti rimane stupefatto dalla magnificenza e dalla finezza con cui sono stati redatti. Verrebbe da dire che cristiani ed ebrei hanno collaborato molto prima di noi”.
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ell’ultimo mese di gennaio, in seguito all’uscita del primo volume dei diari di Susan Sontag Reborn. Early Diairies 19471964 curati dal figlio David Rieff, si è aperto un dibattito su cosa questi appunti intimi della grande intellettuale e scrittrice americana hanno significato per la sua immagine di persona pubblica controcorrente e controversa. Il figlio infatti scrive che se fosse stato per lui avrebbe atteso molto tempo prima di pubblicarli e c’è da comprendere la natura del suo pudore dovendo andare a scavare nell’intimità della madre che, come si sa, era molto gelosa della propria vita privata.. «C’è stato un momento - afferma Rieff - in cui avrei voluto bruciarli. Ma era pura fantasia… Mentre mia madre era ancora viva e sana, aveva venduto le sue carte alla biblioteca dell’Università della California di Los Angeles (Ucla) e dato che il suo contratto non prevedeva alcuna restrizione nella pubblicazione e nell’editing, ho pensato che dovevo essere io a decidere: se non lo avessi fatto io, l’avrebbe fatto qualcun altro».
L’Independent del primo febbraio scorso afferma che la pubblicazione dei diari è inutile, perché non aggiunge niente alla grandezza delle opere della scrittrice. Anzi. «Il lato oscuro e tormentato della sua intelligenza è rivelato da un’autopunizione senza tregua, da dubbi e rimuginii continui che rendono le voci del diario frustranti da leggere quanto lo sono state per chi le ha scritte… Per coloro che non conoscono Sontag Reborn è incomprensibile, per quelli invece che ne conoscono la produzione, queste note non aggiungono niente di essenziale alla genialità della sua produzione».
N
Le note dei diari gettano una luce molto personale sugli anni di gioventù della grande scrittrice. La scoperta della propria sessualità, o meglio omosessualità, è quella che determina il titolo che il figlio coraggiosamente ha scelto per questi diari, cioè la rinascita.I am reborn, scrive Sontag nel maggio 1949 dopo avere iniziato a Berkeley una relazione intima con una giovane donna. La scrittrice infatti confessa di sentirsi a disagio nel proprio corpo e questo rapporto la svincola dalle costrizioni sociali di un’identità eterosessuale e finalmente la connette con una libertà intellettuale, legata fortemente alla sua passione per la scrittura. «Il mio desiderio di scrivere è connesso alla mia omosessualità. Ho bisogno dell’identità (di
Dibattiti. La pubblicazione di alcuni diari segreti svela i lati più intimi della scrittrice
Susan Sontag divide (ancora) l’America di Anna Camaiti Hostert se stessa. In particolare ha sempre evitato qualunque discussione sulla sua omosessualità o qualsiasi riconoscimento delle sue ambizioni». E questi sembrano essere di gran lunga i due temi trainanti dei diari di Sontag nei quali sono descritti personaggi della sua vita priva-
svelare parti così intime della vita privata di un’icona della cultura popolare e di una delle più acute intellettuali americane, solo per saziare la fame della stampa riguardo a temi scabrosi come l’omosessualità e le ambizioni smodate di un per-
“Reborn. Early Diairies 1947-1964”, curati direttamente dal figlio David, getta luce sugli anni di gioventù della madre, quando ammise la propria omosessualità. Oggi la stampa Usa si divide tra elogi e stroncature scrittrice) come di un’arma, per competere con l’arma che la società tiene puntata verso di me. Ciò non giustifica la mia omosessualità. Ma me ne dà il permesso - almeno sento -. Sto diventando cosciente di come mi sento colpevole di sentirmi queer… Essere queer mi fa sentire vulnerabile». Sontag non mai ha lasciato istruzioni su come usare il materiale dei suoi journals che il figlio chiama invece diaries proprio per la natura intima del loro contenuto, affermando che la madre «non aveva nessuna intenzione di aprirsi e rivelare
ta, come il marito, Philip Rieff, da cui ha da cui ha avuto il figlio David (e da cui ha successivamente divorziato, nel 1957, dopo appena sette anni di matrimonio), le sue amanti, il soggiorno in Europa e il suo ritorno a New York, i rapporti con intellettuali e artisti europei e americani, oltreché naturalmente i giudizi su scrittori famosi e meno famosi.
Il dibattito sulla pubblicazione di questi diari è ovviamente legato all’opportunità, come scrive Laurie Stone sul Los Angeles Times l’11 gennaio, di
sonaggio famoso, esponendolo alle fauci sempre affamate dell’opinione pubblica, che ormai in tutto il mondo si ciba famelicamente solo di gossip. Sopra e a fianco, due scatti della scrittrice americana Susan Sontag. Di recente il figlio David ha curato la pubblicazione di alcuni suoi diari segreti, accendendo un vivace dibattito intorno alla scrittrice omosessuale
Tuttavia sul New York Times del 29 gennaio, dopo aver diviso gli scrittori in due tipi (quelli che tengono quotidianamente un giornale nella speranza che il suo contenuto venga un giorno pubblicato e quelli che non scrivono niente proprio per paura che si svelino segreti personali), Luc Sante conclude che nessun diario può essere tenuto da uno scrittore interamente innocente. «La complicata e voyeuristica emozione che il lettore può ricavare dall’apparente forzatura del cassetto della scrivania di un autore è pertanto solo fino a un certo punto una finzione nella quale però ambedue i partecipanti sono complici». Anche se questo non è interamente vero nel caso di Susan Sontag. Infatti, come testimonia il figlio, la scrittrice pur non avendo dato istruzioni su come usare i diari non pensava che la sua morte sarebbe stata così imminente e pertanto credeva che avrebbe ancora potuto lavorare sulle sue note. Ma c’è un commento nei diari che rende questa pubblicazione opportuna. Scrive Sontag: «Una delle più importanti funzioni (sociali) di un giornale o diario è esattamente quella di essere letto furtivamente da altra gente, la gente (come i genitori+gli amanti) riguardo a cui uno è stato crudelmente onesto solo nel giornale». Non è infatti questo essere vissuta senza pelle una delle più importanti caratteristiche di questa grande intellettuale che l’ha sempre praticata nella sua vita pubblica e privata, e che si è sempre protetta dalla propria vulnerabilità, senza mai spiegarne i motivi più reconditi?
cultura
6 febbraio 2009 • pagina 21
Tra gli scaffali. L’epopea e la storia d’amore tra Francis Scott e Zelda Fitzgerald nel nuovo libro di Gilles Leroy “Alabama Song”
I ruggenti anni di “Goofo e Z.” di Giampiero Ricci
i sono esseri umani che sono mondi. Uomini e donne che per una serie non lineare di motivi finiscono per rappresentare un’epoca. Persone che pur non essendo esempi di virtù, finiscono per diventare archetipi: Francis Scott e Zelda Fitzgerald fanno parte di questa categoria.
C
Con “Alabama Song”, (Baldini Castoldi Dalai, 2008, pagg. 213), Gilles Leroy racconta l’epopea e la storia d’amore tra la figlia del Giudice dell’Alabama e il giovane aviatore aspirante scrittore dalla famiglia in disgrazia. Sono i giorni che dovrebbero precedere la partenza di Fitzgerald per la Grande Guerra quando Francis Scott e Zelda si incontrano e si perdono l’uno nell’altra, un percorso di vita che li porterà a prestare molto più del loro volto agli anni che anche grazie alla loro parabola furono denominati poi roaring twenties, gli anni ruggenti. Anni davvero ruggenti quelli che sotto l’effetto di un ciclo di espansione economica e dell’ingresso sullo scenario mediatico della Radio, l’Occidente tutto visse con entusiasmo. La speranza di un mondo più piccolo e vicino, ricco di possibilità da cogliere magari al ritmo della dilagante moda musicale del jazz. Quella voglia di arrivare a livelli diffusi di benessere e di qualità della vita fino ad allora inimmaginabili accompagnò fenomeni epocali come l’emancipazione femminile di cui proprio Zelda
vole e oscillante tra vita vissuta e opera letteraria, qualcosa in grado di consumare l’amore ma non quel magnetismo luminoso in cui i due Fitzgerald si erano immedesimati agli occhi di quella generazione che voleva vivere la vita fino all’ultimo respiro, senza chie-
nel ricovero per affetti da infermità mentale cui finì relegata attende i giorni precedenti alla sua scomparsa, una fine avvenuta per via di un terribile incendio che divampò nell’edificio che la ospitava. Leroy affianca costruzioni della sua fantasia alla narrazione nata dall’utilizzo di materiale tratto dall’immensa bibliografia sulla coppia e il risultato è un lavoro capace di mettere in una sequenza cinematografica l’essenza dell’età del jazz. I ricordi di Zelda si susseguono in un caleidoscopio di immagini capace di alternare la consapevolezza orgogliosa degli ultimi amari momenti ai fasti del primo successo di Goofo, la loro totale immersione in quel mondo del divertimento e dell’effimero in cui Zelda sin da ragazza aveva cercato riparo e la durezza della disastrata deriva dei loro rapporti interpersonali, attraversati da tradimenti ed eccessi.
Attraverso il forte e travagliato legame della coppia, l’autore offre anche uno spaccato della società dell’epoca, divisa tra l’aspirazione alla leggerezza e il peso della crisi del ’29 Fitzgerald fu uno dei campioni. Poi fu la crisi del ’29 e l’inganno dell’età del jazz assunse tratti prima malinconici poi drammaticamente profondi e capaci di rendere paradigmatica la superficialità cui si erano abbandonate intere società, una contraddizione potentemente rappresentata proprio dalle pagine di Francis Scott Fitzgerald. “Goofo”, come veniva affettuosamente chiamato da Zelda, lui che diventerà non solo uno scrittore ma uno dei più grandi scrittori di sempre, anche grazie a un matrimonio divenuto relazione scambie-
dersi molto e che finì per perderla nell’incubo della Seconda guerra mondiale. Nel romanzo Alabama Song Leroy fa parlare Zelda, offrendola in pasto al lettore mentre
Nelle librerie
di una società de-letterarizzata, come si vuole sia quella delle nostre metropoli forzosamente tubocatodizzate (a pagamento o in chiaro che sia), costrette ad andare incontro alla società del divertimento e dell’intrattenimento per assenza di alternative, finalmente un libro che sa di letteratura, che pur non essendo letteratura, è almeno in grado di parlarne e regalarne le suggestioni che le sono proprie.
Il libro rende immediato al lettore quell’accostamento che qualche osservatore ha proposto tra la Grande Depressione del ‘29 e i nostri giorni. Effettivamente, al di là
Sopra e sotto, alcuni scatti di Francis Scott e Zelda Fitzgerald. In basso a sinistra, lo scrittore Gilles Leroy e, a fianco, la copertina del suo nuovo romanzo “Alabama Song”, dedicato proprio alla celebre coppia
dei parallelismi di natura economico-finanziaria, è difficile non essere tentati dal rivedere nell’irrompere sullo scenario mediatico del World Wide Web quanto già accaduto negli anni Venti con la Radio, così come è difficile non trovarsi a rivedere nella implementazione delle nuove tecniche di advertising cui assistiamo, la nascita e lo sviluppo del fenomeno pubblicitario di allora. E se i romanzi, quando sono letteratura, dovrebbero avere l’ambizione di ricordare il senso profondo delle cose e dell’esistenza attraverso storie, Leroy ha il merito di esservi riuscito spolverando il racconto di due esistenze indimenticabili.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale
da ”le Monde” del 04/02/2009
Camilleri scende in politica di Philippe Ridet ll’Italia, che vantava già sessanta partiti politici, mancava solo «il partito dei senza partito». Una lacuna che il celebre scrittore siciliano, Andrea Camilleri, ha voluto colmare. Ha lanciato il suo progetto politico sull’ultimo numero della rivista della sinistra radicale, Micromega. La nuova formazione potrebbe presentare i suoi candidati già nel prossimo turno elettorale, alle europee di giugno. Durante una conferenza telefonica, organizzata dal direttore della rivista, Paolo Flores D’Arcais, che l’ha poi pubblicata integralmente, con Antonio Di Pietro - il magistrato dell’operazione «Mani pulite», oggi leader dell’Italia dei valori (Idv) - il “padre” del commissario Montalbano spiega come il Partito democratico, di centrosinistra, non sia in grado di fare una «seria opposizione» e che «solo Di Pietro sia la vera e unica opposizione, oggi, in Italia». Durante il dibattito, dove si sono affrontati diversi aspetti della situazione italiana, in maniera del tutto inaspettata, lo scrittore ha proposto un’alleanza politica «tra gli onesti, senza precedenti penali». L’ex magistrato della procura milanese si è detto subito pronto a presentare nelle proprie liste i candidati del «partito dei senza partito», e a mettere a loro disposizione le strutture dell’Idv.
A
Per il momento questa alleanza è solo un progetto. «Siamo in una fase preliminare – spiega il direttore di Micromega – nei prossimi giorni verrà inviata una sintesi del progetto ad un centinaio di personaggi vicini alle idee della rivista, per sondarne le reazioni. Ma già le risposte degli utenti di internet continuano a crescere».
Per l’onorevole Di Pietro è sicuramente un buon affare. Avere come alleato, uno dei più popolari scrittori transalpini (italiani, ndr) è qualcosa che non può essere rifiutata. Per il futuro del «partito dei senza partito», non avere alcuna affiliazione all’Italia dei valori, significa dover raccogliere almeno 200mila firma in tutte le regioni italiane. In aggiunta, la nuova legge elettorale, approvata martedì 3 febbraio dal Parlamento italiano, mette a rischio l’esistenza dei partiti più piccoli. Solo chi supererà la soglia del 4 per cento, potrà mandare un rappresentante al Parlamento di Strasburgo. Secondo gli ultimi sondaggi pubblicati in Italia, la media elettorale dell’Idv potrebbe raggiungere il 10 per cento, nella peggiore delle ipotesi.
Questa vicenda potremmo definirla come un altro macigno caduto lungo il percorso del già sufficientemente devastato Partito democratico. A quasi un anno dalla sconfitta elettorale, subìta alle politiche dell’aprile 2008, questa nuova formazione, nata dalle ceneri della vecchia sinistra, vive ormai in uno stato di crisi permanente. Il suo segretario, Walter Veltroni, ha dovuto fronteggiare attacchi provenienti da tutti i fronti politici e subire critiche martellanti. L’accusa principale è che propone un’opposizione troppo debole al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Il suo soprannome? «Walterloo». Paolo Flores D’Arcais non nasconde quanto sia augurabile una salutare «catastrofe elettorale»
per il Partito democratico all’appuntamento delle europee, per avere la speranza in una ripresa del suo ruolo d’opposizione. Secondo questa prospettiva tutto ciò che indebolisca il segretario dei democratici e rafforzi l’onorevole Di Pietro e il suo partito è considerato come benvenuto e benefico. L’operazione che starebbe prendendo forma del «partito dei senza partito» è funzionale a questa strategia?
La risposta non manca di una certa venatura d’ironia: «il Partito democratico non ha alcun bisogno d’aiuto per fallire». In maniera più completa e analitica Flores D’Arcais successivamente spiega nel dettaglio: «l ‘alternativa è abbastanza semplice. O i delusi dal Partito democratico non votano, e ciò rafforzerebbe il preseidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, oppure costruiamo una nuova proposta elettorale, facendo crescere l’opposizione».
L’IMMAGINE
Abbiamo troppe auto e troppi elettrodomestici per comprarne altri. Con o senza incentivi Il governo ha deciso gli aiuti per l’industria: automobili, frigoriferi, lavatrici e elettrodomestici in genere. La crisi del resto è quella che è, la peggiore degli ultimi tempi, addirittura una depressione come quella del ’29. Tuttavia, anche dieci anni fa ci furono gli incentivi per la rottamazione e se risaliamo nel tempo troveremo altri aiuti ed incentivi per le quattro ruote. C’è da scommetterci, inoltre, che non saranno gli ultimi. Ma, senza tirare in ballo la crisi internazionale, la verità sulla difficoltà dell’industria automobilistica è molto più semplice: le automobili non si vendono perché ognuno di noi ne possiede una se non due.Tutti hanno un frigorifero, una lavatrice, una lavastoviglie, un forno,due o tre televisori. Dunque non c’è la necessità del nuovo acquisto né ora né nel prossimo futuro. Tuttalpiù ci potrà essere questa o quella sostituzione, ma in ogni caso non c’è un nuovo mercato da creare o da conquistare.
Gian Maria Piccoli
IMPARIAMO A ESSERE CITTADINI EUROPEI Lo sciopero nelle raffinerie inglesi contro i lavoratori italiani rivela un grave stato di disagio fra i lavoratori locali che guardano con sospetto tutti gli stranieri, fatto peraltro comune in altri Stati anche nei confronti degli stessi connazionali di altre regioni. Ma ancor più denota - e mi spiace constatarlo perché sono un europeista convinto - la mancata creazione della mentalità europea del farci sentire, in altri termini, cittadini della Comunità superando i confini degli Stati nazionali. E ciò perché poco o nulla si è fatto in tal senso. Basti pensare che vi sono Stati aderenti alla Comunità europea (e fra questi la Gran Bretagna) che ancora non hanno adottato l’Euro mantenendo la loro moneta na-
zionale. E non è un fatto di poca importanza politica ed economica. Anche l’ingrandimento della Comunità europea, prima ancora di dotarsi di una Costituzione, rischia di produrre contraccolpi che rallentano il programma di unificazione. Occorre che il nuovo Parlamento si arroghi il potere di procedere più celermente verso un’unificazione reale in modo da avere una comune politica estera, economica e di difesa. Solo così ci sentiremo più legati alla cittadinanza europea.
Luigi Celebre
UN TANGO PER LA REPUBBLICA Giorni indietro accendo la tv e chi ti vedo? Emanuele Filiberto di Savoia che ballava. Avendo avuto una madre monarchica lì per lì sono rimasto esterrefatto e ho
Verde d’invidia Vederselo spuntare davanti non dev’essere il massimo. Anche perché verde com’è, questo serpente del genere Ahaetulla - 2 metri di lunghezza - si mimetizza perfettamente con il fogliame delle foreste del Sud-Est asiatico, dove vive. Ma, spavento a parte, non c’è da temere: il suo veleno non è pericoloso per l’uomo, basta a malapena per paralizzare le sue piccole prede
immaginato quello che avrebbe detto la mia Vittoria vedendolo fare lo zuzzurullone televisivo: lui, erede di una dinastia fra le più blasonate. Ad occhi chiusi ho rivisitato la storia dei nostri reali negli ultimi cento anni: Umberto I, il re “buono”, con le cannonate di Milano, Vittorio Emanuele III, responsabile della morte di tanti italiani, con la marcia su Roma,
le leggi razziali. la guerra e la fuga, Umberto II, sottomesso e senza spessore, che di positivo ha avuto solo la moglie, lei sì, una Regina. Da ultimo ho pensato a suo padre, del quale ricordo solo che disse di aver comperato a diciotto anni una Ferrari con i “piccoli” risparmi e che, in un guerriero sussulto dinastico, all’isola di Cavallo sparò alla “ndò coglio
coglio”, ammazzando un malcapitato turista. Ho riaperto gli occhi sullo schermo e ho considerato che il ballerino era il meno peggio; nonostante tutte le “dipietrate e carrocciate”, la nostra democrazia repubblicana rimane la scelta più valida e non corre rischi, valorizzata e protetta anche dai suoi tanghi.
Dino Mazzoleni
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Temo tutto, e nulla mi consola Quelli che voi chiamate i vostri difetti potranno forse farmi morire, e lo spero, ma nulla mi raffredderà. Se la mia volontà, se la ragione, se la riflessione avessero potuto qualche cosa, vi avrei amato? Ahimè! in quale situazione sono stata spinta, precipitata in questo abisso di infelicità! Ne fremo ancora. Un modo per richiamare nel mio animo un sentimento dolce sarebbe di pensare che vi vedrò domani; ma qual è il modo per poter contare su questa felicità? Forse la vostra carrozza è rotta; forse vi è successo qualche cosa; forse siete a Chanteloup; insomma temo tutto, e nulla mi consola. Amico mio, non vi basta aver destato la mia inquietudine, mi accusate anche: dovevo forse scrivere a Chanteloup? E nell’ultima lettera da Bordeaux, mi dicevate che forse non sareste andato a Chanteloup! E buon Dio, a cosa serve smascherarvi? Vi emenderete? Vi amerò meno per questo? Buonasera. Oggi non è stata aperta una sola volta la porta che io non abbia avuto un tuffo al cuore; ci sono stati dei momenti in cui ho temuto di sentire il vostro nome, per rimanere poi delusa di non averlo sentito. Tutte queste contraddizioni, tutti questi moti d’animo opposti sono veri, e si spiegano con queste parole: vi amo! Julie de Lespinasse al conte di Guibert
ACCADDE OGGI
PERPLESSITÀ SUL CASO ENGLARO/1 Carlo Alberto Defanti, il neurologo che segue Eluana Englaro, ha dichiarato che la riduzione dei nutrienti molto probabilmente «prevederà inizialmente una riduzione drastica, di circa il 50%, e poi sempre più graduale. Non sarà un processo brutale». Deduco che, se togliessero a Eluana il cibo subito e completamente, il processo sarebbe brutale. Per chi? Contemporaneamente, a Eluana saranno somministrate piccole dosi di sedativi «a garanzia che non provi alcuna sofferenza». Eppure il professor Amato De Monte - primario di anestesia e rianimazione all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine e direttore dell’equipe che seguirà Eluana ha garantito che «Eluana non soffrirà perché Eluana è morta 17 anni fa». Al termine del viaggio da Lecco a Udine, il professore ha anche detto: «Sono profondamente devastato come uomo, come padre, come medico e come cittadino». E «Tutta la società civile dovrebbe riflettere sullo scollamento tra il sentire sociale e la posizione della politica e della Chiesa sul tema della vita vegetale». La seconda frase rivela gli obiettivi ideologici del professore. Quanto alla prima, che un medico, primario, dica di essere «profondamente devastato» di fronte ad un malato, lascia quantomeno perplessi.
Francesco Bellotti
PERPLESSITÀ SUL CASO ENGLARO/2 Una volta assodato che il caso Eluana, deficitava di silenzio, tanto silenzio; occorre solamente augurarsi che il prov-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)
6 febbraio 1908 Si inaugura la Borsa a Milano
1922 Achille Ratti viene eletto papa col nome di Pio XI 1936 Iniziano i IV Giochi olimpici invernali a Garmisch-Partenkirchen in Germania 1952 Elisabetta II diventa regina del Regno Unitoalla morte del padre Giorgio VI 1959 A Cape Canaveral viene eseguito con successo il primo lancio di un missile balistico intercontinentale Titan 1968 Iniziano i X Giochi olimpici invernali a Grenoble, Francia 1971 Un terremoto semidistrugge Tuscania, danneggiando i monumenti romanici e provocando 31 morti 1985 Steve Wozniak lascia la Apple Computer 2001 Ariel Sharon, leader del Likud, viene eletto primo ministro di Israele 2004 In Russia, un attacco suicida nella metro di Mosca provoca la morte di 40 pendolari e il ferimento di altri 129. La responsabilità dell’attentato sarebbe di un gruppo separatista ceceno
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
vedimento, come accade spesso in giustizia con le sentenze della Cassazione, non costituisca un precedente; perché ciò significherebbe il completamento di un tratto importante della strada che porta all’eutanasia. Effettivamente sembra che la torre di Babele della politica si sia trasferita nelle discordanti prese di posizione sulla questione: è triste in tale contesto che qualche esponente dell’opposizione possa sentenziare sulle tempestività di un provvedimento del genere, come se il colore politico potesse fornire alla coscienza degli uomini la formula risolutiva. Se si desse importanza alla spiritualità dell’individuo, che poi è quella che conta, si capirebbe che essa non possiede colore politico, ma è ravvivata dalla fermezza e nella fede dei miracoli, che forse sono difficilmente individuabili per coloro che preferiscono adeguarsi alla materialità dell’esperienza.
Bruno Russo
L’AUTOLESIONISMO DELLA SINISTRA La sinistra alle europee si candida all’autolesionismo. Dopo le crisi interne e le liti per la leadership, era il caso di “ammonticchiare” tanti partitini, dai Verdi all’Associazione per la sinistra? Tutto ciò dimostra quanto la nostra opposizione non abbia ancora digerito il concetto di compattezza. Ma la grande frattura, a mio avviso, è tra la sinistra di governo e Rifondazione. Anche a destra esistono partiti estremi, ma non perseguono la politica dello scontro ad ogni costo.
Bruna Rosso
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
CRISTO È ANCORA FERMO AD EBOLI Un puntuale articolo di un giornale del Nord racconta vicende vissute dall’ente Parco del Cilento, e di come è diventato ghiotto boccone per lottizzazioni spregiudicate, a livello regionale e nazionale. Infatti, è stato proposto per la presidenza, fregandosene delle realtà locali, l’ex presidente del Parco del Vesuvio, Troiano, con la benedizione di Bassolino (Pd) e del ministro Prestigiacomo (Pdl). Molti continuano a sciacquarsi la bocca accusando i partiti del passato di consociativismo tra maggioranza e opposizione. Ci si chiede oggi, dalla vicenda dei rifiuti in Campania alla piccola storia della possibile nomina di Troiano al vertice del Parco del Cilento, come si può definire il rapporto strisciante e non limpido tra centrodestra e centrosinistra? Le popolazioni del Cilento, del Vallo di Diano, degli Alburni aderirono all’ente Parco al tempo, per tutelare sì le diverse risorse naturali del territorio, ma anche per ricavarne vantaggi economici, produttivi e occupazionali. Invece, i privilegi se li gestiscono in pochi, e malamente. È materia per alcuni “amici”, e solo nelle località costiere. Quelle montane non contano. L’articolo in questione descrive esattamente lo stato delle cose nelle zone del parco, ed è puntualissimo quando si sofferma sulla presenza dei cinghiali e delle conseguenti devastazioni di colture a causa delle loro selvagge incursioni. Sono fatti che preoccupano tantissimo chi per anni coltiva i propri campi con dedizione e sacrifici, e poi da un momento all’altro vede tutto distrutto. Le potenzialità produttive, comprese quelle turistiche, da sviluppare in queste zone del Sud, sempre più Sud, esistono, ma senza infrastrutture, senza una rete viaria decente, senza servizi, come possono svilupparsi imprese e turismo? La strada statale 166, unica arteria di collegamento con queste terre, è da decenni in manutenzione, straordinaria e ordinaria, per continui dissesti e frane. Con i soldi spesi fino ad oggi per le riparazioni, quante strade nuove si sarebbero costruite? Il Cilento, purtroppo, è una terra disgraziata e scomoda, zona di confine della Campania con la Lucania, che non desta grande interesse politico. Sono regioni troppo povere per essere appetibili dalla politica. Territori destinati con la propria intrinseca debolezza ad essere ingannati, e a sbrigarsela da soli. Il Cilento è un territorio immediatamente dopo Eboli, divenuta tristemente famosa per la penna di Carlo Levi. Quel Cristo di cui parla il noto scrittore purtroppo è ancora fermo lì. Raffaele Reina CIRCOLI LIBERAL PROVINCIA DI NAPOLI
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PAGINAVENTIQUATTRO Fatwe. Malaysia e Indonesia si scagliano contro l’antichissimo insegnamento. Che in India trova invece adepti
Lo yoga non si addice al buon di Maurizio Stefanini uò il buon musulmano praticare lo yoga? No, ha decretato lo scorso novembre il Consiglio Nazionale per le Fatwe della Malaysia. No, si è accodato il 26 gennaio anche il Consiglio dell’Ulema dell’Indonesia. A sorpresa ma non troppo, è venuta allora la scuola coranica indiana della Darul Uloom Deoband a riabilitarlo: «Una pratica buona per la salute e benefica per l’umanità intera». Lo ha definito così il vice-cancelliere dell’organizzazione, Maulana Shmad Khazir Khan. Una presa di posizione pesante: prima di tutto perché - se con 195 milioni di fedeli quella dell’Indonesia è la più numerosa comunità islamica del mondo - con i suoi 154 milioni di fedeli quella indiana è la seconda. E poi i Deoband, movimento tradizionalista nato nell’800 in risposta al dominio coloniale inglese, sono stati il brodo di coltura in cui si sono formati gran parte dei movimenti jihadisti sunniti dell’area indo-iranica, compresi i talebani afghani. Anche se di recente la loro dirigenze ha preso decisamente le distanze dal terrorismo. Mentre l’Indonesia è islamica all’88 per cento e la Malaysia al 53 per cento, in India i musulmani sono però una minoranza che non oltrepassa il 14 per cento della popolazione. Nel clima di sospetto generato dall’attacco terrorista di Mumbai, è abbastanza logico che cerchino in qualche modo di manifestare il proprio lealismo anche prendendo le difese di una pratica che gli indiani considerano uno dei più grandi apporti dato dalla loro cultura alla civiltà mondiale. In India, perfino a militari e poliziotti si fa praticare lo yoga per controbattere particolari condizioni di stress.
P
MUSULMANO
Y o g a , s a n s c r i t o , viene dalla stessa radice indo-europea che dà il latino iugum e l’italiano gioco: un “vincolo” che lega due soggetti assieme. Come i cavalli al carro; come i “coniugi”, appunto uniti “con vincolo” (cum iugum); e come l’insieme di pratiche che nell’induismo consentono il congiungimento del corpo e dell’anima del singolo, l’energia individuale Jivatman, con Dio, l’energia universale Paramatman. Nella pratica occidentale questo complesso di discipline si è ridotto quasi soltanto ai passi tre, quattro e cinque del cammino yoga: corretta posizione, controllo del respiro e annullamento delle funzioni dei sensi. Ma i puristi fanno osservare che lo stesso hatha yoga, i primi cinque livelli volti al controllo totale del corpo, presupporrebbero anche una fase uno: osservanza dei cinque precetti non uccidere, non mentire, non rubare, non indulgere in atteggiamenti dettati dalla lussuria e non cedere alla sensualità. E due: purezza, regime ascetico, recitazione di formule sacre come la famosa sillaba Om, studio dei testi sacri.
Dopo di che, c’è pure il raja yoga, attraverso i passi sei, contemplazione; sette, meditazione; e otto, illuminazione.
Fino a che punto questa spiritualità si concilia anche con religioni diverse dall’induismo? Il salto è minimo rispetto al buddhismo, che dall’induismo deriva. Anzi, lo zen giapponese e il lamaismo tibetano sono due forme di buddhismo in cui lo yoga
Un decreto religioso islamico pone fuori legge la pratica meditativa, considerata blasfema per la sua identificazione fra il dio e l’uomo. Ma nell’Iran ultra-integralista, patria della legge coranica, c’è persino una rivista che la celebra torna ad acquisire un’importanza centrale. Ma già per il cristianesimo il discorso si fa più complicato, anche se moltissimi religiosi vi hanno fatto ricorso; o forse proprio per questo. In particolare, l’idea di poter arrivare da soli a Dio anche senza Grazia, ma semplicemente attingendo a quella componente di divinità che ogni essere umano avrebbe dentro di sé non può non ricordare quella gnosi e quel manicheismo in contrapposizione ai quali il cristianesimo più antico costruì la propria ortodossia. E an-
che se ad esempio le chiese luterane del Minnesota organizzano corsi di yoga cristiano, dal Vaticano è arrivato invece un avvertimento contro il rischio di un “culto del corpo”. Nell’islam esiste un’ambivalenza del genere, tra la sicura influenza dello yoga nella nascita del sufismo, e i sospetti di movimenti più puristi, come il wahabismo saudita. E in effetti c’era una precisa distinzione nella fatwa della Malaysia: Paese dove l’islam è religione ufficiale, dove gli appartenenti all’etnia malese sono definiti dalla costituzione come automaticamente musulmani e dove tutti i cittadini musulmani sono soggetti alla sharia, la legge coranica. Ammesso dunque lo yoga, come esercizio fisico. Ma senza cantarvi quei mantra che sono collegati alla concezione religiosa dell’induismo, come l’Om; e senza cercare quell’identificazione tra uomo e Dio.
Identificazione che per l’islam è blasfema. «Continueremo a praticare lo yoga come prima», ha risposto l’Associazione degli insegnanti islamici di yoga e quella delle “Sorelle nell’Islam”, sfidando la fatwa. «Invece di dire Om invocate Allah o recitate un verso del Corano o restate in silenzio», ha consigliato Maulana Ahmad Khazir Shah. In India non manca chi invoca invece il nome di Gesù. Il bello è che invece nell’ultraintegralista Iran non solo lo yoga è praticato senza problemi, ma vi è dedicata anche una popolare rivista.